percorsi nella memoria 2011 - comune di casatenovo · della cartolina precetto si separò a...

17
PERCORSI nella MEMORIA 2011 LA VICENDA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI DOPO L’8 SETTEMBRE 1943 L’ESPERIENZA DI MIO NONNO CARLO ( 1924-vivente)

Upload: nguyentram

Post on 21-Feb-2019

219 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

PERCORSI nella MEMORIA 2011

LA VICENDA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI DOPO L’8 SETTEMBRE 1943

L’ESPERIENZA DI MIO NONNO CARLO ( 1924-vivente)

1

2

Premessa L’esperienza della guerra è quasi un filo rosso che collega i diversi momenti della storia umana. La psicoanalisi insegna che l’uomo ha in sé una pulsione istintiva verso l’odio e la distruzione, che il progresso civile ha cercato di imbrigliare e di reprimere a vantaggio della componente razionale dell’individuo. Nonostante ciò, in diverse fasi dell’evoluzione, l’aggressività umana è esplosa, scatenando gli istinti malvagi che si pensava di aver debellato con l’educazione e la civiltà. Le due guerre mondiali che sono state più sanguinose e rovinose rispetto alle precedenti per l’elevato perfezionamento degli strumenti di offesa e di difesa hanno mostrato livelli di odio e di rancore fra le nazioni tali da abbattere tutti i freni dell’umana moralità e i vincoli di comunanza fra i popoli civili. I beni nei quali l’individuo ha creduto sono apparsi nella loro fragilità e precarietà: il rispetto per la dignità umana, i vincoli della solidarietà civile, la tolleranza per il diverso, la fiducia nella giustizia e l’adesione a norme morali comuni. Esemplare per la violenza con cui ha depredato il mondo delle sue “bellezze” è il sistema repressivo instaurato dal regime nazista. Durante il biennio che va dal settembre del 1943 alla primavera del 1945 circa 716.00 soldati italiani subirono la tragica esperienza della deportazione nei lager del Terzo Reicht. Si tratta dei cosiddetti IMI, Internati Militari Italiani. Di loro la storiografia ha cominciato ad occuparsi in tempi recenti, mettendo in luce il valore della scelta che la stragrande maggioranza dei soldati italiani compì dopo l’8 settembre 1943: il rifiuto a collaborare con il Terzo Reicht di Hitler e con la Repubblica sociale italiana di Mussolini. Un ruolo importante nella Resistenza, durante la Seconda Guerra Mondiale, é stato svolto dagli IMI con la loro” resistenza silenziosa”, che si può definire passiva, solo in quanto non esercitata con l’ausilio delle armi. Il no detto alle lusinghe del nazismo e del fascismo repubblichino è costato caro a molti di loro, che, abbandonati dalle istituzioni, hanno dovuto sopportare le sofferenze del duro regime di internamento dei lager nazisti. La vicenda degli internati militari, conosciuta attraverso le testimonianze dei protagonisti, è, secondo me, di grande insegnamento per noi giovani. Essa dimostra che anche quando si è “vittime” della storia, meri esecutori di scelte assunte ad alto livello decisionale, ogni persona è protagonista della “sua” storia, entra nei fatti con la sua dignità di persona, con l’universo dei suoi affetti, con la forza della sua volontà, con il patrimonio delle sue capacità, con il suo sistema di valori, che la violenza e la forza non possono piegare, sottraendosi agli impulsi istintivi di rispondere alla violenza con altra violenza. I Tedeschi chiamavano gli IMI “soldati di Giuda” o “soldati di Badoglio”; venivano scherniti, disprezzati come traditori e fatti oggetto di ritorsioni dalla popolazione civile tedesca. Dentro di loro,però, quei prigionieri, gli “schiavi di Hitler,” erano animati e sostenuti dall’orgoglio di aver compiuto una scelta di libertà e di dignità, di cui, io credo, il nostro Paese ancora oggi debba andare fiero. Credo, inoltre, che occorra mantenere vivo presso le nuove generazioni il ricordo del sacrificio degli IMI. Una parte di coloro che sono tornati dai campi di concentramento, come mio nonno, è ancora viva e può con la forza delle parole trasmettere l’amore per la democrazia, per la libertà e per la pace ai giovani. Tra qualche anno questa risorsa verrà a mancare. Rimane a noi giovani il compito di conservare la memoria di quegli eventi.

3

GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI DOPO L’8 SETTEMBRE 1943

Mio nonno Carlo Uno degli IMI era mio nonno paterno, Carlo, nato a Missaglia il 4 novembre 1924, vivente, residente a Casatenovo, che il giorno dell’Armistizio fra l’Italia e gli eserciti alleati, diciannovenne, si trovava in una caserma di Gorizia da poco arruolato nelle file del XXIII Reggimento Fanteria Divisione Isonzo. Come la maggior parte dei suoi coetanei, mio nonno all’arrivo della cartolina precetto si separò a malincuore dalla famiglia, per la quale era una fonte di sostentamento vitale e partì rassegnato per intraprendere il periodo di addestramento, in vista del suo probabile impiego sul fronte di guerra. Giunse alla caserma di destinazione il 23 agosto del 1943. Il distacco dalla propria terra per una persona che fino ad allora aveva vissuto a contatto solo con il tradizionale mondo contadino brianzolo provocò un insieme di sentimenti, insicurezza, timore, attaccamento alla fede religiosa, nostalgia, che emergono dalle parole scritte ai familiari “ …sebbene mi trovo con dei compaesani non posso dimenticare i miei cari e il mio bel paese trovandomi tanto più in un posto tutto diverso del nostro paese. Per ora nulla di nuovo. A Voi mi raccomando nelle vostre preghiere perché la Madonna abbia a salvarmi da tutti i pericoli di questo brutto mondo…” (doc.n.1) In quel momento, credo non potesse neppure immaginare il livello di abiezione e di crudeltà con cui sarebbe entrato in contatto, di lì a pochi giorni. Il 13 settembre, infatti, dopo cinque giorni dall’annuncio

dell’Armistizio, nonno Carlo venne fatto prigioniero dai Tedeschi e spedito a Torner in Germania, nello Stalag XXA con il numero di matricola 46055. ( doc. n.2) Da lì iniziò una sorta di pellegrinaggio da un lager all’altro, con trasferimenti all’interno della Germania, della Prussia e della Polonia, finché il 28 gennaio 1945 venne liberato dai russi. Rientrò in patria nell’autunno del 1945. Durante la prigionia, mio nonno tenne un diario.

“ Provvidenzialmente “, in un campo di lavoro, rinvenne un‘agendina (doc.n.3) e annotò sulle poche pagine bianche disponibili, utilizzando un mozzicone di matita, il racconto delle fasi principali della sua vicenda. Il termine “racconto” è di per sé improprio, perché mio nonno non disponeva degli strumenti culturali per narrare in modo compiuto ciò che gli accadeva e di cui era testimone. Le sue parole sono semplici e spesso ortograficamente scorrette, piene di anacoluti e di espressioni dialettali. Nella trascrizione ho cercato di mantenere la grafia originale del testo. Del resto, esercitava il lavoro di panettiere, nel tempo libero aiutava a coltivare la terra di famiglia e

4

disponeva di un’istruzione elementare . Tuttavia, la forza con cui nonno Carlo ha “inciso” le sue parole e la loro essenzialità testimoniano la volontà di non dimenticare un’esperienza straordinaria che ha sconvolto la sua visione del mondo fino a quel momento circoscritta alla semplicità e alla ritualità del mondo contadino, esprimono l’esigenza di completezza, documentano l’urgenza di non trascurare i fatti principali di cui è stato al contempo vittima e protagonista e la preoccupazione di sfruttare al meglio lo spazio cartaceo disponibile. Egli scrive sul primo foglio del suddetto libretto “ La mia vita Militare/ Il giorno 23 Agosto mi sono presentato al distretto e mi / an destinato al 23 Fanteria a Gorizia / il giorno 24 dopo mezzogiorno sono rivato in caserma il 24 mi an vestito / il 27 prima puntura e due giorni di riposo/ e dopo istruzione / il 13 Settembre dopo mezzogiorno sono venuti in caserma tre Tedeschi e mi an fatto tutti prigionieri. (doc.n.4) In una pagina, in forma lapidaria e con scarna oggettività, è riassunto il suo vissuto di soldato. Nelle successive sedici pagine del libretto è condensata la cronaca dell’esperienza di prigionia. In realtà, i quindici brevi giorni di vita militare hanno determinato l’interminabile periodo vissuto nei lager nazisti , fino al 28 gennaio 1945, quando “…alle ore 10 / sono arrivati i liberatori / i camerati Russi…” Durante il lasso di tempo intercorso tra l’armistizio e la fine del conflitto, mio nonno, purtroppo, ebbe modo di “ conoscere” diversi campi di prigionia tra la Prussia, la Germania e la Polonia . Torner, dal 18 settembre al 20 ottobre 1943 Inuslavo zucher fabrich dal 21 ottobre all’8 dicembre 1943 Torner dal 9 dicembre al 13 dicembre 1943 Rachel dal 14 dicembre al 18 gennaio 1944, Strasburgo,dal 19 gennaio al 17 marzo 1944 Sciusermuber dal 18 marzo fino al 27 marzo 1944 Forte, dal 28 marzo al 30 marzo 1944 Landolf,dal 2 aprile al 4 maggio 944 Sventochloviz ( Schientochlowitz), dal 5 maggio 1944 al 28 gennaio 1945 Cracovia, dal 29 gennaio al 26 febbraio 1945 Festingrube dal 27 febbraio al 18 marzo 1945 Cracovia dal 18 marzo al 15 aprile 1945 Stainau, dal 16 aprile al 14 maggio 1945 Bricch dal 15 maggio al 30 maggio 1945 ( per quanto riguarda la grafia dei nomi dei lager ho rispettato la scrittura originale).

5

IL CONTESTO STORICO L’ingresso in guerra dell’ Italia e il suo ruolo nel conflitto L’Italia entrò ufficialmente in guerra a partire dal 10 giugno 1940. Il giorno stesso della dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania (3 settembre 1939) il nostro Paese si dichiarò neutrale, consapevole di non essere pronto a sostenere dal punto di vista militare e economico un nuovo conflitto dopo le guerre in Etiopia e in Spagna. Nel corso dei mesi la situazione cambiò rapidamente. Hitler già nella primavera del ’40 aveva conquistato Polonia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda e Lussemburgo e si preparava ad attaccare Parigi. Per l’Italia la guerra sembrava essere ormai destinata a concludersi rapidamente con la vittoria dei Tedeschi e per non restarne esclusi, in nome dell’alleanza italo-tedesca del ’39 (Patto d’Acciaio), iniziò a combattere. Dopo un primo attacco vittorioso alla Francia, l’Italia accumulò una serie di insuccessi in Africa, nei Balcani e in Grecia dove dovettero intervenire le truppe tedesche. A partire dal ’42 la guerra subì una svolta. La Germania ebbe una prima battuta d’arresto contro l’URSS, mentre per l’Italia si stava preparando uno sbarco in Sicilia da parte degli alleati. Il 10 luglio 1943 la truppe americane sbarcarono sull’isola, il 25 luglio, dopo una riunione del Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini fu destituito e arrestato e si formò un governo presieduto dal generale Badoglio. L’8 settembre quest’ultimo firmò l’armistizio con gli anglo-americani gettando l’Italia nel caos più completo: i Tedeschi, avendo previsto il “tradimento”, occuparono la parte centro- settentrionale del paese, mentre il governo fuggiva a Brindisi abbandonando le truppe a se stesse, con ordini vaghi e contradditori, senza che potessero opporre ai Tedeschi una resistenza organizzata

6

LA DEPORTAZIONE DEI MILITARI ITALIANI L’esercito italiano alla firma dell’armistizio L’8 Settembre 1943 il Generale Badoglio, capo del governo, annunciò alla nazione la firma dell’armistizio, avvenuta 5 giorni prima a Cassibile in provincia di Siracusa. Ormai per gli italiani era divenuto impossibile continuare a combattere una guerra impari contro avversari più forti e meglio equipaggiati. Si voleva risparmiare al Paese ulteriori perdite e danni. Badoglio annunciò che ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane doveva cessare. A queste parole, molti italiani si illusero che la guerra fosse finita, in realtà quel provvedimento gettò l’Italia nel caos e provocò la reazione immediata della Germania. Mentre il Re e il Governo lasciavano Roma per rifugiarsi a Brindisi, i Tedeschi scatenarono la controffensiva e penetrarono nell’Italia Settentrionale senza incontrare resistenza. I soldati spiazzati di fronte ai nuovi eventi, interrogavano gli ufficiali per capire contro chi dovessero effettivamente combattere, ma le informazioni iniziarono a circolare in maniera contraddittoria generando confusione. I militari italiani che si trovavano nelle diverse aree di guerra (Balcani, Francia, isole del Mediterraneo) furono accerchiati e catturati dai Tedeschi. Circa 1 milione e 7 mila uomini furono disarmati. Tra di loro una piccola parte accettò di restare al servizio dei Tedeschi o di passare alle milizie fasciste, un’altra riuscì a sottrarsi fortunosamente alla prigionia, la parte più numerosa invece conobbe la tragica esperienza della deportazione. La parte restante dell’esercito regio, circa 2 milioni e 700 mila uomini, ritornò a casa, si unì ai partigiani o trovandosi nell’Italia meridionale rimase per il momento ancora sotto le armi. Circa 716.000 militari italiani furono deportati e internati nel lager del Terzo Reicht. Una volta giunti a destinazione, i militari italiani venivano posti di fronte a una scelta: mettersi al servizio dei nazisti o dei fascisti per sperare di ritornare in patria o rimanere nei campi a sopportare una vita di stenti e di duro lavoro. Coloro che dissero “sì” al fascismo, i cosiddetti “optandi” furono una minoranza, poco più del 14%. Le adesioni maggiori furono raccolte tra gli ufficiali (40% circa, contro il 13% dei soldati). Inizialmente i Tedeschi facevano leva sul preesistente patto di amicizia, sul cameratismo nato fra soldati italiani e germanici, poi, visti gli scarsi risultati ottenuti, inviarono personalità italiane della carriera militare e politica per convincere ad arruolarsi nella nuova Repubblica di Salò. A chi rifiutava la proposta rimanevano le tragiche prospettive “offerte” dai campi di internamento nazisti. Fra le motivazioni che hanno spinto la maggioranza degli IMI a rifiutare la divisa fascista ci sono diverse ragioni: il 30% ha detto “no” per ragioni militari (stanchezza di combattere, avversione all’idea di combattere propri connazionali), il 26% per questioni etiche (dignità, fedeltà al giuramento, solidarietà di gruppo), il 24% per motivi ideologici (anti-nazifascismo, cattolicesimo, liberalismo, marxismo), il 20% per valutazioni diverse. Tra esse c’era la convinzione assai diffusa che il conflitto volgesse al termine, con l’inevitabile sconfitta dell’Asse: una previsione corretta per quanto concerne l’epilogo, ma errata per quanto riguarda i tempi, assai più lunghi di quanto ci si aspettasse. Si credeva insomma che valesse la pena “resistere” e sopportare il peso della prigionia in vista di una vicina liberazione. Gli uomini di truppa furono avviati al lavoro coatto, mentre gli ufficiali ( non obbligati a lavorare fino al ’44) furono rinchiusi nei campi di detenzione. Il trasferimento dei militari italiani nei lager Subito dopo la cattura seguì la deportazione. L’obiettivo di Hitler era di eliminare dal fronte gli italiani ormai nemici e recuperare braccia giovani e forti a costo zero. Avendo milioni di uomini disseminati su vari fronti, in Germania la

7

manodopera scarseggiava. La cattura dei soldati italiani fornì “nuovi schiavi “ da impiegare nelle fabbriche . L’efficiente apparato burocratico-militare nazista organizzò il trasporto dei militari italiani nei campi di concentramento mediante treni, su carri, coperti o scoperti, destinati al trasporto di animali. Il trasferimento avveniva in condizioni disumane. Scrive nonno Carlo “Sono partito il giorno 14 martedì alle ore 4 dopo mezzogiorno/ sono arrivato al campo di concentramento il sabato di notte alle ore 2 giorno 18 Settembre 1943. Il viaggio fu di 4 giorni / mi an dato due volte lorzo macinato da mangiare / aveva un sapore che non si poteva mangiarlo tanto che era cattivo e una volta il pane che era più crudo che cotto e una volta tre cucciai d’acqua nera detto da loro caffè”. (doc. n.5)

Ancora oggi è ben impresso nella sua mente il ricordo dei viaggi compiuti in vagoni merci pieni fino all’inverosimile, che non venivano aperti per giorni, dove mancavano cibo e acqua e la possibilità di soddisfare i bisogni corporali. I trasferimenti avvenivano su una rete ferroviaria in grave difficoltà, per i bombardamenti, i sabotaggi, la mancanza di materiale rotabile. Un trasferimento durava anche una settimana con lunghe soste sui binari morti. Lo status degli internati Appena arrivati nel lager di destinazione, spesso dopo averne attraversati altri di smistamento, i soldati italiani si resero conto di non godere dello status di prigionieri di guerra e quindi di non potersi avvalere delle protezioni previste dalla Convenzione di Ginevra (27 luglio 1929) , che non avevano diritto all’assistenza della Croce Rossa e che in sostanza erano abbandonati a se stessi. Hitler, il 20 settembre 1943, con un provvedimento specifico, aveva stabilito che essi dovevano essere identificati come IMI, internati militari. Il 20 luglio del 1944 Hitler e Mussolini strinsero un accordo in base al quale i militari deportati venivano trasformati in “lavoratori civili”, anzi “liberi lavoratori civili”, costringendo con questo escamotage linguistico anche gli ufficiali a “rendersi disponibili” per i lavori nei campi agricoli e nelle fabbriche a sostegno dello sforzo bellico tedesco.

A partire da quel momento gli internati militari iniziarono a ricevere una“retribuzione”, i lagermark : in realtà soldi fittizi, pezzi di carta privi di valore all’esterno del campo: un’ulteriore beffa perpetrata dai nazisti. Mio nonno che ha conservati i suoi (doc. n.6), accantonati quasi fossero risparmi, ancora oggi, osservandoli, stenta a credere di essere stato fino a quel punto raggirato nella sua buona fede. Ufficialmente il compito di occuparsi di loro spettava all’ambasciata di Mussolini a Berlino, presso la quale fu allestito nel febbraio del 1944 il Sai, “ Servizio

8

assistenza internati militari italiani e civili”, che in realtà fu inefficace e impotente. Basti pensare che solo dal maggio 1944 i prigionieri italiani, a differenza di quelli di altre nazionalità, iniziarono a ricevere dalle istituzioni e a dagli enti assistenziali qualche pacco contenente viveri di conforto e altro. Il governo Badoglio si disinteressò degli IMI. Nonno Carlo, per fortuna, non cessò di scrivere e di ricevere notizie dalla sua famiglia durante l’intero periodo della prigionia. Certamente gli scritti dovevano rispettare dei requisiti e l’impostazione ottimistica e positiva anche nei momenti più duri tradiscono una scarsa libertà di espressione e i vincoli della censura. L’esordio di ogni cartolina è “Carissimi Genitori vengo da voi con questa mia cartolina per farvi sapere che la mia salute è ottima come pure spero anche di voi”(doc. n.7) Per chi non riceveva nulla da casa (cibo, vestiti e notizie) il senso di abbandono diventava insopportabile.

LA VITA NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO L’organizzazione dei campi Gli italiani, secondo le stime, vennero distribuiti o smistati in 249 lager principali: 192 in Germania, 15 in Polonia, 15 in Russia, 14 in Francia, 11 in Iugoslavia e 2 in Grecia I militari furono divisi in campi diversi: i soldati vennero rinchiusi negli Stammlager/Stalag, alle cui dipendenze vi erano spesso gli Arbeitskommandos,(gruppi di lavoro) distaccamenti di minori dimensioni ubicati nelle vicinanze delle fabbriche o dei luoghi di lavoro in cui venivano impiegati. Gli internati in quei casi restano isolati dagli altri, sorvegliati notte e giorno, sfruttati all’estremo delle loro forze e nonostante questo disprezzati perché considerati pigri, indolenti e furbi. Per i Tedeschi gli italiani sono “traditori”, “badogliani”, “vigliacchi” e inetti. Gli ufficiali furono invece internati negli Oflager. Il sistema logistico era poi completato dai Dulag ( i campi di transito o di smistamento), dagli Straflager ( i campi di punizione) . C’erano, inoltre, i Lazarett , i campi ospedale, dove venivano ricoverati i militari gravemente ammalati, senza peraltro che venisse prestata loro un’adeguata assistenza sanitaria, non solo per carenze funzionali, ma anche in esecuzione di specifiche direttive. Mio nonno ancora oggi ripete che la sua più grande fortuna è stata quella di non essersi ammalato durante la prigionia e ricorda di aver accompagnato personalmente nel Lazarett del campo alcuni suoi compagni di cui poi ha saputo che erano stati lasciati morire, perché non più utili al sistema produttivo tedesco. All’ingresso nel campo, l’impatto emotivo più forte era determinato dal contesto umano, o meglio disumano, in cui i prigionieri venivano violentemente immersi. E’ significativo il fatto che nelle

9

sintetiche ma efficaci annotazioni tracciate dal nonno sull’aspetto degli aguzzini abbondino i riferimenti al mondo animale:” Qua siamo in mezzo alla sabbia non si vede nulla che 4 Tedeschi / tutti zoppi e storti che mi assomigliano al pacerisotto e nel parlare mi sembrano cani barbini e cattivi”. Le condizioni di vita Al loro arrivo nel campo i militari italiani subivano le spoliazioni. I Tedeschi dicevano che era streng verboten (severamente proibito) tenere oggetti come radio, bussole, binocoli pertanto li sequestravano. In una prima fase essi usavano modi quasi cortesi, rilasciando delle ricevute che sarebbero servite, a loro dire, per riavere gli oggetti alla fine della guerra. In tutti i successivi trasferimenti, con maggior brutalità, i militari venivano spogliati di ciò che erano riusciti a salvare nella prima fase. Al suo ritorno al campo di Torner, il 9 Dicembre, nonno Carlo annota ”…subito bagno e disinfettazione e rivista al corredo/ bisogna pensare che ci spogliavano pure per vedere se qualcuno portava due paia di mutande o qualche maglietta in più/ ci lasciavano solo una camicia e un paio di mutande e la divisa / e altro facevano raus”. Nel campo di Sciusermuber,dove giunge il 18 marzo del 1944, nonno Carlo racconta che il suo guardiano “ .. tutti i giorni ci fa la rivista e se ci trova qualcosa in tasca sono bastonate con un nervo che era un piacere per la guardia..” La severità del sistema detentivo è attestata anche dalla scelta deliberata di abbruttire i prigionieri, di degradare e umiliare la loro dignità, mediante la sporcizia, che infestava baracche, vestiario, corpo e la scarsità di cibo. Le regole internazionali prescrivevano che ai prigionieri di guerra fosse riservato un trattamento alimentare pari a quello che la nazione detentrice offre ai propri soldati a riposo. Con lo stratagemma di non considerare i militari italiani prigionieri, i nazifascisti elusero questa regola. Il dosaggio del cibo era estremamente parco e le razioni teoriche venivano decurtate in partenza , spesso per trarne dei quantitativi con i quali si alimentava il mercato nero. Il nonno a tale riguardo scrive “ Abbiamo mangiato alla sera alle ore 5 ½ un po di sboba / che per condimento forse ci mettevano sabbia o in isbaglio per risparmiare / un po di rape o forse che / andava nella marmita sola. Mangiata quella mi / an dato quel poco pane e malgerina che per dividerla non si sapeva dove incominciare tanta che era molta, figuratevi che fame fino a quell’ora quel giorno…” e aggiungeva come nota consolatoria e rassicurante “… ma bisogna portare pazienza che tutto finirà’”. Quello dell’alimentazione fu il problema principale per la sopravvivenza nei campi. I prigionieri erano denutriti, perdevano peso in maniera allarmante e molti morivano per fame. La situazione era particolarmente tragica per gli internati utilizzati come lavoratori coatti nelle fabbriche. Luigi Cajani nel saggio Gli internati militari italiani nell’economia di guerra nazista scrive “ Una dipendenza della Mannesmannrohren-Werke di Duisburg, a cui nell’ottobre del 1943 furono assegnati 349 IMI, riferiva che il medico aziendale aveva riscontrato negli internati militari italiani inviati all’azienda grossi rigonfiamenti (edemi da fame) sulle gambe . Un altro impianto siderurgico della Rurh, la Gutehoffnungshutte di Oberhausen ricevette nello stesso periodo 1277 IMI in uno stato di totale debilitazione e denutrizione al punto da non poter essere impiegati al lavoro. Lo storico Gerhard Schreiber, autore di “ I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich”, cita al riguardo il caso delle acciaierie Alfred Krupp di Rheinahausen, dove “ a causa della precarietà del vitto non adatto a un lavoro fisico particolarmente gravoso, nel giro di poche settimane il 25% dei prigionieri italiani divenne inutilizzabile. La direzione aziendale comunicò l’insorgere di perdite di peso fino a 22 chili, spesso la comparsa di malattie di ogni tipo, comprese turbe mentali”. I Tedeschi per risolvere il problema della scarsa produttività degli italiani escogitarono il Leistungsernahrung, che, tradotto, significa alimentazione proporzionata alla produttività. I lavoratori stranieri venivano divisi in tre scaglioni: il primo costituito da coloro che avevano un

10

rendimento pari o superiore all’80% di quello di un operaio tedesco di pari qualifica; il secondo costituito da coloro il cui rendimento oscillava tra l’80% e il 60%; il terzo costituito da coloro il cui rendimento era inferiore al 60%. Questi ultimi subivano una decurtazione della razione standard e ciò che veniva tolto a loro veniva assegnato, come premio, a quelli del primo scaglione. Oltre alla riduzione del vitto erano previste punizioni come lavoro supplementare e l’assegnazione di incarichi particolarmente degradanti. Il provvedimento, come si intuisce, non ebbe efficacia. Le stesse aziende, invano, segnalarono che la suddetta normativa peggiorava il numero degli ammalati fra gli IMI già malnutriti. Nel campo di Inuslavo, dove il nonno venne impiegato in una fabbrica di zucchero, ora a caricare le barbabietole sui vagoni merci, ora alle presse da cui esalava “ un potente calore che non si può nemmeno sospirare..”, il regime alimentare migliorò, forse grazie all’ “efficienza” produttiva. Scrive, infatti, il nonno “… mi anno dato il rancio fatto di rape e crauti e pure qualche patatina e una grossa fetta di pane che forse non arrivava al peso di 50 grami. Non potete inmaginarvi quella sera mi sembrava di essere un gran signore … il lavoro qua è di 12 ore al giorno continuo... ma non mi sembra bruto perché sono stato abbituato da giovane”. La mancanza di cibo era tale che i prigionieri si nutrivano di tutto ciò che era masticabile: bucce di patate, ghiande, radici, avanzi di cucina recuperati tra i rifiuti. Antonio Tronci, ex deportato e autore di “ … noi poveri diavoli dimenticati”, racconta di aver notato “ … alcuni disperati dare la caccia ai grossi topi che percorrevano all’aperto lunghi tragitti entrando e uscendo da cataste di tubi di plastica accumulati lungo il muro di cinta. Con un metodo ingegnoso, i miei compagni avevano sistemato dei sacchetti di carta catramata, quella usata per il cemento nella parte terminale dei tubi. Al termine del percorso, l’animale intrappolato veniva ucciso con un rapido colpo di mattone … una volta catturati, spellati e tagliata a pezzetti la carne grassa e rosata, i topi venivano lessati in acqua bollente e mangiati “. Mio nonno mi ha raccontato che un giorno per la fame mangiò dei corvi che aveva catturato nel campo, poiché ricordava che suo padre gli aveva spiegato che erano commestibili. Una notte, con un compagno di prigionia,avendo notato, durante il turno lavorativo, la presenza nei campi circostanti il reticolato di una coltivazione di patate, il nonno organizzò una fuga per “rubarne” alcune. La fame doveva essere tanta per sfidare il rischio di essere scoperti e fucilati . In effetti, l’impresa non andò a buon fine, perché, mentre rientravano di soppiatto nel campo con la “refurtiva”, i due si imbatterono in un sorvegliante. Avendo scorto il sacco di patate, con estremo sadismo, il tedesco lo afferrò e lo vuotò in una latrina del campo. La rabbia dei due malcapitati prevalse sulla paura di essere fucilati o comunque di essere severamente puniti con una forte dose di bastonate. E’ ancora vivo l’odio provato nei confronti di quel nazista che li aveva privati di un alimento tanto agognato: “ ..in quel momento lo avrei strozzato...”. Il nonno scrive sul suo diario “… si vede di quei giovanotti che non sono più capaci di camminare dalla grande debolezza e di notte con neve a terra sveglia e due o tre ore di piantone fuori per castigo…” prova per loro una gran pena pur essendo a sua volta ridotto in quelle condizioni. Anche il rito dell’appello, di per sé semplice, veniva gestito con estrema crudeltà ed era occasione per far spendere ai prigionieri le poche calorie accumulate, per sfiancare il loro morale e per farli ammalare. Si doveva stare all’aperto a lungo,perché i conti dei presenti venivano fatti e rifatti più volte, d’inverno con parecchi gradi sotto zero. In più, in quelle condizioni, i nazisti esigevano formalismi assurdi quali la posizione sull’ attenti, il viso scoperto e l’assenza di coperte sulle spalle. Il lavoro Come spiega lo storico Gerhard Schreiber l’8 settembre si trasformò in un eccellente affare per il Terzo Reicht”: un bottino di armi e soprattutto uomini da utilizzare nella macchina produttiva tedesca impiegata allo spasimo a sostegno dello sforzo bellico. Secondo una ricerca riferita al febbraio 1944 e riportata da Cajani nel suo saggio, gli IMI furono utilizzati in diversi settori produttivi con una netta prevalenza dell’industria pesante. Più

11

specificamente. Il 56% fu impiegato in imprese minerarie, metalmeccaniche e chimiche; il 12 % in edilizia; il 10,8% nei settori energia, trasporti e comunicazioni; il 10,6% in altri comparti industriali, compreso quello alimentare; mentre solo il 6% in attività agricole . In circostanze particolari, gli IMI vennero anche utilizzati per rimuovere le macerie delle città bombardate. A titolo di esempio, mio nonno venne utilizzato come operaio in uno zuccherificio, su una linea ferroviaria per sostituire le traversine dei binari, per scavare trincee, per i lavori di posa dei tubi di una rete idrica, per lavori di scarico e carico di merci, come muratore per costruire le baracche in un campo, infine, come panettiere. Il lavoro nella maggior parte dei casi era durissimo: turni di 12 ore con una sola mezz’ora di interruzione per cibarsi con una zuppa di rape. Le attività culturali Sembra paradossale parlare di attività culturali nei campi di concentramento nazisti. In realtà molte testimonianze autorevoli attestano la presenza fra gli internati di una vivace attività di scambio culturale. Occorre ricordare che fra gli internati, fra le fila degli ufficiali, c’erano accademici universitari, giovani intellettuali, professionisti, giornalisti e scrittori. All’interno del lager per alleviare le sofferenze venivano allestiti dei cenacoli culturali, dove si discuteva di letteratura, di scienza, di filosofia. Si realizzarono “giornali parlati”, chiamati così perché, non potendoli stampare, venivano letti a voce. Uno dei più famosi redattori fu Giovannino Guareschi, che, tra l’altro, ideava racconti, intrisi spesso di amara ironia, che circolavano tra i prigionieri. Grazie alle competenze tecniche e scientifiche di alcuni prigionieri, con l’assemblaggio di materiale di fortuna, nacquero nei campi le cosiddette radio clandestine, capaci di captare le notizie sulla guerra trasmesse da Radio Londra. I Tedeschi facevano perquisizione sistematiche per trovare gli apparecchi o materiale “pericoloso”, il più delle volte senza successo. Nelle pagine di “Diario clandestino”, Giovannino Guareschi, un illustre IMI, afferma “… Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà ….ognuno si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato… e ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo dove ognuno era stimato per quello che valeva e dove ognuno contava per uno.. Niente mutò nel lager: sempre la stessa sabbia, sempre le stesse baracche, sempre la stessa miseria. Ma c’era tutto quello di cui abbisogna un uomo civile per vivere con civiltà in un mondo civile. Tutto. Anche la canzonetta di moda che sentivate fischiettare e canticchiare dappertutto. C’era una canzonetta civile, perché, parole e musica, era la fedele espressione del sentimento di tutti. Un nobile sentimento.” Mio nonno, che, come ho detto, disponeva di una cultura elementare, ebbe modo anch’egli di esprimere in forma “artistica” i suoi sentimenti. Scrisse una sorta di poesia costituita da diciannove “strofe”, tanti quanti erano i suoi anni all’inizio della prigionia, e con la semplicità dei suoi versi, ignorando i vincoli

12

formali della lingua, tentò di mettere in rima la sua esperienza di prigioniero di guerra. Utilizzò un foglio, che staccò da un registro contabile abbandonato dai Tedeschi in un campo di prigionia all’arrivo degli Alleati. (doc. n.8) 1. In tradotta da Gorizia partii. Ma il 1. In treno sono partito da Gorizia

destino è stato segnato in una terra diretto verso un luogo dove per farmi sofrir. mio destino sarà quello di soffrire. 2. O viaggiato per quatro giorni con riserva 2. Ho viaggiato per quattro giorni con di poco mangiare e pur giunto in una misera scorta di cibo e, una volta terra lontana ove per schiavo mi giunto alla meta così lontana, ho voglion tratar. capito che sarò trattato da schiavo. 3. Nella Prussia dove mi anno portato 3. In Prussia, dove mi hanno condotto, in attesa di farmi sofrir la mi dicevano nell’incertezza dei prIMI momenti, che son internato mentre invece mi mi hanno detto che sono un internato fanno sofrir. in realtà mi vogliono punire. 4. Col linguaggio di questi signori ve 4. Non riesco a comunicare nella lingua

un problema di farsi capire ma lor dicono dei miei carcerieri, ho, però, capito che siamo traditori e per questo ci fan morir. che per loro siamo traditori e che per questo dovremo morire.

5. Dalla Prussia passati in Germania in un 5. Sono stato trasferito dalla Prussia in altro campo per esser smistato ed altri amici Germania in attesa di essere li abbiamo trovati che an seguito il destinato ad altri campi e lì ho destino crudele. conosciuto nuovi compagni

6. In quel campo noi siamo riuniti in 6. In quell’occasione hanno tentato di

attesa di nuova partenza an tentato con persuaderci ad arruolarci noi conferenza chi voleva combater con lor. nell’esercito nazista

7. Ma alla fine di una settimana nuovamente 7. Fallito il loro tentativo, ci hanno noi siamo partiti e a dombrava ci an fatto ripartire a Dombrava per

trasferito in quel campo si va a lavorar. sfruttarci come lavoratori in un nuovo campo

8. Ci an chiusi in scuri vagoni sigilati per 8. Ci hanno rinchiuso ermeticamente fino le porte quei disonesti che ci avevamo in vagoni merci e nessuno di scorta non ci venivano nessuno ad aprir. veniva ad aprirci le porte. 9. Noi si chiedeva venite ad aprire non dubitate 9 Abbiamo pregato i nostri

che vi è un inbrolio. Ci rispondevano chiamate sorveglianti di aprire il vagone, Badoglio che venga esso a farvi sortir. dando la nostra parola che non

saremmo fuggiti. Ma loro non si sono fidati e ci scher-

nivano dicendo di chiamare in aiuto Badoglio.

10. Appena giunti cominciano i tormenti e fiacchi 10. Giunti al campo sono iniziati i

13

I vestiti fame e lavoro-bastonate fino a tormenti: freddo, fame, punizioni loro se qualcun non potesse lavorar. per chi non poteva lavorare.

11. Il nostro rancio è composto di rape che si 11. Il nostro pasto è costituito da rape divorano con grand apetito anche il più grasso che tutti mangiano avidamente per

li è dimagrito che le ossa si poson contar. la fame: anche chi era di costituzione robusta è a tal punto

dimagrito che gli si possono contare le ossa.

12. Una festa che ceran le patate ladunata ci 12. Una domenica avevano cucinato faceron far in un ora ci dan da mangiare le patate; per farci soffrire, mentre i Signori ci stavan a guardar. i nostri carcerieri hanno prolungato la durata dell’aduna-, ta, intanto si divertivano a guardarci. 13. Tanti nostri fratelli vivono in questa terra 13. Come me, tanti altri uomini

E dura galeria senza un conforto ed una preghiera patiscono la sofferenza della Il suo tramonto è usato cosi. distanza dalla propria patria e dell’abbandono e così trascorrono l’ultima parte della loro esistenza.

14. La mattina la sveglia alle quatro per portarci 14. Al mattino ci svegliano alle al maledetto lavoro la fortuna di esser internato quattro per condurci al lavoro. mi vien detto da un di quei signor. Questo privilegio, come lo definivano i nazisti per deriderci, spetta solo a noi internati.

15. Questa vita durò per tre mesi si aspetava 15. Si trattò di un periodo duris- Soltanto la morte ma per fortuna che si simo, che, grazie a Dio, Canbio Solo Iddio dobbiamo ringraziar. durò solo tre mesi.

16. Per punizione fummo trasferiti laggiù in 16. Quando fummo trasferiti polonia in un altro lavoro per i civili in Polonia, la nostra eravam figli loro che il loro pane ci condizione migliorò grazie davan da mangiare. alla disponibilità della popolazione civile. 17. Questo popolo del gregge sublime ancolse 17. Il Signore ci è vicino nel no- il gregge su alcuni monti ma il pastore adesso stro peregrinare da un luogo cerca di limitare le pene di questo vidente di sofferenza all’altro. Traghetto di dolori.

14

18. In questo lager la vita è cambiata 18. Siamo finalmente giunti in un vi son le donne che dan da mangiare lager dove le condizioni sono e la cercan il meglio tratar ma fanno apparentemente più umane; che di nuovo farci sofrir. tutto questo, però, accresce la nostra pena. 19. Penso sempre ai miei compagni 19. Il mio pensiero è sempre alla mia cara Famiglia ve loro rivolto alla mia famiglia pensano a me e attendo il domani e non perdo mai la speranza che si Spera vicino si è. di rivedere un giorno i miei cari. LA LIBERAZIONE Le vicende storiche Fin dall’inizio del 1945 apparve chiaro che la Germania era ormai destinata a perdere la guerra. Il 12 gennaio 1945 l’Armata Rossa si schierò lungo un fronte di 11.000 km tra il Mar Baltico e i Carpazi per scatenare l’offensiva decisiva contro la Germania. Alla fine di gennaio l’Armata Rossa attraversò l’Oder e avanzò fino a trovarsi a soli 70 km da Berlino. Durante questa marcia i russi incontrarono decine di migliaia di uomini prigionieri nei lager o in marcia verso la Germania. Le forze sovietiche furono le prime a scoprire le tragiche realtà dei campi di concentramento: già nel 1944 raggiunsero il campo di Majdanek. I tedeschi avevano cercato di nascondere le prove dello sterminio dando fuoco al forno crematorio ma nella fretta le camere a gas erano rimaste intatte. Fin dal 1943 i tedeschi, temendo l’imminente arrivo dei russi, avevano provveduto a smantellare diversi campi dopo aver eliminato tutti i prigionieri. I sovietici liberarono Auschwitz nel gennaio del 1945. I nazisti, avendo costretto la maggior parte dei prigionieri a marciare verso ovest (le cosidette “marce della morte”) fecero trovare ai russi ancora vivi solo alcune migliaia di persone insieme alle prove degli assassinii di massa compiuti nel campo. Nel frattempo le forza anglo-americane liberarono i campi a ovest fra cui Dachau e Mathausen. I liberatori si trovarono ad affrontare condizioni indescrivibili nei campi: mucchi di cadaveri in attesa di essere seppelliti, prigionieri denutriti, sofferenti e malati e epidemie contagiose. Proprio per evitare possibili contagi molti campi furono bruciati. Mio nonno venne “liberato” dai russi che giunsero nel campo di Sventochloviz il 29 gennaio 1945. Una parte dei prigionieri seguì i tedeschi nella fuga, altri scapparono autonomamente, altri ancora, fra cui mio nonno, rimasero con i liberatori. In realtà essi non godevano di una piena libertà: erano sottoposti alla vigilanza e alle dipendenze dei sovietici. Rimase prigioniero dei russi per circa dieci mesi. Pur subendo un regime di detenzione più blando, i prigionieri come mio nonno continuarono ad essere sfruttati come manodopera. In particolare mio nonno venne utilizzato, proprio per la sua competenza, come panettiere per i soldati russi al fronte.

15

Il ritorno a casa dei prigionieri Gli IMI furono liberati in momenti differenti con la progressione dell’avanzata degli Alleati: avvenne già nel 1944 in Prussia e in Ucraina, tra gennaio e maggio del 1945 in Polonia e in Germania e prima ancora nei Balcani. Spesso gli stessi Tedeschi fuggivano abbandonando a se stessi i prigionieri: disattendevano in questo modo l’ordine di Himmler di ucciderli e di non lasciare tracce o testimoni dei crimini commessi. Nella fase intermedia tra la liberazione e il rientro in patria, gli IMI in gran parte subirono una nuova prigionia ad opera degli stessi alleati, che ancora li consideravano nemici. Mio nonno passò dal duro regime di reclusione tedesco a quello più blando e umano dei russi. Il trasferimento in patria avvenne per molti in modo rocambolesco e in tempi estremamente lunghi sia per le difficoltà logistiche di trasporto, sia per incapacità organizzative delle istituzioni, sia per il disinteresse da parte del governo italiano. Al loro rientro in condizioni fisiche pietose ( alcuni morirono per l’eccesso di alimentazione rispetto alle possibilità metaboliche di un organismo gravemente debilitato), alcuni IMI faticarono a reinserirsi nel contesto sociale. Le famiglie, la comunità locale di origine erano state disgregate e a volte annientate dalla guerra. Mio nonno racconta che al suo arrivo al paese di origine, nel novembre 1945, incontrò un compaesano, che, dopo essersi ripreso dallo stupore di rivederlo vivo, gli comunicò che la sorella amata, con cui aveva intessuto una fitta corrispondenza durante la prigionia, era ricoverata in ospedale. Dopo quindici giorni ella morì, così come il padre, a causa di un’epidemia di tifo. Quali tracce hanno lasciato i due anni di dura prigionia sugli uomini che l’hanno subita? A parte gli evidenti segni di malnutrizione accompagnati da patologie ormai diventate croniche e difficilmente reversibili con le terapie dell’epoca ( mio nonno ha perso la sua dentatura e non è più riuscito a tollerare un regime alimentare “normale”), le ferite più gravi sono state inferte nell’animo e nella psiche dei protagonisti. A tutto ciò si aggiunse l’amarezza nel constatare che le istituzioni e i partiti politici, che, all’indomani della Liberazione, celebrarono il ruolo decisivo della lotta armata partigiana e l’intervento degli americani, mostravano un pubblico disinteresse nei confronti di quella massa di reduci che portava involontariamente con sé il ricordo del regime. Gli IMI avevano combattuto loro malgrado la guerra per il fascismo, ritornavano spesso indossando le divise lacere del regio esercito, rappresentavano agli occhi dei più un’imbarazzante testimonianza dell’acquiscienza con cui gran parte della popolazione aveva aderito alla disastrosa avventura militare fascista. Nessuno attribuiva valore alla resistenza civile che dal ’43 al ’45 gli IMI avevano condotto all’interno dei campi di prigionia, sottraendosi alla tentazione di accettare le promesse di libertà offerte dai nazifascisti. In realtà, nei lager, luoghi in cui violentemente è stata coartata la libertà e disprezzata la dignità umana, quei soldati hanno ripreso in mano il proprio destino. Essi, pur di fronte al rischio di sacrificare la propria vita, hanno compiuto una scelta ispirata ai principi di lealtà, di giustizia, di solidarietà e di pace, su cui il popolo italiano ha fondato la sua identità nazionale attraverso la carta costituzionale. Per questo ritengo che la lezione di vita offerta dagli IMI vada ascoltata, recuperata e studiata, soprattutto da parte di noi giovani.

16

Bibliografia

A.A.V.V Alla scoperta della filosofia vol 3a Sansoni,Milano, 2004 F. Hellenberger La scoperta dell’inconscio Bollati Boringhieri, Torino, 1976 S.Freud A. Einstein Perché la guerra? Bollati Boringhieri , Torino, 2006

A.Lepre, C. Petraccone Storia d’ Italia dall’ Unità a oggi il Mulino, Bologna, 2008 A.Giardina, G. Sabbatucci, V.Vidotto Profili storici dal 1900 a oggi Editori Laterza, Bologna, 2009

M.Cereda Storie dai lager Edizioni Lavoro, Roma, 2004 G. Guareschi Favola di Natale Rizzoli, Milano, 1992 G. Guareschi Diario Clandestino Rizzoli, Milano, 1991 G. Guareschi Ritorno alla base Bur, Milano, 2002