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Università Telematica Pegaso La colpevolezza (seconda parte)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 INCOMPATIBILITÀ CON IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI PERSONALITÀ DELLA
RESPONSABILITÀ PENALE ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 3
1.1. RESPONSABILITÀ OGGETTIVA IN RELAZIONE ALL’EVENTO ------------------------------------------------------------- 4 1.2. RESPONSABILITÀ OGGETTIVA IN RELAZIONE AD ELEMENTI DEL FATTO DIVERSI DALL’EVENTO ------------------ 4 1.3. RESPONSABILITÀ OGGETTIVA IN RELAZIONE ALL’INTERO FATTO DI REATO ----------------------------------------- 5 1.4. ALCUNE IPOTESI DI RESPONSABILITÀ PER COLPA (NON DI RESPONSABILITÀ OGGETTIVA) ------------------------- 6 1.5. L’IRRAGIONEVOLE SPROPORZIONE TRA MISURA DELLA PENA E GRADO DELLA COLPEVOLEZZA------------------ 7
2 ULTERIORI REQUISITI CHE FONDANO IL RIMPROVERO DI COLPEVOLEZZA ---------------------- 9
Università Telematica Pegaso La colpevolezza (seconda parte)
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1 Incompatibilità con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale
Il codice penale del 1930 prevede una serie di ipotesi di responsabilità oggettiva, cioè
ipotesi nelle quali un elemento del fatto di reato o l’intero fatto di reato è addossato all’agente senza
che sia necessario accertare la presenza di dolo o, almeno, della colpa: la responsabilità si fonda
solo sull’oggettiva esistenza di questo o quell’elemento, ovvero sulla mera oggettività causazione.
Si tratta però di una disciplina in contrasto con la Costituzione. Come si è anticipato, il
principio di colpevolezza ha il rango di principio costituzionale: lo ha affermato la Corte
Costituzionale in due sentenze del 1988, la seconda delle quali – sentenza 13 dicembre 1988 n.
1085- ha in particolare messo in risalto che “dal primo comma dell’art. 27 Cost. risulta
indispensabile..il collegamento tra soggetto agente e fatto”: “perché l’art. 27, primo comma, Cost.
sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autoenticamente personale, è indispensabile
che tutti e ciascuno degli elementi che concorrano a contrassegnare il disvalore della fattispecie
siano soggettivamente collegati all’agente,siano, cioè investiti dal dolo o dalla colpa”; “soltanto gli
elementi estranei alla materia del divieto si sottraggono alla regola della rimproverabiltà ex art.27,
primo comma, Cost.”. Secondo la Corte, pertanto, la responsabilità oggettiva, cioè la
responsabilità senza dolo e senza colpa, “contrasta con il principio costituzionale di personalità
della responsabilita’ penale”.
Di questa precisa indicazione interpretativa ha fatto piena e coerente applicazione una
recente pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite( 22 gennaio2009 n.22676, Ronci,in CED
Cassazione n.243381), la quale ha interpretato una norma a lungo ritenuta della dottrina e della
giurisprudenza un’ipotesi di responsabilità oggettiva come se già contenesse il limite della colpa. In
questa sentenza, con affermazioni che vanno anche al di là dell’ambito dell’art. 586 c.p., le Sezioni
Unite hanno altresì sostenuto che “si deve ammettere la possibilità di concepire e praticare una
colpa in attività illecite, la quale non solo è riconosciuta esplicitamente in numerosi ordinamenti
positivi, ma è anche ammessa da tempo dalla gran parte della dottrina italiana, che ha evidenziato
come le norme cautelari di condotta valgano tanto per chi agisce legittimamente quanto per chi
opera illegittimamente”.
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1.1. Responsabilità oggettiva in relazione all’evento
Un primo gruppo di ipotesi, in cui è l’evento l’elemento del fatto che la logica della
responsabilità oggettiva vorrebbe sottrarre all’oggetto del dolo e della colpa, è rappresentato dai
delitti aggravati dall’evento, figure delittuose per le quali la legge prevede un aggravamento della
pena al verificarsi di una conseguenza naturalistica del reato, già integrato in tutti i suoi elementi
costitutivi.
In base alla logica della responsabilità oggettiva l’evento è posto a carico dell’agente sulla
sola base del rapporto di causalità anche nei casi di delitto preterintenzionale, cioè nei casi in cui
“dall’azione od omissione deriva un evento...più grave di quello voluto dall’agente”.L’unica figura
di reato che il legislatore ha espressamente qualificato come “preterintenzionale” è l’omicidio di cui
all’art. 584 c.p.: risponde di tale delitto chi, con atti diretti a percuotere o a cagionare una lesione
personale, cagiona la morte di uomo. Attraverso un’interpretazione secondo Costituzione si può
rimodellare il delitto preterintenzionale secondo lo schema della responsabilità colpevole,
subordinando l’applicazione della norma incriminatrice alla possibilità di rimproverare a colpa
dell’agente la causazione dell’evento: chi con atti diretti a cagionare percosse o lesioni ha provocato
la morte di un uomo risponderà di omicidio preterintenzionale solo se un uomo ragionevole poteva
rappresentarsi la circostanza concreta che ha fatto degenerare le percosse o le lesioni nella morte
della vittima.
1.2. Responsabilità oggettiva in relazione ad elementi del fatto diversi dall’evento
La responsabilità oggettiva si configura anche quando elementi del fatto diversi dall’evento
sono posti a carico dell’agente benché rispetto ad essi non vi sia né dolo, né colpa, e dunque solo
perché oggettivamente esistenti.
Si pensi in primo luogo alla disciplina dei reati contro la libertà sessuale in danno di un
minore di anni quattordici: secondo quanto dispone l’art. 609 sexies c.p. “il colpevole non può
invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa”
Già si è detto della disciplina che l’art. 117 c.p. dedica al concorso di persone nel reato
proprio. La norma citata introduce una deroga alla disciplina generale del concorso di persone nel
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reato, per i casi in cui, in assenza della qualità richiesta dalla norma che configura il reato proprio, il
fatto integrerebbe un diverso reato: “l’estraneo” che ignorando la qualità “dell’intraneo”, lo istiga o
lo aiuta a commettere un fatto che integrerebbe il reato diverso risponde ex art.117 c.p. come
concorrente nel ‘reato proprio’. Si tratta di responsabilità oggettiva in quanto l’elemento del fatto di
reato ‘qualifica del soggetto attivo’ è sottratto all’oggetto del dolo, né la legge richiede che l’errore
dell’agente sia determinato da colpa: la responsabilità ex art. 117 c.p., si fonda dunque sul
contributo alla realizzazione del fatto e sulla rappresentazione e volizione solo di alcuni elementi
del fatto.
Un’ulteriore ipotesi di responsabilità oggettiva, nella quale un elemento del fatto giace al di
fuori del dolo, è configurata dall’art. 82 co. 1 c.p. Si tratta della c.d. aberratio ictus monolesiva,
cioè dell’ipotesi in cui “per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa è
cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta”. In presenza di una
divergenza tra ciò che il soggetto ha voluto e ciò che ha realizzato, la legge fa ricorso ad una
funzione, considerando realizzata dolosamente l’offesa cagionata a danno di una persona diversa da
quella presa di mira.
L’art. 82 co. 2 c.p. contempla poi l’ipotesi in cui “oltre alla persona diversa, sia offesa anche
quella alla quale l’offesa era diretta” (c.d. aberratio ictus plurilesiva), disponendo che “il colpevole
soggiace alla pena prevista per il reato più grave, aumenta fino alla metà”.
Interpretando invece l’art.82 c.p. secondo Costituzione, in tutti i casi di aberratio ictus
(monolesiva o plurilesiva) l’agente risponderà soltanto se l’offesa a persona diversa sia dovuta a
colpa, in quanto cioè una persona ragionevole si sarebbe accorta, in quelle circostanze concrete, che
l’offesa da lui progettata si sarebbe potuta verificare nei confronti di una persona diversa dalla
vittima designata.
1.3. Responsabilità oggettiva in relazione all’intero fatto di reato
Nel codice penale è infine presente una disposizione che accolla all’agente l’intero fatto di
reato secondo lo schema della responsabilità oggettiva. Si tratta dell’art. 116 c.p., secondo il quale
“qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi
ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione”. Una volta riconosciuto
chiaramente il rilievo costituzionale del principio di colpevolezza come la Corte costituzionale ha
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fatto con le sentenze del 1988, quelle incertezze interpretative andranno tuttavia superate: come
riconosce un orientamento giurisprudenziale che va consolidandosi, ex art. 116 c.p. il reato doloso “
diverso” sarà addebitale a chi non lo ha voluto solo se era in colpa e cioè solo se se una persona
ragionevole, sulla base delle circostanze concrete conosciute o conoscibili, poteva prevedere che
sarebbe stato commesso quel reato diverso.
1.4. Alcune ipotesi di responsabilità per colpa (non di responsabilità oggettiva)
Lo schema della responsabilità oggettiva era talora adottato nel codice del 1930 non solo per
l’evento, per altri elementi essenziali del fatto e per l’intero fatto, ma anche per le circostanze
aggravanti, cioè per gli elementi che non sono richiesti per l’esistenza del reato, ma la cui
presenza incide sulla gravità, comportando un aumento della pena.
Nonostante la contraria opinione manifesta da una parte della dottrina, senza trovare seguito
in giurisprudenza, la norma configura una vera e propria responsabilità per colpa: è pertanto
necessario accertare caso per caso se, nella circostanze del caso concreto, il direttore responsabile
poteva, con la dovuta diligenza, rendersi conto ed evitare che col mezzo della pubblicazione da lui
diretta fosse commesso un reato.
La formula “a titolo di colpa” compare anche nell’art. 83 c.p. a proposito della c.d. aberratio
delicti, cioè l’ipotesi in cui “per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per un’altra causa si
cagiona un evento diverso da quello voluto”. La formula legislativa “a titolo di colpa” ha indotto
parte della dottrina a sostenere che la responsabilità per il reato non voluto non sia propriamente
colposa: si tratterebbe di una responsabilità oggettiva equiparata ai reati colposi solo ai fini della
disciplina. Tale interpretazione però non rispecchia le intenzioni del legislatore, né è conforme al
principio costituzionale di colpevolezza. Ne segue che non si tratta di un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, ma di un’ipotesi di responsabilità per colpa: sarà perciò necessario accertare caso per
caso se, nel nostro esempio un uomo ragionevole, al posto dell’agente, si sarebbe reso conto che il
sasso scagliato per infrangere la vetrina poteva colpire e ferire il passante.
Questa interpretazione dell’art. 83 c.p. decide anche del fondamento della responsabilità
nell’ipotesi di “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto” (art. 586 c.p.), per la cui
disciplina la legge stabilisce che “si applicano le disposizioni dell’art. 83”. La morte o la lesione di
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una persona che conseguano alla commissione di un fatto preveduto come delitto doloso saranno
infatti poste a carico dell’agente solo se cagionate per colpa, solo cioè se si tratti di conseguenze in
concerto prevedibili da un uomo ragionevole: non si applicherà pertanto l’art. 586 c.p. in un caso,
ad esempio, in cui la vittima di uno scippo sia deceduta a causa di una grave e insopportabile
malattia cardiaca, che ha ingigantito tipo gli effetti della reazione emotiva al furto.
Non deroga al principio di colpevolezza la disciplina delle condizioni obiettive di
punibilità (art 44 c.p.): è vero che le condizioni obiettive di punibilità operano indipendentemente
dal dolo e della colpa, ma ciò non contrasta con il principio di colpevolezza, trattandosi di elementi
del reato estranei al fatto.
1.5. L’irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado della colpevolezza
Tornando brevemente alle norme incriminatrici a lungo interpretate ad applicate in base alla
logica della responsabilità oggettiva va ancora sottolineato che esse, anche una volta che le se
interpreti secundum Costitutionem come se già contenessero il limite della colpa, comunque non
superano tutti i problemi di compatibilità con il principio di colpevolezza: spesso si profila infatti
una irragionevole sproporzione tra misura della pena prevista da queste norme e grado della
colpevolezza.
Tale sproporzione è particolarmente evidente nelle ipotesi in cui si punisce con la pena
prevista per un delitto doloso una persona alla quale può essere mosso soltanto un rimprovero di
colpa. In conseguenza della rilevata sproporzione, queste norme, che puniscono con la pena
prevista per un delitto doloso persone alle quali, in relazione ad un elemento del fatto diverso
dall’evento ovvero in relazione all’intero fatto di reato può essere mosso soltanto un rimprovero di
colpa, si candidano ad essere dichiarate costituzionalmente illegittime. La dichiarazione di
illegittimità costituzionale potrebbe si aprire in talune ipotesi un vuoto repressivo, che il legislatore
potrebbe però colmare senza difficoltà, se lo ritenesse necessario, prevedendo una figura di reato
colposo sanzionata con pena proporzionalmente meno grave.
A ben vedere, una irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado della
colpevolezza ricorre, d’altra parte, anche nell’omicidio preterintenzionale ed in alcuni delitti
aggravanti dall’evento. In conseguenza della rilevata sproporzione, anche l’art. 584 e l’art. 572 co. 2
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c.p. nonché le altre norme che puniscono con una pena notevolmente più grave di quella derivante
dal concorso formale di reati colui che commette un delitto doloso seguito da un omicidio colposo,
si candidano ad essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
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2 Ulteriori requisiti che fondano il rimprovero di colpevolezza
A) Assenza di scusanti
Come si è anticipato, per considerare colpevole l’agente non basta che abbia commesso un
fatto antigiuridico con dolo o per colpa: un compiuto rimprovero di colpevolezza non può muoversi
quando l’agente ha commesso il fatto in presenza di scusanti, cioè di circostanze anormali che,
nella valutazione legislativa, hanno influito in modo irresistibile sulla sua volontà o sulle capacità
psicofisiche.
Va sottolineato che solo in via di eccezione espressa gli ordinamenti danno rilievo all’umana
fragilità per scusare il compimento di ingiustificati fatti offensivi di beni giuridici commessi con
dolo o per colpa. Il giudice non può pertanto appellarsi ad un generale principio di inesigibilità per
scusare la commissione di fatti di reato né può al di là del catalogo tassativo delle scusanti
espressamente previste dalla legge: eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate
solo dal legislatore, e non dal giudice in via analogica.
Tra le principali ipotesi di scusanti, si segnala fra l’altro la provocazione nei delitti contro
l’onore: a norma dell’art. 599 co. 2 c.p., “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti
dagli articoli 594 e 595” – cioè i fatti dolosi di ingiuria e diffamazione – “nello stato d’ira
determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. Inoltre è scusato chi commette fatti
antigiuridici dolosi di falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, favoreggiamento
personale, etc., “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo
congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore” (art. 384 co. 1 c.p.).
Ancora, non è colpevole chi agisce in stato di necessità determinato da forze della natura o
dall’altrui minaccia, essendo costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un
danno grave alla persona.
Anche sul terreno dei reati colposi il legislatore italiano prevede delle circostanze anormali
che, nella valutazione legislativa, scusano la violazione di una regola di diligenza, perché la loro
presenza influisce in modo normalmente irresistibile sulle capacità psicofisiche dell’agente,
impedendo anche all’agente modello di rispettare la regola di diligenza violata. Si tratta di una
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gamma tassativa di circostanze di forza maggiore, di caso fortuito, di costringimento fisico e di
coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione.
a) A cominciare dai reati commissivi colposi, rilevano come scusanti, ai sensi della
norma sul caso fortuito, circostanze ‘interne’ come l’insorgenza di un malore rapido
e improvviso che colpisca chi è alla guida di un’auto, il cui quadro clinico può essere
il più diverso: un malore che genera dolori acutissimi, perdita assoluta delle forze,
obnubilamento della vista, e il cui sbocco comportamentale può essere il
compimento di una manovra di giuda in aperto contrasto con una regola oggettiva di
diligenza.
b) Scusano la violazione di questa o quella regola di diligenza, ai sensi della
disposizione sulla coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione, circostanze
‘interne’ come le relazioni da terrore o spavento, che paralizzano le normali funzioni
di controllo della coscienza e volontà.
c) Circostanze anormali ‘esterne’, che possano scusare la violazione di una regola di
diligenza, solo la forza maggiore e il costringimento fisico.
d) Anche i reati omissivi colposi fanno spazio a circostanze concomitanti anormali,
interne ed esterne, che scusano l’oggettiva violazione di un dovere di diligenza.
e) La scusante dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia trova
applicazione anche per i reati colposi.
B) Conoscenza o conoscibilità della norma penale violata
Il principio di colpevolezza richiede altresì che, al momento della commissione del fatto,
l’agente sapesse o almeno potesse sapere che quel fatto era previsto dalla legge come reato. Può
essere scusato chi ignori l’esistenza della norma incriminatrice ovvero chi ne dia un’interpretazione
erronea; non invece chi, la momento della commissione del fatto, versi in una situazione di dubbio
sull’esistenza o sui contenuti della norma penale: in tal caso, come ha affermato la Corte
Costituzionale, il soggetto è tenuto “ad astenersi dall’azione”.
L’oggetto dell’ignoranza o della conoscenza errata ex art. 5 c.p. può essere in primo luogo la
rilevanza penale del fatto commesso dall’agente: l’agente si rende conto di quello che fa, ma
ignora che quel fatto è penalmente rilevante, ignorando l’esistenza della norma incriminatrice o
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avendone erroneamente interpretato la portata. L’ignoranza o l’errata conoscenza può inoltre
riguardare l’antigiuridicità del fatto: l’agente può ritenere lecito il fatto da lui realizzato o in
quanto supponga esistente una norma che lo autorizza o lo impone non prevista dall’ordinamento,
oppure in quanto ritenga che la norma che prevede la causa di giustificazione abbia limiti più ampi
di quelli fissati dall’ordinamento.
C) Capacità di intendere di volere
Ulteriore condizione perché un fatto possa essere oggetto di un rimprovero ‘personale’ che
l’autore, al momento della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di intendere e di
volere: in altri termini capace di comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti
(capacità di intendere), nonché di autodeterminarsi liberamente (capacità di volere).
Dopo aver così enunciato il principio generale che governa questa materia, il legislatore ha
poi individuato una serie di ipotesi la cui disciplina rappresenta una mera applicazione di tale
principio,: è il caso del vizio di mente, della cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti e del
sordomutismo, che escludono l’imputabilità quando l’infermità comporta l’incapacità di intendere o
di volere; è il caso dell’età minore di anni quattordici, per la quale il legislatore stabilisce una
presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere; ed è il caso, infine, dell’età compresa fra
i quattordici e i diciotto anni, che esige l’accertamento caso per caso della capacità di intendere e di
volere.
Va segnalato sin d’ora che il legislatore ha d’altra parte apportato una serie di deroghe al
principio enunciato nell’art. 85 c.p.: in alcuni casi il legislatore ha finito l’esistenza dell’imputabilità
in capo a soggetti incapaci di intendere o di volere al momento del fatto; in altri casi, il legislatore
ha spostato all’indietro rispetto alla commissione del fatto il momento in cui deve essere presente la
capacità di intendere e di volere; infine, ha escluso che gli stati emotivi e passionali possono
assumere rilievo scusante.
A norma dell’art. 88 c.p., che reca in rubrica “vizio totale di mente”, “non è imputabile chi,
nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la
capacità di intendere o di volere”. Aggiunge l’art 89 c.p., sotto la rubrica “vizio parziale di mente”
. “Chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era,per infermita’,in tale stato di mente da scemare
grandemente, senza escluderla, la capacita’ di intendere o di volere, risponde del reato
commesso;ma la pena è diminuita” Quanto al vizio parziale di mente, va sottolineato che non
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basta un’infermità che abbia diminuito la capacità intellettiva o volitiva dell’agente, ma è necessario
che la diminuzione di quelle capacità sia molto seria: ai fini della diminuzione di pena prevista per
il seminfermo di mente, la legge richiede infatti che la capacità di intendere o di volere sia
“grandemente scemata”. Il concetto di infermità ex artt. 88 e 89 c.p. ricomprende pacificamente sia
malattie di tipo psichico, sia malattie di tipo fisico, purché tali da incidere sulle capacità intellettive
o volitive della persona. Quanto alle malattie di tipo psichico, l’orientamento a lungo dominante
dava rilievo alle sole alterazioni mentali su base organico - celebrale.
La persona riconosciuta affetta da vizio totale di mente al momento del fatto è prosciolta per
difetto di colpevolezza e quindi non è sottoposta a pena; peraltro, ove sia ritenuta socialmente
pericolosa, e il fatto commesso integri un delitto doloso punito con la reclusione superiore nel
massimo a due anni, l’agente sarà sottoposto a una misura di sicurezza: precisamente, al ricovero in
un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale
n.° 253/2003, alla libertà vigilata. In caso di vizio parziale di mente, l’agente è invece sottoposto
ad una pena diminuita “in misura non eccedente un terzo”; ove il soggetto sia ritenuto socialmente
pericoloso, è inoltre ricoverato in una casa di cura e di custodia e il ricovero verrà di regola
eseguito dopo che sia stata scontata la pena.
L’art. 96 c.p. dispone che “non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha
commesso il fatto, non aveva, per causa della sua libertà della sua infermità, la capacità di
intendere o di volere. Se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non
esclusa, la pena è diminuita”. Considerando il sordomutismo come un ostacolo che può frapporsi
allo sviluppo della psiche, il legislatore fa obbligo al giudice di giudice di accertare caso per caso
se il sordomuto sia capace di intendere e di volere nel momento della commissione del fatto.
Il sordomuto prosciolto per difetto di imputabilità o condannato a pena diminuita in quanto
la sua capacità di intendere e di volere era grandemente scemata potrà essere sottoposto alle misure
di sicurezza rispettivamente del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, dell’assegnazione
a una casa di cura e di custodia o della libertà vigilata.
Il codice penale individua tre fasce di età rilevanti ai fini dell’imputabilità: a) al di sopra dei
diciotto anni; b) al di sotto dei quattordici; c) tra i quattordici e i diciotto.
a) Il compimento del diciottesimo anno di età al momento del fatto segna il limite oltre il
quale il soggetto si considera imputabile;
b) Chi al momento della commissione del fatto non aveva ancora compiuto i quattordici
anni è considerato sempre non imputabile;
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c) La terza fascia d’età ricomprende chi al momento del fatto “aveva compiuto i
quattordici anni, ma non ancora i diciotto”: in questo caso la legge subordina la
dichiarazione di imputabilità all’accertamento caso per caso della capacità di intendere e
di volere del minore al momento del fatto.
Nei confronti del minore di età compresa tra quattordici e diciotto anni, l’accertamento
della capacità di intendere e di volere va compiuta in concreto, cioè in relazione alle caratteristiche
cognitive e volitive di quel singolo agente al momento della commissione fatto, tenendo conto del
tipo di reato che ha commesso: è possibile infatti che il singolo minore abbia raggiunto un grado di
maturità che gli consente di comprendere il disvalore di alcuni tipi di reato, e non invece quello di
altri.
Il minore di anni quattordici non è imputabile e quindi non è assoggettabile a pena, ma
ove abbia commesso un fatto previsto dalla legge come delitto e sia riconosciuto socialmente
pericoloso deve essere sottoposto ad una misura di sicurezza: la libertà vigilata o, limitatamente
ad una gamma di reati di particolare gravità, il riformatorio giudiziario.
Se invece si tratta di un minore di età compresa tra quattordici e diciotto anni che sia
riconosciuto imputabile, gli sarà inflitta la pena per il reato da lui commesso, diminuita nella
misura massima di un terzo.
Ai rapporti tra azione di sostanze alcoliche o stupefacenti e imputabilità il codice penale
dedica una disciplina assai articolata, distinguendo tra ubriachezza accidentale, ubriachezza
volontaria o colposa, ubriachezza preordinata, ubriachezza abituale e, infine, cronica intossicazione
da alcool. Nel complesso tale disciplina fa prelevare finalità di ‘difesa sociale’ sulle istanze del
principio di colpevolezza. Dà infatti rilievo al fine di escludere l’imputabilità solo all’ubriachezza
accidentale e all’accidentale assunzione da alcool o da stupefacenti, nonché alla cronica
intossicazione da alcool o da stupefacenti; per contro, in aperta contraddizione con il principio
enunciato nell’art. 85 c.p., considera imputabile chi si sia ubriacato volontariamente o colposamente
nonché l’ubriaco abituale e colui che sia dedito all’uso di sostanze stupefacenti; per questi ultimi
prevede, anzi una pena aumentata.
La prima ipotesi contemplata dal codice penale è quella dell’ubriachezza derivata da caso
fortuito o da forza maggiore: derivata cioè o da un accadimento imprevedibile o da una forza
esterna invincibile, esercitata da un altro uomo o dalla natura. In ogni caso, il soggetto non è
imputabile soltanto se, al momento della commissione del fatto, l’ubriachezza accidentale è piena
Università Telematica Pegaso La colpevolezza (seconda parte)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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e cioè tale da escludere la capacità di intendere o di volere: se invece l’ubriachezza non è piena, ma
è “tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere”, il
soggetto è imputabile, ma soggiace ad una pena diminuita.
La seconda ipotesi è quella dell’ubriachezza volontaria o colposa. Si parla di ubriachezza
volontaria per alludere all’assunzione di alcol sorretta dall’intenzione di ubriacarsi, mentre
l’ubriachezza è colposa quando il soggetto assume alcool in misura superiore alla sua capacità di
‘reggerlo’, imprudentemente ignorando o sottovalutando gli effetti inebrianti che l’alcool produrrà
su di lui. L’una e l’altra forma di ubriachezza “non esclude né diminuisce l’imputabilità”.
A differenza delle altre forme di ubriachezza, l’ubriachezza abituale è oggetto di una
definizione legislativa: a norma dell’art. 94 co. 2 c.p., “è considerato ubriaco abituale chi è dedito
all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza”. “Dedito all’uso di bevande
alcoliche” è chi di tale bevande fa un uso non occasionale, ma sistematico; e l’effetto di tale
abitudine deve essere un frequente stato di ubriachezza. Chi commetta un fatto di reato in stato di
ubriachezza abituale non solo è considerato imputabile, ma è anzi sottoposto ad un aggravamento
di pena nella misura massima di un terzo. Lo stesso trattamento sanzionatorio è previsto per chi
commetta un reato sotto l’azione di sostanze stupefacenti e sia dedito all’uso di tali sostanze (art.
94 co. 3 c.p.).
Situazione diversa dall’ubriachezza abituale e dall’abituale assunzione di sostanze
stupefacenti è la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. La cronica
intossicazione si caratterizza come un’alterazione patologica permanente, che incide sul sistema
nervoso, per lo più nella forma di un’affezione cerebrale, alla quale conseguono psicopatie che
permangono indipendentemente dall’ulteriore assunzione di alcool o di stupefacenti: ed è proprio
questo carattere di patologia irreversibile, con basi organiche, che differenzia la cronica
intossicazione dall’ubriachezza abituale e dall’assunzione abituale di sostanze stupefacenti.
Trattandosi di un vero e proprio stato patologico, coerentemente la cronica intossicazione è
equiparata dalla legge al vizio di mente(totale o parziale).
Gli artt. 87 e 92 co. 2 c.p. disciplinano, infine, le ipotesi di incapacità di intendere e di
volere preordinata dall’agente, vale a dire le ipotesi in cui il soggetto si mette in stato di incapacità
“al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa”. L’art. 87 c.p. detta una regola di
portata generale, mentre l’art. 92 co. 2 c.p. fa riferimento allo specifico caso in cui l’incapacità
preordinata derivi dall’assunzione di alcol e di sostanze stupefacenti: si può peraltro ipotizzare
che quest’ultima norma abbracci la stragrande maggioranza dei casi di incapacità preordinata,
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mentre la prima sembra riferibile a pochi casi come quello di chi si auto ipnotizzi, o si faccia
ipnotizzare da latri, o assuma farmaci non stupefacenti che sappia idonei a far venir meno le sue
capacità intellettive o volitive. In tutti questi casi, in deroga al principio enunciato dall’art. 85 c.p., il
soggetto è considerato imputabile: è quindi assoggettato a pena, che addirittura aumentata –nella
misura massima un terzo - nei casi di ubriachezza o di assunzione di stupefacenti preordinata.
Il panorama delle deroghe alla rilevanza della capacità di intendere e volere al momento
della commissione del fatto si completa con la disciplina dettata dal codice penale in tema di stati
emotivi o passionali: stabilisce infatti l’art. 90 c.p. che “gli stati emotivi o passionali non
escludono né diminuiscono l’imputabilità”. La giurisprudenza e la dottrina hanno però apposto un
limite in via interpretativa, alla normale irrilevanza degli stati emotivi o passionali: gli stati emotivi
o passionali incideranno sull’imputabilità, escludendola o diminuendola, quando siano la
manifestazione esterna di un vero e proprio squilibrio mentale, anche transitorio che abbia carattere
patologico in forma tale da integrare un vizio totale o parziale di mente.