numero - maschiettoeditore.com · la neonata rivista la difesa della razza ... capro espiatorio su...
TRANSCRIPT
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
251 31824 febbraio 2018
Silvio Berlusconi ha incontra-to il capogruppo del Ppe di Strasburgo Manfred Weber presso la sede del partito Forza Italia a Roma. Al momento dei saluti, mentre si scattava la foto di gruppo, Berlusconi si è lasciato andare a una battuta proprio durante la stretta di mano con Weber e alla presenza di alcuni parlamentari di Forza Italia: “Alzate tutti le mani in alto! Chi è che mi tocca il culo?”.
Maschietto Editore
Voto per alzatadi mano
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Dalla ripresa a
volo d’uccello della
settimana scorsa,
quì ci ritroviamo
per le strade del
Downtown con lo
scorcio di un autobus
urbano strapieno
fino all’inverosimile
di persone che,
finito l’orario di
lavoro si apprestano
a rientrare a casa
in una delle tante
zone periferiche
della città. Non so
quante volte mi sono
chiesto perché non
li ho seguiti fino a
destinazione. Molto
probabilmente
solo per pigrizia o
per non urtare la
suscettibilità delle
persone che all’epoca
mi ospitavano e mi
aspettavano per la
cena. Sono certo
di essermi perso
alcune situazioni
interessanti, ma a
questo punto credo
sia inutile piangere
sul latte versato.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
251 31824 febbraio 2018
In questo numeroSulla razza 1
di Ugo Caffaz
Sulla razza 2
di Gabriele Valle
Emozioni attraverso il Colore
di Letizia Magnolfi
Refoli azzurri
di Susanna Cressati
Il misterioso moto delle cose
di Sandra Salvato
L’orizzonte del leggere
di Gabriella Fiori
Ascoltando la Recherche
di Cristina Pucci
Suoni proibiti
di Alessandro Michelucci
Mappe di percezione: San Francisco
di Andrea Ponsi
Fotografia e quanti
di Danilo Cecchi
Luci e ombre di una critica appassionata all’art system
di Paolo Marini
Racconto di una camerista
di M.Cristina François
Gonfienti e la via etrusca del ferro
di Gianfranco Bracci
La legge di indeterminazione di Heisenberg e altre stranezze
di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Simone Siliani, Claudio Cosma... Illustrazione di Lido Contemori
Sgarbi ortolano
Le Sorelle MarxIl Vangelo del Pd
I Cugini Engels
L’eterogenesi dei fini o dello spot del PD
Lo Zio di Trotzky
Riunione di famiglia
424 FEBBRAIO 2018
Sono trascorsi quasi 80 anni dalla promul-
gazione delle cosiddette Leggi razziali, me-
glio sarebbe chiamarle leggi razziste. Il 5
Settembre 1938, infatti, Vittorio Emanue-
le III, sì proprio lui, firmò a San Rossore,
provincia di Pisa, dove era in vacanza, il
primo decreto contro gli ebrei, quello che
espelleva studenti e insegnanti da “tutte le
scuole del regno”. L’anno precedente un
altro decreto vietava agli italiani di contrar-
re rapporti “indole coniugale con sudditi
delle colonie. Una sorta di prova generale
per la difesa della razza italiana. Nel Lu-
glio il Giornale d’Italia pubblicava un Ma-
nifesto degli scienziati razzisti ,intitolato il
Fascismo e il problema della razza. Anche
la neonata rivista La difesa della Razza
nell’Agosto pubblicava questo incredibile
testo nel quale si affermava che esisteva
una razza italiana e che gli Ebrei non vi
appartenevano. Il direttore era tal Telesio
Interlandi (successivamente il Segretario
fu Giorgio Almirante). Sempre in Agosto
fu indetto un censimento per mettere la
dicitura sui documenti degli ebrei la loro
appartenenza razziale. Ancora oggi negli
estratti di nascita , giustamente dico io per-
ché bene mantenere le “tracce”, compare
tale scritta. Il 6 Ottobre il Gran Consiglio
approvava una Dichiarazione sulla Razza,
chiudendo così il cerchio. Successivamen-
te la legislazione proseguì con l’espulsio-
ne degli Ebrei dal mondo del lavoro, dal-
le professioni .Nasceva così una sorta di
apartheid che dal Settembre 1943 avrebbe
favorito la loro deportazione. Gli ebrei in
Italia erano allora 46.656 (37241 italiani
e 9415 stranieri residenti) ,l’un per mille
degli italiani. Vale la pena di segnalare che
furono ritirate anche le licenze ai nume-
rosi venditori ambulanti (sic) e fu persino
proibito di allevare piccioni viaggiatori!
In buona sostanza si voleva mettere in gi-
nocchio questa minoranza per trovare un
capro espiatorio su cui scaricare l’origine
delle difficoltà che stava trovando il regime
soprattutto nei confronti dei giovani : le
cose vanno male? La colpa è degli ebrei la
cui organizzazione internazionale, il com-
plotto demo- pluto-giudaico-massonico ha
come obbiettivo il possesso del mondo. Ho
ricordato brevemente quel periodo incre-
dibile per rispondere a coloro che oggi di-
fendono il Fascismo con l’eccezione delle
leggi razziali, come se queste fossero state
estranee al percorso intrapreso da Musso-
lini il quale, come dimostra bene Giorgio
di Ugo Caffaz
Sulla razza
1Fabre nel suo Mussolini razzista (2005),
non si improvvisò, appunto, razzista ma
lo era fin dal 1919. E questa ricostruzio-
ne vale anche per chi sostiene ancora oggi
che le Leggi Razziali furono approvate su
ordine di Hitler. Furono invece organiche
al processo anche in Italia di costruzione
dell’uomo nuovo, in questo caso dell’ap-
partenente alla razza italiana. Un po’
come ha sentenziato il candidato del cen-
trodestra alla Regione Lombardia Attilio
Fontana . Quindi ci sono ragioni molto
attuali. Alcune forze politiche cercano di
minimizzare i movimenti neofascisti dicen-
do che i paragoni non hanno senso o che
combattere i gruppi organizzati rischia di
favorirne l’espansione ecc. Quello che non
si vuol vedere è il ripetersi dei meccanismi
che conducono gli esseri umani a scegliere
vie diverse dalla ragione a favore di soluzio-
ni non democratiche e di egoismi suicidi.
L’economia che va male, la debolezza della
politica, la ricerca appunto di un colpevole,
meglio se non riconoscibile fisicamente, a
cui attribuire i motivi della crisi e quindi la
ricerca di un capo, di un leader che risol-
va tutto eliminando i colpevoli che magari
ha inventato proprio lui. Si dice anche da
fonti autorevoli che non si possono fare
paragoni con quel terribile passato, però i
bambini figli di immigrati emarginati nelle
scuole o che non possono giocare nei cam-
pionati di calcio richiamano in qualche
modo alla mente i ragazzi ebrei respinti il
primo giorno di scuola grazie al decreto so-
pra richiamato. Così come quando si legge,
sempre con minor attenzione, quindi vol-
tando la faccia dall’altra parte, dei bambini
che con i loro corpi riempiono il Mar Me-
diterraneo non può non venire in mente il
524 FEBBRAIO 2018
colpevole silenzio della popolazione polac-
ca di fronte alla realtà delle camere a gas e
dei forni crematori dove appunto finivano
i bambini a centinaia di migliaia al loro
arrivo ad Aushwitz ,con buona pace del
Governo polacco che in questi giorni de-
finisce con legge che non si può parlare di
campi di sterminio polacchi. Forse è bene
ricordare ai governanti di quel paese che
gli ebrei polacchi da tre milioni si ridusse-
ro a trentamila e che alcuni scampati dal
lager furono assassinati dalla popolazione.
Certo che il paragone è ingiusto e impossi-
bile, ma sapere come si comincia, la discri-
minazione razziale, rende più facile capire
cosa avviene nel mondo anche in quello
cosiddetto civile. Certo le dimensioni non
sono confrontabili, ma sapere che nel 2050
ci saranno duecentocinquanta milioni di
emigranti per ragioni climatiche fa capi-
re quale problema ci troveremo di fronte.
E questi come saranno considerati nella
distinzione della destra: accettabili o no?
La Sinistra sa come comportarsi e come af-
frontare il problema? Perchè la distinzione
deve essere riconoscibile se vogliamo che
nel mondo, e quindi anche in Italia, ci sia
giustizia come ci ricorda la nostra Costitu-
zione. Ma torniamo a quello che successe
nel passato alla minoranza ebraica che ri-
siedeva in Italia dal tempo dei Romani, che
aveva subito i ghetti, l’ultimo dei quali fu
quello della Roma papalina aperto solo nel
1870, e che per anni era stata oppressa e
discriminata dal razzismo fascista, censita
per essere meglio identificata. Circa 8000
persone furono deportate, il 90% non fece
ritorno a casa. E’ vero che molti si salvarono
grazie a quelli che oggi chiamiamo Giusti
che furono pochi ma tanti, però questo non
può comunque consentire l’appellativo di
Italiani “brava gente”. Ci furono coloro che
invece collaborarono volentieri alla depor-
tazione. Infatti almeno il settanta percento
di questi poveri innocenti furono spinti sui
terni della morte da mani italiane. E poi ci
fu la maggioranza “silenziosa” che voltò
la faccia dall’altra parte. Questo avviene
anche oggi. Allora fu tutto in nome della
razza. Ma anche oggi magari senza confes-
sarlo molti pensano la stessa cosa, magari
combattendo l’intolleranza per pulirsi la
coscienza, anche se però è indubbiamente
un passo avanti. Ma bisogna ricordare che
anche la tolleranza stabilisce comunque
un rapporto gerarchico fra il tollerante e il
tollerato considerandolo quindi in qualche
modo inferiore. Le razze non esistono, ma i
razzisti sì, diceva Rita Levi Montalcini. Ma
la storia non insegna mai nulla?
624 FEBBRAIO 2018
«Non esistono le razze», si dice spesso. Quelli
che lo affermano, per precisare il loro pensiero,
aggiungono di solito che «l’unica razza è quella
umana». Sembra opportuno riflettere sull’ar-
gomento, che da qualche tempo ormai impri-
me acrimonia nel dibattito pubblico. Ciò che
sosterremo qui è che intorno alla razza c’è una
temibile confusione.
La voce razza è attestata da oltre sette secoli. Si
presume che derivi dall’antico francese haraz
‘allevamento di cavalli’, secondo la nota ipotesi
avanzata, nel 1959, da un distinto filologo pie-
montese, Gianfranco Contini. Razza fa parte
del lessico d’esportazione della lingua italiana:
la voce ha seguìto un itinerario che ha condotto
i suoi passi verso altre lingue occidentali, dan-
do luogo al francese race, all’inglese race, al te-
desco Rasse, allo spagnolo raza, al portoghese
raça.
Nella Genealogia della morale, Nietzsche, di-
squisendo sulle nozioni legate alla voce pena,
avvertiva che essa, nel tempo, aveva sviluppato
una varietà di accezioni che differivano l’una
dall’altra talvolta in modo sottile. Concludeva
il filosofo tedesco che «definibile è soltanto ciò
che non ha storia». Ciò vuol dire che qualun-
que parola, per volere della comunità che la
adopera, può rendersi feconda mediante una
ramificazione imprevedibile di sensi, non sem-
pre limitati allo stesso ambito. Le parole più
usate, si sa, acquisiscono fisiologicamente sensi
nuovi, il che rende interminabile il compito di
delimitare la loro estensione. Razza ne è un
esempio in quanto ha originato una serie di ac-
cezioni. Una cosa analoga è accaduta nelle lin-
gue in cui il prestito lessicale ha gettato radici.
Vediamo l’albero semantico dell’inglese race,
in cui troveremo notevoli affinità con razza.
Stando al Dizionario di Oxford in linea race è
«ognuna delle grandi classi in cui è suddivisa
l’umanità, contrassegnate da tratti fisici di-
stintivi». Questa nozione è presente, in modo
letterale o figurato, nelle accezioni derivate.
Confrontiamole. Prima accezione: «il fatto di
appartenere a un gruppo razziale; le qualità e
le caratteristiche a esso associate» (es: le perso-
ne di razza mista vengono escluse dalla società
e affrontano pregiudizi da un lato e dall’altro).
Seconda: «gruppo di persone che condivido-
no la stessa cultura, storia, lingua, eccetera;
gruppo etnico» (es: può darsi che noi scozzesi
siamo belli ma, in quanto razza, non siamo ri-
nomati per la nostra statura). Terza: «insieme
di persone o di cose aventi tratti comuni» (es: le
classi alte credono di essere una razza a parte).
Quarta: «(biologia) popolazione all’interno di
una specie che si distingue in qualche modo,
di Gabriele Valle
specialmente una sottospecie» (es: una accetta-
ta filogenesi considera Rheidae come una fami-
glia, con due specie e svariate razze). Quinta:
«(uso non tecnico) ognuna delle classi maggiori
degli esseri viventi» (es: un membro della razza
umana; la razza degli uccelli). Sesta: «(lettera-
rio) gruppo umano che discende da antenati
comuni» (es: un principe della razza di Salo-
mone). Settima: «(arcaico) antenati».
La chiarezza degli esempi riportati dai lessi-
cografi oxoniensi mette in luce una varietà di
sensi sorti nei secoli. Un fenomeno analogo si
è riprodotto in altre lingue. Guidati dal nostro
scopo, concentriamoci ora su uno di quei sensi.
Nel Settecento, per esempio, una determinata
concezione della specie umana permeava di-
verse lingue: alcuni naturalisti europei soste-
nevano che la nostra specie è composta da una
pluralità di sottospecie contraddistinte da un
grado disuguale di evoluzione, ordinate in una
scala intermedia tra la scimmia e il Sapiens più
evoluto. Quando, in questo contesto, ciascu-
no di essi, nella propria lingua, diceva razza,
intendeva ‘sottospecie’. Tra gli studiosi che
avallavano questa tesi si annoveravano il fran-
cese Jean-Baptiste Robinet, l’olandese Petrus
Camper e lo svizzero Johann Lavater. Della
fortuna di questa tesi dava testimonianza un
loro contemporaneo, il filosofo Voltaire, che,
sposandola, affermava il legame tra intelligen-
za e colore della pelle. Egli annotava impassibi-
le, nel Saggio sui costumi, che l’intelligenza dei
neri è inferiore.
L’idea secondo la quale esistono sottospecie
umane differenziate da una disparità evoluti-
va ha offerto un fertile terreno di coltura alle
ideologie che, da allora innanzi, hanno preteso
di giustificare la dominazione di un gruppo su
un altro. Ne hanno tratto vantaggio coloro che
hanno perpetrato le più atroci iniquità in nome
di una convinzione, quella della «superiorità di
una razza» sulle altre. Ma, a dir la verità, tale
convinzione si è sempre insinuata tra gli uo-
mini, nella storia e nella preistoria, migliaia di
anni prima che fosse innalzato lo stendardo
del naturalismo razzista. I tempi sono cambiati
però. Ogni tentativo di classificazione razzia-
le tra gli esseri umani è estraneo alla biologia
moderna, per la quale non ci sono sottospecie
umane. La scienza odierna ha quindi dissipato
un mito che era stato fonte di confusione e che
aveva alimentato politiche discriminatorie, se-
gnatamente nel secolo XX. Ciò nondimeno il
contributo degli scienziati, seppure illuminan-
te e decisivo, non ha esaurito la questione della
razza. La policromia di una tela non svanisce
quando scompare uno dei suoi colori.
Dal fatto che non ci sono sottospecie umane,
Sulla razza
2
724 FEBBRAIO 2018
si può forse trarre la conclusione che non ci si-
ano razze umane? No di certo. Il fatto che non
esistano razze umane, intese come sottospecie,
non permette di concludere che le razze non
esistano sic et simpliciter. La risposta all’inter-
rogativo dipende da ciò che intendiamo con il
termine e, come si accennava prima, razza ha
una molteplicità di sensi. Il discorso scientifico
intorno alla razza non scalfisce affatto la legit-
timità dell’uso abituale del vocabolo. Il lessi-
co della scienza prende sovente le mosse dal
patrimonio corrente, ma nel contempo se ne
discosta attraverso un lavoro di ridefinizione
terminologica. Così forza, in fisica, ha un senso
specifico che solo in parte coincide con quello,
consueto, di ‘potenza muscolare’. Notazione,
analogamente, ha un senso specifico in chimi-
ca; valore ne ha uno in economia; mediatore in
antropologia; intelligenza in informatica. An-
che la giurisprudenza opera in modo simile.
In effetti, in ambito legale, il termine omicidio,
per esempio, possiede un senso che non colli-
ma pienamente con quello dominante.
Razza, nell’accezione più familiare del termi-
ne, è ‘serie di persone accomunate da tratti
somatici comuni ed ereditari’. Dato che razza
si è radicato nella lingua con questo significa-
to, e considerato che, come sosteneva Orazio,
l’uso è l’arbitro inappellabile della lingua, non
resta che riconoscere diritto di cittadinanza a
un impiego sancito dalla massa parlante. E
poiché razza, in senso comune, non in sen-
so scientifico, ha il senso che ha, le voci che
derivano da razza, come razziale, razzismo,
razzista, tutte nate nel Novecento, rinviano
inequivocabilmente a questo preciso concetto
generale. Ecco perché si parla di odio razziale,
di segregazione razziale, di crimine razziale,
eccetera. Se la voce razza avesse solo il senso
che la genetica le conferisce, allora tutte queste
espressioni sarebbero assurde.
Si sa che la voce razza, a causa della sua fo-
sca storia, una storia punteggiata di discordia,
disprezzo e malvagità, ha una cattiva repu-
tazione. Perciò, per non fomentare ignobili
sentimenti che possano generare ostilità, la
società che ha subìto il flagello del razzismo
tende a scagliare l’anatema contro l’uso della
parola razza. In Italia c’è in atto una vigorosa
campagna per bandire razza dall’espressione
orale sorvegliata e dai testi ufficiali. A favore
di questa campagna si sono schierati perfino
alcuni illustri studiosi, che ripetono attraver-
so i media che non ci sono razze. Consapevoli
della perturbante carica emotiva del vocabolo
in questione, essi propongono di sostituirlo a
vantaggio di altri termini, come etnia. Ma si
sbagliano, perché razza rimanda, nella mag-
gior parte dei casi, al senso ordinario cui ci si
è riferiti. Già nel primo decennio del Nove-
cento Ferdinand de Saussure, uno dei padri
della linguistica moderna, diceva che le diffe-
renze di razza tra due popoli non implicano
differenze di lingua; le differenze di etnia, sì.
Infatti la razza designa i tratti somatici degli
individui; l’etnia, la loro appartenenza lingui-
stica e culturale.
Bisogna lodare senza riserve ogni tentativo di
instaurare la fraternità tra gli uomini. Un modo
di farlo è ripudiando gli atteggiamenti razzisti
che spuntano nella società. Ma respingere, a
tal fine, la realtà semantica della lingua non è
segno di saggezza. È opinione comune tra gli
psicoanalisti che ci siano diverse maniere di
negare la realtà. La negazione pertinace è quel-
la che cancella attivamente la percezione di
una cosa che giace sotto gli occhi del negatore
e ne turba l’equilibrio psichico. La negazione
pertinace, in tutte le sue declinazioni, esibisce
lo stesso tratto caratteristico: riconduce a una
visione del mondo consona ai bisogni interni
del soggetto. Ci si augura che il rifiuto del raz-
zismo prenda piede nei cuori di tutti, ma non
è auspicabile impetrare la vittoria attraverso
una visione ingannevole dei fatti, linguistici in
questo caso, percepiti come una minaccia alla
nostra pace, interna ed esterna.
824 FEBBRAIO 2018
Come i nostri più affezionati lettori ben
sanno, noi abbiamo una stima sconfinata
in Vittorio Sgarbi, che consideriamo da
sempre raffinato uomo di coltura e, nono-
stante il nome, garbato gentiluomo, nonché
fine conoscitore di cose di cielo e terra.
Per questo abbiamo spesso scritto di lui su
queste pagine per difenderlo da prodi-tori e
provoca-tori attacchi alla di lui persona. Ma
l’ultimo di questi è davvero assurdo: è stato
accusato ad Alessandria di omofobia per
aver espresso un giudizio estetico sul ponte
di Richard Meier. Quando Vittorio ha detto
che “Passeggiando lì sopra si diventa finoc-
chi”, faceva – in tutta evidenza – riferimen-
to agli ortaggi, non alle tendenze sessuali.
Le SorelleMarx Sgarbi ortolano
Per rendersene conto basta ammirare lo
skyline del ponte e chiunque può constatare
l’assoluta somiglianza con il bianco ortag-
gio così gustoso in pinzimonio! Solo così si
capisce la profondità del pensiero sgarbiano:
“Sul ponte improvvisamente senti questa
frescura che ti prende”: Pensate alla fresca e
croccante insalata di finocchio; oppure alla
rinfrescante e digestiva tisana di Foenicu-
lum vulgare: ecco la sensazione di leggerez-
za di cui parlava Vittorio. Certo, è pure vero
che alcuni suoi giudizi sull’opera di Meier
potevano indurre nell’equivoco; tipo la
considerazione sul sindaco che “...andrebbe
arrestato a posteriori per aver distrutto il
ponte per quella cagata che ha fatto quel
ladro di Meier”. Ma tutto dipende dal fatto
che Sgarbi era afflitto da pesantezza di
stomaco, non avendo ancora potuto bene-
ficiare delle proprietà digestive, appunto,
del finocchio. Infatti, anche così si spiegano
le frasi non molto carine contro Cecilia
Strada: “La figlia di Gino Strada può stare
tranquilla: non troverà fascista che voglia
fare sesso con lei, e tanto meno riprodursi
in lei...”. Dopo l’infuso di finocchio sarebbe
stato più tranquillo e rilassato.
Lo spot è fatto bene. Ben scritto, recita-
to, punta sulle cose fatte, dà il senso di
un’azione di governo che si è dispiegata
per tanti, per tante categorie. Stiamo
parlando dello spot elettorale del PD
naturalmente. Quello della famiglia in
auto, padre, madre e due figli, col marito
che dichiara di non votare PD mentre gli
altri famigliari gli rispondono con le varie
iniziative che, nella legislatura, il governo
a guida PD ha portato a compimento. Un
bello spot elettorale, aldilà del giudizio che
si può/vuole dare del PD e delle singole
azioni di governo. Lo spot finisce col padre
che si trova al finestrino aperto Renzi in
bicicletta che gli chiede di pensarci. Ecco
il finale, come ci insegna la psicologia da
qualche decennio, svela l’inconscio e nel
mostrare Renzi ricorda all’elettore larga
parte dei motivi per cui, nonostante tutto,
non voterà PD.
Non è vero che la campagna elettorale
italiana abbia toni troppo accesi e pochi rife-
rimenti etici. E’ vero esattamente il contra-
rio. Vorremmo dire che invece i riferimenti
evangelici spiccano su tutti.
Berlusconi, prima di tutto, si è riferito diret-
tamente al Vangelo di Matteo: «Venite a me,
voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi
darò riposo! ... il mio giogo è dolce e il mio
carico è leggero”. Così, il Cavaliere parlando
ai candidati grillini scomunicati da Papa
Luigino I, spiegando che, una volta eletti,
potrebbero tranquillamente traslocare verso
Forza Italia dato che “saremmo molto con-
venienti per loro perché potrebbero incassare
l’indennità parlamentare nella sua totalità”.
Ma la palma del più evangelico la vince
senz’altro il leader del Pd, Matteo Renzi. Più
volte, infatti, il Vangelo di Matteo nel narrare
la vita del Nazzareno richiama la virtù della
coerenza, soprattutto stigmatizzando l’in-
coerenza degli scribi e dei farisei. E ai suoi di-
scepoli insegna: “Sia invece il vostro parlare
sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. (Mt
5, 17-37). E, infatti, Renzi nel 2012: “Ho
un grande rispetto per un bolognese doc, ma
a me di fare un accordo con Pierferdinando
Casini non me ne frega nulla, non mi inte-
ressa. Ma che senso ha dire ‘abbiamo Casini
perché almeno prende il voto dei moderati”.
E nel 2018: “Casini è il candidato della
coalizione, che mette insieme Casini con
Bonino”. Sì sì, no no; via, stai bonino Matteo,
sennò si fanno casini!
I CuginiEngels Il Vangelo
del PdL’eterogenesi dei fini o dello spot del PD
Lo Zio diTrotzky
924 FEBBRAIO 2018
disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo Frangioni
Nel miglioredei Lidipossibili
Molestie verbali
magico dove l’unica compagnia è il silenzio e
la solitudine. Poi si scende fino a Badia Pra-
taglia, ultimo comune in terra di Toscana, al
confine con Marche e Romagna. Lì si imboc-
ca la strada della Valmarecchia e dopo pochi
chilometri si sconfina in provincia di Rimini.
Ancora qualche curva e si incontrano i primi
agglomerati romagnoli: Gattara e Molino di
Bascio. E poi, dopo altri 5-6 chilometri si entra
nell’enclave Toscana, un’isola di 15 km qua-
drati in cui vivono 250 anime tra le frazioni
di Ca’ Raffaello, Santa Sofia e Cicognaia, nel
comune di Badia Petraglia, in provincia di
Arezzo. E’ un pezzo di Toscana un po’ bastar-
do, dove si parla un accento romagnolo e con
un pendolarismo tutto verso l’Adriatico, per la
scuola, per gli acquisti, per la sanità, per il tem-
po libero e persino per le pratiche religiose. Del
resto Rimini dista solo 45 km, mentre per rag-
giungere Arezzo ne devi percorrere almeno 75.
Nonostante i segni evidenti di questo isola-
mento - spopolamento, carenza di servizi,
assenza di attività produttive e commerciali
- Ca’ Raffaello è, e resta, stabilmente in Tosca-
na.
Proseguendo lungo la Valmarecchia si ritor-
na, questa volta in modo stabile, in Romagna
ed è subito tutt’altra musica: moderni inse-
diamenti produttivi, luoghi di ritrovo, negozi,
trattorie, chiese, musei, ecc. Così è fin da Pon-
te Messa, il primo nucleo abitato dopo il con-
fine regionale. Da lì con una breve deviazione
in salita si entra nel borgo di Pennabilli. Qui
il “divertimentificio” romagnolo non è ancora
arrivato, ma in compenso si sono inventati il
santuario dei pensieri, le strade delle meridia-
ne, il museo del calcolo, l’orto dei frutti dimen-
ticati e i luoghi dell’anima. Del resto a Pen-
nabilli è nato Padre Orazio Olivieri e sempre
qui è vissuto Tonino Guerra. Due personaggi
che hanno segnato in profondità l’identità di
questo piccolo e suggestivo borgo. Un breve
soggiorno ricompensa ampiamente le fatiche
del viaggio.
Segnalidi fumo
In viaggio nella “colonia” toscana in terra ro-
magnola. Da tempo ero curioso di fare la cono-
scenza con questa isola nel cuore di un Appen-
nino fuori mano, sconosciuto e abbandonato.
Per raggiungere Ca’ Raffaello, la frazione più
abitata di questa enclave, si scavalca il passo
della Consuma, si percorre tutto il Casentino
giù fino a Chiusi della Verna, poi si prosegue
per vari saliscendi boscosi e disabitati fino a
Pieve Santo Stefano. Da lì si risale lungo una
strada tortuosa e poco trafficata fino al passo di
Viamaggio, poco più di mille metri. Un luogo
di Remo Fattorini
1024 FEBBRAIO 2018
Il pratese Marco Visconti rivela le sue opere
a Prato. E lo fa in un piccolo winebar della
cittadina toscana, il Wired di via Pugliesi, dal
21 febbraio al 4 marzo. Classe ’82, laureato
in Lettere e Filosofia, Marco lavora come uf-
ficiale di navigazione su yatch a vela e moto-
re. Autodidatta sin da quando era piccolo, la
Natura e il Mare sono le sue principali pas-
sioni, fonte da cui ha tratto, e trae, ispirazione
per la pittura. Scopriamo in questa intervista
quello che si cela dietro le sue opere.
Ciao Marco, parlaci un po’ di questa mostra:
è la prima volta che esponi? A che epoca risal-
gono i tuoi dipinti?
Sono passati ormai molti anni da quando le
mie opere sono uscite dalle mura domestiche
per la prima volta: erano gli anni dell’Univer-
sità; dal 2001 al 2006 in collaborazione con
“Associazione Arteriosa” ho prestato i dipinti
per un paio di mostre collettive. Ultimamen-
te ho ricominciato a disegnare, quindi ho
colto l’occasione per dar un po’ di visibilità ai
miei lavori. Le opere risalgono ai primi anni
del 2000, mentre l’ultimo dipinto è di circa
un mese fa.
Cos’è per te dipingere?
Un dipinto è un’immagine mai troppo niti-
da “trasportata” dal Non Reale al Reale; è
di Letizia Magnolfiun modo per esorcizzare le proprie fantasie,
ancor di più se si tratta di opere astratte. Il
mio è un gioco continuo tra l’improvvisazio-
ne e lo studio finalizzato a un risultato finale.
Spesso il dipinto in molte parti si fa sa sé; per
altri versi viene “costretto” in certe forme e
in certe sfumature di colore. Emotivamente
mi sento sospeso tra la Ragione che ricerca
un determinato effetto pittorico e la parte
più irrazionale, sulla quale il colore esercita
il suo Potere. È il colore stesso che diventa
emozione, rifuggendo dalle forme definite
che esistono solo negli occhi di chi non vuole
vedere oltre la letargia del quotidiano. I miei
dipinti sono cangianti, liquidi, fluidi, prendo-
no vita in chi li osserva.
Parlaci della tecnica o delle tecniche che usi.
Ho disegnato a carboncino, pennarello, tem-
pera, olio, acrilico, smalto. Poi nello smalto
ho spesso inserito foglie, pigmento, gesso, og-
getti. Non importa quale tecnica è utilizzata,
l’importante è l’equilibrio tra le aspettative
prima di iniziare l’opera, e la soddisfazio-
ne nell’osservare il lavoro finito. Lo scopo è
sempre di suscitare emozioni, nel mio caso il
principale veicolo, come detto prima, è il co-
lore. Per questo motivo preferisco utilizzare
lo smalto, sia lucido che satinato, perché è il
mezzo più luminoso di qualsiasi altro tipo di
pittura.
Definirei i tuoi dipinti tendenti all’astratti-
smo, con un occhio al materico e al figurati-
vo…
Anche se la maggior parte dei miei dipinti
può definirsi di genere astratto, lo studio e
l’effetto finale delle mie opere è incentrato su
quella che io chiamo “ossatura”, delle linee
guida in rilievo, una struttura, una colonna
vertebrale, su cui il colore dato a varie mesco-
le e più o meno diluito determina i vari strati
emotivi. Le mie creazioni, scevre da ogni tipo
di esercizio accademico, sono stratificazioni
di smalti e pigmenti e oggetti più disparati,
i quali creano pieni e vuoti nel senso di una
tridimensionalità e una prospettiva astratta.
Da cosa o chi trai ispirazione?
Ciò che amo nel dipingere è la carica espres-
siva del colore, la sua estrema versatilità e la
ricerca della plasticità e del senso del mo-
vimento. Per questo i miei riferimenti non
possono che essere gli espressionisti più ori-
ginali, da Schiele a Klee con un occhio verso i
Fauves, e i più contemporanei come Pollock,
Richter e Klein. Il mio vero tema ricorrente
è l’acqua, il Mare nella sua mutevole Forma,
mai uguale a se stessa.
Progetti imminenti?
Quando non sono imbarcato mi ritaglio il
tempo per dipingere; sto iniziando ad utiliz-
zare altri materiali come le resine, utilizzate
nel mio lavoro sulle barche, riportate su tavo-
la insieme agli smalti.
Emozioni attraversoil colore
1124 FEBBRAIO 2018
imprendibile. E la poesia, che ha bisogno
di certezze, non può fare affidamento su
modelli che nel momento in cui vengono
definiti sono già diventati altro. Così, lo
spazio di felicità su cui è seduto il poeta, la
casa giardino del primo libro Con parole re-
mote, quel giardino di pensieri e di aranci,
all’improvviso scricchia portando con sé un
senso di inquietudine e dando inizio allo
smarrimento – arco, stame/ sfinge. Da qui
ha origine il libro, un libro colto, di rara sa-
pienza, che sulla scia della catàbasi classica
- ad esempio di Ulisse che scende nell’Ade
e incontra la madre Anticlea, di Dante con
Virgilio, per arrivare a toccare tradizioni
poetiche novecentesche – sceglie il dialogo
con una figura trapassata come appunta-
mento con la verità. Ma in Pontiggia, l’ar-
chetipo narrativo non serve in realtà alla
rivelazione del destino. L’ombra di donna
che fa la sua comparsa fin dalle prime pa-
gine, chiede, non dice, e lo fa con violenza,
senza alcun affetto. Ma lei: “di’ tu, piuttosto,
di’/qualcosa che valga/ per me, per noi, che
guardiamo ... di’, se sai, qualcosa che valga
la pena, continua stridendo come una stupi-
da/ ferraglia/ e fa cenno...a qualcosa che si
cela, s’infima/in brividi, in onde/di niente,
di poco”. Una domanda sofferta, dal valore
esistenziale, che scorre sul binario dei sen-
timenti, spiega la poetessa Sonia Gentili,
e nel prosieguo del testo vede brillare due
sole certezze, “lo strazio elegiaco della per-
dita e il tormento della visione che tutto tra-
sforma e deforma”.
La poesia è il frutto di quello che si è vissuto
e di molte letture, dice Giancarlo Pontiggia.
Arriva non al termine ma durante il percor-
so di indagine, verso la conoscenza di sé e
del cosmo che ci ospita per un certo lasso
di tempo. Nelle sue pieghe, nel perenne
moto delle cose, si tesse la grande avventura
dell’esistenza.
di Sandra Salvato
Prosa e poesia. Ci muoviamo in una lin-
gua che a sua volta si muove a vari livelli,
formosintattici e di stile, e nell’ibridazione
dei due generi ha visto farsi grande il No-
vecento letterario. Ricorrere ad un registro
espressivo oppure ad un altro dipende da
quello che vogliamo dire, ma soprattutto dal
come, poiché nella più ampia libertà di scel-
ta è possibile rivendicare quella di tornare a
dialogare con gli autori del passato, utilizza-
re una lingua alta, pregna di senso e intrisa
di lirismo.
La lingua contemporanea non è certo un
trono dal quale possiamo abdicare, è nel no-
stro quotidiano. Vi è, tuttavia, chi ha un’in-
nata predisposizione alla lettura dei classici,
ne apprezza il suono – la parola è suono –
ed il percorso. Tra questi Giancarlo Pontig-
gia è certamente il poeta che più e meglio di
altri si nutre di modelli destinati oramai al
confino scolastico, e solo per la via di pochi
eletti trovano il modo di armonizzarsi con
la nostra realtà. Il risultato è uno scrigno di
versi che si formano nel linguaggio corrente
e nell’eleganza dei grandi poeti del passato.
Nel suo ultimo libro, Il moto delle cose, usci-
to per la collana Lo Specchio di Mondadori
e presentato alla libreria Feltrinelli di Firen-
ze, l’autore convoca due grandi tradizioni,
la poesia cosmologica classica di Lucrezio
e quella cosmologica cristiana di Dante per
derivarne non una verità o una prova scien-
tifica, quanto per restituire il mondo nella
sua perenne incertezza, nella illusorietà,
caducità delle cose che si offre come con-
traltare alla nascita e dunque alla certezza
delle stesse.
Nota il filosofo Sergio Givone, che il poe-
ta milanese le accompagna amorevolmente
nel loro perdersi, senza necessità di resti-
tuirle al valore nominale come avrebbe vo-
luto Rilke, le lascia “incavediarsi” per dire
“a morire”, a chiudersi nel “cavedio”, luogo
d’ombra e di paura. A spingere Pontiggia
ad interrogarsi sul senso di questo perenne
deflagrarsi degli eventi, un paradosso dei
nostri tempi: nella società scientificamente
avanzata, fede e dottrina epicurea, da cui le
poetiche dantesca e lucreziana, non paiono
più sufficienti a definire il mondo. Una vi-
sione alimentata sui libri di astrofisica che
l’autore rivela, sono quelli del diletto fin
dall’età dell’adolescenza e che oggi offrono
un’ulteriore scintilla di riflessione.
Più si conoscono le leggi che regolano il co-
smo più questo si allontana da noi, sembra
Il misterioso moto delle cose
1224 FEBBRAIO 2018
italiano aulico perchè ancora potente, col-
mo di significato, non ancora usurato. Una
lingua contemporanea e trasparente, che ri-
vela ancora oggi, come l’acqua più limpida,
l’angoscia e le contraddizioni dell’uomo, di
quel “povero diavolo spaventato” che Saba
diceva di essere.
P.S. Dalle lezioni del ciclo “Scrittori rac-
contano scrittori” si esce molto spesso con
piacevoli suggestioni relative non soltanto
agli autori affrontati. Per esempio il citato
Esénin. Come accade, tornata a casa, sono
andata allo scaffale della libreria e ho tira-
to fuori una antologia di poeti russi. Scar-
tabellando tra i versi dello sfrenato marito
di Isadora Duncan mi sono imbattuta nella
ballata “Confessioni di un malandrino” e
li ho riconosciuti subito come quelli messi
in musica nel 1975 da un giovane Angelo
Branduardi. Ne fece, il cantautore italiano,
una memorabile versione nel 1979, a un
concerto in onore di Demetrio Stratos. Da
riascoltare.
DISTACCO
Muta il destino lentamente, a un’ora
precipita.
Per lui dovrò lasciarti,
mia città così aspra e maliosa,
dove in fondo a una bigia via è il celeste
mare.
La tua scontrosa
grazia saluterò, già vecchi amici
e pietre bacerò – cuore fedele -;
come piange il fanciullo sopra il seno
amaro, a distaccarsene per sempre.
di Susanna CressatiChe a Trieste tiri la bora lo sanno anche i
bambini. Ma quello che non sanno, e forse
neanche si immaginavano gli studenti invi-
tati dal Gabinetto Viusseux alla lezione di
Federica Manzon su Umberto Saba, è che
in altri tempi e letterariamente parlando,
sulla “città di carta” (Claudio Magris) ha
soffiato un altro vento, altrettanto impetuo-
so: il vento dell’est.
Un’aria che su questa città cosmopolita
affacciata sul mare arrivava direttamente
dall’altra parte della “cortina di ferro”, dalle
steppe russe. Aria che sapeva di ghiaccio,
di bagliori azzurri rilessi sull’acqua di un
grande fiume, dello spaesamento di grandi
spazi urbani, del biancore di architetture
neoclassiche. Gemella di Trieste – secondo
Manzon - era ed è infatti San Pietroburgo,
all’inizio del secolo scorso epicentro, come
la capitale giulioveneta, di una vera e pro-
pria rivoluzione culturale.
Trieste e San Pietroburgo azzure e limpide,
come un’acqua attraverso cui è possibile
scorgere l’ombra degli abissi, pervase en-
trambe da una luce indicibile, che fa riac-
quistare chiarezza a cose e parole. La brava
scrittrice pordenonese si è spinta fino a un
altro parallelismo: quello tra Umberto Saba
e Sergéj Aleksándrovič Esénin. Le loro bio-
grafie (ha detto, ma con una certa forzatura)
sono molto simili: la stessa infanzia tutto
sommato felice, nonostante la lontananza
dei genitori, e idealizzata; il continuo pere-
grinare lontano dalla terra natia tanto ama-
ta: per Saba il “ragazzaccio aspro e vorace
con gli occhi azzurri”, per Esénin la “mite
contrada” i “solchi diletti...belli nella tri-
stezza”. L’amore per le donne, l’amore omo-
sessuale, la compulsività del bere, il disagio
psichico. Entrambi poeti più che solitari,
anarchici, selvaggi, non voci di popolo o di
idee, giocolieri di parole semplici, qualun-
que. Costretti a un continuo peregrinare,
a una vita nomade che sempre li ha spinti
verso un “altrove”.
Trieste, crocicchio (non crogiuolo) di iden-
tità senza mescolanza, fu per Saba la città
che si deve lasciare per diventare se stessi
e nello stesso tempo la sola capace di espri-
mere una verità. Non Firenze, “morta e cor-
rotta dai forestieri” e dove pure prosperava
la comunità letteraria; non Milano, abitata
da “persone spente” e dove “non è possibi-
le sognare felicemente”, ma Trieste e solo
Trieste. Che pure respinse Saba, lo sotto-
valutò. Nella città dove il più ignorante
parlava quattro lingue, il poeta scrisse in un
Refoli
azzurri
1324 FEBBRAIO 2018
Il volume si compone di sei parti tematiche,
ciascuna delle quali contiene casi di censura
indotti da motivazioni specifiche o da partico-
lari contesti politici: dittature, governi transito-
ri, razza, religione, sesso, etc.
Particolarmente interessante la seconda parte,
che si concentra su alcune opere teatrali euro-
pee censurate in pieno illuminismo: Don Gio-
vanni, Fidelio e Le nozze di Figaro.
Nel complesso, un’opera di grande interesse,
ma soprattutto un testo che mancava. Un vo-
lume che ci stimola ad andare oltre le appa-
renze, ricordandoci che la malapianta della
censura può crescere ovunque.
La censura è una piaga che ha segnato la sto-
ria ovunque. Non è un fenomeno limitato al
passato né ai paesi governati dalla dittatura o
dalla teocrazia islamica. La censura esercita-
ta nei confronti della musica, comunque, ha
sempre avuto minore visibilità rispetto a quel-
la che colpiva altre forme espressive, come la
letteratura o il cinema. Pensiamo a quello che
accadeva nell’Europa occidentale durante la
guerra fredda: la limitazione della libertà d’e-
spressione che colpiva scrittori come Aleksan-
dr Solgenitsin e registi come Krzysztof Zanus-
si era ben nota, ma lo stesso non poteva dirsi
di musicisti come Witold Lutoslawki e Sofia
Gubaidulina.
Negli ultimi tempi la situazione sta ulterior-
mente peggiorando in seguito all’attenzione
sempre più scarsa per i diritti umani: le limita-
zioni che colpiscono i musicisti sono oggetto di
un disinteresse quasi totale.
Un antidoto contro questo fenomeno preoc-
cupante è il libro The Oxford Handbook of
Music Censorship (Oxford University Press,
2018).
Patricia Hall, docente di Teoria musicale alla
University of Michigan, ha riunito trenta
esperti che hanno scandagliato la materia in
termini temporali – dall’ottavo secolo a oggi –
e geografici: dall’Unione Sovietica all’Iran, da
Taiwan al Sudafrica. Senza risparmiare alcuni
paesi “democratici” come Francia, Gran Bre-
tagna e Stati Uniti. Né Israele, dove le opere di
Wagner sono state proibite fino a poco tempo
fa per l’antisemitismo del celebre composito-
re tedesco. Un caso di oscurantismo culturale
che alcuni musicisti ebrei, primo fra tutti Da-
niel Baremboim, hanno contrastato con corag-
gio e determinazione.
Nonostante la mole (oltre 700 pagine) il libro
non può esaurire la materia, che potrebbe es-
sere trattata in modo completo soltanto con
un’enciclopedia. Sorprende comunque l’as-
senza della Turchia, un paese che della cen-
sura (non solo musicale) ha fatto una pietra
angolare fin dall’inizio. La recente condanna
all’ergastolo di sei giornalisti conferma che il
paese mediorientale continua risolutamente
su questa strada.
di Alessandro Michelucci
MusicaMaestro Suoni proibiti
Museo Hendrix
Foto diPasqualeComegna
Corpidi marmo
1424 FEBBRAIO 2018
de un viaggio fra terre fertili, verdi, dolci e
ricche di acqua; paesaggi che convinsero i
nostri progenitori a farne la loro casa, la loro
grande Nazione retta da scambi di cultura e
di merci invece che sottomessa ad un unico
re e alla forza del suo esercito. Quelle stesse
terre che offrivano una grande abbondanza
di metalli, dono che permise loro di accu-
mulare ricchezza, saggezza e organizzazio-
ne civile. Una vera “federazione” invece
che uno stato centrale, dove le singole città
erano autonome ma collaboravano fra loro
per gli scopi comuni. Città e villaggi grandi
e piccoli su un territorio ben più esteso ri-
spetto al classico e sorpassato concetto geo-
grafico ristretto: “fra il Tevere e l’Arno”: una
delle più importanti era Gonfienti, o come
l’abbiamo chiamata noi nel romanzo: Visen-
thia, la città principale della Via Etrusca del
Ferro.
Quando lessi l’articolo apparso sul Venerdì
di Repubblica del 2004 che parlava di “una
superstrada etrusca” ritrovata dall’archeo-
logo Michelangelo Zecchini di Lucca (con
cui saremmo diventati amici e co-fondatori
dell’associazione omonima insieme a Giu-
seppe Centauro ed altri esperti), sobbalzai
sulla sedia e mi si accese subito una lam-
padina nel cervello: avrei mai potuto rico-
struire un’antichissima strada etrusca e ren-
derla fruibile a chi vuole passare le vacanze
camminando per più giorni? Un sogno che
allora sembrava impossibile. La strada etru-
sca preparata e glareata, citata dallo storico
greco Pseudo Scilace di Carianda nel VI
sec. a. C., univa in soli tre giorni, i fioren-
ti porti di Spina (odierna Comacchio) e di
Pisa, bagnati appunto dai due mari etruschi
contrapposti. Era importante che questa
arteria unisse le due città pede-appennini-
che di Gonfienti e Marzabotto, quali punti
nodali dell’intero percorso. Gonfienti, di
cui non conosciamo il nome etrusco, fu la
città principale. Marzabotto, Kainua (“città
nuova” in lingua etrusca) non poteva che
essere stata costruita che da coloro che già
gestivano la “città primigenia”, cioè la stes-
sa Gonfienti di Prato. Con carri e muli vi
si conducevano merci di ogni genere, ma
era soprattutto il ferro elbano, vero petrolio
dell’epoca, ad esserne protagonista. L’isola
d’Elba era dunque il nostro punto di par-
tenza, a Marciana Marina fissammo la sede
dell’associazione anche per meglio seguire
le antiche rotte e studiare i siti etruschi alle
pendici del Monte Capanne (fig. 1). Nel
2008/9 provai a studiarne i vari tratti e a
percorrerla a ritroso, un po’ in bici e un po’ a
piedi, dal porto di Spina a Pisa, perlustran-
do in particolare il tratto appenninico (Fig.
2). Poi, dopo aver conosciuto Marco Parlan-
ti ed aver fatto con lui mille sopralluoghi
“pensando come gli etruschi”, mettemmo
a punto il progetto e percorremmo, nel giu-
gno 2010, tutto l’itinerario da mare a mare.
Da questo viaggio è nata una guida trekking
(“La via etrusca del ferro”, 2011) e dalla
nostra fantasia camminante, anche un ro-
manzo (“I segreti della via etrusca”, 2016).
Con questi due libri e le tante conferenze
e presentazioni che abbiamo tenuto in giro
per tutta l’Italia, pensiamo di aver dato un
piccolo contributo alla conoscenza di Gon-
fienti, di una grande civiltà e una cultura
che ha innescato quanto dopo di loro c’è
stato, compreso il celebrato impero romano
che tanto ha attinto dalla civiltà Etrusca.
Chi cammina lungo il percorso intrapren-
Gonfienti e la via etruscadel ferro
di Gianfranco Bracci
1524 FEBBRAIO 2018
Con l’approssimarsi del 4 marzo, tutte le cancel-
lerie europee sono entrate in fibrillazione per le
possibili conseguenze di una netta vittoria del
Movimento 5 Stelle : che succederà ??? Che
son forse preoccupati per la nostra politica eco-
nomica e per chi la dirigerà?? No, certo che no,
uno straccio di economista in cerca di visibilità
lo si trova sempre e quindi un interlocutore mi-
nimamente acculturato non mancherà!! Che,
forse, i nostri partners europei son preoccupati
per la nostra difesa integrata sia nella Nato che
in Europa?? Giammai!! Di generali abbiamo
sempre abbondato e qualche quattro stellette in
pensione pronto a dare i suoi servigi lo troveran-
no di sicuro, quindi anche da quel lato si potrà
star tutti abbastanza tranquilli. Qualche addet-
to ai lavori è preoccupato per la politica estera,
ma anche da questo lato non ci dovrebbe essere
nulla da temere, di vecchie feluche l’Italia pul-
lula, ce ne son di tutte le risme, filoamericane,
filorusse, filoarabe, insomma una vastissima
gamma nella quale poter scegliere!! Qualche
difficoltà maggiore la si potrebbe trovare per il
Ministro degli Interni, un ruolo delicato per una
persona decisa e navigata; viste le recenti aper-
ture, qualcuno ipotizza la chiamata a sorpresa di
Massimo D’Alema per ricoprire gli Interni nel
prossimo Governo Di Maio Primo, la persona è
decisa e, quanto ad esperienza nautica, non lo
batte nessuno!! Per il Ministero della Salute si è
fatta già avanti una militante NO VAX, la scelta
appare un po’ azzardata anche perché la signora
in questione ha il diploma di terza media e risul-
ta essere stata in un recente passato una fervida
sostenitrice delle teorie di mago Merlino e della
sua Ars Sanitatem. Ma, allora, da dove deriva
questo frenetico allarmismo che da Bruxelles si
sta irradiando per tutta Europa??? Da notizie ri-
servatissime, viste le difficoltà di affiliazione che
i reggenti grillonzi stanno avendo nella ricerca
di personalità alle quali affidare i vari ministeri,
pare, dico, pare che il futuro Primo Ministro Lu-
igi Di Maio intenda trattenere per se l’interim
del Ministero della Cultura!!!!! NONCIPOS-
SOCREDERE!!!!!!!
di Sergio Favilli
Da non crederebberci!!!
“L’alba dei libri-Quando Venezia ha fatto leg-
gere il mondo.” di Alessandro Marzo Magno
(Garzanti, gli Elefanti Storia). Su consiglio di
Franca Bacchiega poetessa e per la passione
dei libri, lo desiderai. Oggi lo vedo essenziale
per scoprire la storia del libro che, nato nella
Germania di Gutenberg (1452 -1455) crebbe
nella prima parte del ‘500 a Venezia, dove “si
stampava la metà di tutti i libri pubblicati in
Europa”. Primato non solo quantitativo, per
la bellezza dei volumi: senza il lavoro di que-
gli stampatori curato dall’umanista veneziano
Pietro Bembo e poi dal “Michelangelo degli
editori, Aldo Manuzio” non esisterebbero né il
libro come lo conosciamo oggi né la lingua ita-
liana come oggi la parliamo. La studiosa Maria
Pertile mi presenta Alessandro Marzo Magno:
“Veneziano autentico in equilibrio tra ironia e
gentilezza, giornalista vero che trasfonde nei
suoi libri profonda curiosità e documentata
conoscenza facendosi vivo narratore; di gran-
de simpatia personale nelle giacche pastello su
abiti sgargianti e strabilianti cravatte sempre
gradevoli e mai sbagliate, simili in certo senso ai
suoi libri e viceversa. Mi è guida nella Venezia
di mezzo millennio fa che, con Parigi e Napoli,
aveva 150.000 abitanti. Dal fontego (magazzi-
no ) dei Tedeschi ai piedi di Rialto a San Marco
lungo i negozi delle Mercerie con i loro “tessuti
splendidamente tinti di rosso”, pannelli cuoio
sbalzati di foglia d’oro per le pareti interne dei
palazzi, armi pregiate per ricconi di mezz’Eu-
ropa e soprattutto decine e decine di botteghe
librarie, a San Marco non si arriva mai. La bot-
tega: su un paio di banchi esterni, i frontespizi
(e solo quelli per scoraggiare i furti ) di classi-
ci latini prevalenti su quelli greci, di Bibbie o
commentarii e stampe, vedute di luoghi sognati
e figure d’uomini esotici. Libri in lingue remote
come una Bibbia boema, un testo in glagolitico,
alfabeto dell’antica Croazia, il primo Corano
perduto e ritrovato oggi dopo mezzo millennio,
e dato che il primo ghetto della storia è nato a
Venezia (1516) molti volumi in ebraico. Le bot-
teghe sono spesso anche “officine”, stamperie
dei libri in vendita; catalogo sul banco esterno
o appeso allo stipite della porta. Ivi il libro na-
sce in tre risme, 1500 fogli al giorno tirati dal
torchio, così chiamato perché simile a quello
usato per il vino; la carta, se bianca e liscia ,
incide il 50% sul costo del libro e il cartaio ne
concede una risma (500 fogli) per volta. Costo-
sissimi i caratteri, i punzoni sono opera di orafi
(Gutenberg era un orefice): “punzoni in accia-
io, matrici in rame, caratteri in piombo, stagno e
antimonio”, da appaltare all’esterno. Nel 1540
Claude Garamond francese diviene il fornito-
di Gabriella Fiori L’orizzontedel leggere
re di caratteri elaborati su modello di Manuzio
per quasi tutte le tipografie europee. I prezzi
li decide la fiera di Francoforte. Al torchio 3
persone: compositore (il solo con una certa spe-
cializzazione), stampatore e torcoliere. Servi
a spasso e studenti al verde sono aspiranti ap-
prendisti ché, pur con un decimo del salario di
un compositore hanno 3 anni di vitto e alloggio.
Il compositore prende 3 ducati al mese, quanto
un indispensabile ingegnere idraulico. Altro
costo gravoso viene dal rapido usurarsi dei
metalli; enorme il noleggio o l’acquisto di ma-
noscritti per cui librai più ambiziosi assumono
letterati di professione e correttori di bozze. Ma
quella “vera e propria febbre del libro” è così
forte da rischiare (seconda metà d e l
‘500) i sequestri e le condanne
dell’Inquisizione. Nel 1495-
con una grammatica greca, gli
Erotemata di Costantino La-
scaris maestro di Pietro Bem-
bo, apre l’officina di Aldo
Manuzio (1450?-1515)
forse la più importante di
“tutta la storia dell’editoria
europea” .Di origine lazia-
le, si firma Aldo Romano;
di “sensibilità quasi mor-
bosa per l’accuratezza
della grammatica e la
correttezza della pronun-
cia” scrive cinque grammatiche, inventa il pun-
to e virgola, portandolo dal greco al latino al
volgare, vi aggiunge apostrofi e accenti, il tondo
aldino tuttora in uso e il corsivo (italic in ingle-
se) preferito perché fa risparmiare carta e più
simile alla scrittura. Il primo editore attento al
contenuto dei manoscritti inventa il
piacere di leggere con i suoi tasca-
bili in ottavo. Nel 1501escono in
ottavo Virgilio poi Tibullo, Catullo
e Properzio che vanno a 3000 copie
e poi Petrarca il suo primo libro in
volgare che, non solo nella sua edizio-
ne arriva a 100.000 copie. Fra i suoi
amici Pico della Mirandola ed Erasmo
che gli affidò la sua traduzione di Eu-
ripide. Fra i suoi acquirenti, Lucrezia
Borgia e Leone X. Christie’s Londra,
nel 2010, ha venduto una copia del suo
Polìfilo, “il più bel libro mai pubblicato”
per oltre 356.000 euro.
1624 FEBBRAIO 2018
“Contro le mostre”, redatto a quattro mani
da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione,
è un pamphlet appassionato che può giova-
re alla comprensione non già dell’arte ma
del mondo che vi ruota attorno. Nel pri-
mo capitolo (“Business Art”) si stigmatizza
la tendenza “nazionalpopolare”, la logica
“da cinepanettoni” che genera “mostre di
cassetta, mostre blockbuster, mostre all in-
clusive”, dal cliché più che rodato: “si pro-
pongono i maestri universalmente più noti
e mediaticamente più efficaci”, prevalendo
“una filosofia di tipo quasi televisivo”, di
spettacolarizzazione dell’arte, per la quale
“si trasformano i visitatori di una mostra in
consumatori o, peggio, in clienti” e si gon-
fiano i contenuti di “mostre inesistenti”,
spinte da un “affarismo privo di moralità”
e giungendo al virus delle “mostre senza
opere” (dal quale io stesso, nel mio piccolo,
ho preso le distanze, cfr “Gran Luna Park
Van Gogh”, Cultura Commestibile 114).
In “Rompere la gabbia” si passa immediata-
mente alla pars costruens con un decalogo
pieno di buone intenzioni, a tratti viziato
d’eccessi, come nel caso del requisito della
“insostituibilità” della mostra con un arti-
colo o con un libro (che, al limite, potreb-
be interpretarsi come un de profundis per
qualsiasi mostra). V’è poi la lamentata “ri-
mozione del contesto” che, obiettivamente,
non sembra rispondere a realtà sistemica
degli eventi espositivi. Se poi l’alternativa
è anche qui il “chilometro zero” (termine
alquanto logoro), cioè l’abitudine a guar-
darsi intorno, là dove si vive, e a riscoprire
“l’enorme patrimonio cui possiamo accede-
re gratuitamente”, il primo pensiero è che i
proscenii esistenti non siano incompatibili
con le esposizioni ‘costruite’.
Interessante è il capitolo sulla “Biennaliz-
zazione dell’arte”: la Biennale di Venezia
sarebbe divenuta “il paradigma espositivo
più sfruttato nel mondo”, “virus planetario”
e “ritratto irrisolto della contemporaneità”
(sul punto si leggano opinioni di segno an-
che contrario, come in Angela Vettese, “La
Biennale porta frutti”, Domenicale, 19 feb-
braio 2017). E’ qui che si tratteggia con az-
zeccata ironia la figura del tipico curatore,
uno che si serve delle opere per illustrare
(o fantasticare) generiche teorie, senza mai
fare i conti con facezie quali “come è fatta
una determinata opera, con quali materiali,
con quali tecniche, da quali ragioni è nata”.
Quello del “ritorno al Vasari” è un (ottimo)
richiamo, quasi strutturalista (nel senso del
di Paolo Marini
Luci e ombre di una critica appassionata all’art system
de Saussure), alla riscoperta del linguaggio
dell’arte, dei connotati tecnici delle opere,
per quel sottobosco di ‘addetti ai lavori’ che
può apparire - e spesso magari è - animato
e variopinto da cicalecci e protagonismi,
associati però a sostanziale incompetenza.
C’è del buono nel libro e vale la pena di
scoprirlo e assaporarlo. Con eccezione, an-
zitutto, del fondo ‘ideologico’ del discorso,
quello che instaura una inaccettabile simi-
litudine tra “fascismo storico“ e “totalita-
rismo del mercato e dei consumi”, perché
la reale tensione – anche nell’arte - non è
tra mercato e cittadinanza bensì tra libertà
e coercizione (o condizionamenti politi-
co-istituzionali, da cui la condivisa ostilità
verso la lottizzazione degli organismi scien-
tifici e l’assunzione della cultura a “inse-
gna ufficiale del turismo”, per non parlare
dell’avversione nei confronti dell’estetica
di Stato). Gli stessi Autori, quando dedu-
cono la circostanza che certi ‘eccessi’ di e
con le mostre (di cui i visitatori non sono
necessariamente recettori passivi e inintel-
ligenti) vivono un trend in discesa (“alcu-
ne deludenti performance sembrano dire
che il pubblico è ormai stanco”), mostrano
con ciò che anche questo mercato ha in sé
meccanismi di riequilibrio; allora bisogna
avere un rispetto sincero e definitivo verso
gli individui, che hanno diritto di scegliere
se con l’arte crescere o, semplicemente, in-
trattenersi. Del resto non esiste un modello
uniforme di approccio alle cose, se non in
una visione totalitaria. Anche la mostra più
‘commerciale’ (che forse a chi scrive, come
agli Autori, non piacerà) può essere l’im-
prevedibile via per la quale altri prendono
passione per un artista o per l’arte tutta.
Infine: per molte imprese o iniziative cul-
turali è impossibile l’emancipazione dagli
aborriti “parametri neoliberisti” (con quan-
to di incomprensibile c’è nel riferimento
al misconosciuto liberismo), cosucce come
misura dei guadagni, impatto economico e
numero di visitatori. Non se ne potrebbe
svincolare del tutto neppure chi decidesse
di fare mecenatismo o diventare benefatto-
re. Per caso gli Autori vogliono farci crede-
re che non chiederanno all’editore il conto
delle vendite di “Contro le mostre”, misu-
rando con ciò il gradimento del suo ‘merca-
to’ e, non ultimi, i diritti spettanti?
E’ vera una quasi-banalità: che l’art-system
è figlio del suo tempo, di questo tempo se-
gnato dal trionfo di un pensiero debole (ove
non di un non-pensiero). E se “l’’arte con-
temporanea’ è il racconto di un naufragio”
(Jean Clair, “L’inverno della cultura”), agli
artisti, agli imprenditori e a ciascuno di noi
restano pur sempre rimessi l’onere e l’op-
portunità di nuovi approdi.
1724 FEBBRAIO 2018
Nel numero di CuCo della scorsa setti-
mana (Cuco n. 250) si sono incrociati, per
una pura fatalità, l’articolo su “Senzazione
e Percezione in Fotografia” ed il bellissimo
articolo di Gianni Bechelli su “L’Universo
dei Quanti”. L’occasione mi offre il pretesto
per approfondire l’argomento, anche per-
ché, a differenza di quanto possono pensare
in molti, i due argomenti sono correlati ab-
bastanza strettamente. Qual è il fotografo
che non ha mai affrontato il dibattito sulla
natura della luce (corpuscolare o ondula-
toria), e qual è il fotografo che non ha mai
affrontato il tema del rapporto fra la “for-
ma” del mondo e quella della sua raffigura-
zione fotografica, vale a dire, fra realtà ed
immagine? Ma c’è di più. Se non ci fossero
i fotografi a raffigurare l’universo, questo ci
sarebbe ugualmente? Prima della fotografia
il mondo veniva raccontato a parole, al mas-
simo con ideogrammi o disegni schematici,
talvolta basati su osservazioni dirette, più
spesso su descrizioni imprecise. In nessun
caso esisteva un rapporto diretto e fisico
fra il “referente” e la sua raffigurazione e
non c’era troppa differenza fra il mondo
percepito e quello immaginato. Dopo la
fotografia tutto è cambiato, ma è rimasto il
dubbio di fondo, quello sulla oggettività ed
affidabilità della raffigurazione fotografica.
Se la fotografia è “specchio” della realtà,
che tipo di specchio è, quanto deformato e
deformante, quanto distorto e distorcente?
Se l’osservatore e l’azione di osservare pro-
vocano mutazioni nella realtà, quali muta-
zioni provocano il fotografo e l’azione di fo-
tografare? Quanto le leggi fisiche (e sociali)
vengono stravolte nell’atto fotografico? Se
l’universo si invera solo dal suo essere osser-
vato, tanto più esso si invera dall’essere fo-
di Danilo Cecchi
Fotografia e quanti
tografato. Il fotografo che osserva il mondo
e segue il suo divenire, scrutando ogni mu-
tamento ed ogni accadimento, non diventa
egli stesso causa del mutamento ed artefice
dell’accadimento, lo stesso accadimento
che viene registrato fotograficamente, non è
esso provocato e causato dalla presenza del
fotografo? Senza il fotografo, probabilmen-
te, non vi sarebbe stato alcun accadimento.
E’ un luogo comune quello di affermare che
davanti alla fotocamera (o telecamera o ci-
nepresa), il personaggio raffigurato cambia
atteggiamento, cambia espressione, altera i
suoi stessi lineamenti, diventa altro da sé.
Lo stesso vale per ogni altro tipo di attività
naturale. Quanti personaggi, fatti o eventi,
non sarebbero mai esistiti o accaduti, sen-
za la presenza della fotografia. Secondo
Roland Barthes una delle poche certezze,
parlando di fotografia, è che l’immagine fo-
tografica è la prova che “ciò è stato”. In real-
tà l’immagine fotografica è la prova che “ciò
è stato visto”. Una cosa non vista, non rac-
contata e non documentata, non è mai vera-
mente accaduta. Osservando e misurando
la realtà, la selezioniamo in funzione dei
nostri strumenti di osservazione e di misu-
ra. Fotografando selezioniamo la realtà, se
non altro in termini di spazio e di tempo, ed
introduciamo delle nuove variabili nel pro-
cesso del divenire. Determinati fatti si ve-
rificano solo al momento dell’osservazione,
altri solo al momento dello scatto. Il fotogra-
fo che decide di scattare o di non scattare si
pone davanti ad un bivio, e può modificare
il divenire in un senso piuttosto che in un al-
tro. L’osservazione fa concretizzare ciò che
esiste in potenza, la fotografia trasforma la
potenzialità del reale in immagini concrete.
In questo senso, è la fotografia (insieme alla
scienza, alla filosofia ed all’arte) che genera
la realtà. Citando ancora Gianni Bechelli,
sembra fantascienza, ma è sufficiente pun-
tare la fotocamera verso qualcosa, per vede-
re come la realtà inquadrata cambia forma
e consistenza. Citando invece Wittgenstein
dobbiamo convenire che, in fondo, “l’imma-
gine è un modello della realtà”.
1824 FEBBRAIO 2018
È il 12 ottobre 2010. Dopo la Messa vesper-
tina, entrano in S.Felicita, per un sopralluo-
go al Coretto e al contiguo Camminamento
Granducale adiacente al Vasariano, il Diret-
tore degli Uffizi con il nostro Funzionario di
Territorio. È per una visita finalizzata alla
ripresa di un progetto museale preceden-
temente approvato. Sono inoltre presenti il
Parroco ed io, nella mia qualità di Conserva-
trice dell’Archivio Storico annesso alla Chie-
sa. Il sopralluogo è densissimo di proposte e
di scambi di idee e di informazioni da parte
di ognuno che riassume in sé competenze di-
verse con diversi orizzonti d’attesa. Termina-
to l’incontro ci congediamo e, d’intesa con il
Parroco, io rimango nel Presbiterio per alcu-
ne verifiche. Sono passate circa due ore e già
penso di tornare a casa quando, a un tratto,
mi sento distintamente chiamare per nome
da una voce femminile proveniente dal Co-
retto granducale. Alzo lo sguardo e intravedo
nella penombra una figura che si sporge dal
parapetto con un lume in mano. Rimango
perplessa. Soltanto un attimo dopo la don-
na mi invita a raggiungerla. Passo dall’intra
muros e mi fermo sulla soglia d’accesso al
Coretto. Una bella figura lungovestita mi si
rivolge con movenze misurate, quasi di dan-
za. Accenna un gesto elegante che intende
significarmi di rimanere nel Corridoio, senza
passare dentro il Balcone Granducale. È lei
che mi raggiunge. Accenna col capo ad un
saluto. Indica la scaletta di pietra che mette
in comunicazione il Coretto delle Cameri-
ste con quello dei Granduchi. Si presenta col
mio stesso nome, cognome e titolo. Accenna
poi in fretta, al chiarore del lume tremante,
di avere poco tempo per mostrarmi il “Cam-
minamento” voluto dai Serenissimi Gran-
duchi Lorena e realizzato dall’architetto
Giuseppe Ruggeri. Con una certa fierezza,
aggiunge che tutto è arredato col sobrio gu-
sto della Granduchessa e della Maggiordo-
ma Maggiore Contessa Gabriella di Thurn.
Là dove io ricordavo di aver visto da sempre
un arco tamponato che separava il Vasaria-
no dal “Camminamento intra muros”, mi si
rivela dietro una portiera di pesante velluto
un luminoso chiarore. Appaiono due giova-
ni “Cammer Heizer” con torcetti in mano e
accendono, alla parete di meridione, i brac-
ci delle appliques in legno dorato. Il palli-
do volto incipriato della Marchesa prende
colore e con lei tutto l’ambiente esce dalla
penombra. Il lungo percorso si colora d’un
bel “verde Lorena”. La sfumatura del colore
è quella con cui il quadraturista ha dipinto
l’esterno del KaffeeHaus. Lungo le pareti ri-
quadrate in verde corrono liste parallele, in
alto e in basso, ombreggiate a pennello d’un
marrone scuro che riprende toni dei mattoni
del pavimento. Percorro con lo sguardo, in
direzione est, il passaggio intra muros. Una
porta bicroma con chiari toni di grigio e “co-
lor d’aria” conduce all’accesso della “scala
nobile” che discende fino al transetto della
Chiesa. Alla parete sinistra corrono in fuga
le piccole finestre affacciate sulla Piazzetta
De’ Rossi. Gli infissi dipinti sono dello stesso
colore della porta di fondo. Sulla parete de-
stra alcuni ritratti di Granduchi medicei e lo-
renesi pendono appesi a cordoni serici. Lei,
sorridente e senza parlare, indica bacheche e
vetrinette listate d’oro, poste sotto i quadri e
dipinte coi toni chiari degli infissi. Mi invita
con un segno indicativo a leggerne i cartel-
lini. Solo in quel momento mi rendo conto
che i Lorena hanno raccolto - nel percorso
che li porta in Chiesa - i “donaria” offerti alle
Monache del Monastero di S.Felicita dalle
Granduchesse, benevole e pie frequentatrici
di quei chiostri. Sono i doni che la Badessa
Suor Teresa Vittoria Del Nero ha permesso
di esporre nel “Camminamento” in occasio-
ne di visite o eventi particolari. Penso che
probabilmente l’intento della Superiora non
è che un celato invito rivolto ai Sovrani Lo-
renesi a continuare quel generoso costume
in uso fin dal periodo Mediceo. Mi ricordo,
allora, delle due statue in legno dorato do-
nate poi da Ferdinando III: un Apollo e una
Dafne provenienti dalla Reggia di Pitti. Mi
ricordo anche dei sontuosi lampadari di cri-
stallo e del “Comod”, l’antico e sobrio ingi-
nocchiatoio in legno di noce che i Lorena si
erano riservati nel Presbiterio per assistere
al Catechismo e alle Prediche in tedesco dei
Gesuiti P.Summantig e P.Kallingher. Sotto
l’immagine dell’Elettrice Palatina vedo in
mostra la scatola per i “Cordigli della Passio-
ne”, tutta dipinta a “découpages” e decorata
col suo stemma. Sotto il ritratto della Gran
Principessa Violante di Baviera troneggia il
Leggio con l’Evangeliario in argento sbal-
zato, opera che so essere stata eseguita nel
1704 da Giorgio Majer. Accanto, la carabat-
tola dorata con entro la Reliquia di S.Felici-
ta “cum vase sanguinis” e “l’adorno fatto il
20 novembre 1709 da Giovanni Santini do-
ratore”: mi sovvengo infatti del documento
relativo, visto all’ASF. Al di sotto del ritratto
della Serenissima Maria Maddalena d’Au-
stria, “due reliquiari neri ad altarolo”, uno
dei quali custodisce solo Santi Benedettini.
Sotto la “Granduchessa Cristina di Lorena”,
devotissima di S.Raffaele, il gruppo dell’Ar-
cangelo e Tobiolo… all’improvviso un colpo
secco rimbomba nella Chiesa vuota: l’orga-
nista è entrato per provare e ha rovesciato
lo sgabello. Mi sveglio di sobbalzo. Non c’è
dubbio: ho sognato. Maria Cristina François,
la mia antenata Camerista di Corte, partita
il 25 agosto 1765 da Innsbruck al seguito di
Pietro Leopoldo e Maria Luisa, è svanita in
un attimo e con lei l’allestimento di quegli
spazi realizzato da me in sogno; proiezione
onirica derivata dalla mia frequentazione di
persone, architetture e cose rintracciate nei
documenti d’Archivio, nonché dalle rifles-
sioni fatte di concerto col Direttore degli Uf-
fizi in quel 12 ottobre 2010.
di M.Cristina François Il camminamento granducaleRacconto di una camerista
1924 FEBBRAIO 2018
Ascoltare qualcuno che legge a voce alta “A’ la
recherche du temps perdu”... ascoltare pezzi
scelti di ognuno dei 7 libri che la compongo-
no...ascoltare voci diverse, tanti Narratori, varie
Albertine, alcuni Charlus, diverse Verdurin
ed Oriane, la Principessa di Guermantes, la
Nonna, Françoise, Saint Loup, Swann, Odette,
la dolce Gilberte... Parole echeggiano, parole
belle, fantasiose, originali, ricche, lievi e pesan-
ti, poetiche, parole che descrivono, spiegano,
evocano immagini, parole inconsuete, precise,
raffinate, parole che si rincorrono e definiscono
luoghi, odori, sapori, persone, abiti, volti, ani-
me e menti, parole che raccontano un mondo
e immaginano tanti mondi, parole e ancora
parole. Parole che testimoniano l’onnipotenza
del pensiero umano, l’onnipotenza del pensiero
e dei ricordi di Proust. Dice Riccardo Massai
“parole talmente belle che sono piacevoli da
ascoltare...” La lettura ad alta voce è sempre
esperienza non solo affascinante, ma anche un
pò magica in quanto ha, fra gli altri, il potere di
riavvicinarci ai bambini meravigliati che erava-
mo, in ascolto di terrifiche fiabe per l’infanzia
e dei racconti di vita e di guerra di mamme e
nonne. Penso di interpretare un pò il pensiero
dei vari “Proustiani”, qualcuno aggiungereb-
di Cristina Pucci
be fanatici, dicendo che ogni occasione che
consente di riprendere in mano e riportare
all’attenzione gli oggetti del nostro amore, Re-
cherche e suo Autore, è sempre benvenuta. E
quindi ammirata gratitudine a Riccardo Massai
e alla sua decisione di non morire senza avere
letto Proust! Venuto a capo di questo percorso,
in soli 5 mesi, ne è rimasto affascinato e si è sen-
tito spinto, dall’Autore stesso, alla decisione,
del tutto originale e senza dubbio coraggiosa,
di prepararne una Lettura, “totale”. Rileggerla
e decidere quali parti di ciascun libro offrire al
pubblico ha richiesto grande attenzione e un
lavoro non indifferente. Altra fatica preparare
le 14 serate, due per ogni libro, pensare quali
attori, professori e personaggi di un qualche
rilievo nella vita fiorentina attuale coinvolgere,
una settantina in totale, contattarli, regolamen-
tarne le apparizioni, pensare a immagini da
proiettare, musiche da far ascoltare, sostituzio-
ni di malati e fuggitivi....I protagonisti ricevo-
no il “copione” una settimana prima, una sola
prova . Dalla paura di fare un buco nell’acqua
è passato alla gioia di vedere seguita e molto
complimentata questa sua idea e realizzazione,
di certo mai tentata prima. Ha scoperto che
esistono “Proustiani” fedeli, che conoscono l’o-
pera, la apprezzano e la seguono con regolarità
e volenteri. Articoli sui quotidiani, intervista
al Tg, un gruppo di Pistoia che si rammarica
di essere troppo lontano per poter partecipare.
Primo risultato, già nelle prime serate,”Com-
bray”, parte bellissima che definisce e contiene
tutta l’opera, silenzio assoluto. Come peraltro
sempre. Tossi permettendo. Io che posso dire
di mio? Le Albertine viste hanno dato a que-
sto sfuggente e non necessariamente simpatico
personaggio, una valenza adolescenziale, un pò
scherzosa, fatua, fino ad Eva Robbin’s, più seria,
strutturalmente ambigua e con qualche valen-
za tragica. La principessa di Guermantes, nella
serata della sua festa, è “letta” da una vera Prin-
cipessa, Giorgiana Corsini, un vero scrittore,
Marco Vichi , ci narra la morte dello scrittore
Bergotte, sul maxischermo la famosa foto del
volto di Proust sul letto funebre, notevole emo-
zione direi. Un violinista suona, siamo alla fe-
sta Verdurin dove Charlus, che verrà cacciato,
ha condotto Morel con il suo violino. Drusilla
Foer, altera e distante, ci dardeggia con i motti
di Oriane, Elena Stancanelli, malgrado un ec-
cessivo ciuffo, rende bene l’arrogante sicumera
della Padrona....Prosegue fino al 16 Marzo que-
sta avventura, al Teatro dell’Antella. Il Tempo
Ritrovato ce lo restituirà Maria Paiato, da sola.
In foto “Rose”, come di Mme de Villeparisis,
accompagnano il suo volto smagrito.
Ascoltando la Recherche
2024 FEBBRAIO 2018
L’Academy e il De Young Il De Young Museum degli architetti svizzeri
Herzog De Meuron e l’Academy of Sciences
di Renzo Piano si fronteggiano l’un l’altro de-
limitando lo spazio del parco-piazzale preesi-
stente, una sorta di Tuileries di San Francisco
all’interno del Golden Gate Park.
Il De Young Museum è una massa solida, un
corpo rude, ma elegante, sfaccettato, ma com-
patto.
L’Academy of Sciences è un edificio etereo,
trasparente, un merletto di vetri e colonne sot-
tilissime.
Il De Young è un un blocco geologico, un cor-
po biologico, un animale di metallo.
L’Academy è una macchina tecnologica, car-
tesiana, un parallelepipedo perfetto.
Il De Young ha una pelle organica unica, uno
strato di rame perforato, cangiante, mutevole
nel tempo.
L’Academy ha una pelle fatta a strati: cemen-
to, vetro e ferro verniciato. Uguale nel tempo.
Il De Young è scultoreo nella torre e nel gran-
de aggetto della pensilina verso il parco. La
sua geometria si gioca sul contrasto linea retta
- linea inclinata.
L’Academy è simmetrica, leggera e evane-
scente, uno spazio ortogonale solo interrotta
dalla rotonda copertura artificiale organica.
La sua è una geometria tutta giocata sul con-
trasto retta - curva
Nel De Young l’entrata è bassa, orizzontale,
un foro sulla facciata che dà su un cortile se-
michiuso semplice e scarno.
Nell’Academy l’entrata è l’ elemento princi-
pale, il suo cuore, il centro, alto, trasparente e
luminoso del complesso.
Il De Young trasmette un senso di grandezza
sovrumana, di uno spazio silenzioso e austero
L’Academy è una fiera di suoni, giochi di luce,
di corpi in movimento, una festa di vita e di
colori.
Eppure, forse proprio a causa di queste loro
differenze, i due edifici si integrano bene tra
loro e nel contesto generale. Semmai è il piaz-
zale antistante che non ha la stessa forza. Il
suo aspetto ottocentesco si relaziona solo con
la grande esedra che lo chiude ad occidente.
Per il resto, con i suoi vialetti, fontanelle e
cerchi d’alberi ostacola piuttosto che aiutare il
dialogo tra i due protagonisti.
La crepaLa sottilissima crepa che accompagna fin
dal suo ingresso sul piazzale chi entra al De
Young Museum, è una metafora. Tra le pos-
di Andrea Ponsi Mappe di percezione
sibili interpretazioni di questa scultura am-
bientale una prevale: questa è la crepa sulla
quale si pone l’intero luogo, la sconnessione
sottile che pervade la città, i suoi dintorni, la
falda che minaccia l’intera California, la ferita
che nasce dalle viscere della terra per affiorare
silenziosa, pervasiva, ineluttabile alla superfi-
cie. La crepa dalla terra si trasferisce ai nostri
corpi, ci entra nell’anima sconvolgendoci im-
provvisamente, come improvvisamente può
scuotersi dal profondo quella forza che, viva
e nascosta, non aspetta che il momento di col-
pire.
RameLa pelle di rame del De Young Museum si
adatta perfettamente al contesto del Parco.
Il museo è un animale che si mimetizza nel
verde degli alberi, nelle radici contorte, nelle
scorze dei tronchi sparse sulla terra umida. E’
un cetaceo uscito dal mare, un animale affiora-
to sul suolo al ritirarsi dell’acque di un diluvio,
un mostro la cui bocca ancora respira l’ossige-
no del bosco vicino. Sembrano tanti piccoli
Giona quei corpi che sotto il tetto-palato stan-
no seduti alla cafeteria all’aperto. Come Moby
Dick, diverso da ogni altro mostro marino per
il suo colore, il De Young, animale portentoso,
ha una pelle diversa da ogni altra: butterata e
per questo più resistente; perforata e per que-
sto più variata e variabile; una pelle che cam-
bia colore, che vive, che, come le scorze degli
alberi, risponde al continuo mutare della luce,
dell’aria, del tempo.
San Francisco
2124 FEBBRAIO 2018
Se vi è sembrato giustamente strano e sin-
golare il fatto che la semplice osservazio-
ne scientifica possa creare e/o modificare
la realtà o meglio ancora selezionarla tra
tante variabili, ancor più sorprendente vi
apparirà il fenomeno cosiddetto entangle-
ment (intreccio) che viola non solo alcune
leggi fisiche fondamentali come la velocità
della luce, che sta alla base della relatività
ristretta e il principio cosiddetto di locali-
tà, per cui due oggetti distanti non posso-
no influenzarsi istantaneamente, ma anche
il concetto dello spazio-tempo così come lo
conosciamo intuitivamente. Questo fe-
nomeno verificato sperimentalmente dal
fisico Alain Aspect nel 1982 e dimostra-
to inequivocabilmente vero, è stato prima
molto controverso per decenni nel mon-
do fisico e combattuto anche dallo stesso
Einstein; per cui non meravigliatevi se vi
lascerà perplessi, fa e farà lo stesso effetto
anche dopo averlo riflettuto a lungo. In
sostanza se due particelle fra loro connes-
se e correlate (due elettroni per esempio)
vengono separate, saranno poi in grado
di continuare a comunicare tra loro e lo
faranno istantaneamente come se fossero
rimaste la stessa cosa. Per chiarire meglio,
se una particella A si separa da una B e un
certo punto viene fatta deviare dal suo tra-
gitto naturale o si modifica il suo spin (il
senso in cui gira) l’altra particella B modi-
ficherà la sua traiettoria ed il suo spin, sen-
za che niente di materiale avvenga nella
comunicazione fra le due, ma, ancora più
sorprendentemente, il tutto avviene istan-
taneamente qualunque sia la distanza fra
le due, ossia ben più che la velocità della
luce. E’ come se si entrasse in una dimen-
sione in cui lo spazio-tempo sembra sparire
o stringersi, e rivelarsi invece una specie di
substrato in cui la materia e l’energia co-
municano e si rapportano in modi per noi
incomprensibili, almeno per ora. Il cosmo
che vediamo così vasto e molteplice nelle
sue manifestazioni risulterebbe così molto
più connesso ed olistico di quanto possia-
mo immaginare.
C’è dunque molto che ancora non cono-
sciamo o comprendiamo, di più, forse nel
mondo subatomico difficilmente riusci-
remo ad avere una spiegazione “ultima e
definitiva e certa “perché valgono nella
fisica quantistica sempre meno le leggi del-
la fisica deterministica del meccanicismo,
la certezza causale della scienza classica e
vale molto di più l’atteggiamento probabi-
di Gianni Bechelli
listico e la coscienza che alcuni valori ri-
mangono indefiniti in “sé”. Così ci spiega
la fondamentale legge di indeterminazio-
ne del fisico tedesco Werner Heisenberg,
per cui maggiore è la specificazione della
ricerca della posizione di una particella in
un determinato momento, minore sarà la
precisione con cui riusciamo a determina-
re la sua velocità e viceversa. E per essere
chiari, non si tratta di un limite fisico della
capacità dello strumento tecnico di ricer-
ca, ma di un limite intrinseco all’oggetto
osservato che non può possedere una po-
sizione ed una velocità determinata in uno
specifico momento. Per cui, se si cercherà
la posizione di una particella, più si deter-
minerà questa, minore sarà la capacità di
definirne la velocità, fino al punto in cui
questa cessa di esistere come velocità e/o
viceversa.
La legge di indeterminazione di Heisenberg e altre stranezze
Possiamo perciò riassumere che gli effet-
ti della fisica quantistica comportano: 1)
uno stato della materia non valido in sé ma
dipendente dall’osservatore e da ciò che
l’osservatore cerca. 2) una capacità delle
particelle materiali di “comunicare” oltre
lo spazio-tempo 3) un tessuto probabil-
mente” unitario” del mondo sub atomico
4) una concezione scientifica più legata
alla probabilità che alla certezza.
Non è poco e per di più tutto spinge a cer-
care qualcosa che spieghi sempre di più e
meglio il cosmo visibile ed invisibile e che
diradi magari le nebbie delle incertezze e
spinga oltre le connessioni probabilistiche
che, senza dare una spiegazione ultima,
allargano tuttavia le nostre possibilità di
conoscenza. E’ difficile accettare che forse
una spiegazione ultima non c’è, secondo
almeno i criteri tradizionali .
2224 FEBBRAIO 2018
Sensus inaugura una doppia mostra con
artisti della propria collezione, la prima:
“Incontri straordinari, piccolo compendio
di arte orientale”, con 20 artisti provenienti
da Giappone, Thailandia, Malesia e Cina,
tutti giovani emergenti a parte Araki No-
buyoshi e Yoshitomo Nara dei quali vengo-
no esposti una polaroid e un toy di produ-
zione illimitata.
Gli altri sono: Mitsunori Kimura, Tan
RuYi, Kawita Vatanajyankur, Imhathai
Suwatthanasilp, Noon Passama, Srisakul
Amnuaiporn, Methagod Thep, Naomi
Futaki, Yuki Ichihashi, Maitree Siriboon,
Yanyan Huang, Han Bing, Sethapong Po-
vatong, Tada Hengsapkul, Orawan Arun-
rak, Akiko Chiba, Yuree Kensaku, Thawee-
sak Srithongdee.
La seconda, che costituisce un esperimento,
si intitola: “Antonio Borrani, Studio aperto”
e vede l’artista usare lo spazio assegnatoli,
separato dal resto della galleria e indipen-
dente, come studio e atelier per lavorare,
ricevere e mostrare il suo recente lavoro.
Borrani userà lo studio fino ad ottobre.
L’inaugurazione è il 2 marzo alle 18 e ri-
marrà aperta fino ad ottobre tutti i giovedì
e i venerdì dalle 17 alla 19.
Si visita anche su appuntamento email:
Ispiratore della sezione orientale della col-
lezione è il critico indipendente Pier Luigi
Tazzi con la mostra: Il Dio delle Piccole
Cose” del 2010 al Musei di Casa Masaccio
di S. Giovanni Val d’Arno. Molti dei lavori
esposti a Sensus provengono proprio da lì.
La mostra di Sensus costituisce un’occasio-
ne per conoscere uno spaccato attuale delle
tematiche di lavoro di quei paesi poco rap-
presentati in Italia. Di loro Sensus espone,
disegni, sculture, videos, collages e foto.
Con la presenza in galleria di Antonio Bor-
rani il pubblico potrà prendere parte al pro-
cesso creativo di un’opera e dialogare con
l’artista. Lo studio composto di due stanze
ha una parte espositiva ed una propriamen-
te di lavoro.
Doppio Sensus
a cura di Claudio Cosma
Mitsunori Kimura, Above the horizon, 2013, installazione.
Kawita Vatanajyankur, The ice shaver, 2013, video
2324 FEBBRAIO 2018
postuma e, anche, sull’uso distorto della Lettera, dal
‘68 soprattutto, fino alla “repressione” degli anni ‘80.
Ma torniamo all’attualità della Lettera: perché l’av-
vertiamo ancora così nostra? Perché ci parla ancora e
non l’avvertiamo come un libro appartenente alla sto-
ria? Un pugno ancora attuale, l’ha definita Francuc-
cio Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana. Perché il
fuoco vivo del libro – come ben spiega Vanessa Roghi
– è non un metodo didattico seppur innovativo, bensì
come costruire una scuola che garantisca a ciascuno
il sapere di cui ha bisogno per diventare un cittadino
sovrano. Si dirà: va beh, ma questo oggi è scontato;
facciamo tanti corsi di informatica, di lingua, l’alter-
nanza scuola-lavoro, finanche l’educazione civica ri-
schia di tornare alla ribalta! Sì, ma poi arrivano quelli
della Confindustria di Cuneo e scrivono alle famiglie
dicendo che, per carità, sono liberi di scegliere per i
loro figli la scuola che vogliono, ma sappiano che da
loro c’è bisogno di operai, addetti agli impianti, tecni-
ci e si fatica a trovarli. E poi, con paternalistico fare,
ti dicono che spesso la scelta della scuola superiore
“viene fatta dando più importanza ad aspetti emo-
tivi e ideali, piuttosto che all’esame obiettivo della
realtà”. Ecco, dunque, il “ricatto” del lavoro (sempre
più destrutturato e vuoto di diritti e dignità; l’opposto
di quello che insegnava don Milani per cui solo con
una parità linguistica, di lessico, l’operaio poteva far
valere i suoi diritti davanti al padrone), nello stesso
modo in cui 50 anni prima la scuola operava con il
ricatto e la minaccia della bocciatura. Confindustria
di Cuneo pensa ad una scuola che produce esercito
di riserva per le esigenze delle loro imprese, non cer-
to cittadini sovrani. Naturalmente, oggi come allora,
sempre con l’alibi di fare per il bene dei ragazzi. Ed
è ancora qui l’attualità della Lettera e di don Milani
che voleva mettere in grado i ragazzi di sapere e dire
autonomamente cosa fosse bene per loro stessi. La
Lettera è attuale perché ancora la scuola è orientata
a giudicare non a educare. Ricordiamo la Ministra
Gelmini nel luglio 2009 che in un comunicato stam-
pa evidenziava la serietà della sua scuola perché era
aumentato il numero dei ragazzi bocciati all’esame di
maturità (3.000, pari al 3,1% del totale, mentre l’anno
prima erano il 2,5%): la poveretta non aveva il minimo
sospetto che una scuola che boccia di più (anche alle
superiori, non solo nell’obbligo) è una scuola che ha
fallito il suo compito, che denuncia il suo fallimen-
to scambiandolo per successo! Uno dice: “Eh, ma
la scuola è cambiata! E’ migliorata! Oggi non siamo
mica più a Barbiana!”. “Vorrei ben dire! - rispondo –
E’ trascorso mezzo secolo; è cambiato il mondo con
una velocità e profondità neppure immaginabile nei
due secoli precedenti! Se anche la scuola non fosse
cambiata saremmo Quarto Mondo!”. Ma riflettiamo
su alcuni numeri e forse le vostre ottimistiche cer-
tezze ne risulteranno scosse. Dati MIUR, dunque
ufficialissimi, sulla dispersione scolastica: l’Italia, per
quanto abbia migliorato dal 2009 ad oggi, è ancora
ben lontana dal raggiungere l’obiettivo di stare al di
sotto del 10% dell’abbandono scolastico fra i 18 e i 24
anni, considerato l’obiettivo dell’Unione Europea per
il 2020. Nel 2016 siamo ancora al 13,8%; dietro di
noi soltanto Malta, Spagna Romania e Portogallo, ma
davanti a noi paesi come la Bulgaria, l’Ungheria, Ci-
pro, Grecia, Polonia, Slovacchia. Nell’anno scolastico
2016-2017 sono stati 14.258 gli alunni delle scuole
medie inferiori che hanno abbandonato la scuola. E’
ancora attuale la domanda contenuta nell’incipit del-
la Lettera: chi sono questi ragazzi? Dove vengono “re-
spinti”, certo non più nei campi e nelle fabbriche, ma-
gari peggio nelle periferie degradate delle città. Per la
Ministra e per l’Invalsi sono numeri e non ne cono-
scono nemmeno il nome. Ma volete sapere chi sono?
Sono ragazzi del Sud, soprattutto: se la media italiana
degli abbandoni nelle medie è 0,8%, in Sicilia è l’1,3%,
in Campania e Calabria l’1%. Sono ragazzi stranieri
(le Barbiane del mondo, diceva Ernesto Balducci): il
68% degli abbandoni sono nati fuori dai confini e se
fra gli italiani il tasso di abbandono è lo 0,6%, fra gli
stranieri è il 3,3%. Gli studenti italiani nati all’estero
che non conseguono il diploma superiore è il 34,4%,
mentre gli studenti nativi che non ce la fanno sono il
14,8%: ma in Europa i primi sono il 22,7% e i secondi
l’11%. Allora, abbiamo o no un problema ancora vivo
nella nostra scuola? Non è ancora una scuola che “re-
spinge” i marginali? Ieri i figli dei montanari e dei con-
tadini di Barbiana, oggi i figli di emigrati. Non è forse
ancora una scuola che non riduce le disuguaglianze?
Anzi per chi parte svantaggiato statisticamente la vita
è più dura anche a scuola. Resta ancora attualissima
la lettera che i ragazzi di Barbiana scrivono agli scola-
ri di Mario Lodi nel 1963, Perché veniamo a scuola
ora. La direzione è, oggi come allora, non ridurre il
tempo-scuola, bensì aumentarlo; stare di più a scuo-
la, non meno (come si fa con la sperimentazione del
liceo in 4 anni); elevare l’obbligo a 18 anni e investire
di più nella scuola perché quel tempo trascorso lì sia
utile a formare il cittadino sovrano. Che saprà, pro-
prio per questo, fare anche meglio l’operaio, il tecnico,
l’agricoltore. In quella lettera ai ragazzi di Mario Lodi,
quelli di Barbiana scrivevano che “questa scuola … ha
appassionato ognuno di noi a venirci…. Il priore ci
propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per
usarlo al servizio del prossimo. Per questo ci si schiera
dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridio-
nali, italiani, operai”. “Ogni popolo ha la sua cultura e
nessun popolo ce n’ha meno di un altro”, scrivono da
Barbiana nella Lettera: volete qualcosa di più attuale
di così, oggi? (da www.strisciarossa.it)
Un adolescente di oggi, in un liceo italiano, protesta
contro i test Invalsi: strappa il codice a barre e scri-
ve sul test: “io mi chiamo Giovanni Verdi e non sono
un numero”; poi su un foglio bianco risponde alle
domande del test, così da essere sicuro di invalidarlo
ma di dimostrare che saprebbe rispondere a doman-
de così generiche e si mette a leggere “Lettera a una
professoressa” scritta nel 1967 dai ragazzi della scuo-
la di Barbiana, con la regia di don Lorenzo Milani.
Il professore che sorveglia l’andamento del test gli
chiede conto di questo suo comportamento e il ragaz-
zo risponde: “Perché questa di don Milani è la vera
scuola, non l’Invalsi!”.
Perché a distanza di mezzo secolo un giovane studen-
te di oggi ancora considera la Lettera la vera – non la
buona – scuola? Cosa c’è in quel libretto che ancora
oggi lo fa sventolare come un manifesto di una scuola
che un ragazzo del XXI secolo considera il simbolo
di una scuola che aveva un senso, un contenuto vero,
contrapposto ad una, quella che lui frequenta, che
gli propone vuote e anonime crisalidi di forme senza
contenuto?
Ho cercato (e trovato) qualche risposta a questo inter-
rogativo – che anche io mi sono trovato a sostenere
nei miei anni di studente – leggendo il denso e appas-
sionante libro di Vanessa Roghi, La lettera sovversiva.
Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole
(Editori Laterza, Bari, 2017). Vanessa Roghi racconta
(verbo corretto per un libro solidamente storico, ep-
pure scritto con la potenza narrativa della regista di
documentari) l’ambiente sociale, culturale, politico
in cui affonda le radici la Lettera e il lavoro pedagogi-
co di don Milani, da San Donato a Calenzano fino a
Barbiana a Vicchio del Mugello. Sono gli anni che dal
provvedimento del 17 dicembre 1947 che istituisce
le scuole popolari per combattere l’analfabetismo de-
gli adulti portano fino alla riforma della scuola media
unica che entra in vigore il 1° ottobre 1963. L’autri-
ce mostra e dimostra come, per quanto fisicamente
isolato nella canonica sotto il Monte Giovi, l’esperi-
mento educativo e la sua cristallizzazione nel testo di
scrittura collettivo Lettera a una professoressa, fosse
tutt’altro che isolato nel paese: esso si inserisce, forse
anche con una consapevolezza limitata di ciò, in un
movimento che dagli anni ‘50 (la prima proposta di
riforma della scuola media unica ma divisa in tre indi-
rizzi differenziati è del Ministro della Pubblica Istru-
zione Paolo Rossi, del 1956) fino ai ‘60 (pensiamo al
Cipì di Mario Lodi) pone la questione della scuola al
centro del dibattito pubblico italiano, in particolare
sulla questione della lingua. E, in questo movimen-
to, le esperienze o il pensiero eterodosso esiste, opera
come un fiume carsico, viene certamente margina-
lizzato, come avvenne appunto con don Milani, ma
scava, emerge, si inabissa e produce l’humus per i
cambiamenti che poi verranno. Vanessa Roghi, nel-
la seconda parte del libro, si concentra sulla fortuna
di Simone Siliani Letterasovversiva
2424 FEBBRAIO 2018
di Carlo Cantini
1982 Carlo Cantini a New York