oltre il muro

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di Christian Elia, Marotta&Cafiero editori

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CHRISTIAN ELIA

OLTRE IL MURO

Storie di comunità divise

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In copertina:

Copertina di:

Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons “Attribuzione Non

Commerciale - Non opere derivate 2.0”, consultabile in rete all’indirizzo

http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero e può essere ri-

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Tu sei libero:• di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico,rappresentare, eseguire o recitare l'opera.Alle seguenti condizioni:Attribuzione. Devi riconoscere il contributo dell'autore originario.Non commerciale. Non puoi usare quest'opera per scopi commerciali.Non opere derivate. Non puoi alterare, trasformare o sviluppare quest’opera. • In occasione di ogni atto di riutilizzazione o distribuzione, devi chiarireagli altri i termini della licenza di quest'opera. • Se ottieni il permesso dal titolare del diritto d'autore, è possibile rinuncia-re ad ognuna di queste condizioni.

ISBN: 978-88-88234-83-0©2010 Marotta & Cafiero editori

Via Andrea Pazienza 25 - 80144 Napoliwww.marottaecafiero.it - E. Mail: [email protected]

2010 © coppola editoreVia Giudecca, 15 - 91100 Trapani

www.coppolaeditore.com - E. Mail: [email protected]

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A mia madre, che mi ha insegnato a ridere o piangerecon eguale dignità

L’immagine del muro è chiara: la paura dell’altro.Si tratta certo del muro a misura di quartiere o di territorio -non del muretto che cinge il giardino di casa - del muro chedivide, oppone, aggredisce.Produce una potenza illusoria e ritarda la soluzione dei con-flitti, lo scambio di parole, la più elementare urbanità.Il costruttore di muri è un inquinatore dell’umanità!Non immagina nemmeno che il muro, qualsiasi muro, sugge-risce la libertà, richiama alla partenza, all’avventura.

Thierry Paquotantropologo urbano

All in all its just another brick in the wall All in all you're just another brick in the wall

Pink FloydAnother Brick In The Wall

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INTRODUZIONE

Molti parlano del loro lavoro in termini di esigenza.Per un giornalista è differente, almeno lo è stato per me.Questo libro non è nato da una necessità, ma da un dovere. Il primo muro che mi sono trovato di fronte è stato quello

del Sahara Occidentale. Vedere una barriera nel deserto è inna-turale e la prima cosa che pensi è: tutti devono sapere. Poi èvenuta la Palestina, poi Ceuta e Melilla e così via. Raccontatiuno per volta, informando il lettore. Andando avanti, però, tirendi conto che il racconto resta parziale. Non basta descrive-re la storia del singolo conflitto o la genesi della singola bar-riera. Scrivere di ogni muro è importante, ma il lavoro sareb-be incompleto se non si raccontasse anche del sottile filo rossonel quale sono inciampato in ogni angolo della terra che hocalpestato, andando incontro a un muro.

Un filo rosso che unisce vicende differenti, che intrecciaperiodi storici lontani tra di loro, che si arrotola su problema-tiche molto disomogenee. In ogni occasione, però, finivo sem-pre per incappare in fattori costanti, che si ripetevano, come inuna roulette truccata. Sequenze. Fatte non di numeri, ma distorie. Vite di persone che, all’improvviso, hanno trovato unmuro sul loro cammino. Un disco che si incanta sempre sullastessa nota, quel punto di non ritorno nel quale si rompe qual-cosa nel naturale corso delle relazioni umane. Il momento incui l’animale sociale diffida a tal punto del suo vicino da rite-nere il muro, la barriera, la divisione l’estrema ratio. Non c’èpiù spazio e tempo per dialogare, litigare e dialogare ancora.Non c’è più fiducia. Meglio chiudere fuori l’altro, senza ren-dersi conto che allo stesso tempo finisci per chiuderti dentroanche tu.

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A quel punto diventava relativa la ragione storica, la giusti-ficazione religiosa, oppure quella politica di ogni singolocaso. Le storie finivano per assomigliarsi tutte. Come impri-gionate in una clessidra di pietra. E anche questo bisognavaraccontare. L’ho lasciato fare, molto meglio di quanto avreimai potuto farlo io, a Mustafà Barghouti e Francesca Borri chehanno scritto la postfazione di questo libro. Per tirare le som-me, per raccontare il filo rosso. Loro, che di fronte a un muroci vivono ogni giorno.

L’occasione è stata la ricorrenza del ventennale della cadu-ta del muro di Berlino, forse il muro simbolo, la sineddoche ditutti i muri. Eppure è durato meno e ha causato la morte di me-no persone di altri. Soprattutto, rispetto a tanti, troppi muri, ècaduto.

Ho chiesto a Nicola Sessa, amico prima che collega, di rac-contare le celebrazioni nell’introduzione. Io non potevo.

È scattato un senso di esclusione rispetto al tono trionfanteche ha accompagnato tutto il 2009, lanciato in una velocecorsa per celebrare quel 9 novembre 1989. Ti ritrovi a pensa-re per quale motivo non si è partiti proprio da questa ricorren-za per rendere la distruzione di tutte le barriere il vero e unicorisultato al quale anelare. La risposta più semplice è legataproprio al lavoro che ho scelto di fare nella vita, o che la vitaha scelto per me.

Il muro di Berlino è diventato un simbolo per tanti motivi,uno di questi è il fatto di essere stato raccontato. Molti hannocapito cosa ha significato la caduta del muro di Berlino perchéhanno saputo cosa ha voluto dire per la vita di tante, troppepersone.

Capita di pensare che se domani un ponte aereo dei paesiricchi portasse cibo ai palestinesi affamati tante persone loguarderebbero in televisione e capirebbero come si vive chiu-si dentro. Capita di pensare che se Barack Obama, dotato dello

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stesso prorompente fascino mediatico di John Fitzgerald Ken-nedy, si recasse nel Sahara occidentale e, in perfetto dialettodel deserto, dicesse: “Siamo tutti Saharawi” la storia cambie-rebbe il suo corso.

Allora è importante dire a tutti che esiste un filo rosso, chelega i berlinesi a tutte le popolazioni divise. Un filo rosso chenon si spezza se il muro è fatto di mattoni o di rete metallica.Perché un filo rosso lega le vite delle persone che, all’improv-viso, si sono trovate spalle al muro. Si tenta di arrotolare que-sto filo rosso attorno al fuso di un libro, partendo proprio daBerlino. Dove sono state raccolte quelle suggestioni necessa-rie a riannodare tutte le storie dei diversi muri. Secondo l’uni-co criterio possibile: il reportage.

Egisto Corradi, storico inviato del Corriere della Sera, dice-va: “Il giornalismo si fa con la suola delle scarpe”. Gli ho cre-duto dal primo giorno. Ho deciso quindi di raccontare tutti imuri che ho potuto calpestare, se così si può dire. Per farlo hodeciso di parlare dei muri che ho visto, delle storie che ho rac-colto nel mio taccuino. Nel capitolo sette, però, ho lasciatospazio a tutti quelli che non ho ancora incontrato. Come unasorta di promemoria, ma anche come un invito al viaggioverso tutti quelli che potranno farlo. Tutti coloro, giornalisti ono, che avranno voglia di consumare la suola delle loro scar-pe e di raccogliere quel filo rosso, per continuare a seguirlomentre s’intreccia ad altre storie.

Storie di persone comuni. Questa è stata una scelta precisa.Non si è voluto raccontare il livello alto, quello che in fondoriesce a superarlo un muro. Si è voluto raccontare l’umanitàall’ombra dei muri, quella alla quale nessuno ha chiesto cosane pensava prima di chiuderla dentro. Attraverso voci che,nonostante i muri, riescono ad alzarsi in punta di piedi e aguardare oltre.

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Questo libro non ha alcuna pretesa di esaustività o di esclu-sività.

Il criterio di scelta, come detto, è molto personale. Permolti saranno state raccontate situazioni troppo differenti traloro e per altri saranno state tralasciate realtà importanti. Spe-ro che sia così, perché non vedo l’ora che qualcuno raccolgaquel filo rosso e continui a corrergli dietro. In fondo basta untaccuino. E un paio di scarpe.

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PREFAZIONE

ERA IL MUROdi Nicola Sessa

Era il Muro. La matrice da cui sono nati gli altri muri spar-si sul pianeta. In 28 anni di vita, il Muro di Berlino ha distrut-to migliaia di vite, migliaia di famiglie e ha represso i sogni ele illusioni di milioni di persone. Durante e dopo. E già, per-ché i suoi effetti, anche adesso che non c’è più, continuano afarsi sentire a Berlino, in Germania e in Europa. Quel serpen-te di cemento lungo 150 chilometri che fisicamente abbraccia-va e stritolava la Berlino ovest, ma che ha avvelenato i tede-schi che erano fuori dal mortale accerchiamento è passato, nelcorso degli anni, attraverso quattro stadi successivi, semprepiù alto, sempre più perfetto e impenetrabile. Quello che cad-de il 9 novembre di vent’anni era il Muro di quarta generazio-ne: insormontabile anche solo con le idee. Nei libri di storia ri-marrà scritto che sono state le parole di Ronald Reagan, la pe-restroika di Mikhail Gorbacev e il pragmatismo del tenaceHelmut Kohl a tirare giù il Muro. Nei fatti, quelli riportati dal-la cronaca, il Muro è caduto per un misunderstandig di GünterSchabowsky, per una risposta improvvisata a una domandascontata fatta durante una conferenza stampa. Da quella suaimbarazzata risposta “la nuova regolamentazione sui viaggi èin vigore da oggi, tutti i posti di frontiera saranno aperti”, laStoria è cambiata. La cronaca registra che mancavano setteminuti alle 19. Non ci volle molto perché migliaia di tedeschidell’est si riversassero su Bornholmerstrasse, uno dei settepunti di passaggio tra le due Berlino. Quella sera almeno ven-timila tedeschi attraversarono il ponte Bösebrücke. E solo neigiorni a seguire si capì che se il Muro poteva essere attraver-sato, allora quel Muro non aveva più ragione d’essere.

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Che cosa rimane oggi di quel serpentone di cemento?Strutturalmente ben poco: una sezione di un chilometro e mez-zo trasformato in galleria d’arte a cielo aperto, la East SideGallery; un reliquario rimasto intatto in Bernauerstrasse contanto di Striscia della morte all’interno della quale qualunquecosa si fosse mossa sarebbe stata carne morta; qualche seg-mento in Potsdamer Platz e una lunga cicatrice di due file dipietre di porfido che corre veloce attraverso tutta la città. Nonsono pochi gli intellettuali pessimisti, nichilisti, nostalgici chepuzzano di naftalina a sostenere che un muro c’è e che incom-be tutt’oggi sulla testa dei tedeschi. È il fantasma di quel divi-sorio di cemento, è il Muro di quinta generazione, immateria-le e difficile da abbattere.

Il ventennale della Caduta del Muro è stato celebrato ingrande pompa. A chi ha seguito i festeggiamenti in tv, è diffi-cile raccontare quello che a Berlino è realmente accaduto il 9novembre del 2009. Difficilmente crederebbe che si trattava diuna splendida passerella di politici di ieri e di oggi, di capi diStato che vent’anni fa, il 9 novembre del 1989, erano presi datutt’altri affari o che, come la cancelliera tedesca Angela Mer-kel, erano in una sauna a rilassarsi. Difficilmente crederebbe-ro che tra i centomila(?) srotolati tra Potsdamer Platz e la Portadi Brandeburgo la lingua meno parlata fosse il tedesco. Diffi-cile trovare traccia di quelle persone che si erano strette in ab-bracci e lacrime e che cantavano Wir sind das Volk, afferman-do la supremazia del popolo rispetto a un governo che li strin-geva in una gabbia dorata.

Non c’era libertà di movimento, la polizia segreta dellaStasi era entrata nelle menti dei Berlinesi mettendoli l’unocontro l’altro, l’uno a sorvegliare l’altro, vicini contro vicini,amici contro amici, padri contro figli, mogli contro mariti. Maquello che chiedevano i tedeschi dell’est, gli Ossi, che hanno

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cominciato a riferirsi a essi stessi come tali solo dopo l’unifi-cazione della Germania per sottolineare una differenza insitatra loro e i fratelli-cugini della Germania federale, i Wessi, erademocrazia e libertà, un cambio ai vertici del Sed, il Partito-Stato, e non una profonda modificazione delle loro biografie,la cancellazione della Repubblica Democratica Tedesca dallecartine geografiche. Il tiranno Erich Honecker, quando tuttoera finito e la Storia lo stava processando lanciò un profeticomemento: Un numero sempre maggiore di persone dell’est sirenderà conto che le condizioni di vita nella Ddr lo aveva de-formato assai meno di quanto la gente dell’ovest non sia de-formata dal capitalismo e che nei nidi, negli asili e nelle scuo-le i bambini della Ddr crescevano più spensierati, più felici,più istruiti,più liberi dei bambini delle strade e delle piazzedominate dalla violenza della Germania Federale. I malati sirenderanno conto che nel sistema sanitario della Ddr, nono-stante le arretratezze tecniche, erano dei pazienti e non ogget-ti commerciali del marketing dei medici. Gli artisti compren-deranno che la censura, vera o presunta, della Ddr non pote-va recare all’arte i danni prodotti dalla censura del mercato.I cittadini constateranno che anche sommando la burocraziadella Ddr e la caccia alle merci scarse non c’era bisogno chesacrificassero tutto il tempo libero che devono sacrificare oraalla burocrazia della Germania Federale. Gli operai e i con-tadini si renderanno conto che la Germania Federale è lo Sta-to degli imprenditori e che non a caso la Ddr si chiama-va Stato degli operai e dei contadini. Le donne daranno mag-gior valore, nella nuova situazione, alla parità e al diritto didecidere sul proprio corpo di cui godevano della Ddr. […]Molti si renderanno conto che nella vita di tutti i giorni, spe-cialmente sul posto di lavoro, avevano assai più libertà nellaDdr di quante ne abbiano ora.

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Tutti credevano, e per molto tempo hanno sperato, che sitrattasse solo del testamento politico dell’uomo che per 17anni aveva guidato il paese su una strada sempre più buia esconnessa. Ma dopo vent’anni quella profezia si è avverata. Ifautori del sogno europeista guardavano alla Germania comeil nuovo motore dell’unità europea, altri temevano la GrandeGermania, la cui economia di ferro avrebbe messo in ginoc-chio quella degli altri paesi. Così non è stato. Le due Ger-manie, che si sono riunite dopo quarant’anni di divorzio, han-no dato vita a uno Stato non così forte come ci si sarebbeaspettato. Le spese per parificare l’ex Ddr alla Germania Fe-derale hanno profondamente inciso sulla sua capacità di cre-scita. Ma anche le persone comuni, quelle del popolo, si sonorisvegliate da un sogno molto bello, esauritosi con l’entusia-smo dei primi anni: con la sbornia sono evaporate anche leillusioni di chi ci aveva creduto e vedeva nell’occidente laTerra Promessa. La frustrazione dei berlinesi e dei tedeschidell’est si può riassumere nelle parole che mi hanno riferito ilregista Andreas Dresen e lo scrittore Ingo Schulze, entrambinati e cresciuti nella ex Ddr, entrambi poco meno che trenten-ni nel 1989, pieni di fiducia verso il mondo che spalancava leporte a oriente: I tedeschi dell’est hanno dovuto accettare leregole della Germania Federale, fare presa di coscienza chetutto ciò in cui avevano creduto, l’eguaglianza, la solidarietàe il rispetto reciproco fossero tutte cose da mandare al mace-ro. Non è bello dirlo, ma è come se fossimo stati invasi dall’al-tra Germania che ci ha imposto il loro sistema senza salvareciò che di buono noi avevamo. Non ci è voluto molto tempo,infatti, perché le politiche sociali venissero immolate sull’al-tare del capitalismo rompendo quel delicato equilibrio su cuisi muovevano in perfetto sincrono le fabbriche, l’istruzione, lasanità e una qualità di vita che, a detta di molti, era superiorea quella di oggi. Certo, si dirà, quando su un piatto della bilan-

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cia c’è la libertà, nessun altro valore messo sull’altro piattoavrà lo stesso peso. Ma molti tedeschi, dell’est, si chiedonooggi se siano veramente liberi: sognavano di viaggiare, ma lecondizioni economiche e la disoccupazione non lo permetto-no a tutti; sognavano di dire la loro liberamente, ma chi liascolta?

Sono questi i mattoni del muro, quello di quinta generazio-ne, che sarà durissimo da tirare giù. Solo il tempo e la incon-sapevolezza dei moltissimi ragazzi nati a cavallo o dopo lacaduta del Muro potrà esorcizzare il fantasma che perseguita iloro genitori e, soprattutto, i loro nonni.

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CAPITOLO 1

Cipro, l’ultimo muro d’Europa

L’atterraggio all’aeroporto di Larnaca vale da solo il prez-zo del biglietto. L’aereo compie una traiettoria a rientrare, de-scrivendo un grande ferro di cavallo, dopo una virata che per-mette d’inebriarsi di tutto il Mediterraneo che c’è. Sembra diplanare in spiaggia. L’aerostazione è piena di persone, cheportano sulle spalle una pelle bianca come il latte, colpita conviolenza da un sole scintillante. Inglesi, per lo più.

I taxi aspettano fuori, quasi tutte Mercedes. Si parte, dire-zione Nicosia, ma il tempo di uscire dal parcheggio dell’aero-porto basta per provare quella sensazione di precario equili-brio, quasi di vertigine, che dà la guida a sinistra per chi nonè abituato.

Un retaggio coloniale, ma non è l’unico e non è certo il piùdoloroso.

L’auto viaggia veloce, ma non così in fretta da impedire lavisuale della bandiera della Repubblica di Cipro Nord che èstata disegnata sul fianco della montagna. Al di là del muroche divide in due l’isola dal 1974. Una specie di monito, chedeve essere visto da tutti. Anche dagli inglesi dalla pelle chia-ra. Perché questa divisione nel cuore del Mediterraneo e allaperiferia della vecchia Europa riguarda anche loro.

Cipro è stata, fino al 1960, una colonia britannica. Per tuttala sua storia, in realtà, l’isola è stata occupata. Una posizionestrategica che ha sempre fatto gola a tutti quelli che volevanocontrollare la migliore base navale naturale del mediterraneo,un trampolino verso l’Asia. Nel 1878 la Corona inglese nefece una delle stazioni di quella linea vitale per gli interessi

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britannici che collegava Londra all’India, passando per Gi-bil-terra e Malta. Poi arrivò il Canale di Suez e tutto cambiò, maCipro restò nelle mani dei Windsor, che dopo la Prima Guerramondiale ne fecero una vera e propria colonia. La comunitàgreco-ortodossa dell’isola non ha mai tollerato l’occupazionebritannica. In quel tempo, che sembra così lontano, cominciala questione di Cipro. I greci, circa l’80 percento della popo-lazione cipriota, non hanno mai davvero rinunciato al mitodell’enosis, l’unione con la Grecia. Un sogno che per la comu-nità turco-cipriota, che rappresenta circa il 20 percento dellapopolazione, è un incubo. Grecia e Turchia, così vicine cosìlontane, da sempre. La Gran Bretagna non voleva rinunciare aCipro e le divisioni tra la popolazione le agevolavano il com-pito. Quest’ultimo reso ancor più semplice, dopo la Se-condaGuerra mondiale, dalle divisioni all’interno della stessa comu-nità greca a causa della guerra civile nella madrepatria, che siriflettevano a Cipro, mettendo gli uni contro gli altri gli isola-ni di origine greca. La Turchia non era da meno. Il governo diAnkara e la sua lobby militare non tolleravano l’idea cheun’isola a meno di cento chilometri dalle sue coste potessecadere nella mani della Grecia, la nemica di sempre. Gli inte-ressi, le strategie e le paure della Gran Bretagna, della Greciae della Turchia avviluppano l’isola da sempre, tenendola comein gabbia. È come se l’isola fosse un terreno di gioco, dovespie e soldati hanno giocato una partita, ma il biglietto l’han-no pagato solo i ciprioti. Costretti a recitare un ruolo in unconflitto per procura, sempre per gli interessi di qualcun altro.Sentendosi sempre greco ciprioti e turchi ciprioti, costretti ainterpretare un’esistenza da aggettivi, mai da soggetti.

Tra bombe, attentati e complotti, giunge l’indipendenzadell’isola, ma i nodi restano intricati. Le Nazioni Unite risolse-ro la questione con le solite acrobazie diplomatiche che sem-brano lungamente studiate in modo che i problemi diventino

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sempre più complessi: Gran Bretagna, Grecia e Turchia diven-nero potenze garanti dell’ordine della costituzione che tutela-va i due gruppi etnici ed escludeva l’unione dell’isola con laGrecia o con la Turchia. Londra ottenne basi militari, mentreGrecia e Turchia potevano far stazionare sull’isola due contin-genti di soldati. Coloro che avevano creato la situazione com-plessa di Cipro ne diventavano i tutori, applicando una sorta dilegge del contrappasso per la popolazione cipriota. Un castel-lo di carte che, al primo soffio di vento, si frantumò. L’arcive-scovo Makarios, eccentrico leader greco-cipriota legato ai co-munisti nonostante la carica religiosa, tentò nel 1963 di modi-ficare la costituzione per forzare l’ostruzionismo dei turchi.

Il risultato fu la guerra civile, che costò la vita a circa cin-quecento persone. La tensione sull’isola, come sempre, s’in-trecciava a interessi più grandi. Ed erano entrambi membridella Nato, elemento non trascurabile in tempi di Guerra Fred-da. La soluzione di compromesso fu, infine, l’invio del UnitedNations Force in Cyprus (UNFICYP), missione di pace del-l’ONU, che dal 1964 è dislocata sull’isola. La situazione resseper un po’, ma il golpe dei militari in Grecia fece temere allaTurchia che l’enosis fosse alle porte. Nuovi incidenti tra lecomunità, nuove minacce d’invasione di Atene e Ankara. Ma-karios, in rotta con i militari golpisti greci, tentò una via ci-priota di soluzione della crisi, ma era troppo eccentrico questoprete che governava con i comunisti e, seppur Makarios fossesulla linea dei paesi non-allineati, Washington e Londra teme-vano che Cipro finisse nella sfera d’influenza sovietica.Ancora agenti segreti e militari, ancora ingerenze. Il 15 luglio1974 Makarios venne rovesciato da un colpo di Stato: fu l’ini-zio della fine dell’unità di Cipro. Il 20 luglio le truppe turcheapprodarono nel nord dell’isola. Già due giorni dopo si giun-se a un armistizio e le parti in conflitto iniziarono le trattativea Ginevra. Il 23 luglio cadde la giunta militare di Atene, il

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colpo di stato contro Makarios fallì. Sebbene il vero motivoper l’attacco turco fosse superato, il 14 agosto Ankara ordinòla prosecuzione dell’operazione militare. Non volevano piùandare via. L’esercito turco, durante la sua avanzata, espulsecon brutale violenza la popolazione greco-cipriota. In miglia-ia morirono, più di mille e cinquecento persone scomparveronel nulla e circa 160mila ciprioti greci divennero profughi cheper decenni non avrebbero più rivisto le loro case. Parte deiciprioti greci reagirono con cruenti tumulti nei confronti deiturchi dell’isola, molti dei quali furono costretti alla fuga nelledue basi militari britanniche. Nel 1975 uno scambio di popo-lazione decretò il processo di separazione etnica dei due grup-pi che esiste ancora oggi. Le Nazioni Unite dichiararono unazona d’interdizione (buffer zone), di circa 4 chilometri, pertutta la lunghezza dell’isola, per interporsi tra i due schiera-menti. La zona settentrionale di Cipro venne dichiarata repub-blica di Cipro Nord, riconosciuta solo dai turchi. La situazio-ne è ancora questa.

L’ultima capitale divisa d’Europa, recita un cartello neipressi del Ledra Palace, negli anni Settanta uno degli alberghimigliori della città, dove coppie di anziani inglesi venivano adannusare il Mediterraneo, in fuga dalla brughiera. In mezzo aspie di mezzo mondo. Adesso è un rudere, tenuto in vita dallostesso motivo che lo ha ucciso: il check-point che collega lazona turca a quella greca di Nicosia. A ricordare i tempi buirestano un casco blu della missione Onu Unficyp e il memo-riale dei desaparecidos greco ciprioti. Più di 1500 personeinghiottite nella notte dell’invasione dell’Cipro da parte del-l’esercito turco. Sono foto, in bianco e nero, in una vetrina cherende ancora più sfuggente gli sguardi di quei volti, fantasmidi un passato che sembra ormai lontano. Non per loro, però. Tiguardano. Uomini, donne e bambini. T’interrogano. Voglionogiustizia. Tutto intorno, chiacchiere e frastuono. Turisti che

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passano da un versante all’altro, famiglie greche e turche ches’incrociano nel corridoio tra le due frontiere, sotto lo sguardosperso in una siesta lontana del casco blu dell’Honduras. Ilcartello, infatti, andrebbe aggiornato. Nicosia è divisa ancorapoliticamente, ma ormai i valichi, dal 2004, sono aperti. Restala cicatrice di quel muro, che limita da una parte e dall’altra laterra di nessuno. Un muro che sembra fatto in fretta e furia,come se ognuno avesse preso i primi oggetti che gli capitava-no a tiro. Era il 1974, una calda estate come solo quelle delMediterraneo sanno essere. Il 20 luglio le truppe turche arriva-rono sull’isola, per impedire quella che i greci chiamano eno-sis, il ricongiungimento tra Cipro e la Grecia. I militari di An-kara occupano la parte settentrionale del’isola. Si spara, simuore, si scompare. E si costruisce un muro, mentre l’isolaviene divisa in due. Una cicatrice la divide a metà, nel centro,la terra di nessuno. Mentre la vita attorno al muro lentamentericominciava, nella terra di nessuno il tempo resta come impri-gionato in una clessidra di pietra. Le macchine abbandonateper strada, le tavole ancora imbandite e la biancheria ancorastesa ad asciugare, anche se nessuno ritirerà quei panni.

L’unica cosa viva sono le mine anti uomo, che nessuno av-verte quando le guerre finiscono. Restano anche gli sguardidei desaparecidos, a chiedere ai turisti di fermarsi un attimo.Giusto il tempo di una risposta.

Sevgul Uludag la noti subito. Arriva trafelata, alla guida diun fuoristrada, vestita come una rock star. Capelli a spazzola,smalto viola e scarpe da ginnastica. Un sorriso acceso comeun faro. Una giornalista in gamba. Premiata da Reporters sansFrontiere e dalla International Woman Media Foundation perle sue inchieste e per il suo coraggio. Il lavoro, ostinato e meti-coloso, che l’ha resa famosa è quello sui desaparecidos. “Hocominciato a occuparmi delle persone scomparse nel 2002. Aquel tempo il Comitato per le Persone Scomparse non si riuni-

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va da due anni. Il comitato è misto, composto da turco-ciprio-ti e greco-ciprioti. E da un rappresentante della Croce RossaInternazionale. Il tutto sotto l’egida delle Nazioni Unite.Fondato nel 1981, “non è mai servito a niente”, raccontaSevgul, giusto per rendere l’idea di come affronta le questio-ni, senza giri di parole. Sale in macchina in fretta, c’è pocotempo. “Oggi ci sono due funerali. Uno nella zona greca e unoin quella turca. Altre due storie possono finire, altre due fami-glie avranno una tomba su cui piangere”. I funerali sono sem-pre tristi, ma quelli di persone scomparse da anni hanno unqualcosa di surreale. Di ingiusto. “Dal 2002 al 2004 ho lavo-rato a casi di scomparsi in entrambi i versanti. Ho preferitoconcentrarmi sull’aspetto umanitario della vicenda, lasciandoda parte le implicazioni politiche. Il dolore non è turco ogreco, il dolore è di tutta l’umanità”. È un fiume in piena, s’in-terrompe solo per ricordare che nella zona turca meglio guar-dare prima di scattare foto, perché molte zone sono militari edè un reato. In qualche situazione, il passato ritorna.

“Il problema delle persone scomparse è complesso. Non cisono solo i 1550 greco-ciprioti, ma anche circa 500 turco-ciprioti. Prima dell’invasione turca, infatti, ci furono i pogromdegli estremisti greci a metà degli anni Sessanta - spiegaSevgul - migliaia di famiglie distrutte. Che per anni si sonosentite rispondere dalle autorità di smettere di cercare, di ras-segnarsi. Loro non potevano farlo. Quando non hai una tombasu cui piangere, quando non hai una verità da raccontare, i tuoimorti diventano un tormento. Ti senti di averli traditi, di nonaver potuto salvarli e neanche dargli la pace”. Una storia cheSevgu avrà raccontato mille volte, ma senza risultare retorica.Il fuoristrada sembra fare manovra da solo, la giornalista con-tinua a parlare. Parcheggia di fronte a una moschea, che con-serva interamente la vecchia struttura di una chiesa cristiana.Città vecchia di Famagosta, le antiche mura a picco sul Me-

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diterraneo. Dopo l’arrivo dei turchi anche i luoghi di cultohanno conosciuto la conquista. Il piazzale è gremito di gentecomune, militari e autorità. Sevgul arriva come una star, accla-mata da tante persone, ma ignorata dalle autorità. “Non miamano. Per i turchi sono una traditrice, per i greci una ficca-naso che ricorda a tutto il mondo che ci sono desaparecidosanche dalla parte turca”, racconta Sevgul, mentre stringe millemani e porta la corona di fiori che ha scaricato dalla macchi-na. “Nel 2002 ho cominciato a dare voce ai parenti delle per-sone scomparse. Raccoglievo storie da una parte e dall’altra.Per i greci è stato uno choc sapere che c’erano anche delle fa-miglie turche che avevano vissuto la stessa tragedia. Per i tur-chi, soffocati dalla propaganda, è stato un’occasione per ascol-tare le storie delle famiglie greche. Decisi di pubblicare le sto-rie in contemporanea: una greca e una turca - continua le gior-nalista - e il mio lavoro cominciò a smuovere le acque. AncheKofi Annan, all’epoca segretario generale dell’Onu, s’interes-sò alla vicenda. Era il 2004 e c’era aria di riunificazione, acausa del referendum. Inoltre il clima politico nella parte tur-co-cipriota cambiò e cominciò a filtrare un po’ di luce. La Tur-chia pensava all’Europa e la questione di Cipro si faceva spi-nosa. Sempre nel 2004, l’anno della svolta, si aprivano icheck-point e le ricerche divennero più facili. Rimasi colpitada come la condivisione del dolore avvicinava queste famiglie,divise dal muro e dalla storia. A quel punto decisi di andareoltre, nonostante le minacce di morte e le pressioni dei politi-ci che boicottavano il mio lavoro. Volevo vedere se la stessaempatia poteva toccare tutti coloro che sapevano. E che stava-no zitti dal 1974. A quel punto, d’accordo con le famiglie degliscomparsi delle due parti dell’isola, venne istituita una lineatelefonica. Chiunque, garantito dall’anonimato, poteva chia-mare e dare indizi utili al rinvenimento delle salme. Era comese si fosse rotto un tabù e alcuni cominciarono a parlare”.

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L’imam guida la preghiera, mentre due soldati turco-ciprio-ti portano una piccola bara di acciaio, avvolta in una bandieradella Turchia. Una parata di autorità rende onore alla vittima,mentre i parenti se ne stanno in disparte, piangendo in silen-zio. Come per una persona che è morta il giorno prima e nonquarant’anni fa. “Questo funerale è il risultato di questo lavo-ro. Ce ne sono stati altri e, sono sicura, altri ne verranno. Oggitrova la pace Mustafà, un ragazzo turco-cipriota scomparsonell’aprile 1964. Venne rapito con un’altra persona, era uncommerciante. Aveva un supermercato e la sera che è scom-parso percorreva la strada da Famagosta a Nicosia. Nessunosapeva nulla della sua sorte. Uno dei miei lettori greco ciprio-ti, l’anno scorso, mi telefonò e mi disse che voleva mostrarmiun posto dove un turco cipriota venne sepolto nel 1964. L’hoincontrato e mi ha mostrato tre posti dove, con l’aiuto delcomitato, si è cominciato a scavare. Tre cadaveri turchi in unposto, Mustafà in un altro posto. Oggi non vengono sepoltesolo le sue ossa, oggi viene sepolto anche il dolore della suafamiglia. E diventa un funerale collettivo, perché queste storiesono le storie di tutti i ciprioti. Greci e turchi”. Il funerale èfinito. Mustafà ha trovato posto in una zona speciale del cimi-tero, accanto ad altri scomparsi. Le autorità li chiamano mar-tiri, i loro familiari solo per nome.

Sevgul sale in macchina e si riparte, bisogna andare dall’al-tra parte dell’isola. C’è un altro funerale. Un ragazzo greco,questa volta. Aveva venti anni e la foto che i suoi parenti por-tano vicino alla bara. Una piccola bara d’acciaio. Se non cifosse la bandiera greca, se non ci fossero le autorità greche e imilitari greci, se al posto di un imam non ci fosse un popeortodosso sembrerebbe di stare al funerale di Mustafà. E inve-ce è quello di Ghiorghios, ucciso assieme al fratello nel 1974,mentre scappava con la sua famiglia per sfuggire ai rastrella-menti dei turchi. Anche lui viene definito martire, anche i suoiparenti abbracciano Sevgul e la ringraziano.

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“Andrò avanti, con l’aiuto delle famiglie degli scomparsiche mi proteggono. In alcuni villaggi ci sono ancora gli assas-sini che hanno sotterrato i cadaveri delle persone che hannoucciso. Farebbero di tutto per bloccare le ricerche. Ma si sentoal sicuro, perché le famiglie sono con me - conclude la giorna-lista - e sono insieme tra di loro. Solo così questo Paese avràun futuro, una storia condivisa. Adesso vanno avanti i colloquiper la riunificazione, ma non serviranno a nulla se prima nonsi riunifica la storia di Cipro. Per questo il dolore, identico peri turchi e per i greci, servirà a indicare un futuro assieme.Come è accaduto per Maria e Sevilay”.

Sono Maria Georgiadou e Sevilay Berk. Greca la prima eturca la seconda. Ma non si capisce guardandole, mentre si ab-bracciano e si baciano come due ragazzine. “Non le fate sen-tire troppo importanti, sono ancora vanitose!”, scherza Ali, ilmarito di Sevilay. Con Yorgos, il marito di Maria, si tengonoa braccetto, in disparte, osservando divertiti le consorti un po’emozionate per via dell’intervista. Sono amici, si vede. Diquelle amicizie profonde, cementate da esperienze condivise.Negli anni Settanta Maria ha perso il padre, la madre, il fratel-lo e la sorella. Sevilay i genitori, negli anni Sessanta. Scom-parsi nel nulla.

“I miei genitori, Shefika e Husein, tornavano in macchinada Famagosta a Bachalar. Io e i miei tre fratelli li aspettavamoa casa. Era l’11 maggio 1964. Non sono mai arrivati - raccon-ta Sevilay - in quel momento, avevo 18 anni, sono diventataadulta. Tutto in una notte. Abbiamo perso tutto e siamo andatia vivere da uno zio. Senza sapere nulla di cosa fosse accadutoai miei genitori. Ho tormentato il rappresentante turco del co-mitato per le persone scomparse, ma mi ha sempre detto chenon si sapeva nulla. Il 23 aprile 2003, appena hanno aperto icheck-point, sono andata a cercarli. Per caso ho incontrato unvecchio amico dei miei, Tasos, un greco cipriota che non vede-

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vo da anni. Mi ha detto che non solo sapevano, ma che esiste-va addirittura un dossier su di loro e che c’era una mappa sulluogo dove si potevano trovare i cadaveri dei miei genitori.

Secondo questi documenti i loro corpi vennero sepolti in undirupo non lontano dal loro villaggio d’origine, Sono tornataal comitato e mi hanno minacciata. Erano sepolti in una fossacomune, con cadaveri di greci. Nessuno aveva interesse a tirarfuori i fantasmi del passato. Il governo non ha mai dato il per-messo per scavare, ma nel 2005 il proprietario del terreno hachiesto l’autorizzazione per edificare. Permessi che gli sonostati accordati, senza alcun rispetto per quella fossa comune. Aquel punto sono saltate fuori delle ossa, che lui ha consegnatoalla polizia. Loro non hanno mai passato quelle ossa agli spe-cialisti. Io e i miei fratelli, mentre c’erano i lavori, abbiamoscavato con le mani e abbiamo trovato delle ossa. Ricordo unacalza di nylon nera, come quelle che aveva mia madre il gior-no che è scomparsa. Non sapremo mai se sono sue, perché leossa sono troppo piccole per l’esame del dna, ma ricordo cheio e mia sorella ci siamo guardate e siamo scoppiate a piange-re, stringendo forte una calza vecchia di quarant’anni. Solomio marito mi da la forza di andare avanti nella battaglia lega-le per costringere la polizia turca a consegnarci le ossa. Intantogiro per le scuole con Maria, perché i bimbi sappiano. E per-ché nessuno uccida mai anche la loro giovinezza”.

Maria avrà ascoltato la storia di Sevilay tante di quelle vol-te da averla imparata a memoria. Eppure piange. Come fossela sua.

“Vivevamo in un villaggio chiamato Kythrea, ma che orasi chiama Deghirmenlik. Non eravamo ricchi, ma felici. Danoi c’erano solo tre famiglie turche, ma eravamo in una zonaa maggioranza turca. Queste però sono cose che ho imparatoa notare dopo, prima si cresceva tutti assieme e non ci si bada-va”, racconta Maria, non prima di aver preso in giro Sevilay

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che attacca un grande gelato, “mio padre allevava pecore conle quali produceva un ottimo halloumi, il nostro formaggiotipico. Io vivevo già con mio marito e i miei bimbi piccoliquando è scoppiato l’inferno. L’invasione turca ci ha coltiseparati. Mio padre era rimasto con la mia sorella più piccolaal paese, mentre mamma era con me e mia sorella in città. Miofratello era stato richiamato alle armi. Abbiamo fatto di tuttoper convincere mia madre a restare con noi, ma lei non vole-va saperne nulla, doveva tornare da papà e da mia sorella.Ricordo che mi ha guardato in cucina, mentre preparava delcibo. Mi ha sorriso e ha detto “sta tranquilla Maria, al paese ciconoscono tutti, nessuno ci farà del male”. Non l’ho mai piùvista, sospira, interrompendosi un attimo, per ricevere unacarezza del marito Yorgos.

“Era il 20 luglio, il 15 agosto ho saputo che li avevano ucci-si. Un amico di famiglia ci ha raccontato che avevano lasciatoil loro posto su uno degli ultimi bus in fuga dal villaggio adalcuni militari greco-ciprioti in fuga. Mi ha detto che mia ma-dre voleva aspettare il ritorno di mio fratello. Anche di lui nonsi è saputo più nulla. La ricordo bene mia madre... sentiva ildolore degli altri come se fosse suo. Avrà visto il terrore neglisguardi di quei ragazzi militari, braccati, tali e quali suo figlio.Avrà pensato che rischiavano meno di loro, in fondo al paese laconoscevano tutti. Invece ci hanno raccontato che li hannouccisi in casa, uno per uno. Mio padre, mia madre, mia sorella.

Quando nel 2003 sono potuta tornare al paese sono andatain quella che era la mia casa. C’era una famiglia di curdi, fattiarrivare dalla Turchia. Hanno capito il mio dolore e mi hannoaccolta con gentilezza. Secondo alcune testimonianze i cada-veri sono stati sotterrati all’ombra della vite. Mio padre l’hacurata come una figlia quella vite. La famiglia curda, neglianni ha fatto dei lavori. Mi hanno giurato di non aver trovatonulla. Gli credo, ma continuo a cercarli. Con loro ho perso

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tutto, anche le foto dei miei bimbi da piccoli. Ho bisogno diritrovare il mio passato. Per lasciarmelo alle spalle per sem-pre”.

Sono passati 35 anni. Il 24 aprile 2004, sull’onda dell’ade-sione della parte greco-cipriota all’Unione Europea, la popo-lazione tutta di Cipro venne chiamata alle urne per pronunciar-si con un referendum sulla riunificazione dell’isola. I cipriotiturchi accettarono con il 65 percento dei voti il cosiddetto Pia-no Annan, dal nome dell’allora segretario delle Nazioni Unite.Il 76 percento della comunità greco-cipriota, però, votò no,preoccupata di dover dividere i proventi degli incentivi Ue coni turchi. La migliore possibilità presentatasi fino ad ora disuperare la divisione dell’isola era stata perduta. Oggi il go-verno greco-cipriota e quello turco-cipriota sono impegnati,da due anni, in un round di negoziati senza posa. Sembra dav-vero che il clima sia cambiato, che ci sia la volontà di lasciar-si alle spalle tutti gli interessi degli altri e di cominciare a lavo-rare al bene di Cipro. Ma il muro uccide ancora.

“Ammetto che non pensavo fosse così pericoloso, ma an-che se l’avessi saputo l’avevo promesso ai miei figli. Vi por-terò fuori da questo inferno nel quale hanno trasformato l’Iraq,gli avevo detto. Loro mi guardavano sicuri che tutto sarebbeandato per il meglio, si fidavano di me. Certe volte, quandoguardo la cicatrice di mio figlio e rifletto su come sono ridot-to penso di averli delusi”.

Alì Fahad non ha la faccia buona. Fisico tarchiato, pochicapelli, sguardo da duro, baffoni neri come la notte. La mogliesorride sempre, mentre prepara il tè e riceve gli ospiti nel pic-colo appartamento arredato in modo impersonale. La casa, neipressi del lungomare di Larnaca, l’hanno ottenuta dal governogreco-cipriota, assieme allo status di rifugiati politici. Alì, suamoglie e i loro tre bimbi. Undici, otto e cinque anni. Tutti at-torno al papà, che siede sul divano. Un quadretto familiare

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perfetto, se non ci fosse quel trespolo di ferro che serve ad Alìper tenere alta la gamba destra, spappolata dal calcagno al tal-lone da una mina anti uomo. Un elemento innaturale, che l’ab-braccio della famiglia di Alì rende meno duro ma non menostridente.

“Venivamo da anni terribili e, forse, ho avuto un calo d’at-tenzione. Mi sono rilassato, a un soldato non dovrebbe mai ca-pitare”, racconta Alì. L’uomo non è un rifugiato come tanti,figlio disconosciuto di un Paese in guerra. Alì è sempre statouno che la guerra l’ha fatta. Alla parete c’è una foto enorme:Alì in divisa che stringe la mano a Saddam Hussein. Un gene-rale della Guardia Repubblicana, i fedelissimi del rais. “Quan-do gli Stati Uniti e tutti gli altri hanno invaso l’Iraq abbiamoprovato a difendere la nostra terra, ma c’era troppa differenzadi forze in campo. Molti dei nostri si preparavano alla guerri-glia, ma io non ne volevo sapere. Il governo iracheno era statorovesciato e da quel momento eravamo un Paese occupato enon volevo relazionarmi con tutti i tipi strani che sono arriva-ti in Iraq. Ho subito deciso di lasciare il Paese, ma è comincia-to un incubo”.

Alì e la sua famiglia scappano in Siria prima, in Giordaniapoi. Non lo dice, ma come gerarca del regime aveva disponi-bilità economiche negate a tanti innocenti in fuga dalla guer-ra. Contando su protezioni politiche o amicizie personali in gi-ro per il Medio Oriente riesce a trovare ospitalità, anche inTurchia per un periodo. “Alla fine però dovevamo semprescappare, perché la mia presenza metteva nei guai i miei ami-ci. Mi cercavano i servizi segreti di mezzo mondo. Nel 2007,dopo quattro anni di fuga, mi hanno costretto a tornare in I-raq”, racconta Alì, mentre moglie e figli lo ascoltano in silen-zio, pendendo dalle sue labbra. “La situazione era insostenibi-le. La casa era perduta, ma abbiamo trovato accoglienza incasa di un parente. Dopo qualche tempo la notizia della mia

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presenza si è sparsa: troppo pericoloso restare a Baghdad”. Inquanto generale della Guardia Repubblicana, nell’Iraq deldopo Saddam la vita di Alì valeva meno di niente. “Mi cerca-vano gli Usa, i fondamentalisti venuti dall’estero, gli sciiti e icurdi. Tutti volevano uccidermi”. In fondo Alì sa di aver fattoqualcosa, all’epoca del regime di Saddam, per meritarsi tuttoquesto odio. “In Iraq, dopo il 2003, ti ammazzano per niente.Per il resto, che dire, eseguivo gli ordini”. In perfetto stile daProcesso di Norimberga Alì taglia corto, con uno sguardo cheha un solo significato: di questo non parlo.

“Ho deciso di scappare ancora, investendo gli ultimi soldiche mi erano rimasti. Un amico, dalla Siria, ha detto che pote-va ospitarmi per un po’, poi mi avrebbe messo in contatto conqualcuno che mi avrebbe portato a Cipro, nella zona turca -racconta l’ex generale iracheno - da là, a sentir lui, era moltofacile passare nella zona greca, quindi nell’Unione europea.Così avrei potuto ottenere lo status di rifugiato politico”. Lafamiglia di Alì si mette in viaggio di nuovo, all’inizio del 20-08. Riesce ad arrivare in Siria, vivendo nascosti. Riesce anchea procurarsi i soldi necessari per il viaggio di cinque persone:15mila euro. “Tutti quelli che conoscevo mi hanno aiutato”,racconta Alì, sorvolando sul denaro incassato durante il regi-me. “Il 4 dicembre del 2008, dopo un anno da incubo, siamoriusciti a partire per Cipro. L’organizzazione, che ho contatta-to a Damasco, mi ha assicurato che avrebbero pensato a tuttoloro. All’arrivo nell’isola avrei trovato un altro membro dellabanda che avrebbe portato me e la mia famiglia fino a un pun-to del muro dove è facile passare. Dall’altra parte avrei trova-to ancora un altro tizio che ci avrebbe portato fino a Nicosiadove avrei potuto chiedere lo status di rifugiato per tutti noi”.

Non è andata così. “Durante il viaggio nessun problema e,arrivati a Cipro Nord, abbiamo trovato un furgone che ci a-spettava. Eravamo venti persone, alcuni iracheni (ai quali non

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ho mai rivelato la mia identità), palestinesi e ceceni - dice Alì- io temevo che qualcosa potesse andare storto, ma tranquilliz-zavo tutti, ostentando sicurezza. I miei figli mi guardavano,capisce. Sono sempre stato il loro eroe. Ma quella maledettanotte qualcosa è andato storto. Era la notte tra il 4 e il 5 dicem-bre. Il tizio che guidava il furgone ci ha portati in aperta cam-pagna. Quel buio pesto non mi piaceva. Ho combattuto nellaguerra con l’Iran, ho combattuto in Kuwait e contro gli Usa.So riconoscere il pericolo, ma il tizio pakistano ci continuavaa dire che era tutto a posto. Mi sono fidato. Ho sbagliato”.

La moglie di Alì tira a sé, stringendolo in un abbraccio, ilfiglio piccolo. Come a proteggerlo dai ricordi. Il bimbo ha unacicatrice sulla tempia destra. “Mia moglie teneva il grande permano, mentre io mi tiravo dietro i più piccoli. Affondavamonel terreno, era faticoso camminare. Faceva freddo, tanto fred-do, ma non c’era ghiaccio. In quel momento mi sembrava unacosa bella, invece mi avrebbe potuto salvare la gamba. È statoall’improvviso. Ho capito subito di aver pestato una mina e diaverla innescata. Ho tentato di lanciare lontano da me i bimbi,ma il più piccolo è stato colpito da una scheggia alla testa. Ioho sentito un dolore lancinante, la vista mi si è offuscata.Ricordo solo le urla di mia moglie e la faccia di mio figlio. Poisono svenuto”. Gli altri figli toccano la cicatrice del piccolo,mostrandolo come un pupazzo e ridendo con lui, come solo ibambini sanno fare delle tragedie. La moglie di Alì, invece, siasciuga una lacrima e continua il racconto. “Ero disperata,pensavo fossero morti entrambi. Gli altri mi hanno aiutato e,quando hanno girato il corpo di mio marito, ho visto che avevail piede ridotto a un grumo di sangue - dice la donna - miofiglio invece strillava e aveva una macchia di sangue sullatesta, ma era vivo. Ho guardato la guida che era isterico e con-tinuava a dire che dovevamo muoverci o altrimenti sarebberoarrivate le guardie di frontiera. Gli ho detto di aiutarci, invece

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di dire idiozie! Ma è scappato. Proprio così, ci ha abbandona-ti là, come animali braccati”.

Al buio, in un Paese sconosciuto, con due feriti e in unazona minata. Un incubo divenuto realtà. Il gruppo è rimasto là,preparandosi al peggio. L’esplosione, però, aveva attirato dav-vero l’attenzione di una pattuglia greco-cipriota che è accorsacon un’ambulanza sul posto. Da quel momento Alì e il picco-lo sono stati ricoverati in ospedale e curati. Hanno ottenuto lacasa e lo status di rifugiati. “Solo che adesso temiamo di per-dere tutto”, dice Alì. “In molti a Cipro parlano di rispedirci acasa, ma in Iraq ci ucciderebbero. Io voglio guarire, trovarmiun lavoro e rifarmi una vita qui con la mia famiglia”.

Il tema dei rifugiati politici, a Cipro, è al centro di un asprodibattito. “Il problema è che, attraverso un’accurata campagnadei media, si è riusciti a far passare un messaggio: tutti irichiedenti asilo sono bugiardi. Fingono storie cariche di dolo-re, ma sono in cerca di lavoro come tutti gli altri. Di un lavo-ro che finiscono per togliere ai ciprioti. E la gente ci crede”.Doros è un’attivista che si batte per il rispetto dei diritti umaninell’isola del Mediterraneo. Dirige il Kisa Center, una speciedi network di avvocati, operatori sociali e attivisti che tenta dimigliorare la situazione, legale e sociale, dei migranti a Cipro.Nel loro ufficio, una palazzina nel centro storico di Nicosia,sembra di essere a Babele: uomini, donne e bambini prove-nienti da tutto il mondo affollano il cortile e lo animano dichiacchiere frizzanti. “A Cipro, al di là dell’assistenza sanita-ria gratuita, manca tutto per coloro che hanno ottenuto lo sta-tus di rifugiati - spiega Doros - non c’è una politica reale d’in-serimento di queste persone. Alcuni di loro, in attesa di sape-re se la loro domanda è stata accettata oppure no, aspettanofino a otto anni, muovendosi come fantasmi. Ricevono un pic-colo sussidio mensile e fanno lavoretti saltuari, ma non riesco-no davvero a rifarsi una vita”. I flussi di migranti sono note-

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voli, a Cipro, vista la prossimità tra la zona turca e quellagreca. Un muro separa due mondi opposti. Solo che ci sono lemine. “Quello che è capitato ad Alì e alla sua famiglia, per for-tuna, riguarda una minoranza di persone”, spiega il direttoredel Kisa Center. “L’aspetto inquietante, però, è che questo ge-nere d’incidenti è in aumento e soprattutto in zone che non ri-sultano minate. Non so che pensare. Secondo alcuni i traffi-canti di essere umani, che sono privi di qualsiasi scrupolo,mettono mine anche dove ce ne sono per scoraggiare quelliche vorrebbero passare senza pagare loro. Altri sostengonoche sia la polizia stessa a porre le mine, per rendere il confineimpermeabile ai migranti. Oppure, come capita, le mine neglianni si spostano. Ma per me, questa è l’ipotesi meno credibi-le. Anche se spero di sbagliarmi”.

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CAPITOLO 2

Belfast, la guerra dei murales

Il tragitto da Dublino a Belfast non restituisce nessun sensodi confine. Un moderno bus, una macchina noleggiata, untreno. Qualsiasi mezzo di trasporto regala un percorso che sifa stereotipo: prati verdi al punto da sembrare verniciati, bor-ghi che sembrano nati attorno al pub, cavalli e pecore che siaggirano liberi nel paradiso sognato degli animali. Nessunafrontiera, nessuna barriera.

L’unico elemento che segna un cambiamento è legato allebandiere, come in un Risiko per ragazzi troppo cresciuti. Il tri-colore irlandese, che a Dublino è parte integrante dello scena-rio, si sfuma nella bandiera lealista fino a giungere, quasi al-l’apice di una muta, a trasformarsi nell’Union Jack, la bandie-ra. Una cesura che si palesa senza nessuna, apparente, soluzio-ne di continuità. Una differenza notevole rispetto a tanti altriluoghi del mondo divisi da muri e barriere, ma che non perquesto rende le anime di Belfast meno contrapposte.

Qui la storia pesa come un macigno. Sono state almeno tre-mila e cinquecento le vittime dei Troubles, i ‘disordini’, comevengono eufemisticamente chiamate le violenze che daglianni Sessanta agli anni Novanta hanno squassato l’Irlanda delNord fino all’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Militaribritannici e milizie paramilitari protestanti (Ulster VolunteerForce e Ulster Freedom Fighters su tutte) leali alla corona diLondra contro militanti cattolici e repubblicani dell’IrishRepublican Army (Ira), che puntavano all’unione dell’Ulster -l’Irlanda del Nord - all’Irlanda indipendente dagli anni Venti.Trenta lunghi anni, caratterizzati da attentati, rappresaglie,

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rastrellamenti e stragi. Una su tutte: la bloody sunday, la do-menica di sangue. Era il 30 gennaio 1972. Più facile dire quan-do, meno dire dove. Per gli irlandesi sarà sempre Derry, per iprotestanti Londonderry. Una marcia per i diritti civili dei cat-tolici. Il 1° Battaglione del Reggimento paracadutisti di SuaMaestà aprì il fuoco sui dimostranti uccidendone quattordici,cinque dei quali colpiti alle spalle. Uno dei testimoni oculari èstato il giornalista italiano Fulvio Grimaldi che raccontò comei manifestanti fossero disarmati. Una strage lontana, della qua-le restano il dolore dei parenti delle vittime, un film di PaulGreengrass e una canzone degli U2.

Anche sul nome, forse, si è trovato un accordo. Dal 1998,ciascun cittadino nato in Irlanda del Nord è libero di sceglierela propria cittadinanza e, se nati a Derry-Londonderry, di indi-care la cittadina con il nome che preferiscono.

Di quei tempi restano anche i muri. I primi sono nati allafine degli anni Sessanta.

Dopo quasi trenta anni, la commissione inglese incaricatadi fare chiarezza sul massacro del 1972 ha accertato le respon-sabilità dei militari britannici. E restano anche le croci. La sto-rica contrapposizione tra i coloni protestanti giunti dall’Inghil-terra, che avevano fatto di Belfast un fiorente polo industriale,e i cattolici arrivati da ogni parte d’Irlanda in cerca di un lavo-ro alla fine dell’Ottocento erano al culmine. Le autorità riten-nero che il modo migliore per evitare scontri tra le comunitàfosse quello di costruire dei muri che tenessero separate le duecomunità. Non un unico, grande muro, come in altre zone delmondo, ma un dedalo di barriere che circondano le ‘isole’identitarie, che costellano a macchia di leopardo Belfast. Et-tore Mo, in un reportage del 1998, ne contava 26. Oggi, perqualcuno, sono più di quaranta. Alcuni sono fatti di mattoni,altri di lamiera e filo spinato. Dividono ancora un milione diprotestanti da mezzo milione di cattolici e alcuni hanno anche

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il coraggio di chiamarli peace lines, come se separare fossesinonimo di pacificare.

Arrivando in città, però, la divisione non è visibile al primoimpatto. Belfast è al centro, dopo l’Accordo del 1998, di unagrande operazione di rilancio turistico.

A cominciare dalla zona dei docks, i magazzini e i cantierilungo il fiume Feirste (Logan per i protestanti) che dà il nomealla città nell’antica lingua gaelica degli irlandesi: Bel-Fast,foce del fiume Feirste. I vecchi capannoni, in uno dei qualivenne costruito il Titanic, hanno lasciato il posto a struttureavveniristiche come il centro congressi Waterfront Hall e allegite in battello. In centro, poi, la vita ferve attorno alla catte-drale di Sant’Anna, circondata da rumorosi pub (come il cele-brato Crown Liquor Saloon) e colorati locali gay, o nei pressidell’imponente City Hall, dove fa bella mostra di sé un’impro-babile ruota panoramica. Basta allontanarsi, a piedi, dalle sfa-villanti luci del centro per respirare la divisione. West Belfast,su tutte. La dicotomia storica è simboleggiata da due strade:Falls Road, simbolo dei cattolici, e Shankill Road, simbolo deiprotestanti. Adesso i check-point che si aprono lungo il corsodei muri sono aperti, almeno di giorno, ma le barriere sono an-cora in piedi.

La nuova Belfast tenta di monetizzare anche il suo passatodi sangue. Al punto che alcuni vecchi militanti dell’Ira, chehanno accettato la smilitarizzazione delle milizie nel 1998, sioffrono come tassisti per un tour della memoria, lungo i per-corsi simbolo degli anni dei Troubles. Sono facilmente ricono-scibili per via dei tatuaggi che, per i militanti dell’una e del-l’altra parte, diventavano un elemento identificativo, come ilmodo di pronunciare la ‘h’, il cognome o il tifo per i Celtic(cattolici) o i Rangers (protestanti) di Glasgow, il derby scoz-zese che identifica anche le divisioni nord irlandesi oppure lapassione (o meno) per i tradizionali sport gaelici.

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Il tour, disponibile anche a bordo di surreali bus, non puòche cominciare dai murales. In tutto il mondo Belfast è legataa questo modo di raccontare il conflitto. Disegni colorati, diottima fattura, che parlano di stragi e massacri, di storia e poli-tica.

Gli uni di fronte agli altri, quasi a urlarsi in faccia la diffe-renza. Sono in tutti luoghi chiave. Uno strumento potente, co-me ha capito molto presto Danny Devenny. “All’inizio deglianni Settanta ero in carcere, a Long Kash. Mi sentivo fortuna-to, perché ero classificato come prigioniero politico: potevoricevere visite, guardare la televisione, leggere libri. Non eracosì per gli altri, trattati come animali. Mi vergognavo rispet-to ai compagni torturati e brutalizzati. Io e gli altri decidemmoche dovevamo fare qualcosa”. Fortunato lo era stato per dav-vero, Denny. Era stato arrestato nel 1973, per una rapina inbanca a Carryduff per finanziare l’Ira, alla quale aveva aderi-to giovanissimo. Prima del 1976, le autorità britanniche adalcuni riconoscevano lo status di prigioniero politico che davadei vantaggi. Dopo il 1976 non più e si applicava l’interna-mento senza processo ai militanti dell’Ira e anche a tanti inno-centi. “Quando ho aderito all’Ira era in corso una campagnaviolenta, fatta di conflitti a fuoco e bombe”, spiega Devenny.“In carcere mi sentivo impotente, volevo aiutare i miei com-pagni. Noi privilegiati ci dovevamo battere per migliorare,almeno, le condizioni carcerarie dei militanti. Ma non sapevocome fare. In quel periodo ho cominciato a pensare a metodidi lotta differenti, ma non meno importati. M’ispirai ai palesti-nesi e ai loro murales, come quelli di Naji al-Ali, il grandedisegnatore che aveva creato il personaggio di Handala, ilbimbo di spalle che osserva il conflitto. I primi murales li hofatti in prigione”. Da allora Denny non si è più fermato, dise-gnando più di 1500 murales da Belfast fino a New York.Uscito dal carcere nel 1976, continua la sua lotta con mezzi

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differenti. “Quando sono uscito i murales erano ormai moltodiffusi; io usavo i murales per dare corpo alle immagini poli-tiche che mi premevano. Ho cominciato con i grandi punti diriferimento internazionali della nostra lotta, dipingendo HoChi Min e Che Guevara, poi sono passato a raccontare gli epi-sodi della nostra storia. In quegli anni teneva ancora banco lateoria dei primi ribelli irlandesi, come Michael Collins, secon-do cui solo la lotta armata portava risultati concreti. Io e tantialtri come me ci siamo convinti che i murales non fosseromeno importanti. Sono un mezzo economico e non violento dipromuovere gli ideali politici che permette di raggiungere ungran numero di persone. Una volta è venuta la tv a riprender-mi mentre dipingevo un murales: la sera almeno 40 milioni dicittadini britannici hanno visto quel servizio. È facile capirel’importanza di quello che io e gli altri sapevamo di fare: perun risultato del genere erano bastati un muro e un pennello”.Tutto il mondo, alla fine, ha conosciuto il conflitto nord irlan-dese anche attraverso i suoi murales. Devenny, poi, è diventa-to una specie di simbolo, apprezzato e celebrato come un arti-sta internazionale.

“Io non sono un artista e non voglio essere rappresentatocome tale: io sono un attivista politico”, risponde secco De-venny. “Non amo gli artisti: quando avevamo bisogno del loroappoggio, nelle carceri e sulle barricate, non si è visto nessu-no”. Una battaglia politica che si combatte ancora. “Oggi lebattaglie le possiamo fare in Parlamento, attraverso i nostridelegati. Voglio che i miei figli e i miei nipoti crescano in unmondo così, senza violenza. I murales, però, non hanno persovalore. Raccontano la storia di queste strade, la sofferenzadelle mia gente. E parlano ancora, promuovendo i valori posi-tivi. Come la boxe, un’arte che ha un grande seguito tra gliirlandesi. Con i miei murales ho celebrato i mitici boxeur natitra queste strade, per dire ai nostri ragazzi che loro erano come

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voi e ce l’hanno fatta. Contro la divisione, la disoccupazionee la droga. Io lotto ancora, ma come diceva Bobby Sands: se-condo il mio ruolo. Non importa se questo ruolo sia grande opiccolo, perché nella lotta per la libertà ciascun ruolo è impor-tante come un altro”.

A Bobby Sands è dedicato forse uno dei murales più noti diBelfast, quello che occupa una parete della sede del Sinn Fein,il braccio politico dell’Ira ormai a pieno titolo coinvolto nelgioco democratico. Sands è morto in carcere, prima di com-piere trent’anni, a causa dello sciopero della fame che lui etanti suoi compagni iniziarono nel 1981 nel carcere di LongKash, lo stesso di Devenny. Giornalista e poeta, Sands si bat-teva per i detenuti politici, come Denny. Lui è morto, ma hafinito per ispirare altre forme di lotta, come quella di Denny,ed è proprio un murales che rende Bobby Sands immortale.Più della sua tomba, una tra le tante, nel cimitero di Milltown,uno di quelli di Belfast a non essere diviso da un muro. Perchéanche da morti cattolici e protestanti non ne vogliono saperedi stare assieme. Anche se sono molto simili, in un certosenso. Se l’alter ego di Falls Road è Shankill Road, con i suoimurale protestanti, Mark Irvine è l’alter ego di Denny Deven-ny come autore di murales.

“Sono nato nel 1972 e ricordo la mia infanzia come uninferno: barricate e sparatorie nelle strade, polizia ovunque”,racconta Mark. “Ti fermavano, armati fino ai denti, chieden-doti chi eri, come ti chiamavi, perché ti trovavi in quella stra-da. Non c’era nessuno che non avesse perso almeno un paren-te, non c’era una bomba che non creava nuovo dolore. Sonocresciuto in mezzo a quel odio e a quel terrore, ma i muralesmi affascinavano”. Solo che Mark decide che il fascino che imurales esercitavano su di lui, poteva essere usato in modocostruttivo. “Mi sono sempre rifiutato di disegnare muralesaggressivi, legati ai temi della lotta armata. Non sono costrut-

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tivi: la mia gente ha la violenza addosso, dobbiamo lavoraresu immagini nuove, positive, perché i miei figli crescano pen-sando a costruire il loro futuro, non odiando qualcuno per ilmio passato. Qui ci sono mille problemi: il lavoro, la casa, ladroga. E nelle zone cattoliche i problemi sono dannatamenteuguali ai nostri. Su questo bisogna lavorare, magari tutti insie-me”. Mark l’ha fatto. Incontrando Denny e costruendo unacollaborazione proficua. “Ho conosciuto Denny perché en-trambi lavoravamo a un progetto per gli adolescenti di questacittà. Per il centenario di Belfast ci hanno chiesto se, simboli-camente, volevamo fare una foto assieme. È stato un attimo:ci siamo guardati e ci siamo messi in posa ridacchiando. Daallora lavoriamo assieme a tanti progetti. Il più importante èstato quello di un murales dedicato ai Beatles, a Liverpool,quando la città è stata capitale della cultura nel 2008. Unsegnale forte, del quale si è parlato molto. Esattamente quelloche volevamo”.

Una bella amicizia, un bell’esempio. Ma quanto concreto?“Tanti sono ancora divisi, per le strade e nella testa. Però oggiposso andare in giro nel mio quartiere e convincere la genteche voglio coprire un murales dell’odio con uno nuovo. Ma-gari lo dedico alla Belfast operaia, dove non c’erano prote-stanti e cattolici ma sfruttati. Ecco, questa è l’idea: guardiamoa quello che abbiamo in comune, magari alle problematiche, eusiamo la potenza dei murales per immaginare un futuro dif-ferente”.

Camminando per Shankill Road, in effetti, la tristezza e ilgrigiore sono un pugno nello stomaco. In tanti punti è rappre-sentato il battaglione di volontari dell’Ulster, che nella PrimaGuerra mondiale si coprirono di gloria al fronte per la loroGran Bretagna. Solo che viene da pensare a quanto Londra siagrata a queste persone che, in armi, presidiano una lealtà,un’appartenenza che per adesso gli ha regalato solo un conflit-

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to brutale e tanta povertà. L’Orange Hall, un teatro che ha piùdi cento anni, è polveroso e cadente. Simile in modo incredi-bile alla libreria pubblica di Falls Road. Quanto si somiglianoquesti due simboli della cultura, tenuti in ostaggio dall’odio edalle divisioni.

Dopo l’Accordo del 1998 in molti hanno sperato che lecose potessero cambiare. Pochi mesi dopo la firma, però, alcu-ni dissidenti dell’Ira non accettarono la fine delle ostilità. Ungruppo che faceva capo a Mark McKevitt e a BernadetteSands, sorella di Bobby, sceglie il nome di Real Ira e decide dicontinuare la lotta. Il casus belli lo offre un assalto di un grup-po protestante che, a luglio del 1998, da fuoco a casa Quinn,un attivista cattolico. Tra le fiamme muoiono i tre figli del-l’uomo, tre bambini. Real Ira decide di sfruttare l’onda emoti-va per raccogliere accoliti e piazza un’autobomba carica di tri-tolo nella cittadina di Omagh, uccidendo 28 persone.

Dopo quell’attacco la violenza è andata progressivamentediradandosi. Fiumi di birra, come la nera Guinness, ha conti-nuato a scorrere nei pub.

Il contesto, senza dubbio, non è neanche lontanamenteparagonabile all’epoca dei Troubles o ai colpi di coda succes-sivi all’accordo del 1998. La questione, però, è lontana dal-l’essere risolta, almeno nei cuori delle persone. Per renderse-ne conto basta scorrere le cronache del 2009.

L’8 marzo, ad Antrim, a nord ovest di Belfast, i soldati in-glesi di stanza in Irlanda del Nord (dopo il 1998 ne sono rima-sti 5mila) decidono di ordinare qualche pizza, da consumarenella caserma Massereene, magari guardando una partita dicalcio in televisione. In fondo è sabato sera anche per loro. Lapizzeria invia il ragazzo delle consegne; all’ingresso della ba-se lo aspettano in quattro. Il furgoncino rallenta e accosta.Scendono due garzoni, perché le pizze sono venti. In un atti-mo si materializza un camioncino, che passa a tutto gas, con il

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portello laterale aperto. Fuoco serrato, di arma automatica.Sull’asfalto restano senza vita i soldati Mark Quinsey, 23 anni,di Birmingham, e il soldato Patrick Azimkar, 21enne di WoodGreen, a nord di Londra. Altri due soldati restano feriti, comei fattorini della pizzeria. Poche ore dopo squilla il telefonodella redazione di Dublino del Sunday Tribune; una voce arte-fatta si accredita come portavoce di Real Ira e rivendica l’at-tacco. Neanche il tempo per i media britannici e irlandesi direalizzare quello che era accaduto che, nel villaggio di Crai-gavon, contea di Armagh, l’attenzione di una pattuglia di poli-zia durante una ronda di routine viene attirata da movimentisospetti nei pressi di una scuola superiore. La contea è statacalda in passato e il villaggio ha una comunità cattolica e unaprotestante che non si amano molto. L’edificio scolastico ènella zona di Lismor Manore, feudo cattolico. L’agente Ste-phen Paul Carroll, 48 anni, e il suo partner decidono di dareun’occhiata. Cadono in un’imboscata e Carroll viene freddatocon un colpo di pistola alla nuca. Poche ore dopo l’omicidioviene rivendicato da Continuity Ira, l’altra ala dei dissidentiirlandesi in Ulster. Un botta e risposta immediato, nel giro didue giorni, come se un gruppo avesse sentito l’immediatobisogno di replicare al colpo dell’altro, per non abbandonare ilcampo da gioco. I leader politici nord irlandesi, protestanti ecattolici, si schierano con il premier britannico nel condanna-re le azioni isolate di militanti irriducibili. “Nessuno porteràindietro l’orologio della storia”, dichiarano con una voce sola.A maggio, però, la violenza torna per le strade di Der-ry/Londonderry. I Rangers Glasgow vincono il titolo e i soste-nitori protestanti, ubriachi, si riversano per le strade. Una pa-rola di troppo, uno sguardo troppo duro scatena una sorta dicaccia al cattolico. Ne paga le conseguenze Kevin McDeid,impiegato comunale di 49 anni, pestato a morte. Kevin erasceso in strada, assieme alla moglie Evelyn, per recuperare i

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propri figli che erano per strada e che i genitori volevanoriportare a casa. I picchiatori, che hanno mandato anche la mo-glie in ospedale e hanno picchiato a sangue anche un passan-te che ha tentato di fermarli, avranno letto il giorno dopo suigiornali che Kevin lavorava da anni ad un progetto di dialogotra le comunità. Avranno letto che Evelyn, pur sposata ad uncattolico, è protestante.

Non ci sono solo cattolici, dunque, che continuano a odia-re. Un esempio sono le marce ‘orangiste’, che si abbattono og-ni anno come un flagello sull’Irlanda del Nord.

Il 12 luglio, ogni anno, i protestanti commemorano la bat-taglia del fiume Boyne tenutasi nel 1690, che sancì la supre-mazia dei protestanti sui cattolici durata fino al ritorno degliirlandesi a fine Ottocento. L’Orange Order, un’organizzazionifilo massonica, commemora ogni anno l’evento, marciandonelle città nord irlandesi, anche nelle zone cattoliche. Nonpassa anniversario senza gravi scontri, tra le due comunità otra i cittadini e la polizia. Il turismo risolverà anche questoproblema?

Nel 2006 sembrava di si, perché lo stesso ordine sembravaorientato a rendere la ricorrenza una festa folkloristica, sulmodello del carnevale di Notting Hill a Londra. Non è andatacosì e anche quest’anno ci sono stati scontri e violenze.

L’odio rimane, pericoloso e assassino, anche se nascostosotto la cenere. Sono pochi, gli estremisti, magari non hannopiù l’appoggio delle comunità, come sostengono i politici del-l’una e dell’altra parte. È molto probabile che questi ultimiabbiano ragione, almeno per il momento. Real Ira e ContinuityIra, secondo l’intelligence di Londra, possono contare su unadozzina di cellule clandestine, in grado di muoversi in modoindipendente. Un totale di circa 200 militanti attivi, più unarete di circa 2mila simpatizzanti. Pochi, ma ben armati.Michael McKevitt, il leader dissidente che aveva dato vita a

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Real Ira, nell’Ira ricopriva il ruolo di armiere. Con un accessoprivilegiato agli arsenali nascosti del gruppo. Armi leggere epesanti, in quantità, più quel che resta dell’esplosivo Simtexche il colonnello Gheddafi regalava ai militanti irlandesi neglianni Ottanta.

La storia ha voltato pagina, al punto che Gheddafi oggi èun buon amico dell’Occidente. L’Irlanda ha aderito al Trattatodi Lisbona, come la Gran Bretagna (sterlina a parte) e i confi-ni sono sempre meno significativi. McKevitt finisce i suoigiorni in un carcere di massima sicurezza in Inghilterra, ma laguerra non è finita per tutti. Il problema non è tanto quello deigruppi armati, ma l’area dei simpatizzanti. Loro la guerral’hanno dentro. All’inizio di settembre, a Belfast, la polizia èdovuta intervenire sparando pallottole di gomma per disperde-re un gruppo di circa 200 persone - cattolici e protestanti - cheavevano scatenato una rissa gigante. Episodi così accadonomolto, troppo spesso. L’odio non è stato cancellato con lafirma dell’accordo del 1998 e in tanti chiedono ancora giusti-zia. Nel 1998, come corollario dell’accordo di pace, l’allorapremier britannico Tony Blair istituì una commissione d’in-chiesta guidata da Lord Saville, incaricata di fare chiarezzasulla bloody sunday del 1972. Sono passati più di dieci anni,ma il 24 settembre scorso un Lord Saville amareggiato haannunciato l’ennesimo rinvio della pubblicazione delle con-clusioni dell’indagine. La nuova scadenza è stata fissata perNatale, ma il comitato Bloody Sunday Trust, composto daiparenti delle vittime del ’72, è sempre più disilluso nei con-fronti di quella che è già passata alla storia come la commis-sione d’inchiesta più costosa e più duratura della storia britan-nica. Fare giustizia è importante, per tenere quei simpatizzan-ti lontani dalle armi e dall’idea di una storia che avanza senzafermarsi a dare un nome ai colpevoli. Una mano anonima, nelsolco della tradizione, poche ore dopo l’attacco alla caserma

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di Antrim, ha disegnato un nuovo murales a Falls Road: “Fuckyou and your pizza. Brits out”. I muri di Belfast sono ancorain piedi e non cadranno presto, ma se devono restare possonoessere colorati di nuovi murales.

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CAPITOLO 3

Israele e Palestina, diritto contro un muro

La sveglia suona all’alba. Il lavoro, quando c’è, o la scuo-la sono molto vicini, ma adesso ci si impiega delle ore per rag-giungerlo. Per lavarsi bisogna fare molta attenzione: l’acqua època e il pozzo è finito dall’altra parte. Bisogna camminareper chilometri prima di arrivare a un pozzo, oppure pagarladelle cifre spropositate. Una colazione veloce e via, in macchi-na o a piedi. Pregando che il check-point non sia chiusoAltrimenti niente scuola, niente lavoro. Nella migliore delleipotesi ci saranno code lunghissime per passare, sperando chenon ci sia qualche tragedia da dover guardare, come unadonna costretta a partorire in strada perché non la fanno pas-sare. Altre volte può capitare che i ragazzini si mettono a tira-re sassi o vernice, così poi magari quelli cominciano a spara-re. Altre volte ancora può capitare di assistere all’umiliazionedi una donna, costretta a togliersi il velo davanti a tutti. È capi-tato, nel campionario delle umiliazioni quotidiane, addiritturache un musicista fosse schernito dai soldati, costretto a suona-re il suo violino, sotto la minaccia delle armi. Mai dimentica-re i documenti, poi, una specie di ossessione. Perché altrimen-ti finisce male.

Di fronte a storie come queste sembra meno dolorosoanche il fatto che gli ulivi coltivati da sempre siano finiti dal-l’altra parte, oppure siano stati sradicati.

Benvenuti in Palestina. Questa è la giornata tipo di qualsia-si palestinese della Cisgiordania. Questo è il volto più terribi-le dell’occupazione, quello che digrigna i denti ogni giornoche nasce, sempre uguale a se stessa. Sempre uguale. C’è qua-

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si da sperarlo, altrimenti domani andrà peggio, come direbbela giornalista israeliana Amira Hass. L’occupazione è in attodal 1967, i primi profughi sono fuggiti dalle loro case nel1948, ma forse nulla ha ferito l’anima dei palestinesi come lacostruzione del muro che circonda la Cisgiordania. Il murodella vergogna, o la barriera di separazione, come la chiama-no gli israeliani, in una terra sulla quale anche il modo di chia-mare le cose segna delle divisioni.

Tutto ebbe inizio nel 2000. Il governo israeliano, guidatodal primo ministro laburista Ehud Barack ritenne che non esi-steva più un interlocutore palestinese con il quale negoziareuna pace. Punto e basta. Bisognava solo decidere come sepa-rarsi da loro per sempre, in spregio ai millenni di convivenzatra musulmani, cristiani ed ebrei in questa benedetta terrasanta. Alzare un muro, ecco la soluzione, una divisione perma-nente: noi e loro, anche se quei confini sono così dannatamen-te labili. Ma Barack era già dimenticato. La sagoma del gene-rale Ariel Sharon si stagliava all’orizzonte, l’eroe di guerrapronto a girarsi dall’altra parte in Libano nel 1982, in modoche le milizie maronite potessero massacrare impunementemigliaia di civili palestinesi inermi nei campi profughi diSabra e Chatila. Sharon decise di lanciare un messaggio chia-ro a tutto il mondo: è finito il tempo delle trattative. Il 28 set-tembre 2000, poco prima di essere eletto primo ministro alposto di Barack, il vecchio generale passeggia sulla Spianatadelle Moschee, a Gerusalemme, terzo luogo più sacro perl’Islam nel mondo. La provocazione è la goccia che fa traboc-care il vaso delle frustrazioni delle generazioni più giovani dipalestinesi, quelli che hanno guardato agli Accordi di Oslo del1994 come a un nuovo inizio. Nei sei anni successivi nessunadi quelle promesse è stata mantenuta, né dagli israeliani, nédalla casta del potere di Arafat, né dalla comunità internazio-nale. I giovani palestinesi non credono più a nessuno. Co-min-

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cia la Seconda Intifada, la sollevazione popolare. Solo che adifferenza della prima non ci sono le pietre, ma i mitragliatoripesanti. Un bagno di sangue, migliaia di vittime. E di attenta-tori suicidi, l’arma estrema. Tanti giovani arabi si radicalizza-no, la storica laicità del popolo palestinese viene spazzata viadalla disperazione di una vita profuga e occupata, che non valenulla. Meglio la morte, tra le file dei nemici. Siano anchedonne, vecchi e bambini, una differenza che non vedono i sol-dati israeliani e che decidono di non vedere più neanche loro.Il muro, ecco cosa ci vuole per fermarli, dichiara Sharon almondo. La barriera difensiva, il muro della vergogna. La pri-ma pietra viene posata il 16 giugno 2002.

Quando sarà terminato, il muro sarà lungo 730 chilometri.Per ora ne sono stati eretti 413, ma il suo percorso è mutatodecine di volte, in particolare tra il 2004 e il 2005, per decisio-ni della stessa Corte Suprema israeliana e per le pressioni del-l’opinione pubblica europea. Blocchi di cemento, alti fino aotto metri. Torrette di guardia, filo spinato e trincee che vigi-lano sul corretto funzionamento delle più sofisticate misure disicurezza realizzate dall’uomo, con i più moderni sistemi araggi infrarossi. Alla fine del 2004, per costruirlo, erano giàstati sradicati almeno cento mila alberi di ulivo e di limonepalestinesi, demoliti trecento chilometri quadrati di serre e 37chilometri di condutture per l’irrigazione. Il muro, nel 2004,sorgeva su 15mila dunum (1 dunum = mille metri quadri) diterra confiscata e il progetto prevede la confisca di altri 120-150 mila dunum, oltre alla demolizione di migliaia di casepalestinesi che si trovano nella ‘zona di sicurezza’ e che quin-di le autorità militari israeliane confiscano. Il muro aveva giàisolato 36 fonti d’acqua sotterranee e più di 200 cisterne dallecomunità e altri 14 pozzi sono stati demoliti e deviati (in favo-re delle colonie illegali israeliane) perché situati nella zonacuscinetto. Quando sarà terminato il muro, in alcuni punti,

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penetrerà come una lama affilata fino a 23 chilometri nel ven-tre della Cisgiordania, oltre la Linea Verde che segna il cessa-te il fuoco del 1967. Quella stabilita dalle Nazioni Unite. Già,l’Onu. Sempre più costretta nel ruolo della vecchia zia, che infamiglia tutti sopportano a stento e che nessuno ascolta, la-sciandola borbottare in un angolo del salotto.

Accade da anni, rispetto al conflitto israelo-palestinese. So-no decine le risoluzioni che condannano l’occupazione da par-te dell’esercito israeliano dei territori che le Nazioni Unite as-segnano ai palestinesi. Tutte inascoltate. Il muro non fa diffe-renza. Il meccanismo è sempre lo stesso, come quello di unasgangherata compagnia teatrale che mette in scena da anni lostesso copione.

Nell’ottobre 2003, su iniziativa di un gruppo di paesi arabi,la questione del muro in Palestina arriva all’esame del-l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’Assemblea, il 21ottobre 2003, adotta la risoluzione ES/10-13, che condanna lacostruzione di un “Muro” nel “territorio palestinese occupa-to”. Questa decisione non è vincolante e venne respinta dalloStato di Israele. L’8 dicembre 2003 l’Assemblea vota la riso-luzione ES/10-14, che chiede un parere consultivo sulla co-struzione del muro alla Corte Internazionale di Giustizia del-l’Aja, supremo organo legale delle Nazioni Unite.

“L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, èin procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivicompreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regimeche gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”, re-citava la sentenza emessa dalla Corte il 9 luglio 2004. L’As-semblea Generale dell’Onu, il 20 luglio 2004, ascoltato il pa-rere dei giudici, approva la risoluzione ES/10-15, che “esigeche Israele, potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridi-ci come essi sono enunciati nel parere consultivo”. Il testo vie-ne approvato con 150 voti a favore, compresi tutti quelli del-

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l’Unione Europea. Sei i contrari, tra i quali Israele e Usa, edieci i Paesi astenuti. Le risoluzioni dell’Assemblea, però, nonsono esecutive e non sono vincolanti.

Lo sono, invece, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezzadelle Nazioni Unite, dove però arriva puntuale l’esercizio delpotere di veto da parte degli Stati Uniti d’America a bloccareogni testo di condanna d’Israele. Nei rari casi in cui il veto nonè arrivato, Israele ha disatteso comunque le ingiunzioni delleNazioni Unite.

La Corte Suprema israeliana, giocando d’anticipo sul pare-re della Corte Internazionale di Giustizia, deliberò il 30 giu-gno 2004 la liceità della costruzione del muro di separazione,ma l’obbligo di apportare alcune modifiche del tracciato neipunti in cui questo violava i confini dei Territori Palestinesioccupati. La stessa Corte israeliana, il 15 settembre 2005, al-l’unanimità, giudicava illegale una parte della barriera di sepa-razione riferendosi a quella parte edificata in territorio occu-pato. Il governo israeliano, però, non ha dato ascolto neanchealla sua suprema istanza del diritto, modificando solo in alcu-ni punti il tracciato e non eliminandone le violazioni dei terri-tori che le Nazioni Unite assegnano alla Palestina in base allaLinea Verde del cessate il fuoco del 1967.

Tutta carta straccia. Il muro è ancora là, come un enormeserpente grigio, che i riflessi del sole rendono simile a un biz-zarro animale preistorico. Il tutto finalizzato a includere nellazona al riparo dal muro le decine di colonie illegali ebraiche.Il movimento dei coloni israeliani, fondamentalisti che siritengono in missione per conto di Dio, non concepisce l’ideadi uno Stato palestinese. Per loro i precetti religiosi sono chia-ri: il Grande Israele va dal fiume Giordano al Mediterraneo,come simboleggiano le due strisce azzurre della bandieraisraeliana sopra e sotto la Stella di David. Il diritto internazio-nale vieta qualsiasi forma di colonizzazione illegale di un ter-

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ritorio occupato, ma il piano di Sharon era quello di creare unostatus quo tale da modificare i confini del 1967 all’eventualetavolo delle trattative. Per questo si ruba la terra, gli alberi el’acqua ai palestinesi.

Il numero degli attentati suicidi palestinesi in territorioisraeliano è drasticamente diminuito in questi anni. Per alcuniin quanto la strategia o le disponibilità logistiche dei milizianipalestinesi sono rispettivamente cambiate e diminuite, per altriperché il muro impedisce fisicamente gli attacchi, rendendoimpossibile ai miliziani l’infiltrazione in territorio israeliano. La verità, questa sconosciuta, finisce per lasciare il tempo chetrova. Nel senso che lo Stato d’Israele era libero di costruireun muro, ma lungo i confini che la comunità internazionale gliriconosce. Potevano esserci considerazioni morali, magari, manessuno avrebbe potuto negare che quello era il legittimo eser-cizio di un diritto di sovranità. Differente diventa la questionequando la costruzione del muro comporta l’esproprio di terree risorse che il diritto internazionale assegna al futuro Statopalestinese. Elemento ancora più grave in considerazione delfatto che questa violazione avviene in difesa del movimentodei coloni. Uno Stato che si ritiene l’unica democrazia delMedio Oriente dovrebbe impedire che questi estremisti occu-pino le terre degli altri, non intervenire per tutelarli violando idiritti dei palestinesi. Il muro, comunque, c’è e tante comuni-tà palestinesi pagano un prezzo altissimo. Alcuni casi sonodiventati simbolici, come quello delle città di Tulkarem, Qal-qiliya, e Gerusalemme Est, dove i palestinesi sono circondatidal muro, chiusi in novelle enclavi che ricordano il Sudafricadell’apartheid.

Betlemme, però, non può non avere un significato specia-le. Anni fa, in occasione del Natale, una vignetta pubblicata daun giornale arabo fece il giro del mondo: i re Magi, in marciaverso la grotta della natività, erano impegnati a scavare un

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tunnel sotto il muro per passare dall’altra parte e raggiungereGesù. La satira, spesso, coglie in un tratto il senso di mille pa-role.

Bilal Jado è un ragazzo palestinese di 21 anni, alto e forte.Vive in una fattoria alle porte di Betlemme, in mezzo alla cam-pagna e agli animali, dove la sua famiglia risiede da genera-zioni.

Il viso di Bilal s’illumina quando mostra orgoglioso le terrecoperte di ulivi dove è nato, ma s’incupisce quando indica ilmuro. Alto, freddo, grigio. Il muro è apparso all’improvvisonella vita di Bilal e della sua famiglia. “Ovviamente, sapeva-mo quello che stava succedendo, ma non pensavamo che sa-rebbe arrivato così presto”, racconta Bilal. “Una mattina sonovenuti qui alcuni uomini in abiti civili. Hanno annunciato allamia famiglia che i lavori per la costruzione della barriera sta-vano per cominciare nella campagna attorno a casa nostra.Hanno offerto un indennizzo per abbandonare la terra dovetutti i miei familiari ed io stesso siamo nati. La sera mio padreci ha riuniti tutti in cucina. Ci ha chiesto cosa ne pensassimo,ma in realtà tutti conoscevamo già la risposta. Per quanto lanostra vita potesse diventare dura - dice Bilal -nessuno di noivoleva lasciare la nostra casa. Qualche giorno dopo la visita diquelle persone, sono arrivati i bulldozer e i camion. Adesso c’èquello che potete vedere guardando fuori”.

Dalla veranda della casa di Bilal, all’ombra di rampicantiche sembrano eterni, il muro si vede in tutta la sua lunghezza.“Noi cerchiamo di continuare a vivere normalmente”, spiegail ragazzo, “ma niente è più come prima”. Il muro in questazona rientra nel tratto della barriera chiamato Jerusalem envelo-pe, pensato per annettere a Gerusalemme gli insediamentiisraeliani sorti attorno a Betlemme.

La fattoria degli Jado resta all’interno della barriera e vieneseparata da Betlemme. E la famiglia di Bilal, nove persone in

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tutto, resta sospesa in una sorta di limbo amministrativo. “Lanostra posizione è particolare”, spiega Azem, lo zio di Bilal,mentre guarda malinconico le terre che appartenevano alla suafamiglia e che adesso sono state requisite, “viviamo in territo-rio israeliano, ma non abbiamo i documenti. I funzionari israe-liani ce lo hanno spiegato: loro annettono le terre, non le per-sone che ci vivono. Quindi non siamo in possesso dell’IDCard (documento di riconoscimento che la municipalità diGerusalemme rilascia ai residenti con il quale possono entrarein città ndr) e perciò non possiamo andare a Gerusalemme.Ma, allo stesso tempo, il muro ci separa da Betlemme e, quan-do i lavori saranno terminati, non potremo più andare a far laspesa in città: saremo da questa parte del muro. Non più citta-dini di Betlemme, non ancora cittadini di Gerusalemme.Contiamo sulla solidarietà di amici che hanno i documenti perfare compere e soprattutto per vendere i prodotti della fatto-ria… per vivere insomma”. “Per il governo israeliano - conti-nua zio Azem - è come se non esistessimo, anche se comun-que dobbiamo pagare le tasse. A volte, ci viene in mente cheforse il muro lo costruiscono con i nostri stessi soldi. Ma dallanostra casa non ci muoviamo”.

Quanto sia cambiata la vita della famiglia Jado lo si capi-sce dal piccolo Zyad, il fratellino di 8 anni di Bilal. Due annifa, per andare a scuola, il bimbo impiegava venti minuti.Giusto il tempo di trotterellare, con uno zainetto troppo gran-de per lui, dietro al fratello che portava le pecore al pascolo edi raggiungere poi Betlemme. Adesso Zyad è costretto a com-piere un giro tutto attorno al muro per raggiungere la scuolapiù vicina dove gli è consentito andare. C’impiega due ore.“Lo devo accompagnare”, racconta Bilal con un atteggiamen-to paterno che stride con i suoi 21 anni, “troppa strada da fareda solo. Perdo tanto tempo, ma per il suo bene lo faccio. Io hosmesso presto di studiare, ma Zyad deve continuare. Ho co-

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minciato subito a occuparmi delle pecore e mi è sempre pia-ciuto girare per queste terre, mi sentivo libero. Potevo rilassar-mi e godermi l’aria fresca, ma adesso devo stare attento per-ché i lavori continuano ogni giorno e la mattina troviamo untratto nuovo di muro. Tempo fa mi potevo anche distrarre, per-ché tanto le pecore conoscevano perfettamente l’area attornoalla fattoria. Adesso anche loro sono smarrite, Sharon - ag-giunge Bilal scoppiando a ridere - dovrebbe scusarsi anchecon loro”. Sembra che in futuro, una volta finiti i lavori dicostruzione, verranno predisposti dei cancelli per l’attraversa-mento del muro. I pass saranno rilasciati a chi dimostrerà diavere una necessità assoluta di doversi recare a Betlemme.Vivendo del lavoro della loro fattoria, la famiglia Jado difficil-mente godrà di questo permesso. “Non credo che al governoisraeliano interessi il fatto che ho tutti i miei amici dall’altraparte”, racconta Bilal. “Per ora, facendo dei chilometri e aggi-rando il muro nella zona dove non è stato terminato, riesco araggiungere Betlemme, ma alla fine resterò lontano da tutte lepersone che conosco da sempre, dai ragazzi con i quali sonocresciuto e che per me sono come fratelli”.

Bilal si fa strada attraverso gli ulivi per mostrare la stradache percorre la sera dopo il lavoro per incontrare i suoi amici.Dopo una mezz’ora buona di cammino tra sassi e alberi rima-sti, visto che i lavori per la costruzione del muro hanno com-portato l’abbattimento di centinaia di piante, incontra un grup-po di coetanei che passano il tempo a chiacchierare vicino almuro. “Non c’è lavoro”, spiega Bilal quasi a cercare di giusti-ficare i suoi amici, “non hanno nulla da fare e allora vengonoqui, per stare assieme”. Sono in tanti e si assomigliano. Tuttiripetono le stesse accuse: “gli israeliani ci rubano la terra e ab-battono i nostri alberi che rappresentano la nostra identità, cichiudono in un ghetto”. Si sfogano tirando sassi contro la bar-riera, guardati a vista da uomini armati che presidiano lo svol-

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gimento dei lavori. Si sfogano scrivendo sul muro minacce eslogan e, uno di loro dotato di particolare fantasia, ha disegna-to le orme di un paio di piedoni enormi che scavalcano il muro.

“Puoi chiudere qualcuno oltre un muro”, spiega Bilal conun sorriso amaro, “ma non puoi impedirgli di fantasticare. Iopenso che, a fatica, potrei accettare di vivere in questo modo.Potrei accettare di fare i salti mortali per fare la spesa. Potreiaccettare di fare dei chilometri per raggiungere un luogo chein linea d’aria dista pochi metri. Potrei accettare d’incontrarei miei amici da qualche altra parte, ma quello che proprio nonriesco ad accettare è il fatto che qualcuno ha cambiato il mioorizzonte. Da quando sono nato l’unico viaggio che potevopermettermi era quello immaginario che compivo guardandolibero l’orizzonte. Oggi questo muro me lo impedisce. No…questo non lo accetterò mai”.

I muri, da sempre, non servono a niente. Non hanno maifermato le idee, ne hanno rese solo più complessa la circola-zione. Il Jerusalem Hotel è un’istituzione della città tre voltesanta. Una birra consumata nel suo bar è una tappa obbligata,in un luogo dove è passata e passa la storia e i personaggi piùinteressanti. Come Nafez.

“Mi dica cosa rappresenta per lei questo disegno”, chiedeun agente della sicurezza israeliana a un palestinese dopoavergli porto un foglio di carta dove è disegnata una brocca,“un papero, per me è un papero”, risponde placido il palesti-nese. “E allora secondo lei cosa sarebbe questa?”, replical’agente israeliano senza perdere la testa indicando uno deidue manici. “Il becco signore”, risponde il palestinese. “Equesto per lei cosa rappresenta?”, dice il militare innervosen-dosi e indicando il secondo manico. “Il secondo becco delpapero signore!”. Quella che potrebbe sembrare una storiellaè solo un esempio della fantasia di un non-violento che resistea modo suo a uno degli innumerevoli interrogatori che un

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palestinese subisce quasi ogni giorno, con tanto di test psico-logici. Nafez Assaily racconta un episodio di una vita in unPaese difficile, un Paese in guerra, ma lo fa con un sorrisodisarmante.

Nafez Assaily ha dedicato la sua vita alla scelta della non-violenza ed è rigenerante trovarsi di fronte a una persona chedà voce alla ragione, in una zona in cui da troppo tempo par-lano solo le armi.

“La mia storia comincia nel 1986”, racconta Nafez, “quan-do ho fondato il Lownp (Library on Wheels for Nonviolence &Peace). Tutto è partito da una scelta non-violenta. Giravo peri villaggi arabi più sperduti, con il mio furgoncino. Alle fami-glie mi avvicinavo chiedendo di poter lasciare dei libri perbambini da leggere ai loro piccoli, così senza avere nulla incambio. Non era un regalo, ma un prestito. Dopo una settima-na tornavo e chiedevo i libri indietro, lasciandone dei nuovi.Così ottenevo due risultati: da una parte i bambini leggevanoe aumentavano le loro conoscenze, dall’altra parte riuscivo aentrare in confidenza con le famiglie, conoscevo i loro proble-mi. Loro si fidavano e si confidavano, a quel punto mi davo dafare per dare loro una mano. Non mi sono mai fermato davan-ti a niente, neanche quando dovevo raggiungere i posti piùimpervi. Arrivavo in macchina fino a dove era possibile, poicaricavo i libri su un mulo e cominciavo ad arrampicarmi super le stradine. Adesso il muro ha reso tutto più complesso, maio continuo. Sono testardo come il mio mulo”. Nafez raccon-ta la sua storia con autoironia, che non diventa mai retorica.Dietro i suoi occhiali che gli conferiscono un’aria da maestroelementare, fumando una sigaretta dietro l’altra, ride di gustodelle sue trovate sul cammino della non-violenza. “Una voltai militari israeliani hanno abbattuto tutti gli alberi di ulivo diuna comunità”, continua l’educatore di strada, come ama defi-nirsi Nafez, “allora ho radunato le famiglie coinvolte e ho

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detto loro che la risposta non era la violenza, ma la perseve-ranza. Bisognava ripiantare gli alberi. La prima volta tutte lepiante sono state sradicate nuovamente, ma la seconda voltaabbiamo agito diversamente. Per piantarle abbiamo aspettatola Festa della Terra in Israele, giorno in cui tutti piantano albe-ri. Ho invitato le persone a piantare alberi e nessuno potevadirci nulla, perché c’era la festa. I soldati alla fine hanno accet-tato di lasciare gli alberi al loro posto in cambio dell’impegnoa non piantarne di nuovi. Un buon risultato, ottenuto senzabisogno di lanciare pietre che avrebbero dato la scusa perattaccare la popolazione”.

“Il conflitto di questa terra segue uno schema triangolareche andrebbe rovesciato”, spiega Nafez afferrando con le suegrandi mani un blocco di appunti e cominciando a disegnarefigure geometriche, “il vertice alto è sempre l’occupazione. Idue vertici bassi possono cambiare e lo hanno fatto durantequesti anni. Possono esserci i movimenti armati da una parte ela popolazione civile dall’altra. Questo triangolo è velenoso,perché l’occupazione schiaccia i militanti e i civili ne paganole conseguenze. Io propongo un triangolo differente: ai verticibassi devono esserci la non-violenza e la popolazione civile.Questo garantisce l’appoggio dell’opinione pubblica interna-zionale e israeliana. Così si vince!”. L’entusiasmo di Nafez ètale che quello che dice, nella sua semplicità, in una terra con-tesa dove tutto sembra difficoltoso, riesce a sembrare possibi-le. “La situazione è durissima”, dice il palestinese facendosiserio, “la disoccupazione è terribile, io per primo avevo duebiblioteche stabili, ma ho dovuto chiuderle perché non copri-vo le spese. L’esercito israeliano adotta una strategia dura chemira a disgregare il nucleo familiare palestinese umiliando ilpadre davanti a sua moglie e ai suoi figli. Nella cultura arabaè gravissimo. Inoltre il padre è spesso un uomo in difficoltà,senza lavoro e questo finisce per renderlo frustrato e magari

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violento con la moglie e i figli. Ma non riusciranno a farlo,perché le famiglie palestinesi sono molto unite. Allora prova-no a diffondere la sfiducia reciproca tra i palestinesi, per divi-dere la comunità, portandoli a sospettare l’uno dell’altro.Questo purtroppo riesce meglio, perché il tam tam tra la nostragente è fortissimo e questo fa circolare in fretta le voci su unodi noi. Ma io ho fiducia nel futuro. La società israeliana, cosìmilitarizzata, rischia di sgretolarsi. I divorzi per violenze do-mestiche sono sempre di più. Questo perché i militari, provatida un servizio così duro, tornano a casa cambiati. Tutto questonon può durare”.

Nafez ha la sua ricetta per cambiare le cose. “Io punto tuttosui bambini e faccio sempre un gioco con loro”, racconta conl’eterno sorriso, “se chiudi le ultime due dita della mano, laforma ricorda quella della scritta Allah. Quindi spiego aibimbi che non devono fare del male a nessuno, perché Dio èovunque, anche quando non si vede. Cerco di lavorare con lo-ro insegnando che tutti abbiamo dei diritti e dobbiamo farli va-lere. Vi faccio un esempio: l’altro giorno hanno dichiarato chetutte le macchine illegali a Hebron, dove vivo e lavoro,dovranno essere distrutte. Quasi tutte le famiglie ne hannouna, che serve loro per andare a lavorare. I bambini mi chie-devano perché accadeva e io ho deciso di portarli dal capo del-la polizia a chiedere di persona. Così si fa! Il 35 per cento dellapopolazione palestinese ha meno di 18 anni. È sul futuro chedobbiamo investire: faremo partire corsi di teatro per aiutarlia elaborare il dramma della violenza, corsi d’informatica perpermettere loro di migliorare se stessi senza dimenticare i pro-getti di svago, per rilassarsi. Ma soprattutto mi servono i soldiper comprare un camioncino nuovo, il mulo non può bastare.Chiedo ai bambini di pregare ogni sera, prima di andare a let-to, per 15 minuti: 10 per le sofferenze che l’occupazioneinfligge alla popolazione palestinese e 5 per Allah… serve

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anche questo”, conclude con un sorriso beffardo Nafez. Perstrada si vedono i lampeggianti delle camionette militari e sisente il sibilo delle sirene, ma a volte fanno meno paura.

C’è anche chi ha deciso di resistere alla costruzione del mu-ro combattendo, con mezzi differenti. Da un lato il mito viven-te della street art, il graffitaro inglese Bansky, l’iconoclastache tiene riservata la sua vera identità per parlare a nome del-l’umanità intera. Dei tanti disegni con i quali il muro, dallaparte palestinese, è sbeffeggiato per la sua grigia ottusità, labimba di Bansky che si libra leggera come la libertà, attacca-ta a un palloncino, è un’immagine forte come l’esplosione diuna bomba. Un fragore differente da quelli che ogni settimanascuotono il villaggio di Bi’ilin, dove ogni venerdì i palestine-si e gli attivisti internazionali marciano compatti per manife-stare contro la costruzione di un altro pezzo di muro. Altrecase distrutte, altri alberi abbattuti, altre risorse idriche e altraterra rubata. Altri ancora combattono via internet. Tempo fa,per iniziativa di un gruppo di ragazzi olandesi, è nato il sitowww.sendmessage.nl, dove tutti potevano esprime un messag-gio di solidarietà che poi qualcuno avrebbe scritto sul muro.

Ma non mancano, per fortuna, anche le voci critiche in I-sraele. Micheal Warshawski, per esempio, è un intellettuale checoltiva il dubbio come un bene prezioso, contro ogni potere.

Nel suo ufficio a Gerusalemme, tra nubi di fumo di sigaret-ta e centinaia di tazze di caffè, questo uomo dinoccolato, conbaffi e capelli bianchi, Warshawski gestisce il suo AlternativeInformation Centre. “La frontiera non è un luogo fisico, èun’idea”. Warschawski parla a voce bassa. Da sotto i baffi dàl’impressione di poter lanciare anche le accuse più pesantisenza scomporsi. “Può essere ermetica, sigillata o può essereun posto vivo, che respira. Uno dei compiti dei militanti, ditutti quelli che si battono per cambiare le cose deve esserequello di far respirare le frontiere”, sostiene l’autore israelia-

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no, “rendere i confini permeabili alle idee, rimuovere i blocchidati dalle contrapposizioni semplicistiche: ebrei contro musul-mani, arabi contro israeliani. “In italiano avete solo un termi-ne per indicare l’ebreo, ma i francesi ne hanno due: juif e he-breux”, dice Warschawski costretto a spiegare il gioco di paro-le, “ed etimologicamente hebreux significa proprio questo:guida, passatore. Non dobbiamo più essere juif, ma hebreux”.Dopo l’ennesima sigaretta, Warshawski, continua: “Non di-menticherò mai l’interrogatorio che subii da un ufficiale israe-liano (poi diventato capo del Mossad). Mi disse che davamofastidio, perchè eravamo una terra di nessuno. Lui era abitua-to al bianco e al nero, disse proprio così. Diventate bianchi,cioè israeliani e potrete fare tutto quello che volete, perché go-drete dei diritti di una democrazia. Oppure diventate neri, cioèpalestinesi e non avrete alcun diritto, ma non potete restare co-sì, grigi. Non capiva che noi offrivamo un servizio, ci defini-vamo un elenco telefonico bilingue. A tutti quelli che avevanovoglia di capire l’altro noi offrivamo un servizio, li metteva-mo in contatto. La sua logica militare restava spiazzata, ma lasua posizione rispecchia l’idea israeliana di frontiera. Non èfisica, è mentale”.

Mentre fuori scorre la vita di Gerusalemme, tra arabi edebrei che calpestano le stesse vecchie pietre da millenni, War-schawski sottolinea come “il concetto israeliano di frontiera èmolto più vicino all’idea che ne ha la cultura americana: spazida conquistare. Non hanno un limite fisico, basta pensare chenon esiste un riferimento geografico ai confini d’Israele neitesti e che i trattati con Egitto e Giordania sono stipulati facen-do riferimento ai loro di limiti, non ai nostri. La critica più pe-sante che Sharon ha mosso a Rabin dopo Oslo è proprio que-sta: aver cercato di porre confini a Israele. Per quelli comel’attuale premier Netanyahu la guerra d’indipendenza del1948 non è mai finita”.

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In occasione del ventennale della caduta del muro di Ber-lino, il 9 novembre 2009, alcune centinaia di palestinesi hannodato vita ad una manifestazione di protesta in Cisgiordania,utilizzando un camion per abbattere una parte della barrieraeretta dagli israeliani per separare i due territori. I manifestan-ti sono stati rapidamente dispersi dall’intervento dei soldatiisraeliani che hanno usato i gas lacrimogeni per fermare laprotesta. Una breve in cronaca, sovrastata dai festeggiamentiper la ricorrenza berlinese che hanno occupato palinsesti ra-diotelevisivi e pagine dei giornali. Un gesto disperato, senzaalcuna utilità pratica. Questo, però, è un pensiero razionale, diquelli che si fanno quando non si è fuori dalla stanza chiusa.Quando sei chiuso dentro, invece, faresti qualunque cosa per-ché gli altri si accorgano di te, della tua prigionia, come in rea-zione a una crisi di claustrofobia. Un urlo, rimasto inascolta-to, lanciato nel soverchiante berciare festante delle celebrazio-ni di Berlino. Roger Waters, bassista dei Pink Floyd, nel 2006si è recato nei pressi del muro in Cisgiordania, in occasione diun concerto in quella terra sempre meno santa e sempre piùstretta. Ha scritto, con lo spray, sul muro: “Tear down thewall” (Tirare giù il muro), riferendosi alla canzone cult del suogruppo Another brick in the wall, dell’album The Wall, del1979. A Berlino ha portato bene, chissà che non funzioni an-che in Palestina.

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INTERMEZZO

Un mondo di muri

Una delle barriere più antiche è quella che divide la regio-ne del Kashmir, nel cuore dell’Asia. Aggiungere di più è peri-coloso, in quanto l’aggettivo indiano o pakistano finirebbe perindicare una scelta di campo. Quando si divide, anche le paro-le diventano esplosive. La seconda guerra mondiale era appe-na finita. L’immenso subcontinente indiano fremeva d’indi-pendenza. Ancora un volta nella Storia è stato il colonialismoil motore di un conflitto che, decenni dopo, continua a irradia-re i suoi effetti sulle popolazioni civili di una regione. L’Im-pero britannico, dal 1846 al 1947, pose le baionette dei suoisoldati a sostegno della dinastia induista dei Dogra, che ebbeinizio con il maharajah Gulab Singh.

Nomi esotici, che rievocano atmosfere da romanzi di Sal-gari o di Verne, ma che più prosaicamente raccontano delle so-lite scelte, fatte nei saloni tattici di un ministero delle Colonie,senza alcun riguardo per la storia e il futuro di un popolo e diun’area. In Kashmir, infatti, intorno alla metà del XII secolo,era divenuto un sultanato musulmano, dopo essere stato persecoli un centro importante per l’induismo prima e il buddi-smo poi. Un regno islamico, dunque, fino al 1820, quandoarrivarono i sikh e lo conquistarono. Secoli di fede musulma-na, però, non si cancellano con un colpo di spugna e la situa-zione rimase tesa. Fino a quando la regione restò sotto l’egidadella corona dei Windsor, tutte le differenze vennero tenutesotto controllo con la brutalità del dominio coloniale. Finita laSeconda Guerra mondiale, però, si pose il problema dell’indi-pendenza del subcontinente indiano. Londra non aveva più

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quella forza che, per secoli, aveva permesso alla Gran Bre-tagna di gestire un Impero immenso. Le bombe naziste l’a-vevano lasciata ferita, indebolita. Un piccolo avvocato, Mo-handas Ghandi, era diventato il mahatma, la grande anima. Lasua strategia non violenta riuscì a disarmare i bastoni degliinglesi, mettendoli con le spalle al muro. I tempi erano matu-ri: il subcontinente si preparava all’indipendenza. Una dellepreoccupazioni più grandi di Ghandi era quella di vedere i bri-tannici riuscire nel loro piano più pericoloso: dividere musul-mani e induisti, mettendoli gli uni contro gli altri, per control-larli meglio. Divide et impera, un adagio vecchio come ilmondo, ma buono per qualsiasi conquistatore.

Il primo ministro Atlee, succeduto a Churchill, annunciache il potere passerà nelle mani degli indiani. Il 14 agosto1947 l’India è indipendente. Londra, però, ha seminato moltoin profondità i semi della discordia e la Lega Musulmana, par-tito islamista, punta a creare nel subcontinente indiano unostato fondato sui principi dell’Islam e svincolato dall’indui-smo. Nasce il Pakistan, ma la tensione sale e il Kashmir sitrova a essere conteso tra i due stati. Il maharajah fantocciocontrollato da Londra, induista, si trova seduto sul trono di unaregione a maggioranza islamica. Il maharajah decide di unirsiall’India, ma il Pakistan non accetta la sua scelta e truppe diIslamabad invadono la regione, seguiti subito da un contin-gente indiano. Violenze e combattimenti insanguinano ilKashmir fino al 1949, quando intervennero le Nazioni Uniteper porre fine al conflitto. Al Palazzo di Vetro di New York, avolte, animati dalle migliori intenzioni, finiscono per compor-tarsi come i colonialisti. Righello e matita ed ecco trovata lasoluzione: due terzi all’India, un terzo al Pakistan. L’Onu im-pose, anche, la Linea di Controllo (LOC) per vigilare sul ces-sate il fuoco. Il Kashmir è diviso non solo dalla politica, maanche da una barriera fisica. Il Consiglio di Sicurezza ordina

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al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupatoe all’India di indire un referendum che permetta l’ autodeter-minazione della popolazione locale. Le Nazioni Unite creanoanche la United Nations Military Observer Group in India andPakistan (Unmogip), missione che deve vigilare sulla situazio-ne. Il Pakistan non si ritira e l’India non indice la consultazio-ne popolare. Da allora, non è cambiato praticamente nulla.L’India e il Pakistan rivendicano la sovranità sul territorio,gruppi separatisti combattono per la creazione di uno Statoindipendente. Anche la Cina ha rivendicato, nel 1959, il pos-sesso di una porzione del territorio della regione del Ladakh,ma le truppe di Mao sono state battute. Dal 1948 al 1965 sonostate emanate cinque risoluzioni del Consiglio di Sicurezza edue della Commissione delle Nazioni Unite per cercare di ri-solvere la controversia. Sempre uguali: cessate il fuoco, smi-litarizzazione della regione e referendum popolare.

Nel settembre del 1965 la parola torna alle armi, ma l’Onuriesce di nuovo a imporre un cessate il fuoco e a pilotare loscontro verso il tavolo negoziale. Il 1 gennaio 1966 il premierindiano Lal Bhadur Shastri e il presidente pakistano Ayub Khanfirmano il trattato di Tashkent, con l’ccordo per una risoluzionepacifica del conflitto. Sembrava che, dopo tanto dolore, il Ka-shmir potesse conoscere un periodo di pace e stabilità. La tre-gua, però, non resse a lungo. Nel 1971 il Bangladesh, sostenu-to dall’India, dichiara la sua indipendenza dal Pakistan e anco-ra una volta scoppia un conflitto che finisce nel 1972, quandoil primo ministro indiano Indira Gandhi e il suo omologo paki-stano Zulfikar Ali Bhutto firmano un accordo di pace a Shimla,con cui in sostanza reiterano gli accordi presi a Tashkent. Da al-lora la situazione è come congelata, mentre gruppi di guerri-glieri continuano a combattere contro i militari indiani e paki-stani nella zona. Si calcola che, solo dal 1989 al 2002, sianostate 60mila le vittime del conflitto. In gran parte civili.

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Negli ultimi anni il governo pakistano, messo sotto pressio-ne dagli Stati Uniti, ha tentato di controllare le milizie islami-ste. I colloqui di pace con l’India, nel 2005, segnano il puntopiù alto delle speranze di pace in Kashmir. Per la prima voltadal 1949 viene riattivata una linea ferroviaria che attraversa laLoc, ma il ritorno del terrorismo rende di nuovo incandescen-te le relazioni tra India e Pakistan, entrambe dotate di arminucleari.

Per l’India, però, non si parla di muri solo rispetto al confi-ne con il Pakistan. Anche con il Bangladesh, dal 2006, il gran-de paese asiatico è diviso da una barriera metallica, sormonta-ta da filo spinato, che corre per i quattromila chilometri delconfine. Secondo il governo indiano la barriera è l’unica solu-zione possibile per controllare un confine poroso, dal qualepassano armi e droga, migranti e contrabbandieri. Il giganteindiano vuole proteggere la sua nuova ricchezza dal piccolovicino dal quale, secondo fonti governative, sarebbero arriva-ti in India 20 milioni di immigrati clandestini bangladesi. IlBangladesh è uno degli stati più poveri del mondo, flagellatospesso da disastri ambientali che mietono migliaia di vittime.Come detto, nel 1971, proprio l’India ha supportato l’indipen-denza del piccolo paese asiatico, ma oggi New Dehli chiude laporta in faccia al povero vicino, che non serve più per desta-bilizzare il nemico storico Pakistan. Per i servizi segreti india-ni, inoltre, il Bangladesh è una delle porte d’ingresso dei fon-damentalisti musulmani che colpiscono in India. Centinaia dipersone che abitavano i villaggi di confine sono state scaccia-te con la forza e, secondo fonti non governative, sono circaduecento le persone che ogni anno perdono la vita nel tentati-vo di passare il confine. A dicembre del 2008, nello spirito diquella che possiamo chiamare la ‘diplomazia dei treni’, per laprima volta dal 1965 (quando il Bangladesh era ancora annes-so al Pakistan) un convoglio passeggeri ha passato il confine

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tra India e Bangladesh. Dopo il 1971, con l’indipendenza delBangladesh, la linea passeggeri non era stata ripristinata e, nel2001, i rapporti tra New Dehli e Dacca erano arrivati sull’or-lo del conflitto con la vittoria dei nazionalisti in Bangladesh.Ciclicamente i governi di India e Pakistan promettono di tro-vare una soluzione, ma l’importanza strategica (per la suaposizione) e quella politica (in due stati dove la religione è uti-lizzata per la gestione del potere) del Kashmir continuano adallontanare la pace.

In quanto ad anzianità, subito dopo la barriera che divideIndia e Pakistan, viene la linea di demarcazione tra le dueCoree. Se il Kashmir è, per certi versi, un’eredità del colonia-lismo, la divisione della penisola coreana è un retaggio dellaGuerra Fredda.

L’alleanza tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti cominciòa vacillare subito dopo la fine della Seconda Guerra mondia-le. Lo spirito di Yalta, dove gli alleati avevano spartito ilmondo mentre la barbarie nazista non era ancora sconfitta,segnava chiare sfere d’influenza per la superpotenza comuni-sta e per quella capitalista. Solo che il controllo non facevasentire né Mosca né Washington al riparo dalle mire espansio-nistiche, vere o presunte, del rivale. Altri stati, altri popolidivennero pedine di un’enorme partita a scacchi dove aveva-no tutto da perdere. Questo fu il caso della penisola coreana,dove le persone parlano la stessa lingua e condividono, fino alsecondo conflitto mondiale, la stessa storia. Nel 1910 la peni-sola venne conquistata dal Giappone che la perse nel 1945. LaCorea venne divisa in due zone d’influenza, sul modello diBerlino: a nord del 38° parallelo il controllo era dei sovietici,a sud degli statunitensi. La separazione venne, nel 1948, san-cita dalla nascita di due stati indipendenti, l’uno guidato da unesecutivo comunista l’altro da un governo di stampo capitali-sta. Un sistema neocoloniale, con due stati satelliti delle super-

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potenze le quali cominciavano a temersi a vicenda. Nel 1950le tensioni della penisola coreana esplodono e le armate dellaCorea del Nord invadono la Corea del Sud.

Le Nazioni Unite sanzionarono Pyongyang, capitale dellaCorea del Nord, con l’invio di un contingente militare guida-to dagli Stati Uniti e del quale facevano parte diciassette paesi.Era la prima missione militare sotto l’egida dell’Onu e per laprima volta vennero utilizzati i cosiddetti ‘caschi blu’, al co-mando del generale statunitense Douglas MacArthur, veteranodella guerra del Pacifico. La guerra costò la vita a due milionidi persone. Con il sostegno della Cina, solo cinque anni dopola carneficina della Seconda Guerra mondiale, il pianeta si tro-vò di nuovo sull’orlo di un conflitto globale. Non accadde, mala penisola coreana restò divisa come dieci milioni di famigliedi coreani. L’armistizio venne firmato nel 1953 e venne istitui-ta la Zona Demilitarizzata Coreana (Zdc) che divide i duepaesi, ancora formalmente in stato di guerra tra loro. Un ango-lo acuto, con la parte ovest a sud del 38º parallelo, e la parteest a nord dello stesso. È lunga 248 e larga quattro chilometri,ed è il confine più armato del mondo. Un confine che ha comecristallizzato il tempo nella zona settentrionale della Corea,mentre la zona meridionale si è caratterizzata per uno svilup-po economico brutale, che ha fatto di Seoul una delle ‘tigriasiatiche’ che hanno inciso profondamente sull’economiamondiale degli ultimi decenni. Nella Corea del Nord, tra ottu-sità del regime e isolamento internazionale, aggravato dallesanzioni, si muore di fame.

Le due Coree non si rivolsero la parola fino agli anni Set-tanta, quando grazie al mutato scenario internazionale Seoul ePyongyang si riconobbero a vicenda. Nel 1971 i rappresentan-ti coreani della Croce Rossa, sia del sud che del nord, apriro-no il primo convegno tutti assieme, ben ventisei anni dopo ladivisione. Ambedue i governi hanno cooperato cercando di

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favorire la riunione delle famiglie che dovettero separarsi acausa della guerra.

Nel 1972 i due governi raggiunsero un accordo sui princi-pi della riunificazione e annunciarono i risultati nel Comu-nicato congiunto Sud-Nord.

Nel 1985, con la mediazione della Croce Rossa, cinquantamembri per parte delle famiglie separate passarono il confineper ritrovare i loro cari.

Negli anni Novanta la Corea del Nord ha subito il contrac-colpo della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 1990 sitennero i Colloqui tra i primi ministri di entrambe le parti chenel 1991 hanno prodotto il Fondamentale Accordo Sud-Nord.Si è riconosciuto che il Sud e il Nord erano in “uno specialeperiodo di relazioni” nel procedimento verso la riunificazione.

“La Dichiarazione Congiunta sulla Denuclearizzazione” èstata firmata ed è entrato in vigore nel febbraio 1992. Taleaccordo tra Nord e Sud avrebbe potuto avere degli ottimi risul-tati, ma il tentativo della Corea del Nord di utilizzare le arminucleari come merce di scambio diplomatica ha fatto riviverele tensioni nella penisola.

Per allentare e rompere le tensioni sulla base di una fiduciareciproca, le due Coree si sono accordate nel luglio 1994 persostenere un summit di colloqui fra Kim Young-sam, presi-dente della Corea del Sud e Kim Il-sung, leader della Coreadel Nord. Ma la morte improvvisa del Kim Il-sung, sostituitodal figlio, ha rallentato i colloqui.

Il governo di Kim Dae-jung (1998-2002), in Corea del Sud,ha inaugurato un’altra era della riconciliazione e della coope-razione con la Corea del Nord, tanto che l’uomo politico diSeoul, nel 2000, è stato insignito del premio Nobel per laPace. Il Presidente Kim ha visitato Pyongyang nel 2000 persostenere, primo in assoluto, un summit con il presidente nordcoreano, Kim Jong-il. La congiunta Dichiarazione storica del

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15 giugno è stata firmata mettendo in rilievo la promozionedella comprensione reciproca, attraverso lo sviluppo dei rap-porti fra le due Coree e attraverso una riunificazione pacifica.I progetti di interesse reciproco sono stati discussi e si sonofavorite le riunioni delle famiglie separate in incontri sia aSeoul che a Pyongyang. Alla fine di maggio 2010, però, sonotornati a suonare i tamburi di guerra. L’affondamento dellacorvetta della marina militare sud coreana Cheonan, il 26marzo 2010, con la morte di 46 membri dell’equipaggio, hariacceso le ostilità tra Seul e Pyongyang. La commissioned’inchiesta della Corea del Sud incaricata di indagare i motividell’affondamento hanno accusato la Corea del Nord, che hasempre smentito. I megafoni lungo il confine sono stati riac-cesi e lanciano messaggi di propaganda dall’altra parte, con unfracasso che al solito zittisce la ragione.

Gli attentati negli Stati Uniti del 2001 bloccarono i collo-qui, dopo che l’amministrazione Usa guidata dal presidenteG.W.Bush inserì Pyongyang nell’Asse del Male. Nel 2003erano ripartiti i colloqui per la riunificazione. L’esecutivo diPyongyang, rispetto a quanto accaduto alla Libia, contava dibarattare l’abbandono del suo programma nucleare con unreinserimento nella comunità internazionale. Un simbolo deicolloqui divenne il settore ove prese avvio la guerra: la zonadi confine limitrofa alla città di Kaesong, oggi in Corea delNord, che è diventato un complesso industriale cogestito daidue paesi. Il nord forniva la manodopera, il sud la tecnologia.Ma il progetto si è bloccato, come quello delle riunificazionifamiliari e dei treni di collegamento tra i due paesi. La Coreadel Nord, secondo l’intelligence di Seoul, ha compiuto dei testmissilistici. Anche nucleari. È uno di quei momenti storici neiquali quei quattro chilometri di larghezza della zona smilita-rizzata sembrano infiniti.

Per muri e divisioni legati a dinamiche storiche, ce ne sono

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altri che sono quanto mai attuali. È il caso della barriera traMessico e Stati Uniti. La frontiera tra i due stati nordamerica-ni è lunga più di tremila chilometri, da costa a costa.

Per alcuni è la barriera di separazione, per altri il muromessicano, per altri ancora il muro di Tijuana, chiamato cosìper la cittadina del Messico simbolo del confine con gli Usa.Per i messicani sarà sempre il muro della vergogna. Nato daun’idea semplice nella sua drammaticità: il way of life degliStates è minacciato dal flusso di immigrati messicani dispera-ti che attraversano il confine in fuga dalla fame e dalla crimi-nalità organizzata. Una sorta di porta del paradiso, non soloper i messicani, ma per tutte le popolazioni del centro Americache, con qualsiasi mezzo e a qualunque prezzo, raggiungonoil Messico per partecipare a quel modello di società libera epiena di opportunità che le televisioni satellitari propaganda-no ogni giorno. Solo che trovano quella porta chiusa. Il pro-getto nasce nel 1994, durante la prima amministrazione Usaguidata da Bill Clinton, e si articolava in tre fasi: il progettoGatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas eil progetto Safeguard in Arizona. Chilometri di lamiera metal-lica sagomata, alta fino a tre metri, vennero piazzati da Tijuanaa San Diego. Fari potentissimi illuminano la notte e la rete èdotata di sensori elettronici e di strumentazione per la visionenotturna, collegati via radio alla polizia di frontiera statuniten-se, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato conveicoli ed elicotteri armati. Nel caso si creasse qualche crepanel sistema di sorveglianza, ci pensano i volenterosi minute-man, privati cittadini armati fino ai denti che si offrono volon-tari per la caccia all’immigrato. Tecnicamente dovrebberolimitarsi all’avvistamento e alla segnalazione alla polizia, manon sono pochi i casi nei quali questi zelanti patrioti si sonoresi protagonisti di vere e proprie cacce all’uomo. Anzi almigrante, che per loro non è la stessa cosa.

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Questi personaggi si muovono nelle zone dove non c’è labarriera, in quanto le lamiere sono state poste nei centri abita-ti dell’immensa linea di confine. Il resto è deserto, dove sem-pre più spesso vengono rinvenuti cadaveri di disperati uccisidal caldo, dalla fame, dalla sete o dagli animali. Perdersi, neldeserto, è molto facile, anche perché i trafficanti di esseriumani non si fanno scrupoli ad abbandonare i migranti inmezzo al nulla. Secondo i dati ufficiali, lungo il confine traStati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone dal1998 al 2004.

Sono molti di più, almeno se si contano le migliaia di crocisemplici, fatte con due assi di legno, che mani pietose inchio-dano alle lamiere dalla parte del Messico, per ricordare unpadre, una madre, un figlio o un marito che hanno provato adandare dall’altra parte, reclamando anche per loro una minimaparte di quella grande ricchezza che si trova a soli pochi chi-lometri da tanta povertà. E sembrano di più contando i tantiJohn Doe, come le autorità statunitensi chiamano le salme nonidentificate, che affollano gli obitori delle cittadine di frontie-ra. A ottobre del 2006 il presidente Usa Gorge W. Bush ha fir-mato la legge H.R. 6061, già approvata da tutte e due leCamere del Congresso Usa. Il piano prevede la costruzione diun muro lungo 1123 chilometri per blindare ancora di più ilconfine con il Messico. Adesso la questione è nelle mani del-l’amministrazione Obama, figlio di un uomo arrivato dal Ke-nya. Ma all’epoca i muri non c’erano.

Anche l’Africa nera non è esente dalla perversa tentazionedi erigere muri e barriere. Negli spazi sconfinati della savanadeve fare un certo effetto trovare una rete alta da qualche deci-na di centimetri fino a tre metri, attraversata per tutta la sualunghezza da elettricità ad alta tensione. Accade al confine traBotswana e Zimbabwe. Un confine immenso, da quale passa-vano animali in transito alla ricerca di cibo e migranti in cerca

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di lavoro. Nel 2003 il governo del Botswana ha deciso di direbasta. In realtà i primi tentativi di erigere un confine in unospazio immenso è degli anni Cinquanta e Sessanta, prima edopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, per proteggere ipascoli, ma solo dal 2003 i cinquecento chilometri elettrifica-ti sono diventati una realtà stabile. Anche grazie ai finanzia-menti dell’Unione Europea, che ha grossi interessi commer-ciali in Botswana, nonostante la barriera sia causa di gravi cri-mini ambientali e di disastrose conseguenze per le popolazio-ni della regione. Il reticolato, infatti, tocca il Kavango-Zambesi Transfrontier Conservation Area, uno dei più grandibioparchi del mondo, popolato di specie a rischio di estinzio-ne. Il governo del Botswana ha sempre detto che la causa prin-cipale della costruzione della rete è il tentativo d’impedire ildiffondersi di epidemie come l’Afta Epizotica portata daglianimali provenienti dallo Zimbabwe, dove non sono garantiticontrolli efficaci. Secondo molte organizzazioni non governa-tive, però, l’epidemia più temuta dal Botswana è quelladell’Aids, virus di cui sono ammalati tanti dei migranti prove-nienti dallo Zimbabwe, molti dei quali finiscono bruciati vivisulla rete elettrificata. In alcuni periodi dell’anno, in passato,il governo del Botswana è arrivato a espellere fino a 2500migranti illegali al mese provenienti dallo Zimbabwe. Ar-riva-no spinti dalla fame che attanaglia il Paese gestito come unregno medievale da Robert Mugabe, attratti dalle miniere didiamanti, dal turismo e dalle risorse dell’allevamento che fan-no del Botswana uno dei paesi più ricchi dell’Africa. Una ric-chezza che non vogliono dividere con nessuno.

Altre situazioni sono in bilico, a cavallo di un muro. L’A-rabia Saudita, ad esempio, è da tempo tentata di costruire unmuro al confine con lo Yemen. La rivolta dei ribelli sciiti nelloYemen settentrionale, che secondo Riad sarebbe finanziatadall’Iran, avversario per la supremazia regionale e simbolo

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dello sciismo contro il simbolo dei sunniti (l’Arabia appunto),mina la sicurezza della monarchia degli Saud, impegnati dasempre a reprimere le richieste della minoranza sciita al suointerno. Ma l’Arabia Saudita, nel progetto originale, pensa auna barriera che ne blindi i confini in generale. Sarebbero oltre9mila chilometri, in mezzo al deserto.

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CAPITOLO 4

Sahara Occidentale, un muro tra le dune

Tra il 6 e il 9 novembre ci sono tre giorni e quattordici anni.E un muro, anzi due. Il primo, che ha spento nel 2009 le suemacabre 34 candeline, e il secondo che nel 2009 ha festeggia-to il ventennale della caduta.

Mentre nel 1989 cadeva il muro di Berlino, nel 1975 veni-vano gettate le basi per il muro che divide il Sahara Occiden-tale dal suo popolo, i saharawi, i ‘figli del deserto’. Il 6 no-vembre 1975 il re del Marocco Hassan II ordina alla sua gentedi occupare il Sahara Occidentale. Non c’è un modo differen-te di dirlo, anche se il giornalismo e la politica sembranodiventati delle fucine di equilibrismi lessicali. Tante personenon sanno neanche dov’è il Sahara Occidentale, vittima di unadi quelle occupazioni che non trovano mai spazio nelle pagi-ne degli esteri. Confrontando tra loro atlanti e mappe geogra-fiche si nota una strana differenza: il Marocco in alcune pub-blicazione ha una superficie come raddoppiata, che si dimez-za altrove. Ecco, il Sahara occidentale è quel territorio che vie-ne o meno assimilato al Marocco, come in un Risiko impazzi-to, dalla frontiera meridionale marocchina lungo la costa occi-dentale dell’Africa. L’avanzata a tappe forzate del 1975 di350mila ‘volontari’ marocchini venne chiamata Marcia Verde:tutti brandivano ritratti del monarca di Rabat, copie del Co-rano e le insegne dell’Islam (di colore verde) e attraversaronole frontiere disegnate dalle Nazioni Unite dopo l’abbandonoda parte della Spagna della sua ex colonia, chiamata all’epocaSahara spagnolo. Il dittatore iberico Francisco Franco, chemorì pochi giorni dopo la Marcia Verde, era agonizzante. Ma-

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drid, in quei giorni, era concentrata sulla transizione morbidaalla democrazia. Non aveva più il tempo di occuparsi di quelterritorio che aveva occupato dal 1884 e nel quale, nel 1970,avevano scoperto un interessante giacimento di fosfati che nonavrebbe fatto in tempo a sfruttare. Voleva farlo al posto suo ilre Hassan II, che da sempre rivendicava la sovranità maroc-china su quelle che i marocchini chiamano provincie del Saha-ra. Lo aveva giurato, racconta la leggenda, sul letto di mortedi suo padre dopo l’indipendenza del Marocco conquistatadalla Francia nel 1956. Lo slancio delle Nazioni Unite verso lafine del colonialismo si era tramutato in dottrina. Il 14 dicem-bre 1960 l’Onu votò la risoluzione n. 1514, con la quale rico-nosceva il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei paesicolonizzati e, nel 1963, il Sahara Occidentale fu incluso nel-l’elenco del Palazzo di Vetro dei paesi da decolonizzare e dueanni dopo l’Assemblea Generale dell’Onu riaffermò il dirittoall’indipendenza del popolo Saharawi, invitando la Spagna ametter fine alla sua occupazione coloniale. Hassan II - senten-do che il tempo stringeva - riunì in gran segreto i suoi piùstretti collaboratori annunciando l’imminente colpo di mano.Settecento funzionari pubblici vennero formati in gran frettaper occupare le istituzioni del Sahara Occidentale e tramutarel’occupazione in un’annessione nel minor tempo possibile.Quando il re del Marocco ritenne che tutto era pronto, il 16ottobre 1975, mentre Franco agonizzava, annunciò a tutto ilmondo il suo progetto. Avrebbe ‘liberato’ il Sahara Occiden-tale restituendolo alla monarchia di Rabat. La retorica dellaliberazione per celare un’occupazione non l’ha inventata certoHassan II, però il sovrano (la cui famiglia viene fatta risaliredalla tradizione al Profeta Mohammed) riuscì ad aggiungereallo sfondo religioso (pure questo non inedito) una vocazioneanticoloniale che trasse in inganno molti osservatori dell’epo-ca. Liberava il Sahara Occidentale dagli spagnoli o lo occupa-

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va? La risposta, purtroppo, arrivò subito. La Corte Internazio-nale di Giustizia dell’Aja, organo delle Nazioni Unite, si pro-nunciò sulla questione allarmata dalle dichiarazioni di HassanII e stabilì che pur esistendo legami storici di sottomissionedelle tribù saharawi con la corona marocchina prima dell’arri-vo degli spagnoli, era innegabile il diritto all’autodetermina-zione della popolazione del Sahara Occidentale. Il pronuncia-mento dell’Onu convinse Hassan II ad accelerare l’occupazio-ne, in modo poi da far valere lo status quo in un secondo mo-mento. D’accordo con il governo della Mauritania, che volevaannettere un terzo del Sahara Occidentale, la zona meridiona-le, in un vertice segreto a Madrid con il confuso governo spa-gnolo, il re del Marocco ottenne la garanzia che la Spagna nonsi sarebbe impicciata. Ebbe inizio l’operazione Fath, ricordatapoi come Marcia Verde. Centinaia di mezzi si incolonnaronoverso sud, carichi di tonnellate di materiali e di viveri neces-sari all’operazione. Treni, aerei e navi parteciparono alla faselogistica dell’invasione e già il 23 ottobre1975 il primo convo-glio di marciatori prese posizione a Tarfaya. All’alba del 6novembre si mosse il grosso della colonna di coloni disarma-ti ma decisi ad arrivare a destinazione, sotto gli occhi sbalor-diti e incapaci di intervenire dei militari spagnoli che si ritira-vano. L’unica resistenza che l’occupazione incontrò fu quelladel Fronte Polisario (Frente Popular de Liberación de Saguíael Hamra y Río de Oro - dal nome storico dei territori sahara-wi), organizzazione politico-militare nata nel 1973 con lo sco-po di ottenere l’indipendenza del Sahara Occidentale.

Sono gli eredi di quel Movimento di Liberazione del Saha-ra, fondato a metà degli anni Sessanta, che per primo avevaapplicato i criteri della guerriglia in un territorio desertico, mache era stato represso nel sangue dalle milizie di Franco. Lalotta di resistenza del Fronte Polisario non regge l’urto dellearmate marocchine che seguono l’avanzata dei coloni civili.

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Sono almeno 160mila i saharawi costretti alla fuga verso il con-fine con l’Algeria, sotto il tiro dell’aviazione del Marocco chenon fa economia nell’utilizzo del napalm. I profughi trovano ri-fugio nei pressi della città di Tindouf, in Algeria, in cinquecampi profughi. Sono ancora là, dal 1975. Il Fronte Polisarionon cessa la lotta e, il 26 febbraio del 1976, proclama laRepubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd), con l’aiutodell’Algeria e di altri 76 stati che la riconoscono come legitti-ma autorità del Sahara Occidentale. Anche le Nazioni Unitericonoscono l’autorità alla Rasd di rappresentare il popolo saha-rawi. Anche la Mauritania che, nel 1979, travolta da un golpemilitare, si ritira e lascia nelle mani del Fronte Polisario i terri-tori che aveva occupato anni prima. Il re del Marocco è furiosoe ordina l’invasione anche dei territori che aveva lui stesso rico-nosciuto alla Mauritania. Il Fronte resiste e, il 6 settembre 1991,su pressioni delle Nazioni Unite, entra in vigore un cessate ilfuoco che tutto sommato resiste ancora oggi. L’Onu istituisce laMissione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un refe-rendum nel Sahara Occidentale (Minurso) e nomina un Inviatospeciale del Segretario Generale per la questione del SaharaOccidentale. Compito dell’Inviato e della Minurso sarà il moni-toraggio del cessate il fuoco e l’organizzazione del referendum,base dell’accordo tra le parti, che applicando il principio del-l’autodeterminazione dei popoli permetterà alla popolazionedel Sahara Occidentale di decidere il proprio destino. L’inef-fabile Hassan II reagisce subito: le ricchezze del territorio occu-pato sono i giacimenti di fosfati e i fondali marini noti per esse-re tra i più pescosi del mondo. Oltre la linea del fronte al mo-mento del cessate il fuoco non c’è che l’hammada, un tipo dideserto con aree consistenti in terreni aridi, brulli, altopiani roc-ciosi e con presenza di pietrisco dalle forme aguzze. Più deglialtri tipi di deserto ha delle escursioni termiche più elevate, contemperature altissime di giorno e gelide di notte. La vegetazio-

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ne, salvo la presenza di acqua superficiale, è fatta di sterpaglie.Quello i saharawi possono tenerselo, per Rabat. Il governomarocchino consolida il sistema di otto muri costruiti nel deser-to, a partire dal 1984, per segnare il confine del Sahara occupa-to. Per tutti coloro che sono figli delle moderne società urbaniz-zate il concetto di orizzonte resta un’idea vaga, almeno primadi vedere per una volta nella vita il deserto del Sahara. Difficiledescrivere la vertigine che può suscitare il senso dell’immensi-tà, quando ti abbraccia come una madre premurosa. Nel SaharaOccidentale, invece, all’improvviso sulla linea dell’orizzonte sileva questa mostruosità contro qualsiasi legge di natura. Unabarriera per lo sguardo, per la mente, per l’anima. Tutto quelloche resta al di qua del muro, per i saharawi, è il Sahara libera-to, ma è una magra consolazione, in quanto è pressoché inabi-tabile. Otto sistemi di muri, di sabbia e pietra, sorvegliati dacentinaia di migliaia di militari marocchini che hanno posato unnumero tale di mine anti-uomo da fare della zona una delle piùminate al mondo: secondo alcune ONG sono almeno sette mi-lioni le mine piazzate a difesa del muro.

L’ultima tragedia è avvenuta il 10 aprile 2009, in occasio-ne della Marcia mondiale per la condanna del Muro dellaVergogna, organizzata dall’associazione delle donne saharawi.I dimostranti, che attraversano la distanza tra i campi profughidi Tindouf e il muro a bordo di fuoristrada, devono fermarsi adalmeno 500 metri dai sistemi di fortificazione marocchini. Imembri del Fronte Polisario possono garantire che quella zonaè stata sminata. Questa volta, però, qualcosa è andato storto ealcuni giovani saharawi hanno proseguito nella marcia. Due diloro, Brahim Husein Labeid e Salem Mohamed Larusi, insie-me ad altri si sono avvicinati troppo per lanciare sassi verso isoldati marocchini ma hanno calpestato uno degli ordigni.Brahim, sedici anni e residente nel campo di rifugiati di Dajla,ha perso una gamba.

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Queste manifestazioni si tengono ogni anno e sono l’occa-sione per i saharawi di rinsaldare il loro rapporto con quellasolidarietà internazionale che è ormai rimasta l’unica fonte disopravvivenza.

Arrivare a Tinduof è disarmante: una città senza anima, unabase militare a circa duemila chilometri a sudovest di Algeri.Da sempre torre di guardia della tensione storica tra ilMarocco e l’Algeria si presenta come un grande alloggiamen-to per i militari di servizio e le loro famiglie. Nessun segno,anche minimo, dell’umanità algerina. I saharawi sono tenutinel deserto, nei loro campi profughi. Utili per anni al governodi Algeri nella sua polemica infinita con quello di Rabat, mamai integrati davvero. Italiani, spagnoli, qualche attivistadell’Europa del Nord. Si vola tutti assieme e, giunti in aero-porto, via subito vero i campi.

L’arrivo, di notte, è atteso da una moltitudine di persone,radunate presso il Comune del campo di Auserd. Un edificobasso, di colore rosso, riscaldato da mille sorrisi di benvenu-to. Ogni famiglia, nella sua tenda, ospita i volontari che può.Loro lasciano ai dimostranti le loro case, fatte di fango.Dormiranno all’aperto. Il giorno dopo la sveglia suona alle seie mezzo. Nessuno vuole perdersi il giorno più atteso, quellodella grande manifestazione. È ancora notte, ma dagli altopar-lanti dell’amministrazione di Auserd, dietro una porticinaazzurra, prorompe la voce di Khandoud, un leader vero, diquelli che non hanno bisogno di divise o incarichi ufficiali peravere il rispetto di tutti. Con un sorriso, dietro i suoi baffoni egli occhiali da sole, mente da istrione consumato. “Fra cinqueminuti si parte, yalla yalla!”. Urla sorridendo, mentre un’albarosa scaccia le stelle luminose come fari che puntellano lanotte dell’hammada. Tutte le famiglie del campo si affannanoperché i loro ospiti devono partire. The e caffè, burro e mar-mellata di mele con biscotti vengono serviti su un tavolino

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basso rettangolare. Molti di loro non verranno: le jeep sonopoche ed è più importante che vedano coloro che possono tor-nare nei paesi di provenienza e raccontare.

Ahmed, il piccolo di casa, è triste. Voleva venire anche lui,ma non si può. Ha tredici anni e sogna di fare il medico. Molti,prima di lui, l’hanno potuto fare grazie all’Algeria che pagavail viaggio a Cuba o in Unione Sovietica per studiare. Ma quel-lo è un altro mondo, del quale è rimasto solo il muro. Aggre-diamo il deserto. È impressionante guardare questi uomini si-lenziosi, guidare a velocità folle su un terreno che definireaccidentato è poco. Volti scolpiti dal sole e dalla sabbia, chequi diventa come l’aria: è ovunque. Ogni ruga sotto i loro tur-banti neri racconta una storia. Vedono strade che un altro oc-chio non vedrebbe mai. Se non nasci qui non puoi recuperare.La Land Cruiser Toyota corre a cento chilometri all’ora, vec-chia ma tenuta bene. Il gruppo di internazionali, nei rimorchi,sobbalza a ogni buca. Progressivamente, avvicinandosi alSahara occidentale dall’Algeria, comincia a comparire una ve-getazione sempre più ricca. Nomadi al pascolo con mandrie dicammelli guardano tra il divertito e lo sbalordito la carovanadi jeep.

Dopo sei ore di jeep estrema, con gli autisti che si fannosempre più audaci e in un attimo trasformano la colonna in unventaglio, si arriva al punto di raccolta dei circa centocinquan-ta manifestanti. Una sabbia rossiccia, un forno roccioso condei rilievi maestosi sullo sfondo. Ti fa sentire di passaggio.Non fuori posto, di passaggio.

Khandoud si fa serio: “I miei ragazzi hanno messo in sicu-rezza un corridoio, quello che vedete è il muro dei marocchi-ni. Siamo a un chilometro e mezzo. Una pista, da questo puntofino al posto più vicino possibile al muro, è stata sminata...mafate attenzione”. All’orizzonte, il muro. Che non c’entra nien-te, che non può essere là, piantato in mezzo a quell’immensi-

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tà, ottuso e incombente. Lungo 2500 chilometri, di altezzavariabile dai due ai quattro metri, con centotrentamila uominidell’esercito marocchino a presidiarlo. Come una faglia geo-logica, solo che è opera dell’uomo.

Al Marocco il muro costa un milione di dollari al giorno.Solo chi ha visitato il Marocco, lontano dalle rotte turistiche,possono venire in mente tutte le cose che si potrebbero fareper il Paese, per i suoi giovani e i suoi disoccupati, per le suedonne con tutti quei soldi.

Khandoud pianta una bandiera della pace nel deserto. Nonmi era mai sembrata così bella. In lontananza, lungo la som-mità del muro, si vedono i soldati marocchini muoversi velo-ci. “Ci guardano con i binocoli”, dice Khandoud e non resiste:parte un gesto dell’ombrello verso il muro, ma contempora-neamente grida sorridendo “Viva la pace”. Poi fa due passiindietro e si avvia verso la zona non sicura. Per un minuto sifa silenzio. Lui si volta e con un sorriso degno di Omar Sharifdice “Cerco mine”, mentre si chiude la patta dei pantalonimilitari dopo aver fatto pipì. Al ritorno le sei ore di viaggiosono spezzate da un’enorme tenda. È un banchetto, per ringra-ziare gli amici venuti da lontano. Carne di cammello alla gri-glia, insalata di verdure, frutta e acqua per tutti, oltre all’im-mancabile the. La festa è piena di canti e delle urla tradiziona-li modulate delle donne saharawi. Qualcuno intona BandieraRossa che per alcun saharawi è l’inno italiano. I campi profu-ghi, da sempre, sono sostenuti dall’Arci che avrà raccontatoun’altra Italia. C’è anche un circolo Arci, ricostruito nel mezzodel deserto del Sahara tale e quale fosse a Sesto Fiorentino oa Brescello. Di feste, però, ce ne sono poche. Il presidentedella Mezzaluna Rossa saharawi, Yahia Bouhemiane, ha lan-ciato nei mesi scorsi l’allarme per la situazione umanitaria deirifugiati nei campi di Tinduof. Con il passare del tempo e forseanche a causa della crisi economica, i profughi sono sempre

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più lasciati soli e gli aiuti internazionali, dai quali i campi diTinduf dipendono, stanno diminuendo. Immaginare comepossa diminuire il dispensario di Nasra è un’operazioneimpossibile.

Con il suo velo rosa e soffice, attorno a un viso dolce eambrato, accoglie i visitatori sulla soglia dell’ospedale chegestisce nel campo profughi di Auserd. Ognuno dei cinquecampi profughi ha un ospedale come questo e Rabuni, ilcampo profughi che funge da capitale, ospita quello naziona-le. Solo che è molto distante e difficilmente raggiungibile,quindi il lavoro di ogni centro è vitale. Nasra si muove legge-ra con il suo camice bianco verso la farmacia generale del-l’ospedale. Lei è una di quelle che ha potuto, in passato, stu-diare gratis a Cuba e ci tiene a sottolineare che la massimaparte delle confezioni proviene dall’isola caraibica. Moltianche i farmaci dell’Unione europea, ma il senso di vuoto cherimanda l’immagine degli scaffali lindi è assoluto. Il partorimane una delle principali cause di morte per i bimbi e ledonne saharawi. La sala parto è composta da un vecchio letti-no ginecologico e un armadio sgangherato, ma è molto pulita.Sul fresco corridoio con l’intonaco scrostato si affacciano trecamere. Nella prima c’è Alima. Ha novant’anni e vegeta in uncoma irreversibile da mesi. La camera è completamenteimpregnata dall’odore del thè. Alima occupa l’unico letto, mala stanza è piena di gente. Nasra spiega che nessuno dei paren-ti la vuole lasciare sola nell’ultimo viaggio. Sono tutti accam-pati in camera, su un enorme tappeto, attorno al fornello dacampo perennemente acceso. Figli e nipoti, nuore e generi,sorelle e fratelli di Alima sono con lei. Giorno e notte. Laseconda stanza è occupata da una donna che ha appena messoal mondo una splendida bambina. Anche qui c’è tutta la fami-glia, ma si ride e si scherza, si respira allegria. L’ultima came-ra ospita solo una donna e un bambino. È Aziza che veglia il

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suo piccolo Alì, di pochi mesi, affetto da gravi malformazioniall’apparato respiratorio. Qui non ci può stare nessuno per ilpericolo di una infezione. Nasra spiega che le patologie piùdiffuse tra i piccoli saharawi sono quelle legate ai problemirespiratori e gastro-intestinali. Diarrea, infezioni intestinali,asma e denutrizione: tutti problemi facilmente risolvibili construtture e farmaci adeguati. Aziza sorride dolcemente, noncapisce niente di quello che diciamo. Ed è meglio co-sì. Secondo Nasra il piccolo Ali ha una scarsissima aspettativadi vita, ma la mamma lo coccola e lo mostra con orgoglio,chiede di fotografarlo. Gli occhi di Ali sono grandi e neri,guarda tutto quello che si muove attorno a lui con curiosità.Assapora la vita, a modo suo. I saharawi vivono così, appesialla speranza della cooperazione internazionale e nell’attesadella diplomazia. La Minurso, ogni anno, è candidata allachiusura per i tagli alle spese dell’Onu e potrebbero non esse-re rimpianti considerata la bravata per la quale si sono fattinotare alcuni caschi blu che, ubriachi, hanno devastato nel2008 il sito di Lajuad, sperduto nel deserto del Sahara, ricco diantichissime pitture rupestri, che ritraggono bufali, giraffe edelefanti. Un luogo mistico per i saharawi, che chiamano i rilie-vi decorati da millenni ‘montagne del Diavolo’, alle qualiattribuiscono un valore sacro. Per anni nella funzione diInviati Onu si sono succeduti vecchi diplomatici, anche difama, come lo statunitense James Baker III, senza ottenerealcun risultato. Ogni volta la stessa storia: quando l’Onu tentadi censire gli aventi diritto al voto, dal Marocco arrivanomigliaia di coloni verso i territori occupati e per impedire unvoto falsato il referendum viene rinviato. Negli ultimi anni,dopo un’attesa interminabile, alcuni giovani saharawi hannoripreso le manifestazioni nelle città del Sahara Occidentaleoccupate dal Marocco. Il 2005, in particolare, è stato conside-rato l’anno della Seconda Intifada saharawi: cortei, cariche

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della polizia, migliaia di arresti e attivisti che spariscono nellecarceri marocchine. Nulla è cambiato. Ad Hassan II, sul tronodi Rabat, è succeduto il figlio Mohammed VI nel 1999. Nullaè cambiato. A marzo del 2008, dopo anni di gelo, i rappresen-tanti della Rasd e quelli del Marocco hanno dato vita a unatavola rotonda gestita dall’Onu a Manhasset, nei pressi di NewYork. Le delegazioni si sono viste per cinque volte, ma senzaraggiungere un accordo. Il Marocco rimane sulla sua posizio-ne: la concessione di una larga autonomia all’interno dellasovranità della corona di Rabat. La Rasd, dal canto suo, vuoleil referendum senza trucchi e senza gli incentivi statali e leesenzioni fiscali con le quali il governo marocchino spinge lapopolazione a colonizzare il Sahara Occidentale. Il Marocco,da anni alleato strategico degli Usa nella ‘guerra al terrorismo’e dell’Unione Europea nella lotta all’immigrazione clandesti-na è un partner troppo prezioso per i potenti della Terra. Isaharawi, secondo quanto ormai pensano tutti gli osservatoriinternazionali, dovranno rassegnarsi. Anche perché le condi-zioni umanitarie dei campi sono davvero tragiche, mentre congrande sconcerto degli anziani, le giovani coppie di profughisaharawi cominciano a costruirsi casi in fango, sedentarierispetto alle tende, che i vecchi hanno sempre tenute pronteper essere smontate in caso di partenza verso le case lontane.Grazie alla Croce Rossa, da qualche anno, sono possibilialmeno le visite temporanee da una parte e dall’altra del muroper ricongiungere le famiglie divise nel 1975. Almeno 400 dei500 prigionieri marocchini che vivevano da anni nei campisaharawi sono stati rilasciati. Della guerra resta un museo tri-ste, dove fanno bella mostra di se le mine anti-uomo di produ-zione italiana.

Chissà se Ahmed vuole fare ancora il medico o se, come imarocchini sostengono da tempo, fa parte di quella generazio-ne che si avvicina all’integralismo islamico, sconosciuto al

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popolo saharawi, che non ha neanche le moschee per pregare.Nei campi, infatti, come nella tradizione delle popolazioninomadi, ci sono solo dei cumuli di pietre orientati verso laMecca.

La rabbia che questi giovani provano, lasciando da parte ildelirio marocchino della presenza di al-Qaeda nei campi pro-fughi saharawi, è vera. Ed è legata sempre più a un mondo chenon si occupa più di loro. Dimenticati da tutti.

Alla fine di ottobre del 2009, all’improvviso, alcuni mezzid’informazione riscoprono la questione del Sahara Occiden-tale. La Train Foundation, con sede a New York, ogni annoconferisce il Civil Courage Prize, onorificenza che premia co-lui o colei che si sia distinto per una ferma resistenza pacificaalle ingiustizie anche a rischio della propria vita. Il premio del2009 è stato assegnato ad Haminatou Haidar. Una donna co-raggiosa, già premiata con il premio Robert Kennedy per i di-ritti umani e candidata al premio Nobel per la Pace. Una donnasaharawi. Haminatou ha il fisico minuto, un volto sottile e sor-ridente, incastonato dal velo e dal suo inseparabile paio di oc-chiali.

“Questo premio mi dà il coraggio di continuare la lotta non-violenta che ho condotto sin da quando avevo 23 anni”, hadichiarato Haminatou, ora che ne ha 43 di anni. “Il popolo Sa-harawi accoglie valori universali come la democrazia, il ri-spetto dei diritti umani, la tolleranza religiosa, l’uguaglianzadelle donne, eppure la nostra battaglia non è ben conosciuta.Questo premio rappresenta un importante riconoscimento peril contributo di una sola persona, ma è tutto il popolo Saharawiche lotta per la libertà e l’indipendenza” ha proseguito. L’ul-tima violenza da parte della polizia marocchina l’ha subitaquando le hanno comunicato la vittoria del premio. Gli agentidel re del Marocco le hanno fatto sapere che l’avrebbero arre-stata appena avesse rimesso piede in Marocco. Haminatou è

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partita lo stesso, sprezzante delle conseguenze. Come ha sem-pre fatto. L’hanno arrestata, la prima volta, nel 1987 e l’hannorilasciata nel 1991. Non prima di essere stata torturata. È stataarrestata una seconda volta, nel 2005, mentre era ricoverata inospedale per le percosse subite dai poliziotti marocchini du-rante una manifestazione pacifica. Venne portata, ancora unavolta nel famigerato Carcel Negro di El Ayoun, dove migliaiadi prigionieri politici saharawi hanno subito ogni genere diviolenza, come denunciato da tutte le principali organizzazio-ni non governative internazionali che si battono per il rispettodei diritti umani, Human Rights Watch e Amnesty Internatio-nal su tutte. Nella motivazione del premio si legge che Ha-minadou viene insignita del riconoscimento per “la sua corag-giosa campagna contro gli abusi e le sparizioni dei prigionieridi coscienza”. Situazione che lei conosce bene, visto che nel1987 nessuno venne avvisato del suo arresto e non subì alcunprocesso. In tanti la ritennero svanita nel nulla. Nel 2005, perfortuna, grazie alle pressioni del Parlamento Europeo, vennerilasciata e il premio ricevuto è stato un piccolo modo per nonfar dimenticare il destino del popolo saharawi.

C’è poco da festeggiare, però. Il 3 novembre scorso, in oc-casione di una visita ufficiale in Marocco, il Segretario di Sta-to Usa Hillary Clinton ha dichiarato incontrando la stampa in-ternazionale a Marrakech: “È importante per me riaffermare,qui in Marocco, che non c’è nessun cambiamento nella politi-ca Usa sulla questione del Sahara Occidentale”. La posizionedi Washington è sempre stata in linea con quella di Rabat,nonostante anche l’ultima risoluzione n°1754 del 30 aprile2007 delle Nazioni Unite ribadisca che il destino del SaharaOccidentale debba essere deciso da un referendum della popo-lazione locale, ma senza brogli sul numero degli aventi dirittoal voto. Parole, quelle della Clinton, che suonano come unamarcia funebre per tutti i saharawi che hanno salutato con

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gioia l’elezione di Barack Obama quale presidente degli StatiUniti d’America. È facile immaginare, vicini gli uni agli altri,i saharawi nel piccolo circolo Arci in mezzo al deserto, i pro-fughi dei campi profughi di Tindouf mentre ascoltano questeparole alla radio. Fuori, intanto, la luce delle stelle brilla comeuna speranza nella notte sempre più nera dell’hammada.

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CAPITOLO 5

Ceuta e Melilla, una rete tra due mondi

La letteratura classica poneva le Colonne d’Ercole, limiteinvalicabile dell’uomo, presso lo Stretto di Gibilterra. Limitedell’umana conoscenza, oltre il quale c’era il divino, negato aicomuni mortali.

Il mito racconta che l’infaticabile eroe greco, giunto difronte al monte alla fine del mondo, lo separò in due partichiamate Calpe e Abila, le due Colonne. Nei pressi delle qualiincise: “nec plus ultra” (non più avanti).

Un monito per tutti gli umani. Oltre quelle colonne, nell’in-tento didascalico di tutti i miti, si avvertiva il genere umanoche vi era la fine del mondo civilizzato. Per certi versi è anco-ra così, visto che quel monito esiste ancora, ma solo per i ma-rocchini e tutti gli altri disperati che tentano di raggiungerel’Unione Europea attraverso la via più facile di tutte: le encla-vi spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco. Oltre il limite c’èil progresso, però, e migliaia di persone continuano a tentaredi attraversare per migliorare la propria vita. Oltre le Colonne,per Dante c’era il Purgatorio e per Platone Atlantide. Alla fine,superandole, Cristoforo Colombo ci troverà l’America.

La parola enclave suona dolorosa, come una vecchia frattu-ra. Sussurra memorie balcaniche, echi di Srebrenica e dintor-ni. Niente di tutto questo. L’eco di Ceuta e Melilla è solo quel-lo di uno degli ultimi prodotti del colonialismo europeo inAfrica. La parola francese enclave ha origine nella terminolo-gia diplomatica dall’aggettivo tardo latino inclavatus che si-gnifica “chiuso a chiave”. Nel caso di Ceuta e Melilla, peròsono tutti gli altri ad essere chiusi fuori. Ceuta venne ceduta,

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nel 1668, dal Portogallo alla Spagna e da allora è un territorio(autonomo) spagnolo. Melilla invece venne conquistata daglispagnoli nel corso della Reconquista, nel 1497. Anche lei godedi autonomia e, come Ceuta, è un porto franco dedito ai com-merci e al turismo. Due realtà cristallizzate in una logica disecoli fa, come fa notare il Marocco che reclama la sua inte-grità territoriale, ma che sarebbero finite ai margini della sto-ria se non fosse nata l’Unione Europea. All’improvviso permigliaia di migranti quelle erano diventate due porte (chiuse)sul lavoro, lontano da fame, guerre e carestie. Vicine, danna-tamente vicine. Molto più sicure delle isole Canarie (ancheloro territorio spagnolo) o della traversata dello Stretto di Gi-bilterra che pur nel tratto più limitato dista solo quindici mi-glia marine dalle coste dell’Andalusia.

Un tratto breve, dove le correnti sono forti però. Per nonparlare dei tentativi di arrivare, magari dal Senegal, alle Ca-narie a bordo di piroghe in balia dell’oceano. Ceuta e Melillaerano là, oltre la rete.

Molto più sicuro, certo. Almeno fino al 28 settembre 2005.Quella notte, profittando della distrazione delle guardie, più diseicento persone erano saltate fuori dalla notte, con delle scalee tutto quello che avevano potuto arrangiare, per riuscire a sal-tare dall’altra parte. Le guardie di frontiera aprirono il fuocosui disperati che tentavano di scavalcare la recinzione metalli-ca alta più di sei metri di Ceuta: sei di loro rimasero uccisi.Mai è stato chiarito se dal fuoco spagnolo o marocchino.Misteriosa ma identica la dinamica che, pochi giorni dopo,portò all’uccisione di altri tredici migranti nella zona di Me-lilla. L’unica certezza è che Spagna e Marocco concordaronol’invio immediato di rinforzi per le guardie di frontiera. LeColonne erano tornate a segnare un confine invalicabile.

Eppure, quando lo passi fisicamente, se non ci fosse il marefaresti fatica a cogliere la discontinuità del colore della terra,

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della luce del sole, dei riflessi mediterranei della luce. Almenofino all’ingresso a Ceuta o a Melilla, dove tutto parla di Spa-gna in un’ostentazione nazionalista da far invidia ai tempi delcaudillo Francisco Franco, che proprio qui aveva perso un te-sticolo combattendo contro i ribelli marocchini e che da quilanciò la Guerra Civile contro il diritto e la democrazia repub-blicana spagnola.

“Per dare un’idea di quanto è cambiata la situazione quibasta un dato: nel 2007 solo due persone riuscirono a passaredall’altra parte. Prima la media era di 20, 25 persone al gior-no”, racconta Mohammed Bouissef Rekab, madre spagnola epadre marocchino, scrittore e docente di letteratura spagnola aCeuta e a Tetuan. Figlio delle due culture: marocchino di na-scita e formazione, ha scelto di raccontare le sue storie usan-do la lingua spagnola. Un ponte, un legame tra la cultura euro-pea e quella marocchina, che percepisce i problemi deimigranti, ma che riesce a fare suo anche il punto di vista deglispagnoli. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi ricorrono spes-so i luoghi e i volti della migrazione, i sogni e le paure di colo-ro che lasciano la loro vita per gettarsi verso un futuro miglio-re. Seduto in un caffè di Ceuta, lungo il Paseo de Revellin, lagrande arteria pedonale, parla dietro i suoi occhiali, nei qualisi riflettono e di sfumano le onde del mare, le donne velate ele donne spagnole. I limiti si fanno tenui. Come si può raccon-tare la migrazione? “Non inventando nulla, parlando solo diquello che c’è, che esiste e che nessuno può negare. Quasitutta la letteratura sull’argomento, soprattutto in Europa, silimita alla narrazione del ‘viaggio’, spesso solo in senso fisi-co”, racconta, “io cerco di raccontare lo stato d’animo, le sen-sazioni che finiscono nel grande affare che rappresenta l’im-migrazione. Nessuno parte se non è costretto, e nessun riusci-rebbe a passare se non esistesse una rete internazionale - spie-ga lo scrittore, mentre lo sguardo si fa duro - Ufficialmente

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tutte le autorità, in Marocco come in Spagna, parlano di unagrave piaga da guarire. Ma senza un cammino di complicità,che arricchisce i trafficanti come gli imprenditori spagnoli chehanno la loro manodopera a basso prezzo, con la complicitàcorrotta dei poliziotti. Solo che questi disperati vanno dati inpasto alle opinioni pubbliche, terrorizzate prima e ingannatepoi, dall’idea del migrante. Si rende questo viaggio difficile,disumano. Solo per motivi di convenienza politica, non perchési vogliano cambiare le cose”. Le reti metalliche, ora arricchi-te di filo spinato, sono triplicate (9,7 chilometri quella attornoa Ceuta e 8,2 chilometri quella attorno a Melilla) e sono stateinnalzate. Poliziotti e militari spagnoli, tra turisti in ciabatte, siaggirano discreti ma numerosi nel centro della cittadina.“Un’operazione di marketing politico, le rotte si sposteranno ebasta. La disperazione è sempre più forte della paura”, raccon-ta Rekab.

Un taxi per passare dal Marocco si trova subito in città.Prenderlo in plaza de Africa, però, ha un altro sapore. Sonodieci minuti, fino a un cartello che indica, sulla destra, ilMarocco. Come se si trattasse di un quartiere come un altro.La frontiera è segnata da una rete bislacca, che parte da terrae s’infila nell’acqua fino a un certo punto. Come uno di queilavori che si facevano durante l’ora di Educazione Tecnica allemedie inferiori, ma realizzato male. Un timbro su un passapor-to al quale nessuno dice di no e si apre una terra di nessuno.Poche centinaia di metri e un’ora di fuso orario. Tutt’attorno ilpassaggio è incorniciato da colline ondulate, sulle cui sommi-tà si muovono veloci decine di persone, soprattutto donne congli abiti tradizionali ricchi dei mille colori del Marocco.

Sulle loro spalle grava il peso di immense balle di mercan-zie. Alcuni di queste pile di merce arrivano a pesare settantachili. Sono le cosiddette ‘mujeres mulas’ (donne mulo) o ‘por-tadores’ (portatrici). A decine di migliaia, all’alba di ogni gior-

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no, formano colonne lunghe fino a due chilometri al posto difrontiera di Buitz, sotto un sole cocente per passare dalla partemarocchina. Nei fagotti c’è ogni genere di merce: dalle ma-gliette agli impianti stereo. Caricano tutto sulle spalle. Le mer-ci sono dei ricchi commercianti di Ceuta che le mandano dal-l’altra parte per farle vendere nei suq delle città turistichemarocchine: Tangeri, Tetuan, Chefchaouen. I doganieri nonbattono ciglio, perché lo status di zona franca di Ceuta e Me-lilla permette una tolleranza impossibile altrove. Il Marocco,per la sua rivendicazione storica, non riconosce Ceuta comecittà spagnola e questa situazione crea quel limbo giuridico nelquale sono sorti i 260 depositi che ogni mattina ricevono ledonne marocchine. Caricate come animali da soma che siaffrettano dall’altra parte perché, per ogni viaggio, guadagna-no cinque euro. Le più veloci possono fare fino a quattro viag-gi al giorno, mettendosi in tasca venti euro che è la loro partedi un business enorme, calcolato in sei milioni di euro all’an-no. Un affare al quale non sono estranei neanche i doganierimarocchini, che assistono distratti a questo andirivieni, alme-no quando la loro bustarella è arrivata puntuale.

A maggio del 2009 in molti hanno parlato di questa situa-zione. Due donne sono morte soffocate, schiacciate dal pesodel loro carico. Per un po’ le autorità dell’una e dell’altra partehanno promesso di cambiare le cose, ma per il momento tuttotace, anche per non scontentare i mercanti di Ceuta.

Molti politici spagnoli hanno definito ‘inumano’ questogenere di commercio e ‘inaccettabili’ le condizioni di lavorodi queste donne. Umano e accettabile, invece, è lasciare mori-re di stenti degli esseri umani in un deserto pieno di mine.Questo infatti, secondo una denuncia di Medici SenzaFrontiere di ottobre del 2005, era accaduto a coloro che ave-vano tentato di saltare le reti assieme ai migranti uccisi.Espulsi dalla Spagna, erano stati consegnati alle autorità

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marocchine. La polizia di Rabat, dopo maltrattamenti di ognigenere, ha condotto i sin papeles in una zona desertica, a circa600 chilometri a sud della cittadina di Oujida, al confine conl’Algeria.

Niente acqua, niente cibo. Niente medici per le ferite cau-sate dal tentativo di scavalcare le reti e dalle botte della poli-zia. In una zona che la tensione storica tra Algeri e Rabat e lalotta di resistenza del Fronte Polisario dei saharawi contro ilMarocco ha disseminato di mine anti uomo (cfr. capitolo 4).Msf, nel comunicato dell’epoca, denunciava la violazione del-l’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altri compor-tamenti degradanti verso i prigionieri, siglata sia dalla Spagnache dal Marocco.

Ma dove si fermano i migranti in attesa di passare dall’al-tra parte? Alcuni pagano per aspettare in case gestite dai traf-ficanti nelle città marocchine, altri si ammassano alla periferiadi città di frontiera come Oujida e infine, i più disperati, sinascondono tra gli alberi dei monti Hacho e Jebel Musa attor-no alle enclavi spagnole. La polizia marocchina, però, se qual-cosa va storto con i trafficanti che li pagano o se la Spagnamette pressione al governo marocchino, ordina delle retate chesi trasformano in barbari pestaggi. La situazione, dopo i fattidel 2005, è mutata. La Spagna di Zapatero ha fatto le cose ingrande: telecamere a infrarossi sorvegliano i dintorni delle reti24 ore su 24, torri di vedetta puntellano il perimetro, più di1200 tra poliziotti e soldati presidiano la zona.

Meno di cinquecento persone si trovano nel Centro deEstancia Temporal de Immigrantes (Ceti), la prigione a porteaperte allestita dal governo spagnolo nell’enclave di Ceuta peri migranti in attesa di rimpatrio (alcuni sono dentro da due an-ni) o di conoscere l’esito della loro domanda di asilo, che nel70 percento dei casi sono respinte da Madrid. Possono uscirese vogliono, ma non possono lasciare l’enclave. Secondo i dati

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del Ceti, dopo il massacro del 2005, il decremento dei migran-ti che hanno passato la frontiera ha seguito un trend del 45 per-cento all’anno, ma qualcuno non demorde. Come ‘los tirgresdel Monte’, un gruppo di 53 migranti indiani che, una voltanel Ceti, preoccupati dal possibile rimpatrio, sono scappati dalcentro rifugiandosi sul monte Renegado, nei pressi di Ceuta.Molti giornali ne hanno parlato, attirando di nuovo l’attenzio-ne sui migranti delle enclavi spagnole in Marocco. Tende ecapanne di legno tra gli alberi sono la loro casa, come novelliRobinson Crusoe. Vivono di espedienti, piccoli lavori in neroin città, l’acqua prelevata da una fonte nel boschetto. Da mesi,anni. “Non abbiamo passato l’inferno del viaggio per arren-derci adesso”, dichiaravano a chi chiedeva il loro parere. “Nonci faremo rimandare a casa come tutti gli altri che erano connoi nel Ceti”. Il viaggio uguale per tutti. Un aereo dall’Indiaper l’Africa. Da Bamako, in Mali, fino a Tamanrassset, inAlgeria e poi su, fino a Ghardaia prima di passare la frontieracon il Marocco. Alla fine altri 3mila euro per Ceuta, dopo chealcuni in totale ne hanno sborsati fino a 12mila, indebitandoper anni la famiglia in India che ha venduto tutto per farli par-tire. Fino al 2006 i migranti in attesa di vedere esaminata laloro richiesta d’asilo venivano portati in Spagna. Per loro eral’occasione giusta per far perdere le loro tracce. La nuovanorma voluta dal governo Zapatero, invece, impone l’attesa aCeuta o nelle isole Canarie se l’arrivo avviene là o anche seavviene sulle coste spagnole. Le tigri, alcune delle quali sonoin viaggio da tre anni, non mollano però. Quando i giornalihanno parlato di loro anche l’opinione pubblica spagnola si èindignata. Due cineasti spagnoli hanno girato un documenta-rio su di loro e, come non accadeva da un po’, si sono tenutemanifestazioni di solidarietà con la loro lotta in più occasioninel corso del 2009. Una delle tigri, aiutato da un’associazionedi Ceuta, ha creato perfino un profilo Facebook del suo grup-

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po, dove in migliaia hanno aderito per sostenerne la lotta. Lavita è dura, però, in questa baraccopoli incastrata tra unadiscarica e un canile. Alcuni hanno accettato il rimpatrio, altriresistono. Nell’indifferenza di quegli stessi marocchini che,per anni, sono stati i protagonisti di un esodo biblico versol’Europa, lasciando villaggi interi abitati solo da donne, vec-chi e bambini.

Loro che per primi hanno conosciuto l’esclusione, si sonogirati dall’altra parte. Negli anni Settanta, per Melilla, venne-ro siglati accordi tra il governo spagnolo e quello marocchinoper la libera circolazione degli abitanti della provincia di Na-dor, in Marocco, all’interno dell’enclave che si trova in quellaamministrazione.

Nel 1985, però, in onore alla Comunità Europea, la Spagnaci ripensa promulgando la prima legge organica sullo statusdei cittadini stranieri residenti nel Paese. All’improvviso12mila marocchini a Melilla si trovarono ad essere stranieri acasa propria. La situazione venne sanata dopo violenti scontri,ma il 1992 segnò l’inizio di un’altra crisi di fronte ai primiflussi massicci di migranti subsahariani. Il rappresentantelocale di Madrid reagì allo scontento popolare per l’arrivo diquesti disperati con arresti ed espulsioni arbitrarie. Il Marocco,però, non voleva saperne di prendersi cura di loro. Queste per-sone, per giorni, rimasero nella terra di nessuno. Una situazio-ne così non era più accettabile e l’avvio del processo di inte-grazione euro mediterraneo, sancito dagli accordi diBarcellona del 1995, incrementò gli incentivi al Marocco alfine di controllare l’afflusso dei migranti. I migranti presero anascondersi, come detto, nei boschi che per Melilla significail monte Gurugù. “Il Marocco è pronto a tutto per rafforzare lacooperazione con l’Unione Europea, in cambio di investimen-ti, armamenti e appoggio politico sulla questione del SaharaOccidentale (cfr. capitolo 4). Il governo di Rabat non esita a

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uccidere africani e reprimere attivisti. Ottengono visti Ue soloi migliori, quelli che hanno ottimi titoli di studio, impoveren-do sempre più questo continente”, raccontava tempo fa inun’intervista del 2008 Balga, presidente dell’associazionemarocchina Pateras de la vida (zattere per la vita), nata nel1988 quando erano i marocchini a tentare di attraversare loStretto di Gibilterra a bordo di zattere di fortuna.

“Tetouan vi piacerà, è una meraviglia!”, urla contento alvolante Ahmed, cercando di sovrastare il volume della musicache proviene dall’autoradio della sua Mercedes anni Ottanta.“La gente del nord del Marocco è uguale agli europei: apertae socievole. Mica come quelli del sud, chiusi e provinciali”,racconta il tassista. È proprio vero che esiste sempre qualcunopiù a sud di te. “Noi non emigriamo, chi ce lo fa fare? Io ho lamia casetta, il mio lavoro. Qui tutto cresce in fretta, c’è pienaoccupazione da noi. Quelli che emigrano sono quelli del sud,che non hanno lavoro e gli africani che non sanno fare nien-te”. Tutto il litorale che corre tra Ceuta e Tetouan è un enormecantiere: migliaia di operai, stravolti dal sole a picco, costrui-scono alberghi, villaggi turistici, ristoranti e piantano alberi.“Ecco, qui sorgerà un grande albergo, qui un meravigliosohotel”, racconta Ahmed, con un brillio negli occhi che nean-che gli occhiali da sole riescono a celare. Il tutto mentre guidacon una mano sul volante e una sul poggiatesta del passegge-ro. Indica fiero cantieri che sembrano appartenergli, per l’or-goglio con il quale li racconta. “Tutta roba di prima scelta sa”,fa notare, “tutta roba europea. I fondi sono spagnoli. Grandicatene alberghiere e imprese edili, grande business, qualitàoccidentale. Sarà bellissimo!”. L’entusiasmo di Ahmed correveloce come la macchina. È impercettibile la distanza chesepara il suo entusiasmo per lo sviluppo della sua terra daquello per il fatto che tutto sembrerà ancora più europeo. Ed èin questi cantieri, in questi investimenti, che sta la risposta alle

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domande su Ceuta e su quelle Colonne d’Ercole di nuovo eret-te? Soldi in cambio di controllo, semplicemente un business alposto di un altro. Quegli stessi imprenditori che per anni han-no guadagnato sulla pelle dei migranti lo fanno ancora, solo inun modo differente. Con la benedizione del governo spagnoloe marocchino, che hanno entrambi da guadagnare. E il tourforsennato compiuto dal ministro degli Esteri spagnolo in A-frica negli ultimi anni, imitato peraltro dai ministri di Italia ealtri paesi europei, acquista un senso nelle palme piantatedagli operai per fare ombra ai turisti fantasma che arriverannoa frotte, come assicura Ahmed mettendo su una cassetta diAdriano Celentano, convinto di far felici i suoi passeggeri eu-ropei.

Di tutto questo grande affare nessuno aveva avvisato Sam-bo Sadiako, 30 anni, senegalese. L’ultima vittima conosciutadelle reti. Il 7 marzo 2009, all’alba, lo hanno trovato mortodissanguato tra i rotoli di filo spinato nel quale si era incastra-to nel tentativo di saltare dalla parte giusta della vita, violan-do le Colonne d’Ercole dei disperati.

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CAPITOLO 6

L’Iraq liberato, chiuso tra nuovi muri

Suleimanya è un incubo. Un carosello impazzito di auto,clacson e smog, si avviluppa senza posa, dall’alba al tramon-to, per le strade della città dell’Iraq settentrionale.

Anche se sarebbe più corretto dire città curda, meglio anco-ra cantiere. È tutto un costruire, ristrutturare, decorare in untrionfo di Made in China.

Il palazzo del governatore di Suleimanya è uguale agli altri:ex palazzo dei tempi del regime, è stato occupato dai nuovipadroni, l’alleanza tra Unione Patriottica del Kurdistan (Puk)e Partito Democratico del Kurdistan (Pdk). Dopo il 1991 han-no combattuto tra loro, poi hanno capito che il potere è megliospartirselo. Il governatore Dana Ahmed Majed riceve in unostudio lungo e largo. Faccia da duro, è uno che ha combattutoai tempi della guerra tra Pdk e Puk. Adesso si gusta il potere,vestito con cura, mentre sul computer alle sue spalle passa unapresentazione della Suleimanya che verrà, molto lontana dallarealtà, che è fatta di corruzione e familismo.

L’unico problema sembra questo Partito Curdo dei Lavo-ratori (Pkk) che non ne vuol sapere di deporre le armi. Da unanno, l’aviazione turca bombarda i Monti Qandil, nei pressidel confine tra Iraq, Turchia e Iran. “Se io arrivo in Dani-marca, tanto per fare un esempio, armato fino ai denti, se-condo lei cosa mi fanno? Mi arrestano! Le democrazie moder-ne fanno così. Questa gente non può rimanere qui e continua-re la lotta armata”, dice Majed. Per la grande maggioranzadella popolazione del Kurdistan iracheno, però, i guerrigliericurdi sono degli eroi. “È diverso”, risponde con un sorriso

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tagliente sotto i baffi curati, “noi non andavamo all’estero acombattere. Lo facevamo in Iraq. Adesso poi, dopo quello chenoi curdi abbiamo ottenuto qui, è assurdo non capire che l’uni-ca strada per la libertà è la democrazia.

Non dico che li cacceremo via, ma se non la smettono do-vremo intervenire per disarmarli”. Non la pensano tutti così.Mola Bakhtyar è un mito per i curdi iracheni. Ha guidato i suoiuomini all’inseguimento delle truppe di Saddam in fuga versoBaghdad nel 2003. Adesso, anche lui in giacca e cravatta, sioccupa dell’ufficio politico del Puk. “Abbiamo fatto tanto peravere delle leggi che ci tutelassero... adesso dobbiamo rispet-tarle”, ammonisce Bakhtyar. “Abbiamo già troppe macerie percontinuare a distruggere. È il momento di costruire, in primoluogo con i Paesi vicini. La Turchia e l’Iran, certo. Anche loro.Il Pkk deve capire che va lasciata strada alla diplomazia inter-nazionale, anche se la Turchia non deve più passare in armi ilconfine come ha fatto l’estate scorsa”, dice l’ex guerrigliero.“La strada è nota: la democrazia. Ma vale per tutti. Se nonandasse così, beh... non esiterei un attimo a riprendere il fuci-le e a tornare in montagna. Quello che bisogna evitare è unconflitto intestino al mondo curdo. Il nostro popolo non capi-rebbe”. Lasciando la città, direzione nord, si cominciano a in-travedere le prime alture. L’anima del Kurdistan, dove la genteè legata a doppio filo alle sagome dei suoi monti, spesso rive-latisi un rifugio sicuro dalle repressioni del passato e del pre-sente. La strada verso i monti Qandil si colora di verde, men-tre il profilo del monte Titano segna uno spartiacque tra l’ani-ma urbana e quella rurale della società curda. “Sembra unadonna stesa, vedi? Il naso, la bocca, il seno”, sottolinea Kawa,il giornalista curdo che ci accompagna. La strada si complica:sempre meno asfalto, sempre meno case. A Rania si cambiaauto. Una vecchia jeep arriva scricchiolando. Scendono dueuomini: saranno loro a portarci sui monti Qandil, per incontra-

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re i guerriglieri. Non solo quelli del Pkk, ma anche quelli delPartito per una Vita Libera in Kurdistan (Pjak), il gruppo dicurdi iraniani nato nel 2004. Uno tarchiato, l’altro smilzo esecco. Sorrisi e strette di mano. Senza il kalashnikov, uno sisentirebbe a casa. Dopo i primi chilometri di silenzio è lamusica a rompere il ghiaccio. “È un canto della guerriglia”,risponde il guidatore. L’aspetto più ironico della vicenda è cheentrambi gli accompagnatori sono del Puk, ma il Pkk non lovedono affatto come un nemico. “Non potremmo mai prende-re le armi contro i nostri fratelli”. In lontananza un check-point dei governativi. Ci fanno scendere. L’autista passa al po-sto di controllo, mentre l’altro fa da guida lungo un fiumiciat-tolo che passa alle spalle del posto di blocco. Il governo delKurdistan iracheno non vede di buon occhio chi si reca suimonti Qandil. Dopo il passo la strada diventa sempre piùimpervia. Gli unici abitanti sono pastori. In prossimità di unaroccia che si alza verso il cielo come un dito inquisitore, l’au-tista annuncia: “Questa pietra segna il confine tra la zona sottocontrollo dei partiti curdi iracheni e il Pkk”. Un confine cheesiste solo nelle scelte politiche che ormai allontanano la lea-dership curdo-irachena dal Pkk. Ma che non esiste nella mentedei curdi, che abbatterebbero con ogni mezzo i confini che lisparpagliano in quattro stati da cento anni.

In lontananza spunta il volto di Abdullah Ocalan. Apo, pertutti i curdi. Un ritratto enorme, adagiato sul fianco di unamontagna. “I turchi l’hanno bombardato qualche giorno fa”,racconta divertita la guida, “dopo qualche giorno era di nuovoal suo posto. Li provochiamo!”. Dopo ore di sassi, sterrati estrade impervie, spunta un altro check-point. Questa volta conla bandiera del Pkk. “Ci dovete consegnare i cellulari. Vi ver-ranno restituiti al ritorno”, annuncia il capo posto, un omonegrande e grosso con due baffi enormi. Le divise stazzonate, le

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radio tenute in vita da pile legate con del nastro adesivo, laguardiola fatta di mattoni raffazzonati, ma il check-pointrende un’idea di efficacia. Un guerrigliero più giovane ci con-segna, in cambio dei telefoni, una ricevuta spiegazzata.

Arriva un camioncino. Si parte a velocità sostenuta, ci sonoquattro miliziani. Due di loro sono donne. Ridono e scherza-no. Poco dopo ecco una fattoria, dove tutta la famiglia vienefuori per salutare gli ospiti. “Siete ospiti nostri e della famigliadi Ibrahim. Tra un po’ torneremo per fare quattro chiacchiere”.Comincia il rito del the e degli sguardi incuriositi dei bimbi dicasa, mentre solo un miliziano resta di guardia. Tutt’intornorecinti dove sono ricoverati gli animali, muretti a secco e prativerdi. Le montagne come una corona. “Viviamo bene qui, nonci manca niente”, racconta Ibrahim, “ho un piccolo spaccio ele bestie ci danno quello che ci serve. Ma da quando sono ini-ziati i bombardamenti, a dicembre dello scorso anno, nonviviamo più. Tante famiglie sono scappate, centinaia. E ades-so vivono da profughe a Rania. Nessuno fa nulla per loro, ilgoverno se ne frega. Fanno fare alla Turchia tutto quello chevuole, fregandosene dei curdi in Turchia, solo il Pkk ci difen-de!”. Una famiglia di guerriglieri? “Macché, siamo povericontadini”. Poco dopo arriva un altro mezzo, con gli stessiuomini a bordo. Solo che questa volta con loro c’è un milizia-no più anziano. “Awal Denis”, si presenta stingendo la manocon presa d’acciaio. “Essere awal è più importante anche del-l’essere fratello e sorella”, spiega Denis. “Significa compa-gno, essere awal significa mettere l’uno la vita nelle mani del-l’altro. Non ci sono cognomi qui, siamo tutti awal”. Anche pertenere al sicuro le famiglie dei guerriglieri. Comincia un gar-bato e serrato interrogatorio. Awal Denis vuol sapere tutto deisuoi interlocutori. “D’accordo, aspettate qui e vi verremo atrovare noi. Venire voi con noi? Non è possibile, tra un bom-bardamento e l’altro siamo sempre in movimento. La situazio-

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ne è pericolosa, non permetteremmo mai che vi accadessequalcosa. Darebbero subito la colpa a noi!”, conclude con unsorriso gelido.

La televisione è sintonizzata su uno dei tanti canali satelli-tari curdi. L’argomento del giorno è uno solo: le manifestazio-ni in tutta Europa delle comunità curde per la denuncia degliavvocati di Ocalan. Il leader sarebbe stato torturato nell’isola-fortezza di Imrali, in Turchia, dove si trova rinchiuso dal 1999.Nessuno fiata. Ormai è scesa la notte, ma all’improvviso spun-tano i fari di un paio di pick-up. Ibrahim salta fuori, per rice-vere gli ospiti. Sono awal Bryar e awal Agri, rispettivamentedelegato politico e delegato militare del comitato centrale delPjak. “Il Pjak è nato nel 2004. Il suo congresso ha eletto settedelegati al comitato centrale, che coordina tutte le attività delmovimento. Politiche, militari e sociali”, spiega awal Bryar,occhialetti da intellettuale e baffoni neri, seduto per terra conle gambe incrociate. “Vi chiedete perché proprio il 2004?Secondo molti - spiega il dirigente del Pjak - la nascita delnostro gruppo è legata all’invasione dell’Iraq. Gli Usa si ser-virebbero di noi per destabilizzare il regime iraniano. Non ècosì! Non siamo mai stati finanziati da Washington e non loaccetteremmo mai. Gli Usa, insieme a Israele, forniscono idroni (aerei senza pilota) che individuano i movimenti deiguerriglieri del Pkk e del Pjak sulle montagne. Passano i datialla Turchia che bombarda la nostra gente. Potremmo maiallearci con loro? Questa è la versione del governo di Teheran,che ha tutto l’interesse a mostrarci come agenti al soldo di unapotenza nemica”, dice awal Bryar, aggiustandosi gli occhialet-ti e non alzando mai la voce.

“Il 2004 ha segnato solo il compimento di un lungo proces-so di presa di coscienza del popolo curdo in Iran. Noi subia-mo, come tutte le altre minoranze iraniane, la repressione del

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centralismo persiano da decenni. Ahmadinejad non è che l’ul-timo passaggio”, spiega il guerrigliero. “Solo che, dopo l’in-vasione dell’Iraq e la sostanziale indipendenza del Kurdistaniracheno, gli stati confinanti hanno avuto paura di un effettodomino tra i curdi dei loro Paesi. E hanno incrementato la re-pressione. L’autodifesa è stata un passaggio necessario. Moltidi noi avevano combattuto per anni nelle file del Pkk e l’arre-sto di Ocalan ha spinto tanti giovani verso la lotta armata. Larepressione in Iran ha fatto il resto “, conclude Bryar, spegnen-do la centesima sigaretta e sorseggiando l’ennesimo tè. Agri,il delegato militare, annuisce per tutto il tempo. La postura agambe incrociate è una sofferenza per il suo fisico massiccio.“La strategia della Turchia e dell’Iran è chiara: vogliono mili-tarizzare la zona al confine, spingendo la popolazione civilead abbandonare la regione. Per toglierci il nostro supportovitale: la nostra gente. Per questo motivo bombardano ecostruiscono il muro al posto di frontiera di Haji Omran, alconfine tra Iran e Iraq. Queste operazioni non hanno alcunrisultato pratico: spingono solo la gente ad andar via”. La mat-tina dopo, di buon ora, le montagne Qandil sono avvolte dauna fitta foschia. Il muro risalta nel grigiore generale con isuoi paletti rossi. Una barriera di cemento per un tratto, unarete metallica per la parte ancora in costruzione. Non più dicinque chilometri, per il momento. Ma gru e betoniere dimo-strano che non sono finiti i lavori. “Dovete fare in fretta,abbiamo pochi minuti”, dice Sidwar, la guida. “Vedete quellabase militare? Ci sono gli americani, là dentro. A poche centi-naia di metri dal confine con l’Iran... si possono guardare negliocchi”. Una strada sterrata e contorta conduce a Lawji, minu-scolo villaggio devastato dai bombardamenti. “Ecco gli obiet-tivi militari dei turchi!”, esclama awal Roj, che si aggira tra lemacerie, scalciando pezzi di un letto e il telaio di una finestra.La scena è desolante: un asino si aggira solitario tra quel che

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resta di case abitate da persone come tante. Un cd, una mappa,un libro di scuola. Tutto quello che resta di abitazioni innocue.Un cratere segna il punto dove è caduta una bomba. Scheggedi un razzo, taglienti come lame, sono ancora ben visibili.Porte e finestre contorte, spinte in una posa innaturale versol’interno. Come se un vento cattivo si fosse accanito, senzapietà, su quelle costruzioni. Tra le macerie awal Roj lascia unmazzetto di fiori. Con un bigliettino. “Lo lasciamo in ogni ca-sa distrutta. C’è scritto un vecchio proverbio curdo che dice ‘illupo è lupo quando ha il coraggio di combattere con un lu-po,non quando combatte un agnello’. Questo è quello che pensia-mo dei turchi”. Dal villaggio bombardato si torna indietro.Verso le linee sicure per i guerriglieri. Una piccola radura, uncircolo di pick-up.

Al centro del cerchio awal Bozan. Basta uno sguardo az-zurro ghiaccio perché i miliziani attorno a lui si muovano al-l’istante. Alto e robusto, capelli sale e pepe. Sorriso aperto, manon caldo. “Non amo parlare di me e del mio passato”, dicesecco, “vi dico solo che sono nel Pkk da diciotto anni e sono ilvice comandante del Kck. Il Kck è un sistema al quale fannoriferimento tutte le organizzazioni curde: militari, politiche,sociali, economiche. Ha un compito di coordinamento, ma cia-scun gruppo è libero di decidere. Questo è importante, perchérispetta il principio del nostro leader Ocalan: l’emancipazionedei singoli per il bene collettivo”. Quindi il Pjak ha aperto unsecondo fronte sulle montagne Qandil, riuscendo a mettered’accordo Iran e Turchia nel combattervi, di testa sua? “Certo,nessuno può impedire alla gente di difendersi. Se il loro pro-cesso di emancipazione ha portato alla lotta armata, è giustocosì. Per i curdi, dopo il 2003, la pressione si è fatta enorme.Tutti gli stati hanno temuto che il Kurdistan iracheno diventas-se la base per una rivolta in Turchia, Iran e Siria. Quei governi

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hanno reagito di conseguenza. E noi ci siamo dovuti difende-re”. Solo un’autodifesa, dunque. Questo significa che sulla vo-stra aspirazione all’indipendenza si sbagliano. “Certo che sisbagliano. La nostra strada è chiara, come l’ha indicata Ocalan.Noi puntiamo a una confederazione, che segni la fine degli statinazionali e del nazionalismo. Se si risolve il problema curdo sipacifica il Medio Oriente. Se si pacifica il Medio Oriente si ri-solvono i problemi di questo tempo”. Usate le armi, però. E peralcuni anche gli attentati contro i civili. “Non è vero - rispondebattendosi il pugno destro nel palmo della mano sinistra - losanno tutti che il Pkk colpisce solo obiettivi militari. Per difen-dere la sua gente dagli attacchi turchi. Gli attentati controobiettivi civili in Turchia non sono opera nostra.

Possono essere i servizi segreti turchi, oppure elementi cur-di fuori controllo. Ma noi no. La stampa ci addossa queste re-sponsabilità per screditarci e nessuno riporta anche il nostroparere”. Perché i media internazionali dovrebbero avercelacon voi? La figura di Ocalan, per anni, è stata considerataquella di un leader importante. Poi è diventato un terrorista.“Sul carisma di Ocalan non hanno alcun effetto le cose chevengono dette e scritte. Basta pensare alle folle che, sponta-neamente, sono scese in piazza per difenderlo dalle torture chesubisce. Arafat, per esempio. Prima terrorista, poi Nobel per lapace, poi terrorista. La stampa fa gli interessi del potere e ilpotere, in questo periodo storico, ha bisogno di fare di Ocalanun terrorista”, risponde awal Bozan. “Il capitalismo mostra ilsuo volto peggiore, perché attraversa una crisi molto grave. IlPkk, in questa regione, è l’unica reale forza di popolo, che sipone tra gli interessi degli Usa e dell’Ue e le potenze regiona-li, Iran e Arabia Saudita su tutte.

Siamo un problema, perché fino a quando esisteremo noi -dice sorridendo il dirigente curdo - il progetto del GrandeMedio Oriente degli Usa non si potrà realizzare. Noi non sia-

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mo in vendita. Non abbiamo bisogno di molto per vivere. Quelpoco che ci serve ci arriva dai curdi della diaspora, che da tuttoil mondo sostengono la nostra lotta. E dalla gente comune, chedivide con noi quel poco che ha. In tanti ci davano per finitiquando hanno catturato illegalmente Ocalan... adesso può tor-nare a casa e dire a tutti che il Pkk è ancora qui. E non smet-terà di lottare fino a quando i curdi saranno oppressi”. Il tempoè finito, awal Bozan saluta con un cenno del capo, mentre isuoi uomini si stringono attorno a lui. I pick-up vanno via infila indiana, tra queste montagne che appartengono al silenzio.

Il Kurdistan, con la sua storia particolare, è sempre statodiviso da barriere tra i paesi nei quali è incastonato con la for-za. Barriere linguistiche, culturali, politiche. Oggi, al confinetra l’Iran e l’Iraq quello barriere sono diventate visibili, soli-de. Sono uscite dalla mente per materializzarsi, come unacicatrice, tra queste splendide montagne.

Baghdad, invece, racconta un’altra storia. Millenaria. Nonc’è bisogno di scomodare il mito esausto delle Mille e unanotte per raccontare una città dove popoli, lingue, religioni ecostumi si davano appuntamento per contaminarsi gli uni congli altri. Bastava passeggiare la sera, lungo il corso del Tigri,per perdersi tra i mille piccoli ristoranti che offrivano il pescemigliore, cucinato alla al-baghdadi, alla maniera di Baghdad,aperto al certo e bloccato in griglia, cotto al forno. Una deli-zia.

Sono tante le cose che la guerra, dopo l’invasione delletruppe internazionali nel 2003, ha distrutto a Baghdad. I risto-rantini sul Tigri non sono quella più importante, ma una dellepiù simboliche lo è di sicuro. Perché tutti i cittadini e i visita-tori venivano qui e a nessuno importava che tu fossi sunnita osciita. Oggi non potrebbe più accadere, perché Baghdad è statadivisa da alte mura che dividono i quartieri dei sunniti da quel-li degli sciiti.

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Un muro c’era, già, in effetti. Il Muro della Vittoria, ilmonumento reso celebre da mille immagini della capitale ira-chena bombardata, occupata, offesa e divisa. Concepito nel1985, l’arco con le due spade incrociate celebrava una vittoriairachena nella guerra contro l’Iran che in quel momento sem-brava certa, grazie all’aiuto finanziario e bellico degli Usa alSaddam Hussein dell’epoca, il buon amico, il paladino dellalotta contro gli ayatollah di Teheran. La guerra, però, finì nel1988 e l’Iraq non aveva nessuna vittoria da celebrare, ma soloun milione di morti da piangere. I pugni che reggono le spadevennero modellati sulle mani dello stesso Saddam, ingranditidi quaranta volte. Le lame ricurve richiamano il modello inuso nel VII secolo, come dovevano essere quelle brandite daSaad Ibn Abi Waqas, che sconfisse i persiani. Le spade sonostate costruite con il metallo fuso delle pistole dei soldati ira-cheni caduti in battaglia. Dai polsi delle mani che reggono lespade pendono reti, piene degli elmetti dei soldati iraniani, cri-vellati di pallottole. I soliti bene informati sostengono che, nelprogetto originale, le reti dovessero contenere i teschi dei sol-dati iraniani. Non ci sono però, e il Muro della Vittoria (che èin realtà un arco) è ancora là mentre, almeno sulla carta, letruppe Usa hanno completato il loro ritiro dalle strade dellacapitale irachena il 30 giugno 2009. Adesso sono asserraglia-te nella Zona Verde, quartiere proibito del potere di Saddamprima, degli americani adesso. Ma si sono lasciati alle spallecumuli di macerie e i muri di Baghdad, le barriere di cementoche dividono i quartieri in modo settario, in base alla confes-sione religiosa. Il più noto è quello che divide il quartiere diA’adhamiya, sunnita, da quello di Sleikh, sciita. I commer-cianti li utilizzano per affiggere la loro pubblicità, il governoper esporre dei manifesti che invitano il popolo iracheno aessere unito, per un futuro senza divisioni. Chiedere questoaffiggendo manifesti su una barriera di separazione confessio-nale restituisce tutta l’assurdità della guerra. E dei muri.

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Quello di A’adhamiya è stato il primo, lungo cinque chilo-metri, tirato su dalla Seconda Brigata Combat team della 82^divisione aerotrasportata dell’esercito Usa. Alto poco meno diquattro metri, ha visto la luce il 10 aprile 2007. “Non voglia-mo costruire dei muri comunitari a Baghdad. Il nostro obietti-vo è di unificare la città, non dividerla”, commentò il genera-le William Caldwell, all’epoca portavoce dell’esercito Usa inIraq, dimostrando ancora una volta quale abisso esista tra lavisione dei fatti da parte dei militari e il buon senso della gentecomune. Bisognava fermare le squadre della morte, sunnite esciite, che si producevano in massacri nei quartieri dei ‘nemi-ci’. Solo che nessuno ammette che prima dell’arrivo degli sta-tunitensi non c’erano le squadre della morte.

Pochi giorni dopo più di sette mila abitanti di Baghdad,sunniti e sciiti, marciarono assieme chiedendo la rimozionedelle barriere religiose, come le chiamavano loro. I muri, però,sono ancora là.

Al-Jazeera International ha prodotto, realizzato e trasmessoun documentario di struggente bellezza. Baghdad, City ofWalls, girato nell’aprile 2009, diviso in quattro parti, raccontale storie dei cittadini di Baghdad, le loro vite stravolte dallaguerra e dai muri.

“Non riesco a credere che questo sia accaduto nel ventune-simo secolo”, dice davanti alla telecamera della giornalista delnetwork arabo Maysoon Abd al-Hamid, 57enne ingegnere diBaghdad, nato e cresciuto nel quartiere di A’adhamiya. “Vi-viamo in una prigione a cielo aperto, in gabbia come animali.I muri hanno tagliato la mia vita e quella dei miei vicini.Hanno ridisegnato la mia città”.

Non c’è solo A’adhamiya, però. Lo stesso destino è tocca-to a Sadr City, il più grande quartiere sciita della capitale ira-chena. Si chiamava Saddam City, perché il regime volevaumiliare fino in fondo gli sciiti, che avevano osato ribellarsinel 1991, credendo alle false promesse Usa dell’epoca.

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Saddam aveva invaso il Kuwait e una coalizione interna-zionale attaccò l’Iraq. Per colpire il regime dall’interno, glisciiti vennero convinti a sollevarsi contro il regime, ma larealpolitick trionfò e a Washington decisero di abbandonarlial loro destino. Dopo la caduta di Saddam, nel 2003, gli sciitihanno ribattezzato il quartiere Sadr City, in onore di uno deipiù amati tra i loro imam. Ma poi arrivò l’attentato alla mo-schea d’Oro di Samarra, febbraio 2006. Uno dei più importan-ti mausolei sciiti del mondo, con la sua cupola dorata, vennedistrutto in un attacco suicida. Per molti quello è stato il sim-bolo del massacro interconfessionale tra sunniti e sciiti. Machi ha dato fuoco alle polveri? Non si conosce ancora la veri-tà, ma sia Samarra che Sadr City sono cinte da muri. Altri murisono nati a Ghaziliyah, Khadra e Ameriyah, nella zona occi-dentale di Baghdad, tutte aree sunnite. Altri tre muri circonda-no il distretto meridionale di Rashid.

Il governo iracheno, per tentare di rendere meno duro l’im-patto di queste barriere sulla vita degli iracheni, nel 2007, hacommissionato ai migliori artisti del Paese scene di vita quo-tidiana da dipingere sui muri. Come se bastasse disegnare unadonna che serve un the o un uomo che fuma il narghilè perrendere meno invasivi i muri settari.

Anche il muro di Berlino venne, negli anni, utilizzato per ipiù svariati disegni e lo stesso accade in Palestina, per non par-lare dei murales di Belfast. Ma sono tutte scritte che chiedonodi abbatterli i muri, non di farseli piacere.

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POSTFAZIONE

Non chiamatemi John Doedi Mustafa Barghouthi con Francesca Borri

Perché è amaro e affilato dirlo, ma il vero pericolo, in guer-ra, è che ci si abitua. Le prime volte, un checkpoint incendiaindignati: ma rapida, subentra una sorta di aritmetica istintivadel male minore: difendere quell’anziano da uno sputo è rega-lare il pretesto per una chiusura. E si è contaminati così, inav-vertiti, da una gramigna di tolleranza, via via più larga - per-ché ogni giorno è giorno e rosario di infinite ingiustizie mini-me: fino a riscoprirsi pazienti a un checkpoint, distratti comedavanti a un semaforo rosso. Ed è qui invece che un’occupa-zione, una guerra vince: quando si converte in sfondo e pae-saggio - quando la mattina a Qalandia, le tre ore che sono i tre-dici chilometri tra Ramallah e Gerusalemme, si litiga non pertravolgere quelle inferriate, ma perché la fila proceda ordina-ta. E perché è esattamente questo invece, l’obiettivo vero: co-stringerci a consegnare non un semplice documento, ma conquel documento la nostra identità stessa: ribaltarci da popolounito in accumulo di arabi che accidentalmente si ritrovano aabitare sparsi tra queste colline - costringerci a credere la vitaquesta normalità che non è che normalizzazione. E allora nonsolo il giornalismo, ma anche la pace si fa con la suola dellescarpe: perché la guerra ha bisogno di indifferenza, per diven-tare guerra - ha bisogno di racconto, per diventare crimine: macosì la pace: ha bisogno di racconto e sguardo, per diventaregiusta, parola e luce. Per non essere solo la quiete del più forte,la rassegnazione - uno sguardo vergine di stanchezza, e ango-scia e disillusione, uno sguardo illeso di slancio e sogno, ri-vendicazione, che non conosca abitudine e anestesia.

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E perché anche questo Muro in realtà, è un Muro che non èstato raccontato abbastanza - anche questo un Muro che non èstato ancora incontrato. Perché hanno contato accurati la lun-ghezza e i chilometri, e visto l’inflessibile sgomitolarsi di unasaracinesca, lì dove io ho visto però, nell’ombra, anche millebrecce e passaggi: perché ogni notte è notte di caccia e spari,lungo il Muro, mentre operai palestinesi attraversano clande-stini per lavorare in Israele, sottopagati e senza alcuna tutela,ogni notte la retorica della sicurezza si svende alle lusinghedell’economia - e in quei passaggi, quegli operai ho visto tuttal’Europa di Schengen, e un cimitero chiamato Mediterraneo.E perché hanno controllato rigorosi le mappe e i catasti dellaterra confiscata, e visto terra palestinese lì dove io ho visto,però, anche cemento palestinese: e perché è un Muro costrui-to con il cemento di un cementificio riconducibile al sottobo-sco del nostro governo - e in quel cemento, in quella collabo-razione allora, ho visto tutte le Oslo e Vichy, e élites della sto-ria, e pretesi processi di pace che non sono che riformulazionidi un dominio coloniale mai finito. E perché hanno descrittocostanti le macerie, e visto ulivi divelti e case livellate via, lìdove io ho visto però, anche e soprattutto ruspe di ideologia:perché è un Muro che ha fondamenta salde di propaganda edisinformazione, non odio ma piuttosto ignoranza, per la mag-gioranza, un Muro come ogni muro, presidiato non da soldati,ma da scuole e università, e giornali e televisioni - e in quel-l’inerzia intellettuale che annuncia la diserzione morale, allo-ra, ho visto tutto l’Occidente e la sua libertà di parola, ma sem-pre e solo all’interno di un unico e indiscusso linguaggio. Eperché hanno studiato attenti, ancora, gli effetti sui palestine-si, e visto un paese collassare in ghetti, lì dove io ho visto,però, anche gli effetti sugli israeliani, e la loro vita collassarein carceri di diffidenza e paura: perché di là dal Muro, da ognifortino si spia un deserto dei tartari - e in quell’ipocondria

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come sola forma di salute, non ho potuto che vedere tutta lavostra fragilità, e l’Altro non più una ricchezza ma un proble-ma. Perché avete denunciato in tanti, giusti, Israele e il suoapartheid: ma lì dove io ho visto anche voi: perché sono cin-que anni che secondo la Corte Internazionale questo Muro de-ve essere abbattuto - e in quel parere solo timidamente consul-tivo, allora, in questi ultimi sessant’anni impuniti di risoluzio-ni e inchieste, invece che condanne e tribunali, in questo asse-dio di Gaza a sanzione di elezioni regolari non ho potuto chericonoscere tutte le vostre crociate per l’esportazione della de-mocrazia.

Perché questo Muro non è un muro solo israeliano. E per-ché non è un muro, ma una filosofia - progettato dalla sinistra,costruito dalla destra, non è che l’icona di società imperniatesu Hobbes e la paura dell’altro, sulla difesa invece che la pauraper l’altro, e tutta la cura, la delicatezza per chi amiamo, e ildesiderio di vivere insieme: nient’altro che individui, avrebbedetto Martin Buber, che si affermano distinguendosi da altriindividui, scavando distanze classificazioni, e mai invece per-sone, che si affermano al contrario nell’incontro e scambiocon altre persone, e il contatto, la contaminazione. Ed è in que-sto, allora, che il Muro si fa non tecnica, ma valore, metaforaprima che cemento: nell’illusione che la libertà e la sicurezzasiano l’autonomia, l’autosufficienza invece che la relazione,l’inclusione l’integrazione - in una tirannia del merito e dellacompetizione in cui il singolo è parametro di tutto, destinato adominare o subire. Perché se oltre i muri si accampano invisi-bili i poveri in divisa di ogni tempo e latitudine, immediata-mente riconoscibili nelle forme tradizionali dell’emarginazio-ne, dall’altro lato si insedia inedita, e più sottile, la povertà inborghese della solitudine, in un’apparenza di pace che non èche continuazione della guerra con altri mezzi: perché la paceautentica è convivialità delle differenze, non la separazione

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ma la condivisione, sosteneva il vostro don Tonino Bello: nonla semplice distruzione delle armi, né l’equa distribuzione deipani a tutti i commensali della terra - non organizzare mense,ma aggiungere posti a tavola.

E allora è un Muro, questo, che non mi fa prigioniero, maal contrario - cittadino del mondo. Perché quanta Palestina, equanta Israele in realtà, lungo la strada verso Belfast, quantodei nostri stessi ulivi, e rocce e colline in quel paesaggio in cuil’unica discontinuità è incuneata artificiale dalle bandiere. Equanta nakbah, a Cipro, quanto sionismo in quelle case che sichiamavano Kythrea e adesso si chiamano Deghirmenlik,quanta intifada in quei funerali tutti uguali - quanto di ogniguerra se ogni guerra, scriveva Cesare Pavese, non è che unaguerra civile: perché ogni caduto somiglia a chi resta, e glienechiede ragione. E quanta Gaza in Sambo Sadiako, riportatomorto invece che ucciso, quanto del suo genocidio minimizza-to a embargo in questi verbi al participio, sempre privi di sog-getto, responsabilità. E quanto Arafat in Ocalan, prima marti-re poi terrorista - e quanta, quanta Palestina in quella clinicaprecaria e viva dei saharawi, in cui i malati non sono soli, e siparla anche a chi non è capace di ascoltare, e si ama anche chinon è capace di riamare - quanta Palestina, quanto Darwish, inquesta bellezza ostinata che ancora sa osare, e giocare in per-dita, senza aspettarsi niente in cambio: quanta immunità, inquesta umanità. Ricorda Michel Warschawski: l’ebreo è coluiche passa, che attraversa: colui che sceglie il confine, e l’in-quietudine il dubbio: perché a volte il confine è un limite datutelare, quando protegge la propria autonomia autodetermi-nazione, indipendenza, ma altre volte è un limite da attraver-sare, quando separa a tenuta stagna - e abitare il passaggio,allora, abitare il confine, il solo luogo in cui è possibile espan-dere la propria libertà: perché non è il luogo in cui il mondofinisce, ma in cui si è costretti all’indagare costante sulla pro-

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pria identità, in rapporto all’identità dell’Altro - il luogo dellapropria libertà, non solo di quella altrui. Ed è in questo con-sentirmi cittadino di ogni conflitto, avrebbe detto Edward Sa-id, trasversale a ogni confine, che questo Muro mi rende il ve-ro ebreo rimasto in questa terra.

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RINGRAZIAMENTI

Sarà perché è il mio primo libro, ma mi sembra di aver-ne un altro da scrivere per metterci tutti coloro verso iquali mi sento in qualche maniera in debito. E ne dimenticherò tanti, ma da qualche parte devo co-minciare. Allora grazie.

A mio padre, che mi ha insegnato ad amare in silenzioA mia sorella, che mi ricorda sempre di rimanere vivo, fuori e dentroA Francesca, che è arrivata quando non l’aspettavo più.Ad Alessandra, che nasconde un vocabolario magico dal quale trarre sempre la parola giustaA Sara, che ha capito sempre perché partivoA Livio, che mi ricorda sempre di coltivare il dubbioA Francesca Borri, che mi ricorda sempre che scrivere èun dovereA Giovanna, una lettrice che tutti meriterebberoAd Annalisa, che tenta sempre di far quadrare i contidella mia vitaA Maso, che mi ha permesso di realizzare un sognoA Nicola Sessa, che mi ha fatto guardare con occhi di-versiA Rosario Esposito La Rossa, che in questo libro ha cre-duto dal primo giornoA Mustafà Barghouti, che mi ha onorato della sua pre-senza.A mia nonna, che mi ha insegnato a resistereAd Adolfino, che mi ha sempre aspettato. Fino all’ulti-mo giornoA tutti gli altri.

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INDICE

Introduzione....................................................................................7

Prefazione (di Nicola Sessa).........................................................11

Capitolo 1: Cipro, l’ultimo muro d’Europa..................................17

Capitolo 2: Belfast, la guerra dei murales....................................35

Capitolo 3: Israele e Palestina, diritto contro un muro................47

Intermezzo: Un mondo di muri....................................................63

Capitolo 4: Sahara Occidentale, un muro tra le dune..................75

Capitolo 5: Ceuta e Melilla, una rete tra due mondi....................89

Capitolo 6: L’Iraq liberato, chiuso tra nuovi muri.......................99

Postfazione: (Barghouti e Borri).................................................111

Ringraziamenti............................................................................117

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Finito di stampare

nel mese di Novembre 2010

presso la tipografia Seristampa - Palermo