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POESIE E RACCONTI di Rodolfo Settimi Un incontro di Lettura C’è un frammento di Saffo, l’antica poetessa greca, che in certo senso traccia il percorso di questo incontro “Espero ormai riporta tutto quello che l’aurora lucente ha disperso. Riporta pecore, capre…..” E’quasi l’ora di Espero stasera, e per me è da tempo la stagione in cui si riassumono e si riprendono le cose disperse negli anni: è il tempo di ricondurle ad un ovile, quello organizzato della mente. Quel fram- mento di Saffo apre un mio libricino di poesie e di racconti “La via dei giorni” in cui sono riunite prose e poesie di due stagioni della mia vita, passate in due angoli di questa terra marchigiana, a Dignano nella mia giovinezza e a Ussita da molto tempo ad oggi.

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Page 1: POESIE E RACCONTI...Poesie lontane nel tempo e sparse; e un filo narrativo che le unisce. Due esperienze diverse per l’età e per il tempo, due realtà indivisibili di un mondo che

POESIE E RACCONTI

di Rodolfo Settimi

Un incontro di Lettura

C’è un frammento di Saffo, l’antica poetessagreca, che in certo senso traccia il percorso di questoincontro

“Espero ormai riportatutto quello che l’auroralucente ha disperso.Riporta pecore, capre…..”

E’quasi l’ora di Espero stasera, e per me è da tempola stagione in cui si riassumono e si riprendono lecose disperse negli anni: è il tempo di ricondurle adun ovile, quello organizzato della mente. Quel fram-mento di Saffo apre un mio libricino di poesie e diracconti “La via dei giorni” in cui sono riunite prosee poesie di due stagioni della mia vita, passate indue angoli di questa terra marchigiana, a Dignanonella mia giovinezza e a Ussita da molto tempo adoggi.

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Poesie lontane nel tempo e sparse; e un filo narrativoche le unisce.Due esperienze diverse per l’età e per il tempo, duerealtà indivisibili di un mondo che mi appartieneprofondamente, che amo, che desidero condividere.Il periodo di Dignano, a cominciare dai giorni dellaguerra fino alle lunghe estati delle vacanze, ha se-gnato la mia vita per importanti tratti dalla adole-scenza alla giovinezza. I luoghi del fare e dell’esse-re, il cadere delle stagioni, legati ad un tempo, quel-lo dell’adolescenza soprattutto, in cui ho osservatomodi di vita oramai scomparsi. Quell’antica campa-gna su quei colli aspri e ventosi e quel lontano abita-re in essi, mi sembra possano rappresentare modi divita che potevano essere tali anche sui colli e nellavalle di Ussita e in tanta parte degli antichi borghidell’Appennino.Ad Ussita ho ritrovato la terra della mia famiglia,l’ho riconquistata a poco a poco nella sua profonditàe nel suo essere paesaggio, persone, cose. E’ ancheil luogo della mente dove spesso mi ritrovo; luogoda cui trarre immagini, pensieri; luogo saccheggiatocon i sensi quando vi sono presente; luogo che michiama e mi induce al ritorno appena ne sono lonta-no.Le cose che leggeremo non derivano soltanto dallesuggestioni del ricordo, ma dalla necessità del poeta-

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re; sono realtà che ho vissuto e che vivo; un vissutodi adesso; un tempo che ora si propone come a volteun profumo, un colore, un lampo di luce portano allamente e al cuore fatti e sensazioni antichi con la for-za di un’attualità che si sovrappone all’istante delpresente con nitidezza di dettagli e acutezza di sen-sazioni come il presente stesso.Ora mi faccio coraggio e vi presento questi testi conl’aiuto di Pina Imperatori che leggerà il filo narrati-vo, tratto dal mio “ La via dei giorni”, di Barbara Ol-mai che dirà le poesie e di Cristina Settimi che leg-gerà alcuni brani da recenti miei racconti che, inqualche modo, si riferiscono al tema.

* * * * * * * * *

Con il pensiero ai versi di Saffo e alle cose scritte inquesti anni, alle stagioni passate e a quelle che si af-facciano travolgendo tutto con la spinta della loroferoce innocenza, prende inizio questa lettura con lapoesia

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LE STAGIONI IMPERCETTIBILI

Lontanodi là del cerchiodove mi addensa il lumeun lentovorticoso lento dipanare d’acquee fonde lucimobili all’onda immobiliche attraggono lontane –lontane dall’anello di silenziodove stringe l’io.

Eppure le vidile stagioni salire impercettibilisbocciare scenderecrivellate dall’altrache si affaccia- ero in ciascuna mutando tornandoimmobileumido di tempo –rilucente al sole.

Sono ora in questache sale dalle spiaggeodorose di giunchiglie

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che spande sull’ondulataterra degli Etruschiche dilaga su Terni e super le scoscese creste della Valnerina inturgidagemme sui rovimentre ancora nei fossie in me resta la neve.

Inermenell’infuocato tumultodei semi dei voli dei colori inavvertitotra le vene impallidite odo un rimbombocome di cerchid’acqua alla deriva.

Il seguito è diviso in due parti: la prima riferita a Dignano, la seconda ad Ussita.

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DIGNANO

Dignano forse esisteva già come borgo o forse èsorto dopo la fine di Plestia intorno all’anno millecome castello a guardia della strada che dalla viadella Spina, conduceva all’interno delle Marche at-traverso Pieve Torina. Apparteneva ad una anticafamiglia ghibellina dell’Umbria, i Baschi, e fu dona-to nel 1240 a Camerino. Dopo varie vicende è di-ventato, come moltissimi altri castelli, un borgo; nelvecchio aspetto è rimasto grosso modo fino aglianni ’40 – ’50; poi, terremoto 1997 a parte, ha cam-biato giorno per giorno il suo vecchio profilo.

Questo paese ho conosciuto nel suo anticoaspetto. Qui viveva la zia Ninetta, qui aveva le sueterre, i “suoi” contadini; qui ci ospitò nell’ultimoanno di guerra e poi per molte estati.

COME I CERRI SUL CALAMONE (In ricordo di zia Ninetta)

Eri tula porta di Dignanoall’ombra del castagnosilenziosanella veste nera.

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Orai muri di pietrasbiancanoolmi scapicciatie fratte incolte di orti.Mutazioninon vissutestagnanoi varchi conosciutioltre le casela curva boscosa di Nalee i segnia me solo noti.

Assaleil ritorno stranierol’anima del ventoinquieta tra le siepicon polvere di voltie voci- brusio d’erbesui crinaliforse grida.Bave d’arialungo i murie i vuoti delle portesussurri

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muovere di imposte.

L’occhio diradagli atomi del granoi pori delle foglie- affioranole fonti nell’ombra.- la bocca tersa con la manoil meriggiare attento.Il pianos’apre laggiù di pascolisbavati d’acquee mandrie intorno.

Giorni d’estatecarichi di gialli- svola la quaglia oltrela schiera curva delle falci –e il tarlo dei campanierranti per i colliverdi e grigie a sera insiemeprima dell’inquietante risodella civetta.

Ombra leggeraincenerita

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d’acqua e sole- i cerri rosa sul Calamonee quitra le dita.

Arrivare a Dignano da Roma, in quei tempi, nonera cosa da poco. Treno (fino a Foligno), corriera(fino al Colfiorito) e, infine, da qui un altro mezzoqualsiasi o a piedi.

Quattro chilometri di strada bianca ai marginidel Piano, rasentando l’antichissima chiesetta diPlestia e poi, lungo fratte e radi alberi, alla scorcia-toia della strada “niviera”, incassata tra alti greppi esiepi, fino alla salita del Colle. Il Piano a sinistracon le sue “forme” di acqua lucente, il verde chiaz-zato di mandrie e le rondinelle a volo basso; a destrale pendici dei colli che si innalzano prima lievemen-te poi all’improvviso con il loro carico, in quei gior-ni d’estate, biondo di grano.

Percorrere la salita verso Dignano sopra un car-ro da buoi è, per un ragazzino, una cosa meraviglio-sa, ma per chi ha membra più sensibili e delicate èuna vera sofferenza. Lo sanno le viaggiatrici chequel giorno di luglio 1943 arrivarono da Roma peruna vacanza che sarebbe durata più di un anno. Era

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stato l’ultimo tratto del viaggio per una strada amezza costa sul dorso di due colli, corrosa dallapioggia e dai pesanti attrezzi da lavoro, a dare il col-po di grazia; non c’erano alberi tranne le querce al-l’incrocio de “lu cirrittu” e sassi, buche, scossoni etanta paura di mia madre, cittadina, e delle altredonne. Sulla grande aia, finalmente, lo sbarco e leaffettuosità a lenire gli acciacchi.

Dignano era allora ed è un piccolo borgo che se-gue la dorsale del colle dove posa. Salendo, è com-patto, un piccolo fortilizio di pietra grigiastra, chestringe verso il campanile. Arrivandoci è diverso:una stradina lo attraversa da est ad ovest passandodietro la prima fila di case. Ci sono tre agglomerati,Colle ad est verso i campi, Dignano al centro con lagrande casa quattrocentesca della zia e la relativaaia; infine, Castello, la parte più antica, circondatada mura, più tardi divenute case e cascine, che rac-chiude un grande casamento centrale e, sul latoorientale, la chiesa e il pozzo.

Per me e per i miei fratelli tanti animali; dapper-tutto galline, oche e tacchini e, alla sera, pecore, tan-te pecore; e mucche, enormi, bianche, dalle ampiecorna.

Alle spalle del paese una valle profonda staccail fondale verde cupo del monte Nale, tutto macchiae poche radure; a sinistra la diagonale prativa del

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monte Castello che chiude verso il Nale con la mac-chia a nocelleto delle “Costarelle”; all’incrocio, inbasso, la “Fonte del Colle”. Se non ricordo male, lafonte era stata in antico, oltre al pozzo, l’unico pun-to di approvvigionamento dell’acqua, nonostante ladistanza e la strada scoscesa e pietrosa per arrivarvi.Poi venne l’acquedotto e, nel paese, la fontana-ab-beveratoio che ho conosciuto. Fonte del Colle è sta-ta anche la zona privilegiata di caccia per noi ragaz-zi. Appostavamo gli uccelli che scendevano a beresui rigagnoli nel brecciaio assolato e tentavamo dicolpirli con le fionde.

Un posto affascinante e vicino, dal quale si po-tevano sentire le voci rassicuranti del paese in alto egli eventuali richiami per il ritorno a casa. Con unastradina a destra nella macchia si raggiungeva “luCalamone”, un largo spiazzo a cerri che guardavaDignano alle spalle.

FONTE DEL COLLE

Era confinee meta –la vascasotto gli olmiil tracimo

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sul brecciaio di sole.

Vi tendevamo agguatisui beverini degli uccelliquando l’estate sbiancava le stoppieoltre le siepiappena dissetate di rugiada.Ronzare di insettisulle pozzeinfinitesimi cerchia pelo d’acqua –esitare di farfalle,frullii d’ali.Dal colle le voci di Dignano.

In questa estateche mi scavaguido gli amici cittadinial fresco della fontefaticosa meta.All’improvviso appariredalla svoltasvolano gli uccellia beverarsispruzzi ed ombresubito dissolti.

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Sussurri, gridanel calpestio di ghiaiaintrisa d’acqua.

Anche alloraun calpestio veloce,nemmeno attutito dalla neve,come di greggi verso la fontana.Il mitrae i corpi sui rigagnolicome l’estate a bere.

Ora alcuni brani di un racconto recente che descriveun giorno d’estate i noi ragazzi in quegli anni lonta-ni, cui segue una poesia “Cardi” che si riferisce alperiodo di scuola 1943-1944.

GIORNO D’AGOSTO

Le bici, una Wolsit, una Perla e la terza, da don-na, senza marca filavano sobbalzando per la lungadiscesa della strada sterrata, segnata dal rotolio deicarri e dalle piogge. Le camicie gonfie d’aria, gli oc-chi semichiusi per la polvere, i capelli attraversatidal vento.

La strada che stavamo percorrendo era antichis-sima; aveva sentito il passo delle greggi e dei pastori

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dell’età del bronzo che, dal santuario di Cupra a Ple-stia, si recavano all’interno del Piceno. Per noi erasoltanto la strada della Valle dell’Angelo. Doveva-mo arrivare, infatti, a Valsantangelo per invitare ilparroco del paese a celebrare, insieme ad altri preti,l’uffizio per i defunti della famiglia. Si contava suquel sacerdote e su quello di Centare avendo giàavuto il consenso del parroco di Colfiorito e di donPeppe di Castello che sarebbe venuto con il parrocodi Serravalle.

Non mi piaceva quell’incarico che stavo svol-gendo con mio fratello e mio cugino, tutti e tre pocopiù che dodicenni. Quella strada, ci avevano raccon-tato una sera di vento e di pioggia che faceva paura,quella strada era frequentata da lupi che scendevanoda Macchialunga o che uscivano dal fosso di Baron-ciano: non ci mettevano niente ad attaccare greggi opersone. Anzi, in un prato vicino al fosso di Baron-ciano, un pastore era stato costretto a difendere unmontone addentato da un lupo che lo stava trasci-nando via dal gregge: aveva trattenuto il suo animaleper una zampa posteriore ed aveva colpito il lupocon il bastone. Ad ogni bastonata il lupo ringhiava,ma non lasciava la preda, finchè, colpito in manierapiù dolorosa, fuggì guaendo e ringhiando.

Del resto, i lupi si allenavano fin da piccoli adattaccare le prede. Un giorno, a primavera inoltrata,

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mentre un gregge scendeva lungo un sentiero dalmonte Macchialunga, un contadino vide, da lontano,che tre lupacchiotti, appostati dietro un cespuglio vi-cino al sentiero, aspettavano che passassero le peco-re adulte per tentare di attaccare gli agnellini chechiudevano il gregge. Erano racconti probabilmentefantastici, ma per quanti secoli la fame ha messo inconcorrenza uomini ed animali nelle campagne po-vere di tanti anni fa!

Era troppo pericolosa quella strada, non perchéci saremmo potuti ammazzare cadendo con quellebiciclette da venti chili in qualche fosso a quella ve-locità, ma perché si sarebbero potuti fare brutti in-contri non solo con animali, ma anche con qualchepersonaggio al limite tra il diavolo e un fantasma.

Per fortuna avevamo già oltrepassato la Pintura,una piccola edicola con una immagine della Madon-na, dove, volendo, la notte, a mezzanotte in punto,chiunque avrebbe potuto incontrare un terribile spi-rito che, se affrontato con coraggio, gli avrebbe con-segnato uno splendido tesoro.

Eravamo giunti oramai sotto il poggio di Centa-re, un paesino con poche case che, oggi lo so, è statoun “castelliere” eneolitico a guardia della strada chestavamo percorrendo. Lasciammo l’invito per il par-roco, che non era in sede, chiedendo di far conoscerealla famiglia l’eventuale conferma in tempi brevi.

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L’uffizio – oggi non so se questa usanza è anco-ra praticata – consisteva in una serie di messe che sicelebravano in occasione di un anniversario di mortein favore di quel defunto e degli altri della famiglia.I sacerdoti che, in quei luoghi e in quel tempo eranopoverissimi, ricevevano un piccolo compenso in de-naro e godevano di una buona colazione oltre ad unottimo pranzo a loro soli riservato. Giungevano inbicicletta o accompagnati da qualcuno con il calesse.

Dopo Centare continuammo la discesa fino aValsantangelo, un bel paesino disteso sul luogo piùassolato della valle. C’erano alcune persone che as-sistevano ad una partita di bocce tra anziani e la soli-ta gazzarra di ragazzini di tutte le età; galline e ocheun po’ dappertutto. Vicino alla strada scorreva unfiumicello che distanziava da questa un grande pratofrequentato da mucche e da cavalli in libertà.

Il parroco, che aveva già vinto la sua partita,stava finendo di bere il premio della vittoria, un bic-chiere di vino con l’aggiunta di gazzosa. Ci accolsesorridendo e si informò sul giorno e sull’ora dell’uf-fizio dichiarando di partecipare volentieri. Ad alcunemie parole, che facevano trasparire molti timori peril ritorno, da fare quasi tutto a piedi spingendo le pe-santi biciclette proprio nell’ora che chiude il giornoe apre al buio della sera, mi guardò maliziosamentee mi raccontò che in quel paesino lassù, Nocecchia –

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me lo indicò con la mano – ormai del tutto disabita-to, le campane suonavano spesso senza che nessunotirasse le corde.

Solo l’abbaiare dei cani si mostrò poco rassicu-rante, durante il ritorno, ogni volta che si passava vi-cino a luoghi da loro guardati, mentre la stanchezzaci attanagliava soprattutto per la tensione legata al-l’ora e ai luoghi.

Oggi la vecchia via è stata abbandonata. La sivede ancora snodarsi tra gli alberi ed i cespugli conquell’aspetto antico che esprime tutto il suo caratte-re quelle volte che qualche gregge o qualche armen-to la percorre. La sostituisce una bella strada asfalta-ta che sale e scende ondeggiando per la valle e che,per molti tratti, segue l’antico tracciato. Ho saputo,di recente, che era un diverticolo della Flaminia edho visitato il ponte romano costruito al suo servizioper superare quel fiume che, a Valsantangelo, eraappena un fiumicello lungo la strada.

Sul monte Perfoglio, a mezza costa, più o menoall’altezza del ponte romano si può salire al “Romi-torio dei Santi”, un antico santuario terapeutico del-l’età del bronzo divenuto santuario longobardo di S.Michele Arcangelo, poi declassato a semplice romi-torio.Chi ha occhi adatti può vedere, vagare qua e là inquesti luoghi, trasparenti figure, testimoni di quelle

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genti che li hanno frequentati, quelle che hanno la-sciato, ancora visibili, i segni del loro antico agire.

CARDI

poibalzammo di qua della foresta- scuoteva il ventola capanna di frasche, le rovine, gli specchidivenuti carne. Lontanoe intorno (vicinissimointorno) ovunqueun accenno di terrasentiva il respiro del solesi apriva al travaglio.

Gli angoli, gli schiantile figure erose,fantasmi imputriditi –furono gridanelle notti. Ci scorseun lume tardo nei fossinon più inermi tra i rovi- volammosulla patina d’erbeladri dovunque

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di sensi acerbi e di ore,di noi medesimi, del nuovointraveduto appena;un confine crollava.

Nella scuola gremitagiacque la goffa sembianza –i giorni di fuoco nello spasimoscuro degli archicorrevano mobili d’ombresui vetri socchiusi – mutavacolore la stanza ed i fogli.

Crepitò un riso nuovos’inanellò sui ramipallidi di carne fuggìin lampi d’ali tornò- flottava sull’orlo di argini giallicon acqua di neve.

Lenta affioravada accumuli spentiun’immagine nuova(erano i giorni di Pasqualuminosi di venti)una memoria verde- sorgiva

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impetuosamente nuova.Ci colse inveceognuno a sé ignoto,un margine di cardia prima estate.

L’autunno è una stagione intima e dolce. A Di-gnano è forse un po’ più aspra. Ma le diverse speciedi alberi danno fantastiche sfumature di colori, dalmarrone al rosso al giallo. A volte, per un freddo im-provviso e senza vento, si vedono, specie lungo lestrade, macchie di foglie sotto ogni albero che for-mano chiazze nei diversi colori di una entusiasman-te tavolozza. Oppure in un turbine di vento sembrache il cielo si riempia di enormi farfalle. Negli ortispiccano le dalie, enormi, e i crisantemi; comincianoa vedersi alle finestre e sui muri della cascine mazzidi granoturco a seccare. All’alba si sente a volte ilgrido delle anatre di passo. In paese arrivano treggiedi frasche e di legna per l’inverno.

Aumentavano i giorni di nebbia trasformando icolori del paesaggio in bianchi e neri. Le voci e i ru-mori arrivavano da lontano, faticando; dai vaporisbucavano d’incanto le cornacchie, il fumo ristagna-va e l’odore acre per l’umidità galleggiava tra lecase. Poi, all’improvviso, col vento, il sole; e fanta-smi di nebbia che vagavano qua e là impigliandosi

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ai rovi o salivano lentamente sui crinali ancora bui.Gli alberi, gli stecchi mostravano gocce lucenti del-l’umidità trattenuta. Le pecore si allontanavanosempre di meno; pioveva spesso e si raccoglievanole ultime patate; venivano conservate in grandi muc-chi, in locali freschi, sperando di venderne una par-te.

Noi ragazzi costruimmo un bel capanno di fra-sche e di “scarza”, (erba palustre) da usare con at-tenzione perché molto tagliente. Lo frequentavamocome rifugio.

Cadde la prima neve. Sparì subito. E venne iltempo della sgranatura del granturco. Ci si riunivain molti nella “trasana” della zia in circolo, ciascunomunito di un cesto e di uno zeppo con cui si toglie-va la prima fila longitudinale di grani; poi si conti-nuava a mano. La luce era fioca e si raccontavanostorie di “mazzamurelli”, spiritelli che bussavanosui muri, per mettere paura ai bambini. E si spette-golava.

LA VEGLIA

Il vento accatasta la nottesulle case

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(appena più opache del cielo).Le donne nella trasanasgranano il granoturcosottouna oscillante lampada da trenta.All’improvviso si spengono le voci.Veloce sincronia di movimenti.Agli angolisiepi di silenzio.Chi trema?

Respiro di un rosario giallo.L’AIA

L’aia umida –l’autunno –le pietre lucide tra il fango –il carro rossodalle grandi ruote –gli aratri prontiappoggiati ai muri –le anatre in fila ciabattando.

I calzoni

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più corti ormainell’ultima giornatadi vacanza –le gambe bruneabituatea lunghe corse –le braccia adusea tirar sassied i capellirasati da poco

già le quaglie sono andate –e le tortore –e le rondini –e fra pocoil passo dei colombi –le beccacce

un muggito dalla stalla –uno scampanare di pecore lontane –il cane che si scrollal’acqua di dosso –le galline sparse intente a becchettare –e quei colombidalle penne gonfie

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bianchi sul tetto.…………………………

L’inverno venne all’improvviso. Cominciò anevicare, caddero le ultime foglie, ma non quelledelle querce; calò un grande silenzio. Il biancore fil-trava di notte dagli scuri delle finestre. Si viveva dipiù in casa, vicino al grande camino; dopo cena si“diceva” il rosario. Le donne facevano la calza orammendavano. Mia madre era molto preoccupataperché non eravamo attrezzati per quel freddo e per-ché avremmo perso un anno di scuola.

Nel pomeriggio ci faceva studiare la maestraAgar, dopo aver finito le lezioni regolari ai bambinidelle elementari. Mio padre ci aiutava con il latino.Allora il latino si studiava già in prima media.

Poiché non ci rendevamo conto perfettamentedella tensione dei grandi per la guerra, riuscivamospesso a prendere sgridate o ceffoni per le nostremarachelle durante le lezioni o il rosario.Nevicava ad intervalli, a volte con bufere di vento. Icugini avevano gli sci; in più c’erano gli slittini con iquali avevamo corso, d’estate, sui crinali dei prati.Nelle belle giornate giocavamo sulla neve. Mio fra-tello ed io non avevamo scarpe adatte (avevamo soloil bagaglio estivo) e usavamo gli zoccoli.

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FUNERALE D’INVERNO

Di antiche vesti oscure serrate al ventolenta una schiera si dilungaobliquaverso il cimitero –

traccia penando la nevein colori di scorze umidenere, di terra arata, di verdecupo di fascine.Dignano sul fondomostra un profilo scurocome a lutto mitigato appenadal biancore dei tetti.

Da qui, attraversol’arco di un curvoramo di spinorosso di bacche pare la fotodi un tempo trascorso.Buie ali di corvicontro l’impasto di biacca

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tracciano ora improntetra terra e cielo; il giornolento declina.

La sera della vigilia della befana c’erano moltipreparativi in cucina. Le mamme e le cugine grandiaffaccendate. Odori nuovi e allettanti ma era proibi-to entrare.

Papà stava provando a distillare la grappa concerti alambicchi che aveva trovato in soffitta ed eratutto preso. Imperversava la bufera. Bussarono allaporta e si presentarono due carabinieri. Ci fu untrambusto improvviso per far sparire gli alambicchi;ci furono anche scottature. La distillazione senza au-torizzazione era, infatti, punita. Ma quei carabinierifurono i primi partigiani che si videro in paese.

Poi ne vennero molti altri; Adriano e Jack, daFoligno. Jack era ospitato da noi con altri che anda-vano e venivano. In altre case erano alloggiati altriragazzi. Con loro facemmo subito amicizia; eranomolto giovani e pieni di vita. Giocando, Adrianoscivolò sul ghiaccio e si fece male ad un ginocchiotanto da non poter camminare speditamente. Intornoa loro gironzolavano alcune ragazze. Noi comincia-vamo a capire perché.

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COME SABBIA

Non sembrava potesse la Befana venire quel giorno di neve orizzontaleper il vento che bruciava viso egambe nei calzoni corti e zoccolidi neve. Un inverno profondodi luci labili, di letti abbandonati.Di notti nude di bengala, di scoppie martellare di mitraglia. Ma vennela Befana nel lampo del camino,nel rombo del vento sopra i vetri -e neve come sabbia. I gelonibruciavano nel letto. Fu l’ultima.Crescemmo all’improvviso. Erano le voci sommesse al piano terra, un insolito fuoco e misti odoridi vino e miele. Poi venne il tempo di Branco e Marco, occhi bruciatisotto il sole di Castello, di Jack eAdriano fucilati a Cesi - tempodi amici più grandi deportati.Ci ritrovammo a primavera cheportavamo ragazze nei pagliaicon l’ansia che forse vedevamodi piante e animali. Avevamocalzoni corti e zoccoli di neve

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dodici anni ed occhi ancora di bambini.

A volte si sentiva rumore di aerei in ricognizio-ne. Ne avevo molta paura. In seguito, nei giornichiari, cominciammo a vedere verso Colfiorito pic-cole nuvole in cielo e sentire cupi rumori da quellaparte. Era la contraerea che tentava di contrastare gliaerei da bombardamento. Foligno fu colpita più vol-te.

Cominciarono poi strani voli di aerei che scen-devano sul Piano a controllare la statale e spessomitragliavano anche i carri con i buoi. Una volta fusorpreso anche mio padre che dovette ripararsi sottouna quercia. E sotto una grande quercia mi riparaianch’io una volta che due aerei si combattevano so-pra di noi. Erano una “cicogna” tedesca e un aereoinglese. Cadevano bossoli da tutte le parti. Ero ter-rorizzato.

…………………………………………………

Una notizia passò di bocca in bocca tra i grandi:c’era stata una sparatoria in un paese vicino ed era-no morti otto fascisti. Tutti erano molto preoccupati.Non tardò molto infatti la rappresaglia.

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La mattina del 14 marzo, molto presto, una vocechiamò i partigiani e li invitò a nascondersi. Tutti sialzarono immediatamente e si misero in allarme.Era cominciato un rastrellamento. Arrivarono moltitedeschi, presero tutti gli uomini che trovarono,compreso mio padre e mio cugino Giovanni; razzia-rono tutto quello che trovarono da mangiare e dabere, compreso il poco distillato che papà era riusci-to a fare. Battevano i muri delle case per sentirne ivuoti. Da noi erano riempiti di grano. Mio padre emio cugino furono messi in piedi contro un murocon una mitragliatrice di fronte. Per fortuna quei te-deschi non erano SS ma un battaglione di sanità. Ilcomandante vide mia madre svenire e liberò mio pa-dre e mio cugino. Gli altri furono costretti a portarebagagli e munizioni fino ad un paese vicino, Cesi.

Intanto, Marco e Branco, due ragazzi montene-grini che pure abitavano in paese, furono individuatida una squadra di fascisti e combatterono fino ad es-sere uccisi. Adriano camminava male, Jack gli stavavicino. Li presero e li portarono a Cesi. Là avevanocondotto anche un pastorello trovato in montagna eun altro ragazzo che dormiva in canonica. Non loconoscevo.

Li interrogarono i fascisti con quei modi che siconoscono, li processarono sommariamente e li fu-

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cilarono. Erano innocenti, ma vendetta era stata fat-ta.

Il giorno dopo mio padre e mio cugino si rifu-giarono in un paesino inaccessibile, Collattoni.

Vennero altri tedeschi, altre volte, e in una diqueste presero Primo che era appena tornato e loportarono via. Starà un anno in un campo di concen-tramento in Germania.

Poi si stabilì a Dignano un’unità autonoma tede-sca. Credo che avesse il compito di tutelare una se-rie di attrezzature che avevano portato e nascostosotto la doppia fila di alberi della strada per Borgo.La notte, aerei inglesi li cercavano lanciando benga-la. Poi, un giorno, se ne andarono. Lanciarono bom-be incendiarie sui campi di grano di Santo Martino;il grano era ancora verde e non bruciò.

14 MARZO 1944

Cantala mortelieveavanzandoper i campibiondacogliendo

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le prime corollefrementi nel sole.Taceimprovvisadi frontea quel muroa quegli occhiventenni.Poiscrolla la testasorride tende la mano.Nello scroscio dei mitrase ne vannocantandoi quattrocon leisull’ondadel soleper i pratidi Cesi.Rossauna rosasul grigiosbrecciatodel muro.

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COLLE DELL’ARCA

Più fondo l’occhio dei crochisulle anse sfiancate dal soledove il passo innevato abbandonasfatte le impronte- il frastuono di gemmesulle cime ventose dei pioppie il lento schioccaredei dodici cerri muratisul Colle dell’Arca.

Uno strato di asfalto separala mia strada di terralungo un muro nuovoe pedule dai gelidi zoccoli -ma là come allora tra le schiene dei colliè l’ultima neve ferita di ormeverde rovente a chiamarecon bagliori insepolti.

Chi ebbe coraggio andò- c’erano donne soltantoe bambini - e conobbe quei passiconficcati nel gelo assordantisull’ultima chiazzatenuta dall’ombra

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- strisciava la gamba feritadi Adriano vicino le impronte di Jack.

Poi furono i rovi a gridaredi foglie gli uccelli a impazzirepoi l’occhio nuovo del granoe la memoria morire dei cerrigrandinando di verde.

Portava già il vento parole nuovepiegando le cime dei pioppie correva più avanti nel nordsui giunchi dell’Arno più oltresulle piane già verdi vicineal muro di selve dell’Alpe

più ancora – ma prima fu un ventoaspro di rocce sull’ansimaree gelido – una bava appenaodorava di mare – inavvertita.

Nel prossimo racconto, la figura di una persona di Dignano il cui ricordo mi torna volentieri alla mente.

NELLO

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Portava un nome, Nello, che sembrava il fram-mento di uno più lungo e, nel contempo, aveva lecaratteristiche di un diminutivo e di un vezzeggiati-vo. Ma tutti lo consideravano normale e completo alpunto che probabilmente tale e quale risultava neidocumenti ufficiali. E poi, non era nemmeno stram-palato come Firmato o Ferito o, per le ragazze, comeTrieste, Gorizia o Littoria le cui origini risalivano al-l’epopea garibaldina, alla vittoriosa prima guerramondiale o, infine, all’onomastica fascista.

Ecco Nello; ecco le pecore di Nello. Normaliesclamazioni o affermazioni. Come normale era ilgregge, dimensionato alle sue possibilità e alla suafamiglia. Una cinquantina di animali che custodivapersonalmente. La mattina, nemmeno tanto presto, liconduceva al pascolo e restava fuori tutto il giorno.Al rientro, la sera, provvedeva alla mungitura e con-segnava alle donne di casa il latte perché ne facesse-ro formaggio e ricotta.

Nelle sere d’estate, dopo essersi lavato e sbarba-to, sedeva su una trave rialzata da due pietre, chefungeva da sedile, appoggiata al muro di casa parte-cipando alla vita di quella porzione di paese con unfare bonario tra l’allegro e il triste; il suo essere in-terno ed esterno. Pur col passare degli anni il suoaspetto è rimasto quasi identico a quello del periodo

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nel quale l’ho conosciuto: intorno ai quarant’anni.Ma non era stato fortunato con il corpo. La sua al-tezza era condizionata dalla curvatura della colonnavertebrale che lo aveva reso gobbo e gli aveva cau-sato anche una deformazione del torace nella parteanteriore. Vestiva decorosamente sui toni del grigio,la camicia in genere a quadretti sul nero o sul blu;portava gambali di cuoio nero come gli scarponi eun berretto chiaro con la visiera stretta con un botto-ne sul tipo di quelli che usavano i giocatori di golf.Quando minacciava pioggia, aggiungeva al suo ab-bigliamento un impermeabile a mantella che tenevaarrotolato e lo portava a tracolla allo stesso modo incui i soldati della prima guerra mondiale portavanole coperte. A tracolla, sull’altra spalla, collocava ungrande ombrello blu, dal grande scheletro di legno,legato con uno spago.

Spesso, quando sedeva davanti casa, decoravabastoncelli di nocciolo intagliandoli con un coltello.Quei decori, ora ricordo, richiamavano quelli che sipossono osservare sulle scure ceramiche delle anti-che popolazioni della cultura appenninica.

Altre volte tornava con bastoncelli già realizzatie noi facevamo a gara per averli o per ricevere lapromessa di averne il giorno dopo. Verso la fine del-l’estate ci portava cornioli, noccioli o dei frutticini

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bluastri, della famiglia delle prugne, che raccoglievanei boschi.

Nella comunità aveva una posizione di affettuo-so rispetto e ne era un membro autorevole. Facevavalere la sua esperienza nelle occasioni in cui si do-veva procedere alla divisione dei boschi della comu-nità e alla distribuzione ai singoli membri come con-tributo al riscaldamento invernale. Spesso fungevada arbitro nelle “partite” di bocce che si svolgevano,la domenica pomeriggio, lungo la strada sterrata die-tro la chiesa nelle vicinanze del dopolavoro dove sivendeva di tutto, ma soprattutto vino. Questo, me-scolato alla gassosa, costituiva il premio di una vit-toria alle bocce o a carte. Le partite a tressette, a sco-pone o a “qintiglio”, che si giocavano nel locale era-no seguite da gruppetti di spettatori intorno ai tavolie ad essi si chiedeva, alla fine, un giudizio sull’ope-rato dei giocatori, sulle giocate o, in certi casi, dimoderare le contestazioni. Spesso si udiva la voce,leggermente caprina, di Nello in queste confuse riu-nioni dove il riso e lo sfottò erano usuali.

Certo, Nello, noi e il paese eravamo consapevolidella sua figura fisica, ma questa non aveva rilevan-za diversa da quella di avere i capelli neri o biondi,di essere alti o bassi, grassi o magri.

Una mattina, invece, si mostrò in tutta la suaevidenza. Ogni convenzione affettuosa o amicale

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scomparve, fu considerato brutalmente per il suoaspetto fisico.

Era giunto in paese un reparto di soldati tede-schi per razziare uomini, con una operazione im-provvisa.

Il comandante e alcuni sottoposti avevano occu-pato la sala della nostra casa. Alcuni di noi ragazzistavamo a guardarli un po’ in disparte, impressiona-ti dal loro modo di fare così rude e dalla loro incom-prensibile lingua. Ad un certo momento si sentì untrambusto, uno stridio di scarpe chiodate e apparveNello, trascinato da due soldati. Alla domanda in-comprensibile di uno di essi rispose la risata del co-mandante e dei suoi sottoposti accompagnata da ge-sti inequivocabili sul fisico di Nello. Fu rilasciato.Non ho mai più sentito, come allora, salirmi finoagli occhi e alle orecchie una rabbia così immediatae violenta da non riuscire a respirare insieme a ronziinelle orecchie e a lampi negli occhi. Non avevo maivisto Nello così confuso, avvilito, con un rossore inviso che copriva il colorito olivastro del sole e del-l’aria aperta. Una scena che non dimenticherò mai.

Il giorno dopo Nello era di nuovo la persona checonoscevamo. Ma ora so della notte prima, quandoconobbe prepotente l’invidia per il corpo degli altri,per la normalità degli altri. Uomini e ragazzi eranostati presi dai tedeschi e portati via, lui no, perché

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era così. Un giorno sarebbero tornati, lui, invece, ri-maneva. Le mogli e le ragazze sarebbero accorse ariceverli e ad abbracciarli, ad innamorarsene o ad in-namorarsene di nuovo; lui, che era rimasto, sarebbestato considerato come sempre, trattato gentilmente,con gentile comprensione. Adesso capiva. Adessocapiva che non si può essere al di fuori del proprioaspetto corporeo perché il nostro corpo è noi stessi ein tale insieme si realizza la nostra esistenza.

Dopo la guerra ho passato ancora estati in queiluoghi. Nello manteneva sostanzialmente immutatol’aspetto e l’apparente età di quando l’avevo cono-sciuto.

Quando, alla sera, giocavamo a nascondino nel-la grande aia, rimaneva seduto davanti alla sua casaa guardare e forse pensava alla facilità con cui ra-gazzi e ragazze si incontravano e, magari si nascon-devano insieme nel buio della sera.

Quando questo gioco, passate molte estati, lo fa-cevamo ancora, stava sempre seduto in quel suo se-dile con quel sorriso benevolo e triste, a volte mali-zioso, nel quale si sarebbe potuto intravedere una di-mensione mancata e, insieme, una possibilità negatae un desiderio dimezzato. Ne era spia la strizzatinad’occhio con cui, a volte, accennava al tuo rapportocon una ragazza; o, forse, aveva quasi il senso di unmandato a fare ciò che la sua dimensione psicologi-

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ca e il suo fisico gli impedivano. L’educazione all’a-spetto spirituale della vita piuttosto che alla corpo-reità, di cui è stata infarcita la nostra e la sua educa-zione, non gli impedivano, tuttavia, di percepirel’importanza della fisicità per raggiungere i piaceried i successi della vita.

Nello era l’unico maschio della famiglia. A luifacevano riferimento la madre, vedova, le sorelle e,perfino, l’austera nonna. Era capo della sua famiglia.Svolgeva il suo lavoro di pastore, quasi obbligatodal fisico, con dignità e con sapienza. Anche quandosono arrivati i cognati, uomini forti e lavoratori, nonè mai venuta meno la sua funzione di capo di quellafamiglia riunita nella sua casa.

Col tempo, ho passato le estati in paesi diversi.Le notizie di questo mi sono giunte a frammenti econ ritardo. Una di queste riguardò Nello che nonaveva resistito ad una malattia che lo aveva colpitoai polmoni, già compromessi dalla sua struttura fisi-ca.

E’ primavera

Si falciava il fieno. Grosse sterze arrivavano ca-riche e si riempivano le cascine o si formavano i pa-gliai. Era un giugno dolce e luminoso, pieno di cantidi uccelli e di voli. Tutto sembrava bellissimo. Ci si

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sentiva un po’ convalescenti e si attendevano notiziesulla guerra.

Un giorno si sentì sparare il cannone da dietroColfiorito verso un bersaglio dietro Serravalle delChienti. Durò una mattinata. Poi vedemmo una stra-na automobile salire sul Monte Castello. Erano i pri-mi americani.

Cominciarono a tornare i partigiani, a racconta-re e a ringraziare. Vennero anche le madri di Adria-no e di Jack a riprenderne i corpi. Li seppellirononelle loro tombe a Foligno.

La guerra lasciò altri segni. Un pastorello, giù alPiano, trovò uno strano barattolo, lo aprì e fu am-mazzato dalla bomba. Uno di un paese vicino cheaveva salvato per miracolo la propria motociclettasaltò in aria con quella su una mina, dopo Serravalle,al bivio con Camerino.

Noi trovammo solo proiettili; li smontammo eavemmo fortuna.

SOTTO IL MURO DI CESI

Venne la madre a riprendere Adriano –vennerola sorella e la madre

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a portarsi via Jack –venneroa gruppi i compagni –il fronte era più a nord.

Rimaseronel Cimitero di Cesiil pastore fanciulloe lo strano ragazzoche dormiva in canonica –per loronon venne nessuno.

Gli uccelliche giunsero da lontanoil verde nuovogli occhi del granovidero le ali spezzatein un cumulo azzurrosotto il muro di Cesi –e quattro rose scarlattesulle pietresbrecciate dal mitra quel giornoquattordici marzomillenovecentoquarantaquattro.

Poi, tutto

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coprirono i rovie le stagioni opulente.Ma tutti scoprimmoun segno di pietraa strapiombo sul cuoreche spargeva silenziosul clamore degli anniche vennero dopo –che vengono ancora –una pietrasul rumore dell’erba –che dicevamo dell’erbanel vento.

Il grano spandeva dovunque il suo giallo. Tuttii campi rilucevano; più chiari quelli a “romanella”,rossicci quelli a “zucco”. I prati e i seminati ad erbaerano nei verdi più intensi. Le querce facevano oracadere le vecchie foglie e mostravano, verde tenero,quelle nuove.

……………………………

Quei giorni furono molto importanti per me; co-nobbi, infatti, i misteri della vita. Vidi una pecorapartorire, e l’altra metà dell’enigma fu sciolta qual-

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che giorno dopo, quando fui invitato da un coetaneoad accompagnarlo a portare una vacca alla stazionedi monta di Taverne. Così mi trovai preparato quelgiorno che, nel nostro capanno, alcune ragazzine michiesero se volevo vedere come erano fatte, a pattodi far vedere loro come ero fatto io. L’affare fu con-cluso. Cominciò da allora una strana attrazione perle ragazzine che prima non avevo; un piacere a farequei giochi. Più di qualcuna voleva farlo. Così ci ar-ricchimmo di esperienze tattili e visive fino al gior-no in cui una di loro, un po’ più grandicella di me,mi invitò in una cascina a farlo come gli adulti. Inpiedi. Dovetti salire sopra un secchio capovolto per-ché ero troppo piccolo.

SEGNI DI CANNE CONTROLUCE

I resti di un cannetolungo la strada nuovacontroluce -neri segnimonchi pestatiobliquied erbecontinuamente scossidal vento delle auto.

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Immaginedi antica armatain fugasotto il fuoco dell’estate.Un girasolepiù avanticarico di semisolotra ciuffi distrofici di piantee scorie non raccolte di cantiere.

Percorro una stradaimprovvisamente veloceche s’apredivaricando cumuli di annifino allo spiazzo cieco tra le stallee i magazzini del fieno.

Tu eri là cresciuta più di noicarica di semi spigolosanel vestito corto scalza.Rigogliosa selvaggia sola.

Che gioco strano quel giornodi rabbia e di languore –spietato e proibito,io ragazzo appena e tu

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solo qualche anno più di me.C’erano intorno i resti dei bivacchii morti ancora caldigli uomini sui montiquando la filadei carri con le prederiportava gli ultimi soldatiai lontani paesie le ferite e gli sciancatie quei canti lentia voce bassa nel silenzio.

Periferiadi case nuove e stradelucide d’asfaltoche lasci spazi ad erbee canne semidistruttequando sarai giardini?

MELISENDA

L’ora che cade sui groviglicon frastuono di voci e sui bastionifrana in grappoli di scheggetorna nel livore delle torrisulla indifesa nudità della finestra.

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Come un’arma dal chiusocarcere di olmi piegala fiamma quell’ alito di carneil chiarore soffuso dell’iconamormora ancora sulla polpadi tempo impallidito.

E’ qui quel tuo fragoresul muro rapido dei voltiqui sugli scoscesi tendinidi un grido sui frammentidi un sole appena conosciuto –nudità remota giorniabbandonati che un lungopendolo di anni accendenel chiuso continente del tuo nome.

Nel vento cucito sulle frattenei capelli che ardevano sui pratinel riso del tuo sguardo eraun tempo d’estate una precocesponda di stagione eral’impubere luna dei corpii nostri dipanati al giorno.

Le selve e i giunchi delle forre

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videro l’ali e l’ombralucida dei faggi la curvacomplicità dei volti -furono conche di spazi acerbiforarono i tempi e il graduatoascendere dei piani – a serasvegliava mostri il canto dell’assioloe la campana.

Furonolampi ancora sui pantanidi un cielo velocissimoe fragore d’erbe a illuminareil Piano quando un turbinespartì quel giorno – polverosacittà scendeva nelle goredi spenti spazi – bruciaval’occhio il bianco della strada –un’ombra nell’auto lontanacome imprigionata.

LA VIA DEI GIORNI

(In ricordo di Ruggero)

La selva inginocchiata sulle biadecela la via dei giorniche già corremmo confine esiguo

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di passi nudi. Crudi l’infanziae i giochi segnarono le membracupi più tardi gli occhi. Tocchinel cuore immobile la ruotaormai da tempo e sull’estremoraggio noi forse riodi se puoidal leggio degli anni conoscere la voce.

Impallidiva il cielo sopra Naledal bozzolo di brume quandola porta sui ricordi ultimo chiudestidei tanti già discesi per la strada biancacome un tempo le greggi verso Roma.Assioma di sempre la stancavia della speranza labile lemboper chi trattiene all’ombra della menteil trasmigrare antico e al lumedi veglie oscure riode la faticae gli scampati e tocca già con manola densa mescola di ventoche i campi fragili percuotee i lacci e i nodi sull’uscio delle case.

Lo zolfo che intride stasera la finestrami vede curvo sopra i libri manon posso esprimere i miei versi –il rosso cespo del tuo volto

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scuote i bersagli agri degli ortiil clamore dei campi di granturcodove l’assenza dal nugolo di audaciera la tua presenza gracile, matura.Ora che in qualche modo riapri le frontieredi un tempo che strugge queste serespalancate sui volti di Dignanonon ho ricordi di te se non quel chiusomordere la mente quel rovistare asprodi là delle precoci nuvole di fumo.

Non parlasti mai dei tuoi fantasmidel denso torbidore che andavi dipanando.Quando ti rividi eri asfaltistabrunito dal fumo e dai vapori – fuorinon eri nulla di diverso –dal cespo delle ciglia un magrolampo verde grigio e una poltigliadi borgata irredenta di faticadi grida nel silenzio e ancoraquel guizzo dolce di ironiaspaccato dalla tosse.

Dignano è molto più di queste poche cose. Nonpuò essere un racconto. E’ stato ed è il luogo doveaffondano le radici dei miei sentimenti e dei miei

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pensieri primordiali. La pianta ha avuto altri cieli;ma qui ha avuto ed ha nutrimento.

La prossima poesia si riferisce al terremoto del1997 che ha distrutto molte delle quinte di pietra chehanno sempre sorretto le immagini dei miei ricordi.

27 SETTEMBRE 1997

Quanto di te bruciavacol nitido candore delle pietrel’incrocio verde cupodi Castello e Nale – il tuoprofilo antico – più non appare.Non oso avvicinarmi - cosa di terimane?Il ventoha mutato il sibilo oramaie le ombre dilagano sui vuotiove prima battevano di rami quasi a scrostare la calcinae i basoli dei muri – doveandremo ora correndofanciulli per le strade le greggialla sera le voci impalliditeal grido perentorio della civetta?

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Dove saranno i giochi le speranzele scorciatoie furtive gli appartati vicoli la sera?

E giàsopra i rami del cieloil giorno si autunna e accendele lampade dei campi, le lucidelle tende – salgono fumidalle cucine comuni. Di nuovotutto sarà – di nuovo con questa data inscritta – altre già scosseo già divelte o seppellite, intime alle pietre saranno ancora –finché ha senso ancora –sulle ciglia arse.

Così noiche già lontani lasciamo correregiovani i ricordi e qui diversi,o forse uguali come tu sarai,di pozzo in pozzo proseguiamo.

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USSITA

A Tempori, nel 1970, ho riattato per le vacanzedella mia famiglia una piccola casa dei nonni. Da al-lora, ogni anno vi abbiamo trascorso i nostri periodidi riposo.

USSITA

Scossa terra, ribolli dei tuoi montidegli aceri accesi dei greggi sulle spondedei fossi carichi di uccelli e grezzastoria traduci dalle forme aspre di pietradei borghi sparsi. Sgronda l’immensamole di foglie nel repentino transitoall’inverno e sbianchi e torcinell’incubo di neve. Scavate immensitàemergono dall’ombra nel disegnoselvaggio del tuo volto quandol’inverno s’apre e la memoria cerca.

Tu non muti risorgi. Nessunonessun frammento di te tu stessanon sai se non la bianca folgore del vento

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poi che l’autunno agro di uve crolla:contro è l’ignoto e la speranza. Questache non ancora tattile spandevagià nell’acuto tempo della menteora è te emersa dall’umido spessoredella morte nella festosa immagineche noi chiamiamo estate.

Di gradoin grado le tue torte valli apronoi fianchi al cielo e nei segretivicoli di rocce effimera vita si scomponefino agli ultimi licheni. Questodi te conosco, villeggiante del tuosplendore, ma tu di me non saiche nebbie porto che grovigli all’aspraicona della tua salvezza.

La mia casa domina la valle del fiume e il cen-tro del paese. Nel giardino attuale sono ancora un al-bero di noci, un cotogno e i lillà che ha piantato ilnonno. Anche per ciò sento un sottile legame conquesto spicchio di terra che, per di più, ha di fronte,dall’altra parte della valle, il cimitero di Castelmura-to, dove i miei sono sepolti.

E’ una vicinanza-lontananza con accenni im-provvisi ad un vissuto qui, su questa sponda dove

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molto rimane, insieme al ricordo di quegli anni pas-sati. Resta intatto quell’abisso d’aria sopra la valledove galleggiano le rondini, dove lentamente siinerpica il fumo dal fondo o la nebbia; di tanto intanto è attraversato dal suono delle campane o davoci lontane; a sera dai lumi che segnano la geogra-fia dei borghi.

Monte Bove, di fronte, riporta gli umori deltempo, a volte anticipandoli. Al tramonto c’è spessoun raggio di sole a regalargli un colore. Ma certesere, riesce a diventare di un rosa così intenso da la-sciare incantati. Quando il cielo è sereno è cosa ditutti i giorni così come l’apparizione, nelle ultimeore del pomeriggio, sulla parete nord, de “l’alpini-sta”, una figura che si forma con le ombre delle roc-ce per la luce radente del sole. È perfettamente di-stinguibile, quasi l’impronta di profilo di un uomocon lo zaino e il bastone in un passo largo a salire.

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IL BALCONE SUL BORGO (Tempori)

Alto sui colli aspri un filomarca l’anello lucido serratodal nodo delle nuvole - fremenel giro acre dei fumiun brivido d’aria - smuoreuna voce tra le case -si accende un lume.

Tu siedi con me su questo spronealto sul borgo. Qui dove fuggeormai la sera fra le tramedegli aceri spogli l’ora che saleci strema dei corpi. Solorimane la vena che battenel tuo braccio e nel mioSiamo erba e vento e traccesul grigio estremo dei monti

CASTELMURATO

E’ un vento che viene da lontano -ne senti l’ala battere le selve esui crinali l’ombra delle nubi

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calpestare veloce gli sterpeti – l’erbasi tende e ondeggia – e lampa;qui si torcono i teli sui gazeboe i voli degli uccelli.

Come il tempo rapido su steliantichi di speranza, sui grani attesibattuti a gola aperta dalle rondini –la torre inabissata tra i cipressitiene ancora il campo – tu sai quantidi noi già sanno (ordinatinel carcere di terra) il vano fioriredi scossa in scossa e scenderee salire orlati di silenzio nel clamoresolitario delle strade – o le nottie forse le ore più benigne della lucesegnate dai passi attesi come nell’afail gocciolio di pioggia sopra i vetri.

Le ore e i giorni attorcigliati ai ramie tu ed io vestiti di ventoai piedi della torre che fronteggiaancora il tempo.

Le vette del Bove, la cima della Priora, del Ber-ro e di Monte Rotondo si aprono sui grandi spazidell’aquila e dei falchi; quando vi sali ne condividi

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la vista e l’aria che ha sapore di gelo e di erbe profu-matissime.

Sono monti di rocce e di prati. I boschi si ferma-no ad altitudini più basse, aperte qua e là, da pascoliche salgono fin quasi alle cime. Un giorno erano ilregno della pecora “sopravissana”. Anche adesso visi incontrano numerose le greggi che macchiano icrinali con il loro colore cremoso. In alto si sente ilvociare delle “ciaule”; all’improvviso può svolartidavanti un’allodola che si allontana con il suo voloondeggiante e il suo caratteristico canto. Di quandoin quando, altissima, l’aquila controlla il suo regno.

Se si sale sul monte Vettore la mattina presto, iPiani sono coperti di nebbia; ne emerge quasi sem-pre, come un’isola, il piccolo paese di Castelluccioche, tra quei vapori, pare incarnare un castello fata-to. A Forca Viola il continuo frusciare del vento ac-cenna ai giri vorticosi della terra. Ma quando il ven-to è forte si vedono le nuvole come arrotolarsi su sestesse per poi, in qualche modo, sparire. Col sole,mentre splende la seconda o la terza fioritura, negliimmensi spazi d’aria sopra i piani colorati di man-drie biancastre e di cavalli, volteggiano i deltaplanie i parapendio, grandi, coloratissimi uccelli.

Questi sono i luoghi della Sibilla. L’ingressodella grotta, ora diruta, si apre poco più in là sulmonte omonimo sopra la corona di rupi che lo con-

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clude. Da lì si scorge, verso il Vettore, il lago di Pi-lato. Non si può non pensare al Meschino e a tuttigli strani frequentatori di quei monti: a cominciareda Pilato, trascinato nel carro dai buoi impazziti finoa precipitarlo nel lago, per seguire con Cecco D’As-coli e gli altri negromanti del tempo; ma anche oraaltrettanti strani personaggi, si dice, si aggirano suqueste montagne. Un mondo cupo che contrasta conla bellezza del luogo. Così pure la figura della Sibil-la: una volta matriarca delle antiche genti di questiluoghi, poi, legata a quella cumana con il merito,perfino, di aver predetto la nascita di Cristo; infine,attraverso la tradizione tedesca, seduttrice di cava-lieri e di pastori ignari, come una novella Circe.

INCONTRO (Monti della Sibilla)

Il vento ripopola il tuo visodi lumi persi ed il rissosomoto dei capelli investe di falchiil cielo già dalla selva scosso

e dal velario roso delle nubi.Ridi e l’onda strappa l’ore

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dal carico del tempo. Di rocciain roccia attizzi le fornaci

di celati specchi ed il fragoredella residua neve lampasui nascondigli dell’aquilae l’assale. Tu non sei di qui

che la corrosa cremagliera dell’animadisponi per altri valichi, che di racemilucidi di enigmi dissemini le crete,non varcasti il limite del sogno –

sono io nel carcere di velidove ti incontro preso nel lacciodell’incauto arbitrio. Strugginelle gole di cavi astriogni parola al mio pensare – afonamente al limpidore di qui stentamemorie e cede. E’ una ringhieradi fiamme la tua mano. Ciò che di me rimane è senza scampo.

FORCA VIOLA

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Il solco nell’erba calpestatadigrada per l’erta- inaccessibilile radici del cielo;il ventoè il vorticare della terra.Antico - nuovo errarenella lontana fissità della vallata.Il sentiero tra le roccee i cespi di sagginain un’ombra di sole trasversale.Suoni di armenti(o eco?)nell’aria rarefatta - sapore di alti stratiche l’aquila conosce.

IN VAL DI PANICO

Cola silenzio dalle rupi lungo le diagonaliimmerse nella vallescivola dai ramiimmobili sui tronchifino all’erbaattraversata dagli sguardi

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di invisibili insetti.

Un trasmigrare di nuvole muove chiazze di sole sui crinalie le potenze sparsespecchianolampi improvvisi.

C’è attesa nella riva profonda –attesao destino?O vele erranti sui canalicomequesto latratolontano

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IL SENTIERO DEI MIETITORI

Sale di scaglia in scagliaal vertice aspro e si disperdetra rughe di colli il disusatosentiero folto di oscure schieredei migranti di luglio i mietitori.

La carne assolata che ora soggiace all’acuto duellare dei trattorie sulle stoppie ostenta geometrie di lucesi torceva allora tra le ditaguantate di canna nei ricamidi prese torte col differente andare nel cammino del giorno la fatica.

Ardeva di scorze la voce nei coricigolavano i carri sulle crepee sulle buie ali dei corviurlava l’aria nel carcere di sole.Nell’improvviso silenzio alla serarichiamava la quaglia i pulcininelle isole intatte e l’abbaiarerado dei cani apriva la notte.

Riconobbe il sentiero negli anniciascuno dal passo di polvere bianca

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dalle mozze parole alla fontenella pena dell’erta. Le falcibruciavano l’ombra. Davantila curva fatica dei giorninel graffio di schiene a ventaglionere sul grano. Il crepitiodelle stoppie e ciòche pareva canto.

Queste terre e questi monti furono frequentati intempi lontanissimi da pastori di quella civiltà chenoi chiamiamo “appenninica”. Nel racconto seguen-te tento l’immagine di un pastore di quindici secoliprima di Cristo, ora, per noi, appena un fantasma.

UN PASTORE

Nemmeno sui bordi lontani del cielo una stella:tutto aveva invaso la luna con il suo lume. Era là,profondissima, al centro dello spazio davanti a lui.La cominciò a guardare appoggiato al lungo bastonericurvo con cui guidava il gregge, posando il mentosulle mani strette a quel ponte tra terra e cielo. Tra-sparente e densa la figura sulla sommità del crinaled’erba proteso verso il mare, che ora era segnato da

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riflessi lucenti. Il vento, leggero, accendeva sul pra-to un granulare di lumi muovendo i cespi alti dell’er-ba come un animale che vi passasse correndo.

Stette così, in piedi, leggermente proteso inavanti; poi si rivolse alla dea della notte aprendo ap-pena le labbra. Ti saluto, Luna, che spartisci i mesi ei mesi delle donne; che componi gli anni salendo escendendo dalla primavera ai geli; che fai germinarei semi e favorisci i parti. In Te si cela il mistero delmorire e del rinascere. La tua luce dirada la notte ad-dolcendo le paure. A Te si rivolgono le donne, fem-mina del Sole, al tuo spirito di donna.

Anche io cerco Te e Tu lo sai, Madre di tutti.Venisti a me, allora, quando, poco più che fanciulloin questa terra lontana, seppi che mia madre non miavrebbe più accolto tra le sue braccia al ritorno conil gregge a fine maggio. Quante volte, nelle breviestati sui miei monti, mi sei venuta vicina, grandissi-ma, quasi a sfiorare quelle cime dove sono i nostrisantuari. Con Te resto in quella età bambina in cuimi hai offerto consolazione e amore. Ancora oggitorni spesso a cullare il mio spirito stanco. Tra pocoanch’io seguirò mia madre. Fa che avvenga nel miovillaggio tra i miei monti, lassù dove giacciono gliantenati presso i grandi santuari. Questa è, forse,l’ultima transumanza; poi il gregge tornerà alla co-munità ed io rimarrò, nei lunghi inverni, al tepore

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del fuoco nel villaggio. Là aspetterò con le donne, ibambini e con quei vecchi che con me furono fan-ciulli il tintinnio dei campani che annuncia il ritornodelle greggi e dell’estate. Ci saranno ancora raccon-ti e avventure, si mescoleranno ai nostri e si impri-meranno nella memoria dei fanciulli come guida.Tutto, infatti, si ripete nel circolare moto del tempodove ciò che sarà è solo ciò che è stato nell’ordinesacro delle stagioni e lungo gli anni. Abbassò gli oc-chi e tacque. Rivedeva, ora, i suoi anni fanciulli, lesere nella casa buia, quando il nonno, davanti al fuo-co, gli parlava della vita nelle terre della transuman-za, lontane, tanto lontane, e lo istruiva sulla sua futu-ra attività di pastore; sulla scelta dei capi da allevaree di quelli da vendere e da consumare; come si fa iltaglio delle code e quello delle corna; come difen-dersi dal lupo e dagli altri animali selvatici. La non-na passava il giorno al focolare, la madre e le sorellecon i fusi a torcere la lana, a tessere e a seguire i co-nigli e le galline. Rivede partire il padre; lo ricordaabbeverarsi, un’ultima volta, alla fonte gelida sullacurva del sentiero, salire l’erta tra la polvere e le fo-glie nel vento e, infine, sparire di là del valico doveil tratturo scende verso questa terra ricca d’erbe. Nericorda l’addio mentre si combattevano in lui senti-menti di dolore, di invidia, di orgoglio; poi il suoprimo partire, fanciullo, smanioso di avventure, ma

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sicuro, vicino ancora al padre con gli altri uominidel villaggio e le gare tra compagni per farsi valerenel lavoro. Quando partì da adulto, quella volta, sen-tiva ancora sulla pelle l’abbraccio della sua donnamentre la mano libera dal bastone stringeva il panenella sacca quasi a stritolarlo. E i giorni e le notticome questa per anni e anni.

Guardò di nuovo la luna e passò dalla preghieraal racconto, quasi cercando da lei approvazione.

Oggi c’è movimento nei nostri borghi; ce n’è daquando quei primi stranieri approdarono laggiù inquella cala dove accendi ora il tuo nome. Vennero alvillaggio carichi di doni per avere la nostra amicizia.Portavano metalli e un modo nuovo di lavorarli.Oggi vanno e vengono per i nostri sentieri traspor-tando i loro attrezzi. Si fermano nei villaggi, accen-dono i loro fuochi, battono, piegano, stendono, as-sottigliano metalli fino a farne lame per il farro e peril fieno; lance, zappe, punte di frecce. Hanno impa-rato presto la nostra lingua anche perché la loro nonera molto differente. Ma ci hanno portato anche pa-role nuove: per dire pecora peku, vak per dire muc-ca, lakt per latte e wlema per lana; per non parlare dimatereif e patereif per dire madre e padre.

Più tardi ne sono venuti altri con le loro fami-glie, per via di terra, da dietro le nostre montagne amezzogiorno. Molti di noi si sono uniti alle loro

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donne e così molte nostre donne ai loro uomini; ab-biamo allargato le mura dei villaggi e le palizzate;abbiamo dissodato nuovi campi ed aumentato il be-stiame. Sono molto più vivi i nostri villaggi, più si-curi e più forti, ed è bello viverci con tante persone etante cose da fare.

Restò pensoso indugiando con il pensiero qua elà sulle immagini della mente. Lo scosse un ululato,quello del lupo che aduna il branco. Si guardò intor-no e andò a controllare le pecore nel recinto. Anche icani, che erano rimasti in allerta, si scossero e gli sifecero incontro scodinzolando. Ogni tanto qualcunosi fermava annusando l’aria e ringhiava.

Si sentì solo all’improvviso, nonostante l’amici-zia dei cani. I due pastori che erano stati con lui permesi, si erano spostati in altri pascoli. Guardò il ca-panno e il recinto con le pecore. Erano stati costruititanti anni prima e ogni anno venivano riparati comei nidi delle rondini. L’anno scorso era stato rimessoa nuovo tutto. I resti del fuoco mandavano ancoradeboli lumi dalle pupille di brace. L’ululato si ripeté.Non ci fece caso e tornò ad appoggiarsi al suo basto-ne, quasi nello stesso punto, rivolto verso la luna.Era sceso, intanto, un grande silenzio. Si sentiva sol-tanto il fruscio dell’erba, lievissimo, e quello dellegemme appena aperte nei cespugli e negli alberi per-corsi dalla brezza che stava annunciando la primave-

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ra. Il grido di un gufo, che forse aveva conquistatouna preda, ruppe per un istante quel silenzio che ria-prì subito la sua enorme bocca muta. La luna calavae riapparivano le stelle lontane, punte di spillo nelbuio. Quando la luna scomparve, i lupi giunsero sulprato e lo attraversarono velocemente con quellaloro corsa caracollante. Li vide attraversare il capan-no, il recinto, passare sui residui del fuoco, spariretra l’erba alta.

L’alba si aprì, lontanissima, sul confine delmare come un leggero nastro sottile. Se ne accorseun grande uccello notturno che passò con un frusciofelpato di ali sull’asse del prato verso il suo rifugionel bosco.

Man mano il giorno. Brillavano le erbe intrise dirugiada mentre una nebbiolina lucente copriva ilmare; e la bucavano già i primi voli.

Il pastore allora si scosse, fece uscire il greggedal recinto e cominciò a guidare le pecore attorniatodai cani. Le loro figure si muovevano sul bordo delprato, tra terra e cielo, perdendo a poco a poco il co-lore, la densità. Le attraversavano i raggi del sole,ancora basso, la corposità dei cespugli e degli alberi,lo specchio del mare, il colore del giorno, degli infi-niti giorni, dei secoli.

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SIBILLINI

Nel crogiolodella valle di Pilatoqueste pietreossa della terracome i resti di un’ecatombe.Nell’ariatra i gridi delle ciaulela Sibillaè un vento che accarezza i suoi monti.Il lagoin fondopascola il cieloe aspetta.Solo d’estatequalcuno oltre le greggi.

IL TRATTURO ANTICO

Alti piani – lucilontane e lo spaccod’ombra della valle –grandi ghiaccilontanissimi nel tempo

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nutrono goccia a gocciala mensa del silenzio –e la marea dell’erbeondeggia, sbiancariluce al vento. Qui,deiforme pastore, Pandall’immensa voce,è il vento stesso el’erba e il nugolo dei capri –è l’immagine di pietranel sacello alla fonte,dove ha inizio l’erta –vigila su chi s’innalzapel ripido sentieroe dalla cruna del valicoper l’antica via scendelontano – al mare.

E’ appena un graffiosulla neve il sentieroo nulla nel silenziodell’inverno. Forsealzando tra le altreil capo la coturniceriode il martellaredei campani il rotoliodei sassi – forse

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rivede l’andirivienidei cani, dei muli, dei pastori.

Forse anche il dio rivedetransumare i greggi –i suoi greggi – gli uominiuno ad uno.Il beverarsi ancoraal freddo della fontenel brulichio di lumiche il vento tessein ragnatela di polveree di foglie; quandosul valico li inghiottela gola tesa del cielopensa le femmine del greggesentire emergere da séil figlio e immaginare giànella memoria i nuovipascoli celebrare di fioriil bianco degli agnelli.

Forse riascoltai voti, le preghieredegli uomini che vanno.Migrano stringendo il panenella sacca, gli abbracci, le

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speranze. Nella menteil ricordo di un addiofanciulli al padre – enel ricordo le voci delle donnenella casa, dei fratellidel vento aspro sulle imposte –il fumo dal camino eappena stiepiditi teloe paglia del giaciglio.Di fronte, ora, le fraschedi un capanno a romperefatica – freddo zanzare ela conta infinita delle lune.

Eppure là, nei pascoliche l’Adriatico verbera di salee punge e arde di ventibassi e sole, non c’èil lupo o l’incubodel fulmine all’improvvisoscurirsi del sole sui verticidei colli. Ma tu mi dicevidell’anima vuota di notiziee la memoria insiemedi febbri di letti come abbandonati.Dell’icona della vita in duetronconi, della bella e

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dell’altra stagione; e del ritornoquando già di foglie ridevanoi boschi e di fiori l’erba.Dal valico fendevano spazigli occhi e dalle case: contarecontarsi. Sette lune l’assedioe la distanza.

Tacque infine, il sentiero – altrosi aperse – scendeva secondoil fiotto gelido del fiumeverso occidente (da sottoil poggio dove sostava il dio) edi balza in balza finoal grande fiume e, lungh’esso,alle piane d’erbapresso un altro mare.

Tra marzo e aprile è un fiorire di gialli tra siepi e prati; solo qualche bianco spunta qua e là insieme a piccole nuvole rosa. Con i venti che illuminano i giorni di Pasqua è un dilagare di bianco, aereo, im-materiale che si staglia sul cielo anch’esso tinto dal bianco di nuvole velocissime. Più carnoso invece il colore sui cigli delle strade con le “ciaramelle” (pri-mule) che si aprono perfino tra i residui di neve. In-

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torno, a volte, le impronte della corsa di piccoli ani-mali o del loro attento rovistare.

Quando i pastori risalivano verso questi monti,la primavera aveva fatto già lo stesso percorso; liaveva preceduti aprendo i bocci dei fiori e le gemmedi balza in balza, dalle terre lungo il mare, ai crinalidella Valnerina fino agli orti di casa. Col passo lentodelle pecore arrivavano che erano già esplosi i papa-veri e i fiordalisi avevano stabilito le loro postazioninel grano ancora verde.

ED E’ SILENZIO

E’ un cielo di canfora tra i ramibarbari ancora d’invernoquello che preme le schieneossute dei colli quando cede di schiantooltre le mura l’ala del giornoe di vagiti l’ombra copre ogni crepaogni fessura. Cola una seraimmobile impantanatadi acque trattenutesmuore piano ogni cosa e appareprima del buio l’immagine assoluta.Ed è silenzio.

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Incertonella marea che sale un fiocobarbaglio rimanesull’orlo che spiombainterrato ricordo di un domaniche rimargina i piani prosciugandodi ore docili il confine. Nullanulla che lacera gli spazi e li sprofondadi qua di là in me rilucedell’ago di una stella? Solo un gattodagli occhi di ginestrabrucia la notte.

SOSPESA SERA

Sera sospesadi grigi rosadi brontolii di tuonolontani nel silenzio.Brani di vocinella valle -sillabe dal foro della grondaquasi ultime -percorsio vitenuovi

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o in più profondi spazicadenti.In queste sonoo svaporandodalle foglie dell’essereevanescotra infiniti granidi anime dissolte.

Man mano che frequento Ussita cambia il mododi vederla, sento sempre di più di appartenerle. Hoperso la timidezza con la quale nei primi tempi l’hovissuta; non collimavano certi aspetti che conoscevodi Dignano, della campagna e dei monti, con quellinuovi. Stentavo a prenderne possesso, soprattuttomentale. Ora che si sono consolidate immagini eamicizie, sto cominciando a conoscerne gli strati piùprofondi; mi ritornano alla mente i racconti di miopadre. Ho trovato finalmente il legame con l’animadi Ussita e la consapevolezza di non essere più unvilleggiante ma una parte viva di essa.

Oggi sono più pesanti i passi sui monti: sta fi-nendo l’era delle camminate selvagge per ore e oreinerpicandosi dovunque fosse possibile, alla scoper-ta di nuovi orizzonti. E’ quasi un ruminare quelleesperienze; se ne fanno altre, certo, meno faticose,sotto forma di passeggiate e forse sono un approfon-

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dimento della conoscenza dei luoghi attraverso imolti sentieri nati nel corso del secoli. Calcandoli siè portati a rivivere con la mente un modo di stare inquesti luoghi e un tempo in cui solo il suono dellecampane dava il segnale dell’ora e del fare.

Col prossimo racconto si conclude la presente lettura di testi dedicati alla nostra terra. Lo ho sceltosoprattutto per il suo finale:lo svanire di un mondo di sogni dopo aver fotografato gli aspetti affascinan-ti di luoghi frequentati da sempre.

LA PALUDE

Era l’ora in cui tornano i grandi uccelli scenden-do in ampi cerchi tra le canne. Il rosso, che aveva in-fiammato gli specchi d’acqua e virato il colore del-l’erbe e dei ciuffi alti dei pantani nella sua lunghezzad’onda, trasmutava adesso in giallo, via via più chia-ro, e lasciava gli aguzzi inchiostri dei canneti allepagine dell’acqua e del cielo color dell’ambra. Gridiimprovvisi di uccelli, pigolii, cicalecci lontani e lon-tanissimi disegnavano la geografia del luogo. Quan-do tacquero, parve come l’attimo che precede il ton-fo della notte. Maa lungo restò il lucore sul telo teso del cielo. Lento epreciso, il ragazzo si muoveva per montare la tenda

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canadese. Alla fine, vi stese il materassino e chiusela zanzariera. Accese il fornello a gas davanti allatenda, estrasse da due scatole di plastica la cena giàcucinata e la scaldò in una padellina. Nel mangiareosservava i colori, ormai pochi, della palude e le ul-time luci. Quelle dei paesi intorno apparivano sem-pre più nitide. Questa era la prima volta che Claudiosi avventurava qui senza i soliti amici; ma avrebbepotuto finalmente muoversi come voleva lui, noncome le altre volte quando nascevano discussionisulle riprese e sulle inquadrature, specie con Adria-no che ostentava il suo intuito fotografico e la suacompetenza ornitologica. Il mio modo di vedere lafotografia, ribadiva a se stesso, è diverso e va al di làdella scena realistica o scientifica: bisogna inventarele immagini sotto l’emozione dell’ambiente, dei co-lori e degli animali. Domattina verrà Chiara e co-minceremo a lavorare.

Erano insieme dall’inizio di questo primo annodi università ed insieme avevano concepito il proget-to fotografico che stavano per realizzare. Avevano adisposizione tre o quattro giorni per il lavoro e perstare un po’ a lungo da soli.

Ciao, Claudio – la voce di Chiara ruppe il silen-zio attraverso il telefonino - arriverò nel pomeriggioperché avrò la macchina in tarda mattinata. Ho mes-so a punto il registratore con il microfono direziona-

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le così potremo registrare le voci degli animali. Midispiace proprio tanto di questa notte sprecata….. –la voce aveva assunto quel tono che Claudio cono-sceva bene – ti auguro una buona notte…. Ci vedre-mo domani. Pensami!

Claudio spense il fornello che fungeva anche dalume e rimase semisdraiato sulla seggiolina di telacon le mani dietro la nuca lasciando andare i pensie-ri, vagare lo sguardo; restò così a lungo, a sentire, adassaporare il silenzio, la notte. Un chiarore, venutoda chissà dove lasciava intravedere lievi lumi almuovere dell’acqua e ombre di canne, anzi di piumedi canne, ondeggiare appena contro il cielo. Gli ven-ne in mente Francesca. Certo era una strana ragazza.Dopo averlo convinto, lui così timoroso e pieno discrupoli, a passargli il compito di greco alla maturi-tà, si era mostrata innamoratissima ed era stata conlui per poco più di un mese. Poi lo aveva lasciatoperché da tempo aveva una relazione con un uomosposato. Se aveva questa relazione, dove aveva tro-vato il tempo per fare all’amore con lui tutti i mo-menti liberi dalle lezioni o della giornata? E, se eraintenzionata a lasciarlo, perché lo aveva fatto?Claudio non aveva avuto molte esperienze con le ra-gazze, ma molte ne aveva fatte, e tutte insieme,quante, almeno ,gliene avevano raccontate i compa-gni. Quando Francesca aveva interrotto il loro rap-

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porto, proprio di quelle gli era rimasta la nostalgia,solo di quelle. Per il resto, pochi rimpianti: lo avevalicenziato come se avesse concluso un contratto,fredda e determinata senza alcun cenno alla loro pic-cola storia d’amore. Però, proprio per quelle cose,che adesso gli sembravano ancora più attraenti,quante volte Francesca entrava nei suoi sogni e per-fino in qualche fantasticheria!

I fari di un’automobile che passava sulla stradasterrata illuminarono per un lungo istante una volpe,poco lontano, che stava puntando una possibile pre-da sulla battigia. Cantò una civetta; subito dopo siudì una specie di pigolio come se la civetta stessespartendo una preda con i piccoli. Dai paesi intornosi rincorreva un abbaiare di cani come al mattino siode il rincorrersi del cantare dei galli. Poco lontanoClaudio vide distintamente due puntini giallo verdeche si muovevano lentamente: certamente un picco-lo predatore in cerca di cibo, forse un gatto inselvati-chito. In immersione totale nella natura, Claudio silasciava cullare dalla notte, dal venticello, dai fru-scii, dai piccoli rumori, dal grande silenzio. Domaniavrebbe installato la postazione fotografica nel ca-panno di tela mimetica e avrebbe cominciato, intan-to, le prime riprese. Doveva soltanto individuare illuogo. Gli venne in mente all’improvviso quel pic-colo rudere, forse un tempietto, che aveva visitato

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più volte con il padre. Pensandoci bene, era là, a po-che centinaia di metri sotto un grande pioppo bian-co. Suo padre, professore di lettere, aveva pensatoche si trattasse di un tempietto italico ristrutturato inepoca romana, probabilmente più volte, poi trasfor-mato, nell’alto medioevo, in cappella, quindi in ere-mo ed infine, quando era crollata la copertura avevasorretto un’immagine della Madonna. L’anno scorsonon c’era più nemmeno quella. Rovistando tra le ro-vine e le erbacce era emersa una lastra di pietra, rot-ta in più parti, nella quale era stato possibile leggerela parola NIMPHARUM: da ciò era stato dedottoche il tempietto era dedicato ad una divinità delle ac-que.

L’aria della notte e la stanchezza lo spinsero adentrare nella tenda. Mentre si stava addormentandosi ricordò di aver notato davanti al rudere un interes-sante movimento di uccelli, poi nel sonno entròFrancesca.

Chiara, intanto, aveva controllato l’attrezzaturaper un’ennesima volta e aveva provato il funziona-mento con le batterie del registratore. Era nervosapensando all’ora in cui avrebbe potuto riavere lamacchina e partire: la Panda era un po’ vecchiotta eandava usata senza spingerla troppo; chissà a cheora sarebbe arrivata.

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La luce del giorno, che brillava da tempo sullapalude e aveva invaso anche l’interno della tenda,riuscì a sollecitare sufficientemente le palpebre chiu-se di Claudio costringendolo a svegliarsi. Un granmovimento era già nell’aria, tra le erbe palustri esull’acqua: occorreva muoversi con cautela per nonspaventare gli animali. Prese l’attrezzatura e, lenta-mente, si avvicinò al tempietto, vi installò il capannoe l’attrezzatura, poi vi entrò e si pose in attesa. Dal-l’apertura attraverso la quale passava l’obbiettivopoteva vedere uno specchio d’acqua limitato sul fon-do da un alto erbaio e sulla destra da un canneto. Trala riva che si allungava sulla sinistra e il centro dellospecchio galleggiavano alcuni gruppi di ninfee confiori che cominciavano ad aprirsi. Un gruppetto dianatre si mosse dal canneto e si sparpagliò a pescare.Claudio puntò l’obiettivo attratto anche dai colorimobili dell’acqua, che si muoveva in piccoli cerchi apartire dal moto delle loro zampe, e se ne andava on-dulando tra le ombre dei ciuffi d’erba e dei giunchitrascinando lumi e colori fino alle larghe chiazze lu-centi in mezzo allo stagno. Tra le canne sul fondoapparve, visibile appena, un tarabuso; si guardò in-torno poi beccò qualcosa e si ritirò nel folto. Nonriuscì nemmeno ad inquadrarlo. L’obbiettivo segui-va gli animali, i colori mutevoli dell’acqua quellimobili dell’erbe e la pellicola scorreva sulla spinta

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del motore fulminata dagli scatti dell’otturatore me-morizzando le immagini che Claudio creava sottol’impulso della natura e del sentimento.

All’improvviso fu silenzio e sembrò che la vitadella palude si fermasse. Rimasero cerchi sull’acquae tracce di pesci rossastri che seguivano loro indeci-frabili percorsi. Il falco, che era stato l’origine diquella rivoluzione, fece scorrere più volte la sua om-bra sulle piccole ombre residue cercando una preda.Poi sparì come era venuto. Dal capanno non era sta-to possibile fotografarlo: la postazione era stata or-ganizzata per fotografare verso l’acqua. Le ore sta-vano passando e la vita era tornata nel grande sta-gno. Il sole era oramai alla metà del suo corso quan-do tre ragazze apparvero nuotando nel campo visivodell’obbiettivo. Completamente nude, scherzavano eridevano giocando tra loro e con le rane, i pesci e gliuccelli acquatici senza che questi si spaventassero.Quando si accorsero del capanno, domandarono chivi fosse all’interno. Claudio uscì imbarazzato peraver dato l’impressione di essere stato a spiare, male ragazze presero a parlargli e lo invitarono a fare ilbagno con loro. Quando lui si schermì adducendo diessere senza costume da bagno quelle gli proposerodi fare il bagno nudo. Anzi, una di loro uscì dall’ac-qua e gli si avvicinò. Sembrava proprio Francescaquando appariva nei suoi sogni: corpo da adolescen-

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te, capelli castani, occhi del colore dell’acqua dellapalude. Restò imbambolato, ma lei lo convinse aspogliarsi, lo pese per mano e lo condusse in acqua.Nuotava sulla schiena spingendo solo con le gambetenendo Claudio per la mano. Andavano sempre piùa largo. Le altre due, ridendo e ammiccando, si al-lontanarono e sparirono dietro alcuni alti cespi dierba palustre. D’un tratto la ragazza scivolò sottoClaudio e lo abbracciò, poi continuò a nuotare.Claudio non capiva più niente. L’acqua era semprepiù fredda e profonda. Quando furono sotto l’ombradi un enorme giunco, erano ormai sommersi. Rima-sero per un po’ le loro sagome a trasparire, poi restòil verde dell’acqua e piccoli anelli come di un gorgoche si allargavano verso le rive. Le anatre continua-rono a pescare, gli uccelli a cantare, a volare tra i ce-spi, i pesci a seguire i loro indecifrabili percorsi.

Furono molti nei dintorni a parlare di fate, chealcuni chiamavano ninfe, abili a rapire gli uominiquando il sole martella a mezzogiorno.

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