nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le ... · il processo verbale di...
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ROBERTA TISCINI
Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni
derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il
restyling della l. n. 183/2010 (cd. collegato lavoro).
Sommario: 1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di lavoro
nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro. – 2. Il verbale di raggiunta conciliazione. - 3. L’efficacia
esecutiva. L’omologazione ad opera del tribunale e l’istanza di parte. - 4. Il controllo di regolarità formale
reso in sede di omologazione. Analogie e differenze con l’exequatur del lodo. - 5. Necessità-opportunità-
inopportunità del procedimento di omologa. - 6. L’impugnabilità del decreto di omologa. - 7. Verbale di
conciliazione e validità delle rinunce e transazioni ai sensi dell’art. 2113 c.c. - 8. Verbale di mancata
conciliazione. - 9. Gli effetti sul giudizio della mancata conciliazione stragiudiziale. - 10. Proposte di
soluzione parziale nel verbale di mancata conciliazione. - 11. L’esecutività del verbale di accordo
conciliativo in ipotesi di intervento ispettivo avanti alla Direzione provinciale del lavoro.
1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di
lavoro nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro.
L’intervento innovativo della legge n. 183/2010 (cd. collegato lavoro) sul
sistema processuale laburistico è ponderoso ed apprezzabile da diversi punti di vista: in
primis, per le modifiche su conciliazione ed arbitrato (art. 31 l. cit.), ma poi anche per le
altre - non propriamente di dettaglio - quali i criteri di interpretazione delle clausole
generali e le novità in tema di certificazione del contratto di lavoro (art. 30 l. cit.), quelle
sull’impugnazione del licenziamento (art. 32 l. cit.) e sulle procedure cautelari ed
esecutive (artt. 37 e 44 l. cit.)1.
Lungi dall’ambizione di esaminare tutta la riforma, né l’intera disciplina della
conciliazione stragiudiziale2, si indagherà qui il profilo specifico del verbale di
conciliazione stragiudiziale, sia quando titolo esecutivo (in caso di esito positivo del
tentativo), sia nei suoi riflessi sul processo (qualora il tentativo fallisca).
Una premessa di carattere generale si impone. La principale novità sulla fase
conciliativa stragiudiziale sta nella trasformazione del relativo tentativo da obbligatorio
(rectius, condizione di procedibilità della domanda giudiziale) in facoltativo3. Scelta,
1 Per tutte queste modifiche sia consentito rinviare al volume … a cura di Sassani e Tiscini, Roma, 2010,
passim. 2 Vd. i novellati artt. 410 ss. c.p.c., come riformati dall’art. 31 l. n. 183/2010.
3 Salvo che per l’ipotesi di cui al comma 2 art. 31 l. cit., secondo cui “il tentativo di conciliazione di cui
all’art. 80 comma 4 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 è obbligatorio”.
2
questa, senz’altro da salutare con favore4, tenuto conto degli esiti fallimentari che aveva
prodotto l’obbligatorietà sin dalla sua prima apparizione (l. n. 80/1998). Vi è tuttavia
incoerenza in un legislatore che solo pochi mesi prima aveva imposto l’obbligatorietà
della mediazione stragiudiziale in una vasta serie di materie5 (art. 5 d.lgs. n. 28/2010)
6.
Delle due l’una: o rendere la fase stragiudiziale come “obbligatoria” agevola il
raggiungimento dell’accordo – ed allora, se è opportuno farne regola generale, è
altrettanto opportuno conservarla nel settore, quello laburistico, che tra i primi l’ha visto
affermarsi – ovvero nessun valore aggiunto l’obbligatorietà assicura al formarsi di una
volontà transattiva che esiste a prescindere da qualsiasi imposizione di legge – ed allora
bene ha fatto la l. 183/2010 ad eliminare la condizione di procedibilità della domanda,
ma al contempo va criticato il d.lgs. n. 28/2010 che la ha imposta in molteplici altri
settori. Va pur detto che si tratta di scelte legislative discrezionali ed insindacabili (così
la stessa Corte costituzionale) 7
delle quali non resta che prendere atto.
Scendendo in medias res, l’attenzione va concentrata sul (verbale di
conciliazione e quindi sul) novellato art. 411 c.p.c.8, norma che - uscita incolume dagli
interventi ponderosi della l. n. 80/1998 – è stata piuttosto innovata dalla riforma qui in
esame.
Nella sua attuale versione, essa ingloba (con modifiche), sia il vecchio testo
dell’art. 411 c.p.c. (sul verbale di conciliazione in caso di esito positivo del tentativo),
sia il vecchio testo dell’art. 412 c.p.c. (quanto al verbale di mancata conciliazione). Di
quest’ultima disposizione – nella sua vecchia versione – una parte è rimasta nell’attuale
art. 412 c.p.c. circa la possibilità per le parti di indicare la soluzione anche parziale sulla
quale concordano9.
Inoltre, mentre nella previgente disciplina la norma codicistica operava solo per
le controversie di lavoro privato, mentre quelle di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni erano regolate dagli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/200110
(in
particolare, quanto al verbale di conciliazione, l’art. 66 commi 5, 6 e 7 d. lgs. cit.), oggi
4 In questo senso, R. PESSI, La protezione giurisdizionale del lavoro nella dimensione nazionale e
transnazionale: riforme, ipotesi, effettività, in RIDL, 2010, 195 ss., spec. § 7. 5 Tra l’altro, introducendo la mediazione obbligatoria, è stato assunta a modello di riferimento proprio la
fase conciliativa nelle controversie di lavoro degli artt. 410 ss. c.p.c. (così la Relazione illustrativa al
d.lgs. n. 28/2010). 6 Peraltro, che il nuovo modello conciliativo in materia laburistica si discosta (non solo da questo punto di
vista ma anche) per molti altri da quello immaginato dal d.lgs. n. 28/2010, sia quanto alla compiuta
rappresentazione della figura del mediatore (ben descritta nel d.lgs. n. 28/2010 e del tutto trascurata nella
l. n. 183/2010), sia per la mancata riproduzione di tante soluzioni normative esposte in quel decreto che
ben avrebbero potuto calarsi nella disciplina laburistica. Sul tema, vd. Valerini, Il tentativo di
conciliazione, ... 7 E’ ormai costante la Corte costituzionale nel ritenere che non è incompatibile con i precetti
costituzionali l’imposizione di condizioni di procedibilità alla domanda giudiziale (in primis, il tentativo
di conciliazione) quando l’accesso alla giustizia non sia eccessivamente ostacolato o reso difficile (vd. ex
pluribus, Corte cost. 13 luglio 2000 n. 276, in MGL, 2000, 1098, con nota di TISCINI, proprio con
riferimento al tentativo di conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro). 8 La relativa disciplina è collocata nell’art. 31 comma 3 l. n. 183/2010.
9 Sul punto vd. infra § 10.
10 Procedure – quella relativa alla fase conciliativa nelle controversie di lavoro privato e quella operante
nel cd. pubblico impiego privatizzato – tra loro senz’altro alternative (F. CUOMO ULLOA, La
conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, 317; A. NASCOSI, Il tentativo
obbligatorio di conciliazione stragiudiziale nelle controversie di lavoro, Milano, 2007, 218).
3
il tentativo di conciliazione stragiudiziale degli artt. 410 ss. c.p.c. è normativa generale
valida pure per le cd. controversie di lavoro pubblico: il comma 9 art. 31 l. n. 183/2010
abroga infatti gli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001, stabilendo che alle controversie di
pubblico impiego – quelle dell’art. 63 comma 1 d.lgs. n. 165/2001 – si applicano gli
artt. 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater c.p.c. così come novellati11
.
Nel disciplinare efficacia e regime del verbale di conciliazione, la riforma
assume quale modello di massima quello del pubblico impiego12
(il che in qualche
modo inverte il rapporto tra regola ed eccezione nel previgente regime13
), utilizzando
soluzioni normative che riproducono, spesso fedelmente, la disciplina dell’art. 66 d.lgs.
n. 165/2001 piuttosto che quella degli originari artt. 411 e 412 c.p.c.
2. Il verbale di raggiunta conciliazione.
L’ipotesi della raggiunta conciliazione trova collocazione nel comma 1
dell’attuale art. 411 c.p.c. ed in parte nel comma 3 (quanto al deposito del verbale
presso la Direzione provinciale del lavoro e la sua omologazione).
Se il tentativo di conciliazione esperito ai sensi dell’art. 410 c.p.c. (come si è
detto, facoltativo ed operante per le controversie di impiego pubblico e privato14
) riesce
“anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo
verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione”
(art. 411 comma 1 c.p.c.). La disposizione riproduce con poche ed irrilevanti15
11
Abrogando gli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001, viene meno anche l’art. 66 ultimo comma cit., secondo
cui la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione – in adesione alla
proposta formulata dal collegio – non può dare luogo a responsabilità amministrativa. La disposizione -
già considerata “essenziale, perché altrimenti ben difficilmente il rappresentante della p.a. è disposto a
conciliare, sapendo di poter essere chiamato a rispondere della propria decisione” (F.P. LUISO, La
conciliazione giudiziale. La conciliazione stragiudiziale delle controversie agrarie e di lavoro, in I
contratti di composizione delle liti, a cura di E. Gabrielli e F.P. Luiso, Milano, 1995, 329 ss., spec. 375;
R. TISCINI, Il tentativo obbligatorio di conciliazione, in Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni. Il decreto legislativo n. 80 del 1998, a cura di G. Perone e B. Sassani,
Padova 1999, 23 ss., spec. 29) – è riprodotta nell’ultimo comma del nuovo art. 410 c.p.c. secondo cui “la
conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai
sensi dell’art. 420, commi primo, secondo e terzo, non può dare luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo
o colpa grave”. Si introduce così il limite del dolo o la colpa grave – su cui taceva la previgente
disposizione – che riconosce una seppur lieve responsabilità, ove si dimostri la presenza di tali elementi
soggettivi. 12
Sul punto, vd. amplius infra § 2. ss. 13
Vigente l’abrogata normativa, si riteneva che fosse disciplina generale quella contenuta negli artt. 410
ss. c.p.c., mentre quella dettata negli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001 ne rappresentasse solo una variante
(R. VACCARELLA, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e
sull’arbitrato in materia di lavoro, in ADL, 1998, 715 ss., spec. 749; M. GRANDI, La composizione
stragiudiziale delle controversie di lavoro nel pubblico impiego (d.lgs. n. 80/1998), in LPA, 1998, 791 ss.;
F.P. LUISO, Commento sub. art. 412, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, a cura di M.
Dell’Olio e B. Sassani, Milano, 2000, 377; F. SANTAGADA, La conciliazione nelle controversie civili,
Bari, 2008, 136). 14
Vd. supra § precedente. 15
Invece della “pretesa avanzata dal lavoratore”, il nuovo art. 411 c.p.c. evoca la “domanda”, in entrambi
i casi ipotizzando il raggiungimento parziale dell’accordo. Quest’ultima espressione ha una portata più
ampia, in quanto contempla la possibilità che la domanda provenga dal datore di lavoro piuttosto che dal
lavoratore. Seppure rara, è questa una ipotesi da contemplare, soprattutto se si considera che la fase
conciliativa è sottratta ai rigidi schemi del processo giurisdizionale e che l’accordo potrebbe offrire una
4
modifiche il testo dell’art. 66 comma 5 d.lgs. n. 165/2001, quanto al verbale di
conciliazione nelle controversie di impiego pubblico. E’ da condividere la scelta di
privilegiare il modello applicato alle controversie “pubblicistiche”. Già sotto la vigenza
dell’art. 66 comma 5 cit. si era notato come quest’ultima disciplina avesse il pregio – a
differenza di quella più generale dell’art. 411 c.p.c. – di evocare la possibilità di una
conciliazione parziale della controversia16
, ipotesi fatta propria dal novellato art. 411
c.p.c.
Diverse novità interessano il problema della sottoscrizione del verbale. Mentre
nel vecchio art. 411 c.p.c. la sottoscrizione spettava (oltre che alle parti, anche) al solo
presidente del collegio il quale certificava “l’autografia della sottoscrizione delle parti o
la loro impossibilità di sottoscrivere”, l’attuale testo (ancora una volta privilegiando il
modello delle controversie di pubblico impiego) contempla una sottoscrizione ad opera
di tutti i componenti della commissione senza che questi debbano autenticare la firma
apposta dalle parti. Pure sotto questo profilo la nuova versione è apprezzabile. Vigente
il vecchio testo dell’art. 411 c.p.c.17
, si era notato come l’autenticazione della firma ad
opera del presidente del collegio fosse un inutile residuato storico. Con essa il verbale di
conciliazione – pure non omologato – acquistava l’efficacia di una scrittura privata
autenticata (in virtù del combinato disposto degli artt. 411 comma 1 c.p.c. e 2703 c.c.)18
,
ma si trattava di un requisito dal modesto rilievo pratico. L’autenticazione della firma
era sicuramente necessaria nel sistema anteriore alla soppressione dell’ordinamento
corporativo che prevedeva un termine perentorio di dieci giorni per il deposito19
,
termine decorso il quale era definitivamente preclusa la possibilità che il verbale
acquistasse efficacia di titolo esecutivo (l’autenticazione della scrittura consentiva per
altra via di ottenere la medesima efficacia); non ugualmente dopo la riforma del
processo del lavoro della l. n. 533/1973, che ha garantito il deposito in ogni momento
seppure entro il termine di prescrizione del diritto; il che rende praticamente illimitata
nel tempo la possibilità di avere il titolo esecutivo20
.
L’eliminazione dell’autentica ad opera del presidente del collegio attualizza
perciò la disposizione rispetto ad una situazione normativa da tempo vigente21
.
soluzione transattiva che si discosta dalla formulazione della “domanda” originaria (non trova qui
applicazione fedele come nel giudizio il principio della domanda). L’altra differenza testuale riguarda il
fatto che la sottoscrizione dell’accordo è compiuta dai componenti della “commissione di conciliazione”
(art. 411 c.p.c.) e non già dai componenti del “collegio di conciliazione” (art. 65 comma 5 cit.): il che
dipende dalla differenza tra i rispettivi organi conciliativi. 16
Vd. L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 59. 17
Il quale, come si è detto, è rimasto immutato pure dopo le modifiche apportate dalla l. n. 80/1998,
mentre ha subito innovazioni nel passaggio dalla vecchia versione dell’art. 431 comma 3 c.p.c. (nella
disciplina ante l. 533/1973) a quella successiva dell’art. 411 c.p.c. 18
C.M. BARONE, La conciliazione stragiudiziale, in V. ANDRIOLI, C.M. BARONE, G. PEZZANO, A. PROTO
PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna – Roma 1987, 127. 19
Sul tema, vd. G. TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 49. 20
L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale, cit., 59. 21
A dire il vero, conservare il potere di autenticazione della firma in capo al presidente del collegio
avrebbe avuto il vantaggio di riconoscere al verbale di conciliazione – ancora prima del suo deposito
presso la Direzione provinciale del lavoro, nonché presso la cancelleria del tribunale – efficacia di titolo
esecutivo ai sensi dell’art. 474 n. 2 c.p.c. (come novellato dalla l. n. 80/2005) che attribuisce tale efficacia
alle scritture private autenticate, seppure limitatamente al pagamento di somme di denaro. Ove fosse stata
concessa l’autenticazione della firma, il verbale di conciliazione non omologato – ma con firma delle
parti autenticata – avrebbe pur sempre potuto valere come titolo esecutivo stragiudiziale. Tuttavia,
5
Di autenticazione della firma si torna a parlare nell’art. 411 comma 3 c.p.c. con
riferimento al deposito del processo verbale di avvenuta conciliazione presso la
Direzione provinciale del lavoro: in questo caso, “il direttore, o un suo delegato,
accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui
circoscrizione è stato redatto” (art. 411 comma 3 c.p.c.). Si tratta però di una
autenticazione dalla ratio profondamente diversa da quella riconosciuta al presidente del
collegio ai sensi dell’art. 411 comma 1 abr. c.p.c. e da ricollegare tanto ad esigenze di
certezza e ponderazione per la scelta conciliativa, quanto al successivo passaggio
all’omologa22
.
3. L’efficacia esecutiva. L’omologazione ad opera del tribunale e l’istanza di
parte.
Il verbale di raggiunta conciliazione non è immediatamente esecutivo, bensì lo
diventa seguendo due meccanismi posti in successione tra loro23
. Tra i due primeggia il
procedimento di omologa ad opera del tribunale su istanza di parte genericamente
descritto nell’art. 411 comma 1 c.p.c. ed ulteriormente specificato nel successivo
comma 3 dello stesso art. 411 c.p.c. Nell’imporre l’omologa – ai fini dell’esecutività del
verbale - la riforma si discosta dal modello della conciliazione stragiudiziale nelle
controversie di pubblico impiego24
: mentre in quest’ultimo il verbale di conciliazione
costituiva immediatamente titolo esecutivo (art. 66 comma 5 d.lgs. n. 165/2001 abr.)
prima e a prescindere dall’omologa25
– che non era perciò prevista26
- l’attuale versione
dell’art. 411 c.p.c. conferma la necessità dell’exequatur.
La riproduzione in parte qua della vecchia disciplina del tentativo di
conciliazione nelle controversie di lavoro privato che colloca(va) in posizione centrale
l’omologazione va tuttavia calata in un contesto ben diverso; il che, seppure tale
modello aveva un giustificabile fondamento nel previgente sistema, induce a sospettarne
l’inopportunità in quello attuale27
.
l’eliminazione della autenticazione ad opera del presidente del collegio è comprensibile pure da questo
punto di vista: una volta imposto il deposito presso la Direzione provinciale del lavoro, è già con questo
atto (prima dell’omologazione giudiziale) che il verbale di conciliazione diventa titolo esecutivo ai sensi
dell’art. 474 n. 2 c.p.c., essendo previsto il potere del Direttore, o di un suo delegato, di accertarne
l’autenticità (si dubita addirittura per questo motivo dell’opportunità di conservare l’omologa). Sul punto,
vd. amplius infra §§ 3-5. 22
Questo aspetto sarà approfondito infra §§ 3 ss. 23
Più approfonditamente sulla successione di tali meccanismi, vd. infra § 5. 24
Il che deroga alla scelta uguale e contraria fatta per altre disposizioni. Vd. supra §§ 1 e 2. 25
Sul tema vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 375; R. VACCARELLA, Appunti sul
contenzioso, cit., 750; R. VIANELLO, Controversie di lavoro con la p.a.: il nuovo tentativo di
conciliazione, in LG, 1999, 216; M. GRANDI, La composizione stragiudiziale, cit., 801; R. TISCINI, Il
tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in RTDPC, 1999, 1102; ID, Il
tentativo, cit., 41. 26
Non altrettanto però per le controversie di lavoro pubblico, quanto alla conciliazione in sede sindacale
alla quale si applicavano le previsioni dell’art. 411 c.p.c. (R. VIANELLO, op. cit., 216; M. GRANDI, op. cit.,
801). 27
Vd. amplius infra § 5.
6
Il procedimento di omologa non trova descrizione nell’attuale comma 1 art. 411
c.p.c. – il quale si limita a stabilire che “il giudice, su istanza della parte interessata, lo
dichiara esecutivo con decreto” – bensì è collocato nel comma 3 art. 411 c.p.c. In un
primo momento il verbale di conciliazione “è depositato presso la Direzione provinciale
del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale” (art.
411 comma 3 c.p.c.); successivamente, “il direttore, o un suo delegato, accertatane
l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui
circoscrizione è stato redatto” (art 411 comma 3 c.p.c.), ai fini dell’omologa.
Occorre interrogarsi sul valore dell’istanza di parte nel doppio passaggio dal
deposito presso la Direzione provinciale del lavoro, al deposito presso la cancelleria del
tribunale competente per l’exequatur.
Nella vecchia versione della norma, si distingueva la conciliazione raggiunta in
sede amministrativa da quella sindacale28
. Nel primo caso, l’istanza di parte era
necessaria solo per il rilascio dell’omologazione, dal momento che il verbale di
conciliazione poteva essere depositato nella cancelleria del tribunale (oltre che su
istanza di parte, anche) d’ufficio (a cura dell’UPLMO). La specifica domanda di parte
era invece imposta ai fini della concessione dell’exequatur. In altri termini, il deposito
del verbale a cura dell’ufficio non era sufficiente per attribuire allo stesso l’efficacia
esecutiva, essendo a tal fine necessaria anche un’iniziativa della parte interessata (art.
411 comma 2 c.p.c. vecchio testo)29
. In caso di conciliazione in sede sindacale, invece,
vi era un doppio passaggio: il verbale era depositato presso l’UPLMO a cura di una
delle parti, ovvero per il tramite di una associazione sindacale. Il direttore, o un suo
delegato, accertatane l’autenticità, provvedeva a depositarlo nella cancelleria del
tribunale, il quale, su istanza di parte, lo dichiarava esecutivo30
(art. 411 comma 3
c.p.c.).
Questo secondo meccanismo è stato privilegiato e generalizzato a qualunque
forma conciliativa, sia sindacale che amministrativa.
L’attuale sistema prevede un doppio deposito: il primo, presso la Direzione
provinciale del lavoro, compiuto, sia su istanza di parte, sia tramite un’associazione
sindacale. Il secondo, presso il tribunale competente per l’omologa (quello nella cui
circoscrizione il verbale è stato redatto), al fine dell’exequatur (anch’esso subordinato
all’istanza di parte). Probabilmente la scelta di imporre in ogni caso il deposito del
verbale presso la Direzione provinciale punta a dare maggiore certezza e genuinità al
verbale stesso, assicurando garanzie di trasparenza e fedeltà nella ricostruzione della
volontà delle parti31
.
28
Sul tema, vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 361. 29
In questo senso vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 361; G. FABBRINI, Diritto processuale
del lavoro, Milano, 1974, 20; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61. 30
L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61, secondo cui questa soluzione era condivisibile
perché, riconoscendo effetti autonomi e distinti al deposito rispettivamente presso l’UPLMO e presso il
tribunale, consentiva un soddisfacente coordinamento con l’ultimo comma art. 2113 c.c. 31
Inoltre, quando la conciliazione è avvenuta in sede sindacale, il deposito presso l’Ufficio ha lo scopo di
valutare la rappresentatività dell’organizzazione sindacale che ha operato la conciliazione (L.
MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61). Sull’esigenza di accertare l’effettiva funzione di
supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa, vd. Cass., 22-05-2008, n. 13217,
MGL, 2009, 77, con nota di BATTISTA; Cass. 03-09-2003, n. 12858; Cass. 11-12-1999, n. 13910.
7
Quanto all’istanza di parte, vigente il precedente testo, la richiesta doveva essere
esplicita qualora il processo verbale fosse stato depositato nella cancelleria del tribunale
a cura dell’ufficio (ai sensi del comma 2 art. 411 c.p.c. vecchio testo), mentre poteva
ritenersi implicita quando il deposito fosse avvenuto a cura di una delle parti (lettura
questa estesa pure alla conciliazione in sede sindacale)32
.
Nel più articolato sistema dell’attuale versione dell’art. 411 comma 3 c.p.c.
occorre nuovamente interrogarsi sul ruolo dell’istanza di parte. La norma contempla un
primo deposito presso la Direzione provinciale del lavoro su istanza di parte ovvero per
il tramite di un’associazione sindacale. Non si richiede invece l’istanza di parte per il
successivo deposito nella cancelleria del tribunale (compiuto dal direttore dell’ufficio o
da un suo delegato dopo la verifica di “autenticità” del verbale). L’iniziativa di parte
torna ad imporsi per il rilascio dell’esecutività, dal momento che il giudice dichiara
esecutivo il verbale con decreto “su istanza della parte interessata” (art. 411 comma 3
c.p.c.).
Deve allora distinguersi l’ipotesi in cui il deposito presso la Direzione
provinciale del lavoro sia avvenuto su istanza di una delle parti, da quello in cui sia
avvenuto tramite l’associazione sindacale. Nel primo caso - una volta che il direttore
dell’Ufficio o un suo delegato abbiano depositato il verbale nella cancelleria del
tribunale - l’istanza di parte per la concessione dell’exequatur potrebbe anche
immaginarsi come implicita, in quanto presentata una tantum al momento del deposito
presso la Direzione provinciale anche ai fini dell’exequatur. Sarebbe necessaria invece
una manifestazione esplicita di volontà a quest’ultimo fine, qualora il deposito presso
l’Ufficio fosse avvenuto a mezzo dell’associazione sindacale.
In alternativa potrebbe invece ritenersi che – seppure la forte rappresentatività
dell’associazione sindacale è in grado di sostituire la sua volontà a quella della parte,
identificandosi in essa – l’interessato debba partecipare in ogni caso al procedimento di
omologa, non tanto attraverso il deposito presso la cancelleria del tribunale, quanto
manifestando una specifica volontà nel conseguimento dell’exequatur; sicché la volontà
dell’interessato nel chiedere l’omologa dovrebbe essere esplicitata e rinnovata sempre e
comunque, sia che il deposito presso la Direzione provinciale sia avvenuto su istanza
della stessa parte, sia che sia avvenuto per il tramite dell’associazione sindacale.
La domanda di omologa può provenire da qualsiasi parte “interessata”: non
rileva il fatto che il deposito presso l’ufficio sia stato effettuato da una parte e che poi la
richiesta di omologa sia provenuta da altra. Né può imporsi una richiesta congiunta di
entrambe le parti33
.
La scelta per una unica forma di deposito e di exequatur induce a ritenerla
operante tanto per la conciliazione in sede amministrativa, quanto per quella sindacale.
Resta infatti ferma la possibilità per la parte di optare tra una conciliazione o un
arbitrato da svolgersi (oltre che in sede amministrativa) “altresì presso le sedi e con le
modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali
maggiormente rappresentative” (art. 412 ter c.p.c. novellato). Ai sensi dell’art. 410
comma 1 c.p.c., inoltre, il tentativo di conciliazione può essere promosso anche “tramite
32
G. TARZIA, Manuale, cit., 49. 33
L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 57.
8
l’associazione sindacale alla quale [il lavoratore] aderisce o conferisce mandato”34
. In
questo caso, chiarisce l’art. 411 comma 3 c.p.c. che “se il tentativo di conciliazione si è
svolto in sede sindacale ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410”.
Quanto però agli effetti, sia in caso di raggiunto accordo, sia in caso di esito negativo,
nessuna differenza di rilievo distingue le due ipotesi.
4. Il controllo di regolarità formale reso in sede di omologazione. Analogie e
differenze con l’exequatur del lodo.
Ai sensi dell’art. 411 comma 3 c.p.c. “il giudice, su istanza della parte
interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara
esecutivo con decreto”. Il controllo operato dal tribunale in sede di omologa del verbale
di conciliazione è perciò di mera “regolarità formale” (art. 411 comma 3 c.p.c.), per
molti aspetti simile a quello compiuto in sede di exequatur del lodo rituale ex art. 825
c.p.c.35
L’esame verte sulla sola regolarità formale del documento (sull’estrinseco) e
non si estende alla verifica di regolarità nella formazione del collegio di conciliazione
(ivi compresa la censura circa la legittimità nella nomina dei membri della
commissione), né può giungere alla disapplicazione di un provvedimento
amministrativo (soprattutto in relazione alla formazione del collegio)36
. Il tribunale
esamina invece l’osservanza dei termini di composizione della controversia, nonché
accerta che si tratti di una controversia di lavoro ai sensi dell’art. 409 c.p.c.37
L’equiparazione dell’omologa del verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 411
c.p.c. all’exequatur del lodo arbitrale dell’art. 825 c.p.c. ha indotto in passato ad
applicare la disciplina dell’arbitrato a quella conciliativa per tutto quanto quest’ultima
non prevedeva espressamente, non senza sottolinearne le dovute differenze. Quanto a
queste ultime, si è evidenziato il discrimen tra il lodo omologato, equiparabile alla
sentenza (anche con riferimento al suo valore giurisdizionale), rispetto al verbale di
conciliazione, per il quale l’omologa non fa che estendere l’efficacia esecutiva, senza
riflessi su valore e stabilità del titolo. In altre parole, il verbale di conciliazione
34
Una volta tramutato il tentativo da obbligatorio in facoltativo, pare sia venuta meno anche l’esigenza
che la procedura conciliativa di fonte sindacale sia preordinata da fonte collettiva, al fine del suo
esperimento. Nel vecchio regime, mentre, con riferimento al contenzioso di pubblico impiego, pochi
dubbi ruotavano intorno alla necessità che la conciliazione di estrazione sindacale fosse disciplinata nella
fonte collettiva (art. 66 comma 1 d.lgs. n. 165/2001), con riferimento al lavoro privato la disciplina
normativa si mostrava più incerta, anche se dominava la tesi della necessaria preordinazione, alla luce del
regime di obbligatorietà (F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 317 nt. 17; A. NASCOSI, Il tentativo,
cit., 218; D. BORGHESI, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Commentario
diretto da F. Carinci, Milano, 1995, II, 1143). 35
In questo senso già G. TARZIA, Manuale, cit., 50; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 59. 36
G. TARZIA, Manuale, cit., 50. Secondo G. VERDE, Norme inderogabili, tecniche processuali e
controversie di lavoro, RDPr, 1977, 220 ss., spec. 255 il visto di esecutività dovrebbe essere apposto
anche qualora la conciliazione riguardi diritti indisponibili, salva poi la facoltà di impugnazione di tale
conciliazione; ma su quest’ultimo punto vd. la giurisprudenza, secondo cui una volta raggiunta la
conciliazione, si sottrae al sindacato giurisdizionale l’eventuale violazione di disposizioni inderogabili
(Cass. 10 maggio 1988, n. 3425). 37
L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 58. Il provvedimento che concede l’esecutività è da ritenersi
di giurisdizione volontaria con funzione amministrativa (Trib. Firenze, 13-11-1996, in ToscG, 1997, 189).
Vd. su quest’ultimo aspetto anche infra § 6, quanto ai possibili rimedi impugnatori.
9
omologato – a differenza del lodo, che contiene pur sempre un “accertamento” – non
era ritenuto idoneo ad acquistare una stabilità equivalente a quella della sentenza (né
idoneo ad avere la medesima “efficacia”, come è invece per il lodo ai sensi dell’art. 824
bis c.p.c.); unico effetto che l’exequatur era idoneo a realizzare stante nella possibilità di
attribuire l’efficacia di “titolo esecutivo” ad un provvedimento che altrimenti ne sarebbe
stato sprovvisto38
(o almeno che ne sarebbe stato provvisto ma per diverse ragioni39
).
Si impone a questo proposito una precisazione.
Seppure sono innegabili i distinguo di sostanza e forma tra verbale di
conciliazione e lodo, nonché (maiori causa) tra verbale di conciliazione e sentenza, la
stabilità di ciascuno di essi è da valutare sul piano dei relativi contenuti. Si può dubitare
che sussistano differenze incolmabili tra lodo, sentenza e verbale di conciliazione (da
assimilare a qualsiasi atto transattivo), trattandosi di tutti strumenti volti al
componimento di una lite e perciò proiettati sull’attitudine a trasformare la fattispecie
astratta in regola concreta ed a resistere allo ius superveniens40
. Il che si riflette sulla
stabilità dei relativi titoli in sede esecutiva, quanto alla denuncia della loro “ingiustizia”.
In ciascuna di queste ipotesi – quale che sia la natura del titolo, giudiziale o
stragiudiziale – la contestabilità in sede esecutiva della relativa ingiustizia è limitata alle
sole sopravvenienze (salva l’ipotesi di inesistenza del titolo). Sicché, la stabilità del
titolo (“stragiudiziale”) avente fonte nell’autonomia privata (in cui sono impedite le
contestazioni derivate dai fatti costitutivi originari su cui si è raggiunto l’accordo) non si
discosta di molto da quella del titolo giudiziale (assoggettato al regime dell’onere
dell’impugnazione), ovvero del lodo (anche esso vincolato ai rimedi impugnatori).
Divergenze tra l’uno e l’altro titolo sono evidenti invece circa la denuncia delle relative
invalidità. Mentre per la sentenza (ma non diversamente per il lodo), in quanto resi in un
sistema caratterizzato dall’efficacia preclusiva dell’art. 161 c.p.c, le relative invalidità
sono denunciabili esclusivamente in sede di impugnazione (il che restringe l’ambito di
opponibilità ex art. 615 c.p.c.), per l’accordo conciliativo omologato operano le regole
di diritto sostanziale relative all’impugnazione dei contratti (annullabilità o nullità), le
cui dinamiche anche sul piano temporale sono assai più dilatate (addirittura
imprescrittibile l’azione di nullità) ed i cui vizi sono denunciabili pure in sede di
opposizione all’esecuzione41
.
Per tornare allora a quanto qui interessa, il parallelo con l’exequatur del lodo ha
un senso non solo in quanto consente di applicare la relativa disciplina, per ciò che non
è espressamente previsto42
, ma anche perchè non molto diversi sono gli effetti in punto
38
G. TARZIA, Manuale, cit., 51. 39
Su quest’ultimo punto, vd. infra § successivo. 40
Approfondite riflessioni sul tema offrono gli scritti di F.P. Luiso. Per tutti vd. F.P. LUISO, Istituzioni di
diritto processuale civile, Torino, 2009, 194; ID, L’art. 824 bis, in www.judicium.it.; ID, La conciliazione
nel quadro della tutela dei diritti, RTDPC, 2004, 1201; ID, Il futuro della conciliazione: la conciliazione
nel diritto societario e nella riforma del codice di procedura civile, in La via della conciliazione, a cura di
S. Giacomelli, Milano, 2003, 225; ID, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2009, 363 ss. Sul tema vd.
ampiamente anche F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 355. 41
Vd. sul punto F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 374. 42
La riconduzione del regime dell’omologa del verbale di conciliazione all’exequatur del lodo è utile ai
fini dell’individuazione dei rimedi impugnatori, ma sul punto si tornerà (infra, § successivo).
10
di stabilità del titolo esecutivo relativamente alla denuncia della sua “ingiustizia”;
differenze evidenti permangono invece per il sindacato sulla “invalidità”43
.
5. Necessità-opportunità-inopportunità del procedimento di omologa.
Occorre riflettere sulla reale necessità dell’omologa ai fini del conseguimento di
un titolo esecutivo. Se in passato l’omologa costituiva l’unica via per attribuire al
verbale efficacia di titolo esecutivo, lo stesso non può dirsi oggi che – ai sensi dell’art.
474 comma 2 n. 2 c.p.c. - costituiscono titolo esecutivo anche le scritture private
autenticate, seppure limitatamente al pagamento di somme di denaro. Ai sensi dell’art.
411 comma 3 c.p.c., infatti, una volta depositato il verbale di conciliazione presso la
Direzione provinciale del lavoro, il direttore o un suo delegato provvedono ad
accertarne “l’autenticità”; il che basta per attribuire al documento efficacia di titolo
esecutivo, quale scrittura privata autenticata. In altri termini, il verbale non omologato
(ma depositato presso la Direzione proncinciale) non è sprovvisto di efficacia esecutiva,
in quanto scrittura privata autenticata e perciò ex se titolo esecutivo (quanto alla natura
di scrittura privata, nessun dubbio può nutrirsi intorno al fatto che si tratti di una
manifestazione di autonomia negoziale, seppure ottenuta attraverso l’intervento
facilitativo di un terzo; quanto al potere di autenticazione compiuto dal direttore
dell’ufficio o da un suo delegato, non sembra difficile ricondurre tale potere a quello di
un qualsiasi pubblico ufficiale abilitato all’autenticazione della sottoscrizione).
A ben vedere, allora, il verbale di conciliazione non omologato, ma depositato
presso la Direzione provinciale, una volta sottoposto al controllo di autenticità ad opera
del direttore dell’ufficio è già di per sé un titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 n. 2
c.p.c. Il che induce a riflettere sull’utilità di un procedimento di omologa che alla fine
dei conti si rivela un inutile doppione nella prospettiva di effetti che il verbale è già di
per sé in grado di produrre.
Resta da chiedersi se l’omologa compiuta dal presidente del tribunale ai sensi
dell’art. 411 comma 3 c.p.c. assicuri qualche valore aggiunto. Un quid pluris potrebbe
individuarsi nella maggiore ampiezza delle forme esecutive a cui il titolo può dare
luogo, qualora sia omologato. Si può pensare che, mentre il verbale omologato
costituisce titolo per qualsiasi forma di esecuzione forzata, quello solo depositato presso
la Direzione provinciale ma non ancora omologato possa aprire la strada alla sola
espropriazione forzata. Il che vale non già perché l’omologa del tribunale trasforma un
titolo stragiudiziale (il verbale di conciliazione) in titolo giudiziale (il controllo
giudiziale in sede di exequatur non contiene nessun “accertamento” e non basta perciò
per equiparare il titolo stragiudiziale al titolo giudiziale), ma perché - nulla disponendo
in contrario – ad esso può attribuirsi il valore di “atto” ai sensi dell’art. 474 n. 1 c.p.c.44
idoneo perciò a costituire titolo per qualsiasi forma di esecuzione forzata45
.
43
Sul punto vd. anche infra § 9. 44
Era questa d’altra parte la ratio dell’innovazione normativa apportata con la l. n. 80/2005 all’art. 474
comma 2 n. 1 c.p.c.: introducendo la specificazione per cui sono titoli giudiziali anche gli altri “atti” a cui
la legge attribuisce efficacia esecutiva, si è voluto estendere la categoria ai verbali di conciliazione, tanto
“giudiziale” (S. ZIINO, Commento all’art. 474, in La riforma del processo civile, a cura di F. Cipriani e G.
11
D’altra parte, da tempo si ritiene che il verbale di conciliazione stragiudiziale
omologato nelle controversie di lavoro sia titolo per qualsiasi forma esecutiva, seppure
non si esita a sottolinearne i limiti quanto alla sua capacità di vincere l’inerzia del datore
di lavoro assoggettato ad un obbligo di fare. E’ evidente come il titolo produca
proficuamente i suoi effetti per il pagamento di somme di denaro, mentre, quale che sia
la fonte (omologa del tribunale, scrittura privata autenticata ecc.), difficilmente si possa
ottenere in sede esecutiva l’adempimento ad obblighi di fare (si pensi alla reintegra sul
posto di lavoro). L’esecutività del verbale di conciliazione trova cioè un limite generale
nella coercibilità dell’obbligazione in esso sancita46
, nel senso che quando ha per
oggetto, ad esempio, un ordine di reintegra sul posto di lavoro del lavoratore licenziato
ovvero il mutamento di mansioni o altri comportamenti del datore di lavoro, non è facile
dare ad esso esecuzione, trattandosi di comportamenti non surrogabili47
.
Seppure sino ad oggi non si sono nutriti più di tanti dubbi circa la capacità del
verbale omologato di dare luogo ad una esecuzione in forma specifica, qualche dubbio è
lecito esprimere se si guarda alla parallela esperienza del verbale di conciliazione nella
recente disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione del d.lgs. n. 28/2010.
Ai sensi dell’art. 12 comma 2 d.lgs. n. 28/2010, il verbale di conciliazione – omologato
dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo - “costituisce titolo
esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per
l’iscrizione di ipoteca giudiziale”. Si potrebbe pensare che ubi lex voluil dixit, ubi noluit
tacuit. Sicché, non prevedendo nulla di esplicito nel caso che qui interessa, il verbale di
conciliazione omologato nelle controversie di lavoro sia idoneo a costituire titolo
esecutivo per la sola espropriazione forzata48
.
E’ quest’ultima però una soluzione che, non solo contrasta con il dato esplicito
dell’art. 474 n. 1 c.p.c., nonché con la posizione prevalsa in passato nel senso di
estendere l’efficacia di titolo a qualsiasi forma esecutiva (seppure con i limiti in punto di
concreta attuabilità), ma anche impone un limite all’efficacia del verbale probabilmente
inopportuno. Per non dire che – se così fosse – il procedimento di omologa veramente
nulla aggiungerebbe rispetto all’efficacia del verbale prima dell’omologa stessa, ma
dopo il deposito presso la Direzione provinciale, già di per sé idoneo a costituire titolo
per l’espropriazione forzata alla stregua di qualsiasi scrittura privata autenticata49
.
Monteleone, Padova, 2007, 192 ss., spec. 195; R. ORIANI, Titolo esecutivo, opposizioni, sospensione
dell’esecuzione, FI, 2005, IV; 105; S. IZZO, Commento all’art. 474, in Commentario alle riforme del
codice di procedura civile. Il processo esecutivo, a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, 1
ss., spec. 11), quanto “stragiudiziale” (D. DALFINO, Il titolo esecutivo e il precetto, a cura di G. Miccolis e
C. Perago, Torino, 2009, 7 ss., spec. 21; F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 356). Vd. sul tema, B.
CAPPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2010, 100. 45
Infra nel testo. 46
G. TARZIA, Manuale, cit., 52. Su questi temi, vd. approfonditamente, B. SASSANI, Dal controllo del
potere all’attuazione del rapporto, Milano, 1997, 203 ss. 47
Così specificamente G. TARZIA, Manuale, cit., 52. 48
A commento dell’art. 12 cit. si è infatti notato che la precisazione legislativa ha il precipuo scopo di
estendere l’efficacia di titolo per qualsiasi forma esecutiva – così assimilando tale titolo alla sentenza – il
che non potrebbe essere qualora non fosse espressamente previsto. 49
Resta da chiedersi perché il legislatore non abbia privilegiato la scelta fatta propria dall’abrogato art. 66
comma 5 d.lgs. 165/2001, per le controversie di pubblico impiego, di riconoscere immediata efficacia di
titolo esecutivo al verbale di conciliazione a prescindere dall’omologa, soprattutto tenuto conto del fatto
che quest’ultima non attribuisce alcuna certezza al titolo.
12
6. L’impugnabilità del decreto di omologa.
Le analogie tra l’omologa del verbale di conciliazione e l’exequatur del lodo50
non devono spingere a ritenere il primo (quando omologato) impugnabile con
l’impugnazione per nullità (non operano gli artt. 827 e 829 c.p.c.)51
, mentre consentono
di ritenere applicabile al procedimento dell’art. 411 c.p.c. la disciplina dell’art. 825
comma 3 c.p.c. quanto alla reclamabilità del provvedimento (positivo o negativo) del
tribunale.
Non è questa tuttavia l’unica opzione possibile, né allo stato possono offrirsi
risposte certe. Basti qui prospettare le diverse opzioni richiamando (anche) quelle
invocate con riferimento all’omologa del verbale di conciliazione dell’art. 12 d.lgs. n.
28/201052
. In caso di rigetto dell’omologa, a fronte di chi ritiene senz’altro applicabile il
reclamo dell’art 825 c.p.c. (alla corte d’appello nel termine di trenta giorni) in piena
equiparazione con l’omologa del lodo53
, altri propongono lo schema dei procedimenti
camerali unilaterali54
, con conseguente reclamabilità del relativo provvedimento ai sensi
dell’art. 739 c.p.c.55
, su iniziativa di colui che abbia chiesto l’omologa56
. In ipotesi di
accoglimento, il destinatario della misura contenuta nel verbale – non essendo parte
della procedura camerale – se ne può dolere proponendo opposizione all’esecuzione
ovvero il reclamo contro i provvedimenti camerali57
.
Quale che sia la soluzione da prediligere, il rimedio impugnatorio avente ad
oggetto direttamente il provvedimento di omologa lascia in ogni caso impregiudicata
50
Su cui vd. supra § 4. 51
G. TARZIA, op. loco cit.; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op loco cit. 52
D’altra parte, il problema della reclamabilità del provvedimento di omologa è anteriore alle recenti
riforme e interessa da sempre qualsiasi procedimento che in materia conciliativa punta ad attribuire
efficacia esecutiva ad un verbale di conciliazione reso in sede stragiudiziale attraverso l’intervento –
seppure limitato ad un controllo di regolarità formale – dell’autorità giudiziaria. Vd. approfonditamente
sul tema, F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 380. 53
D. DALFINO, Dalla conciliazione societaria alla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle
controversie civili”¸in www.judicium.it, § 7; E. FABIANI.-M. LEO, Prime riflessioni sulla “mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di cui a.lgs. n. 28/2010, in
www.judicium.it, § 10.3 54
Nella corrispondente conciliazione societaria, taluno – rimanendo sempre nell’ambito dei procedimenti
camerali - ha ritenuto applicabile la disciplina dei camerali plurilaterali (A. NASCOSI, La conciliazione
stragiudiziale societaria a quattro anni dalla sua introduzione, RTDPC, 2008, 559). 55
In questo senso N. PICARDI, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2010, 672, quale criterio
generale per tutti i provvedimenti di omologa di un verbale di conciliazione. Con riferimento alla
conciliazione del d.lgs. n. 28/2010, M. FABIANI, Profili critici del rapporto tra mediazione e processo, in
www.judicium.it, § 2; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione nella prospettiva europea: note
a prima lettura, RTDPC, 2010, 665. 56
Dovrebbe poi escludersi l’ammissibilità del ricorso in cassazione ex art. 111 comma 7 cost. avverso il
decreto reso in sede di reclamo, data la mancanza tanto di decisorietà, quanto di definitività (così M.
FABIANI, Profili critici, cit., § 2). 57
M. FABIANI, Profili critici, cit. § 2; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova cit., 665. In senso
sostanzialmente corrispondente M. BOVE, La riforma in materia di conciliazione tra delega e decreto
legislativo, RDPr, 2010, 344 ss., spec. 351, secondo cui, se il presidente del tribunale concede
l’exequatur, il contro-interessato può sempre fare opposizione all’esecuzione, se invece l’exequatur è
negato, colui che lo aveva chiesto probabilmente può fare reclamo.
13
ogni questione relativa alla validità/invalidità dell’accordo (privato) di composizione
della controversia58
.
7. Verbale di conciliazione e validità delle rinunce e transazioni ai sensi
dell’art. 2113 c.c.
Tenuto conto del rinvio generale che l’art. 2113 c.p.c. continua a fare all’art. 411
c.p.c., e tenuto conto del fatto che tale norma opera per il tentativo di conciliazione, nei
rapporti di lavoro, tanto alle dipendenze di privati, quanto di pubbliche amministrazioni
(una volta abrogato l’art. 66 d.lgs n. 165/200159
), anche il tentativo di conciliazione del
novellato art. 411 c.p.c. è sottratto all’invalidità di rinunce e transazioni dello stesso art.
2113 comma 1 c.c.60
Resta fermo il principio diffuso (pacificamente condiviso non solo
dal legislatore ma anche dalla giurisprudenza), secondo cui l’accordo conciliativo
effettuato per l’intervento facilitativo di un terzo investito di pubblica funzione (giudice,
autorità amministrativa, associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la
presunzione di non libertà del consenso del lavoratore; il che abilita a sottrarre il
negozio transattivo stipulato in sede conciliativa – giudiziale o stragiudiziale – alla
disciplina generale dell’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi61
.
8. Verbale di mancata conciliazione.
Il comma 2 art. 411 c.p.c. riproduce il vecchio testo dell’art. 412 c.p.c. e si
occupa del verbale di mancata conciliazione. Anche sul punto, la riforma si ispira –
riproducendone a tratti in maniera fedele i contenuti – alla conciliazione stragiudiziale
nei rapporti di pubblico impiego62
.
Se l’accordo non si raggiunge, “la commissione di conciliazione deve formulare
una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è
accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni
espresse dalle parti” (art. 411 comma 2 c.p.c.).
58
Così specificamente, F. SANTAGADA, La conciliazione¸cit., 380. Il che vale quale che sia la disciplina
applicabile al reclamo, sia quella dell’art. 825 c.p.c., sia quella dell’art. 739 c.p.c., in entrambi i casi
identiche essendo le censure sollevabili in sede di reclamo. 59
Art. 31 comma 9 (vd. supra § 1). 60
L’art. 2113 comma 4 c.c. è stato modificato dall’art. 31 comma 7 l. n. 183/2010, ma con interventi di
mero coordinamento rispetto alla nuova disciplina; nessuna innovazione sostanziale contiene la
disposizione. 61
Cass., 19-08-2004, n. 16283, in NGL, 2005, 143; Cass., 18-08-2004, n. 16168; Cass., 26-07-2002, n.
11107, RGL, 2003, II, 419; Cass., 12-12-2002, n. 17785, ivi, 2003, II, 607; Cass. 3 aprile 2002, n. 4730,
RCDL, 2002, 785. 62
Analogamente vd. supra § 1.
14
La disposizione, dopo aver attribuito alla commissione di conciliazione il
dovere63
di formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia, non
contempla l’ipotesi in cui la proposta sia accettata. E’ pacifico tuttavia64
che ove ciò
accada il verbale di conciliazione possa acquistare l’efficacia di titolo esecutivo. Mentre
però nella vigenza dell’abrogato art. 66 d.lgs. n 165/2001 la questione era facilmente
risolvibile nel senso che il verbale di conciliazione acquistasse l’efficacia di titolo
esecutivo al pari di quello avente ad oggetto un accordo raggiunto direttamente tra le
parti65
, la nuova disciplina impone un passaggio ulteriore, dal momento che, affinché il
processo verbale diventi titolo esecutivo, è richiesta l’omologa (art. 411 comma 1
c.p.c.); sicché la sua esecutività non è elemento intrinseco al documento (fermo restando
quanto detto circa l’attitudine del verbale a costituire titolo una volta autenticato dal
direttore della Direzione provinciale66
) ma esterno e dipendente dall’avvenuto deposito.
Anche in caso di conciliazione raggiunta su proposta della commissione opera il
comma 3 art. 411 c.p.c., laddove contempla il deposito del processo verbale
inizialmente presso la Direzione provinciale, e poi presso la cancelleria del tribunale
competente per l’omologazione. E’ quest’ultima infatti una disciplina generale – il che è
confermato dalla sua collocazione sistematica al termine dell’art. 411 c.p.c. – che vale,
sia qualora la conciliazione sia raggiunta sulla base delle richieste e delle indicazioni
formulate dalle parti, sia nel caso in cui l’accordo conciliativo sia raggiunto su
sollecitazione della commissione, attraverso la formulazione di una apposita “proposta”.
In altri termini, e per concludere sul punto, il verbale di conciliazione che rechi un
raggiunto accordo (quale che sia la fonte ed il contributo in proposito della
commissione) deve sempre potersi omologare ai sensi dell’art. 411 comma 3 c.p.c.67
Se la proposta formulata dalla commissione non è accettata, “i termini di essa
sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti”. In
misura non molto diversa dal previgente regime, deve ritenersi che l’indicazione nel
verbale negativo delle valutazioni espresse dalle parti circa la proposta conciliativa
formulata dalla commissione non hanno il senso di ammissioni rilevanti nella
successiva fase giurisdizionale, potendo piuttosto valere quali offerte contrattuali e non
dichiarazioni di scienza68
. Esse possono tuttavia incidere sul successivo processo, sia
quanto ai poteri valutativi del giudice, sia quanto alla ripartizione delle spese69
.
9. Gli effetti sul giudizio della mancata conciliazione stragiudiziale.
63
Critico su tale “dovere” R. PESSI, La protezione giurisdizionale, cit., § 7, tenuto conto del fatto che
“manca l’autorevolezza dell’organo che prospetta l’ipotesi conciliativa; e conseguentemente la proposta
non può pesare sul mediatore del conflitto”. 64
Il che valeva anche con riferimento all’abrogato art. 66 comma 6 d.lgs. n. 165/2001. Cfr. LUISO, La
conciliazione giudiziale, cit., 375. 65
Così specificamente F.P. LUISO, op. loco cit. 66
Vd. supra § 5. 67
Valgono anche con riferimento alla proposta formulata dalla commissione e consacrata nell’accordo,
quindi, le considerazioni svolte circa la necessità (o meno) dell’omologa ai fini del conseguimento del
titolo esecutivo (supra § 5). 68
In questo senso, vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 362; R. TISCINI, Il tentativo, cit., 23;
R. VIANELLO, Controversie, cit., 224. 69
Vd. infra § successivo.
15
Il fallimento del tentativo di conciliazione ha ripercussioni nel successivo
giudizio, in quanto “delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non
accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio” (art. 411
comma 2 c.p.c.). Nella sostanza, la norma ripropone il senso del vecchio art. 66
comma 7 cit., secondo cui “il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti in fase
conciliativa ai fini del regolamento delle spese”, nonché quello dell’originario art. 412
comma 4 c.p.c., secondo cui “delle risultanze del verbale di cui al primo comma il
giudice tiene conto in sede di decisione sulle spese del successivo giudizio”.
Seppure la riforma elimina l’espresso riferimento alla liquidazione delle spese di
lite, è ipotizzabile che sia questo l’effetto tipico del comportamento delle parti durante
la fase conciliativa rispetto al successivo giudizio70
. Riversare sul processo le
conseguenze del comportamento delle parti nella fase stragiudiziale non è certo una
novità71
. In linea generale – soprattutto di recente - tali conseguenze sono state
immaginate sotto il profilo della condanna alle spese, sino al punto di sostituire al
criterio della soccombenza quello di causalità. Qualora infatti le parti abbiano rifiutato
una proposta conciliativa senza adeguata motivazione e poi la sentenza abbia deciso in
conformità a tale proposta, la parte che l’ha rifiutata può essere considerata colei che ha
dato causa al processo; del che il giudice deve tenere conto ai fini della condanna alle
spese72
. Si tratta di una regola che il d.lgs. n. 28/2010 - nel generalizzare il modello
conciliativo stragiudiziale – ha estremizzato. Ai sensi dell’art. 13 d.lgs. cit., infatti
“quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto
della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte
vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione
della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente
relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di
un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta
ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile”. Così descritte,
le conseguenze sul processo del comportamento delle parti nella fase stragiudiziale sono
esageratamente pesanti, rischiando di produrre effetti eccessivi ed indesiderati sulla
distribuzione delle spese di lite. Non molto diverso è il senso – seppure riferibile alla
conciliazione giudiziale – dell’art. 91 comma 1 c.p.c. come modificato dalla l. n.
69/2009, secondo cui se il giudice “accoglie la domanda in misura non superiore
70
Già sotto la vigenza del precedente testo, peraltro, si era notato come imporre l’incidenza delle
posizioni assunte dalle parti in fase conciliativa sul riparto delle spese nel futuro giudizio, rischia di
rivelarsi meccanismo dai modesti risultati se non si incide sul principio della soccombenza dell’art. 91
c.p.c. (R. VACCARELLA, Appunti, cit., 746). Anche da questo punto di vista, tuttavia, il sistema normativo
sembra essere considerevolmente cambiato. 71
Già in commento al vecchio testo dell’art. 412 c.p.c., si era notato come la possibilità per il giudice di
tenere conto del verbale di mancata conciliazione in sede di decisione sul successivo giudizio riproduce il
modello nordamericano in tema di court annexed arbitration, il cui lodo può venire disconosciuto, ma
con conseguenze negative sulle spese, se davanti al giudice non si riesce a migliorare sostanzialmente il
risultato ottenuto davanti all’arbitro (S. CHIARLONI, Prime riflessioni su riforma del pubblico impiego e
processo, CG, 1998, 625 ss., spec. 628). 72
Così con riferimento al vecchio testo dell’art. 412 c.p.c., vd. F.P. LUISO, La conciliazione, cit., 362; ID,
Commento sub. art. 412, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, a cura di M. Dell’Olio e B.
Sassani, cit., 471.
16
all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato
motivo la proposta di pagamento delle spese del processo maturate dopo la
formulazione della proposta”.
E’ evidente la funzione di tali regole di incentivare il raggiungimento
dell’accordo conciliativo, nella prospettiva di deflazionare il contenzioso civile73
. Si
tratta di soluzioni normative comprensibili ed anche parzialmente condivisibili, ma alla
condizione che le conseguenze del mancato accordo in sede conciliativa non siano sul
processo devastanti, come pare invece contemplare l’art. 13 d.lgs. n. 28/2010. Sostituire
il principio di causalità a quello di soccombenza non viola principi fondamentali del
sistema processuale ed anzi ha un senso, ma alla condizione che la diversa ripartizione
delle spese non si risolva in una seria minaccia che, coartando la volontà privata,
imponga di abdicare al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 cost.).
Ma vi è di più. La maggiore genericità della formula utilizzata dall’attuale art.
411 comma 3 c.p.c. (rispetto all’anteriore testo dell’art. 412 c.p.c.) – evocativa del
potere del giudice di “tenere conto del comportamento delle parti in sede conciliativa” –
induce a pensare che gli effetti del comportamento delle parti in sede stragiudiziale sul
processo siano ulteriori e diversi dalla sola condanna alle spese. Il giudice può ad
esempio trarre dai verbali di mancata conciliazione degli “argomenti di prova”. Siffatta
lettura è in linea con l’attuale art. 8 d.lgs. n. 28/2010, secondo cui “dalla mancata
partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può
desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo
comma, c.p.c.”.
In altri termini, il comportamento delle parti in fase conciliativa è destinato a
riflettersi sul processo, sia quanto al regime delle spese di lite, sia quanto alla
formazione del convincimento del giudice per la decisione di merito. Il che, seppure
comprensibile e condivisibile, non va portato ad estreme conseguenze74
. Non può
negarsi alla parte che lo voglia esercitare un “diritto alla sentenza”, dal momento che
basta anche un solo elemento migliorativo che la sentenza è in grado di produrre rispetto
all’atto negoziale per giustificare la volontà di rifiutare la proposta e puntare alla
decisione giurisdizionale. Vi sono in effetti alcune differenze tra il verbale di
conciliazione e il provvedimento giurisdizionale tali da giustificare l’interesse per
quest’ultimo a scapito del primo. Non è questa la sede per entrare nello specifico del
problema; basti tuttavia accennare al fatto che la questione ruota (in primis75
) intorno
alla stabilità dei rispettivi titoli in sede esecutiva, id est alla loro capacità di resistere alle
iniziative oppositorie ex art. 615 c.p.c. L’individuazione sotto questo profilo di almeno
un elemento differenziale tra sentenza ed accordo conciliativo costituisce ragione
necessaria e sufficiente per giustificare l’interesse della parte a chiedere la sentenza
senza arrestarsi all’accordo conciliativo.
73
Sempreché vi siano spazi per il raggiungimento di un accordo in sede conciliativa. 74
Sembra invece esagerare l’esigenza di disincentivare l’accesso al giudizio in favore dell’accordo
conciliativo la disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione del d.lgs. n. 28/2010 (in
particolare, artt. 8 e 13 d.lgs. cit.). Sul punto vd. R. TISCINI, Vantaggi e svantaggi della nuova mediazione
finalizzata alla conciliazione: accordo e sentenza a confronto, in Giust. civ., in corso di pubblicazione. 75
Ma vd. anche infra nel testo quanto all’actio iudicati.
17
Si è già accennato in precedenza76
ad analogie e differenze tra sentenza, lodo ed
atto negoziale (in primis, la transazione, ma non diversamente l’accordo conciliativo77
)
aventi finalità di componimento della lite. Si è già accennato alla corrispondenza di
ciascuno di questi titoli quanto alla “forza di resistenza” in sede esecutiva rispetto ad
opposizioni di merito volte a denunciare l’ingiustizia dell’esecuzione ed alle differenze,
invece, tra gli uni e gli altri, quanto alla denuncia delle relative invalidità. E’ da
quest’ultimo punto di vista che si può apprezzare l’interesse delle parti a rinunciare
all’accordo stragiudiziale per puntare alla sentenza.
In estrema sintesi. La maggiore capacità di resistenza in sede esecutiva di cui
gode la sentenza rispetto all’accordo negoziale con funzione transattiva (tutti titoli
corrispondenti nel contenuto, in quanto volti al componimento della lite), lungi dal
dipendere dalla distinzione tra titoli giudiziali e stragiudiziali, va valutata sul piano del
regime delle relative invalidità. Il che però è quanto basta per giustificare la scelta della
parte (che perciò deve poter esprimere liberamente) in favore di una sentenza,
rinunciando all’accordo conciliativo.
Per non dire poi che tra verbale di conciliazione e titolo giudiziale vi sono
ulteriori divergenze che nuovamente rendono più appetibile il secondo in danno del
primo. A differenza che per il lodo omologato78
o per la sentenza, non opera per il
verbale di accordo omologato la c.d. actio iudicati dell’art. 2953 c.c. (le prescrizioni
brevi sono trasformate in prescrizioni decennali solo a seguito della pronuncia di
sentenza passata in giudicato). Si tratta anche qui di una deminutio in punto di effetti del
verbale di accordo rispetto al titolo esecutivo giudiziale (sentenza in primis), che tuttora
rende più appetibile il secondo (quando idoneo al giudicato79
) rispetto a quello
(stragiudiziale) che al giudicato non conduce (categoria — quest’ultima — alla quale
appartiene senz’altro il verbale di conciliazione omologato).
Tenuto conto della continuità tra fase conciliativa e processo, qualora a
quest’ultimo si giunga a seguito del fallimento della prima, l’art. 411 comma 3 c.p.c.
stabilisce che “ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso
depositato ai sensi dell’art. 415 devono essere allegati i verbali e le memorie
concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito”. La disposizione ha lo scopo di
fornire al giudice la documentazione necessaria per avere conoscenza di modalità e
termini nello svolgimento della conciliazione, nonché per indurre lo stesso giudice a
76
Vd. supra § 4. 77
Sull’assimilazione tra transazione ed accordo conciliativo, vd. Cass., 13-09-2004, n. 18343, secondo
cui è riconducibile entro la nozione di transazione della lite ogni più ampia accezione di accordo che
abbia l’effetto di estinguere la controversia senza l’intervento del giudice, anche se privo dei requisiti di
sostanza e di forma del contratto disciplinato dagli artt. 1965 c.c., ivi compresa la conciliazione ai sensi
dell’art. 411 c.p.c. 78
Sull’applicazione dell’art. 2953 c.c. al lodo omologato non più impugnabile, cfr. F. AULETTA,
Commento all’art. 824 bis, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. Meschini, Padova, 2010,
420 ss., spec., 427; F. CARPI, in Arbitrato. Commentario diretto da F. Carpi, Bologna 2007, Sub art. 824-
bis c.p.c., 584 ss., spec. 595; E. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 824 bis, in Commentario alle riforme
del processo civile, a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, 972. 79
L’applicazione dell’art. 2953 c.c. ai titoli giudiziali dipende dalla loro attitudine alla formazione del
giudicato. Con la conseguenza che, ove il titolo, seppure giudiziale, non è idoneo al giudicato, esso non
ha la capacità di trasformare le prescrizioni brevi in prescrizioni decennali. Il che accade ad esempio nei
provvedimenti (pur sempre decisori) ma incapaci di stabilizzarsi. Sul tema si rinvia a R. TISCINI, I
provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 280.
18
decidere – sia quanto alla condanna alle spese, sia quanto alla formazione del proprio
convincimento sulla questione di merito – alla luce del comportamento delle parti in
sede conciliativa.
10. Proposte di soluzione parziale nel verbale di mancata conciliazione.
Dell’art. 412 c.p.c. vecchio testo, il nuovo art. 411 c.p.c. non contiene più la
regola secondo cui nel verbale di mancata conciliazione “le parti possono indicare la
soluzione anche parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile
l’ammontare del credito che spetta al lavoratore”. La disposizione è inserita nel
successivo art. 412 c.p.c. nel quale si stabilisce che in qualsiasi fase del tentativo di
conciliazione o al suo termine, in caso di mancata riuscita “le parti possono indicare la
soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile il
credito che spetta al lavoratore”; in alternativa a tale possibilità, le parti possono
accordarsi per la risoluzione della lite in via arbitrale affidando il mandato alla stessa
commissione di conciliazione80
.
11. L’esecutività del verbale di accordo conciliativo in ipotesi di intervento
ispettivo avanti alla Direzione provinciale del lavoro.
Dell’esecutività del verbale di accordo conciliativo stragiudiziale la l. n.
183/2010 si occupa anche in altro e più limitato contesto, intervenendo con l’art. 38 l.
cit. sulla cd. conciliazione monocratica dell’art. 11 d.lgs. n. 124/2004 in tema di
“razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro”
(cd. Legge Biagi).
Nel contemplare una procedura conciliativa stragiudiziale a carattere facoltativo
da svolgersi avanti ad un funzionario – anche con qualifica ispettiva – della Direzione
provinciale del lavoro, l’art. 11 cit. individua due diverse procedure, l’una “preventiva”
e l’altra “contestuale”81
. La prima si svolge “nelle ipotesi di richieste di intervento
ispettivo alla direzione provinciale del lavoro dalle quali emergano elementi per una
soluzione conciliativa della controversia”82
(art. 11 comma 1 cit.); la seconda può avere
80
La creazione di una continuità tra conciliazione ed arbitrato – fenomeno peraltro non nuovo nel sistema
processuale – è da salutare con favore in quanto la volontà delle parti espressa in sede conciliativa
(volontà che opera non solo per giungere ad un accordo, ma anche per scegliere la strada della ADR), è la
stessa che dovrebbe condurre verso l’arbitrato irrituale. Sui pregi e difetti di questo modello di arbitrato,
vd. TISCINI, Nuovi disegni di legge sulle controversie di lavoro tra conciliazione e arbitrato, in MGL,
2010, 372; LICCI, L’arbitrato, … 81
Sulla differenza tra le due forme conciliative, vd. F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 328. 82
Diverse sono le novità della forma conciliativa qui in esame (sul tema vd. Approfonditamente D.
MESSINEO, La nuova conciliazione monocratica nella riorganizzazione dei servizi ispettivi, LG, 2005,
718; F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 319; F. FOGLIA, I servizi ispettivi nel sistema riformato e
deflazione del contenzioso, LG, 2006, 426; ZACCARDELLI, La conciliazione monocratica, RGL, 2005, I,
839). A parte la facoltatività del tentativo (il che derogava, allora, all’obbligatorietà contemplata nella
fase stragiudiziale per tutte le controversie di lavoro ex art. 410 ss. c.p.c.), risalta la monocraticità
dell’organo competente a tentare la conciliazione (il che va in controtendenza rispetto alla collegialità
tipica della figura del conciliatore nelle controversie di lavoro), nonché il fatto che la funzione
19
luogo quando è già in corso l’attività di vigilanza “qualora l’ispettore ritenga che
ricorrano i presupposti per una soluzione conciliativa” (art. 11 comma 6 cit.). In
entrambi i casi, una volta raggiunto, l’accordo è inserito in un verbale sottoscritto dalle
parti al quale non si applicano le disposizioni dell’art. 2113, commi 1, 2 e 3 c.c. (art. 11
comma 3 d.lgs. cit.).
Di tale disciplina si è da subito riconosciuta la lacunosità quanto all’attitudine
del verbale a costituire titolo esecutivo83
; il che ne avrebbe impedito di fatto la pratica
utilizzabilità84
. La lacuna avrebbe potuto colmarsi includendo tale verbale tra i titoli
esecutivi dell’art. 474 n. 2 c.p.c. quale scrittura privata autenticata85
, ma era questa una
soluzione, seppure mossa dal comprensibile sforzo di sopperire al vuoto normativo,
contraddetta dal fatto che nessuna disposizione consentiva di attribuire al funzionario,
chiamato a svolgere il ruolo di conciliatore, il potere di autenticare la firma delle parti.
Non vi era cioè una disposizione – analoga a quella prevista nell’art. 411 c.p.c. vecchio
e nuovo testo - capace di attribuire il potere di certificare l’autenticità della
sottoscrizione né al funzionario, né al Direttore della Direzione provinciale, né ad altro
soggetto da quest’ultimo delegato86
. La riconduzione entro la categoria dell’art. 474 n.
2 c.p.c. era perciò soluzione piuttosto forzata.
Alla lacuna normativa ha posto riparo l’art. 38 l. n. 183/2010, il quale aggiunge
un comma 3 bis all’art. 11 d.lgs. n. 124/2004, secondo cui il verbale (positivo) di
conciliazione (di cui al comma 3 art. 11 cit.) “è dichiarato esecutivo con decreto del
giudice competente, su istanza della parte interessata”.
Pure apprezzando l’intento di aver colmato il vuoto normativo in un contesto
processuale che tuttora attribuisce carattere tassativo al catalogo dei titolo esecutivi (ivi
compresi quelli aventi finalità di composizione della lite), qualche riserva può nutrirsi
intorno alla scelta di ricostruirne i presupposti per le vie dell’omologazione. Non
diversamente da come avrebbe potuto essere per l’art. 411 c.p.c. (ma che non è stato,
dato che anche in quel caso la riforma ha imposto l’omologa87
), analogo risultato
avrebbe potuto conseguirsi attraverso altra strada, attribuendo direttamente efficacia di
titolo esecutivo al verbale di conciliazione88
, senza necessità di passare per l’omologa.
Peraltro, nell’imporre l’omologazione ad opera del “giudice competente”, il
nuovo comma 3 bis art. 11 cit. si mostra fin troppo generico. La corrispondente
disciplina della conciliazione stragiudiziale nelle controversie di lavoro trova una
puntuale descrizione nell’art. 411 comma 3 c.p.c. novellato che individua quale giudice
competente quello nella cui circoscrizione il verbale è stato redatto. Non ugualmente nel
conciliativa viene affidata a funzionari con qualifica ispettiva, il che “realizza una sostanziale
trasformazione della figura dell’ispettore che non è più (solo) investito di compiti repressivi, ma,
nell’ottica della prevenzione e dell’efficienza, viene investito anche di una anomala funzione di
prevenzione e composizione della controversia” (F. CUOMO ULLOA, op. cit., 319). 83
Per queste osservazioni, vd. F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26. 84
Non potendo il lavoratore recuperare coattivamente le somme concordate, nessuno mai sarebbe stato
incentivato a promuovere la conciliazione – peraltro facoltativa – in quanto esposto al rischio del mancato
adempimento spontaneo. 85
F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26. 86
Così invece nell’art. 411 c.p.c. vecchio e nuovo testo, per il quale vd. supra §§ precedenti. 87
Vd. supra § 5. 88
Come d’altra parte era ai sensi dell’art. 66 d.lgs. n. 165/2001 per le controversie di pubblico impiego,
disposizione oggi abrogata (vd. supra §§ 3 ss.).
20
nuovo art. 11 comma 3 bis, cit. il quale evoca solo il “giudice competente” senza
ulteriori criteri per la sua individuazione. Né vi sono indici rivelatori della natura del
sindacato giudiziale (formale o sostanziale, intrinseco o estrinseco) da compiere in sede
di exequatur. Applicando analogicamente l’art. 411 c.p.c. (se di analogia,
nell’applicazione di norma processuale si può parlare) le lacune sembrano potersi
colmare nel senso che giudice competente è il tribunale nella cui circoscrizione il
verbale è stato redatto, il quale è chiamato a svolgere un controllo di mera “regolarità
formale”89
.
Anche qui si impone l’istanza di parte e la decisione sull’omologa nelle forme
del “decreto”.
Nessuna modifica è invece apportata ad una ulteriore via conciliativa
contemplata per l’ipotesi di “diffida accertativa per crediti patrimoniali” del successivo
art. 12 d.lgs. n. 124/2004. In quest’ultimo caso “qualora nell’ambito dell’attività di
vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti
patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del
lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli
accertamenti” (art. 12 comma 1 cit.). Entro trenta giorni dalla notifica della diffida
accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la
Direzione provinciale del lavoro. Ove si raggiunga l’accordo (con verbale sottoscritto
dalle parti), il provvedimento di diffida perde efficacia ed al verbale stesso non si
applica l’art. 2113, commi 1, 2 e 3 c.c. Qualora invece il datore di lavoro non promuova
il tentativo, ovvero non si raggiunga l’accordo (attestato da apposito verbale) il
provvedimento di diffida acquista, con provvedimento del direttore della Direzione
provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, ed ha efficacia di titolo esecutivo
(art. 12 commi 2 e 3 d.lgs. cit.).
Di nuovo, non è prevista espressamente l’efficacia di titolo esecutivo del verbale
di conciliazione, contemplata per il solo provvedimento di diffida, nell’ipotesi in cui il
tentativo di conciliazione non sia presentato ovvero fallisca. Non è cioè stabilito che
acquisti efficacia di titolo il verbale (positivo) conciliazione, bensì il solo
provvedimento di diffida, qualora la conciliazione non riesca (o non sia esperita)90
. Né
può pensarsi che tale verbale non possa contenere mai disposizioni idonee a costituire
titolo esecutivo (aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro); è piuttosto
probabile che il raggiungimento dell’accordo (dotato di finalità transattive e perciò
proiettato verso le “reciproche concessioni”), seppure contenente l’obbligo di
pagamento di somme inferiori rispetto a quelle indicate nel provvedimento ispettivo,
abbia pur sempre un contenuto condannatorio.
Si può allora invocare anche a questo proposito l’art. 11 comma 3 bis cit.
innovativamente introdotto dall’art. 38 l. n. 183/2010, e perciò ritenere che il verbale di
conciliazione redatto a seguito di diffida compiuta dal personale ispettivo nei confronti
89
Sui limiti al sindacato sulla “regolarità formale” si rinvia al commento supra § 4. 90
Vigente la precedente disciplina, F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26 notava che in
caso di diffida accertativa la legge espressamente riconosce efficacia di titolo esecutivo, ma ometteva di
considerare che tale efficacia era (ed è) attribuita al solo provvedimento di diffida, non anche al verbale di
conciliazione. Sicché, dal punto di vista dell’efficacia di tale verbale, tra la disciplina dell’art. 11 e quella
dell’art. 12 tanta differenza non vi era.