personaggi illustri della nostra irpinia

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PERSONAGGI ILLUSTRI DELLA NOSTRA IRPINIA Francesco De Sanctis (MORRA DE SANCTIS) Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpinia nel 1817. Compì gli studi a Napoli e frequentò la scuola del purista Basilio Puoti. Nel 1839 aprì una sua scuola. Nel 1848 partecipò con i suoi allievi all'insurrezione antiborbonica; di conseguenza fu arrestato e trascorse in carcere 3 anni. Andò in esilio a Torino, dove visse sino al 1856; in seguito insegnò letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. Successivamente all'unificazione, rientrò in Italia e si dedicò, fino alla morte nel 1883, alla attività politica. Fu deputato della sinistra moderata e due volte Ministro della Pubblica Istruzione. Per alcuni anni tenne anche la cattedra di letteratura comparata presso l'Università di Napoli. La figura di Francesco De Sanctis risalta sia per il suo impegno politico, sia per il suo contributo nel panorama della letteratura italiana e della storiografia letteraria. Scrive infatti il primo testo organico ed articolato di storiografia letteraria italiana la "Storia della letteratura italiana" (1870-71). In quest'opera De Sanctis coglie e sottolinea i legami profondi tra la forma delle varie opere letterarie ed il conteso storico, culturale e sociale, da cui quelle opere sono nate. La "Storia della letteratura italiana" risulta, quindi,anche la storia della cultura e della società italiana. A Francesco De Sanctis è dedicato un parco letterario in Irpinia, in cui sono proposti percorsi culturali che intrecciano le sue opere con la visita dei luoghi delle sue origini. Alberico Crescitelli (ALTAVILLA IRPINA) Nato ad Altavilla Irpina (Avellino) nel 1863, entrò nell'Istituto a Roma nel 1880. Nel 1888 partì come missionario per lo Shensi meridionale (Cina) . Durante la persecuzione dei Boxers fu decapitato e tagliato a pezzi e Yentzepien dopo 12 anni di missione all'età di 37 anni. Fu beatificato da Pio XII il 18-2-1951 e fatto santo da Giovanni Paolo II il 1-10-2000. Tentato dai familiari a desistere dalla sua vocazione, "è vero - rispondeva - che la vita missionaria l'ho abbracciata liberamente. Ciò non significa che ora io sia libero di abbandonarla..." . "Mi aspetta un lavoro enorme : meglio così che soffrire di noia per disoccupazione. Sono nelle mani di Dio e quindi in buone mani! Se poi morissi, ebbene ci

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Page 1: Personaggi Illustri Della Nostra Irpinia

PERSONAGGI ILLUSTRI DELLA NOSTRA IRPINIA

Francesco De Sanctis (MORRA DE SANCTIS)

Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpinia nel 1817.Compì gli studi a Napoli e frequentò la scuola del purista Basilio Puoti. Nel 1839 aprì una sua scuola.Nel 1848 partecipò con i suoi allievi all'insurrezione antiborbonica; di conseguenza fu arrestato e trascorse in carcere 3 anni. Andò in esilio a Torino, dove visse sino al 1856; in seguito insegnò letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. Successivamente all'unificazione, rientrò in Italia e si dedicò, fino alla morte nel 1883, alla attività politica. Fu deputato della sinistra moderata e due volte Ministro della Pubblica Istruzione.Per alcuni anni tenne anche la cattedra di letteratura comparata presso l'Università di Napoli.La figura di Francesco De Sanctis risalta sia per il suo impegno politico, sia per il suo contributo nel panorama della letteratura italiana e della storiografia letteraria. Scrive infatti il primo testo organico ed articolato di storiografia letteraria italiana la "Storia della letteratura italiana" (1870-71).In quest'opera De Sanctis coglie e sottolinea i legami profondi tra la forma delle varie opere letterarie ed il conteso storico, culturale e sociale, da cui quelle opere sono nate.La "Storia della letteratura italiana" risulta, quindi,anche la storia della cultura e della società italiana.A Francesco De Sanctis è dedicato un parco letterario in Irpinia, in cui sono proposti percorsi culturali che intrecciano le sue opere con la visita dei luoghi delle sue origini.

Alberico Crescitelli (ALTAVILLA IRPINA)

Nato ad Altavilla Irpina (Avellino) nel 1863, entrò nell'Istituto a Roma nel 1880.Nel 1888 partì come missionario per lo Shensi meridionale (Cina) . Durante la persecuzione dei Boxers fu decapitato e tagliato a pezzi e Yentzepien dopo 12 anni di missione all'età di 37 anni. Fu beatificato da Pio XII il 18-2-1951 e fatto santo da Giovanni Paolo II il 1-10-2000. Tentato dai familiari a desistere dalla sua vocazione, "è vero - rispondeva - che la vita missionaria l'ho abbracciata liberamente. Ciò non significa che ora io sia libero di abbandonarla..." . "Mi aspetta un lavoro enorme : meglio così che soffrire di noia per disoccupazione. Sono nelle mani di Dio e quindi in buone mani! Se poi morissi, ebbene ci rivedremo in cielo!". "Qualunque cosa accada, il Signore non la permetterà che per il nostro maggior bene. Se Dio non vuole, non ci sarà torto un capello; se Lui lo permette, tanto meglio per noi!".

Giovanni Palatucci (MONTELLA)

La figura di Giovanni Palatucci, nato a Montella in provincia di Avellino, è quella di uno Schindler italiano. A Fiume, prima come responsabile dell'Ufficio Stranieri, poi come Questore, dal 1939 al 1944 riuscìa trarre in salvo migliaia di ebrei destinati ai campi di sterminio. Pur potendosi mettere in salvo, Palatucci continuò la sua missione fino al sacrificio della propria vita. Arrestato dai nazisti, morì nel febbraio del 1945 nel campo di concentramento di Dachau."Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare". E' quanto scriveva l'8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che quel "po' di bene", compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi difficili, significò la salvezza oltre cinquemila ebrei, secondo quanto riferito dal delegato italiano Rafael Danton alla prima Conferenza ebraica mondiale tenutasi a Londra nel 1945.

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Federico Villani (ALTAVILLA IRPINA)

Nacque il 5 gennaio del 1813 in Altavilla Irpina, da Stefano e Maria Giuseppa Orlando, e morì a Napoli il 4 di agosto del 1889. Fin da fanciullo visse in una famiglia di spirito rivoluzionario ed uno zio paterno risultava iscritto alla carboneria. Insegnò presso il collegio Pietro Colletta di Avellino dal 1839 al 1850, distinguendosi per aver cercato di organizzare l'insegnamento secondo i principi del progresso. Liberale convinto, rifiutò di firmare una petizione per l'abolizione dello statuto e preferì essere destituito dall'incarico d'insegnante e confinato a Napoli tra stenti e privazioni fino al 1860. Nemmeno l'Unità d'Italia servì alla sua reintegrazione che avvenne solo nel 1882 con la nomina di docente titolare presso il Liceo "Broggia" di Lucera. Apprezzate ancora oggi alcune sue opere letterarie e filosofiche ed in particolare: "L'incitazione", "Il liberatore" e "Saggi di ricerche sull'antichità".

Cosimo Caruso (ALTAVILLA IRPINA)

Il Generale Cosimo Caruso nasceva ad Altavilla il 13 Luglio 1863. Nel 1882 entrò all'Accademia Militare per l'artiglieria e Genio. Diventato Sottotenente, nel 1889 venne chiamato per partire per l'Africa, dove gli venne affidato un grande compito quello di comandare una nuova sezione con in dotazione le nuove mitragliatrici appena inventate e mai usate. Il giovane Sottotenente senza mai aver visto quelle armi le smontò, le rimontò, suscitando lo stupore dei suoi superiori. Rimase in Africa dal 1889 al 1897 dove partecipò a molte battaglie fino a quando non venne fatto prigioniero. Durante la prigionia Caruso scrisse una lettera che fece arrivare ai giornali Italiani protestando contro il contegno poco dignitoso e poco Italiano d'un personaggio secondario della nostra diplomazia, questo gli costò "tre mesi" di arresto da scontare nella fortezza di Castel Sant'Elmo non appena ritornò in patria. Però il suo coraggio dimostrato in guerra gli valse la Croce di Cavaliere della Corona D'Italia, una Medaglia d'Argento ed una di Bronzo al valor militare. Dopo aver scontato i tre mesi d'arresto l'8 luglio 1897 fu promosso Capitano e fu destinato all'artiglieria da fortezza di Gaeta dove continuò a studiare le questioni tecniche militari. Nel 1906 inventò il sistema "per dare simultanea graduazione all'alzo e alla spoletta dei Cannoni ". Il 6 Settembre 1912 si imbarcò per Tripoli partecipando all'occupazione di Ziaav ed altre città, combattendo per ben otto mesi con il grado di Maggiore. Ricadde malato e fu ricoverato presso l'ospedale di Tripoli, così il 28 Febbraio 1914 fu rimpatriato e gli fu affidato il comando del 36° artiglieria di Messina, e a distanza di un anno l'11Febbario 1915 venne promosso Tenente Colonnello, era scoppiato il conflitto mondiale ed ebbe onorevoli incarichi guadagnandosi ben presto la promozione a Colonnello e la Croce dell'Ordine Militare di Savoia con una bellissima motivazione, non che la Croce d'Argento al valore per lo sprezzo del pericolo, la Medaglia Mauriziana, e quella di Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona D'Italia, il 15 Giugno 1918 al comando del 56° raggruppamento stroncò la famosa offensiva del Generale RADETZKI, mentre l'11 Luglio 1918 al Comando della 34° divisione partecipò alla battaglia di Vittorio Veneto. Il 13 Luglio 1929 fece ritorno ad Altavilla,dove ricevette la nomina a "Generale di Divisione" e la sua messa a riposo. Morì il 6 Agosto del 1933. Il Generale Cosimo Caruso, pur non lasciando un' impronta personale nella storia dell' Esercito italiano, resta, per tutti i giovani che siedono nei banchi della scuola media di Altavilla che porta il suo nome, uno stupendo esempio di vita.

Sergio Leone (TORELLA DEI LOMBARDI)

Sergio Leone (Roma, 3 gennaio 1929 – Roma, 30 aprile 1989) è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano. È stato uno dei più importanti registi della storia del cinema, particolarmente noto per i suoi film del genere spaghetti-western.

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Leone è considerato uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante abbia diretto pochi film nella sua carriera: la sua regia innovativa, ricca di originalità e stile, ha fatto scuola ed ha contribuito alla rinascita del western negli anni sessanta, grazie a film come Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, C'era una volta il West e Giù la testa ai quali si affianca C'era una volta in America un gangster-movie, che vanno a formare la cosiddetta trilogia del tempo.

Giuseppe Moscati (SERINO)

Giuseppe Moscati nasce a Benevento il 25 luglio 1880. Medico, ricercatore e docente universitario, è morto a soli 46 anni (il 12 aprile 1927 a Napoli) è stato proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II nel 1987. Settimo di nove figli nasce in una famiglia dove il padre Francesco è magistrato e la madre Rosa De Luca è nobildonna, prveniente dalla famiglia dei Marchesi di Roseto. Nel 1884 il padre diventa Consigliere delle Corte d'Appello e trasferisce la famiglia a Napoli. Dopo che il fratello Alberto si infortuna seriamente per una caduta da cavallo durante il servizio militare, è Giuseppe ad assisterlo. Da questa esperienza famigliare iniziano a maturare i suoi interessi per la medicina. Finito infatti il liceo, si iscrisse alla Facoltà di Medicina nel 1897. A causa di una emorragia cerebrale nello stesso anno il padre muore. Giuseppe Moscati si laurea a pieni voti con una tesi sull'urogenesi epatica, il 4 agosto 1903. Dopo poco tenta il concorso per assistente ordinario e per coadiutore straordinario agli Ospedali Riuniti degli Incurabili: supera entrambe le prove. Rimarrà nel nosocomio per cinque anni. Una sua tipica giornata in questo periodo consisteva nell'alzarsi presto tutte le mattine per recarsi a visitare gratuitamente gli indigenti dei quartieri spagnoli di Napoli, prima di prendere servizio in ospedale per il lavoro quotidiano; la sua intensa giornata proseguiva poi nel pomeriggio visitando i malati nel suo studio privato in via Cisterna dell'Olio al numero 10. La grande dedizione per gli ammalati non sottrae comunque il tempo di Giuseppe per lo studio e la ricerca medica che persegue attuando un concreto equilibrio fra la scienza e la fede cattolica. E' il mese di aprile del 1906 quando il Vesuvio inizia ad eruttare ceneri e lapilli sulla città di Torre del Greco; un piccolo ospedaletto, succursale degli Incurabili è in pericolo e Moscati si reca di corsa sul posto per dare il suo aiuto alla messa in salvo degli ammalati, prima che la struttura crolli. Due anni dopo supera il concorso di assistente ordinario per la Cattedra di Chimica Fisiologica e inizia a svolgere attività di laboratorio e di ricerca scientifica nell'Istituto di Fisiologia. Accade che nel 1911 un'epidemia di colera funesti Napoli: Moscati viene chiamato a svolgere ricerche. Presenta una relazione all'Ispettorato della Sanità Pubblica sulle opere necessarie per il risanamento della città, opere che verranno portate a compimento solo in parte. Sempre nel 1911 riceve la libera docenza in Chimica Fisiologica su proposta del professor Antonio Cardarelli, il quale ha sempre nutrito grande stima per la preparazione del giovane medico. Socio della Reale Accademia Medico-chirurgica e direttore dell'Istituto di Anatomia Patologica Moscati è ben ricordato e stimato da tutti i giovani medici studenti che lo seguono durante le visite ai pazienti. E' il 1914 quando la madre muore per diabete; scoppia la Prima Guerra Mondiale e Mosacti presenta domanda di arruolamento volontario; la domanda viene respinta con la motivazione che il suo lavoro a Napoli risulta più importante; non manca di prestare soccorso e conforto spirituale ai soldati feriti di ritorno dal fronte. Per concentrarsi sul lavoro in ospedale e restare accanto agli infermi ai quali è molto legato, nel 1917 rinuncia all'insegnamento e alla cattedra universitaria lasciandola all'amico professore Gaetano Quagliariello. Terminata la guerra il consiglio d'amministrazione dell'ospedale Incurabili lo nomina primario (1919); nel 1922 consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, con dispensa dalla lezione o dalla prova pratica ad unanimità di voti della commissione.

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Sono numerose le sue ricerche che trovano pubblicazione su riviste sia italiane che internazionali; importanti sono le pionieristiche ricerche sulle reazioni chimiche del glicogeno. A soli 46 anni, dopo un improvviso malore, spira sulla poltrona di casa sua. E' il 12 aprile 1927. La notizia della sua morte si diffonde rapidamente, riassunta nelle parole della gente "è morto il medico santo". Sepolto dapprima nel Cimitero di Poggioreale il 16 novembre 1930 il corpo viene poi traslato presso la Chiesa del Gesù Nuovo, dove tutt'ora riposa. Giuseppe Moscati è stato proclamato Beato da papa Paolo VI il 16 novembre 1975, e Santo il 25 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II. La sua festa liturgica ricorre il 16 novembre.

Carlo Gesualdo (GESUALDO)

Il principe Carlo Gesualdo nacque l'8 marzo 1566 da Fabrizio II e Geronima Borromeo, sorella di S. Carlo. Studiò a Napoli e fu compositore di madrigali e musica sacra, oggi conosciuti in tutto il mondo. Fin da giovane dimostrò una passione enorme per la musica e all'età di 19 anni pubblicò il primo mottetto: "Perdona, Signore, i nostri peccati".Amava la caccia e fu amorevole verso i suoi sudditi. Nel 1586 sposò la cugina Maria D'Avalos, di stirpe reale spagnola; Carlo aveva venti anni e Maria ventisei; dal matrimonio nacque Emanuele.Troppo dedito alla caccia e alla sua musica il principe non capì che la bella moglie potesse sentirsi trascurata al punto da portarsi tra le braccia dell'avvenente duca Fabrizio Carafa. I due amanti, colti in flagrante nella camera da letto di Maria, vennero uccisi. Carlo doveva vendicare col sangue l'offesa fatta al suo casato.Per sfuggire alla vendetta dei Carafa, fuggì da Napoli e si rifugiò nel castello di Gesualdo, di origine longobarda e suo feudo. Qui visse per diciassette anni, ma non ebbe mai la serenità che ormai aveva perduto, perché un profondo senso di colpa attanagliava giorno e notte la sua coscienza.Dopo tre anni sposò Eleonora D'Este, dalla quale ebbe un figlio, Alfonsino, che morì in tenera età.Con Gesualdo il castello perse il rude aspetto di fortezza e divenne dimora di una fastosa corte canora, costituita dai musicisti più famosi dell'epoca come Scipione Stella, Pomponio Nenna, Filippo Carafa. Si circondò di uomini di cultura come Torquato Tasso che scrisse nella "Gerusalemme conquistata" versi bellissimi per la famiglia Gesualdo.Durante la permanenza al castello il principe, per cercare la pace dell'anima e il perdono di Dio, curò il paese di Gesualdo con zelo e amore; fece erigere chiese e conventi, ancora oggi fastosi nel loro richiamo storico.Tra le sue opere bisogna ricordare la Chiesa dei Cappuccini, dove nel 1909 soggiornò il nostro amato S. Pio da Pietrelcina, la chiesa del SS. Rosario, la chiesa degli Afflitti, la fontana dei putti, la cappella del SS. Sacramento e il "Quadro del perdono", fatto eseguire nel 1609 da Giovanni Balducci da Firenze e che, restaurato, trovasi oggi nella Chiesa di S. Maria delle Grazie, gestita dai Padri Cappuccini. Nella tela si osserva l'immagine del principe che, sostenuto dallo zio Carlo Borromeo, chiede perdono per il duplice assassinio a Cristo giudicante con l'intercessione della Vergine, di S. Michele, di S. Francesco, di S. Domenico, di S. Caterina e della Maddalena. Di fronte al principe vi è la moglie Eleonora D'Este in atto di preghiera. Al centro è raffigurato, con le ali di un angioletto, il piccolo Alfonsino, morto nel 1600.Nel castello il principe potè dedicarsi completamente alla musica; scrisse madrigali e mottetti, molti dei quali furono stampati nella tipografia installata nel castello dal tipografo Gian Giacomo Carlino.

La vita per Carlo Gesualdo fu certamente molto dura. Fu colpito da sofferenze fisiche e psichiche e da perdite molto dolorose, come la morte dei due figli Alfonsino ed Emanuele.Non resse agli eventi e, dopo 17 anni di tormento e di dolore, si lasciò morire nel 1613. Il suo corpo riposa a Napoli nella Chiesa del Gesù Nuovo.La sua opera musicale più nota è composta da sei libri di Madrigali, due di Sacrae Cantionis ed una di Responsori. Autore anche di alcune musiche strumentali, tuttavia è nella polifonia che Carlo

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seppe esprimere con personale veemenza il suo genio.

Giovanni Battista Doni, erudito e teorico musicale del Seicento, nel 1635 fu il primo a definirlo "un genio della musica". Il regista tedesco Lindermann, alcuni anni fa, realizzò su Carlo un documentario televisivo co-prodotto dalla RAI di grande suggestione.Sulla figura ed opera del principe dei musici si cimentò, due anni fa, un altro regista tedesco Werner Herzog, che nella sua "Morte a cinque voci", ebbe come protagonista Milva nelle vesti di Maria d'Avalos.Oggi Carlo Gesualdo è considerato come uno dei più inquietanti personaggi della storia della musica. A lui si sono ispirati anche Wagner e Stravinsky.

Alfonso Gesualdo (Calitri)

Figlio di Luigi Gesualdo, Signore di Calitri, nacque a Calitri il 20 ottobre 1540. Egli visse a Calitri

fino all'età di 21 anni.

Il 23 febbraio 1561 fu nominato, da Papa Pio IV, Cardinale Diacono dell'arcidiocesi di Conza. Qui

svolse la sua opera per ben 10 anni e durante questo periodo l'arcidiocesi conzana divenne una delle

più fiorenti del regno. Durante il governo decennale dell'arcidiocesi di Conza egli continuò a

dimorare a Calitri.

Nel 1572, dopo aver rinunciato all'arcivescovato di Conza, fu chiamato a Roma da Pio V che lo

trasferì all'ordine dei Cardinali Preti e il 9 marzo lo nominò Vescovo subvicario di Albano. Il 1°

dicembre 1587, in seguito a una missione diplomatica saggiamente compiuta nelle Marche, fu

trasferito al vescovado di Frascati ed in seguito a quello di Porto e di S. Rufina.

Fu nominato, da Clemente VIII, Decano del S. Collegio dei Cardinali. Fu anche Prefetto della

Congregazione dei Riti e protettore delle chiese dei regni di Napoli e Sicilia, e del Portogallo. Il 25

febbraio 1596 fu inviato, sempre da Clemente VIII, quale arcivescovo a Napoli, dove trascorse il

resto della sua vita. Intervenne all'elezione di sette papi, e fu egli stesso papabile; ma gli impedirono

la sua ascesa al trono pontificio, forse, il suo zelo filospagnolo e le tristi vicende familiari di suo

nipote Carlo.

Raccolse e pubblicò in un volume le sue Lettere Pastorali. Morì a Napoli il 14 febbraio 1603 e fu

sepolto nel Duomo, nella navata sinistra, in un artistico monumento. In Alfonso Gesualdo i

contemporanei ammirarono la sua liberalità e il suo mecenatismo ( volle l'edificazione della

sontuosa chiesa di S. Andrea della Valle a Roma, protesse e sostenne poeti ed artisti), la esemplarità

dei costumi e le sue doti organizzative.

Padre Gerardo Cioffari nel libro "Calitri uomini e terre nel cinquecento" afferma che "nessun

calitrano né prima né dopo di lui ha mai raggiunto la potenza a cui pervenne tra il 1585 ed il 1600

Alfonso Gesualdo".

Il De Lollis dice di lui"... fu infatti Signore per la sua prudenza gentilezza e sapere non mai

abbastanza celebrato ed amato universalmente da sommi Pontefici e carissimo ai Re ed altri

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principi e così intrepido et amator del giusto e dell'onesto…."

Antonio Vaccaro nel suo libro su Carlo Gesualdo dice che fu "amico dei poveri e mecenate di

grande liberalità, trattò con munificenza anche il poeta Torquato Tasso".

Il poeta Torquato Tasso nella sua famosa opera "Gerusalemme Conquistata", canto XX, stanza 133

gli dedicò i seguenti versi:

Co' figli di valor, di gloria adorni

frà quali or fonda Alfonso in salda pietra;

e fia ch'Italia al primo onor ritorni,

s'ella mai grazia di adorarlo impetra.

E Carlo, a cui par che Venosa adorni

armi e corone, e la famosa cetra.

Qui l'insegna del cielo e 'l gran cognome

avran dda genti sparse, ancise e dome.

Vito Alfonso Margotta (Calitri)

Nacque a Calitri il 1/06/1856 da Giuseppe e da Cleonice Teresa Chiaia. Compì, con grande profitto, corso

degli studi classici ad Avellino. Laureatosi in Matematica all'Università di Napoli nel 1878, fu Assistente alla

Cattedra di Astronomia; "mente pronta e ognor ferace" di profonde indagini, conseguì, nel 1880, anche la

laurea in Ingegneria Civile, che segnò l'inizio di una lunga serie di successi e di ascesa. Messo in luce il suo

ingegno nel concorso bandito nel 1882 per il R. Corpo del Genio Civile, fu classificato tra i primi. Seguendo

I'innata inclinazione, si dedicò con ardente passione – che è poi la sua grande vocazione – allo studio

particolare dei problemi ferroviari, a progettare e a costruire nuove ferrovie; ed in questo vasto ed arduo

campo di studi, egli getta, animoso, la base del suo splendido avvenire.

Fu dapprima assegnato, il 23/07/1888, al Circolo ferroviario di Foggia; di poi oggetto di profonda stima da

parte dei superiori, fu trasferito il 16/07/1904 nel ruolo del R. Ispettorato Generale delle Strade Ferrate.

Tecnico di grande valore e di profondo pensiero, iniziò la sistemazione del porto di Genova costruendo il

parco ferroviario dei Giovi; indi preparò uno studio < di massima > per la rete ferroviaria della Basilicata;

infine fu capo di una Missione di tecnici, che si recò nella Somalia Italiana per studiare, sul pasto, un

progetto di una rete ferroviaria in quella vasta colonia.

Ma dove rifulse, in piena luce, il grande artiere della tecnica ferroviaria fu quando, durante la Prima Guerra

Mondiale (1915-18), organizzò e condusse a termine un vasto piano di costruzioni ferroviarie per scopi

militari e strategici. A titolo d'onore, va ricordata, soprattutto, la ferrovia Montebelluna- Susegana

('Treviso), che il Margotta, superando le numerose ed aspre difficoltà della natura e le contingenze del

momento storico che la nazione attraversava, condusse a compimento in breve tempo.

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Questa ferrovia fu inaugurata, improvvisamente, la none del 15/05/1916, nell'imperversare della grande

offensiva austriaca sull'altopiano di Asiago – la cosi detta strafe expedition o spedizione punitiva, che si

proponeva di porre 'Italia fuori combattimento,- dando cosi un decisivo e valido contributo alla difesa del

fronte alpino, violentemente minacciato. Il che potrebbe, di per se stesso, rendere ad un uomo la massima

soddisfazione.

E l'importanza storica di quella ferrovia fu riconosciuta dal Governo, quando, il 22/05/1919, il Margotta

venne insignito del Distintivo dl speciali benemerenze per il personale delle Ferrovie esposto ai rischidi

guerra in zona d'operazione. Per le prove date d'indiscussa competenza e per la rettitudine adamantina di

vita, il Margotta raggiunse, in breve tempo, il più elevato grado della gerarchia, Capo del servizio delle

costruzioni ferroviarie.

Tra le opere di eccezionale importanza, che furono compiute sotto la sua alta direzione tecnica, vanno

ricordate le due famose < < direttissime >>, la Firenze-Roma ela Roma-Napoli; di quest'ultima ebbe anche

l'ambito onore d'inaugurare, il 16/07/1922, - alla presenza del Re – il tronco Roma-Formia, con un dotto

discorso. Fu membro dcl Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, nel quale diede prova, anche in momenti

politici assai ardui e in questioni non facili districarsi, di rara competenza.

Del Consiglio Superiore fu anche Direttore, ed in tale veste, in occasione del Nono Congresso Ferroviario

Internazionale - che ebbe luogo a Roma – egli tenne,il 23/04/1921, -per incarico dcl Governo,- una

interessante conferenza su << Le costruzioni ferroviarie in Italia, dalla costituzione del Regno fino ad oggi

>>. E quando, il 10/04/1923, per raggiunti limiti d'età, fu messo in stato di quiescenza, per la sua

competenza e per i meriti veramente eccezionali fu chiamato, per Decreto Reale dell'ottobre 1923, a far

parte – come esperto estraneo- del Consiglio Superiore dei LL.PP. e vi rimase fino a tarda eta, poco prima

che fosse colto dalla morte.

Circondato dalle generali simpatie e dalla costante fiducia delle autorità politiche, nel 1923 fu nominato

membro della Commissione Reale per l'Amministrazione provinciale di Avellino, della quale il 29/08/1929

divenne Preside. Con la suaintelligente attività e preparazione tecnica, diede all'Irpinia un indirizzo di vita

nuova.; a suo titolo d'onore, si ricorda il progetto d'un Consorzio intercomunale per l'approvvigionamento

idrico di quelle popolazioni con le sorgenti del Calore, ed i ripetuti tentativi, da lui compiuti, per riallacciare,

con una ferrovia diretta, Napoli con Avellino.

A vantaggio della nostra provincia, il Margotta si prodigò con opera solerte ed affettuosa, e lo dimostrano le

parole con cui si chiude la Relazione, che egli stesso compilò, nel 1933, alla fine della sua gestione: << Oltre

all'aver curato, da probi amministratori della cosa pubblica, di ottenere una saggia e rigida

amministrazione, senza far pesare in alcun modo sul bilancio ['opera nostra, abbiamo anche posto al

servizio del nostro paese le nostre personali influenze ed il nostro prestigio allo scopo di avviare problemi di

grande interesse locale senza alcun onere per l'Amministrazione, a cui abbiamo avuto l'onore di essere

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preposti>>.

Anche la nobiltà dei sentimenti in lui, che ebbe il culto della famiglia, fu intimamente connessa all'energia

intellettuale ed alle opere compiute, che vennero intrecciando il vago serto di sua benemerenza e

grandezza. Si uni' in matrimonio con Costanza Irace, si presume il 1891,nata ad Avellino il 1869, deceduta a

Roma il 1937, e della loro unione nacque Giuseppe, Cleonice e Francesco."Giuseppe medico oculista",

Primario oculistica degli Ospedali riuniti di Venezia. Libero docente di clinica oculistica dell'Università di

Padova. Mori a Roma il 3 agosto 1953 (Vito Alfonso Margotta).

Angelo Maria Maffucci ( Calitri)

Nato a Calitri il 17 ottobre 1847, seguì gli studi di medicina a Napoli, dove si laureò nel 1872.

Nel 1873, come sanitario comunale, a Napoli ebbe occasione di farsi largo nell'opinione pubblica

prendendo parte alla campagna contro il colera che gli fruttò la medaglia di benemerenza di 1° grado e gli

aprì le porte dell'Istituto di Anatomia Patologica, diretto dal prof. Schron.

Man mano divenne noto in Italia e fuori, specialmente per le sue ricerche sulla pustola maligna, sulla sifilide

ereditaria, sulla patologia epatica e sull'assorbimento del peritoneo. Nel 1884 passo all'Università di Pisa

dove iniziò gli studi che gli hanno dato maggiore fama.

A partire dal 1889, impressionato dall'alto numero di vite umane che mieteva la tubercolosi, si dedicò con

tutto le sue forze allo studio dei bacilli tubercolari dandone un fondamentale contributo.

Nel X° Congresso Medico Internazionale di Berlino (1890) l'unico nome di sperimentatore, che non fosse

tedesco, pronunciato da R. Koch, fu quello di Maffucci, grazie alla prima comunicazione ch'egli fece sulla

scoperta della tubercolina.

Per quanto assorbito dalle ricerche sulla tubercolosi, il Maffucci non trascurò altri studi e nel 1898 pubblicò

una ricerca sulla "Patologia della cauda equina e del cono terminale" che gli valse le congratulazioni dei più

grandi scienziati, tra i quali il Koch.

I risultati delle sue ricerche errano attesi da tutto il mondo scientifico, e le sue pubblicazioni erano tradotte

in varie lingue estere. Al Maffucci si deve il merito della dottrina sull'eredoimmunità della tubercolosi (i

discendenti di tubercolotici presentano una resistenza maggiore al contagio).

Morì a Pisa il 24 novembre 1903, lasciando a favore dell'Università una grossa somma da utilizzare per una

borsa biennale di studi di perfezionamento in Anatomia Patologica. Dei suoi studi restano ben 61

pubblicazioni in lingua italiana ed estera.

Il 12 ottobre 1922, in memoria del Maffucci, fu posta sulla facciata principale del municipio un'artistica

targa marmorea sormontata dalla sua effigie in bronzo.

Disse di lui il prof. Tito Carbone "la nostra mente s'inchina dinanzi a tale documento dell'impegno e

dell'attività di A.M. Maffucci riverente e quasi incredula che una simile congerie di fatti, esperimenti delicati

e faticosi di deduzioni logiche rigorose possa essere opera di un solo lavoratore".

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Evangelista di Milia (Calitri)

Nato Calitri il 6 gennaio 1842, Michele Antonio, fin da piccolo dimostrò grande attitudine agli studi che

iniziò nel 1852 a Napoli presso i Gesuiti.

A sedici anni entrò come novizio nell'Ordine dei Cappuccini, in Salerno, sotto il nome di Evangelista. Compì

gli studi prima a Bologna e poi a Venezia dove, il 16 luglio 1864, celebrò la prima Messa.

A seguito della legge di soppressione del 1867 P. Evangelista si recò in Francia dove predicò nelle principali

chiese riportando ovunque grandi trionfi oratori. Nel 1870 a causa degli eventi che seguirono la sconfitta

dei francesi a Sedan, P. Evangelista fu costretto a fuggire in Inghilterra, dove, dopo aver imparato la lingua,

iniziò di nuovo a predicare nelle maggiori chiese inglesi.

P. Evangelista era molto ben visto tanto che fu scelto come compagno e consigliere di un ambasciatore

cattolico per recarsi a Pietroburgo, in Russia. Dopo circa un anno ritornò in Inghilterra dove continuò il suo

lavoro apostolico per 12 anni.

Nel 1884 fu richiamato a Roma e nominato Superiore della Basilica di San Lorenzo in Campo Verano; l'anno

dopo venne eletto Provinciale di Salerno. Tante furono le opere compiute da P. Evangelista che il 22

dicembre 1888 venne consacrato Vescovo di Cassano al Jonio.

Qui restaurò a proprie spese la Cattedrale, riaprì il seminario, istituì opere di cristiana pietà, per cui il Papa

lo promosse, il 29 novembre 1898, Vescovo di Lecce, dandogli il titolo nobiliare di Conte Romano.

Durante il breve periodo di governo di questa diocesi, Mons. Evangelista si distinse per gli atti di carità e

giustizia, che nel corso della sua vita hanno caratterizzato la sua opera apostolica.

Morì prematuramente a Calitri il 17 settembre 1901.

Nicola Nisco ( Montefusco)

(S. Agnese, frazione di S. Giorgio del Sannio il 29 settembre 1816 - 25 agosto 1901). Dal

padre Giacomo ereditò "carattere fiero e indipendente" e dotato di vivace intelligenza,

frequentati in Napoli i corsi universitari di giurisprudenza (1838), mostrò predilezione

per gli studi storici ed economici. Alcune sue giovanili Osservazioni sopra il presente

stato della gente beneventana (Napoli, 1839) con le quali deplorò le misere condizioni

in cui versava quel possesso pontificio privo di industrie e di commercio, vennero

particolarmente segnalate dal Delegato Apostolico Gioacchino Pecci, il futuro papa

Leone XIII, al segretario di Stato cardinal Lambruschini il quale le ritenne di ispirazione

del ministro di Polizia Del Carretto che trattava per ordine del suo re Ferdinando II

Borbone, la cessione di Benevento al Regno di Napoli. E' certo che il Nisco il quale "si

esercitava in qualità di apprendista presso il Ministero degli Affari Esteri napoletano" ed

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era guardia di onore del Re, non dimostrò allora palese avversione al regime borbonico

e sulle sue mutate opinioni dovette influire l'amicizia che lo legò al Tofano, a Pasquale

Stanislao Mancini e sopra tutto a Carlo Poerio che fu poi suo compagno di catena. Con

l'esaltazione al pontificato di Pio IX e con l'ondata di entusiasmo che suscitarono le sue

prime riforme, il Nisco si fece promotore di manifestazioni liberali (novembre e

dicembre 1847) e arditamente esortò Ferdinando II a concedere la Costituzione.

Scampò, pertanto, più volte all'arresto, anche per intercessione della sua energica e

affettuosa consorte, Adele de Stedingk di nobile famiglia bavarese. Concessa la

Costituzione (29 gennaio 1848), il Nisco collaborò al coraggioso periodico "Il Nazionale"

fondato da Silvio Spaventa e si fece sostenitore della partecipazione napoletana alla

prima guerra d'Indipendenza. Gli avvenimenti del 15 maggio 1848 non lo disanimarono

e tentò un'estrema difesa della conculcata libertà progettando una spedizione armata

su Napoli. Venuto meno il tentativo, con sicuro ardimento pubblicava sul giornale

"l'Unione" la sua professione di fede: sovranità del popolo e indipendenza italiana. Due

giorni dopo, il 13 novembre, era arrestato e rinchiuso nelle prigioni napoletane della

Vicaria. La sconfitta di Novara poneva termine alla prima guerra d'Indipendenza e

disperdeva le speranze dei liberali, ma fin dal 12 marzo Ferdinando II aveva sciolto il

Parlamento, iniziando l'ultima sua dura reazione. Dopo 18 mesi di prigionia, il Nisco

comparve dinanzi alla Gran Corte Criminale di Napoli (l° giugno 1850) fra i rei del famoso

processo dell'Unità italiana. La causa che non mancò di suscitare anche l'attenzione di

paesi stranieri, ebbe dopo otto mesi (31 gennaio 1851) il suo epilogo. La sentenza letta

agli imputati il giorno seguente, condannava il Nisco a tret'anni di ferri. Appaiato con la

pesante catena a quattro maglie a un condannato, Gaetano Errichiello, fu inviato nelle

carceri di Nisida, in quelle di Ischia e infine nelle orribili segrete di Montefusco, sogetto

con i suoi compagni a continue sofferenze fisiche e morali. Il 28 maggio 1855, dopo il

clamore sucitato in Europa dalle "Lettere a Lord Aberdeen" pubblicate dall'eminente

statista Gladstone sul trattamento usato ai detenuti politici, questi fra essi il Nisco,

furono in parte trasferiti nel castello di Montesarchio dove le loro sofferenze furono in

parte mitigate. La preoccupante situazione politica dopo gli accordi di Plombiéres,

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indussero Ferdinando II a una meditata concessione di grazia: l'invio in esilio, negli Stati

Uniti d'America, dei condannati politici. Il Nisco che aveva chiesto di essere inviato in

Baviera, nell'attesa del beneplacito di quel governo, rimase chiuso nelle carceri di

Avellino. Ma quel Governo non volle saperne di un esule cosi pericoloso e il Nisco fu

allora inviato a Malta (10 maggio 1859). Nel luglio seguente nella libera Firenze

incontrò molti esuli napoletani e fra essi il Poerio, Silvio Spaventa, il Settembrini, Enrico

Pessina, collaborò al periodico "La Nazione" diretto da Alessandro d'Ancona. Scrisse in

questo periodo, La moneta e il credito (Firenze, Le Monnier, 1859) e nominato dal

Ricasoli professore di Economia politica in quel Real Istituto di perfezionamento,

pubblicò la Prolusione al suo corso (Firenze, Le Monnier, 1859) e in seguito I Banchi di

deposito e di sconto nell'interesse delle classi laboriose (Firenze, Guarrera, 1860). Dopo

lo sbarco di Garibaldi a Marsala, il Cavour si avvalse della sua attività per affrettare la

fine della monarchia borbonica e venuto a Napoli, il Nisco strinse rapporti con

l'ambasciatore sardo marchese di Villamarina, con l'ammiraglio Persano e col ministro

borbonico Liborio Romano. Fu per suggerimento del Nisco che lo zio del Re, Leopoldo

conte di Siracusa scrisse la nota lettera a Francesco II Borbone invitandolo a rinunziare

al trono perché l'unità d'Italia potesse avere compimento. L'operosità politica del Nisco

in questo cruciale periodo fu quanto mai intensa e riuscì fra l'altro a far guadagnare alla

causa nazionale la flotta napoletana che rimase ancorata nel porto di Napoli quando

Francesco II il 6 settembre 1860 si imbarcò per salvare in Gaeta con un raggio di gloria

militare la sua caduta. Chiamato a dirigere il dicastero dell'Agricoltura, Industria e

Commercio, il Nisco fu poi deputato (7 aprile 1861) e collaborò col Cavour al progetto di

riforma del credito bancario nel Mezzogiorno d'Italia. Nel 1866 ebbe la direzione del

Banco di Napoli nella sede di Firenze, ufficio che non tenne a lungo per discordi vedute

con quella Direzione generale. A Roma, divenuta capitale d'Italia, continuò la sua attiva

opera parlamentare che contò quattro legislature (VIII-XI). Con la caduta del Ministero

Minghetti, e l'avvento del Trasformismo, egli si ritirò dalla vita politica per dedicarsi ai

suoi studi prediletti. Per volere di Umberto I, scrisse in sei volumi la Storia civile del

Regno d'Italia dal 1848 al 1870 (Napoli, Morano, 1885-1892). Tra il 1884 e il 1887 si

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dedicò a scrivere le vicende dei regni di Francesco I Borbone (Napoli, Morano, 1888), di

Ferdinando II (Id. Id. 1884) e di Francesco II (Id. id., 1887), vicende ristampate col titolo

Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860 (5 ed., Napoli, Lanciano e Veraldi, 1908).

Nel 1893 aveva ricordato Il generale Cialdini e i suoi tempi (Napoli, Morano, 1893) e

precedentemente e dopo, vari furono i suoi saggi di argomento economico e finanziario

Luigi Landolfi (Solofra)

Attraverso i genitori, la madre, Maddalena Pepe, imparentata con Vincenzo Galiani, protomartire della Rivoluzione napoletana del 1799, e il padre, Ferdinando, che aveva subito l’arresto dopo i fatti del 1798, sentì le istanze di quella rivoluzione che, rivitalizzate dal Decennio, si erano riversate nelle Vendite carbonare - ben quattro furono quelle solofrane - alimentandone i moti. La data di nascita è data dallo stesso Landolfi in Scritti vari, I, Napoli, Guerrera, 1886, p. VII. Le altre notizie biografiche sono attinte da G. Didonato, Uomini illustri di Solofra, Messina, 1923, p. 159 e da F. Celentano, Luigi Landolfi nella vita e nelle opere, Napoli, 1913. I due biografi a lui contemporanei, al di là dei difetti della storiografia dell’epoca, hanno notizie di prima mano per la frequentazione con i figli del Landolfi. V.  "Le Rane", Solofra, anni 1902-1920. A Napoli, dove seguì gli studi giuridici, portò quelle esigenze e le improntò di una coloritura moderata seguendo la strada di tutto lo schieramento liberale della borghesia meridionale. M Intraprese la carriera forense (1840) senza tralasciare gli studi classici e i vasti interessi culturali2. I sentimenti liberali e la convinta adesione alla causa nazionale lo portarono sulle barricate (1848) e tra i luogotenenti della Guardia Nazionale (settembre del 1860) insieme a Francesco Saverio Arabia3. Nel periodo post-unitario il Landolfi visse un’intensa vita professionale e culturale, dando un concreto contributo alle problematiche del tempo e alla promozione della coscienza nazionale e mettendosi a buon titolo tra quegli intellettuali nelle cui case si era in contatto con i patrioti fuoriusciti e si preparava l’Italia. Fu tra coloro che istituirono, subito dopo l’unità, il ramo napoletano dell’Associazione nazionale italiana di mutuo soccorso degli scienziati, letterati ed artisti che aveva lo scopo di creare quel collegamento tra il Meridione e le altre parti d’Italia necessario all’unità civile del paese e parteciparono all’attività del sodalizio4. Negli anni settanta si dedicò al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di cui fu componente fino alla morte e presidente per molti anni e dove tenne discorsi, relazioni, fece interventi, partecipò a dibattiti e per incarico del quale, insieme al Pessina, tenne il discorso di inaugurazione dei 13 busti di Giureconsulti del Foro napoletano in Castel Capuano5. La sua casa nel palazzo di Tarsia fu un vero cenacolo, frequentato dagli uomini di cultura della Napoli di fine secolo molti dei quali gli furono intimi amici6, fino alla sua morte (11 ottobre 1890)7.

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6. Tra questi il latinista Antonio Mirabelli, il pittore Domenico Morelli che aveva conosciuto sulle barricate, il letterato e filosofo Vito Fornari, gli avvocati Roberto Savarese e il già citato Francesco Maria Arabia, monsignor Nicola Spaccapietra e il fratello magistrato, i conterranei Pasquale Stanislao Mancini, Paolo Emilio e Renato Imbriani, Michele Solimene, Aurelio Lauria. Cfr. L. Landolfi, Scritti vari, cit., voll. I e II passim. Il Celentano a 23 anni dalla morte del Landolfi elenca i frequentatori del salotto napoletano che qui si riportano per un utile confronto avvisando di aver messo in corsivo quelli dei quali non si trova riscontro nella raccolta landolfiana: P. E. Imbriani,

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Vito Fornari, Antonio Ranieri, mons. Mirabelli, Spaccapietra, Ciampa, Morelli, Lauria, Palizzi. Pisanelli, Salazzaro, Miola, Russo, Santoro, D’Agostino, Alvino, Perricci, Pagano, Solari, Balzico, Lista, Angelini, Ierace, Negrini, Coletti, Altamura, Cammarano.

7. F. Celentano, op. cit., p. 14. Il Didonato nella sua biografia riporta una data di morte errata (op, cit., p. 169). Solofra gli dedicherà la strada ove sorgeva la sua abitazione e Napoli. Una raccolta di necrologi in suo onore fu pubblicata nel 1892 dal marito della figlia Maria, il conte Vito Garzilli, con contributi di N. Cianci, A. Greco, F. S. Correra, T. Testa, N. Pandolfelli, G. Buonanno, S. Fusco, F. Profumi, F. S. Arabia, A. Nunziante, M. Cerio, A. Torelli, L. A. Villari e Matilde Serao che sul "Corriere di Napoli" del 12 ottobre del 1890 gli dedicò un Moscone (Cfr. F. Celentano, op. cit., pp. 14- 17).

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L’opera che permette di seguire la biografia intellettuale del Landolfi è Scritti vari, da lui curata in età avanzata e definita "una recensione [...] di me stesso". Attraverso prose e poesie, essa delinea una figura di intellettuale - uomo di legge e di cultura - pervasa di una profonda sensibilità morale e religiosa che ne è il tratto più saliente.

Le rime, agili e melodici che manifestano il piacere del verso, un’esigenza dell’uomo colto, parlano di persone care, di eventi allegri o tristi o di semplici momenti della vita, fermano riflessioni e pensieri.

Le prose d’occasione sono veri documenti della fitta rete di relazioni amicali e professionali tra il salotto dell’intellettuale, lo studio dell’avvocato e le aule del Tribunale. Vari gli interventi su questioni culturali, politiche e sociali o su specifiche problematiche. Gli scritti più ampi sono veri e propri studi organici, che esprimono un sentito impegno socio-etico-politico; mentre gli interventi in varie querelle, di interesse non solo culturale, manifestano la sollecitudine per il travaglio dei primi decenni dell’Unità, e mostrano, per la frequente partecipazione a dispute legali, che il mondo dei giureconsulti fu il più coinvolto in quei tempi di generale rinnovamento.

Altri scritti sono le Allegazioni, pubblicate su periodici dell’epoca, Pier delle Vigne, una tragedia giovanile in endecasillabi sciolti e cinque atti; Dio e l’Uomo, meditazioni per "far conoscere [...] l’Uomo a se stesso" e preghiere per "avvicinarlo a Dio"; Taccuino per mia figlia Maria, massime che riassumono molta parte del suo pensiero etico-religioso; due traduzioni, Vita di Agricola (1882) e Germania (1884) di Tacito, che sono un tuffo dell’età matura nella classicità alla ricerca di una via di uscita alla situazione di stagnazione e di degrado in cui si trovava l’Italia.

 

Liberale moderato nella Napoli pre-unitaria.

Luigi Landolfi a Napoli frequentò una Università chiusa e sottoposta ad una rigorosa censura. Fu alla scuola di Basilio Puoti dove trasse il nutrimento per la sua formazione liberale che esercitò nei salotti dell’epoca e che guidò tutta la sua vita, in assonanza con la classe a cui apparteneva, la borghesia delle arti liberali, una minoranza colta, avida di conoscere, portata

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all’abile dialettica, che recalcitrava di fronte alla reazione e che si impegnava a limitare l’azione repressiva dell’assolutismo.

Gli fu sempre chiaro che "le carneficine del ’99 invece di seminar servitù, avevano seminato vendetta" sfociando nella rivoluzione del 1820; che "l’esilio, gli ergastoli, il patibolo, per la santa causa della Libertà, lungi dallo spegnere la prepotente idea vi aggiungevano il prestigio della corona dei martiri", si rendeva conto che "il nome di Libertà era diventato sacrosanto" e l’indipendenza nazionale "era diventata un voto irrefrenabile".

Nelle suoi scritti denunziò la chiusura politica di re Ferdinando, il suo tentativo di arresto dell’evoluzione civile e il suo “rimedio d’inferno”: “corrompere, corrompere, e più corrompere, "un’immensa corruzione" che invadeva "l’intera macchina sociale", "si moltiplicava in mille forme": si sedeva "nei pubblici ritrovi", saliva “le Cattedre delle Università”, contaminava "le toghe dei magistrati", penetrava "i santi recessi delle famigli", profanava "i Tribunali stessi di Penitenza nel Tempio santo di Dio".

Pur nell’atmosfera di tolleranza che si respirava dopo la svolta del 1830, il giovane Landolfi colse "l’intimo disinteresse" e il "tono beffardo" di re Ferdinando verso gli studi e i dotti, e il suo "odio alla libertà politica".

Fu in vigile e silenziosa opposizione agli atti del re seguendo nei salotti gli eventi italiani e le notizie trasmesse dagli esuli.

Il 29 gennaio del 1848 non accolse con entusiasmo il proclama costituzionale di Ferdinando e subito dubitò della fede del re alla Costituzione. Ed quando il 14 maggio il sovrano non volle accettare la formula del giuramento dei deputati dell’appena eletto parlamento riunito a Monteoliveto, il giorno dopo sulle barricate si ribellò al nuovo spergiuro borbonico.

Durante la reazione il giovane avvocato patì lo stato "delle anime oneste" quando "il serbarsi incolume diventava un merito segnalato" e soffrì la schiavitù in cui era costretta a vivere la giustizia. Non fu tra coloro che emigrarono, scelse invece "il lavorio più operoso" da compiere "nel seno stesso della città".

Nell’ombra contribuì a quell’azione sotterranea di educazione delle coscienze di cui parla il Croce e che si collegava a quella dei napoletani esuli e preparava i nuovi eventi.

Pubblicò, nel 1858 in piena reazione, di un libro apparentemente innocuo, Dio e l’Uomo, dove dietro l’edificazione spirituale si nascondeva la spinta ad uscire dallo stato di avvilimento in cui il regime di oppressione aveva gettato il napoletano - dalla "squallida vita intellettuale e morale" dirà ancora il Croce - .

Nell’opera si rivolgeva a tutti coloro che non avevano la forza di ribellarsi alla situazione di degrado che si viveva nella Napoli ferdinandea, a chi "ha poca coscienza" della proprio forza, a chi nell’avvilimento non sa più "aspirare", a chi vede calpestata la propria "dignità" e si arrende, a chi è persuaso "della propria miseria", per svegliare quelle coscienze.

L’opera pertanto fu si rivelò un tarlo nel sistema ferdinandeo.

Attingeva le sue ragioni - in un periodo in cui la Religione era alleata con la Corona - al Cristianesimo, scardinando i termini di quella alleanza, perché il suo era una visione cristiana

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della vita che non aveva niente a che fare con la "rozza religiosità, superstiziosa e pinzocchera" del re.

Questo Cristianesimo lo portava a chiamare fratelli "il Monarca e il suddito" a ricordare ad entrambi che "maggiore" è l’autorità "maggiori sono i doveri", che "l’autorità è più un obbligo che un diritto", che "il reggere" non è "per saziare la sete del comando ma per dirigere alla felicità chi obbedisce", che "l’obbedire" non è "per legge di servitù ma per necessità d’ordine", che "l’amor della patria" non è "per soggiogar l’aliena, ma per far fiorire la propria" e che è stolta "la violazione dei diritti umani" perché "la coscienza del diritto fa impaurir la forza, e dai recessi del petto manda una voce terribile cui nessuna potenza umana riesce a sottomettersi giammai".

Rivolgendosi a coloro che avevano le redini del comando indicava loro "il difficile incarico di regolare lo Stato, il Diritto, la Giustizia universale" e ricordava che, se pure "di grande autorità son rivestiti" e "reggono gran parte delle azioni umane", "nessuno è maggiore delle leggi", che se essi "abusano l’alto mandato", "obliano quelle leggi d’eterna giustizia", "conturbano la inviolabil condizione dei loro simili" e diventano "flagello di Dio".

Non obliino che nessuna potestà è legittima se non è legittimamente usata; che nessuna gloria è durevole se non ha per conseguenza l’immegliamento umano; che nessuna infamia è tanto maledetta quanto quella che pesa sul capo di chi governa. Ricordino che sparirà ben presto il lampo onde ora rifulgono per aspettare che sorga l’ultimo Sole [...]. Ricordino che a quella luce temuta coloro che mal dominarono, vorrebbero nascondere il triste dominio, e quelli che furono oppressi, saranno vendicati in eterno!.

Sosteneva le ragioni di chi era "nella povertà, nell’esilio, nelle catene, nell’agonia dello spirito, nell’abbattimento del cuore", ricordando che la fiducia in Dio "sta aiutatrice immancabile, e conforta, e serena, e trionfa" per cui "si disarmano i tiranni, si combattono i nemici".

Agli oppressori ricordava che "l’uccisione non assicura, la violenza non acquieta, la persecuzione non calma", che il "Giudice Supremo" "scenderà a giudicare le nazioni" perché Cristo non è venuto "con arme ed eserciti a conquistare il mondo" egli è anzi "lo scudo" che "ne difenderà dall’ingiustizia, dall’oppressione e dall’ignoranza".

Il Vangelo in questo libretto, che fu creduto un innocuo libro religioso, diventò la forza a sostegno delle "Nazioni stanche delle tenebre e del sangue".

Ecco una convinta offerta che sa di spinta insurrezionale:

Se, innanzi tempo, un’alta cagione mi consigliasse a rifiutar la vita; se prezzo del mio morire dovesse essere [...] la sicurezza, l’indipendenza della patria mia; se il mio sangue avesse a fruttificare semenza di animi forti [...] fuorché l’oppressione del debole, fuorché la rinuncia alla propria dignità [...] allora scenderà gradita [...] la Morte.

Da tenere presente che queste "meditazioni" avvenivano negli anni della reazione borbonica, quando "era raro e periglioso [...] il parlare di libertà" e quelli che erano rimasti a Napoli "dovevano nascondersi e parlare a bassa voce guardandosi attorno".

 

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Landolfi e il problema dell’unità d’Italia.

Durante i fatti che portarono all’unità il Landolfi seguì gli eventi che avvenivano sui "Campi lombardi", seguì le gesta di Garibaldi, giudicandolo un "miracolo d’uomo", esortando "i forti" a "sorger vindici" ed inneggiando ai fatti che "scavano la fossa all’intera dinastia".

Partecipò in prima persona agli eventi napoletani e fu tra quelli che salutarono "l’alba del riscatto", conscio che stava vivendo "uno dei più grandi mutamenti di cui faccia testimonianza la storia".

Considerò però criticamente quegli eventi infatti giudicò l’annessione una "surroga di un altro Monarca", ma si rese anche conto che unirsi "al carro" di un’altra monarchia era una condizione necessaria per "costituire una gran Nazione" e realizzare "i voti secolari de’ più solenni intelletti italiani".

Il Meridione, per i tesori della sua cultura e per il prodigio del suo ingegno, non sarebbe stato da meno delle altre parti d’Italia nel dare il suo contributo all’Italia che si univa. Era necessaria però una vasta opera di sollecitazione intellettuale e di rinnovamento civile che sostenesse quella etico-religiosa da lui propugnata in Dio e l’Uomo, per cui fu anche in questo campo attivo organizzatore e stimolatore di cultura in un articolato e capillare impegno sia nel suo salotto, dove passava la cultura napoletana particolarmente vivace nel primo periodo postunitario sia nella Associazione degli scienziati, letterati ed artisti sorta proprio con l’intento di sostenere la rivoluzione che aveva fatto "rovesciare il vecchio per creare il nuovo".

In un discorso sulla solidalità delle azioni umane egli espresse ciò che doveva essere a fondamento dell’unità italiana. Per lui la solidalità doveva stringere tutti gli uomini, in una stupenda unità per cui non era più legittimo "il volere di un uomo" ma "lo interesse di un popolo intero" che insorge se lo vede calpestato. Si doveva creare insomma un centro-solidale-Italia.

La strada per realizzare ciò era l’istruzione che avvia all’indipendenza e questa alla libertà e poi la libertà diventare guida alla perfettibilità umana.

Da liberal-conservatore il Landolfi voleva che la promozione del cittadino in un’Italia unita fosse lontano da ogni estremismo. Doveva essere improntata ad un nuovo modo di intendere la religione nella forma di "un cattolicesimo di nobile sembianza, restaurato e conciliato con l’idea di progresso, coi frutti delle rivoluzioni e coi bisogni dei tempi".

Propugnava una religione che tenesse presente solo il regno di Dio, auspicava che il gran seggio di Pietro fosse "libero da ogni terreno impaccio" per essere "Faro dell’umanità" perché il sangue di Cristo non fu pagato per "sostanze temporali" e si augurava che "il Regno di Dio non fosse turbato pel regno della terra; e il Regno della terra non turbi e contamini la santità del Regno di Dio: che l’uno e l’altra nei loro confini siano in mutua relazione".

Tutto ciò portò il Landolfi irrimediabilmente al centro di una querelle contro il clericalismo napoletano che gestiva le scuole popolari cattoliche, la cui associazione lo aveva proposto come socio onorario proprio perché autore di Dio e l’Uomo mostrando di non aver compreso le istanze liberali di quel libro. Il Landolfi, rispose a quella proposta con una lettera aperta sul giornale liberale il Pungolo, in cui fece la sua professione di fede sulla questione cattolico-italiana dichiarandosi sia cattolico apostolico e romano che cittadino italiano ed affermando

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di venerare, come cattolico, nel Papa il Vicario di G. C., come italiano, di riguardare "lui come ogni altro Principe terreno".

Il cattolico doveva rispettare l’autorità della Chiesa ragionevolmente (il corsivo è suo) perché se è vero che i dogmi non si toccano è anche vero che la disciplina della Chiesa può essere messa in discussione e adattata ai tempi che mutano, inoltre sottolineò la necessità, in un regime di libertà, della tolleranza dei culti.

Accusò la politica temporale della Chiesa e, dato il valore spirituale del soglio di Pietro e l’alto esercizio della Chiesa che è madre dei cattolici e non la piccola Chiesa di uno Stato, chiese a gran voce una soluzione alla questione di Roma capitale, denunziando il danno che la situazione creava alla coscienza religiosa.

 

Garentiamo la Chiesa nel suo libero e sovrano esercizio; circondiamola d’ossequio e d’autorità non sospetta di personali e terreni interessi; eleviamola o, meglio, riponiamola nell’altissima sfera dove Cristo l’ha stabilita, e la fede tornerà a brillare della sua luce divina, il sacerdote torni ad essere il Ministro di Dio; il Cattolico non si troverà collocato fra due violenze.

 

Indicò inoltre i veri nemici dell’Italia, più subdoli di quelli che la sconfiggevano sui campi di battaglia, la Francia di Napoleone III, la "fera man che libera e unita non la vuole", lamentando la situazione di dipendenza italiana dalla Francia che minava la giovane nazione

Nell’analizzare il problema della formazione della coscienza italiana Landolfi affermò che questa poteva avvenire rifacendosi alla ricchezza del suo patrimonio culturale a cui il Meridione avrebbe potuto partecipare a pieno titolo.

Bisognava farlo attraverso le biografie degli uomini che nacquero nel Mezzogiorno che sono un patrimonio inestinguibile e non conosciuto e di questi uomini molti appartengono alla cultura giuridica.

Il Landolfi metteva in evidenza la posizione di grande valore della giurisprudenza napoletana che oltre a costituire gran parte della borghesia napoletana faceva da tramite con la periferia, con la quale continuava a mantenere contatti verso la quale i governi piemontesi avevano molto astio proprio per la forte funzione di collante con la provincia meridionale

Un altro aiuto al rinnovamento morale e politico sarebbe dovuto avvenire dalla conoscenza della lingua italiana considerata un elemento importante per l’unificazione di educazione della coscienza nazionale.

 

Dalla speranza alla delusione: la svolta del periodo post-unitario.

Alla fine del primo decennio post-unitario maturò una svolta che portò il Landolfi ad abbandonare le speranze che avevano animato i primi anni dopo l’unità.

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Già nel 1867 aveva affermato: Le rivoluzioni sono più facili a farsi che a mantenersi e si riferiva al fatto che nel processo unitario il Meridione era tenuto in grande discredito da parte dei piemontesi.

Entrò perciò nella polemica antimeridionalista e lo fece contro il conte Federico Sclopis, piemontese, che nella sua Storia della legislazione italiana non solo avesse negato il contributo napoletano alla civiltà italiana quanto denigrato tutta la civiltà napoletana.

Non hai tu compreso, o Conte Sclopis, che presso di noi il Giureconsulto e l’Avvocato, essi soli, quando tutti gli altri stavan timidi e servili hanno tenuto alta la fiaccola della filosofia e delle lettere, essi soli han custodito illeso il genuino palladio della libertà della parola e del pensiero? Dirò io che la luce del Mezzogiorno non arriva gradita al Settentrione, o è troppo viva e non ne ponno quegli occhi sostener lo splendore? No, no; questo non dirò già io; la sarebbe un’ingiustizia; l’Italia del Nord è la stessa che quella del Sud, da diverso luogo, siamo i figli stessi; nelle glorie come nelle sventure, uguale e indivisibile è la sorte nostra; solidale è l’esistenza degli italiani.

Qui accanto alla delusione della ingiusta discriminazione c’è la difesa dell’unità di fondo del popolo italiano.

Denunziò i privilegi, i monopoli, le ruberie, le arroganze che avevano reso l’Italia "una nave che erra senza nocchiero", "una specie di astio con questa diletta Napoli [...] e con ogni cosa meridionale".

Si convinse che tutto il Mezzogiorno era la principale vittima della crisi interna del regno. Ne addebitava la causa al fatto che l’annessione del Sud allo Stato unitario era avvenuta "senza il battesimo del sangue". La mancanza di partecipazione al Risorgimento aveva trasformato cioè l’annessione del Meridione in una conquista perciò esclamava "Sorgiamo, dunque, sorgiamo a sperdere l’immeritato oblio".

Il riscatto doveva avvenire proprio dal Meridione che tante ricchezze culturali che quando le "Arti risursero in Toscana, erano già surte nelle Province Napoletane".

In questo periodo il Landolfi si fece più solitario ma continuò ad animare con la sua vivacità intellettuale il proprio salotto, ad aspirare ad una perfettibilità del cittadino che dovrà far risorgere veramente l’Italia. Più intensa si fece la sua attività propositiva legata sia alla professione e ai problemi della giustizia, seguendo i lavori del Parlamento, avanzando proposte di ammodernamento, discutendo le nuove disposizioni, sia rivolta ai problemi di rinnovamento sociale.

Partendo dalla convinzione che l’esempio è la migliore via per educare, guidare, sostenere e che l’uomo del suo tempo ha bisogno di questa azione, la sua opera propositiva si coagulò intorno alla donna sempre da lui considerata l’elemento cardine della società. Il Landolfi aveva sempre sottolineato il ruolo della donna, compagna dell’uomo e nonostante ciò da lui considerata debole, vile, serva, persino priva di "anima immortale" ma da Dio posta al centro della sua opera poiché la redenzione cominciò "dalla reintegrazione della donna", nella figura di Maria. Auspicava che la donna comprendesse l’altezza del suo compito. Aveva un concetto alto della donna come sostegno della famiglia motore delle azioni umane, e ne difendeva l’emancipazione e difendendone il diritto al lavoro, all’impegno in pubblico e negli studi.

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Le massime sono dettate dall’esigenza di tenere desta la coscienza nell’affrontare le insidie di quel difficile e pericoloso ampio spazio di transizione tra l’onesto e il disonesto che è una specie di trapasso indeterminato nel quale la coscienza è come perplessa e tormentata. Ma la coscienza dell’uomo ha anche bisogno di essere guidata perché i danni che nascono dall’azione negativa sono maggiori dei vantaggi di chi fa il proprio dovere. Le massime sono dunque questa sollecitazione e questa guida. Esse tracciano un ampio reticolato che imbriglia tutta la vita dell’individuo sia quando è solo con la sua coscienza che quando è in relazione con gli altri. Sono improntate ad un alto senso della dignità che nella donna diventa un segno distintivo (Nessuna difesa è tanto inespugnabile quanto il sentimento della propria dignità), che è la condizione del vivere civile di una società. Il senso della dignità umana porta all’aspirazione per le cose alte ed è un esercizio proprio di chi è dotato di ragione, che ha il compito di controllare, e di volontà, che permette di superare ogni ostacolo. In questo scritto compare un Landolfi che conosce profondamente l’animo umano a cui certamente lo portava la sua professione abituata a scavare nei meandri dell’animo umano per trovarvi le ragioni dell’agire, e un Landolfi che è convinto che ogni scienza o studio deve essere fatto in funzione dell’uomo. Nel difficile impegno di dare precetti egli non fu assertore di verità, anche se le massime hanno la secchezza del comandamento, bensì negli squarci di esperienza vissuta che esse disegnano egli diventava una guida sapiente di chi è passato attraverso la prova dei fatti.

Ora che si profilava l’immagine di una società in decadenza il suo impegno percorse due strade. La prima portò alla donna in modo ancora più concreto. Per lei scrisse una raccolta di massime, che è una guida paterna ma forte affinché questo elemento essenziale della società non erri e comprenda la sua grande responsabilità.

L’altra strada fu quella del mondo romano visto in funzione etico-pedagogica. Lo studio degli antichi diventava, un compito civile e un vero e proprio impegno politico per la nascente nazione italiana.

La nuova Italia doveva attingere alla Roma antica.

 

I Latini siamo noi: la lingua che noi parliamo fu generata dalla latina Roma: la idea latina sta ne’ nostri libri, sta ne’ nostri monumenti, sta nei nostri cuori, sta nelle virtù, nelle ricordanze, ne’ nomi, ne’ nostri vizi stessi: il nostro intelletto è irrevocabilmente latino. Debito nostro è dunque di studiare noi la nostra Roma [...] ma non ci riduciamo allo stato di pecore matte: parliamo noi in casa nostra.

 

Dal mondo latino l’Italia doveva prendere l’esempio di come deve sorgere una nazione:

 

Tu vedi come il pensiero [...] con instancabile attività assimilatrice, cerca e s’appropria quanto di gagliardo hanno i prossimi e lontani; e, finalmente, surto a forza fecondante organata, sente la gran coscienza della sua missione umanitaria, percorre la terra, e obbliga il Mondo a inchinarsi innanzi a lui, obbedirgli e diventare civile [...] e Roma se ne [la lingua e le idee degli altri popoli] immedesima ogni parte vitale, la converte in propria la coordina, la fonde in se stessa.

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Dopo il risorgimento affidato alle armi ora per il Landolfi doveva iniziare quello del pensiero che si arricchisce e fortifica attingendo ad un patrimonio che era stato tralasciato: i classici che non venivano studiati o venivano studiati attraverso traduzioni straniere.

A questa opera il Landolfi dette il suo contributo attraverso le due traduzioni di Tacito, lo storico che indagò il mondo della decadenza di Roma che era come quella italiana e napoletana del suo tempo, decadenza di civiltà. Essa provocava quella che Tacito chiamava libido adsentandi intesa come rinuncia alla dinamicità antica, come ozio che è inerzia. Era la stessa condizione che determinava il mancato decollo politico dell’Italia. Bisognava quindi ripetere la medesima operazione fatta da Tacito di proporre cioè l’esempio di un popolo - il germanico - se pure primitivo ma semplice e forte, era un esempio di umanità genuina. C’era insomma da fare un’iniezione di energia.

________ Le traduzioni del Landolfi sono analizzate da Luigi Spina in Due traduttori di tacito: Giuseppe Sanseverino e Luigi Landolfi in AA.VV., La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, II, Napoli, 1987, pp. 573-584._______

 

L’altra opera la traduzione della Vita di Agricola aveva il medesimo scopo poiché Agricola era un exemplum di virtù, dei valori morali che gli individui singoli riescono a sommare nella società evoluta.

Per concludere si può dire che Landolfi si colloca a pieno titolo tra quegli uomini di dottrina e di pensiero che per decoro e nobiltà Croce considerava il vanto e l’anima dell’Italia meridionale.