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1 Pietro Giannini Le traduzioni di Giovanni Francesco Romano Le traduzioni di Giovanni Francesco Romano riguardano tre epigrammisti greci: Leonida di Taranto, Anite di Tegea, Nosside di Locri. Le troviamo insieme in un volume pubblicato da Piero Manni nel 1994, con una premessa di Enzo Esposito (Epigrammi, Lecce 1994). Ma esse appartengono a tempi diversi, su cui non è inutile fare chiarezza. (In generale una maggiore precisione nella scansione temporale della vita e dell’attività di Romano potrebbe contribuire a definire meglio costanti e svolte della sua produzione poetica). Le traduzioni di Leonida sono apparse nella Rivista Sudpuglia: cinquanta nel numero di settembredicembre 1979, cinquantuno in quello di gennaiomarzo 1980. Le traduzioni di Nosside sono apparse, sempre in Sudpuglia, nel numero di aprilegiugno 1981. Le traduzioni di Anite sono state pubblicate postume nel volume già citato del 1994; presumibilmente sono posteriori alle traduzioni di Nosside e quindi, in mancanza di altre precisazioni, appartengono al periodo 19811989 (anno della morte di Romano). Si definiscono così due blocchi di traduzioni, che si possono scandire grosso modo in questo modo: Leonida e Nosside, più antiche, da una parte, Anite, più recente, dall’altra. Questa distinzione (che è oscurata dalla successione LeonidaAniteNosside, adottata nel volume degli Epigrammi) rende ragione di una particolarità versificatoria che mi sembra sfuggita sinora. Mentre le traduzioni di Leonida e Nosside sono in versi della tradizione italiana (endecasillabi per lo più, inframezzati da misure più brevi, ad esempio i settenari) e ciò spiega come il numero dei versi della traduzione sia di solito eccedente rispetto a quello dell’originale), le versioni di Anite sono in versi apparentemente liberi, ma in realtà esametri e pentametri della metrica ‘barbara’ carducciana. L’esametro è reso per lo più con settenario + novenario, il pentametro con settenario + settenario (o con misure ad essi riconducibili). Ciò si traduce in una esatta corrispondenza di versi tra originale e traduzione. Diamo come esempio il primo epigramma di Anite (Epigrammi, p. 117): Lancia omicida, fermati, e più dal tuo artiglio di bronzo non gocciolare sangue, luttuoso, di nemici; nella casa di marmo, qui, alta, di Atena, riposa esaltando il valore del cretese Echecratide. “Echi carducciani” sono stati rilevati da Aldo Bello (Introduzione a Il vento e le stagioni, Matino 1990, p. IX) nella prima raccolta poetica del 1942 Solingo liuto, che non ho potuto consultare, come le due successive raccolte del 1950 (Mentre la luce è piena e Il deserto attende). Ma, dopo la svolta ungarettiana e quasimodiana che caratterizza la successiva produzione poetica di Romano, il ritorno tardivo a Carducci, sia pure sul piano strettamente metrico, non è privo di significato. Ciò dimostra un certo sperimentalismo metrico di Romano: comunque è un dato evidente che l’esigenza ritmica era preminente nella sua ricerca poetica e giustifica l’osservazione sulla “perfezione metrica” dei suoi componimenti fatta da Aldo Bello (Ibid.). Anzi, io credo che un’indagine metrica su tutta la produzione di Romano potrebbe riservare delle piacevoli sorprese. La metrica ‘barbara’ di Anite è un caso isolato; per il resto, come abbiamo detto, Romano adotta i versi della tradizione italiana. In questo egli segue da vicino il modello di Quasimodo, che usa largamente l’endecasillabo nelle sue versioni dell’ Antologia Palatina, anche se con molta libertà, che va dall’impiego di cadenze interne non canoniche alla associazione con misure che possiamo definire ‘libere’. Sotto questo profilo Romano è più ligio alle movenze tradizionali. Comunque, il modello di Quasimodo è solo stilistico e ritmico e non incide, a mio parere, sulla scelta degli epigrammisti greci, come pure è stato ipotizzato (Donato Moro, Introduzione a Superstite, io rammento, Lecce 1993, p. 13). Io credo che su questa scelta abbia pesato di più il sodalizio umano e intellettuale con Ottorino Specchia. Non può essere un caso

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Pietro  Giannini  Le  traduzioni  di  Giovanni  Francesco  Romano    Le   traduzioni  di  Giovanni  Francesco  Romano   riguardano   tre   epigrammisti   greci:   Leonida  di  Taranto,   Anite   di   Tegea,  Nosside   di   Locri.   Le   troviamo   insieme   in   un   volume  pubblicato   da  Piero  Manni  nel  1994,  con  una  premessa  di  Enzo  Esposito  (Epigrammi,  Lecce  1994).  Ma  esse  appartengono  a  tempi  diversi,  su  cui  non  è  inutile  fare  chiarezza.  (In  generale  una  maggiore  precisione  nella  scansione  temporale  della  vita  e  dell’attività  di  Romano  potrebbe  contribuire  a  definire  meglio  costanti  e  svolte  della  sua  produzione  poetica).    Le   traduzioni   di   Leonida   sono   apparse   nella   Rivista   Sudpuglia:   cinquanta   nel   numero   di  settembre-­‐dicembre   1979,   cinquantuno   in   quello   di   gennaio-­‐marzo   1980.   Le   traduzioni   di  Nosside  sono  apparse,  sempre  in  Sudpuglia,  nel  numero  di  aprile-­‐giugno  1981.  Le  traduzioni  di  Anite  sono  state  pubblicate  postume  nel  volume  già  citato  del  1994;  presumibilmente  sono  posteriori  alle  traduzioni  di  Nosside  e  quindi,  in  mancanza  di  altre  precisazioni,  appartengono  al   periodo   1981-­‐1989   (anno   della   morte   di   Romano).   Si   definiscono   così   due   blocchi   di  traduzioni,   che   si   possono   scandire   grosso   modo   in   questo   modo:   Leonida   e   Nosside,   più  antiche,   da  una  parte,  Anite,   più   recente,   dall’altra.  Questa  distinzione   (che   è   oscurata  dalla  successione   Leonida-­‐Anite-­‐Nosside,   adottata   nel   volume   degli  Epigrammi)   rende   ragione   di  una  particolarità  versificatoria  che  mi  sembra  sfuggita  sinora.  Mentre  le  traduzioni  di  Leonida  e   Nosside   sono   in   versi   della   tradizione   italiana   (endecasillabi   per   lo   più,   inframezzati   da  misure   più   brevi,   ad   esempio   i   settenari)   e   ciò   spiega   come   il   numero   dei   versi   della  traduzione  sia  di  solito  eccedente  rispetto  a  quello  dell’originale),  le  versioni  di  Anite  sono  in  versi   apparentemente   liberi,   ma   in   realtà   esametri   e   pentametri   della   metrica   ‘barbara’  carducciana.   L’esametro   è   reso   per   lo   più   con   settenario   +   novenario,   il   pentametro   con  settenario   +   settenario   (o   con   misure   ad   essi   riconducibili).   Ciò   si   traduce   in   una   esatta  corrispondenza  di  versi  tra  originale  e  traduzione.  Diamo  come  esempio  il  primo  epigramma  di  Anite  (Epigrammi,  p.  117):  Lancia  omicida,  fermati,  e  più  dal  tuo  artiglio  di  bronzo  non  gocciolare  sangue,  luttuoso,  di  nemici;  nella  casa  di  marmo,  qui,  alta,  di  Atena,  riposa  esaltando  il  valore  del  cretese  Echecratide.  “Echi  carducciani”  sono  stati  rilevati  da  Aldo  Bello  (Introduzione  a  Il  vento  e  le  stagioni,  Matino  1990,  p.  IX)  nella  prima  raccolta  poetica  del  1942  Solingo  liuto,  che  non  ho  potuto  consultare,  come  le  due  successive  raccolte  del  1950  (Mentre  la  luce  è  piena  e  Il  deserto  attende).  Ma,  dopo  la   svolta   ungarettiana   e   quasimodiana   che   caratterizza   la   successiva   produzione   poetica   di  Romano,  il  ritorno  tardivo  a  Carducci,  sia  pure  sul  piano  strettamente  metrico,  non  è  privo  di  significato.  Ciò  dimostra  un  certo  sperimentalismo  metrico  di  Romano:  comunque  è  un  dato  evidente   che   l’esigenza   ritmica   era   preminente   nella   sua   ricerca   poetica   e   giustifica  l’osservazione   sulla   “perfezione  metrica”   dei   suoi   componimenti   fatta   da   Aldo   Bello   (Ibid.).  Anzi,   io  credo  che  un’indagine  metrica  su  tutta   la  produzione  di  Romano  potrebbe  riservare  delle  piacevoli  sorprese.  La  metrica   ‘barbara’   di   Anite   è   un   caso   isolato;   per   il   resto,   come   abbiamo   detto,   Romano  adotta  i  versi  della  tradizione  italiana.  In  questo  egli  segue  da  vicino  il  modello  di  Quasimodo,  che   usa   largamente   l’endecasillabo   nelle   sue   versioni   dell’  Antologia  Palatina,   anche   se   con  molta   libertà,   che   va   dall’impiego   di   cadenze   interne   non   canoniche   alla   associazione   con  misure   che  possiamo  definire   ‘libere’.   Sotto  questo  profilo  Romano  è  più   ligio  alle  movenze  tradizionali.  Comunque,  il  modello  di  Quasimodo  è  solo  stilistico  e  ritmico  e  non  incide,  a  mio  parere,   sulla   scelta   degli   epigrammisti   greci,   come   pure   è   stato   ipotizzato   (Donato   Moro,  Introduzione  a  Superstite,  io  rammento,  Lecce  1993,  p.  13).  Io  credo  che  su  questa  scelta  abbia  pesato  di  più  il  sodalizio  umano  e  intellettuale  con  Ottorino  Specchia.  Non  può  essere  un  caso  

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il   fatto   che   due   dei   poeti   tradotti,   Leonida   e   Nosside,   siano   stati   anche   due   temi   di   ricerca  prediletti  da  Specchia.  Anite,  poi,  è  una  scelta  quasi  conseguenziale:   la  poetessa  di  Tegea,   in  Arcadia,   è   una   componente,   altrettanto   antica,   di   quella   scuola   epigrammatica   detta  “peloponnesiaca”,  cui  appartengono  Leonida  e  Nosside.    A   proposito   di   quest’ultima   vi   è   una   vicenda   da   ricordare.   Tra   le   carte   lasciate   inedite   da  Specchia  (morto  nel  1990)  vi  era  anche  un  lavoro  su  Nosside,  costituito  da  un  saggio  critico  e  da  un  commento  ai  suoi  epigrammi.  Il  lavoro  fu  pubblicato  per  mia  cura  nella  Rivista  Rudiae  nel  1993.  Ma  esso  apparve  con  una   traduzione  che   io  nella   “Premessa”  definivo   “di   lavoro”.  Era  una  traduzione  ‘filologica’,  potremmo  dire  letterale  (senza  che  questo  comporti  alcunché  di   riduttivo),   che   però   non   era   destinata   alla   pubblicazione.   A   questa   era   destinata,   per  espresso   volere   di   Specchia,   una   traduzione   di   Romano,   che   però   non   fu   rinvenuta   nella  cartella  contenente  il  manoscritto.  In  realtà  una  traduzione  di  Nosside,  come  abbiamo  detto,  era  già  apparsa  nel  1981.  Non  è  dato  sapere  se  alla  pubblicazione  di  Specchia  fosse  destinata  quest’ultima   o   un’altra,   riveduta   dall’autore.   Sta   di   fatto   che,   date   queste   premesse,   non   è  pensabile  che  le  traduzioni  di  Romano,  almeno  per  Leonida  e  Nosside,  siano  state  esenti  dalle  conversazioni  (e  discussioni)  con  Specchia.  Ma  stringiamo  ora   la  nostra  attenzione  sulle  traduzioni.  Sia  detto   in  breve  che  la  traduzione  che   si   presenti   come   tale   (e   quindi   non   l’imitazione:   una   da   Saffo   è   dichiarata   nel  componimento  E  io  pur  non  ti  vedo  a  occhi  aperti  in:  Superstite,  io  rammento  p.  47)  è  come  un  Giano  bifronte  che  guarda  da  una  parte  al  testo  antico,  dall’altra  al  pubblico  del  suo  tempo;  la  sua   riuscita   dipende   dal   modo   in   cui   essa   riesce   ad   adempiere   a   tutte   e   due   le   funzioni  contemporaneamente.  Essa  non  può  essere   totalmente   schiava  del  modello,  ma  non  ne  può  essere   totalmente   slegata.  D’altra  parte   si   sa   che   il   traduttore  non  può   rendere  nel   testo  di  arrivo  tutte  le  modalità  con  cui  il  testo  di  partenza  realizza  il  suo  messaggio,  quelle  che  Ezra  Pound  chiamava  logopea,  fanopea,  melopea.  Per  logopea  egli   intendeva  il  tessuto  linguistico,  per   fanopea   il   contesto   delle   immagini,   per   melopea   la   struttura   metrico-­‐ritmica.   Pound  aggiungeva  che,  di  questi  aspetti  del  testo,  solo  la  fanopea  può  essere  tradotta  con  una  certa  efficacia;   la   melopea   è   impossibile   da   rendere   in   un’altra   lingua   e   la   logopea   è   difficile   da  tradurre  in  modo  esatto,  ma  “se  ne  può  trovare  una  derivazione  espressiva  o  equivalente”  (E.  Pound,  Saggi  letterari,  Milano  1967,  pp.  52  sg.).  Date  queste  premesse,  le  traduzioni  non  vanno  valutate  per  la  fedeltà  all’originale  (a  meno  di  palesi  fraintendimenti  o  errori  linguistici)  ma  per  il  diverso  modo  in  cui  i  tre  livelli  del  testo  sono  resi.  Romano  si  mostra  particolarmente  attento  alla   fanopea,  a  riprodurre   le   immagini  dell’originale.   Dati   i   suoi   interessi   metrici,   egli   non   intende   rinunciare   alla   melopea,   ma,  essendo   impossibile   quella   originale   (solo   Pascoli   si   cimentò   in   questa   impresa,   ma   con  risultati  problematici),  egli  adotta  quella   italiana,  anche  se  ciò  comporta  delle   forzature,  che  pure  non  sono  casuali.  Basta  un  solo  esempio,  preso  dal  primo  epigramma  di  Nosside   (ved.  oltre).  Qui  vi  sono  due  evidenti  zeppe:  al  v.  3  “pur  la  più  dolce  delle  dolci  cose”  (nel  testo  greco  solo   ὄλβια:   “ogni   altra   gioia”,   Specchia),   ai   vv.   7-­‐8   “non   sa   che   sia   dolcezza,   non   intende/la  splendida  bellezza  di  sue  rose”  (nel  testo  greco  ἄνθεα  ποῖα  ῥόδα,  “quali  rose  siano  i  suoi  fiori”,  Specchia).  L’ampliamento  testuale  è  significativo:  pur  dovuto  alla  ricerca  della  misura  metrica,  esso  tradisce  il   forte  interesse  del  poeta  per  l’amore,  tema  unico  dell’epigramma.  E’  come  se  Romano   si   lasciasse   sfuggire   una   voce   segreta,   che   esalta   l’importanza   assoluta   dell’amore  nella   vita   dell’uomo.   L’amore,   bisogna   aggiungere,   che   costituisce   un   tema   ‘caldo’   delle   sue  prime  liriche  (limitatamente  alla  raccolta  postuma),  per  poi  perdere  progressivamente  forza  e  cedere  ad  una  visione  più  amara  della  vita.    Per   dare   un’idea   di   diverse   modalità   di   traduzione,   anche   in   presenza   di   diverse   opzioni  testuali  (inevitabili  con  i  testi  classici),  si  danno  qui  tre  esempi  di  versione  di  4  epigrammi  di  Nosside  per   i  quali   il   confronto  era  possibile:   la  versione  di  Specchia,  più  orientata  verso   la  

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fedeltà   all’originale,   quella   di   Romano   e   quella   di   Quasimodo,   più   tese   ad   una   risonanza  personale.  Dalla  semplice  lettura  ognuno  può  cogliere  i  diversi  modi  di  lettura  e  di  resa.  

   Nulla  è  più  dolce  dell’amore,  ogni  altra  gioia  viene  dopo.  Io  dalla  bocca  sputo  perfino  il  miele.  Questo  Nosside  dichiara:  “  Colui  che  Cipride  non  baciò  ignora  quali  rose  siano  i  suoi  fiori”.  (Specchia)    «Dolce  più  dell’amore  nulla:  seconda  viene  pur  la  più  dolce  fra  le  dolci  cose;  persino  il  miele  io  sputai  dalla  bocca.»  Questo  Nosside  dice.  E  chi  Cipride  mai  non  ha  baciato,  non  sa  che  sia  dolcezza,  non  intende  la  splendente  bellezza  di  sue  rose.  (Romano)    Non  c’è  nulla  più  dolce  dell’amore.  Quale  dolcezza  lo  supera?  Sputo    anche  il  miele.  Così  Nosside  dice.  Solo  chi  non  è  amata  da  Cipride  non  sa  quali  rose  siano  i  suoi  fiori.    (Quasimodo)    

   Ben   volentieri  mi   sembra   che  Afrodite   prenda   dalle   chiome   di   Samita   l’offerta   di   questa   reticella;   è  lavorata  con  perizia  e  dolcemente  odora  di  nettare:  con  questo  la  dea  profuma  il  bell’Adone.    (Specchia)      E’  giusto  che  Afrodite  accolga  in  voto  questo  velo  dai  fiori  ricamati  che  i  riccioli  ha  lasciato  di  Samitha;    è  tessuto  con  arte    e  di  nettare  odora,  di  quel  nettare  che  usa  la  dea  a  profumare  Adone.  (Romano)    Sarà  lieta  Afrodite  dell’offerta  di  questa  piccola  cuffia  che  Sàmita  ha  tolto  al  suo  capo.  Perché  è  bella  e  odora  lieve  del  nettare  

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che  la  dea  sparge  sul  suo  bell’Adone.  (Quasimodo)    

   Ridi   gioiosamente   e   passandomi   davanti   rivolgi   una   parola   in   memoria   di   me.   Io   sono   Rintone   il  Siracusano,  delle  Muse  un  usignolo  piccolo  piccolo,  ma  dai  fliaci  tragici  mi  colsi  un’edera  tutta  per  me.  (Specchia)    Passi  oltre?  E  scoppia  a  ridere,  che  echeggi  d’intorno  la  risata;  per  me  una  parola,  ma  affettuosa.    Sì,  Rintone  sono  io,  di  Siracusa,  delle  Muse  usignolo  forse  piccolo,  ma  di  fliaci  già  mi  colsi  un’edera.  (Romano)    Passa  con  riso  squillante  vicino  a  me,  e  poi  dimmi  una  parola  amica.  Io  sono  Rintone  di  Siracusa,  un  piccolo  usignolo  delle  Muse.  Colsi  la  mia  edera  con  parodie  della  tragedia.  (Quasimodo)    

   O  straniero,  se  tu  navighi  verso  Mitilene  lieta  di  canti  per  cogliere  il  fiore  delle  grazie  di  Saffo,  dì  che  io  fui  amica  delle  Muse,  che  nacqui  a  Locri  e  sai  che  il  mio  nome  è  Nosside.  Va.  (Specchia)    E  se  verso  Mitilene,  lieta  di  danze,  navighi,  straniero,    per  infiammarti  al  fiore  delle  grazie  di  Saffo,  dì  che  cara  alle  Muse  io  nacqui  a  Locri.  Và,  non  scordare:  Nosside  il  mio  nome.  (Romano)    O  straniero,  se  navigando  andrai  a  Mitilene  dai  bei  cori,  dove    s’accese  il  fiore  delle  grazie  di  Saffo,  dì  che  cara  fui  alle  Muse  e  che  nacqui  nella  terra  

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di  Lòcride.  E  continua  la  tua  via  appena  saprai  che  il  mio  nome  è  Nosside.  (Quasimodo)