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PROF. LETIZIA CARRUBBA P P S S I I C C O O L L O O G G I I A A D D E E L L L L O O S S V V I I L L U U P P P P O O

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PROF. LETIZIA CARRUBBA

PPSSIICCOOLLOOGGIIAA DDEELLLLOO SSVVIILLUUPPPPOO

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Sommario

INTRODUZIONE .............................................................................................................1

I LEZIONE CONCEZIONI DELLO SVILUPPO ...........................................................4

1.1 Continuità e cambiamento nello sviluppo............................................................................. 4

1.2 Fasi di sviluppo ................................................................................................................... 13

1.3 Percorsi di sviluppo ............................................................................................................. 19

1.4 Vulnerabilità e resilienza in età evolutiva ........................................................................... 23

1.5 Contesti di crescita e sistemi ecologici ................................................................................ 33

II LEZIONE COMPRENDERE LA MENTE: LO SVILUPPO COGNITIVO ......... 36

2.1 Studiare lo sviluppo cognitivo ............................................................................................. 36

2.2 Il modello innatista-modulare ............................................................................................ 37

2.3 Il modello connessionista ................................................................................................... 39

2.4 Il modello neurocostruttivista ............................................................................................ 43

2.5 Le neuroscienze .................................................................................................................. 45

2.6 La teoria di Jean Piaget ....................................................................................................... 49

2.7 L'apprendimento in un contesto sociale: Il contributo di Lev S. Vygotskij ........................... 68

2.8 Il contributo di Jerome Bruner ............................................................................................ 73

2.9 Il pensiero narrativo ........................................................................................................... 77

2.10 Implicazioni educative ...................................................................................................... 79

2.11 La teoria della mente ........................................................................................................ 81

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2.12 La relazione con l'insegnante ............................................................................................ 98

III LEZIONE COMUNICAZIONE E LINGUAGGIO NEI BAMBINI .................. 101

3.1 Lo sviluppo della comunicazione intenzionale: la comparsa dell'intersoggettività ............ 101

3.2 Dall'intenzionalità comunicativa alle prime parole ........................................................... 106

3.3 Principali modelli teorici sullo sviluppo del linguaggio ...................................................... 110

3.4 Lo sviluppo linguistico....................................................................................................... 116

3.5 Sviluppo della narrazione ................................................................................................. 127

3.6 Coesione e coerenza nelle storie narrate dai bambini ....................................................... 130

3.7 Differenze individuali nell'acquisizione del linguaggio ...................................................... 134

IV LEZIONE LO SVILUPPO EMOTIVO AFFETTIVO ....................................... 138

4.1 La teoria psicoanalitica: il contributo di S.Freud ............................................................... 138

4.2 Le fasi dello sviluppo psicosessuale .................................................................................. 145

4.3 Concezioni psicoanalitiche ................................................................................................ 150

4.4 La teoria dell’attaccamento .............................................................................................. 156

4.5 La Strange Situation ......................................................................................................... 160

4.6 Comprensione e regolazione emotiva ............................................................................... 169

4.6 Stare bene insieme a scuola: pensare le relazioni ............................................................. 175

V LEZIONE LA COSTRUZIONE DELLE COMPETENZE RELAZIONALI IN ETÀ EVOLUTIVA ............................................................................................................... 180

5.1 Le relazioni chiavi di volta dello sviluppo .......................................................................... 180

5.2 Crescere nelle relazioni: la famiglia ................................................................................... 182

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5.3 La vita in famiglia .............................................................................................................. 190

5.4 Coetanei e amici ............................................................................................................... 193

5.5 Il bambino e la scuola: la competenza sociale nel gruppo dei pari .................................... 196

BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................... 204

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1

Introduzione

Lo scopo di questa dispensa di psicologia dello sviluppo è quello di pre-

sentare una panoramica delle teorie e delle ricerche che descrivono e spiegano i

cambiamenti psichici che si manifestano nell'individuo. Le conoscenze che pos-

sediamo sui diversi settori dello sviluppo mentale (cognitivo, percettivo, lingui-

stico, emotivo, affettivo, relazionale...) sono assai numerose e complesse e negli

ultimi anni si sono arricchite grazie ai contributi delle neuroscienze e della gene-

tica. Oggi sappiamo che lo sviluppo psicologico non riguarda soltanto l'infanzia,

ma ogni età della vita e si occupa di tutti i tipi di cambiamento ovvero chiama in

causa processi inerenti sia l'acquisizione che la perdita di capacità

Quale idea abbiamo della psicologia dello sviluppo? Possiamo inquadrarla

come successiva alla psicologia generale da cui discende direttamente e con la

quale condivide le radici culturali di fondo. Potremmo, inoltre, immaginarla co-

me una curva che sale progressivamente nel corso dell'infanzia, per poi stabiliz-

zarsi in età adulta e scendere durante la senescenza.

In realtà se pensiamo allo sviluppo psicologico di un individuo le cose si

fanno molto più complicate. Possiamo, per esempio, ipotizzare un progresso co-

stante e continuo delle funzioni psicologiche? Oppure dobbiamo, invece, pensa-

re ad un processo in cui momenti di stasi si alternano a progressi a volte anche

inaspettati? Altro elemento che potremmo considerare riguarda l'alta variabilità

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interindividuale, cioè ogni persona è caratterizzata da diverse modalità e velocità

di cambiamento.

Cosa rimane costante e cosa muta in ciascuna persona con il trascorrere

del tempo? Quali elementi essenziali concorrono a definire la sua identità im-

mutabile e quali invece evidenziano il suo rinnovamento nel tempo?

Sappiamo per certo che lo sviluppo è un cambiamento nel corso del tempo,

cambiamento che non è né casuale, né temporaneo, né reversibile e diciamo

neanche troppo prevedibile.

Si tratta, ovviamente di domande complesse, che si articolano ed arricchi-

scono concretamente dei risultati che la ricerca scientifica contemporanea offre,

anche sulla base dei percorsi realizzati dai pionieri della disciplina.

Per documentare il cambiamento nel corso del tempo, i ricercatori raccol-

gono dati di osservazione e di ricerca sperimentale su aspetti chiamati normativi,

cioè che riguardano l'età di comparsa di alcune abilità, le sequenze di acquisi-

zione, per poi cercare di individuare delle costanti.

La dispensa si compone di cinque capitoli così strutturati:

Nel primo capitolo sono presentati i concetti e i metodi basilari della disci-

plina. Il concetto di sviluppo è poi discusso in connessione a diversi modelli, con

particolare attenzione al tema delle relazioni che legano sviluppo neurobiologi-

co, ambiente e cambiamenti mentali. I contributi di studio presentati e le diffe-

renti concezioni teoriche a cui si collegano ricordano allo studente che per af-

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frontare lo studio della psicologia dello sviluppo occorre soffermarsi a riflettere

su ciò che caratterizza uno studio scientifico da una psicologia ingenua e quali

siano le procedure che fondano la scientificità delle affermazioni dei ricercatori.

I capitoli seguenti sono dedicati ai differenti aspetti in cui si articola lo svi-

luppo psicologico durante l’infanzia, quali lo sviluppo cognitivo, lo sviluppo

della comunicazione e del linguaggio, delle emozioni e degli affetti e delle rela-

zioni sociali.

La dispensa si arricchisce di strumenti complementari: finestre con appro-

fondimenti tematici , riferimenti bibliografici e note. Tali contributi intendono

fornire chiarimenti, facilitare l’approfondimento e attivare la rappresentazione

operativa delle tematiche

La dispensa si rivolge a tutti gli insegnanti e gli operatori impegnati in

campo psicopedagogico, che desiderano confrontare le proprie esperienze con

chiavi di lettura e schemi interpretativi scientificamente rilevanti. .

Ci auguriamo che questo lavoro possa risultare utile, soprattutto a coloro

che sono disponibili a lasciarsi incuriosire da temi e contenuti complessi, a colo-

ro che cercano il continuo confronto tra la pratica professionale e la riflessione e

a tutti quelli che lavorano per i bambini e gli adolescenti con responsabilità edu-

cativa e con ottimismo.

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I LEZIONE Concezioni dello Sviluppo

1.1 Continuità e cambiamento nello sviluppo

Con il termine sviluppo ci si riferisce al processo attraverso il quale un or-

ganismo acquista la capacità di affrontare con sempre maggior successo il pro-

prio ambiente modificandosi e differenziandosi nelle strutture, nelle funzioni e

nei comportamenti, grazie alla maturazione biologica e all'influenza che gli sti-

moli esterni hanno sulla stessa crescita.

Il concetto di sviluppo si innesta sull'annosa polemica di concezioni con-

trapposte: l'innatismo e l'empirismo. Queste due posizioni attribuiscono rispetti-

vamente ai fattori genetici e ai fattori ambientali la causa determinante dell'evo-

luzione dell’uomo.

La concezione innatista sostiene che ogni aspetto della vita individuale, sia

biologico che psichico, è già predisposto sin dall'inizio della vita individuale in

quanto legato direttamente al patrimonio genetico che ciascuno riceve attraverso

la trasmissione ereditaria; ogni sviluppo, ogni trasformazione evolutiva dell'esse-

re umano dalla nascita sino alla maturità non sarebbe altro che lo svolgersi di po-

tenzialità.

La concezione empiristico-ambientalista (o culturale, secondo alcuni stu-

diosi) si contrappone alla precedente, ritenendo che lo sviluppo dell'individuo è

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strettamente legato alle esperienze, ai modi di vita, all'ambiente sociale e cultu-

rale che lo condizionano sin dalla nascita.

Al momento attuale si può dire che il dibattito sia giunto a privilegiare una

posizione di compromesso: lo sviluppo è dovuto sia a fattori congeniti sia a fat-

tori acquisiti.

Il moderno approccio interdisciplinare delle neuroscienze cognitive dello

sviluppo, che integra i contributi della genetica, della psicologia e delle neuro-

scienze ha messo in evidenza che non esiste di fatto nessun aspetto dello svilup-

po che possa essere definito in modo univoco “genetico”, ossia come prodotto

esclusivo dell'informazione contenuta all'interno di un solo gruppo di geni. Que-

sta affermazione “forte” è alla base del concetto di epigenesi probabilistica co-

niato da Gottlieb nel 1992.

La mente umana, secondo il concetto di epigenesi, procede nel suo svilup-

po da uno stato di relativa globalità, indifferenziazione e disorganizzazione a

uno stato di progressiva diversificazione e complessità attraverso continui scam-

bi tra il sistema e l'ambiente. Questa concezione si oppone al concetto di prefor-

mazione, secondo il quale lo sviluppo consisterebbe nella graduale realizzazione

ed esplicitazione di quanto contenuto nel programma genetico di ogni individuo.

Gottlieb ha inoltre distinto tra epigenesi predeterminata ed epigenesi pro-

babilistica.

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La prima ipotizza una relazione univoca e unidirezionale tra fattori geneti-

ci e fattori esperienziali. Il nostro patrimonio genetico, cioè le istruzioni conte-

nute nei nostri geni danno forma alle strutture neurali, muscolari e scheletriche

che compongono il nostro organismo, di conseguenza danno forma alle funzioni

psicologiche e ai nostri comportamenti senza che vi sia alcuna influenza

dell'ambiente.

L'epigenesi probabilistica, invece, descrive l'esistenza di una reciproca in-

terdipendenza tra fattori biologici e ambientali nello sviluppo del comportamen-

to e delle strutture neurali, muscolari e scheletriche che compongono la persona.

Secondo questa visione è quindi impossibile disgiungere il ruolo dei fattori ma-

turativi e di quelli esperienziali nella determinazione della comparsa di nuove

abilità. Lo sviluppo è un prodotto dell'interazione bidirezionale tra bambino e

ambiente. Ad esempio per imparare a camminare non bastano i fattori maturati-

vi, ma entrano in gioco la capacità di integrare movimenti e fini e quella di pia-

nificare le azioni in successione per raggiungere una meta.

Oltre all'analisi dei fattori innati e acquisiti, gli psicologi si sono soffermati

sugli aspetti di continuità, cioè su quelle caratteristiche individuali che rimango-

no costanti durante lo sviluppo.

Nella prima metà del secolo scorso la convinzione di una continuità nello

sviluppo era molto radicata, cioè si riconosceva grande importanza alla compo-

nente genetica senza considerare le possibili influenze dell'ambiente di crescita.

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Pensiamo ad esempio al concetto di intelligenza, tratto psicologico, considerato

costante nel tempo tanto da poter essere misurato nell'infanzia e utilizzato per

prevedere le prestazioni intellettuali del soggetto in età adulta.

Altra convinzione, che per lungo tempo ha deposto a favore della continui-

tà evolutiva, riguarda il considerare irreversibile l'effetto che l'esperienza dei

primissimi anni di vita avrebbe sul soggetto. In particolare gli studi di J.B. Wa-

tson, padre del comportamentismo, S. Freud, padre della psicoanalisi, e in parte

anche di J.Bowlby non fecero che confermare il valore imprescindibile dell'espe-

rienza passata, verosimilmente in grado di determinare una volta per tutte il cor-

so dello sviluppo dell'individuo.

Oggi questo orientamento è andato modificandosi anche se rimane certa-

mente importante l'esperienza del bambino, in particolare nel primo anno di vita.

Gli studiosi, inoltre, sottolineano l'importanza di una precoce sintonizzazione af-

fettiva (madre-bambino) e di una buona relazione di attaccamento tra il piccolo e

le figure di attaccamento. Studi più recenti (Rutter, 1985; 2007) hanno appurato

che esperienze compiute nella prima infanzia, per quanto precoci e traumatiche

possano essere, non abbiano sempre e comunque effetti permanenti.

Sebbene la continuità in senso deterministico sia un concetto superato, la

ricerca - sugli aspetti che comunque permangono pur nella variabilità dello svi-

luppo - prosegue e ci consente di arrivare ad alcune considerazioni:

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- la continuità di caratteristiche psicologiche come la timidezza o l'aggressi-

vità, con l'aumentare dell'età dell'individuo, è molto modesta (cioè dire

che un bambino timido sarà un adulto timido è considerata una previsione

azzardata);

- maggiore è l'età del bambino al momento della rilevazione di una deter-

minata caratteristica psicologica e più elevata è la possibilità che tale ca-

ratteristica rimanga stabile;

- la continuità è diversa a seconda di quale dimensione del comportamento

viene esaminata. Ad esempio nel caso di disadattamento emotivo rilevato

prima dei tre anni di età, il rischio di presenza a otto anni risulta triplicato;

- risulta particolarmente importante tenere conto del grado di continuità

dell'ambiente del bambino. Drastici o repentini cambiamenti in ambito

familiare (lutti, separazioni conflittuali) possono sconvolgere schemi di

comportamento consolidati e avere ripercussioni sullo sviluppo del bam-

bino

Un ultimo aspetto collegato al tema della continuità-discontinuità dello

sviluppo, è quello della predittività ossia della possibilità di prevedere l'anda-

mento dello sviluppo futuro di un aspetto del comportamento sulla base della

conoscenza che possiamo avere attualmente. Se pensiamo alle ricadute applica-

tive della psicologia dello sviluppo, comprendiamo che può essere importante

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(anche ai fini di un intervento in ambito, clinico, educativo o riabilitativo) de-

terminare se sia o meno possibile individuare delle funzioni o dei processi che

rimangono stabili e non si modificano nel corso del tempo.

Lasciamoci alle spalle il problema parzialmente risolto della continuità

dello sviluppo ed occupiamoci, invece, delle nuove visioni dei processi di cresci-

ta che cominciano ad emerger dagli anni Settanta.

Innanzi tutto viene riconosciuta la limitatezza dell'assunto che vedeva con-

cludersi con l'adolescenza la fase di acquisizione e di trasformazione costruttiva

del Sé e delle potenzialità psicologiche. Le scoperte dei neurofisiologi sulla pla-

sticità del cervello, capace di fronteggiare le modificazioni ambientali e dotato di

molte capacità “vicarianti” hanno supportato gli studi della psicologia e in parte

modificato gli assunti di partenza. Significativi spazi di apprendimento e di ri-

strutturazione psicologica si sono osservati in età adulta, al punto di richiedere il

passaggio dal concetto di "psicologia dell'età evolutiva" a quello di "Psicologia

dello sviluppo".

Nell’ultimo periodo, si è così gradualmente fatta strada l'idea che i proces-

si di trasformazione siano multidimensionali, multidirezionali, complessi e mol-

teplici, che seguano ritmi e modelli differenziati e possano coesistere in ogni

istante dello sviluppo umano processi costruttivi ed altri distruttivi. Ford e Ler-

ner (1995), ad esempio, definiscono così lo sviluppo:

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“lo sviluppo individuale umano implica processi incrementali e di tra-

sformazione che, attraverso il flusso delle interazioni tra gli aspetti attuali della

persona e i suoi attuali contesti, producono una successione di cambiamenti re-

lativamente duraturi, e tali da incrementare o rendere più complessa l'articola-

zione dei tratti strutturali e funzionali della persona e i paradigmi delle sue in-

terazioni con l'ambiente, mantenendo al tempo stesso un'organizzazione coeren-

te e un'unità strutturale e funzionale della persona come un tutto inscindibile.”

Un'ulteriore questione che si apre quando si affronta il concetto di sviluppo

fa riferimento alle modalità attraverso le quali esso si manifesta, se cioè avviene

per accrescimento e accumulazioni successive (sviluppo quantitativo) o come

trasformazioni e modificazioni delle strutture pre-esistenti (sviluppo qualitativo).

Anche in questo caso è possibile ritrovare posizione contrastanti, a titolo esem-

plificativo possiamo ripensare a Skinner (approccio meccanicistico-

comportamentista) e Piaget (approccio costruttivista)

Il primo approccio ci rimanda un'idea di bambino che impara per condi-

zionamento, attraverso rinforzi che intendono premiare azioni o comportamenti

ritenuti positivi; mentre nel secondo assunto cambiano completamente le struttu-

re psichiche, cioè il pensiero del bambino passa da concreto ad astratto, dall'ego-

centrismo all'oggettività.

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Un esempio del contrasto quantitativo e qualitativo può essere trovato nel-

lo sviluppo della memoria. Se un bambino di 4 anni può ricordare tre elementi

di una serie di oggetti vista alcuni minuti prima e un bambino di 7 anni ne può

ricordare sette, si potrebbe inferire una differenza quantitativa nel funzionamen-

to della loro mente. D'altra parte, se il bambino di 7 anni usa strategie come or-

ganizzare oggetti in classi e farne una ripetizione subvocalica, mentre il bambi-

no di 4 anni non le usa, si potrebbe inferire che la differenza è qualitativa. Essi

elaborano l'informazione in modo diverso (Miller, 1983, tr. it., p. 33).

Alla base della prospettiva di sviluppo quantitativo si può cogliere la ten-

denza a ritenere il bambino, alla nascita, come una sorta di recipiente da riempire

e da modellare per giungere in fine ad un traguardo di compiutezza, grazie agli

stimoli del mondo circostante.

Nella prospettiva qualitativa i cambiamenti dovuti allo sviluppo dell'indi-

viduo sarebbero scanditi da periodi critici durante i quali diventa necessario che si

verifichino eventi specifici di cambiamento che portano l'organismo ad un livello di

sviluppo qualitativamente superiore.

Non tutti i cambiamenti, quindi, sono considerabili "sviluppo", ma solo

quelli sistematici e sequenziali, quelli che articolano maggiormente strutture,

funzioni e modalità interattive mantenendo nello stesso tempo coerenza ed unità

nel sistema-persona. I cambiamenti possono essere trasformativi (cioè che intro-

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ducono discontinuità), incrementali o decrementali, permanenti o temporanei.

Alcune implicazioni di questa definizione sono che lo sviluppo si caratterizza

anche come un campo di infinite possibilità per tutto l'arco della vita e i tipi di

sviluppo possibili sono facilitati o vincolati in modo selettivo dai contesti e dagli

stati attuali dell'individuo.

All'incirca dagli anni Ottanta si è affermata anche nel nostro Paese la co-

siddetta Life-Span-Developmental Psychology. Si tratta di un approccio che si

pone come obiettivo quello di studiare dalla nascita fino alla morte i cambiamen-

ti che avvengono nei singoli individui. I presupposti di tale approccio sono stati

formalizzati da Baltes e Reese (1986) in cinque punti:

1. continuità e discontinuità: lo sviluppo ontogenetico dura tutta la vita ed

include una serie di adattamenti e ristrutturazioni dei periodi precedenti.

Possono essere distinti al suo interno sia processi di tipo cumulativo (con-

tinui) che innovativo (discontinui);

2. variabilità intercomportamentale: gli schemi di cambiamento variano a seconda

del tipo di comportamento. Lo sviluppo è, dunque, caratterizzato da una note-

vole pluralità;

3. plasticità intraindividuale: lo sviluppo può assumere molte forme in rela-

zione alle condizioni di vita incontrate;

4. influenza socio-culturale: lo sviluppo ontogenetico può essere influenzato

dalle più complessive condizioni culturali e storiche sperimentate;

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5. pluralismo esplicativo: cambiamenti simili possono essere spiegati in più modi:

influenze storiche, biologiche, mutamenti sociali ed eventi di vita personali (co-

me traumi e perdite).

Questa concezione dello sviluppo a differenza dei modelli stadiali (vedi

capitolo II) lascia molto più spazio ai fattori contestuali. La forma fondamentale

dei processi di cambiamento è probabilistica e non predeterminata e prevedibile.

Nei capitoli che seguiranno approfondiremo l’articolarsi dello sviluppo in-

dividuale all'interno di contesti interattivi di sviluppo, cogliendo di volta in volta

gli aspetti relativi ai cambiamenti nell'ambito della conoscenza, dell'affettività e

della socializzazione

1.2 Fasi di sviluppo

La psicologia dello sviluppo si avvale del prezioso contributo di altre di-

scipline, come ad esempio la biologia, l’antropologia culturale, la sociologia e,

particolarmente, la pedagogia. Le relazioni tra psicologia dello sviluppo e peda-

gogia possono essere molto produttive se viene delimitato il diverso campo di

interesse e studiate le reciproche interazioni. Discipline come la psicopedagogia

e la psicologia dell’educazione sottolineano questo orientamento di collabora-

zione.

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La psicologia dello sviluppo senza l'apporto della pedagogia non potrebbe

delineare un intervento educativo in quanto non si propone esplicitamente i fini

generali dell’educazione, che riguardano il procedere del bambino verso la matu-

rità ed i metodi di intervento che lo possono favorire. La psicologia dello svilup-

po identifica gli strumenti utili ad una valutazione del corretto funzionamento

mentale e della personalità in modo da contribuire a rendere più efficace l'azione

educativa. Per esempio, l’età cronologica di un bambino (i sei anni per l’ingresso

nella scuola dell’obbligo oppure i 5 anni per i bambini cosiddetti “anticipatari”)

non è un parametro sufficientemente indicativo delle sue capacità; ad essa va

giustapposta, per un raffronto e per maggior precisione, un’indicazione sull’età

funzionale1, quest’ultima delineata e studiata appunto dalla psicologia dello svi-

luppo.

Il carattere di continuità secondo cui procede lo sviluppo rende difficile

stabilire dei limiti precisi fra le varie età della vita; tuttavia la distinzione in pe-

riodi ha un valore descrittivo.

Delineeremo di seguito le principali fasi evolutive2:

1 Per età funzionale intendiamo l’effettivo grado di evoluzione raggiunto globalmente dal bambino nelle sue strutture fisiologiche e psicologiche. 2 La fase prenatale, si articola in tre sottostadi: germinale, embrionale e fetale. Tale periodo assume parti-colare importanza sia per la prevenzione di futuri disturbi (anche mediante il monitoraggio delle condizioni fisiche e psicologiche della madre), sia per la possibilità di rilevare precocemente anomali genetiche. La simbiosi gravidica, inoltre, viene oggi considerata la prima e più completa espressione di rapporto tra l'indi-viduo e il suo ambiente.

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Fase della prima infanzia: va dalla nascita sino al secondo anno di vita.

Riguarda tutti gli aspetti dello sviluppo infantile dall'acquisizione delle prime

competenze al raggiungimento di una prima autonomia rispetto al contesto di

crescita: in particolare l'acquisizione del controllo sfinterico, la scoperta di sé,

l'apprendimento della capacità di deambulazione in stazione eretta (il cammina-

re), lo sviluppo del linguaggio e la costruzione di una relazione di attaccamento.

La prima infanzia può essere suddivisa in periodi distinti: il periodo neo-

natale che viene, per convenzione, fissato entro il termine del primo mese di vi-

ta; il periodo, dell’allattamento e dello svezzamento e il periodo corrispondente

alla conquista della prima autonomia (periodo sensomotorio), durante il quale il

bambino conosce e scopre il mondo circostante (altro da sé) attraverso l'utilizzo

dei sensi e della motricità. Sviluppa le sue capacità percettive e motorie, stabili-

sce i suoi primi rapporti oggettuali e inizia una prima attività rappresentativa.

Fase della seconda infanzia: va dalla fine del secondo anno sino a circa il

compimento del sesto anno di età. Riguarda importanti acquisizioni soprattutto

da un punto di vista verbale e rappresentativo. Caratterizzato da rapidità di ap-

prendimento, pensiero intuitivo, scoperta dell'immaginario e della fantasia, rag-

giungimento di maggiore autonomia delle figure di accudimento.

Fase della fanciullezza: coincide con l'inizio della scolarizzazione. Vede il

bambino consolidare le abilità psicomotorie, sviluppare le prime capacità di ra-

gionamento logico, l'adattamento emotivo alla scuola e conquistare una buona

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socializzazione. Si sviluppano i comportamenti prosociali, la cooperazione e la

capacità di accettare l'imposizione delle regole sociali. In questo periodo chia-

mato anche di “latenza” secondo la definizione psicoanalitica, il bambino vive

una condizione di relativa quiescenza della pulsioni, pertanto le sue energie pos-

sono essere incanalate al servizio dell'apprendimento scolastico, nel gioco socia-

le e nelle attività di gruppo

Fase della preadolescenza: periodo compreso tra gli l1 e i 13 - 14 anni ca-

ratterizzato da rapido accrescimento corporeo e dal pensiero che da operatorio-

concreto si trasforma in astratto-formale. Gli aspetti concreti del pensiero sono

però ancora molto presenti e rendono difficile la riflessone sul pensiero stesso,

cioè la metarappresentazione, cosa che diventerà invece dominante nel periodo

adolescenziale. L'approccio psicoanalitico vede nella pubertà il periodo in cui le

cariche pulsionali sopite durante l'infanzia, si riaccendono. Il pensiero ancora

ancorato a dati percettivi incide anche sulla rappresentazione di se stessi. Una

rappresentazione negativa dell'aspetto fisico, se estremizzata, può determinare

disturbi di adattamento o di personalità, mentre la piacevolezza fisica determina

un maggior grado di accettazione da parte del gruppo dei pari e di conseguenza

facilita le relazioni interpersonali. L'attenzione rivolta agli accessori (un partico-

lare tipo di jeans, cellulari, i-pad, ecc..) comincia ad essere rilevante proprio per-

ché il conformismo rispetto al gruppo dei pari costituisce per il ragazzo un im-

portante meccanismo di difesa.

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Fase dell'adolescenza: va da i 14 ai 18 anni circa. Lo sviluppo cognitivo è

quasi completo, riprendendo le osservazioni piagetiane in questa fase il ragazzo

diviene capace di riflettere sul pensiero proprio e altrui, formula ipotesi, fa dedu-

zioni, costruisce teorie e sviluppa un pensiero critico, logico e analitico. Al de-

centramento cognitivo corrisponde però una forte autocentrazione affettiva che

lo porta talvolta al narcisismo e ad un'instabilità affettiva che lo rende ancora

molto vulnerabile. Questo spiega una sorta di delusione e a volte di angoscia che

caratterizza la cosiddetta crisi adolescenziale. Crisi che determina, in senso posi-

tivo, la spinta verso una maggiore autonomia con l'indispensabile ridefinizione

dei rapporti con le figure genitoriali.

Fase della vita adulta: a grandi linee possiamo dividere l'età adulta in gio-

vinezza (dai 20 ai 30 anni circa), età matura (dai 30 ai 45 circa); mezz'età (dai 45

ai 65 anni circa). L'adulto è un individuo che continua a crescere e a cambiare

(seppur in modo diverso rispetto al bambino o all'adolescente), ha una personali-

tà sufficientemente strutturata ed equilibrata nelle sue varie dimensioni: fisica,

intellettiva, affettiva, culturale.

Fase della vecchiaia e della terza età: le funzioni psichiche (ad esempio la

memoria, la velocità di elaborazione della risposta, ecc), le abilità motorie accu-

sano un decremento delle loro effettive potenzialità. Inoltre, connessi a cambia-

menti di ordine sociale come la sospensione dell'attività lavorativa, la morte di

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coetanei o il sopraggiungere di malattie, si inseriscono problemi di isolamento

socio-affettivo.

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1.3 Percorsi di sviluppo

Per percorsi o traiettorie o modelli di corso della vita “intendiamo le strade

che le persone seguono nell'arco dello sviluppo, le quali comprendono gli sche-

mi di comportamento duraturi, i problemi incontrati e il modo di affrontarli, e le

implicazioni che i particolari percorsi scelti hanno per l'adattamento a lungo

termine” (Schaffer, 2008, p.10).

Possiamo prevedere gli esiti evolutivi degli individui?

Come mai spesso si osservano differenze notevoli sia per ciò che concerne

le scelte professionali, sia le scelte di vita anche tra fratelli? Esistono, forse, de-

terminati eventi cruciali responsabili del cambiamento e particolari età in cui il

è più probabile che il cambiamento avvenga?

Come insegnanti, psicologi ed educatori non possiamo fare a meno di in-

terrogarci e di volta in volta cerchiamo quella risorsa o quell'idea che presumia-

mo possa cambiare in meglio il percorso di vita del ragazzo che abbiamo in cari-

co.

La letteratura psicologica, gli studi longitudinali e l'analisi delle storie di

vita ci rimandano ad un modello multidimensionale secondo il quale le traietto-

rie evolutive, influenzate dai tratti di personalità e dalle esperienze di vita, pos-

sono assumere forme molto diverse e sono quindi utili per richiamare l'attenzio-

ne sulle notevoli differenze rilevate nel corso dello sviluppo, persino tra indivi-

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dui che hanno avuto un'infanzia simile (fratelli) o hanno dovuto affrontare eventi

non normativi (adozione, malattie, lutti precoci) negli anni formativi.

In perfetta antitesi rispetto all'ipotesi di continuità e determinismo nello

sviluppo, il concetto di percorso o traiettoria ci induce a riflettere sul fatto che

probabilità non significa certezza, ed è quindi possibile che all'interno di ogni

percorso di vita si delineino esiti positivi o negativi. I percorsi evolutivi vengono

determinati, secondo gli studiosi, dal modo in cui si affrontano i punti di transi-

zione o i cosiddetti turning points (cioè i punti di svolta)3

L'interessante contributo di Reese e Smyer (1983) considera, invece, gli

eventi di vita come marcatori che ci consentono di definire meglio i percorsi

evolutivi delle persone, Gli autori presentano una tassonomia degli eventi della

vita e li organizzano in tre macrocategorie: dimensione, percezione ed effetto

dell'evento.

Le dimensioni dell'evento descrivono le caratteristiche oggettive dell'even-

to stesso (tipo di evento, quanto era prevedibile in base all'età del soggetto, ri-

guarda la famiglia, il lavoro, è cronico, è acuto, ecc.).

Le dimensioni della percezione riguardano l'impressione soggettiva delle

persone toccate dall'evento o la loro valutazione dell'evento stesso (evento desi-

3 Turning points: espressione utilizzata da J.Bruner per indicare i momenti di svolta, di cambia-mento e di rottura che le persone inseriscono nelle loro autobiografie. Nell'ottica costruttivista della psicologia bruneriana, i racconti autobiografici non rappresentano il frutto di una registra-zione oggettiva di eventi accaduti, bensì una costruzione prodotta dalla mente umana nel tentati-vo di attribuire un significato alle esperienze e alla propria vita

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derabile, buono o cattivo, ammontare percepito di guadagno/perdita che risulta

dall'evento, grado di stress percepito, ecc).

Le dimensioni dell'effetto si riferiscono ai risultati o alle conseguenze degli

eventi (chi è la persona toccata dall'evento, portata del cambiamento, grado di

stress provocato, ecc..).

La valutazione dello stress o della sofferenza psicologica associata agli

eventi può essere utilizzata come base per predire la probabilità dell'insorgenza

di problemi di salute o difficoltà psicologiche negli individui che si trovano ad

affrontare determinate problematiche.

Gli studiosi hanno inoltre provato ad osservare le reazioni delle persone al-

la perdita e alla crisi ed hanno notato che i cambiamenti nelle nostre abitudini di

vita scatenano un ciclo relativamente prevedibile di reazioni e di sensazioni. Non

si vuole affermare che le risposte delle persone seguano un percorso identico,

ma un percorso abbastanza generalizzabile che varia a seconda che il cambia-

mento sia voluto, piacevole o del tutto indesiderato.

Il modello a sette fasi (adattato da Hopson, 1981) degli stadi che accompa-

gnano la transizione è il seguente:

Immobilizzazione (paralisi, shock in cui ci si sente sopraffatti)

Reazione (esaltazione/disperazione oppure minimizzazione)

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Dubbio su di sé (consapevolezza della realtà dei cambiamenti nello spazio della

nostra vita; ansia, rabbia, tristezza)

Accettare la realtà e lasciare andare (accettare la realtà del cambiamento, allen-

tare il legame con il passato)

Tentativi (ci si sforza di prendere in considerazione nuove opzioni)

Ricerca del significato (la persona cerca di trovare un senso a quanto accaduto,

è una forma di pensiero riflessivo necessaria per capire e accettare il cambiamento)

Integrazione (la comprensione e accettazione dell'evento passato, raggiunta con

grande sforzo, è diventata parte del sé e si è pronti ad andare avanti).

Questi modelli interpretativi ci consentono di comprendere come funziona

il sistema- persona e quali percorsi di intervento possiamo ipotizzare. Esistono

differenze individuali nel fronteggiare le transizioni, ma possiamo identificare

dei modelli tipici di reazione.

Schlossberg, nello studiare in senso longitudinale (cioè lungo un arco tem-

porale) gli eventi e le transizioni della vita, elabora un quadro di riferimento che

individua quattro gruppi fondamentali di fattori che influenzano la capacità indi-

viduale di affrontare le transizioni e i cambiamenti.

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Le quattro variabili identificate sono: la situazione, il Sé, il sostegno e le

strategie, così come indicate nello schema. L' attività sopra riportata ci spinge a

pensare che tutti abbiamo risorse, vantaggi, punti di forza, ma anche difetti e

mancanze. E' necessario sostituire all' “aut aut” l'”et-et” e pensare che le variabi-

li (situazione, sé, sostegno e strategie) possono essere costruite grazie all'equili-

brio tra tra risorse e difetti anziché in base ad una netta distinzione tra elementi

positivi e negativi.

1.4 Vulnerabilità e resilienza in età evolutiva

Con il termine vulnerabilità intendiamo una minore capacità di resistere e

Far fronte alle transizioni Il quadro di riferimento delle 4-S identifica i quattro fattori fondamentali che influen-zano la capacità di una persona di affrontare la transizione. - La variabile della situazione (che cosa sta accadendo? Di che tipo di transizione si tratta?) - La variabile del Sé (a chi sta accadendo?) - La variabile del sostegno (quale aiuto è disponibile?) - La variabile delle strategie (come affronta la situazione l'individuo?) Schlossberg e coll. (1995) suggeriscono che possiamo valutare le nostre risorse e i no-stri punti di debolezza in relazione ad ognuno di questi ambiti. Pensate ad un importante evento della vostra vita o a una transizione che avete dovuto superare. Quali erano le risorse o i difetti che avete messo in campo per quanto riguar-da ognuna delle categorie delle “4S”? Se dovesse ripresentarsi una transizione analoga oggi, come si presenterebbe adesso il rapporto tra risorse e difetti? [Fonte Sugarman, 2004]

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di fronteggiare fattori negativi e aggressivi che possono presentarsi nel corso

dello sviluppo. “Una variazione, interna o esterna, del funzionamento psichico

del bambino vulnerabile è tale da provocare una significativa disfunzione, un

dolore intenso, un arresto o lo sviluppo minimo delle sue potenzialità. Questa

fragilità si manifesta sul piano psicologico attraverso sensibilità o debolezze,

reali o latenti, immediate o differite, stagnanti o esplosive” (Moro, 2001)

La vulnerabilità chiama in causa la responsabilità della famiglia, dei

servizi sociali e della scuola che devono tutelare il bambino creando condizioni

che possano prevenire o attenuare il rischio. La vulnerabilità non è quindi una

condizione predeterminata, ma una possibilità che chiama in causa la nostra

capacità di prestare attenzione e avere cura dei più piccoli. Il concetto di

vulnerabilità in letteratura viene spesso affiancato al suo opposto, cioè alla

resilienza.

Il termine resilienza deriva dal latino resalio, iterativo di salio, che

significa saltare, rimbalzare, per estensione, danzare. Il vocabolo è stato coniato

in fisica dei materiali per indicare “la resistenza a una rottura dinamica

determinabile con una prova d'urto” (definizione riportata dal dizionario della

lingua italiana, Devoto, Oli, 1971).

In ecologia e biologia, la resilienza è la capacità di una specie di auto-

ripararsi dopo un danno. In psicologia la resilienza indica la capacità umana di

affrontare le avversità che si presentano nel ciclo di vita, riuscire a superarle e

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uscirne rinforzato se non addirittura trasformato.

“E' un concetto interattivo che deriva dalla combinazione di esperienze di

rischio gravi con una riuscita psicologica relativamente positiva a dispetto di tali

esperienze” (Rutter, 2007)

In letteratura distinguiamo tra:

Resilienza strutturale: Legata a situazioni sfavorevoli o stress cronici

(povertà, violenza, abbandono)

Resilienza congiunturale: Dovuta a una crisi sfavorevole e ad avvenimenti

improvvisi e destabilizzanti (guerre, catastrofi naturali)

Resilienza congiunturale e strutturale: Comprende situazioni collegate alla

presenza di deficit congeniti o acquisiti.

Si è visto, inoltre, che non si tratta di un fenomeno sempre attivo e che i

bambini possono manifestare vari livelli di resilienza in presenza di diversi fatto-

ri stressanti e in momenti diversi della loro vita.

A tal proposito sono state identificate alcune caratteristiche degli individui

resilienti: la stima di sé, il sentimento di una base sicura interna (sapere di essere

amati), il sentimento di efficacia, la capacità progettuale intesa come disposizio-

ne a perseguire scopi e obiettivi a lungo termine.

La resilienza è quindi multidimensionale e multideterminata, non esiste

una sola fonte di resilienza o di vulnerabilità, dal momento che entrambe

costituiscono l'effetto dell'interazione tra diversi fattori. Entrano infatti in gioco

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sia le disposizioni genetiche che possono manifestarsi nella personalità,

nell'intelligenza o nel modo in cui reagiamo agli eventi, sia le abilità sociali.

Nessun agente causale preso singolarmente produce spiegazioni

soddisfacenti sulle dinamica che si innesca tra eventi critici e reazioni degli

individui.

Per comprendere cosa renda le persone capaci di far fronte agli eventi e di

adattarsi anche alle situazione più difficoltose, occorre pensare alla resilienza

come ad un processo (resilience as a process) cioè come ad un qualcosa di

dinamico che permette ai fattori di protezione di amalgamarsi, diventando parte

di un processo compensatorio che in una determinata fase di sviluppo, in base

agli eventi e al contesto promuove l'adattamento della persona.

Una siffatta prospettiva, come abbiamo visto chiama in causa, oltre ai

fattori di rischio, i fattori di protezione che possono attenuare e contrastare una

traiettoria a rischio.

Sono molteplici i fattori di rischio che ritroviamo in famiglie

multiproblematiche e nell'interesse e dei bambini è utile compiere un'analisi

attenta delle risorse e dei fattori di protezione. Come operatori e insegnanti è

molto importante, ovviamente in sintonia con i servizi sociali, rispondere ai

bisogni e alla complessità che caratterizza le situazioni di difficoltà e disagio con

un repertorio ampio di progettualità, per cogliere gli spazi entro cui sollecitare

risorse, magari residue o inaspettate.

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I fattori di rischio riguardano tutte le condizioni esistenziali del bambino e

del suo ambiente (esposizioni a esperienze avverse di tipo cronico o acuto) che

implicano un rischio evolutivo superiore a quello che si osserva nella Sono,

quindi, un insieme di fattori tra loro interagenti, di tipo biologico,

temperamentale, familiare e sociale, che possono rinforzarsi con effetti

cumulativi.

Le condizioni di rischio derivanti da ambiti diversi possono verificarsi

contemporaneamente ed essere esacerbate o mitigate dal sistema familiare

(Rutter, 1985).

Per comprendere meglio le sfaccettature dei fattori di rischio e protezione,

in letteratura vengono distinti fattori distali e fattori prossimali.

I primi sono chiamati così perché esercitano un'influenza indiretta, fanno

presupporre un potenziale pericolo, ma da soli non sono sufficienti a generare

danni o conseguenze (ad esempio la povertà familiare). Rendono la famiglia e le

relazioni familiari interpersonali più fragili e vulnerabili. I fattori prossimali,

invece, possono essere sia di rischio che di protezione, si ripercuotono

direttamente sull'individuo, si riferiscono a caratteristiche temperamentali,

ambientali, investono completamente la vita delle persone, le emozioni e i

comportamenti di tutti i giorni. Se negativi amplificano il rischio, se positivi

invece contribuiscono a ridurre la portata dei fattori di rischio.

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Lo schema di Di Blasio (2005) sotto riportato esemplifica molto bene tutti

gli elementi a cui abbiamo accennato e ci consente di comprendere l'efficacia dei

processi di protezione che vanno a contrastare e ad opporsi a quelli di rischio

Per esemplificare il tutto, potremmo visualizzare una bilancia a due piatti

in cui il peso di elementi negativi viene se possibile controbilanciato dal peso

degli elementi di protezione.

Fattori di rischio distali Fattori prossimali di rischio

Fattori prossimali pro-tettivi

- Povertà cronica - Livello d’istruzione bas-

so - Giovane età della madre - Carenza di relazioni in-

terpersonali - Carenza di reti e - d’integrazione sociale - Famiglia monoparentale - Esperienze di rifiuto, - violenza o abuso subite

nell’infanzia - Sfiducia verso le norme

sociali e le istituzioni - Accettazione della vio-

lenza e delle punizioni come pratiche educative

- Accettazione della por-nografia infantile

- Scarse conoscenze e di-sinteresse per lo svilup-po del bambino

Fattori individuali: - psicopatologia dei geni-

tori; - devianza sociale dei ge-

nitori abuso di sostanze; - debole o assenza capacità

di assunzione di respon-sabilità;

- sindrome da risarcimen-to;

- mancanza di empatia e distorsione nella com-prensione delle emozio-ni;

- impulsività; - scarsa tolleranza alla fru-

strazione; - ansia da separazione; Fattori familiari e sociali: - gravidanza/maternità non

desiderata; - relazioni difficili interge-

nerazionali o con partner; - conflitti di coppia e vio-

lenza domestica;

Fattori individuali: - sentimento di inadegua-

tezza per la dipendenza dai Servizi;

- capacità di rielaborare del rifiuto e della violenza subiti nell’infanzia;

- capacità empatiche; - assunzione di responsabi-

lità; - desiderio di cambiamen-

to; - autonomia personale; - buon livello di stima; Fattori familiari e sociali: - relazione soddisfacente

con un componente della famiglia d’origine;

- rete di supporto parentale o amicale;

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Caratteristiche del bam-bino: - Malattie o disturbi alla

nascita - Temperamento difficile

Caratteristiche del bam-bino: - Temperamento facile

Sono molto utili anche programmi di prevenzione primaria che mirano a

sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo ad esempio, la stigmatizzazione delle

punizioni corporali talvolta ancora utilizzate dai genitori come metodo

educativo, la proibizione della violenza attraverso televisione e videogiochi,

promozione di una cultura che incoraggi la fiducia nei servizi sociali e nelle

figure educative (insegnanti, educatori) che per primi possono rilevare situazioni

di disagio, programmi di supporto alle famiglie, percorsi di formazione per

insegnanti affinché possano rilevare precocemente con maggiore competenza e

professionalità eventuali segnali di disagio.

La letteratura in merito è alquanto ampia, per una maggior completezza di

seguito vengono presentati elementi di riduzione del rischio

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Fattori protettivi

Temperamento, coesione e supporto familiare

Supporto sociale

Elevato QI

Capacità di problem solving

Buone capacità genitoriali a livello affettivo ed educativo

Presenza di relazioni profonde con le figure di riferimento

Locus of control interno, abilità sociali

Positiva percezione di sé (Masten e Reed, 2002)

Altri fattori di protezione identificati da Masten e coll. (2006)

-Presenza di genitori competenti e protettivi

Buone abilità cognitive

-Senso di autoefficacia ed elevata autostima

-Positiva visione del mondo

-Presenza di abilità riconosciute a livello sociale

-Adattabilità e personalità prosociale

-Presenza di relazioni profonde con coetanei prosociali e rispettosi delle regole

-Buone condizioni socio-economiche

-Presenza di un buon ambiente scolastico

-Legami con organizzazioni prosociali

-Buone relazioni di vicinato e presenza di risorse nella comunità

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Quali indicazioni operative possiamo desumere dai concetti finora illustra-

ti?

Sul piano degli interventi possiamo dire che se prevalgono fattori protetti-

vi, in grado di contrastare il rischio, siamo in presenza di una prima tipologia che

caratterizza le famiglie che hanno difficoltà momentanee, ma in cui esistono an-

cora risorse e affetti da impiegare e di cui tener presente.

Una seconda ipotesi riguarda la compresenza di fattori di rischio e di pro-

tezione. Si tratta di situazioni nelle quali gli elementi di rischio non sono com-

pensati a sufficienza da quelli di protezione, che non riescono a modulare e ri-

durre l'effetto dei fattori di amplificazione del rischio. In questo caso la famiglia

va monitorata, ad esempio attraverso colloqui con gli operatori sociali, presenza

di educatori con funzioni home visiting o implementazione di veri e propri pro-

grammi di intervento e sostegno alla famiglia.

La terza ipotesi, invece, riguarda la prevalenza di fattori di rischio, in cui

quindi la presenza di elementi protettivi è assente o ridotta. Queste situazioni,

nei quali vi sono segni di violenza (fisica e/o psicologica del bambino, danni,

maltrattamenti vari fino ad arrivare talvolta all'abuso) richiedono interventi im-

mediati di tutela esplicita del bambino, non disgiunti se possibile dall'opportuni-

tà offerta alla famiglia di essere aiutata. Lo schema seguente (tratto da Di Blasio,

2005) mostra l'articolazione dei possibili interventi.

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Prevalenza di fattori di protezione →Aiuto e sostegno al bambino e alla fami-glia

Compresenza di fattori di rischio, di amplificazione del rischio e di fattori protettivi

→Protezione del bambino →Potenziamento delle risorse familiari →Monitoraggio del bambino e della famiglia

Assenza di fattori protettivi →Protezione e tutela del bambino →Prescrizioni alla famiglia →Valutazione delle risorse della famiglia

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1.5 Contesti di crescita e sistemi ecologici

Può essere utile a conclusione di questo capitolo, ricordare l’apertura in

senso psico-sociale proposta dal modello contestualista di Bronfenbrenner

(1979). Questo autore è mosso dalla convinzione che sia essenziale studiare lo

sviluppo nel contesto in cui questo si attua, ovvero lo sviluppo secondo una pro-

spettiva ecologica. Con il termine “ecologia” si fa riferimento alle strutture am-

bientali di cui l’individuo fa esperienza e a cui è legato direttamente o indiretta-

mente. L’ ambiente ecologico ipotizzato da Bronfenbrenner prevede un modello

di sviluppo presentato per mezzo di strutture concentriche, all’interno delle quali

si trova la zona del microsistema, circondata progressivamente dal mesosistema,

dall’esositema e dal macrosistema.

Il microsistema riguarda le esperienze fatte da un individuo in una deter-

minata struttura. “E’ un modello di attività, ruoli e relazioni interpersonali, spe-

rimentate dall’individuo che cresce in interazioni faccia a faccia che hanno luogo

in un setting con specifiche caratteristiche fisiche, sociali e simboliche che favo-

riscono, consentono o inibiscono il coinvolgimento in interazioni progressiva-

mente sempre più complesse” (Bronfenbrenner, 1979; trad. it. 1986, p.15). Per il

bambino il microsistema riguarda l’ambiente familiare e l’ambiente scolastico.

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Molte ricerche in psicologia dello sviluppo (come per esempio la relazione ma-

dre-bambino, l’interazione tra i pari a scuola) si svolge a livello di microsistema.

Al livello successivo troviamo il mesosistema, che può essere considerato

un insieme di microsistemi poiché indaga le relazioni tra due ambienti di cui il

bambino ha esperienza diretta, quali la famiglia e la scuola. L’osservazione del

mesosistema consente di comprendere gli effetti reciproci prodotti da due o più

sistemi che il bambino sperimenta. Ad esempio la qualità dell’attaccamento in

famiglia può influenzare lo stare a scuola e le relazioni con i pari.

Il terzo livello è l’esosistema e riguarda i rapporti che intercorrono tra

l’individuo e le strutture cui non partecipa direttamente, ma che ugualmente

hanno delle ripercussioni e delle influenze su di lui. Pensiamo al lavoro dei geni-

tori: il numero di ore di separazione dai figli, eventuali problematiche lavorative

(rapporto con i colleghi, perdita del lavoro, ecc.) hanno effetti rilevanti sulla vita

del bambino, che si trova ad avere genitori poco presenti, o stressati che faticano

nel costruire una buona relazione con i propri figli. Rientra in questo ambito an-

che tutto ciò che penetra in casa da fonti esterne (televisione, internet, videogio-

chi, ecc.) e con le quali l’individuo non ha un contatto diretto.

Il quarto ed ultimo livello è il macrosistema e riguarda l’insieme comples-

sivo delle culture, ideologie, norme e organizzazioni sociali. Per comprendere il

significato dei comportamenti delle persone è pertanto necessario conoscere i si-

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stemi di credenze condivisi dal gruppo di appartenenza, gli stili di vita, i fattori

di rischio presenti nei gruppi di appartenenza.

Se pensiamo allo sviluppo di un bambino, secondo il modello di Bronfen-

brenner, l’ambiente ecologico può essere compreso e strutturato secondo livelli

di complessità sempre maggiori. Il bambino dapprima comprende e conosce le

figure di attaccamento, poi la famiglia in senso allargato, il nido e/o la scuola

dell’infanzia e poi via via la società in senso più ampio. Altro aspetto importante

da ricordare è che vista la natura per cerchi concentrici del modello dobbiamo

tenere presente che ogni variazione nell’ambiente ecologico (nascita di un fratel-

lino, inserimento a scuola, ecc.) produce delle conseguenze e quindi chiama in

causa la capacità dell’individuo di far fronte alle sfide, di adattarsi, svilupparsi e

di conseguenza crescere.

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II LEZIONE Comprendere la mente: lo sviluppo co-

gnitivo

2.1 Studiare lo sviluppo cognitivo “Per gli esseri umani il concepirsi viventi e coscienti viene strettamente

messo in relazione con la nozione di funzionamento mentale.

Il famoso detto di Cartesio “Cogito, ergo sum” sarebbe indicativo del fatto

che l'uomo trae la prova della sua esistenza proprio dalla consapevolezza dei

suoi processi cognitivi. Ma qual è la natura di questi processi? E' possibile rap-

presentare con una macchina il pensiero, i sentimenti e le emozioni mediante

una struttura di regole, in modo tale che possano venire poi riprodotte artificial-

mente? Se si riuscisse simulare i procedimenti dell'intelligenza umana con un

computer, questi potrebbe ragionare e pensare come un essere umano?” (Grop-

po, Antonietti, 1992, p. 95).

Possiamo ritrovare, fin dalle riflessioni filosofiche più antiche, il tentativo

dell'essere umano di capire il funzionamento mentale. La mente, la ragione, l'in-

telligenza ed il pensiero sono stati a lungo indagati dalla filosofia e successiva-

mente, anche se entrati a far parte delle materie di studio della scienza, hanno

costituito un complesso oggetto di indagine.

L'approccio interdisciplinare alla conoscenza dei processi cognitivi insie-

me all'utilizzo di strumenti di indagine tecnico-scientifici restano attualmente

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anche alla base dei più recenti modelli di spiegazione dello sviluppo cognitivo.

Le prospettiva che vedremo nel corso del capitolo hanno cercato di far chiarezza

sulla natura dei contenuti dello sviluppo e sul rapporto che si innesca tra fattori

biologici e ambientali nel determinare i cambiamenti che avvengono nell'indivi-

duo.

2.2 Il modello innatista-modulare Lo scopo principale di questo orientamento di ricerca è stato quello di in-

dividuare come, una volta entrata nel sistema cognitivo a livello sensoriale, l'in-

formazione venga manipolata fino a trasformarsi in conoscenza.

La teoria della mente modulare, presentata da Fodor nel libro “The Modu-

larty of Mind” (1983) ha avuto un notevole impatto sui ricercatori interessati alla

psicologia dello sviluppo per la ricchezza e l'importanza attribuite alle compe-

tenze cognitive possedute dai bambini fin dai primi mesi di vita e per la forte

somiglianza tra i principi che regolano la cognizione infantile e quelli che rego-

lano la cognizione adulta.

Gli studiosi che si ritrovano in questo modello presumono che fin dalla na-

scita vi siano dei processi cognitivi elementari che ci consentono di elaborare in

maniera rappresentazione le informazioni. Lo sviluppo cognitivo viene spiegato

come un aumento della complessità delle rappresentazioni all'interno di un do-

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minio specifico della conoscenza, causato da un incremento delle capacità di

elaborazione e dalla modificazione delle strategie di pensiero.

Si ipotizza che l'evoluzione ci abbia dotati di strumenti di base per acquisi-

re la conoscenza e che tali strumenti riflettano l'organizzazione cerebrale presen-

te fin dalla nascita. Si ritiene, quindi, che i neonati possiedano meccanismi pre-

programmati che li portano ad esempio a dimostrare interesse verso i volti uma-

ni, a imparare a parlare e discriminare i suoni della lingua madre precocemente e

con relativa facilità e ad acquisire gradualmente categorie cognitive complesse

come consequenzialità, causalità, temporalità, spazio, tempo, ecc..Questi mecca-

nismi sono definiti moduli e sono , quindi, componenti dell'architettura cognitiva

propria dell'individuo. I moduli sono sistemi che fungono da interfaccia tra realtà

esterna e sistema cognitivo in quanto trasformano entità fisiche in rappresenta-

zioni degli oggetti o dei fenomeni all'origine dell'esperienza percettiva, produco-

no cioè materiale cognitivo in formato rappresentazionale o simbolico, sufficien-

temente astratto e vicino al linguaggio del pensiero.

Per Fodor lo sviluppo ontogenetico (cioè lo sviluppo dell'individuo) equi-

vale ad un'esecuzione di un programma genetico che dà forma alle strutture neu-

rali e alle componenti funzionali corrispondenti, senza influenza da parte

dell'ambiente esterno. La causa, come abbiamo visto, è da considerarsi nel fatto

che fin dalla nascita è presente un'architettura mentale fortemente strutturata e

specializzata in senso neurale e funzionale. L 'architettura della mente umana se-

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condo Fodor è, quindi, vincolata da un'architettura innata, rigida e immutabile,

altamente dominio specifica.

Per comprendere la differenza tra teorie dominio- specifiche e teorie do-

minio-generali può essere utile far riferimento ad una metafora utilizzata dallo

stesso Fodor (1983). Egli paragona la mente caratterizzata da un’architettura

dominio-generale alla struttura di una mela, ovvero di un frutto dalla polpa uni-

forme. Mentre un’arancia, essendo composta da diversi spicchi a ciascuno dei

quali metaforicamente parlando corrisponderebbe un dominio dell’attività cogni-

tiva, sarebbe esemplificativa di una concezione dominio-specifica. La teoria sta-

diale di Piaget (come vedremo nel corso del capitolo) rappresenta un classico

esempio di concezione dominio-generale dello sviluppo, dato che propone

un’unica struttura cognitiva sottostante in grado di controllare in modo unitario

tutto il funzionamento mentale. La presenza o meno ad una certa età di una strut-

tura cognitiva fa sì che il soggetto acquisisca un determinato grado di competen-

za e di prestazioni qualunque sia il compito in cui è impegnato. Anche i lavori di

Vygotskij e Bruner offrono un interessante contributo in questa direzione.

2.3 Il modello connessionista

Nell'ambito dell'approccio connessionista è il cervello a divenire la meta-

fora della mente e il computer non viene più utilizzato per spiegarne l'aspetto

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computazionale, ma serve come strumento per simulare veri e propri modelli

mentali costruiti sulla base delle conoscenze scientifiche circa il funzionamento

cerebrale. Il modello connessionista assume che il funzionamento della mente

possa essere spiegato a partire da alcune proprietà strutturali e funzionali del

cervello. Così come la biologia non può ignorare la chimica, così la psicologia

non può ignorare le conoscenze che oggi possediamo riguardo il funzionamento

del sistema nervoso. La principale novità di questo approccio consiste “nell'indi-

viduare e descrivere i meccanismi neurali sottostanti ai fenomeni psicologici at-

traverso un particolare strumento metodologico, ossia la simulazione attraverso

le reti neurali” (Macchi Cassia et al, 2004, p.148). Le reti neurali sono modelli

teorici e metodologici che riproducono per approssimazione le strutture e le pro-

prietà del sistema nervoso. Come il cervello è costituito da un elevato numero di

neuroni che funzionano simultaneamente e sono in collegamento attraverso mi-

gliaia di sinapsi, così la rete neurale è costituita da numerose unità di elaborazio-

ne che funzionano in parallelo, attraverso connessioni eccitatorie o inbitorie.

Unità di elaborazione, connessioni, propagazione dell'attivazione tra le

unità e attivazione dipendente dalle connessioni eccitatorie o inbitorie sono ele-

menti che corrispondono ai neuroni, alle connessioni sinaptiche, alla trasmissio-

ne dell'attività nervosa e alla funzione integrativa dell'attività nervosa che si ri-

trovano realmente nell'essere umano. Questa similitudine ha concesso ai connes-

sionisti la possibilità di utilizzare la tecnica della simulazione per studiare i pro-

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cessi cognitivi nel loro verificarsi e soprattutto ha procurato un notevole poten-

ziale teorico per spiegare la natura del cambiamento cognitivo. Oltre a questi

vantaggi una delle più importanti caratteristiche delle reti neurali riguarda l'ele-

vato grado di plasticità, ossia la capacità che esse manifestano di modificare, at-

traverso l'apprendimento, la propria struttura.

Le tecniche più utilizzate dai modelli connessionisti sono l'apprendimento

per associazione e l'apprendimento guidato dall'errore.

Nel primo caso si è studiato come le connessioni tra unità che codificano

stimoli che si presentano maggiormente nell'ambiente tendono a rafforzarsi, vi-

ceversa quelle che codificano stimoli che si presentano raramente tendono ad in-

debolirsi. Per esempio se l'ambiente propone solo raramente alcuni fonemi lin-

guistici , come la “r” o la “l” la rete, che all'inizio era in grado di discriminarli,

nel tempo tende a perdere tale capacità4. La rete infatti apprende ad astrarre delle

regolarità presenti nell'ambiente, per cui le informazioni che ricorrono con mag-

gior frequenza hanno una più alta probabilità di essere connesse.

Nell'apprendimento guidato dall'errore, invece, le simulazioni si avvalgono

del meccanismo della retro-propagazione attraverso il quale l'esperienza in corso

4 In uno studio del 1975 Miyawaki e colleghi rilevarono che i bambini giapponesi dimostrano al pari degli altri appartenenti a culture diverse, di sapere discriminare la “l” dalla “r” fin dalla nascita. A dieci mesi, pe-rò, tale capacità percettiva appare fortemente indebolita nei bambini giapponesi ma non in quelli americani che invece continuano a discriminare e ad utilizzare i differenti fonemi. Miyawaki K. Et al. (1975), “An ef-fect of linguistic experience: The discrimination of [r] and [l] by native speakers of Japanese and English”, in Perception and Psychophysics, 18, pp.331-340.

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viene interpretata alla luce dell'esperienza passata, ma nello stesso tempo va a

modificare la conoscenza già presente5.

L'approccio connessionista cerca, quindi, di rispondere a uno dei temi fon-

damentali della psicologia dello sviluppo: come si verifica il cambiamento co-

gnitivo. Attraverso le simulazioni è possibile osservare in che modo cambiano le

rappresentazioni possedute dal bambino riguardo il mondo e in che modo l'espe-

rienza e l'apprendimento modificano l'architettura mentale.

Un cambiamento cognitivo è causato dalla modificazione stessa della rete

neurale, nel senso di un mutamento nella complessità delle connessioni tra le

unità della rete. Le reti neurali sono modelli caratterizzati da una certa dinamici-

tà che non si traduce mai un staticità nemmeno quando un apprendimento sem-

bra essere giunto al termine.

E' importante però ricordare alcuni limiti che il modello comporta. Innanzi

tutto non bisogna dimenticare che le reti connessioniste simulano il funziona-

mento del cervello soltanto metaforicamente; in secondo luogo le reti neurali

sanno fare molte cose a livello procedurale, ma manca loro la consapevolezza

cioè non hanno idea di come riescano a farle.

Lo studio dello sviluppo cognitivo non può limitarsi a dire in che modo il

bambino apprende determinate abilità percettive o linguistiche, ma deve riuscire

5 Durante il periodo di apprendimento, viene proposto un input e un target che corrisponde all'output de-siderato, cioè la risposta corretta. Se l'output prodotto dalla rete non è esatto, lo sperimentatore indica alla rete quale sarebbe dovuto essere l'output corretto per quell'input. La rete calcola la discrepanza tra l'output prodotto e quello corretto e utilizza questo errore per correggersi in modo da ridurre la prossima volta la di-screpanza tra risposta data e risposta attesa.

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a spiegare perché l'essere umano è una creatura speciale, ovvero “una creatura

creativa, cognitivamente flessibile, capace di riflessione cosciente, di impensate

invenzioni, nonché, talora di incredibile stupidità” (Karmiloff- Smith, 1992,

p.18).

2.4 Il modello neurocostruttivista “Il neurocostruttivismo intende lo sviluppo ontogenetico come un processo

attivo e costruttivo attraverso il quale i geni interagiscono con l'ambiente, per

produrre strutture biologiche caratterizzate da un livello di complessità e diffe-

renziazione maggiore rispetto a quello presente negli stati precedenti” (Macchi

Cassia, 2004). Il neurocostruttivismo oggi costituisce un'interessante prospettiva

teorica per gli studiosi che sono interessati ad indagare lo sviluppo cognitivo con

le sue relazioni con lo sviluppo del cervello.

In tale modello, all'esperienza viene riconosciuto un ruolo importante, le-

gato alla possibilità di plasmare lo sviluppo del cervello e della cognizione. L'e-

sperienza può agire sia grazie al fatto che il cervello umano è inizialmente dotato

di grande plasticità, sia grazie alla presenza di un certo numero di predisposizio-

ni e vincoli percettivi e attentivi innati attraverso i quali il bambino seleziona e

procura in modo attivo gli input appropriati alle strutture cerebrali che si svilup-

pano.

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Lo sviluppo prenatale e postnatale del cervello umano, è simile a quello

che si osserva in alcuni altri mammiferi, ma è molto più lento. Questo significa

che nel cervello del bambino l'ambiente e l'esperienza hanno maggiore possibili-

tà di esercitare la loro influenza e, quindi, favorire l'avvento di un sistema cogni-

tivo più complesso. In secondo luogo, lo sviluppo più lento delle strutture cere-

brali consente di raggiungere un maggior volume cerebrale, in particolare per ciò

che concerne la corteccia e nello specifico la corteccia prefrontale6.

Il cervello umano, però, non cresce solo in volume ma in densità sinaptica

ciò significa che le espansioni e modificazioni conducono anche ad un aumento

delle capacità integrative del cervello e delle connessioni funzionali tra diverse

aree cerebrali.

Nel neonato, infatti, si osserva una fase di sovrapproduzione sinaptica che

nel tempo è seguita da una fase di decadimento, in cui molte sinapsi vengono

eliminate fino a raggiungere il livello di densità che è tipico degli adulti. Questo

meccanismo di diffusione-regressione ha un grande valore adattivo: la sovrap-

produzione di sinapsi garantisce che l'esperienza possa esercitare la propria in-

fluenza, mentre il decadimento permette la specializzazione neurale attraverso la

selezione dei circuiti neurali che l'esperienza convalida come i più efficaci ed ef-

ficienti.

6 Molti ricercatori sostengono che la corteccia prefrontale svolga un ruolo di primo piano nella maggior parte delle abilità cognitive di livello elevato, come ad esempio la classificazione e l'e-secuzione di sequenze complesse.

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L'esperienza può, quindi, plasmare lo sviluppo del cervello e della cogni-

zione, ma ciò è possibile grazie alla presenza di alcune predisposizioni e di vin-

coli innati che preparano il bambino a prestare attenzione e ad elaborare in modo

privilegiato alcune categorie di informazione presenti nell'ambiente specie-

specifico.

2.5 Le neuroscienze

Le neuroscienze sorgono dall'insoddisfazione per il modo di definire lo

sviluppo cognitivo e per la scarsa attenzione data al legame mente-cervello pro-

pria dei modelli innatisiti-modulari. Come abbiamo visto, nel concepire l'archi-

tettura della mente, sia il connessionismo, sia il neurocostruttuvismo hanno indi-

viduato nel substrato neurale sottostante le diverse funzioni cognitive uno degli

elementi essenziali da cui partire per poter studiare efficacemente la cognizione

umana nel suo evolversi.

Le neuroscienze sono caratterizzate da una considerevole interdisciplina-

rietà, in quanto accolgono i contributi provenienti da diverse discipline. La ri-

scoperta del legame tra psicologia dello sviluppo e biologia ci aiuta a compren-

dere come strutture organiche complesse e specializzate emergano e si evolvano

a partire da strutture primitive e indifferenziate. La prospettiva biologica consen-

te anche il distacco dai criteri di immutabilità e predeterminazione tipici delle

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teorie innatiste, favorendo l'emergere di ipotesi aperte alle dimensioni della pos-

sibilità e probabilità. Il contributo raccolto dalla neuropsicologia ha messo a

convalida empirica il fatto che l'attività cognitiva sia un prodotto del cervello e

che il cervello sia un sistema complesso dotato di plasticità per il quale la varia-

bile ambientale rappresenta una potenzialità da non sottovalutare. Un contributo

altrettanto importante è quello fornito dall'etologia riguardo il ruolo cruciale che

l'ambiente specie-specifico svolge nel processo evolutivo sia a livello ontogene-

tico che filogenetico.

Le neuroscienze, inoltre, sono oggi utilizzate per lo studio dei disordini di

origine genetica, sia per ricavare maggiori informazioni riguardo le relazioni tra

le varie aree del cervello, sia per interpretare diversamente l'eziologia delle pato-

logie.

Il contributo delle neuroscienze: I neuroni specchio

La più recente e importante scoperta delle neuroscienze riguarda l'identifi-

cazione dei cosiddetti neuroni specchio (mirror neurons)7. La scoperta risale al

1990 ed è frutto del lavoro di ricerca di un gruppo di studiosi dell'Istituto di Fi-

7 Per ulteriori approfondimenti si vedano: Craighero L. (2010), Neuroni Specchio, Il Mulino “Farsi un'idea”, Bologna. Gallese V., Migone P., Eagle M.N. (2006), “La simulazione incarnata: I neuroni specchio. Le basi neu-rofisiologiche dell'intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi”, Psicoterapia e Scienze Umane, XL, 3, pp.543-580. Rizzolati G., Sinigaglia C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano.

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siologia dell'Università di Parma, diretto da Giacomo Rizzolati. Solo negli ultimi

anni si è riusciti a definire meglio il loro funzionamento e la loro grande impor-

tanza per la conoscenza del comportamento umano. In neuroni specchio, ini-

zialmente, furono scoperti nell'area premotoria F5 del cervello di scimmia. I ri-

cercatori osservarono che questa popolazione di neuroni si attivava non solo

quando la scimmia eseguiva delle azioni finalizzate al raggiungimento di un og-

getto con la mano (ad esempio afferrare una tazza), ma anche quando osservava

le medesime azioni eseguite o da un'altra scimmia o da una persona.

I neuroni specchio attivano simulazioni di azioni che vengono utilizzate

sia per l'esecuzione delle azioni stesse, sia per la loro comprensione implicita

quando sono eseguite da altri. Questa attivazione condivisa porta i ricercatori a

ipotizzare l'esistenza di un meccanismo funzionale di “simulazione incarnata”

che consiste nella simulazione automatica, inconscia nell'osservatore delle azio-

ni, emozioni e sentimenti provate dall'osservato. Questo meccanismo costituisce

la base biologica per la comprensione dei fenomeni di empatia, identificazione e

comprensione della mente dell'altro.

Si ipotizza, quindi, che questo meccanismo di simulazione possa essere al-

la base di una forma implicita di comprensione delle emozioni e intenzioni al-

trui.

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Questa panoramica intende introdurre il lettore alla complessità dello stu-

dio del sistema cognitivo umano che ha visto l’affermarsi, in un arco di tempo

relativamente breve, di molteplici approcci teorici.

Nella parte successiva del capitolo riprenderemo i tre più grandi autori del-

la psicologia dello sviluppo del secolo scorso. Vedremo in che cosa consiste il

contributo originale e fecondo da loro fornito allo studio dello sviluppo cogniti-

vo.

Inizieremo con la teoria di J.Piaget che fino agli anni Settanta ha dominato

il panorama della disciplina in Europa, ripercorreremo il pensiero di

L.S.Vygotskij e di J.Bruner per giungere ai più recenti contributi degli studiosi

della Teoria della Mente.

Nel passare in rassegna i diversi autori ci accorgeremo del diverso peso

che essi danno all’interazione sociale. Piaget rimanda ad una visione di bambino

egocentrico e le sue osservazioni si rifanno ad una prospettiva centrata mag-

giormente sullo individuo e poco attenta all'influsso che l'ambiente può esercita-

re.

“Situare”, invece, lo sviluppo psicologico nel contesto sociale, come fanno

attualmente alcuni recenti approcci di studio, sottolinea l’impossibilità di separa-

re l’individuo dalla rete di relazioni in cui vive e attribuisce alla capacità di “sta-

re insieme” un ruolo fondamentale nello sviluppo.

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Gli autori che ci accingiamo a studiare, seppur a volte da prospettive di-

verse, hanno offerto allo studio dello sviluppo cognitivo interessanti ipotesi in-

terpretative.

2.6 La teoria di Jean Piaget

“Direi che l'intelligenza è una caso particolare di adattamento biologico

significa dunque supporre che essa è essenzialmente un'organizzazione e che la

sua funzione è quella di strutturare l'universo, così come l'organismo struttura

l'ambiente con cui si trova in contatto immediato (…) dal punto di vista biologi-

co, l'organizzazione è inseparabile dall'adattamento: sono i due aspetti comple-

mentari d'un meccanismo unico (…) L'accordo del pensiero con le cose e l'ac-

cordo del pensiero con se stesso esprimono questo doppioi invariante funzionale

dell'adattamento e dell'organizzazione. Ma questi due aspetti del pensiero sono

indissociabili: soltanto adattandosi alle cose il pensiero organizza se stesso e

soltanto organizzando se stesso il pensiero struttura le cose.”

(Piaget J., 1936, pp.11-15)

“Oss.24 – Giacomina (20 mesi) mi guarda mentre metto nella mia mano

una moneta e poi metto la mano sotto una coperta. Ritiro la mano chiusa; Gia-

comina la apre e poi cerca sotto la coperta sinché trova l'oggetto. Riprendo al-

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lora immediatamente la moneta, la metto nella mano e poi faccio scivolare la

mano chiusa sotto un cuscino collocato dall'altro lato (alla sua sinistra e non

più alla sua destra): Giacomina cerca subito l'oggetto sotto il cuscino. Riprendo

l'esperienza nascondendo la moneta sotto una giacchetta.: Giacomina la trova

senza esitare.

Complico la prova in questo modo: metto la moneta nella mano, poi metto

la mano sotto il cuscino. La ritiro chiusa e la nascondo subito sotto la coperta.

La ritiro infine e la presento chiusa a giacomina. Giacomina allontana la mia

mano senza aprirla (ella indovina dunque che non vi è nulla dentro, il che è una

novità), cerca sotto il cuscino, poi direttamente sotto la coperta, dove trova l'og-

getto”(Piaget J., 1937, pp. 86-87)

Il brani trascritti sono tratti rispettivamente da La nascita dell'intelligenza

nel fanciullo (1936) e La costruzione del reale nei bambini (1937). Queste poche

righe ci consentono di addentrarci nel pensiero del grande autore ginevrino8 e di

cominciare a familiarizzare con alcuni termini che vedremo essere tipici del di-

scorso piagetiano. In particolare il primo brano chiama in causa il concetti di in-

telligenza e adattamento all'ambiente, mentre nel secondo scritto ci appropin-

8 Jean Piaget (1896-1980) nacque a Neuchatel in Svizzera. Dedicò la propria vita a studiare i meccanismi di adattamento biologico da una parte, il pensiero logico dall'altra. Scrisse più di 50 volumi e centinaia di articoli, rivedendo più volte la sua teoria e nel tentativo di elaborare un approccio scientifico allo studio del-la conoscenza, al fine di comprenderne la natura e identificarne i processi di acquisizione da parte dei sin-goli individui.

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quiamo alla conoscenza del suo metodo di studio e di osservazione del compor-

tamento infantile.

Piaget considera l'intelligenza una forma particolare di attività biologica e,

in quanto tale, condizionata dal funzionamento generale e specifico dell'organi-

smo. Il bambino al momento della nascita non possiede strutture cognitive pre-

formate, ma modalità di funzionamento intellettivo che regolando il rapporto tra

bambino e ambiente, permettono la progressiva costruzione di una grande varie-

tà di strutture cognitive.

Lo sviluppo mentale è una forma di adattamento all’ambiente e le sue mo-

dalità di funzionamento sono omologhe a quelle delle strutture biologiche.

L’intelligenza è una forma di adattamento biologico e il suo sviluppo deriva dal

prolungamento di meccanismi biologici di adattamento. I primi mezzi psicologi-

ci di cui il bambino è dotato sono atti sensomotori (afferrare, mordere) e sono sia

mezzi adattivi di funzionamento sia mezzi di rappresentazione e di elaborazione,

quindi sono sia biologici che psicologici.

In che modo l’individuo si adatta all’ambiente?

Piaget per rispondere a questa domanda individua nella maturazione bio-

logica, nell’esperienza con il mondo fisico, nel linguaggio e nella trasmissione

sociale alcuni fattori rilevanti che contribuiscono allo sviluppo dell’intelligenza.

Nonostante questo postula l’esistenza di alcune funzioni che rimarrebbero inva-

riabili durante lo sviluppo e che chiamò invarianti funzionali innati.

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Questi invarianti, chiamati adattamento, equilibrazione cognitiva e orga-

nizzazione sarebbero dei meccanismi generali, determinati biologicamente e ca-

paci di provocare cambiamenti di portata generale nella struttura cognitiva.

Il primo invariante funzionale indicato da Piaget è l'adattamento o

“l’accordo del pensiero con le cose”. L’adattamento avviene attraverso la conti-

nua evoluzione degli schemi che l'organismo ha a sua disposizione per interagire

con l'ambiente. Questa evoluzione adattiva avviene secondo il doppio sinergico

movimento di assimilazione e di accomodamento.

Si ha assimilazione quando uno schema viene esteso, cioè applicato ad og-

getti o in situazioni diverse da quelle cui era inizialmente destinato. Ad esempio

quando il bambino impara a succhiare il lenzuolino o il dito, sta estendendo uno

schema originariamente destinato al capezzolo materno e alla situazione di allat-

tamento.

Si ha accomodamento quando, viceversa, l'organismo è costretto a modifi-

care i suoi schemi adattivi in presenza di una realtà nuova ed irriducibile a quelli

di cui è dotato. Può esserne un esempio il caso del bambino che per entrare in

possesso del giocattolo non può semplicemente afferrarlo perché è troppo lonta-

no ma deve imparare a tirare prima il lenzuolino su cui è appoggiato il giocattolo

e poi afferrarlo.

Secondo la concezione di Piaget questi due movimenti non sono mutual-

mente escludentesi, ma si integrano a vicenda, concorrendo a formare quello sta-

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to di equilibrio tra l'organismo e l'ambiente che è la meta finale dell'adattamento.

In questo consiste l’invariante funzionale definito appunto equilibrazione. Lo

sviluppo dell’intelligenza non è altro che la prosecuzione delle prime forme di

equilibrio verso forme sempre più complesse che rendono l'essere umano capace

di slegarsi da condizionamenti ambientali per giungere all'adattamento. In questo

continuo adeguamento il pensiero astratto gioca un ruolo fondamentale perché

permette di usare schemi più generali e flessibili per adattarsi al mutare dell'am-

biente, rispetto a quelli mediati attraverso l'azione, la sensazione o la percezione.

Piaget considera pertanto come fasi iniziali dello sviluppo intellettivo, tutti i

momenti dello sviluppo umano, dalle primissime fasi in cui il neonato ha a di-

sposizione solo alcuni schemi riflessi, a quelle finali in cui l'uomo formato di-

spone del pensiero astratto.

All’invariante funzionale dell’adattamento e dell’equilibrazione si accom-

pagna organizzazione cognitiva (o “l’accordo del pensiero con se stesso”) cioè la

capacità di coordinare le strutture cognitive esistenti e combinarle entro schemi

più complessi. Il principio dell’organizzazione fa in modo che esista un elevato

grado di coerenza nella fase di sviluppo raggiunto dal bambino relativamente a

diverse abilità e competenze. Per cui la possibilità di risolvere o meno diversi

compiti cognitivi dipenderà non tanto dal tipo di compito, quanto dalle caratteri-

stiche della struttura cognitiva che il bambino possiede in quel momento.

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Nonostante una concezione di continuità evolutiva, nello sviluppo cogniti-

vo si verificano delle modificazioni talmente rilevanti da contrassegnare delle

vere e proprie fasi (o stadi) che si caratterizzano per la presenza di una specifica

struttura cognitiva che corrisponde ad una modalità di organizzazione dei dati

che pervade e controlla ogni aspetto del comportamento e del pensiero del bam-

bino (Macchi Cassia et al., 2004).

Lo stadio viene definito da Piaget un periodo di tempo in cui il pensiero

del bambino e il suo comportamento riflettono un particolare tipo di struttura

sottostante. Passando da uno stadio all’altro il bambino passa da risposte di tipo

riflesso ad azioni (o operazioni) e pensieri, ovvero si trasforma in un individuo

capace di riflettere su ciò che è possibile oltre che su ciò che è reale.

Benché ogni stadio presenti, come vedremo, caratteristiche specifiche che

lo differenziano dagli altri è possibile identificare alcuni tratti comuni. Innanzi

tutto ogni stadio è costituito a un insieme di operazioni connesse le une alle altre

così da formare un’unica totalità, ovvero una struttura di insieme. In secondo

luogo gli stadi seguono una sequenza invariante, ovvero procedono secondo un

ordine universale prestabilito in modo tale da rendere impossibile saltare nello

sviluppo uno degli stadi considerati. Infine ciascuno stadio deriva dal preceden-

te, lo incorpora e lo trasforma.

.

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Lo stadio sensomotorio

Lo sviluppo mentale del bambino che va dalla nascita ai due anni circa è

detto stadio (o periodo) sensomotorio ed è di grande importanza in quanto ven-

gono elaborate le substrutture cognitive che serviranno da punto di partenza per

le ulteriori costruzioni percettive e intellettive.

Per Piaget l’intelligenza è essenzialmente capacità di adattamento, non è,

quindi, errato parlare di intelligenza senso-motoria, dal momento che è possibile

osservare come il bambino (anche in questa fase in cui è solamente capace di re-

cepire con i sensi e di interagire con l’ambiente attraverso la sua motricità) gra-

dualmente si specializzi affinando e trasformando i suoi schemi sensoriali e mo-

tori, rendendoli sempre più adeguati al padroneggiamento degli oggetti e

dell’ambiente circostante.

Lo stadio sensomotorio viene suddiviso nei sei seguenti sottostadi:

Sottostadio dell’esercizio dei riflessi (dalla nascita ai 2 mesi)

Il bambino mette in atto i riflessi innati, come per esempio il riflesso pupil-

lare, il riflesso di suzione, il riflesso di rooting, (muove il capo lateralmente in

modo armonico quando il corpo è inclinato nella posizione tipica

dell’allattamento così da facilitare la ricerca del capezzolo materno), reagisce

con il riflesso di grasping alla stimolazione del palmo della mano.

Certi riflessi del neonato danno luogo ad un consolidamento funzionale,

definito da Piaget esercizio riflesso. Nel caso dei riflessi di suzione e del riflesso

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palmare poco per volta il neonato succhia con sempre maggiore sicurezza, e

sempre più facilmente ritrova la mammella quando ne è stato allontanato. Tale

assimilazione diventa poi assimilazione generalizzatrice quando il bambino suc-

chia a vuoto o succhia altri oggetti.

Intorno ai due mesi, si assiste alla suzione del pollice sistematica per coordi-

nazione del braccio, della mano e della bocca che è da considerare come una vera

acquisizione dovuta ad una estensione dell'assimilazione che entra in gioco con il ri-

flesso stesso.

Sottostadio delle prime abitudini o delle reazioni circolari primarie (da 2

a 4 mesi)

In questo stadio il bambino è capace di portare il pollice alla bocca per

succhiarlo, di afferrare gli oggetti per portarli alla bocca. Tali condotte sono so-

no chiamate "reazioni circolari primarie". La reazione circolare primaria va inte-

sa come una condotta casuale che permette al bambino di avere risultati interes-

santi sul proprio corpo (movimenti della mano, degli occhi, suoni) e che gli

permette di ripetere attivamente i risultati ottenuti.

Sottostadio delle reazioni circolari secondarie (da 4 a 8 mesi)

La coordinazione tra la visione e la prensione permette al neonato di affer-

rare e di manipolare tutto ciò che vede nello spazio circostante.

In questo periodo compaiono appunto le "reazioni circolari secondarie"

dove il bambino non si limita a riprodurre un risultato interessante scoperto per

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caso sul proprio corpo ma cerca di conservare un'azione eseguita sull'ambiente

esterno attraverso la sua ripetizione.

La reazione circolare secondaria si differenzia da quella primaria perché è

diretta verso gli oggetti e non è più esclusivamente verso il proprio corpo. Ad

esempio se il bambino si accorge che il movimento delle braccia fa muovere un

giocattolo appeso alla culla continuerà a muovere le braccia per assicurarsi che

lo spettacolo continui.

Piaget ritiene che le reazioni circolari secondarie, in quanto messe in atto

con intenzionalità, annuncino l'adattamento intelligente, ma nonostante ciò so-

stiene che non siano ancora veri atti di intelligenza.

Sottostadio della coordinazione degli schemi secondari e dell'applicazione

a situazioni nuove (da 8 a 12 mesi)

In questo stadio il bambino comincia a combinare gli schemi per raggiungere

un obiettivo. Ad esempio Il bambino, se vuole afferrare un oggetto dietro le sbar-

re, utilizza gli schemi che già possiede e li applica ad una situazione che è nuova

(per esempio: rimuove gli ostacoli che gli si frappongono). Il vero progresso

consiste nella distinzione del fine dai mezzi, nell'intenzionalità, nella coordina-

zione degli schemi e nelle nuove combinazioni di schemi con i quali il bambino

compie i primi atti di vera intelligenza.

Sottostadio delle reazioni circolari terziarie (da 12 a 18 mesi)

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Ricorre attivamente al metodo per prove ed errori per familiarizzare con la

realtà circostante.

Compaiono le cosiddette "reazioni circolari terziarie" che consistono in at-

tività che portano alla costituzione di nuovi schemi percettivo-motori, non per

mezzo della semplice riproduzione di schemi secondari costituitisi una prima

volta per caso o alla combinazione di due o più schemi ma tali nuovi schemi so-

no dovuti ad una specie di sperimentazione, una ricerca attiva delle novità che il

bimbo compie. Egli cerca di produrre risultati nuovi o varia i vecchi, cioè varia

le sue azioni provocando in tal modo dei movimenti nuovi possibili.

In questo periodo si manifesta la cosiddetta condotta del supporto in cui se un

oggetto è troppo lontano il bambino dopo aver cercato invano di raggiungerlo diret-

tamente mette in atto una serie di tentativi. Nel caso di un oggetto posto su una co-

perta potrebbe iniziare a tirarne un angolo e osservare la relazione tra i movimenti

della coperta e quelli dell'oggetto, per poi riuscire a tirare la coperta e raggiungere

l'oggetto.

Il bambino non si limita più a prendere gli oggetti che raggiunge direttamente

con le proprie mani ma inventa altri mezzi per raggiungere lo scopo.

Stadio dell'inizio dell'interiorizzazione degli schemi e dell'invenzione di

mezzi nuovi per la combinazione mentale (oltre i 18 mesi)

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Quest'ultimo sottostadio è caratterizzato dalla capacità del bambino di rap-

presentare il mondo con immagini mentali e di utilizzare soluzioni intuitive ai

problemi.

Se per esempio fa rotolare una palla sotto il mobile, andrà ad aspettarla

dove crede che essa dovrebbe comparire, nonostante debba muoversi per un trat-

to in direzione opposta a quella seguita dalla palla, girando intorno al divano

(condotta di aggiramento). Il bambino inoltre è meno vincolato alle connessioni

temporali. Piaget riferisce i tentativi della figlia di smuovere il recinto con la

forza dopo che aveva visto fare la stessa azione da un visitatore il giorno prima.

Tale tipo di imitazione compiuta in assenza del modello dimostra che il bambino

è capace di rappresentazione (imitazione differita).

In questo sottostadio il bambino incomincia a prevedere le caratteristiche

che la realtà potrà assumere in un futuro prossimo e non si orienta più esclusi-

vamente sui dati della realtà percettivamente presenti ma anticipa rappresentati-

vamente una situazione non ancora percettibile.

Conquista anche la nozione di permanenza dell'oggetto, cioè riesce ad im-

maginare o pensare qualcosa che non è presente e che non può vedere, sentire o

toccare. Gli oggetti, a differenza di prima, vengono concepiti come esistenti in-

dipendentemente dal fatto che lui li possa vedere e indipendentemente dalle

azioni che può compiervi.

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Questo sottostadio non riguarda più propriamente l'intelligenza sensomoto-

ria ma costituisce il passaggio dall'intelligenza pratica all’intelligenza rappresen-

tativa. Piaget (l974) sostiene che: riuscire consiste nell'utilizzare con successo

una qualche azione e che capire consiste nell'individuare la ragione delle cose,

cioè rendersi conto del perché e del come si è arrivati ad ottenere nell'azione un

determinato risultato.

Lo stadio preoperatorio

Lo stadio preoperatorio, è definito da Piaget pensiero prelogico (da due a

quattro anni) e pensiero intuitivo (da quattro a sette anni)

Il pensiero prelogico vede un affinamento della capacità di pensiero sim-

bolico, che aveva iniziato a svilupparsi nello stadio sensomotorio, ma le capacità

mentali del bambino sono soggette a due limitazioni: l’animismo (l’attribuzione

di sentimenti ed intenzioni ad oggetti inanimati: “la bambola ha fame”, “George

l'orsacchiotto ha sonno”ecc.) e l’egocentrismo che consiste nella difficoltà di

comprendere che gli altri possono avere punti di vista diversi dal proprio.

Il pensiero intuitivo si attua attraverso l’interiorizzazione dei dati percettivi

e consiste di un pensiero irreversibile che coglie ed afferma, ma non sa dimostra-

re né analizzare. Per esempio, il bambino preoperatorio pur sapendo di avere un

fratello maggiore, non comprende che tale relazione implica al tempo stesso che

suo fratello ne abbia uno minore.

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Un bambino di età inferiore ai sette anni sa indubbiamente comprendere

molte cose, ma non sa giustificare le proprie comprensioni, né spiegarle, né ri-

trovare a ritroso il procedimento mediante il quale ha compreso. Cosi, ad esem-

pio, il bambino coglie intuitivamente l'eguaglianza di due file di gettoni poste

parallele, ma poiché non coglie la composizione delle file stesse basta cambiare

la disposizione spaziale dei gettoni (senza alterarne il numero), perché il bambi-

no non riconosca più l'uguaglianza. Nella figura sotto riportata vengono mostrati

alcuni compiti di conservazione utilizzati da Piaget. I compiti proposti consen-

tono di valutare se il bambino comprende che le proprietà di base della materia

rimangono inalterate indipendentemente dai loro cambiamenti percettivi (quanti-

tà, volume, altezza, ecc..)

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Esempi di alcuni compiti di conservazione utilizzati da Piaget [Fonte Bo-

nino, 1994]

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Tra i sei e i sette anni l'intuizione lascia il posto al pensiero operatorio

concreto che opera direttamente sui dati percettivi e cioè su elementi immedia-

tamente presenti nella realtà ambientale.

Lo stadio operatorio concreto

Sino all'età pre-adolescenziale il bambino non possiede la capacità di

compiere operazioni logiche che prescindano completamente dai dati dell'espe-

rienza oggettiva.

Dal momento in cui nasce nel bambino l'attività rappresentativa, egli di-

viene capace di operare su simboli o segni, di prescindere dai dati percettivi im-

mediati e di ricostruire mentalmente oggetti e avvenimenti. Durante l'età pre-

scolare, l'attività rappresentativa è ancora molto connessa all'esperienza percetti-

va e i concetti usati dal bambino sono semplicemente dei pre-concetti che non

esprimono né l'individualità, né la generalità. In questo momento il bambino non

ha ancora acquisito la capacità di costruire delle classificazioni generali ordinate,

in cui inquadrare i dati dell'esperienza e, pertanto, scambia facilmente gli attribu-

ti dell'uno o dell'altro oggetto, basandosi sulla pura somiglianza formale.

È questa l'età della curiosità infantile, l'età delle domande e dei perché in

cui il bambino sente l'esigenza di precisare sempre meglio i suoi concetti e vi

riesce attraverso un continuo affinamento del suo linguaggio. Lo sviluppo del

suo patrimonio verbale, con il moltiplicarsi dei vocaboli conosciuti e il perfezio-

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namento della struttura del linguaggio, consente al bambino di effettuare le pri-

me rappresentazioni concettuali. Per fare qualche esempio, il bambino va lenta-

mente sviluppando la sua capacità di rappresentarsi i rapporti spaziali e nono-

stante a due anni, il bambino è già in grado di discriminare delle figure geome-

triche semplici e di cogliere percettivamente la loro differenza, neppure a cinque

anni riesce a copiare esattamente un disegno geometrico. La difficoltà di ripro-

durre una figura indica che il bambino non è ancora capace di rappresentarsi

mentalmente i rapporti spaziali sui quali è fondata la figura stessa.

A questa stessa età il bambino supera il livello del pensiero "intuitivo" o

"non reversibile" per costruire concetti che consistono nel coordinamento menta-

le di caratteristiche diverse. Il bimbo diviene capace di ordinare degli oggetti se-

condo una serie regolare (di grandezza, di lunghezza, ecc.) e di classificarli se-

condo delle qualità e infine di numerarli.

Lo stadio del pensiero astratto o formale

Verso gli undici-dodici anni lo sviluppo mentale passa dal pensiero con-

creto al pensiero astratto (o formale o ipotetico-deduttivo). Il ragazzo diviene

capace di ragionare in termini astratti e cioè senza riferimento al dato percettivo

e all'esperienza concreta, le operazioni mentali, già presenti al livello precedente

del pensiero concreto, vengono ora applicate non più solamente ai dati percettivi

e reali, ma anche alle ipotesi e alle proposizioni logiche. Il pensiero diviene, per-

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tanto, ipotetico-deduttivo e cioè capace di ragionare in termini di pure ipotesi

astratte e di verifica logica di tali ipotesi. Le conclusioni del pensiero traggono la

loro validità, non più solo dalla verifica empirica e cioè dalla aderenza ai dati

dell'esperienza, ma dalla coerenza logica delle proposizioni stesse.

Questa nuova qualità del pensiero ci fa comprendere perché l'adolescente

sia capace di costruire sistemi logici, anzi tenda a costruire sistematicamente dei

sistemi e delle teorie. Sotto questo aspetto la differenza fra l'adolescente e il fan-

ciullo non potrebbe essere più sentita. Il fanciullo pensa sempre in termini con-

creti, esamina ogni singolo problema, mano a mano che lo incontra e difficil-

mente tende a collegare le soluzioni trovate per costruire delle teorizzazioni.

L'adolescente, invece, mostra un grande interesse per i problemi astratti e tende a

sviscerarli, sino alle loro estreme conseguenze logiche. Questo atteggiamento spiega

la facilità con cui gli adolescenti assumono atteggiamenti radicali, abbracciano teo-

rie estremiste, costruiscono nuove teorie. Anche in questo caso si manifesta la gene-

rale tendenza egocentrica dell'individuo di fronte a problemi nuovi e prima che egli

abbia conseguito un nuovo equilibrio nell’adattamento alla realtà. Così come nell'in-

fanzia, il pensiero è dominato dall'egocentrismo e tarda a riconoscere i limiti fra sé e

il mondo esterno, così nell'adolescenza, l'individuo all’inizio tende ad usare il nuovo

strumento intellettuale (il pensiero astratto) in modo egocentrico attribuendo al suo

pensiero una preminenza sulla realtà, una onnipotenza logica capace di trasformare

la realtà e di adattarla alle sue teorizzazioni.

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Lo sviluppo del pensiero formale con la conseguente capacità di riflessio-

ne e di critica che comporta, costituisce la condizione necessaria per la costru-

zione di un sistema coerente di valori, di regole, di volontà che è, a sua volta, il

presupposto della costruzione di una vera identità personale. Per questo solo

nell'adolescenza, quando lo sviluppo intellettuale raggiunge il suo completamen-

to, è possibile lo sviluppo della personalità. D'altronde, sino a quando il pensiero

formale non si è assestato e non si è liberato dalle modalità egocentriche di fun-

zionamento, l'adolescente non riesce ad acquisire un adattamento efficiente e

adeguato al suo nuovo ruolo adulto. Sino a quando la teorizzazione astratta, il

gusto della polemica intellettuale, l'incapacità di applicare concretamente alla

realtà gli schemi razionali non avranno lasciato il posto a una modalità più socia-

lizzata di ragionamento, l'adolescente non riuscirà a ritrovarsi in un ruolo soddi-

sfacente e continuativo.

Per Piaget, quindi, lo sviluppo cognitivo implica l'acquisizione di strutture

sempre più evolute che consentono al bambino di comprendere la realtà circo-

stante, inizialmente attraverso schemi di azioni (sensomotorio), poi attraverso

rappresentazioni (preoperatorio), e infine per operazioni interiorizzate e orga-

nizzate (concreto e formale).

L'individuo, come abbiamo visto, è attivo, interattivo e si modifica attra-

verso gli scambi con l'ambiente. Le strutture cognitive, pertanto, non sono inna-

te, ma si costruiscono per mezzo dell'attività dell'individuo (strutturalismo co-

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struttivistico). La principale caratteristica di questi interscambi tra individuo e

ambiente è la loro bidirezionalità: organismo e ambiente giungono gradualmente

ad adattarsi l'uno all'altro.

Questa concezione di sviluppo si oppone a quella sostenuta dal comporta-

mentismo, che vede l'individuo passivo e il suo comportamento come il risultato

degli effetti prodotti dall'ambiente.

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2.7 L'apprendimento in un contesto sociale: Il contributo di Lev S.

Vygotskij

Se pensiamo all'importanza che oggi riconosciamo ai cosiddetti contesti di

sviluppo e alla reciproca relazione tra l'individuo e il contesto sociale, non pos-

siamo non pensare al contributo di un altro grande studioso dello sviluppo infan-

tile: L.S. Vygptskij9.

Vygotskij elabora un modello di sviluppo cognitivo fondato su una teoria

che lui stesso definisce storico-culturale dello sviluppo psichico dell’uomo. La

storia, la cultura e il linguaggio rappresentano, quindi, i cardini di tutta la sua

concezione psicologica. Come i suoi collaboratori Lurija e Leontev risente del

fascino esercitato dal grande progetto sovietico, basato sui principi marxisti-

leninisti. Cerca il più possibile di evitare dissidi con l'autorità, affermando co-

raggiosamente il proprio pensiero. Dobbiamo però tenere presente quanto potes-

se essere complicato e pericoloso per gli studiosi di scienze sociali, esprimere in

epoca stalinista la propria opinione in dissenso rispetto alla linea del partito. Co-

nosceva i lavori di Piaget e curò l'edizione russa del volume di Piaget Il linguag-

gio e il pensiero nel fanciullo, concordava con la visione di bambino come co-

9 Lev S Vygotskij (1896-1934) psicologo russo la cui opera è rimasta a lungo sconosciuta in Occidente. Il suo libro più noto Pensiero e Linguaggio venne pubblicato nel 1934, bandito dal regime staliniano nel '36, venne poi ristampato nel 1956.

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struttore attivo di conoscenze, ma come vedremo si scosta molto dalla prospetti-

va piagetiana soprattutto per quel che concerne il rapporto tra pensiero e lin-

guaggio e per il ruolo attribuito alle interazioni sociali e alle attività condivise.

Secondo Vygotskij possiamo comprendere il funzionamento mentale indi-

viduale solo inquadrandolo nel contesto dei processi sociali su cui si fonda:

“I bambini risolvono compiti pratici con l’aiuto delle parole, oltre che de-

gli occhi e delle mani. L’unità di percezione, linguaggio e azione (…) costituisce

l’argomento centrale di qualunque studio sulle origini del comportamento uma-

no”

(Vygotskij, 1980, p.26).

L’apprendimento avviene sia attraverso la cooperazione con gli altri (geni-

tori, insegnanti, pari, ecc.) nei diversi contesti sociali, sia mediante i rappresen-

tanti simbolici della cultura di appartenenza (come ad esempio: il teatro, la mu-

sica, le teorie scientifiche, ecc.). Lo sviluppo cognitivo del bambino riflette la

sua esperienza culturale e a loro volta le esperienze culturali significative vengo-

no interiorizzate dall’intelletto del bambino.

Il contributo vygoskiano, quindi, accentua soprattutto il ruolo dei processi

interpersonali e della società all’interno del percorso entro cui il bambino svi-

luppa la sua costruzione del significato. All’interno di questo inquadramento ge-

nerale, il rapporto tra le due forme culturali per eccellenza, e cioè il pensiero e il

linguaggio, merita sicuramente attenzione.

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Nella teoria di Piaget il linguaggio occupa una posizione decisiva, accom-

pagna lo sviluppo del pensiero operatorio e costituisce anzi il mezzo più potente

a disposizione. Tuttavia per Piaget non è l'acquisizione del linguaggio che de-

termina il passaggio al pensiero operatorio, concreto prima ed astratto poi. Per lo

studioso ginevrino esiste una assoluta continuità tra lo sviluppo mentale basato

sulla azione e la percezione e quello basato sulla rappresentazione prima e sulla

capacità simbolica poi. Anzi la rappresentazione nasce dalla interiorizzazione

degli schemi motori, e ne costituisce per così dire una nuova straordinaria esten-

sione. Il linguaggio a sua volta si innesta su questa capacità rappresentativa

estendendola attraverso l'uso di simboli astratti, con i quali è sempre più possibi-

le interagire con realtà lontane dalla nostra diretta esperienza.

In sostanza per Piaget il linguaggio può venire recepito ed utilizzato pie-

namente solo quando lo sviluppo delle strutture mentali ha raggiunto un certo

stadio, e allo stesso tempo le capacità operatorie non dipendono dalla acquisi-

zione del linguaggio, anche se esse trovano in quest'ultimo uno strumento ideale.

Vygotskij compie una critica generale alla proposta piagetiana mettendo in

discussione in primo luogo il concetto stesso di egocentrismo ed in secondo luo-

go la funzione stessa del linguaggio infantile.

Lo studioso non concorda con la concezione di linguaggio egocentrico

messa in luce da Piaget ed ipotizza un’alternativa individuando nel linguaggio

egocentrico uno stadio intermedio nello sviluppo linguistico. Delinea, quindi, un

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percorso che va dal linguaggio sociale al linguaggio interno passando attraverso

il linguaggio egocentrico che, in particolare attraverso il monologo, rappresenta

la fase di passaggio tra un uso del linguaggio come strumento di controllo

dell’azione e di comunicazione dei bisogni e un uso del linguaggio come stru-

mento di pensiero.

I monologhi testimoniano lo sviluppo della capacità di regolare la propria

attività; un processo, questo, essenzialmente sociale e culturalmente determinato

(Smith, Cowie, Blades, 2000).

La grande intuizione vygotskiana consiste, quindi, nel sottolineare il ruolo

fondamentale che ricopre l’intersezione tra pensiero e linguaggio. Il linguaggio è

sia l’involucro del pensiero che una rappresentazione della cultura.

Uno dei concetti fondamentali di Vygotskij riguarda la Zona di Sviluppo

Prossimale (ZSP) che serve a spiegare come l'apprendimento del bambino si

svolga con l'aiuto degli altri più esperti e competenti disposti a fargli da guida e

sostenerlo nelle situazioni in cui è necessario risolvere problemi.

La ZSP è la distanza tra l'attuale livello di sviluppo del bambino e il livello

di sviluppo potenziale, cioè quello che il bambino potrebbe raggiungere sotto la

guida di adulti o di altri bambini più competenti (Smith, Cowie, Blades, 2000).

Secondo Vygotskij lo sviluppo cognitivo non avviene spontaneamente e

neppure può essere spiegato a partire dall'interazione del bambino con l'ambien-

te fisico. Il bambino apprende perché inserito in un contesto sociale, circondato

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da persone con un maggior grado di competenza che sono disponibili a condivi-

dere con lui le loro conoscenze.

Negli ultimi decenni, soprattutto in ambito educativo, il contributo di Vy-

gotskij ha dato impulso ad una considerevole mole di studi su temi come l'analisi

del problem solving condiviso tra genitore-bambino, l'apprendimento cooperati-

vo, il tutoring tra coetanei e i confronti tra le pratiche di educazione adottate in

culture diverse.

Per concludere possiamo osservare che secondo Vygotskij il pensiero non

si esaurisce entro i confini della mente individuale, ma è un'attività che può esse-

re condivisa e che anzi, nelle prime fasi dello sviluppo, deve necessariamente es-

serlo (Shaffer, 2008).

Come hanno sottolineato Rowe e Wertsch (2002) “lo studio dell'Io vine

quindi abbandonato a favore dello studio delle modalità sociali, culturali e stori-

camente determinate attraverso cui dal noi ha origine una pluralità di io”.

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2.8 Il contributo di Jerome Bruner

“Se rispettiamo il modo di pensare del bambino, se siamo abbastanza cortesi

da tradurre il materiale di apprendimento nelle sue strutture logiche ed abbastanza

audaci da incitarlo a fare progressi, allora sarà ben presto possibile indurlo a quel-

le idee e a quello stile che, da grande, ne faranno un uomo colto. Per ogni materia

che viene insegnata nella scuola primaria, dovremmo chiederci se per un adulto va-

le la pena conoscerne gli sviluppi e se il fatto di averne appreso i rudimenti da pic-

coli ci abbia resi degli adulti migliori. Se entrambe le domande ricevono una rispo-

sta negativa, o ambigua, allora tale materia non è che un ingombro inutile “

(Bruner, The Process of Education, Vintage, Books, New York, 1963, p. 52).

Jerome Bruner10 rappresenta uno dei massimi esponenti della psicologia con-

temporanea. La sua opera è talmente vasta che inserirlo all'interno di una corrente di

studio può apparire riduttivo. In questo contributo si cercherà, di ripercorrere le tap-

pe fondamentali del suo lavoro, riprendendo alcuni concetti chiave particolarmente

interessanti soprattutto per le ricadute sia sul piano della comprensione dello svilup-

po, sia per quanto concerne l'aspetto educativo.

10 Jerome S. Bruner, nasce a New York nel 1915 da una famiglia ebrea. Il suo percorso intellettuale inizia all'incirca negli anni Quaranta. Studiare il contributo di questo autore significa attraversare circa 60 anni di studi e ricerche in ambito psicologico. La sua vastissima produzione scientifica spazia dai primi studi sulla percezione, agli studi sullo sviluppo cognitivo, comunicativo e linguistico fino ad arrivare, in anni recenti, agli ultimi lavori sulla narrazione e le narrazioni autobiografiche in una prospettiva culturale.

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Cominciamo a considerare il tema del linguaggio, dato che esso rappresenta il

mezzo umano attraverso il quale rappresentare e interpretare il mondo. Il modo in

cui acquisiamo il linguaggio dovrebbe chiarire, a parere di Bruner, il modo in cui

pensiamo. Gli studi sullo sviluppo linguistico di Bruner risalgono agli anni Settanta,

la prospettiva innatista sostenuta da Chomsky (si veda capitolo III) sembra non sod-

disfare più perché lo sviluppo linguistico viene considerato indipendente dalle capa-

cità cognitive, sociali e comunicative del bambino.

Il linguaggio è inteso da Bruner come fenomeno interindividuale e sociale.

Deve essere sostenuto da una conoscenza del mondo e da un desiderio di comunica-

re. Diviene essenziale prendere in considerazione le intenzioni sottese all'atto comu-

nicativo e gli aspetti pragmatici del linguaggio. Entro questo orizzonte teorico, Bru-

ner si pone come uno dei più autorevoli sostenitori dell'approccio interazionista,

partendo dall'assunto che l'interazione sociale tra il bambino e l'adulto di riferimento

costituisca la condizione determinante per l'elaborazione di una matrice condivisa di

significati e di segnali di natura convenzionale, che conducono allo sviluppo e

all'acquisizione del linguaggio infantile. Per comprendere meglio la prospettiva inte-

razionista, affrontiamo il tema dell'acquisizione del linguaggio come fenomeno so-

ciale e culturale.

Lo sviluppo infantile, secondo il nostro autore, consiste nella realizzazione

delle potenzialità presenti nelle capacità e competenze del neonato. Mentre la capa-

cità di attuare un comportamento intelligente ha radici biologiche, l'esercizio di tale

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capacità dipende dal fatto che l'individuo si appropri di strumenti e tecniche che non

esistono nel patrimonio genetico, ma nella cultura. Ciò significa che lo sviluppo in-

fantile non può essere un processo individuale ma sociale.

Nelle prime interazioni madre-bambino si realizza rapidamente uno scambio

reciproco che consente pian piano lo sviluppo di forme di intersoggettività e atten-

zione reciproca, fondamentali per lo sviluppo linguistico.

L'interazione madre-bambino si manifesta nella co-orientazione dello sguar-

do; nell'attenzione visiva (mantenere la fissazione su un oggetto privilegiato, ad

esempio il viso umano che risulta essere stimolo privilegiato fin dalla prima setti-

mana di vita); e nella fissazione visiva (la si può osservare nel gioco del “cucù”

quando il bambino è in grado di anticipare un evento che verrà). Inoltre, l'adulto se-

gue la direzione dello sguardo del piccolo, ma denomina l'oggetto: questo modello

“guardare-nominare” costituisce una sorta di protoconversazione, in quanto adulto e

bambino stabiliscono una referenza congiunta nei confronti della medesima realtà

(Bruner, 1975).

Il ruolo dell'adulto è quello di scaffolding. Tale concetto presentato per la

prima volta da Wood, Bruner e Ross in un articolo dal titolo The role of tutoring in

problem solving (1976)11 consiste nel processo attraverso cui un partner più esperto

offre il proprio aiuto a un bambino per la risoluzione di un problema, adeguando il

tipo e la quantità di aiuto al livello di prestazione del bambino. Si crea cioè una sorta

11 Wood D., Bruner J., Ross G.(1976), “The role of tutoring in problem solving”, in Journal of Child Psy-chology and Psychiatry, 17, pp. 89-100.

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di “impalcatura” estremamente flessibile: l'adulto adatta il proprio sostegno al livel-

lo di prestazione del bambino, gli lascia un notevole grado di autonomia, allo stesso

tempo gli dà la possibilità di poter contare sul suo aiuto che però si riduce man ma-

no che il bambino si assume in maniera sempre maggiore la responsabilità di com-

pletare il compito.

Nella prospettiva interazionista di Bruner le prime interazioni sociali costitui-

scono la radice dello sviluppo mentale del bambino a condizione che l'adulto di rife-

rimento sia in grado di svolgere la funzione di struttura di sostegno.

Il concetto di format viene proposto dall’autore per indicare l’insieme del-

le procedure comunicative che consentono al bambino ed ai suoi partner di stabi-

lire scambi finalizzati e intenzionali da attivarsi in vari contesti interattivi (Shaf-

fer, 2008).

L'’apprendimento non viene perciò inteso come trasmissione di competen-

ze, ma come costruzione congiunta di conoscenza, progressiva e graduale con-

divisione del mondo fisico e sociale.

L’interazione del bambino con gli adulti non solo promuove lo sviluppo di

competenze e capacità, ma gli consente di essere introdotto progressivamente

nel sistema culturale di riferimento.

Il linguaggio ha, quindi, una duplice funzione: da un lato è un mezzo di

comunicazione, dall’altro è uno strumento di rappresentazione del mondo dato

che la nostra visione della realtà non è diretta, ma filtrata dai sistemi simbolici e

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culturali di riferimento. Pertanto, dirà Bruner, il modo in cui uno parla finisce

per diventare il modo in cui rappresenta ciò di cui parla. Il linguaggio è un “at-

trezzo” che entra nella costituzione stessa del pensiero e delle relazioni sociali.

2.9 Il pensiero narrativo

Lo scopo del linguaggio e la sua stessa funzione intrinseca, sarebbe però la

narrazione, cioè l’intenzione di raccontare, interpretare ed esprimere la realtà

sotto forma di racconto. La narrazione, secondo questa prospettiva, è una moda-

lità comunicativa che media tra il modo canonico della cultura ed il mondo per-

sonale costituito da credenze, desideri e intenzioni.

La narrazione consente di mettere in ordine gli eventi coordinando i dati

oggettivi forniti dall’esperienza con l’interpretazione soggettiva, cioè con il si-

gnificato che la persona conferisce all’esperienza in base a determinati scopi e

aspettative. Le forme della narrazione, attraverso le quali si organizzano le memorie

personali, forniscono una struttura coerente per raccontare e raccontarsi in funzione

di un’opera di ricerca e costruzione di significati che ci consentano di definire sem-

pre meglio chi siamo. La narrazione non rappresenta il frutto di una registrazione

oggettiva di eventi accaduti al sé, bensì una costruzione prodotta dalla mente umana

nel tentativo di attribuire un significato alle proprie esperienze e alla propria vita.

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Il pensiero narrativo, che si occupa della soggettività, dei vissuti, delle mo-

tivazioni e delle intenzioni umane, è un modo di guardare alla realtà non oppo-

sto, ma complementare ad un pensiero paradigmatico, cioè logico-matematico.

Da un punto di vista cognitivo la competenza narrativa implica un gradua-

le superamento dell’egocentrismo, il che comporta la capacità di passare dalle

rappresentazioni alle “metarappresentazioni” (vale a dire la capacità di rappre-

sentarsi cioè che l’altro si rappresenta). Questo livello “metarappresentativo” è

presente ad esempio quando scegliamo cosa raccontare: la capacità cognitiva di

distinguere gli elementi essenziali da quelli secondari che possono essere omes-

si, il riuscire a distinguere tra l’interessante ed il noioso e la capacità di adattare

il nostro racconto ai diversi ruoli e contesti, sono abilità molto complesse che

presuppongono una competenza sempre più specialistica sia di tipo cognitivo

che sociale.

Inoltre la modalità narrativa, avendo come oggetto le intenzioni, oltre che

le azioni umane, permette di investigare gli stati mentali e contribuisce

all’elaborazione di quella che ormai viene definita dagli studiosi la teoria della

mente, argomento che approfondiremo nel corso del capitolo.

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2.10 Implicazioni educative

Prima di passare ai più recenti sviluppi della psicologia evolutiva, soffer-

miamoci brevemente sulle implicazioni educative, sviluppatesi in seguito al pen-

siero dei tre autori finora esaminati, riguardo il ruolo dell'educazione e

dell’insegnamento.

Secondo Vygotskij e Bruner è possibile anticipare lo sviluppo cognitivo

attraverso un apprendimento veloce del leggere e dello scrivere, mentre per Pia-

get è particolarmente importante rispettare i ritmi di sviluppo, fornire stimola-

zioni manipolatorie e favorire esperienze attive come migliore premessa allo svi-

luppo delle funzioni simboliche.

Bruner, pur non parlandoci di stadi, nello sviluppo cognitivo del bambino

vede avvicendarsi tre diverse modalità di rappresentazione del reale.

Nella prima fase il bambino è capace di una rappresentazione attiva, costi-

tuita da un insieme di azioni che si associano stabilmente a certi stimoli. Gli

eventi sono perciò riprodotti attraverso risposte motorie appropriate (giocare a

Lego, andare sull'altalena).

Il secondo codice è la rappresentazione iconica, in cui il bambino è capace

di rappresentarsi gli oggetti mediante un'immagine mentale o uno schema spa-

ziale interno che è relativamente indipendente dall'azione.

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Il terzo codice è la rappresentazione simbolica dove emergono le differenze

con il pensiero di Piaget. Questo codice è costituito da una serie di schemi astratti,

che vengono appresi dalla cultura del proprio gruppo - il linguaggio ne costituisce il

principale esempio - e che sono pertanto arbitrari. In sostanza la rappresentazione

simbolica è alla base della capacità di pensiero astratto e della formazione di un

pensiero personale.

La distinzione tra le tre modalità (esecutivo, iconico e simbolico) postulate

da Bruner non è assolutamente rigida. Anche se in ogni fascia di età ritroviamo

una modalità di funzionamento dominante, non è escluso che in momenti suc-

cessivi dello sviluppo possano ripresentarsi aspetti degli stadi precedenti, in par-

ticolare di fronte a compiti che richiedono strategie di pensiero meno evolute.

Tali forme di rappresentazione sono alla base dell'idea bruneriana di curri-

culum a spirale, in base alla quale un individuo ha la possibilità di comprendere

un concetto a livelli sempre più complessi. Vi è implicita la convinzione che an-

che un bambino molto piccolo possa afferrare a livello intuitivo concetti che po-

trà successivamente rivisitare ed approfondire lungo il percorso di istruzione, se-

condo livelli di difficoltà sempre più complessi.

Bruner, inoltre, sottolinea più volte l'importanza di mettere gli alunni nella

condizione di cogliere la struttura di una disciplina. Per struttura intende i con-

cetti chiave, commisurati e organizzati in base alle esigenze di chi apprende per-

ché questo consente di andare oltre le informazioni date, produrre collegamenti

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personali e relazioni tra i diversi ambiti di apprendimento. La pianificazione cur-

riculare dovrebbe preoccuparsi di allargare l'orizzonte dell'apprendimento, inteso

come processo attivo di soluzione dei problemi.

2.11 La teoria della mente

All'interno della più ampia tematica dello sviluppo della conoscenza, negli

ultimi due decenni la psicologia evolutiva ha orientato molti dei suoi interessi

verso lo studio delle origini e dei successivi sviluppi della Teoria della Mente. Il

modo migliore di considerare lo sviluppo è di considerare lo sviluppo della co-

noscenza e intenderlo come la formulazione di una successione di teorie ingenue

che consentono ai bambini, fin dai primi anni di vita, di interpretare le proprie

esperienze (Schaffer, 2008),

Comprendere gli stati mentali significa essere in grado di attribuire a sé e agli

altri stati mentali quali desideri, credenze, intenzioni e pensieri non sono osservabili

direttamente, ma che ci consentono di prevedere e spiegare il comportamento uma-

no.

L’assunzione della presenza di credenze in noi stessi e negli altri è un

aspetto di fondamentale importanza per la comprensione quotidiana della realtà

che ci circonda. Tutti noi, infatti, possediamo delle credenze e sappiamo che es-

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se possono cambiare, essere vere o false e possono influenzare quello che dicia-

mo o facciamo.

Il comprendere che gran parte delle azioni di un individuo dipende da cre-

denze personali non è solo un utile aspetto della conoscenza umana, ma è di ba-

silare importanza per cogliere il significato del comportamento altrui che altri-

menti, il più delle volte, apparirebbe casuale e del tutto arbitrario.

Lo sviluppo di una teoria della mente comporta, quindi, la consapevolezza

dell’esistenza di stati mentali non visibili, la comprensione della relazione tra

stati mentali e comportamenti esterni ed osservabili e la rispondenza o adegua-

tezza delle azioni rispetto agli stati mentali che esprimono o da cui dipendono.

Il termine “teoria”, anche se ormai è entrato a far parte del lessico della

psicologia dello sviluppo, potrebbe apparire improprio perché i bambini non so-

no certamente interessati alla messa a punto di modelli teorici adeguati alla spie-

gazione delle condotte umane, anche se alcuni studiosi sostengono che lo svi-

luppo della comprensione della mente sia analogo all’evoluzione delle teorie

scientifiche.

D’altro canto però il termine “teoria” richiama la nostra attenzione su due

aspetti interessanti che riguardano la comprensione della realtà mentale. In pri-

mo luogo non possiamo toccare in maniera diretta né la nostra mente, né quella

degli altri e perciò compiamo continue inferenze nel tentativo di comprendere e

spiegare, sulla base dei comportamenti, gli stati mentali. In secondo luogo

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l’immagine della realtà mentale di un adulto come insieme di desideri, credenze,

sentimenti, ecc. è sicuramente paragonabile all’immagine che possiamo avere di

una teoria in quanto aggregato interconnesso di idee. Non sembra, quindi, così

fuori luogo ricorrere al termine teoria per intendere i sistemi di conoscenze che

possiede l’individuo a proposito di desideri, credenze, ecc.

Prima di entrare nel merito della teoria della mente come paradigma utile a

spiegare lo sviluppo delle rappresentazioni mentali, presentiamo brevemente

quattro impostazioni teoriche che sostengono la relazione tra alcune abilità co-

gnitive sviluppatesi nella primissima infanzia, e lo sviluppo (a quattro anni) di

una teoria della mente.

La prima prospettiva viene definita modularista poiché sostiene che la teo-

ria della mente si acquisisca sulla base della maturazione neuropsicologica di

meccanismi modulari, altamente specifici, geneticamente predeterminati, non

soggetti all'influenza dell'esperienza. All'interno di questa prospettiva troviamo i

contributo di Leslie (1994) e di Baron-Cohen (1996).

Secondo Leslie esistono tre moduli: il ToBy (Theory of Body Mechanism)

che si sviluppa a 3-4 mesi e permette al bambino di riconoscere gli oggetti fisici;

il ToMM1 (Theory of Mind Mechanism) che si attiva a 6-8 mesi e consente di

identificare le azioni compiute sugli oggetti; il ToMM2 che permette ai bambini

di comprendere l’intenzionalità e le rappresentazioni di atteggiamenti mentali

verso la realtà.

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Baron-Cohen, invece, sottolinea l'importanza di leggere la direzione dello

sguardo come base per comprendere l'intenzione dell'altro. Per cui postula tre

moduli (precedenti al ToMM di Leslie): l'ID (Intentionality Detector) che rileva

l'intenzionalità, l'EDD (Eye Director Detector) che rileva la direzione dello

sguardo e il SAM (Shared Attention Mechanism) che regola l'attenzione condivi-

sa.

La seconda prospettiva denominata theory-theory (Perner, 1991) sostiene

l'ipotesi che il bambino possa arrivare a comprendere gli stati mentali dell'altro,

sulla base di una vera e propria teoria scientifica (analogia tra lo scienziato che

formula teorie e il bambino che costruisce la propria conoscenza), interpretando

cioè fatti a partire da un numero ristretto di leggi e concetti.

Gli autori che si rifanno a questo modello ipotizzano una sequenza evolu-

tiva che vede il bambino passare da una psicologia del desiderio ad una psicologia

del desiderio-credenza per arrivare infine verso i quattro anni alla psicologia cre-

denza-desiderio in cui comprende che desideri e credenze determinano l’agire uma-

no e il pensiero consiste in una rappresentazione mentale.

Perner (1991) nel descrivere questo passaggio ricorre all’espressione “rivolu-

zione concettuale” proprio perché il bambino passa da una teoria comportamentale

ad una teoria rappresentazionale in basa alla quale dispone di costrutti mentalistici

con i quali spiega e prevede le azioni degli altri.

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La terza prospettiva di studio, da noi considerata, viene chiamata teoria della

simulazione ed è sostenuta in particolare da Harris (1991). Si postula l’esistenza di

un meccanismo di simulazione mentale che consente al bambino di comprendere

le emozioni, i desideri e le credenze altrui grazie alla possibilità di generalizzare

gli stati mentali precedentemente esperiti in situazioni simili. La simulazione

mentale permette anche di inferire e prevedere le intenzioni altrui in maniera

sempre più precisa e accurata.

La quarta e ultima prospettiva sottolinea il ruolo svolto dai contesti di cre-

scita per la maturazione di abilità mentalistiche. Riprende l’ipotesi vygotskiana

dell’origine socio-culturale del funzionamento psicologico individuale e sottoli-

nea l’importanza dell’interazione e della conversazione verbale come mediatori

della teoria della mente. La partecipazione alle relazioni interpersonali fornireb-

be proprio la materia prima sulla quale il bambino costruisce il ragionamento

psicologico.

La mente viene considerata da Bruner e dalla Feldman una costruzione so-

ciale che si struttura e sviluppa negli scambi interpersonali con partner significa-

tivi all'interno di contesti carichi affettivamente ed emotivamente. All'interno di

questa prospettiva troviamo anche diversi autori che hanno dimostrato una stret-

ta relazione tra teoria della mente e qualità della relazione di attaccamento o che

hanno messo in evidenza l'importanza degli scambi conversazionali all'interno

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della famiglia nella quotidianità e nelle attività condivise (conversazioni a tavo-

la).

La comprensione della mente prima dei quattro anni

Lo studio dei precursori allo sviluppo della mentalizzazione, risulta oggi

una delle aree maggiormente indagate. Si cerca, cioè di capire cosa accade prima

dei quattro anni e che cosa può facilitare lo sviluppo di tali abilità mentalistiche.

Le ricerche attualmente concordano nel riconoscere alcuni importanti pre-

cursori tra cui:

il gioco di finzione in cui si avrebbe la prima comparsa del pensiero

metarappresentativo

il performativo protodichiarativo12

la condivisione dell’attenzione

l'imitazione

L’altro punto di accordo tra gli studiosi è rappresentato dalla distinzione in

quattro stadi della sequenza evolutiva nella comprensione infantile della mente.

12 Fin dalla seconda metà del primo anno di vita, il bambino è in grado di coordinare mezzi e scopi e quindi utilizza un oggetto per mediare il rapporto con l’adulto. Nel performativo protorichiestivo il bambi-no elicita un comportamento manifesto, ad esempio: indica la palla perché la vuole. Nel performativo pro-todichiarativo il bambino mostra o indica all’adulto un oggetto per condividerne l’attenzione, cioè per agire sullo stato rappresentazionale dell’adulto. In quest’ultimo caso l’oggetto rappresenta solo il mezzo di cui si serve il bambino per ottenere l’attenzione dell’adulto. Quest’analisi della funzione svolta dalla struttura comunicativa protodichiarativa porta ad individuare in essa un precursore di una teoria della mente, in quanto il bambino nell’utilizzarla di avvale di una qualche comprensione dell’attenzione dell’adulto.

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A due anni il bambino possiede una comprensione della mente basata sui de-

sideri (Wellman e Bartsch, 1994); a tre anni comprende le credenze basate sul dato

di realtà; a quattro anni emerge la comprensione delle false credenze (Wimmer e

Perner, 1983) e solo verso gli otto anni emerge la capacità di comprendere le cre-

denze sulle credenze, cioè il pensiero ricorsivo (“Mirko pensa che Matteo pensi

che…”).

I lavori empirici mostrano come fin dai due anni i bambini siano in grado

di riferirsi nel linguaggio a stati mentali utilizzando parole come “voler”, “vede-

re” che si riferiscono a stati interni di tipo percettivo o emotivo.

A tre anni compaiono i primi vocaboli cognitivi, come ad esempio “sape-

re”, “pensare”, “ricordare”. Inoltre dai due anni in poi iniziano a comprendere il

nesso che sussiste tra vedere le cose e conoscerle e capiscono che persone diver-

se possono avere un’immagine differente del mondo.

Fin dai due anni d’età, i bambini sanno che il desiderio guida il gesto e

perciò sono in grado di predire l’azione sulla base del desiderio, anche se insod-

disfatto, e inoltre comprendono le relazioni tra desideri ed emozioni, inferendo

che le persone sono felici quando i loro desideri sono esauditi e sono invece tristi

quando ciò non accade.

L’accorgersi che anche le altre persone hanno una mente e che quindi pos-

sono avere desideri, intenzioni e credenze in base ai quali orientano le proprie

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azioni, significa anche rendersi conto che le credenze degli altri possono differi-

re dalle nostre.

L’insieme delle credenze di un individuo sulla realtà esterna può essere de-

finita “rappresentazione” (mentale) del mondo e nella comprensione dello stato

mentale dell’altro è implicata una capacità riflessiva di tipo metarappresentativo.

Quest’ultima consente di andare oltre le rappresentazioni di primo ordine e di ri-

conoscere una realtà mentale diversa da quella fisica. In quest’ottica il gioco di

finzione diviene la prima manifestazione di capacità metarappresentazionale, in

quanto il bambino nell’utilizzare un oggetto (ad esempio una matita) con una

funzione diversa (“questa matita è un missile”) fa riferimento ad una realtà men-

tale autonoma rispetto alla realtà fisica. La matita nella rappresentazione prima-

ria è un oggetto per scrivere, a livello secondario viene rappresentato come un

missile.

I numerosi studi empirici condotti negli ultimi anni sono concordi nel so-

stenere che prima del quarto anno di età i bambini non sarebbero in grado di

comprendere gli stati mentali, nonostante vi sia una evidente contraddizione tra

le capacità messe in atto dai bambini più piccoli nella comprensione delle menti

e la loro relativa incompetenza nella risoluzione dei compiti sperimentali.

Di seguito presenteremo una situazione sperimentale messa a punto con

l'intento di indagare non solo i precursori della TdM, ma di esplorare le possibi-

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lità che i bambini più al di sotto dei quattro anni abbiano una comprensione im-

plicita della falsa credenza.

Dai risultati emerge che molti degli insuccessi rilevati prima dei quattro

anni potrebbero essere attribuiti non tanto ad una mancanza di capacità, quanto

piuttosto alla complessità delle prove soprattutto per ciò che concerne la struttu-

ra linguistica. Vi sarebbe quindi un processo lento e graduale in cui abilità pre-

coci costituiscono poi le basi per lo sviluppo di capacità sempre più complesse e

articolate che porteranno il bambino, nel corso dello sviluppo, ad essere un abile

comunicatore.

Finestra di approfondimento:

Can't sleep story

Il compito sperimentale chiamato “Can't sleep story” consiste nel mostrare

ai bambini un libro illustrato intitolato appunto “Cant sleep” (di Moerbeek,

1994)e fare loro delle domande. In ogni pagina del libro l'attenzione del bambi-

no si focalizza su un cerchio nero, molto simile alla rappresentazione di un oc-

chio nero che spunta da un buco della pagina. Al termine del libro il bambino

scopre che il cerchio nero non è un occhio, ma una macchia della pelle di un

serpente.

Al termine della lettura vengono poste due domande:

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“Prima di girare la pagina, cosa pensavi che fosse questa: un occhio o

una macchia?” (domanda di falsa credenza di primo ordine)

“Che cosa è per davvero: un occhio o una macchia? (domanda di control-

lo)

Viene poi introdotto un pupazzo, dicendo:

“Questo è Lorenzo, lui non ha mai visto questo libro prima. Se facciamo

vedere a Lorenzo questa pagina (penultima del libro) lui cosa pensa che questo

sia. Un occhio o una macchia? (domanda di falsa credenza di primo ordine).

Che cos' è per davvero: un occhio o una macchia? (domanda di controllo)

Le prove di falsa credenza

Il primo studio riguardo la comprensione degli stati mentali propri e altrui

è stato messo a punto da Wimmer e Perner (1983) e prevedeva lo spostamento

inatteso di un oggetto13. La scoperta che i bambini più piccoli non comprendono

che le aspettative di un individuo possono non corrispondere alla realtà dei fatti

diede il via ad una serie di lavori empirici sul rapporto tra mente e comporta-

mento e sulla concezione della mente nei bambini.

La procedura messa a punto da Wimmer e Perner, ormai nota come “test

della falsa credenza” (false belief task) suscitò la perplessità di alcuni studiosi

13 Lo spostamento di un oggetto si riferisce a del cioccolato che viene posto dal protagonista della storia, cioè Maxi, in una dispensa blu e successivamente in assenza del bambino il cioccolato viene spostato dalla mamma e posto nella dispensa verde. Ai bambini veniva chiesto dove Maxi avrebbe cercato la cioccolata al suo ritorno. I bambini al di sotto dei 4 anni rispondevano che Maxi si sarebbe diretto verso la dispensa ver-de. Si tratta ovviamente della risposta scorretta, infatti come faceva Maxi a sapere che la cioccolata era stata spostata altrove?

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che criticarono l’eccessiva lunghezza della situazione sperimentale che poteva

pregiudicare la comprensione dell’episodio da parte dei bambini più piccoli pro-

prio per la quantità di informazioni di cui si doveva tener conto.

La maggior parte questi studi utilizzano metodologie sperimentali basate

sull’utilizzo di vignette o di scene aventi come personaggi bambole o a volte an-

che persone reali.

Qui di seguito vengono riportate due prove riguardanti lo spostamento

inatteso di un oggetto e una prova di contenuto inatteso14.

Falsa credenza di primo ordine: Spostamento inatteso

Materiale: Sally e Andy (due pupazzi), una mela, una borsa, un cestino.

“Questa è Andy. Andy mette la sua mela nella borsa e poi se ne va. Mentre

Andy è fuori, Sally tira fuori la mela dalla borsa, la mette nel cestino e va fuori a

giocare. Ora Andy torna perchè vuole un po di mela.

“Andy dove cercherà la mela?” (domanda di falsa credenza di primo ordi-

ne)

“Dove si trova la mela per davvero?” (domanda di controllo)

Falsa credenza di primo ordine: Contenuto inatteso

Scatola di smarties di cartone rigido, matite.

14 I compiti sperimentali riproposti sono tratti da Lecce, Cavallini, Pagnin, 2010

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Viene fatta vedere al bambino la scatola degli smarties (ma gli smarties

sono stati spostati e al loro posto sono state inserite delle matite) e gli si chiede

“Cosa pensi che contenga questa scatola? Guardiamo!” (lasciamo che il bambino

apra la scatola e guardi dentro) Il bambino dirà che dentro ci sono delle matite e

non degli smarties (come la scatola faceva presumere). Si introduce un pupazzo

(ad esempio di nome Robi) e si chiede “Robi cosa pensa ci sia nella scatola?”

(domanda di falsa credenza di primo ordine)

Domanda di controllo: “Ci sono davvero degli smarties in questa scatola?”

(domanda di controllo).

Al termine del compito viene effettuata una breve intervista per verificare

la capacità dei soggetti di attribuire credenze ai personaggi delle storie.

Per poter considerare la prova superata, il bambino deve essere in grado di

rispondere correttamente sia alla prima domanda che alla domanda di controllo.

Pertanto si considera superata la prova, se il bambino risponderà “borsa” alla

prima domanda e “cestino” alla domanda di controllo.

La seconda prova viene considerata superata se il bambino risponderà

“smarties” (e non matite!) alla domanda di falsa credenza e se dirà che non ci

sono smarties nella scatola, ma matite. La maggior parte dei bambini di quattro

anni capisce che il protagonista andrà a frugare inutilmente nella borsa, mentre

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la maggioranza di quelli di tre anni risponde, invece, che andrà a cercare

l’oggetto nel cestino, semplificando quindi la struttura della storia.

I bambini possiedono una teoria della mente quando sono in grado di pre-

vedere che i personaggi ingannati (Andy nel caso precedente) agiscono sulla ba-

se di una falsa credenza e, di conseguenza, vanno a cercare l’oggetto dove

l’avevano lasciato e non dove effettivamente si trova.

Per rispondere correttamente il bambino deve rendersi conto che le perso-

ne agiscono sulla base di ciò che pensano essere vero e perciò la rappresentazio-

ne della realtà dipende dalle informazioni che ciascuno possiede. La risoluzione

corretta del compito di falsa credenza implica la comprensione che la realtà può

essere pensata e le persone possono avere rappresentazioni diverse di una mede-

sima realtà15.

L’insieme delle ricerche effettuate non ha evidenziato solo differenze tra i tre

e i quattro anni di età, ma ha anche esaminato la capacità dei bambini di cogliere le

proprie false credenze. Anche in questo caso è emerso come i bambini di tre anni

hanno difficoltà ad ammettere di essersi sbagliati, quando scoprono che le proprie

credenze sono in contrasto con la realtà dei fatti (Gopnick, Astington, 1988).

Le ricerche condotte finora da un lato hanno permesso di analizzare le dif-

ferenze tra soggetti in un ottica evolutiva, mettendo cioè a confronto bambini di

età diversa e dall’altro lato hanno permesso di studiare come la scarsa compren-

15 Per ulteriori approfondimenti sulle ricerche recenti condotte secondo il paradigma della falsa credenza si veda: Wellman H.M., Cross D., Watson J. (2001) Meta-analysis of theory of mind development: The truth about false belief. In Child Development, 72, 3, 655-684.

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sione delle rappresentazioni mentali potrebbe contribuire a spiegare alcune pato-

logie, come ad esempio l’autismo.

Il grande impegno profuso nella messa a punto e nella verifica del para-

digma della falsa credenza non deve comunque farci sottovalutare i processi di

sviluppo presenti fin dai primi anni di vita. Infatti il fallimento nel test di falsa

credenza non implica necessariamente una completa ignoranza dei meccanismi

mentali nei bambini più piccoli. Come sottolineano Bruner e Feldman: “Identifica-

re il possesso di una teoria della mente con la capacità di cogliere la distinzione epi-

stemologica tra vera e falsa credenza mette in ombra il contributo che alla sua elabo-

razione hanno portato i tre o i quattro anni precedenti a quel passaggio finale”

(1993; p.88).

La Camaioni (1993) evidenzia come, in una concezione dello sviluppo at-

tenta alla contiguità della progressione cognitiva, sia importante cercare anche

nei primi due anni competenze adeguate al configurarsi dei precursori della

comprensione della mente.

L’analisi del lessico psicologico dei bambini non deve sorprenderci dato

che, negli studi sulle teorie della mente, il linguaggio è stato più volte considera-

to una sorta di “finestra” di osservazione dalla quale accedere a ciò che i bambi-

ni pensano e sanno sul mondo delle persone. In questa prospettiva si collocano

sia gli studi osservativi sulla comparsa di riferimenti agli stati interni nel lin-

guaggio spontaneo dei bambini, sia gli studi sperimentali sulla comprensione

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delle differenze semantiche tra termini che denotano stati epistemici (credere,

sembrare, ecc.).

Falsa credenza di secondo ordine

Le credenze di secondo ordine vengono superate tra i 6 e i 7 anni e valuta-

no la capacità del bambino di effettuare ragionamenti ricorsivi di secondo ordine

del tipo: “La mamma pensa che Matteo pensi che...”. Le prove di primo e secon-

do ordine si riconducono alla medesima abilità sottostante: la comprensione che

le credenze possano essere false rispetto alla realtà.

La differenza tra le due consiste nel grado di difficoltà del pensiero ricor-

sivo richiesto. I bambini in età scolare incrementano e affinano la tendenza a

mentalizzare, cioè a riferirsi a stati mentali ed esplicitare gli stati interni che mo-

tivano il comportamento.

Falsa credenza di secondo ordine: La festa di compleanno16

Oggi è il compleanno di Paolo e la sua mamma ha deciso di fargli una sor-

presa e regalargli un pupazzo. La mamma di Paolo ha nascosto il regalo fuori in

garage. Paolo dice alla sua mamma:”Spero davvero che tu mi abbia regalato un

pupazzo per il mio compleanno”. Ricordati che la mamma vuole fare una sor-

16 Il compito sperimentale qui riproposto è tratto da Lecce, Cavallini, Pagnin, 2010

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presa a paolo. Così, invece, di dirgli che gli ha comprato un pupazzo dice: “Mi

dispiace Paolo, non ti ho regalato un pupazzo, ma un gioco”.

“Cosa pensa Paolo di ricevere per il suo compleanno? (falsa credenza di

primo ordine)

Cosa gli dirà la sua mamma per davvero (domanda di realtà relativa alla

credenza di primo ordine).

Ora Paolo decide di andare i giardino a giocare. Decide di prendere la bici

e in garage trova il pupazzo per il suo compleanno! Paolo dice tra sé “Wow! La

mamma non mi ha comprato un gioco, ma un pupazzo per il mio compleanno!”.

La mamma non ha visto Paolo andare in garage e non sa che Paolo ha tro-

vato il pupazzo.

In casa squilla il telefono. E la nonna di Paolo che chiama per sapere a che

ora è la festa. La nonna chiede alla mamma:”Paolo cosa pensa che tu gli abbia

regalato per il suo compleanno”.

“Cosa risponde la mamma?” (domanda di falsa credenza di secondo ordi-

ne)

“Perchè dice questo” (domanda di spiegazione alla credenza di secondo

ordine)

“La mamma ha visto Paolo nel garage” (I domanda di controllo)

“Cosa ha comprato davvero la mamma” (II domanda di controllo)

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Altre volte per indagare le credenze di secondo ordine vengono anche uti-

lizzati stimoli narrativi, come per esempio: inventare una storia a partire da un ti-

tolo o completare una storia con le parti mancanti. La storia scritta viene poi co-

dificata e valutata per la tendenza a riferirsi a stati interni nella caratterizzazione

del mondo psicologico dei bambini.

Un ulteriore aspetto che sta riscuotendo notevole interesse negli studiosi,

riguarda il ruolo dei diversi contesti familiari nell’acquisizione e nello sviluppo

di una teoria della mente. L’indagine sulle radici sociali della conoscenza psico-

logica ha considerato gli effetti di diverse figure sociali sulla capacità dei bam-

bini di cogliere le credenze altrui. I lavori della Dunn mostrano che è principal-

mente nell’interazione tra fratelli che bambini anche molto piccoli vivono inten-

se esperienze utili allo strutturarsi della competenza sociale. Perner, Ruffman e

Leekman (1994) in un interessante lavoro si oppongono ad una visione pura-

mente maturativa e intra-individuale dello sviluppo delle conoscenze sulla men-

te. Nel loro lavoro mostrano che il successo nei compiti di falsa credenza a 3 e 4

anni è correlato al numero di fratelli con un vantaggio stimato in circa un anno

di esperienza. Gli autori propongono una interpretazione vygotskiana dei loro ri-

sultati, ipotizzando che i fratelli più grandi svolgano una funzione tutoriale nei

confronti dei piccoli, inducendoli a sviluppare la rappresentazione degli stati

mentali attraverso la cooperazione, in particolare nel gioco simbolico. Il fatto

che i fratelli aiutino a sviluppare una teoria della mente è compatibile con la tra-

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dizione socio-cognitiva che concepisce il progresso intellettuale come funzione

dell’interazione sociale tra pari e considera la crescita intellettuale come un pro-

cesso di interiorizzazione della conoscenza elaborata dalla cultura di appartenen-

za.

Anche in un lavoro di Astington e Jenkins (1995) si conferma un effetto

significativo della dimensione della famiglia sia nella competenza cognitiva sia

in quella linguistica. Questo recente filone di studi è più attento alle dimensioni

sociali e culturali considerate fattori determinanti nelle nostre esperienze e nella

comprensione degli stati mentali e intenzionali di noi stessi e degli altri. Viene,

quindi, sottolineata la partecipazione attiva del bambino ad un sistema relaziona-

le e comunicativo.

2.12 La relazione con l'insegnante

Negli ultimi anni alcuni autori hanno approfondito attraverso studi empiri-

ci e osservazioni in classe. il ruolo svolto dalle relazioni interpersonali nella vita

del bambino all'interno della classe. E'' stato osservato che lo stare bene a scuola

non chiama in causa solo dimensioni cognitive, ma anche abilità socio-cognitive

che garantiscono comportamenti socialmente competenti e buone relazioni con il

gruppo classe e con gli insegnanti.

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A partire dalle prime considerazioni vygotskiane, fino ad arrivare agli stu-

di contestualisti, molto si è detto e si è scritto riguardo l'importanza della rela-

zione tra i pari. A nostro avviso poco indagato (soprattutto negli ordini di scuola

superiore) è invece il rapporto con l'insegnante che, come invece sottolineano

fermamente anche i teorici dell'attaccamento, rimane una delle più importanti re-

lazioni all'interno del contesto scolastico.

L'insegnante assume funzioni simili a quelle della figura materna, soprat-

tutto per ciò che riguarda l'attività di contenimento e di supporto del bambino nel

percorso di crescita. Compito dell'insegnante è anche quello di fornire una base

emotiva sicura, caratterizzata da rapporti interpersonali positivi. Inoltre, in situa-

zioni di difficoltà o ambiente familiare poco supportivo, la figura dell'insegnante

potrebbe essere una risorsa che va ad attenuare il rischio evolutivo. Il recente

contributo di Pianta ci ricorda esplicitamente che l'adattamento scolastico e la re-

lazione tra il bambino e l'insegnante ha ricadute rilevanti sulla motivazione

all'apprendimento e sull'inserimento in classe.

Considerando il ruolo sociale della teoria della mente, potremmo dire che

essa potrebbe sostenere il bambino nella messa in atto di comportamenti social-

mente adeguati e che probabilmente faciliti nel bambino la comprensione della

volontà dell'insegnante, favorendo quindi l'adesione alle richieste che provengo-

no dall'ambiente scolastico.

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Dagli studi d Judy Dunn, però, emerge anche che la capacità di compren-

dere lo stato mentale dell'altro di fatto rende il bambino più sensibile (e quindi

più fragile) alle critiche che provengono dall'insegnante stesso perchè entrano in

gioco sia la capacità di sapere gestire la critica, sa quella di giudicare il proprio

operato.

In questo senso la teoria della mente rappresenterebbe un costo per l'adat-

tamento scolastico (Cutting e Dunn, 2002)

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III LEZIONE Comunicazione e linguaggio nei bam-

bini

3.1 Lo sviluppo della comunicazione intenzionale: la comparsa dell'in-

tersoggettività

La comunicazione umana si sviluppa perché ben presto tra bambino e

adulto di costruisce un sistema interattivo aperto che si autoregola e autocorreg-

ge in funzione dello scopo, capace di costruire e condividere significati, secondo

sequenze comunicative in cui i due interlocutori si influenzano a vicenda tramite

i feedback che caratterizzano sempre gli scambi comunicativi.

I primi scambi relazionali sono importantissimi perchè permettono al

bambino di condividere la propria soggettività con altri (intersoggettività). Bru-

ner definisce l' intersoggettività come una capacità su base innata che consente

di costruire schemi di condivisione della propria esperienza con gli altri e di co-

minciare a codificare l'intenzione altrui. Trevarthen definisce questi precoci

scambi di comunicazione con un partner privilegiato (la madre) intersoggettività

primaria.

Numerosi studi hanno messo in evidenza la tendenza dell'adulto nell'imita-

re suoni, movimenti con le mani prodotti dal bambino con l'intento di dare loro

un significato. Questa imitazione vien poi riprodotta anche dal bambino in un

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processo di partecipazione e condivisione di suoni, gesti e movimenti. Come sot-

tolinea Meltzoff la capacità imitativa del neonato favorisce una stretta vicinanza

tra lui e l'adulto e produce una progressiva sintonizzazione cognitiva e affettiva.

L'adulto si offre al bambino come “cornice di riferimento” (frame) per le

attività del bambino. All'interno di questa “cornice” si situano le azioni quotidia-

ne (mangiare la pappa, andare a passeggio, fare la nanna, ecc..) sotto forma di

ripetizione di sequenze interattive per le quali si vengono a costituire delle routi-

ne. Mediante la realizzazione ricorrente e standardizzata di sequenze di azioni,

non solo il bambino viene rassicurato dal punto di vista emotivo, ma si appropria

delle convenzioni e delle pratiche che caratterizzano la sua cultura di riferimen-

to.

Le capacità del bambino non si sviluppano, quindi, né mediante una con-

dotta casuale per prove ed errori, né grazie a processi maturativi, bensì all'inter-

no di sequenze interattive routinizzate (format). Si tratta secondo Bruner di

schemi interattivi che si sono convenzionalizzati grazie alla lor regolarità ed ef-

ficacia. Sono importanti per il bambino perché riducono al minimo la possibilità

di variazione e di indeterminatezza delle situazioni e rendono altamente prevedi-

bili e regolari i contesti.17

17 Anche alla scuola dell'infanzia (dove il bambino è più grande rispetto al nido di infanzia) la regolarità delle routine che scandiscono la giornata è estremamente importante perché rassicura il bambino, rendendo prevedibile il contesto. I bambini imparano e rispettano la successione del-le attività proposte dall'insegnante: verifichiamo le presenze, svolgiamo un'attività, andiamo al bagno, laviamo le mani, andiamo a pranzo, gioco libero, ritorno in sezione, altra attività, arrivo delle mamme. La scansione della giornata aiuta il bambino ad orientarsi anche rispetto al tempo

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All'intersoggettività primaria, segue tra i 9 e i 12 mesi quella secondaria

caratterizzata dalla capacità del bambino di partecipare attivamente e intenzio-

nalmente ad una situazione comunicativa.

Gli scambi comunicativi durante le interazioni porteranno allo sviluppo di

una vera e propria comunicazione intenzionale, sostenuta in primo luogo dalla

capacità di condividere e sostenete l'attenzione.

La condivisone dell’attenzione (che compare in modo stabile intorno ai 9-

12 mesi) consiste nell’imparare a coordinare la propria attenzione con quella dei

propri partner sociali, per poter condividere l’interesse verso un elemento della

realtà esterno che funga da referente (D’Odorico, 2005).

Pensiamo ad una sequenza comportamentale di questo tipo: mamma e

bambino sono seduti vicino e giocano con una macchinina; il bambino dirige lo

sguardo dal giocattolo al viso dell’adulto e poi di nuovo verso il giocattolo. Tali

sequenze comportamentali possono essere ripetute più volte di seguito o amplia-

te. Il bambino può, infatti, accompagnare lo sguardo con il gesto dell’indicare o

con una vocalizzazione, seguire la traiettoria dello sguardo dell’adulto verso un

altro oggetto e utilizzare i gesti per dirigere l’attenzione dell’altro. Tale processo

di messa a fuoco su un elemento esterno alla coppia adulto-bambino mette le

premesse di ciò che si chiamerà “condivisione di un argomento”, cioè due o più

(quanto manca all'arrivo della mamma) e una volta che l'ha acquisita, comprende e accetta di buon grado eventuali variazioni (una festa, un'uscita in biblioteca, l'arrivo di babbo natale, ecc.) perché sa che rappresentano un'eccezione ad una regolarità che ormai conosce e che comunque lo rassicura.

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interlocutori che parlano di qualcosa che in quel momento è oggetto del loro in-

teresse e della loro attenzione. L’adulto attribuisce qualità e fa commenti (pro-

cesso di predicazione) su ciò che attira l’attenzione reciproca e anche il bambino

prende parte a questo processo con lallazioni, movimenti del corpo e sorrisi.

Anche il gesto di indicazione (che accompagna lo scambio appena esami-

nato) non compare prima dei 12 mesi. Prima il bambino non coglie l'intento co-

municativo della madre e se la mamma indica un oggetto anziché guardare nella

direzione segnalata, le guarda il dito. Dopo i 12 mesi, invece, si verifica un cam-

biamento qualitativo cruciale nella comprensione dell'intenzione degli altri, per

cui il bambino riesce ad estrapolare la traiettoria dello sguardo della mamma per

individuare l'oggetto a cui ci si riferisce. La comprensione dell'intenzionalità del

gesto precede di poco la capacità di indicare da parte del bambino.

I primi gesti (che compaiono tra gli 8 e i 12 mesi ) sono prodotti isolata-

mente o associati a vocalizzazioni e vengono chiamati gesti deittici o performa-

tivi18.

I gesti deittici esprimono unicamente l’intenzione comunicativa del parlan-

te mentre il referente della comunicazione è fornito dal contesto extra-linguistico

in cui la stessa si realizza.

18 Ricordiamo le ricerche pionieristiche di Bates, Camaioni e Volterra (1975) che studiarono la comparsa del gesto nel bambino, riuscendo a differenziare tra gesto deittico richiestivo e gesto deittico dichiarativo (illustrati nel corso del paragrafo).

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Attraverso i gesti esprime due tipi di intenzione comunicativa: richiestiva

(il bambino si rivolge all'adulto con lo scopo di ottenere l'oggetto che sta indi-

cando);

dichiarativa (il bambino indica un oggetto non perché lo desidera, ma per-

ché intende attirare l'attenzione dell'adulto).

Il performativo richiestivo ha la finalità pratica di ottenere qualcosa. Quin-

di, il bambino utilizzandolo intende solo dirigere le azioni dell'altro.

Con l'utilizzo del performativo dichiarativo, invece, intende condividere

con un''altra persona l'interesse per qualcosa. Lo scopo non riguarda il raggiun-

gimento di un oggetto, ma l'oggetto è semplicemente un mezzo utilizzato dal

bambino per influenzare lo stato psicologico (attirare l'attenzione) dell'interlocu-

tore.

Il richiestivo compare prima del dichiarativo, e quest'ultimo è correlato

con lo sviluppo del vocabolario.

I gesti referenziali, invece , hanno un rapporto diretto e trasparente con il

referente (“più” = allargando le braccia; “sì/no” = scuotendo la testa; ciao = salu-

tando con la mano, ecc.).

Il significato di tali gesti è fortemente convenzionale e nascono per lo più

all’interno di situazioni interattive quotidiane (routines) con l’adulto. Altri gesti

referenziali nascono dalle azioni esercitate dal bambino sul mondo fisico e deri-

vano dal riconoscimento della funzione caratteristica dell’oggetto. Tipici a que-

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sto proposito sono le imitazioni di azioni come mangiare, telefonare, dormire.

Questa capacità può essere considerata il punto più alto del processo che, a parti-

re dalla precoci capacità percettive e sociali, permette la bambino di sviluppare

una competenza comunicativa in assenza di parole, diventando progressivamen-

te agente attivo all’interno del proprio sistema relazionale.

3.2 Dall'intenzionalità comunicativa alle prime parole

Fin dalla nascita il bambino mette in atto una serie di comportamenti (sor-

risi, smorfie, ecc.) che vengono interpretati dalle persone che si occupano di lui

come segnali comunicativi. In realtà sono dei riflessi innati ma importantissimi

in relazione con il processo di sviluppo della sua personalità e, quindi, con il

processo di socializzazione. Tra i riflessi presenti il sorrisoe il pianto meritano

sicuramente la nostra attenzione.

Il primo tipo di sorriso osservato nei bambini fin dalle prime settimane di

vita, viene chiamato riflesso perchè compare durante le fasi di sonno profondo

(REM) in assenza, quindi, di particolari stimoli visivi; successivamente il sorriso

diviene sociale perchè elicitato ad esempio dal volto materno e solo verso i nove

mesi diviene sociale selettivo, cioè il bambino sorride intenzionalmente alle per-

sone che conosce.

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Il sorriso maturo del bambino è sia di natura fisiologica che psicologica,

cognitiva ed emotiva, sociale e personale. Il bambino diventa attivo trasformato-

re dell’ambiente, in quanto il sorriso influenza la realtà esterna e riflette la quali-

tà della relazione con chi lo circonda.

Il pianto, presente sin dalla nascita, è sicuramente il comportamento finalizza-

to alla segnalazione più significativo. All'inizio è strettamente interconnesso a fe-

nomeni fisiologici e manifesta un malessere (fame, freddo, ecc.). Successivamente

si innesta una valenza psicologica che lo trasforma in comportamento-segnale

per richiamare l'attenzione dell'adulto.

Esistono vari tipi di pianto che si differenziano per ritmo e intensità. L'ana-

lisi spettrometrica del pianto secondo parametri fonetico-acustici permette una

registrazione grafica in bande di frequenza che mostrano caratteristiche differen-

ziate.

È stato rilevato, ad esempio, che il pianto da fame inizia in modo lento e

aritmico, divenendo via via più intenso e ritmato. Il pianto di dolore è, invece,

intenso sin dall'inizio. Il pianto da collera presenta la stessa sequenza temporale

del pianto da fame (pianto-pausa-inspirazione-pausa) ma cambia la lunghezza

delle varie componenti.

I diversi tipi di pianto favoriscono nelle madri la capacità di identificare il

pianto del bambino e di reagire adeguatamente. Man mano che il bambino cre-

sce il pianto, proprio in relazione a questo rapporto che si è instaurato con la

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madre, viene ad essere legato a bisogni più propriamente di tipo psicologico e

sociale. Per esempio lo studio delle prime comunicazioni interpersonali hanno

evidenziato che già verso la terza settimana di vita è possibile osservare uno

pseudopianto che indica un bisogno d'attenzione.

Le cause del pianto diventano di natura ancor più tipicamente psicologica

e sociale quando è determinato dalla scomparsa della figura umana e poi in se-

guito dalla vista di una persona estranea alla famiglia. Spitz (1962), che per pri-

mo ha messo in evidenza tali cause, ha definito i segnali: angoscia di separazio-

ne e paura degli estranei. Si tratta del primo pianto non scatenato da cause stret-

tamente fisiologiche che si placa soltanto quando interviene un adulto. È in que-

sto momento che la comunicazione assume il carattere della pre-intenzionalità,

poiché la madre reagendo al comportamento del bambino, ne indirizza progres-

sivamente gli scopi.

Una scoperta rilevante sul piano teorico riguarda la possibilità che hanno i

neonati di discriminare tutti contrasti fonetici utilizzati dalle lingue umane. Sono

cioè in grado di parlare tutte le lingue del mondo e gradualmente intorno ai 6

mesi mostrano di preferire i suoni vocalici della lingua madre, finchè intorno ai

10 mesi si sintonizzano sul repertorio fonemico della lingua cui sono esposti,

perdendo la capacità sopra evidenziata.

Nei primi 2 mesi di vita producono suoni di tipo riflesso e suoni vegetativi

come ruttini, deglutizione, ecc. Tra i 2 e i 5 mesi compaiono le prime vocalizza-

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zioni e risate, cioè espressioni di benessere che compaiono in situazioni in cui il

bambino si sente a suo agio e soprattutto quando è in contatto, fisico e visivo,

con la madre. Tra i 4 e i 7 mesi si stabilizzano i suoni vocalici e si aggiungono

suoni vocalici maggiormente variati. Spesso l’ascoltatore ha l’impressione che il

bambino stia “giocando” con il proprio apparato fonatorio, sperimentandone le

infinite possibilità. Durante questo periodo, i vocalizzi dei bambini diventano

spesso parte di una “protoconversazione”, si inseriscono cioè tra i turni verbali

del genitore, come se il bambino cominciasse ad inserirsi nei turni conversazio-

nali.

Intorno ai 7-10 mesi compare la lallazione reduplicata o canonica: il bam-

bino è in grado di produrre sequenze consonante-vocale con le stesse caratteri-

stiche delle sillabe (ad esempio, «ma», «da»). La medesima sequenza di conso-

nante-vocale viene ripetuta più volte, dando origine alla lallazione reduplicata

(ad esempio /dada/, /mama/, /papa/) (Camaioni, 2001). Spesso questo tipo di

suoni sono accompagnati da movimenti ritmici del corpo, come ad esempio bat-

tere le mani.

Attraverso il feedback acustico, il bambino controlla la propria attività fo-

noarticolatoria, imparando a riconoscere le parole del linguaggio adulto e imitar-

le, inoltre, in questa fase cominciano ad emergere le caratteristiche specifiche

della lingua materna, in particolare la prosodia (intonazione).

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Alla fine del primo anno di vita compare la lallazione variata caratterizza-

ta da strutture sillabiche più complesse e lunghe in cui sia le consonanti che le

vocali possono essere diverse (ad esempio /dadu/ )

Secondo alcuni autori questa fase segnerebbe proprio l’inizio della produ-

zione linguistica vera e propria, almeno dal punto di vista fonetico anche se al-

cuni bambini rimangono a lungo in questa attività di sillabazione. Sempre intor-

no ai 12 mesi compaiono i primi suoni simili a parole o protoparole, che assu-

mono una funzione comunicativa specifica, in quanto sono utilizzati in modo ri-

corrente in determinati contesti. Da questo momento in poi, lo sviluppo fonolo-

gico interagirà con lo sviluppo grammaticale e lessicale e ne risulterà reciproca-

mente influenzato.

Prima di analizzare le tappe dello sviluppo linguistico, passeremo in rasse-

gna i principali modelli teorici che in questi anni si sono alternati con lo scopo di

fornire una spiegazione plausibile riguardo ad esempio i meccanismi che portano

il bambino ad imparare la lingua madre in un tempo relativamente breve.

3.3 Principali modelli teorici sullo sviluppo del linguaggio

Le ipotesi avanzate riguardo lo sviluppo linguistico sono diverse e talvolta

opposte, anche se riconducibili a indirizzi più generali di pensiero , cioè a diversi

approcci teorici, che avremo modo di approfondire nei paragrafi seguenti.

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La Posizione empirista

Negli anni Cinquanta il panorama teorico della psicologia vedeva il pre-

dominio della corrente di pensiero del comportamentismo (Skinner, 1957). Se-

condo tale visione il neonato viene al mondo come una tabula rasa, privo di al-

cun tipo di conoscenza. Egli avrebbe come unica dotazione di base un sistema

sensoriale ed un insieme di regole di associazione necessarie per apprendere

dall’esperienza. Secondo questa visione, dunque, tutto ciò che il bambino ap-

prende è frutto dell’esperienza e dell’esposizione a stimoli ambientali in grado di

influenzarlo attraverso i meccanismi del condizionamento classico ed operante.

Anche il linguaggio, dunque, verrebbe appreso unicamente attraverso

l’esperienza e l’imitazione.

Tale posizione è stata presto criticata per il suo totale sbilanciamento verso

la dimensione empirista. Essa, infatti, non riesce a spiegare la creatività del

bambino nell’uso del linguaggio: egli nel corso dello sviluppo linguistico, non si

limita a riprodurre i suoni ascoltati, ma dà origine a nuove combinazioni, mai

udite in precedenza. Se si assumesse, inoltre, una posizione esclusivamente em-

pirista non si capirebbe come il bambino giunga ad utilizzare in modo corretto il

linguaggio, partendo unicamente dall’imitazione dei discorsi degli adulti che

spesso contengono errori, frasi incomplete o scorrette.

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La Teoria innatista

Il principale attacco alla posizione empirista viene dato nel 1959 dal lin-

guista Noam Chomsky. Egli avanza l’idea che il linguaggio sia una facoltà inna-

ta, autonoma ed indipendente dallo sviluppo cognitivo e dalla competenza co-

municativa. L’autore esclude la possibilità che il bambino impari a parlare sem-

plicemente per imitazione, poiché altrimenti non troverebbe spiegazione la crea-

tività che i bambini mostrano nell’uso del linguaggio. Anche gli errori di sovra-

generalizzazione, che abbiamo visto precedentemente, non troverebbero spiega-

zione in ottica empirista: il bambino coniuga in modo errato un verbo (es. apri-

to), poiché applica a tutti i verbi una regola grammaticale da poco appresa. È

chiaro, tuttavia, che tale uso non lo abbia mai riscontrato nel linguaggio che gli

adulti gli rivolgono.

La teoria elaborata da Chomsky, definita linguistica generativa, ha eserci-

tato una notevole influenza negli studi linguistici e psico-linguistici della secon-

da metà del secolo scorso. Chomsky considera il linguaggio come un insieme di

regole astratte in grado di generare tutte le frasi grammaticali di una lingua, in-

sieme che il bambino deve apprendere nel corso del suo sviluppo. Egli conside-

ra, inoltre, il processo di acquisizione del linguaggio come un compito attivo: il

bambino a partire dallo stimolo linguistico avvierebbe un processo di verifica di

ipotesi, relative alle regole della lingua, guidato da una serie di capacità innate

che lo metterebbero nella condizione di filtrare ed analizzare lo stimolo lingui-

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stico. Chomsky (1965) definisce tale dispositivo innato Langauge Aquisition

Device (LAD – Dispositivo Innato per l’Acquisizione del Linguaggio), inteso

come una sorta di programma biologico per l’acquisizione del linguaggio. Il

contenuto del LAD sarebbe costituito da un set di universali linguistici, ossia re-

gole formali, strutturali di tutte le lingue naturali, chiamato Grammatica Univer-

sale. La presenza del LAD spiegherebbe, inoltre, secondo Chomsky il fatto che

le tappe dello sviluppo linguistico siano sostanzialmente le stesse in tutto il

mondo, indipendentemente dalle caratteristiche della lingua che il bambino deve

imparare..

Tale posizione riduce in modo drastico l’influenza del linguaggio a cui il

bambino è esposto e attribuisce alla sintassi il ruolo di componente principale

del linguaggio. Secondo tale teoria, infine, la competenza precede l’esecuzione,

nel senso che il bambino possiede le regole prima di imparare ad utilizzarle.

La posizione interazionista: linguaggio e sviluppo cognitivo

Negli anni Settanta, benché non si metta ancora in discussione la compo-

nente innata del linguaggio, entra in crisi l’idea che esso sia una capacità che si

sviluppi indipendentemente da altre dimensioni dello sviluppo, quali, in partico-

lare, quella cognitiva e quella sociale.

Nasce in questo periodo una corrente di pensiero definita teoria interazio-

nista (Slobin, 1985; Bates, Volterra, 1995) la quale, in contrapposizione alle teo-

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rizzazioni di Chomsky, sostiene che l’acquisizione del linguaggio si inserisca nel

contesto dello sviluppo cognitivo e comunicativo generale. Gli studiosi che rien-

trano in questa corrente di pensiero, ritengono che il linguaggio non possa essere

considerato come un’abilità, un modulo indipendente, ma piuttosto che sia il

prodotto dello sviluppo di capacità cognitive più generali. Si sostiene, infatti, che

il bambino debba, prima di iniziare a parlare, sviluppare una sufficiente cono-

scenza del mondo.

Questa corrente di pensiero riprende le teorizzazioni di Piaget, il quale

considerava il linguaggio, insieme all’imitazione differita e al gioco simbolico,

come una manifestazione della capacità simbolica, che segna il passaggio dallo

stadio dell’intelligenza senso-motoria all’intelligenza rappresentativa. In linea

con il pensiero di Piaget, dunque, si ritiene che lo sviluppo cognitivo preceda la

comparsa del linguaggio e sia autonomo rispetto ad esso, mentre il linguaggio

sarebbe una conseguenza e una manifestazione dello sviluppo cognitivo.

La posizione funzionalista: tra cultura e natura

Le due ultime posizioni teoriche prese in considerazione attribuiscono

all’interazione sociale del bambino con le figure accudenti un ruolo nullo o mar-

ginale nello sviluppo del linguaggio. Il ruolo della dimensione ambientale

nell’acquisizione del linguaggio viene rivalutato ad opera dei teorici che rientra-

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no nella corrente di pensiero definita funzionalismo e facente capo prevalente-

mente a J.Bruner.

L’approccio funzionalista sostituisce al concetto di competenza linguistica

la più ampia nozione di competenza comunicativa. Si sottolinea l’esistenza di

una continuità tra lo sviluppo pre-linguistico e la successiva comparsa del lin-

guaggio e si evidenzia che il bambino è in grado di comunicare prima ancora di

imparare ad utilizzare il linguaggio parlato. Ancora in contrasto con Chomsky

viene sottolineata la natura non autonoma del linguaggio, il quale, al contrario,

viene considerato dipendente ed integrato nello sviluppo di competenze cogniti-

ve e sociale che in parte precedono la comparsa del linguaggio e con le quali en-

tra in interazione nel corso del successivo sviluppo.

L’elemento principale di questa posizione teorica, riguarda la rivalutazione

del ruolo dell’adulto e della funzione dell’interazione sociale nello sviluppo del

linguaggio. Senza cadere nella posizione estremista di Skinner, viene riconosciu-

ta all’interazione con gli adulti una funzione facilitatrice e di supporto

nell’acquisizione del linguaggio da parte del bambino. Snow e Ferguson (1977)

evidenziano che il linguaggio che gli adulti rivolgono ai bambini non è uno sti-

molo impoverito e scarno come aveva sostenuto Chomsky. Al contrario ritengo-

no che si tratti di un linguaggio ben adattato alle capacità di comprensione del

bambino, costituito da frasi brevi, basate su un lessico concreto, con intonazione

esagerata, con frequenti ripetizioni (motherese).

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Bruner (1983), sulla scia di quanto sostenuto da Vygotskij, ritiene che il

bambino impari a parlare all’interno degli scambi comunicativi con i suoi care-

givers, i quali strutturano per lui format di interazione prevedibili e ripetuti.

Questi format semplificano l’interazione per il bambino, il quale grazie alla ripe-

tizione riesce a comprendere il significato delle azioni e delle espressioni

dell’adulto accudente e inserirsi nell’interazione apprendendo l’alternanza di

turno, grazie alla natura routinaria del format stesso.

Per meglio evidenziare il ruolo dell’interazione tra adulto e bambino nel

facilitare l’acquisizione del linguaggio, Bruner (1983) teorizza che accanto al

Dispositivo Innato per l’Acquisizione del Linguaggio (LAD) esista anche un Si-

stema di Supporto per l’Acquisizione del Linguaggio (LASS – Language Acqui-

sition Support System), rappresentato dal ruolo dell’adulto e del contesto sociale

nel processo di acquisizione del linguaggio da parte del bambino.

3.4 Lo sviluppo linguistico

Camaioni e Di Blasio (2002) evidenziano che non si può parlare di svilup-

po del linguaggio senza inserirlo nella più ampia competenza comunicativa,

benché sia poi importante sottolineare la specificità del linguaggio stesso, gene-

ralmente definito come un sistema di comunicazione simbolica, il quale presenta

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caratteristiche che lo differenziano da altri sistemi comunicativi, ossia

l’arbitrarietà e la creatività.

L’acquisizione della lingua parlata rappresenta un compito estremamente

complesso, soprattutto se si tiene conto che esso si realizza per la maggior parte

entro i primi tre anni di vita.

La complessità del compito che si pone ad un bambino che deve imparare

a parlare diventa più chiara prendendo in considerazione le capacità che esso

presuppone. Camaioni e DiBlasio (2002) sottolineano che per imparare a parla-

re, inizialmente, il bambino deve riconoscere i suoni linguistici, identificarli e

segmentarli dal flusso sonoro continuo e, parallelamente, apprendere i pattern ar-

ticolatori atti a produrre i fonemi e, in seguito, a combinarli tra loro (sviluppo fo-

nologico); dopo la comparsa delle prime parole il bambino deve apprendere ed

ampliare progressivamente il vocabolario di cui dispone ed il significato delle

parole che lo compongono (sviluppo lessicale e semantico), nonché imparare a

padroneggiare le regole morfologiche e sintattiche necessarie a coniugare parole,

aggettivi, verbi e a strutturare frasi (sviluppo grammaticale: morfologico e sin-

tattico). Accanto agli apprendimenti propri degli ambiti linguistici sopra elencati

(strettamente connessi tra loro), l’uso comunicativo del linguaggio implica da

parte del bambino lo sviluppo di una adeguata competenza conversazionale (svi-

luppo pragmatico), ossia l’acquisizione delle regole implicite ed esplicite che

regolano gli scambi comunicativi.

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Sviluppo lessicale

All'incirca tra gli 11/13 mesi, con un’ampia variabilità individuale, com-

paiono le prime parole. Si tratta di termini che si riferiscono ad oggetti concreti,

prevalentemente piccoli, manipolabili o che si muovono e fanno rumore, parte

integrante dell’esperienza del bambino, oppure parole che indicano persone o

azioni che il bambino compie abitualmente.

Le prime parole, in particolare, sono utilizzate dal bambino entro contesti

specifici e ritualizzati. Orsolini (2000) osserva che la parola non nasce come

nome di un oggetto o come rappresentazione (uso referenziale), ma piuttosto

come parte di un’azione comunicativa che il bambino ha imparato a condividere

con l’adulto di riferimento (uso non referenziale). L’uso referenziale della parola

farà la sua comparsa in una fase successiva, quando il bambino riuscirà a com-

prendere la relazione arbitraria tra suono e significato attraverso una progressiva

decontestualizzazione dell’uso del linguaggio, analoga a quanto accade

nell’ambito della comprensione.

Lo sviluppo lessicale nel corso del secondo anno di vita può essere suddi-

viso in due fasi. Nella prima fase, dai 12 ai 16 mesi, compaiono le prime parole

e il bambino giunge a produrre una media di 50 termini; la seconda fase va dai

17 ai 24 mesi, periodo in cui si ha un rapido aumento del numero di parole cono-

sciute e pronunciate dal bambino, al punto che tale fase viene definita esplosione

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del vocabolario. In questo periodo si registra un ritmo di espansione che va da 5

a 40 parole nuove alla settimana. Gli studiosi osservarono che alcuni bambini

accrescevano il loro vocabolario a ritmo di 4/10 parole al giorno, per giungere al

termine di questa fase ad un vocabolario composto in media da 300/350 parole

(Caselli, 1995).

Come fa il bambino ad imparare nuove parole? Una possibilità è che vi

siano dei vincolo di tipo cognitivo che consentono al bambino di cogliere l'asso-

ciazione tra significati e parole. Per esempio il principio della mutua esclusività

lo porta a limitare le interpretazioni che si possono dare di una parola. Il princi-

pio di attribuzione rapida del significato gli permette di attribuire le parole nuove

a oggetti nuovi che prima non conosceva. Il Il vincolo dell'oggetto integro con-

sente al bambino di attribuire un nome all'oggetto per intero e non a parti di esso.

Per quanto riguarda il tipo di parole che vanno a costituire il vocabolario

del bambino in questa fase, al di sotto delle 50 parole esso è composto prevalen-

temente da nomi di oggetti, animali e persone (Camaioni, Di Blasio, 2002).

Quando il vocabolario posseduto dal bambino supera le 100 parole si osserva un

aumento dell’uso di verbi e termini con funzione grammaticale, che introducono

allo sviluppo della predicazione, ossia alla capacità di combinare parole per

comporre frasi.

Tra i 2 e i 3 anni, da un punto di vista fonologico, i bambini sanno pronun-

ciare tutte le vocali e le consonanti della loro lingua, benché compiano ancora

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alcuni errori di pronuncia delle strutture complesse. L’ampliamento progressivo

del lessico favorisce l’affinamento e il completamento dello sviluppo fonologi-

co, così come lo sviluppo fonologico favorisce l’apprendimento lessicale.

Sviluppo semantico

Parallelamente alla comparsa delle prime parole, ha inizio il complesso

sviluppo del linguaggio da un punto di vista semantico, relativo all’attribuire di

significato alle parole apprese.

Gli studi pionieristici di Catherine Snow hanno messo in evidenza il valore

polisemantico e polifunzionale delle prime parole, cioè le parole all'inizio sono

utilizzate per più significati. Queste prime parole definite olofrasi (composte da

una sola parola) sono fortemente contestualizzate, il senoso può essere colto solo

all'interno del contesto in cui sono prodotte.

Un'altra caratteristica delle prime parole è che vengono prodotte e intese in

modo molto ristretto (errori di sotto-generalizzazione) per cui per esempio chia-

mano “gatto” solo ed esclusivamente il loro gatto. L'errore opposto riguarda, in-

vece, la sovra-generalizzazione che ritroviamo quando il bambino estende il si-

gnificato a tutti gli elementi che appartengono ad una stessa categoria. Per cui

chiamerà “gatto” tutti gli animali che hanno il pelo, quattro zampe e la coda.

Questi errori dimostrano che il bambino non ha chiaro il rapporto tra parola,

concetto, categoria. Pensiamo ad una parola qualsiasi tipo: “forchetta”, il bambi-

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no gradualmente imparerà che l'oggetto chiamato forchetta appartiene alla cate-

goria “stoviglie” (ha una funzione diversa dalla parola “cucchiaio”, ma entrambi

appartengono alla medesima categoria) inoltre, cucchiaio e forchetta possono

rientrare nel medesimo concetto:” oggetti che utilizzo tutti i giorni per mangia-

re”.

A due -tre anni, come abbiamo visto, cominciano a classificare e ordiare

gli oggetti, secondo criteri del tutto arbistrari che si basano talvolta su apsetti fi-

sici (colore, forma) altre volte tentano classificazioni più complesse (genere

“maschio/femmina”, grandezza: “grande/piccolo”, piacevolezza: “bello/brutto”)

come nell'esempio seguente:

Matilde (2 anni e 6 mesi)

B.: Matilde è una ragazzina

G.: La mamma cos'è?

B.: Una ragazzina

G.: Matteo? (fratello)

B.: Un ragazzino

G.: E papà?

B.: Un ragazzino

G.: E la nonna?

B.: Nonna è bella

Per quanto riguarda i criteri utilizzati dai bambini per costruire categorie di

significato delle parole che li conducano poi a operare classificazioni, Clack so-

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stiene che il bambino opererebbe sulla base di somiglianze percettive, categoriz-

zando gli oggetti ed estendendo ad essi i nomi in base, per esempio, alla loro

forma, colore, materiale. La Nelson ritiene, invece, che il bambino si basi su un

criterio funzionale, aggregando sotto un’unica categoria semantica gli oggetti

che fanno o con cui egli fa la stessa cosa. Secondo l’autrice, inoltre, il bambino

conosce gli oggetti proprio attraverso le azioni che compie su di essi.

A partire dal nucleo funzionale così formatosi e attraverso continue intera-

zioni con l’oggetto stesso, il bambino arricchisce la conoscenza funzionale

dell’oggetto con quella relativa alle sue proprietà percettive, fino a giungere alla

formazioni di veri e propri concetti.

Benelli (1980) conclude che per costruire il significato delle parole il bam-

bino utilizzi fin da subito entrambi i criteri di categorizzazione, funzionale e per-

cettivo.

Per comprendere come il bambino costruisca il significato delle parole è

indispensabile, infine, capire quel è il livello di generalità a cui si collocano gli

oggetti inizialmente nominati dai bambini e, quindi, le parole da essi prodotte.

Rosh e colleghi hanno proposto una classificazione gerarchica del sistema se-

mantico che distingue tra categorie sovra-ordinate (es. animali), livello base di

generalità (es. gatto) e categorie subordinate (es. persiano). A partire da tale

classificazione, si riscontra che i bambini tra i 2 e i 3 anni cominciano con

l’imparare i nomi del livello base, influenzati in questo anche dal linguaggio

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semplificato che gli adulti rivolgono loro. Solo tra i 6 e gli 8 anni il bambino si

mostra capace di utilizzare e definire in modo appropriato e stabile le parole del

livello sovra-ordinato.

Sviluppo morfologico e sintattico

Il bambino inizia a sviluppare l'attenzione per gli aspetti morfosintattici a

partire dal secondo anno di età e poi li sviluppa e arricchisce via via nel corso

dell'età scolare.

La morfologia riguarda l’acquisizione dei suffissi e prefissi necessari a co-

niugare i verbi e ad articolare nomi ed aggettivi in funzione del genere e del nu-

mero. La sintassi consiste, invece, nell’insieme delle regole che il bambino deve

acquisire e padroneggiare per la combinazione delle parole in frasi.

Slobin osserva che ogni lingua pone al bambini specifici problemi

nell’acquisizione degli aspetti morfo-sintattici. I bambini, infatti, tendono a

padroneggiare prima gli aspetti morfologici e sintattici più chiari ed informativi,

mentre incontreranno maggiori difficoltà con le forme linguistiche irregolari.

L’apprendimento della grammatica implica l’acquisizione di regole, la

comprensione delle eccezioni alle regole e degli errori. Ciò fa sì che durante lo

sviluppo grammaticale i bambini mostrino un andamento irregolare, per cui pas-

sano da una fase in cui, basandosi prevalentemente sull’imitazione, riescono a

coniugare in modo corretto i verbi (es. aperto); quando imparano la regola la ap-

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plicano ad ogni verbo, sovra-generalizzando la regola e commettendo errori di

coniugazione, per esempio, nei verbi irregolari (es. aprito), fino a quando impa-

rano l’eccezione della regola (es. aperto). Altri esempi di errori che permangono

fino a tre-quattro anni sono: “vieno”, “dicio”, e l'accordo tra soggetto everbo

(“aggiusta io”; “rido Matteo”).

Per quanto riguarda nello specifico la lingua italiana, Antinucci e Parisi

(1973) esaminarono lo sviluppo grammaticale in bambini tra i 2 e i 3 anni, po-

nendo specifica attenzione alla dimensione semantica. Gli autori individuarono

due fasi di sviluppo. Nella prima fase i bambini producono frasi composte uni-

camente da quella che è stata definita la struttura nucleare, ossia da predicato

verbale, i suoi argomenti e l’intenzione all’origine della frase. Tale struttura nu-

cleare si amplia poi nel secondo stadio (3 anni), attraverso l’inserimento nella

frase di strutture facoltative (es. aggettivi, frasi inserite, prima implicite e

all’infinito e poi esplicite).

Le prime forme verbali acquisite riguardano il presente indicativo e il par-

ticipio passato usato in forma aggettivale (porta chiusa, cancello rotto, ecc.).

Prima compaiono il passato prossimo e l'imperfetto e solo dopo il futuro

L'alta variabilità nella composizione del vocabolario è stata indagata attra-

verso un'analisi qualitativa delle produzioni verbali dei bambini e ciò ha permes-

so di identificare due diversi stili di acquisizione linguistica.

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Lo stile referenziale (chiamato anche nominale o analitico) e lo stile

espressivo (detto anche pronominale od olistico).

Lo stile referenziale si caratterizza nel periodo prelinguistico per una mag-

giore attenzione alle parole e alle sequenze di suoni, per un maggior uso di con-

sonanti in lallazione e per una buona articolazione della parola. La denomina-

zione si evolverà nelle fasi successive incrementando la classe dei nomi e degli

aggettivi. In produzione si esprimono con enunciati di una sola parola, ma la lo-

ro comprensione è molto buona. Le iniziali combinazioni di parole sono prive di

pronomi e particelle grammaticali, dopo la competenza grammaticale sarà più

elevata. Dimostrano un particolare interesse verso il gioco simbolico e di finzio-

ne (Camaioni, 2001; D'Amico, Devescovi, 2003).

Lo stile espressivo, invece, si caratterizza per una maggiore attenzione alle

caratteristiche intonazionali della lingua, minore intellegibilità delle frasi prodot-

te e variabilità nella pronuncia delle singole parole. I bambini che rientrano in

questo stile sono ottimi imitatori di quello che dicono gli adulti. Il vocabolario

contiene molte frasi stereotipate come “Non c’è più”, “Cosa vuoi”, “Chi è”. A

prima vista sembrano molto precoci, ma in realtà il vocabolario cresce lentamen-

te e dimostrano minor competenza grammaticale. La comunicazione è ricca di

intenzioni comunicative e socialmente orientata: questi bambini sono più inte-

ressati alle interazioni sociali e ai giochi in cui si riproduce la realtà (Camaioni,

2001; D'Amico, Devescovi, 2003).

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Sviluppo pragmatico

La pragmatica riguarda l'uso del linguaggio nelle situazioni sociali. La

comunicazione, intesa come capacità di conversare con un interlocutore, presup-

pone la capacità di tenere conto del punto di vista dell'altro, attenersi a regole di

cortesia, rispettare le regole conversazionali e di alternanza dei turni. Dai 3 ai 6

anni il bambino impara molte cose circa il comportamento da tenere durante una

conversazione, sviluppando anche la consapevolezza e l’attenzione verso i sen-

timenti delle altre persone.

Studi svolti specificatamente nell’ambito dello sviluppo linguistico e co-

municativo hanno evidenziato che fra i 3 e i 5 anni i bambini si rivolgono in mo-

do diverso all’interlocutore a seconda che esso sia un adulto o un bambino e in

base al fatto che conosca o meno ciò di cui si sta parlando. A 4 anni, per esem-

pio, i bambini usano frasi più brevi e grammaticalmente più semplici quando si

rivolgono a bambini di 2 anni rispetto a quando hanno come interlocutori adulti

(Pellegrino Morra at al., 1987); alla stessa età quando parlano al telefono sono in

grado di descrivere l’oggetto di cui stanno parlando, mostrando di essere consa-

pevoli che l’interlocutore non può vedere ciò che vedono loro.

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3.5 Sviluppo della narrazione

La narrazione può essere definita come la modalità di percepire, organiz-

zare e comunicare la realtà attraverso un processo di interpretazione e attribuzio-

ne di significati (Anolli, 2002). Si tratta di una tappa evolutiva importante nello

sviluppo della competenza comunicativa che chiama in causa la capacità di ela-

borare una sequenza di frasi dotata di coerenza e di organizzazione tematica con

lo scopo di creare una storia fantastica, raccontare un evento passato o una qual-

siasi storia.

Il processo narrativo implica lo sviluppo di processi di natura cognitiva

come per esempio, l'elaborazione delle informazioni, il recupero di informazioni

precedenti e le capacità inferenziali. Entrano però in gioco anche abilità emotive

come la comprensione e l'immedesimazione negli stati emotivi dei personaggi.

Dobbiamo tener presente che la capacità del bambino di produrre narra-

zioni dipende innanzi tutto dall'età e dai generi narrativi: per cui a tre anni circa

racconterà eventi personali e routine, mentre le narrazioni fantastiche e i racconti

pi articolati a livello narrativo compaiono verso i cinque anni e si perfezionano

nell'età scolare.

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La esperienze quotidiane legate alla narrazione e gli stili narrativi genito-

riali influenzano sicuramente l'approccio del bambino al mondo possibile del

racconto (Bruner, 1991; Baumgartner, Devescovi, 2001).

Il linguaggio narrativo presenta alcune caratteristiche che come vedremo

chiamano in causa l'interazione tra fattori cognitivi e linguistici:

- distanziamento cognitivo dal qui e ora. L'evento narrato è già accaduto, quindi

a livello linguistico bisogna ricorrere a tempi verbali al passato, avverbi e

connettivi temporali (ieri, quando)e connettivi causali (perchè);

- conoscenza di espedienti che consentano di dare coesione alla narrazione; uti-

lizzare gli aspetti prototipici delle storie “c'era una volta” e “vissero felici e

contenti”;

- seguire un ordine sequenziale coerente;

- integrare lo “scenario dell'azione” , cioè la rievocazione degli eventi con lo

“scenario della coscienza”, ovvero i punti di vista dei personaggi (il lessico

psicologico) .

La disposizione per la comunicazione narrativa appare precocemente

nell'individuo e secondo Bruner esiste una specifica forma di pensiero narrativo

diverso dalla modalità logico-scentifica chiamata anche paradigmatica. Queste

due modalità di funzionamento mentale sono complementari, ma irriducubili e

possedute da tutti.

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Il pensiero paradigmatico è tipico del ragionamento scientifico, persegue

l'ideale di un sistema esplicativo formalizzato, ha un orientamento verticale cioè

mette in relazione il caso singolo con le categorie generali secondo un processo

verticale di subordinazione e di sovraordinazione (Bruner, 1990). Il suo linguag-

gio è regolato dal principio di non contraddizione.

Il pensiero narrativo, ci consente di comprendere le vicissitudini e le in-

tenzioni umane. E' tipico del ragionamento quotidiano,si occupa del mondo so-

ciale e ci consente di creare storie plausibili e verosimili. E' sintagmatico , cioè

le sue proposizioni sono collegate tra loro da un'associazione per contiguità tem-

porale e spaziale, utilizza preposizioni del tipo. “e, poi, dopo” (Bruner, 1990).

Finestra di approfondimento:

Incoraggiare a raccontare

Le ricerche sulla narrazione infantile hanno messo in evidenza che il modo

in cui genitori, insegnanti ed educatori interagiscono con i bambini piccoli può

favorire lo sviluppo delle abilità narrative. Vengono di seguito riportati alcuni

esempi che si sono rivelati efficaci:

Domande aperte (domande non specifiche di incoraggiamento: “E poi?

Cosa è successo?, Dimmi ancora”)

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Domande che richiedono risposte complesse (domande sulle azioni, in-

tenzioni e motivazioni dei personaggi; richieste di valutare il carattere o

le capacità dei personaggi)

Richieste di indovinare (chiedere al bambino cosa succederà e perché)

Interventi a specchio (ripetizioni letterali di quanto il bambino dice; para-

frasi di ciò che dice il bambino, rispettando le sue intenzioni comunicati-

ve)

Espansioni (ripetizione di ciò che dice il bambino con aggiunta di qualche

elemento o dettaglio)

[Fonte Baumgartner e Devescovi, 2001]

3.6 Coesione e coerenza nelle storie narrate dai bambini

Gli studiosi hanno più volte sottolineato l'importanza di esporre precoce-

mente i bambini al mondo delle storie. Il racconto ha la capacità di calmare, ras-

sicurare, consolare e alimentare l’immaginario fantastico.

“Prima di leggere con la mente..si impara a leggere con tutto il corpo.

Cosa fanno i bambini piccoli che ancora gattonano e mettono in bocca tutto

quello che riescono ad acciuffare, succhiando con aria assorta? Che cosa stan-

no facendo? Stanno leggendo! Ed è così che i bambini piccoli leggono tutto

quello che li circonda, compresi i libri. Leggono prima di tutto con la bocca, poi

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con le mani che afferrano ed esplorano, col naso che annusa e con gli occhi che

riconoscono immagini e creano analogie”(Farina, 2004).

Dal punto di vista evolutivo, i bambini hanno bisogno di ascoltare e “cre-

scere nelle storie”. Dai contributi di Bruner emerge chiaramente l'idea che il

bambino possieda delle potenzialità narrative, tuttavia non sono solo il frutto di

un'acquisizione mentale, ma il risultato di un apprendimento di tipo sociale che

conferisce stabilità alla vita sociale del bambino.

E' la narrazione, intesa come modo di pensiero e come strumento per crea-

re significato, che aiuta il bambino a crearsi una visione del mondo in cui può

immaginare, a livello psicologico, un posto per sé.

Per analizzare le prime storie prodotte dai bambini in età prescolare è im-

portante rilevare la presenza di tre elementi (complessità strutturale, coesione e

coerenza) che rendono la storia efficace sia dal punto di vista linguistico sia da

quello comunicativo.

La coesione delle storie è data dalla presenza di pronomi, connettivi causa-

li e temporali, proposizioni subordinate e tutto ciò che rende il racconto una tota-

lità unitaria. Mentre le subordinate compaiono raramente in età prescolare e più

di frequente in età scolare, le congiunzioni additive come la “e” sono presenti a

tutte le età.

La complessità strutturale della narrazione si riferisce alla presenza di

aspetti quali: inizio e introduzione con presentazione dei personaggi e dell'am-

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biente; svolgimento o complicazione di un problema; soluzione del problema e

conclusione. Dalla presenza o assenza di questi elementi nelle prime narrazioni

infantili possiamo distinguere tra:

- non storia: elenco di azioni o personaggi;

- abbozzo di storia: combinazione di elementi da cui mancano sempre parti

importanti, come ad esempio la conclusione;

- storia incompleta: presenza di elementi strutturali, ma assenza dello svolgi-

mento;

- storia essenziale: mancanza di elementi strutturali non essenziali;

- storia completa: presenza di tutti gli elementi costitutivi.

Struttura e coesione confluiscono nella coerenza. Una storia si dice coe-

rente quando il contenuto è strutturato in una sequenza che rispetta lo schema ti-

pico delle storie: inizio, ambientazione, problema, soluzione, fine.

I bambini più piccoli hanno difficoltà a produrre storie che siano contem-

poraneamente coese e coerenti, ma comunque il risultato dipende dal tipo di

compito: se la storia è il racconto di una esperienza reale o è stimolata da imma-

gini che raffigurano eventi personali, i bambini già a quattro anni mostrano pre-

stazioni migliori a livello della coerenza narrativa, rispetto a quando viene chie-

sto loro di raccontare storie verosimili senza nessun supporto figurale (Rollo,

2007). Dopo i sei anni i bambini diventano sempre più in grado di identificare le

relazioni causali, e con ciò aumenta la loro capacità di cogliere gli aspetti struttu-

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rali delle narrazioni, spesso prescindendo dalle informazioni superficiali (Rollo,

2007).

Gli psicologi dello sviluppo, che si occupano dello studio dell'emergere

delle abilità narrative nel bambino, hanno condotto molte ricerche sui diversi tipi

di struttura dei generi narrativi. Si rifanno tutti al pensiero narrativo, ma la forma

del racconto cambia a seconda dell'episodio da rievocare. Distinguiamo dunque

le narrazioni di esperienze personali, le narrazioni di routine o script e le storie

di fantasia.

Le narrazioni di esperienze personali sono la prima forma di narrazione

che compare nel linguaggio dei bambini e si riferiscono a episodi di cui hanno

avuto esperienza. Verso i due anni e mezzo ricordano esperienze passate, senza

costruire una struttura coerente; verso i quattro-cinque anni introducono frequen-

temente le conclusioni; solo a otto anni producono storie personali autobiografi-

che complete, aggiungendo la coda che collega l'episodio al presente (McCabe e

Peterson, 1991).

Le narrazioni di routine o script sono resoconti della sequenza di azioni

che definiscono abitualmente un evento o conoscenza dello script relativo. Gli

script sono rappresentazioni schematiche di eventi, vengono appresi precoce-

mente grazie all'esposizione ripetuta a situazioni di routine (esempio di script:

una festa di compleanno; andare a mangiare al ristorante, ecc.). Questo tipo di

narrazioni possono essere più o meno articolate a seconda del numero dei detta-

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gli che il bambino inserisce nel racconto. Dai tre anni, anche se aumentano i det-

tagli, i bambini mantengono numerosi riferimenti ad eventi personali mischiando

script e narrazioni personali. A sei-otto anni sono capaci di esplicitare i nessi

temporali e causali e compattano la struttura degli script e aggiungono una con-

clusione.

Le storie di fantasia sono narrazioni di eventi che si riferiscono a luoghi,

personaggi e tempi che non sono assolutamente in relazione con la situazione at-

tuale. Implicano diverse capacità del narratore, come per esempio: costruirsi una

rappresentazione degli eventi, organizzare gli eventi in principali e secondari e

fare riferimento al punto di vista dell'ascoltatore. Sembrano comparire intorno ai

quattro anni, quando i bambini sono in grado di ricordare, rievocare e riprodurre

una storia. Anche se in età prescolare le storie inventate dai bambini possono as-

sumere una fisionomia ben precisa, molti autori affermano che difficilmente

contengono riferimenti agli scopi dei personaggi, alle loro motivazioni e reazioni

emotive. Tali elementi compaiono successivamente, verso gli otto anni, quanto i

bambini divengono in grado di raccontare storie più complesse, articolate in di-

versi episodi.

3.7 Differenze individuali nell'acquisizione del linguaggio

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Le età indicate in questo capitolo come ad esempio quelle riferite alle tap-

pe di acquisizione linguistica, sono puramente indicative. Dobbiamo sempre te-

ner presente quanto precisato nel corso del primo capitolo riguardo l'alta variabi-

lità presente nello sviluppo e le rilevanti differenze che possono esserci tra bam-

bini riguardo lo stile di apprendimento.

Qual è, tuttavia, l’età entro cui la mancata acquisizione di competenze lin-

guistiche potrebbe essere considerata problematica?

Orsolini (2000) osserva che se un bambino a 2 anni non cammina possia-

mo pensare con relativa certezza che è presente qualche patologia; se, tuttavia, a

2 anni un bambino ancora non parla, benché sia sensato preoccuparsi, non è det-

to che vi sia un problema specifico. In questo caso è utile distinguere l'aspetto

della produzione lnguistica da quello della comprensione. A due anni anche se il

bambino non parla, si può verificare attraverso semplici indicazioni verbali (“vai

in cameretta e prendi la palla”) la comprensione linguistica. Se esegue le indica-

zioni, dimostrando di avere compreso l'interlocutore nella stragrande maggio-

ranza dei casi gradualmente il bambino inizierà anche a parlare.

Viene usata l’espressione bambini che parlano tardi (late bloomers – Ro-

berts, Rescorla et al., 1998) per indicare quei bambini che presentano un ritardo

nell’acquisizione del linguaggio, ma per i quali non è ancora possibile dire se si

tratti di un disturbo specifico. Si tratta di bambini che hanno un normale svilup-

po intellettivo, sociale ed affettivo e che pur non evidenziando alcun danno neu-

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rologico, presentano un forte ritardo fonologico a cui segue un ritardo nella pro-

duzione lessicale. Vengono, in particolare, considerati bambini che parlano tardi

coloro che tra i 18 e i 23 mesi producono meno di 50 parole o che a 24/34 mesi

non sono in grado di produrre nessuna combinazione di due parole. In particola-

re, i bambini che dopo i 30 mesi non producono alcuna combinazione di 2 parole

hanno scarse probabilità di recuperare il ritardo sintattico a 3 anni (Orsolini,

2000). Per molti bambini il ritardo nell’apprendimento del linguaggio si risolve

entro i 5 anni, ma per alcuni si prolunga.

Si parla di disturbo specifico del linguaggio, quando il linguaggio del

bambino non funziona secondo il livello appropriato all’età, pur non presentando

alcun deficit da un punto di vista cognitivo, motorio e in assenza deficit uditivi,

impedimenti fisici all’articolazione e disturbi di origine emotiva. Il disturbo del

linguaggio viene, inoltre, distinto in fonologico (quando riguarda l’area espres-

siva) o recettivo (se è compromessa la comprensione ma non la produzione lin-

guistica).

Per valutare il livello linguistico del bambino ci si può basare su un criterio

puramente statistico, effettuando una diagnosi attraverso la somministrazione di

test linguistici standardizzati e validati. Bishop (1997), tuttavia, denuncia

l’inadeguatezza di questo criterio e ritiene fondamentale nel corso della diagnosi

valutare quanto il ritardo linguistico del bambino interferisca con la sua possibi-

lità di interagire efficacemente con gli altri.

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IV LEZIONE Lo sviluppo emotivo affettivo

4.1 La teoria psicoanalitica: il contributo di S.Freud

Freud19 inizia la sua attività come neurologo, occupandosi dei processi fi-

siologici alla base dei processi neuronali. Ben presto però comincia ad occuparsi

di malattia mentale, compiendo una serie di studi su adulti affetti da disturbi psi-

chici, la cui analisi clinica porta a rilevare che gli eventi pregressi influenzano in

modo fondamentale il funzionamento psichico di un individuo, pertanto le espe-

rienze dell’infanzia diventano antecedenti delle nevrosi adulte. Il caso clinico di

Anna O. suggerisce a Freud che il portare alla luce cose rimaste nascoste per-

mette al malato di liberarsi dai vincoli che lo portano ad un determinato compor-

tamento nevrotico. Partendo dal presupposto che la nostra infanzia rimane sem-

pre presente in ognuno di noi e che, di conseguenza, la nostra personalità si

struttura in base a queste prime esperienze personali di piacere e di dolore.

Freud si dedica esclusivamente a pazienti adulti, fatta eccezione per Il caso

del piccolo Hans, anche se dobbiamo tenere presente che non incontra mai il

bambino, ma si avvale delle osservazioni sistematiche del padre di Hans, relative

alle esplorazioni e curiosità del figlio di cinque anni. Attraverso un metodo lon-

19 Sigmund Freud (1856-1939) Padre della psicoanalisi nacque a Freiberg, in Moravia. Autore di opere di massima importanza tra le quali Psicopatologia della vita quotidiana; Tre saggi sulla sessualità; L'in-terpretazione dei sogni. Insegna all'Università di Vienna dal 1920 fino al 1938, quando costretto dai nazi-sti, lascia l'Austria. Muore a Londra l'anno seguente.

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gitudinale, documentato appunto dal padre del bambino attraverso uno scambio

epistolare, Freud fa alcune ipotesi riguardo la genesi della sessualità nella mente

del bambino. Anche se successivamente questo caso viene considerato il primo

approccio clinico rivolto a pazienti di età infantile, esso è innanzi tutto un tenta-

tivo d osservare un bambino al di fuori del contesto terapeutico.

Oltre a questo studio rimangono interessanti, soprattutto dal punto di vista

della psicologia dello sviluppo, le osservazioni condotte da Freud in merito ad

un gioco svolto da Ernst, il nipote di diciotto mesi, in assenza della figura mater-

na. Il cosiddetto “gioco del rocchetto” consisteva nel lanciare lontano da sé og-

getti di piccole dimensioni, tra cui un rocchetto, per poi recuperarli. Freud nota

nel bambino una grande soddisfazione nell'atto di recuperare l'oggetto. Il gioco,

in un'ottica interpretativo-analitica, viene spiegato come un primario processo di

elaborazione simbolica attraverso il quale il piccolo Ernst, equiparando il roc-

chetto alla madre momentaneamente assente, rappresenta mediante il gesto ripe-

tuto di far scomparire e riapparire il rocchetto le vicende legate alla propria sepa-

razione e ricongiunzione della figura di riferimento. In questo modo il bambino

cerca di contenere e trasformare l'ansia da separazione legata alla temporanea

assenza materna.

Dato che, come abbiamo detto, si occupa di pazienti adulti, ma tiene in

grande considerazione gli eventi passati e in particolare i primi anni di vita del

soggetto, individua una metodologia che consente di portare alla luce eventi per-

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sonali passati. Utilizza, quindi, le associazioni libere, l’analisi dei sogni ed il

transfert.

Il legame tra comportamento adulto ed infanzia non deve però essere inte-

so in maniera semplicistica, ossia sarebbe riduttivo pensare che ad ogni compor-

tamento adulto corrisponda “immediatamente” una esperienza infantile. Se ad

esempio una persona mostra relazioni altamente dipendenti ciò non indica ne-

cessariamente che il rapporto con la madre, riattivato più tardi, fosse analogo. La

relazione di dipendenza potrebbe invece ricollegarsi alla deprivazione vissuta nei

primi anni oppure essere compresa solo analizzando il singolo caso (Tallandini,

1995).

Freud ipotizza l'esistenza di un'attività mentale fatta di desideri, rappresen-

tazioni nascosti, cioè non coscienti. L'inconscio viene così definito “l'interno

paese straniero” , in cui albergano gli istinti che condizionano gran parte delle

nostre azioni senza che ne siamo consapevoli.

Gli istinti sono di due tipi: un “istinto di vita” (Eros) il cui fine è la propa-

gazione della specie e un “istinto di morte” (Thanatos) orientato alla distruzione.

L'accesso all'inconscio è reso parzialmente possibile dalla psicoanalisi attraverso

il rapporto che si crea tra paziente e terapeuta. Quest'ultimo attraverso tecniche

come le libere associazioni, i sogni , le verbalizzazioni cerca di portare allo sco-

perto i meccanismi inconsci che stanno alla base dei conflitti o delle nevrosi20.

20 Presentiamo brevemente i nuclei teorici più significativi, del corpus teorico psicoanalitico:

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Le associazioni libere: Con il metodo delle associazioni libere, Freud abbandona la tecnica dell'ipnosi e della suggestione per indagare l'inconscio e inaugura la classica tecnica psicoanalitica. Il metodo delle asso-ciazioni libere consiste nell'esprimere, senza selezionarli volontariamente, tutti i pensieri che vengono in mente, sia a partire da uno specifico elemento (parola, sogno, evento qualsivoglia), sia spontaneamente. Freud chiama questa tecnica “la regola tecnica fondamentale”, in quanto consente di richiamare alla memoria ciò che era stato dimenticato e mostra il rigoroso determinismo della vita psichica, in cui nessun evento è casuale. La psicoanalisi come arte interpretativa: Con l'utilizzo di questo metodo, Freud abbandona il termine con cui precedentemente chiamava la sua terapia, ossia “metodo catartico”, e formula il nuovo nome “psi-coanalisi”. Essa si configura infatti prima di tutto come un'arte della interpretazione e si prefigge di appro-fondire la prima grande scoperta, ossia che i sintomi nevrotici rappresentano un sostituto dotato di senso di altri atti ed eventi psichici omessi. L'interpretazione degli atti mancati: Certi atti psichici dell'uomo normale (dimenticanza di parole e no-mi peraltro noti, lapsus verbali, di lettura e di scrittura, smarrimento di oggetti) rappresentano l'espressione di intenzioni represse della persona: sono manifestazioni della sua vita inconscia. Con questa affermazione, Freud riduce, per usare una sua espressione, il baratro presunto tra accadimenti psichici normali e patologi-ci, rafforzando la sua convinzione dell'esistenza di una psiche inconscia. L'interpretazione dei sogni: La psicoanalisi restituisce al sogno l'importanza che gli era riconosciuta nei tempi antichi. L'interpretazione dei sogni viene considerata la “via regia per l'inconscio”. Il sogno ricordato, in quanto “contenuto onirico manifesto”, si contrappone ai “pensieri onirici latenti”, rintracciati dall'inter-pretazione. Il processo che ha trasformato gli ultimi nel primo, appunto nel “sogno”, può esser chiamato “lavoro onirico”, la cui funzione è quella di deformare e mascherare attraverso il simbolismo, i contenuti psichici iniziali. La forza motrice che porta alla formazione del sogno è costituita da un'aspirazione incon-scia, rimossa durante i periodi di veglia, che, usando il materiale dei pensieri latenti, allestisce per se mede-sima un appagamento di desiderio. Il sogno è quindi un appagamento di desiderio dell'inconscio, ottenuto attraverso l'irriconoscibilità, la stranezza, l'assurdità del sogno manifesto: in questo modo, viene superata la censura onirica, la stessa che durante il giorno aveva tenute rimosse nell'inconscio le forze psichi che alla base del desiderio. La dinamica della formazione del sogno è identica a quella della formazione del sintomo nevrotico, vale a dire l'antagonismo tra due tendenze, una inconscia, solitamente rimossa, che tende al sod-disfacimento-appagamento di desiderio, e l'altra appartenente all’Io cosciente, che rifiuta e rimuove. Il risul-tato di questo conflitto è il formarsi di un compromesso - il sogno, il sintomo - in cui entrambe le tendenze trovano espressione e soddisfazione, anche se in forma incompleta. Questo parallelismo tra attività onirica e nevrosi è un'altra riprova della non separazione tra normalità e patologia, dal momento che tutti noi so-gniamo. Il significato della sessualità: Le esperienze traumatiche, a cui i sintomi nevrotici mostrano di essere strettamente connessi, risalgono sempre più addietro fino alla pubertà o all'infanzia del nevrotico. Inoltre al-la radice di ogni formazione del sintomo si trovano impressioni traumatiche provenienti dalla vita sessuale del primo periodo dell'esistenza. La Teoria della libido: La pulsione sessuale, la cui espressione dinamica nella vita psichica è detta “li-bido”, si compone di pulsioni parziali le cui fonti sono particolari zone erogene del corpo; soltanto gra-dualmente queste pulsioni parziali convergono verso un'organizzazione unitaria. Prima fase dell'organizza-zione sessuale (pregenitale) è quella orale (zona erogena, la bocca); segue l'organizzazione sadico-anale (zona erogena, la zona anale); la terza e definitiva fase dell'organizzazione sessuale è l'organizzazione della maggior parte delle pulsioni parziali nel primato delle zone genitali. La dottrina della rimozione: La concezione psicoanalitica della nevrosi può essere formulata in questi termini: le nevrosi sono l'espressione di conflitti tra l’Io e quegli impulsi sessuali che all'Io appaiono in-

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La relazione stretta tra paziente e analista permette l'attivazione del transfert,

ovvero il trasferimento sul terapeuta dei sentimenti che l'individuo ha provato

durante l'infanzia con le figure familiari maggiormente significative.

La fondamentale scoperta dell'inconscio consente a Freud di mettere a

punto una teoria riguardo le principali istanze psicologiche di base.

Nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915, 1917) presenta un'architettura psichi-

ca, composta da tre parti fondamentali: Es, Io e Super Io.

L’Es costituisce la sede degli istinti fondamentali e delle pulsioni che ten-

dono a soddisfarli ed è presente dalla nascita. Costituisce il grande serbatoio del-

le pulsioni poiché segue la logica del “principio del piacere” e dei “processi pri-

mari”. Dalla sua differenziazione si origineranno l’Io ed il Super Io. L' Es opera

sempre nella nostra esistenza rivelandosi nei sogni, nell’immaginazione e nei

comportamenti impulsivi.

L'Io è la parte cosciente a cui ha accesso il pensiero ed è costituito dalle

principali funzioni che mettono il soggetto in relazione con il mondo. Si rende

necessario di fronte all’incapacità dell’Es di raggiungere costantemente l’oggetto

desiderato. L’Io riveste la funzione di regolazione e controllo percettivo e moto-

compatibili con la propria integrità ed eticamente inaccettabili. L'Io ha rimosso queste tendenze non egosin-toniche, ha cioè impedito ad esse di diventare coscienti e di procurarsi soddisfacimenti. L'azione della ri-mozione fallisce facilmente di fronte alle pulsioni sessuali; la libido si procura vie sostitutive per emergere dall'inconscio fino a penetrare nella coscienza ed ottenere la scarica. Ciò che nasce è il “sintomo”: esso, come il sogno, è un soddisfacimento sessuale sostitutivo che per manifestarsi deve trovare delle scorciatoie e degli aggiustamenti. Il sintomo assume così la sua forma di compromesso fra le pulsioni rimosse e l’Io rimovente.

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rio, permette al soggetto di differenziare i processi interni e la realtà esterna, or-

ganizza temporalmente e logicamente i processi mentali ed esercita un’attività

difensiva verso l’angoscia. L’Io è una struttura organizzata e razionale, che fun-

ziona secondo il principio di realtà, è una struttura organizzata, razionale, ma

nella visione freudiana rimane comunque subordinato all’Es. Freud al riguardo

ha utilizzato una efficace metafora (quella del cavallo e del cavaliere) per de-

scrivere la relazione esistente tra Es ed Io:

“Insomma l’Io deve seguire le intenzioni dell’Es, e assolve il suo compito

andando alla ricerca delle circostanze che meglio gli permettono di seguire tale

intenzioni: Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del

cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cava-

liere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del pode-

roso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla idea-

le, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove quello ha scelto di an-

dare”

(Freud, 1938, “Compendio di psicoanalisi”, in Opere, vol.IX, Bollati e Bo-

ringhieri, tr. it. 1979; p. 188).

L’Io è il centro equilibratore della personalità, impegnato in una delicata

azione nel dirimere i conflitti che si sviluppano con il Super-Io e l’Es in quanto

ognuna di queste istanze vuole utilizzarlo per soddisfare i propri bisogni.

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Il Super-Io si sviluppa intorno ai 5-6 anni in seguito alla risoluzione del

complesso di Edipo e alla conseguente identificazione con i genitori. Esso si ori-

gina dalla interiorizzazione di norme parentali e sociali. Le sue modalità di fun-

zionamento sono strettamente connesse all’Io, poiché può contribuire al suo raf-

forzamento, attraverso l’approvazione del comportamento e quindi il Super-Io

ne aumenta l’autostima, oppure diminuire le forze dell’Io facendolo sentire in

colpa attraverso l’aumento dell’ansia, quando non sono state seguite le indica-

zioni del Super-Io. Il Super-Io si contrappone sia all’io che all’Es, elargendo ri-

compense e punizioni.

Le tre strutture psichiche, spiegate come tre unità separate per motivi esplicati-

vi, costituiscono un unico sistema di energia, dal cui equilibrio dipende la vita psichi-

ca di ogni individuo. Il rapporto tra questa complessa struttura psichica e l'ambiente si

basa essenzialmente su due principi: il principio del piacere e il principio di realtà.

Le pulsioni premono per la loro immediata soddisfazione e, quando

l’individuo asseconda questa tendenza, si dice che segue il “principio del piace-

re” (spinge l'individuo a soddisfare subito i propri bisogni istintuali) ed i suoi

meccanismi mentali sono caratterizzati dal “processo primario”, quando invece

rinvia o rinuncia si dice che segue il “principio di realtà” (permette all'individuo

di comprendere che non è possibile soddisfare immediatamente i propri istinti) e

i processi di pensiero che sviluppa sono di tipo “ secondario”. Nel primo caso

non si può cambiare il tipo di gratificazione né procrastinarla (si pensi alla fame

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e alla sete), nel secondo vi è invece la capacità di confrontarsi con la realtà, valu-

tare ciò che può essere o non essere fatto, ritardare e aspettare. In entrambi i casi

il fine è quello di raggiungere il piacere ed evitare il dolore ma mentre il “princi-

pio del piacere” vuole raggiungere l’obiettivo a qualsiasi prezzo quello di “real-

tà” fa scegliere all’individuo la via più favorevole.

Lo sviluppo si può anche intendere come un progressivo passaggio da un

funzionamento mentale prevalentemente primario, dove ci si aspetta

l’immediata gratificazione dei bisogni, ad uno di tipo secondario che valuta ciò

che la realtà offre, operando in termini logici e non onnipotenti.

Lo sviluppo della personalità per Freud si fonda sull’importanza della ses-

sualità ed in particolare di quella infantile che ha caratteristiche proprie e non va

paragonata a quella adulta. Il cammino che l'individuo deve percorrere per rag-

giungere la maturazione sessuale, si attua attraverso il passaggio in alcune fasi,

la cui denominazione deriva dalla zona erogena implicata.

4.2 Le fasi dello sviluppo psicosessuale

La spiegazione di Freud dello sviluppo dei tre livelli della personalità che

abbiamo appena visto, chiama in causa uno degli aspetti più noti del suo lavoro:

i cinque stadi dello sviluppo psicosessuale che ogni bambino attraversa.

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Il passaggio da uno stadio all’altro non è rigido, ossia si può accedere allo

stadio successivo senza aver completato il precedente, inoltre, nel corso dello

sviluppo è possibile che riemergano fasi considerate superate. Ogni stadio pren-

de il nome dalla zona del corpo in cui la libido è investita in quello specifico pe-

riodo. Le fasi dello sviluppo sono: fase orale, fase anale, fase genitale infantile

o fallica, fase di latenza, fase genitale adulta.

I primi quattro stadi si sviluppano durante i primi cinque anni di vita, vi è

poi un periodo di maggiore stabilità dei contenuti dinamici (latenza) ed un riatti-

varsi degli stessi durante l’adolescenza per giungere poi all’organizzazione della

personalità adulta.

La fase orale: La fase orale comprende il periodo che va dalla nascita fino

ai 12-18 mesi. In questo periodo il piacere è connesso all’eccitazione della cavi-

tà boccale e delle labbra ed è legato all’alimentazione. Questa fase può essere

divisa in due momenti: la fase della suzione durante il quale il bambino succhia

e la fase sadico-orale che è quella in cui il bambino morde.

L’atto del succhiare non soddisfa quindi solo il bisogno di nutrizione, ma

procura piacere di per se stesso, è infatti frequente nel neonato la suzione di parti

del corpo (mani, piedi) o di oggetti (succhiotto); anche in bambini più grandi è

frequente notare la modalità del succhiare ad esempio il pollice, azione che è de-

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terminata non dal bisogno di nutrimento ma dalla ricerca di qualche piacere che

il bambino ha già provato.

Nella fase orale si instaura il primo rapporto del bambino con la madre e

sarà questa unità a venire considerata, nella prospettiva psicoanalitica, come cen-

trale per lo sviluppo infantile.

La fase anale: Verso la fine del primo anno di vita, l'area della gratifica-

zione comincia a spostarsi dalla regione orale a quella anale che comprende il

periodo che va da uno a tre anni. L’azione delle figure genitoriali in questa fase,

in cui compare il controllo sfinterico, è molto importante, l’azione educativa si

muove da premesse fisiologiche (funzionalità intestinale, controllo

dell’alimentazione, pulizia personale), ma si ammanta sempre più di componenti

psicologiche. In questa fase la forma di espressione e appagamento

dell’aggressività sarebbe legata alla funzionalità dello sfintere intestinale, per-

tanto il trattenere o espellere le feci avrebbe contemporaneamente un effetto di

soddisfazione e di atteggiamento positivo o negativo sotto l’aspetto sociale.

Freud, nell’illustrare questa fase, ha denominato fase anale quella in cui il bam-

bino prova piacere nell’espellere e sadico-anale quella in cui prova piacere nel trat-

tenere. L’espulsione è espressione di dono e amore, il trattenere è segno di potere e di

controllo.

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La fase fallica: La fase fallica comprende il periodo che va dai tre ai cin-

que-sei anni anni ed è una fase molto più complessa ed articolata delle preceden-

ti. L’interesse del bambino, sia esso maschio o femmina, è per la zona genitale.

Fino ad ora lo sviluppo non si è differenziato rispetto alla variabile sesso, da

questo momento invece avremo linee di sviluppo differenti per i maschi e per le

femmine sia in relazione alla sessualità (riconoscimento di differenze anatomi-

che tra i sessi), sia rispetto all’identità di genere (è da notare che in questa fase

sono molto frequenti i comportamenti esibizionistici dei bambini che amano

guardare e farsi guardare, ciò in relazione al riconoscimento della propri identità

sessuale). Questa fase è caratterizzata dal complesso di Edipo21, per il maschio,

la cui crescente consapevolezza della sua zona genitale lo porta a desiderare la

madre e volersi inconsciamente sostituire al padre. Per la femmina si parla di

complesso di Elettra, in cui l'interesse per il padre la porta a provare gelosia ver-

so la madre.

I complessi di Edipo e di Elettra si risolvono con il processo di identifica-

zione, attraverso il quale l'immagine del genitore dello stesso sesso, al quale il

21 Il complesso di Edipo compare verso i quattro anni ed appare risolto intorno ai sei, durante questo pe-riodo il bambino vive una situazione conflittuale con i genitori costituita da sentimenti e desideri opposti. Il complesso trova la sua origine nella tragedia greca di Sofocle, Edipo re, dove il protagonista Edipo uccide in maniera inconsapevole il proprio padre e sposa la madre. Quando l’oracolo gli rivelerà la verità Edipo si accecherà per punizione e la madre-moglie si impiccherà. Freud ha ritenuto questo complesso una pietra base per lo sviluppo psichico, in quanto rappresenta ciò che ciascuno di noi desidera: avere una relazione sessuale con il proprio genitore (desiderio che è stato rimosso in quanto inaccettabile).

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bambino cerca di assomigliare il più possibile, viene inglobato nell'immagine

che il bambino ha di sé.

Il periodo di latenza: Freud definisce il periodo compreso tra i cinque anni

e la pubertà come latenza, ossia un periodo in cui vi è una quiescenza delle pul-

sioni. Se la rimozione ha funzionato nella fase precedente, la vita psichica del

bambino non è preoccupata per il ritorno delle fantasie rifiutate in quanto inac-

cettabili, e le energie vengono così orientate ad altri scopi. I due grandi ambiti su

cui il bambino investe le energie sono: l’apprendimento e la vita sociale. I bam-

bini di entrambi i sessi sono molto coinvolti nella scuola e in un’intensa produt-

tività intellettiva. Anche il gruppo dei pari costituisce un esperienza nuova e im-

portante per il bambino, questo gruppo da un lato lo aiuta nei processi identifica-

tori e dall’altro facilita il passaggio dalla famiglia al mondo esterno. Il gioco si è

trasformato, ora è più realistico e meno soggetto all’azione delle fantasie, assu-

mono grande rilievo le regole, l’organizzazione , la ritualità.

Il bambino nel periodo di latenza ha acquisito un Io più forte e possiede un

Super-Io in evoluzione; Io e Super-Io sono alleati per combattere contro le pul-

sioni. Il quadro di stabilità che si evince dalla latenza è però molto temporaneo,

perché le modificazioni biologiche dell’adolescenza cambieranno il quadro evo-

lutivo.

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La fase genitale: Si giunge alla fase genitale quando si raggiunge la matu-

rità sessuale e la maturità personale, lo sviluppo psicosessuale è compiuto, la

sessualità ha superato il narcisismo, le pulsioni vengono riorganizzate e le diver-

se zone erogene si subordinano al primato della zona genitale.

Alla fase genitale si giunge dopo il periodo adolescenziale dove il giovane

deve controllare le pulsioni che si riattivano, superare la conflittualità determina-

ta dalla riattivazione dell’Edipo ed abbandonare i meccanismi di identificazione

per giungere alla propria identità personale.

La maturazione sessuale procede con la maturazione dell’Io e si ritiene

completa solo con il superamento della fase adolescenziale.

4.3 Concezioni psicoanalitiche

Per Freud l'affetto del bambino per la propria mamma è determinato da

una motivazione secondaria, cioè deriva dal fatto che la figura materna provvede

a soddisfare i bisogni fisiologici, diventando progressivamente anche l'oggetto

privilegiato su cui l bambino può rivolgere la propria libido o la propria aggres-

sività.

In questo paragrafo ripercorreremo prima di tutto il contributo di Renè

Spitz, considereremo poi alcune concezioni di stampo psicoanalitico, collegate

alla cosiddetta scuola inglese, che originatosi all'interno del pensiero freudiano

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ortodosso, ha come capostipite Melanie Klein e tra i maggiori esponenti trovia-

mo Donald Winnicott e Wilfred Bion.

Il contributo di R. Spitz

Lo studioso pone particolare attenzione alle esperienze positive connesse

all’allattamento, che sono fondamentali per l’instaurarsi del legame privilegiato

tra madre e bambino (relazione oggettuale). Mediante l’osservazione della rela-

zione, egli delineò lo sviluppo dei primi rapporti oggettuali (detti anche libidici)

che si strutturano durante la prima infanzia (fase orale).

Spitz rilevò nel corso del primo anno di vita un percorso evolutivo costi-

tuito da tre stadi:

stadio preoggettuale o dell’assenza dell’oggetto (primo mese di vita).

Il bambino non è in grado di differenziarsi dal suo ambiente, non distingue tra

mondo interno ed esterno e percepisce il seno materno come parte del suo corpo;

stadio dell’oggetto precursore ( fino a 7-8 mesi). Il bambino mostra

“percezione degli stimoli provenienti dall’esterno e si distoglie da quello chia-

mato recezione interiore dell’esperienza” (Spitz, 1958, p. 31);

lo stadio dell’oggetto propriamente detto nel quale l’oggetto, che cor-

risponde alla figura materna, è chiaro e ben definito.

La fase dell’oggetto precursore si caratterizza per la comparsa del primo

organizzatore psichico, la risposta del sorriso, che separa il periodo in cui le

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funzioni biologiche sono governate dalla soddisfazione dei bisogni dal periodo

in cui le funzioni psichiche si subordinano al principio di realtà. Il progresso de-

riva dalla serie di scambi circolari tra madre e bambino che vanno aumentando

grazie ad un rapporto sempre più socializzante. L’organizzatore psichico “rispo-

sta del sorriso” compare alla fine del terzo mese di vita ed indica che il bambino

si è distolto dalle sensazioni interiori e volge la sua percezione all’esterno. La ri-

sposta del sorriso non riguarda un individuo privilegiato, ma ogni persona che il

bambino incontra.

Intorno agli otto mesi compare il secondo organizzatore psichico denomi-

nato “angoscia dell’ottavo mese”. Il bambino manifesta disagio ed angoscia

quando è lasciato solo con un estraneo. Spitz considera questa fase come il se-

condo organizzatore psichico, in quanto serve a catalizzare tutte le esperienze

avute precedentemente rispetto alla dicotomia conosciuto/sconosciuto, oltre ad

indicare la formazione dell’oggetto libidico (Tallandini, 1993).

Il terzo ed ultimo organizzatore psichico è denominato “acquisizione del

no” ed è raggiunto intorno ai 18-24 mesi; il bambino manifesta un comporta-

mento ostinato e testardo e l’uso del “no” costituisce un buon strumento per

esprimere l’aggressività (è collegato all’esperienza del controllo degli sfinteri). Il

“no” indica un nuovo livello maturativo ed è organizzatore psichico, in quanto

“la capacità di rifiutare verbalmente è indice da un lato dell’acquisizione di una

maggiore individuazione, poiché il bambino esprime un’opinione propria, e

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dall’altro di separazione, poiché egli può attivamente intervenire in una situazio-

ne conflittuale senza la necessità di un concomitante contatto fisico” (Tallandini,

1993, p. 357).

Il contributo di D. Winnicott

Secondo lo studioso il bambino alla nascita parte da uno stato di indifferen-

ziazione, rispetto al proprio ambiente (questo primo ambiente per il neonato è la

madre) e cerca di organizzare le sue esperienze frammentate in qualcosa di unitario.

In questa prima fase della vita che dura circa sei mesi, il piccolo è totalmente dipen-

dente dalla madre e non si percepisce come distinto da essa tanto da concepire la

presenza del seno materno solo come un oggetto creato dal lui stesso. La madre fa-

vorisce questa illusione del figlio, entrando in contatto profondo con lui attraverso

un rapporto empatico, che implicherà per lei la capacità di raggiungere il suo bam-

bino, andando incontro a quest'illusione sensoriale del seno, offrendoglielo nel mo-

mento in cui il bambino è pronto a “crearlo”.

La relazione madre-bambino fin dai primi istanti di vita, è talmente pregnante

e fondamentale che non si limita all'accudimento fisico, ma è un “relazione tra le

menti”, al cui interno si realizza lo sviluppo del bambino. A tal proposito Winnicott

conia i concetti di holding e handling pensando sia all'accudimento fisico che a

quello psichico. L'holding riguarda il tenere tra le braccia il piccolo e saperlo conte-

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nere. L'handling si riferisce alla capacità materna di maneggiare il bambino con cura

in particolare durante le routine quotidiane (cambio, bagnetto, ecc.).

Per comprendere meglio il pensiero di Winnicott, proviamo a pensare a come

si comporta, nella stragrande maggioranza dei casi, una buona mamma di fronte al

pianto del suo bambino. Innanzi tutto lo prende in braccio, per cui gli offre un soste-

gno fisico e prova a calmarlo cercando di soddisfare un bisogno o attenuare un disa-

gio (ha fame, è bagnato, ecc.), contestualmente però la madre offre al suo bambino

uno spazio mentale. Offre, cioè, la propria mente quale contenitore di vissuto intol-

lerabile per il bambino, vissuto che viene compreso e tollerato dalla madre che a sua

volta lo restituisce al bambino in forma “digerita”, cioè gestita.

Questa madre sensibile e responsiva in grado di elargire cure e contenere il

suo bambino, è definita good enough mother , cioè “ madre sufficientemente buo-

na”. Sa quindi, concedersi di regredire, di diventare piccola come il suo bambino

per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni.

La sensibilità materna andrebbe quindi a nutrire, secondo Winnicott, la mente

dei bambini. Appare allora evidente che lo sviluppo di una mente che pensa, di una

mente che è perciò capace di sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo, ha ine-

vitabilmente bisogno di una mente emozionale capace di sentire le esperienze della

vita intorno a sé.

La figura materna, inoltre, deve sapere alternare la gratificazione alla frustra-

zione: da un lato deve quindi proteggere il bambino, dall'altro lato deve saperlo

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“consegnare alla realtà” cioè permettergli di crescere. Lo spazio in cui si svolge

questo graduale processo di acquisizione della realtà, viene chiamato area transizio-

nale e consiste sostanzialmente con l'area del gioco. Il gioco ha, quindi, una grande

importanza e quanto il bambino vi accede, accetta la separazione dalla madre e nel

tentativo di elaborare l'angoscia della separazione si serve di oggetti ponte (chiamati

oggetti transizionali) che servono a legare l'esperienza del sé (che il bambino sta fa-

cendo) con l'esperienza precedente di totale dipendenza dalla madre.

Gli oggetti tranasizionali sono oggetti concreti (orsacchiotto, coperta, cuscino,

ecc.), ma sono anche qualcosa di interiore, danno sicurezza e consentono di attenua-

re l'angoscia dovuta ad esempio dalla separazione dalle figure di riferimento22.

Il contributo di W.Bion

Bion introduce il concetto di reverie, per definire la capacità materna di con-

tenere il vissuto emotivo del bambino in tutta la sua portata costruttiva e distruttiva.

Il compito della reverie, è fondamentale dice Bion, per unificare gli elementi

che circolano intorno al bambino. La capacità di pensare dipende sostanzialmente

dalla nostra capacità di modulare il dolore mentale. Il pensiero si origina nel disagio

e nell' angoscia che il contatto con l'altro da noi e con il mondo esterno provoca, per

22 Al nido, alla scuola dell'infanzia ma anche alla scuola primaria capita spesso di osservare bambini che portano da casa oggetti, in genere giocattoli, talvolta accettano di lasciarli nell'ar-madietto altre volte invece li stringono forte tra le mani. L'oggetto che il bambino sceglie ha una grande valenza simbolica, potremmo paragonarlo ad un ponte che il bambino getta tra il contesto familiare e il contesto scolastico.

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ovviare a questo turbamento dobbiamo trovare un contenitore che accolga la nostra

ansia. Quel contenitore è proprio il pensiero e, nella relazione madre-figlio, la madre

offre la sua mente come contenitore per i vissuti non ancora pensabili del bambino.

Il piccolo può espellere quei contenuti (protopensieri nella terminologia di Bion) ca-

richi di ansia e angoscia e li proietta sulla madre che svolgendo la funzione di reve-

rie li accoglie e li restituisce al bambino in una forma accettabile. Le angosce primi-

tive trovano, con tale funzione, uno spazio, una mente capace di accoglierle e tra-

sformarle così da poter essere restituite depurate.

Tutto quello che abbiamo detto è strettamente interconnesso all'“altro dispo-

nibile”, cioè dalla sensibilità e capacità dell'adulto di “essere nella relazione”. L'altro

-disponibile deve avere la capacità di accogliere, lascia soggiornare, metabolizzare e

restituire il prodotto dell'elaborazione, permettendo al bambino di introiettare la tol-

lerabilità alla frustrazione, al tempo e al limite (Bion, 1972).

4.4 La teoria dell’attaccamento

In seguito alla pubblicazione delle importanti opere di John Bowlby, l'at-

taccamento è divenuto uno dei concetti fondamentali della psicologia dello svi-

luppo. Seguendo la Ainsworth possiamo definire l'attaccamento come un legame

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emotivo profondo che una persona forma con un'altra e che le unisce nello spa-

zio e nel tempo.

La teoria dell'attaccamento, formulata da Bowlby, si discosta dalla conce-

zione psicoanalitica classica che sosteneva l'ipotesi della pulsione secondaria,

cioè sosteneva che i bambini alla nascita hanno esclusivamente pulsioni primarie

di natura fisiologica come la fame, la sete, ecc. e dato che la madre risponde

prontamente e allevia il disagio, con il tempo il bambino sviluppa amore nei

confronti della figura materna in sé e per sé.

Bowlby rovescia completamente questa posizione, sostituendo al termine

dipendenza, il concetto di attaccamento. Secondo Bowlby i legami che i bambi-

ni formano con i caregiver (cioè con le persone che si prendono cura di loro)

hanno le loro radici nell'evoluzione della nostra specie. Facendo esplicito riferi-

mento alla letteratura etologica23 Bowlby ritiene che la natura del legame che

23 Lo studio delle basi biologiche del comportamento e dell’organizzazione sociale di tutti i tipi di or-

ganismi viventi nel proprio habitat naturale è l'ambito di studio privilegiato dell'etologia. Essa si propone di studiare il comportamento degli animali soprattutto in relazione al loro ambiente e come risultato dell'evo-luzione. Le osservazioni più interessanti sono frutto del lavoro di un noto etologo, Konrad Lorenz, il quale in un articolo del 1935 sulle oche selvatiche constata che alla perdita della madre, gli animali tendono a formare un legame con qualunque altro animale presente al momento trasformandolo in una specie di “ma-dre adottiva”. La presenza di questo legame è dimostrato dalla cosiddetta “risposta a seguire” (chiamata an-che imprinting filiale) orientata a mantenere la vicinanza con il caregiver. L’imprinting costituisce una pre-disposizione innata, negli animali a sviluppo precoce, all’apprendimento che si manifesta nel corso di un periodo sensibile . Tale predisposizione, che porta i cuccioli a seguire la figura di cura, è immediata e dura-tura, ma probabilmente non irreversibile esattamente come altre forme di apprendimento.

A conclusioni simili giungono gli esperimenti condotti da Harlow (1958; 1961) e dai suoi col-laboratori sulle scimmie rhesus. Delle piccole scimmie furono separate dalla madre alla nascita, isolate in una gabbia in cui erano presenti due surrogati materni consistenti in un cilindro di filo metallico e in un ci-lindro simile ma ricoperto di panno e spugna. Il biberon da cui proveniva il nutrimento poteva essere posto in entrambi i simulacri materni, consentendo di valutare separatamente gli effetti del cibo e di un oggetto gradevole cui aggrapparsi. Le osservazioni condotte hanno consentito di comprendere che non tanto il cibo quanto il piacere del contatto generava comportamenti di attaccamento. Le scimmiette infatti trascorrevano la maggior parte del tempo aggrappate al manichino di panno, indipendentemente dal fatto di venire nutrite

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unisce madre e figlio sia biologica. In altri termini esisterebbero nel bambino

delle risposte sociali specie-specifiche a base innata di cui il comportamento di

attaccamento sarebbe un'espressione.

Il bambino è considerato originariamente sociale, infatti fin dai primi gior-

ni di vita, i suoi comportamenti spontanei mostrano di possedere un significato

sociale. La ricerca della vicinanza sia essa di contatto fisico o di comunicazione

esprime un bisogno innato, regolato e reso attivo da fenomeni ambientali.

L’attaccamento ha dunque la funzione biologica di proteggere la prole e la

funzione psicologica di fornire sicurezza. Si sviluppa attraverso la scelta, il rico-

noscimento e l'interazione con una figura sociale specifica in un arco di tempo

abbastanza generalizzato che va dalla sesta settimana circa sino alla fine del

primo anno di vita.

Secondo Bowlby, è possibile individuare alcune fasi che nel loro susse-

guirsi mostrano come l’ attaccamento si sviluppi a mano a mano che il compor-

tamento diventa sempre più organizzato, flessibile e intenzionale.

Alla nascita il comportamento del bambino è del tutto indiscriminato, per

esempio il sorriso è provocato dall’avvicinarsi di qualsiasi essere umano, solo

con il passare dei mesi egli comincerà a riconoscere chi si prende cura di lui re-

golarmente. Le persone familiari a questo punto riceveranno risposte di attacca-

o meno da essa; inoltre se venivano spaventate, ad esempio da un grosso insetto, tendevano a rifugiarsi dal manichino di panno a cui potevano aggrapparsi. I ricercatori conclusero che non era la madre posticcia che elargisce cibo la figura a cui le scimmiette si legavano maggiormente, privilegiando invece altri fattori co-me le sensazioni tattili e il benessere del contatto.

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mento più forti e intense, ma il cambiamento del comportamento nel bambino si

basa su un riconoscimento percettivo ed infatti egli è pronto ad accettare cure e

attenzioni da qualsiasi persona. Solo tra il settimo e l’ottavo mese compaiono le

prime risposte di attaccamento: la separazione dalla mamma suscita violente

proteste dimostrando così che si è instaurato un legame durevole; le persone

estranee vengono accolte con diffidenza . La comparsa della paura dell’estraneo

che appare improvvisamente, in realtà è preceduta da un lungo periodo di prepa-

razione, nel corso del quale le risposte positive verso le persone estranee vengo-

no via via dilazionate fino a scomparire, lasciando il posto a reazioni negative

(pianto, evitamene, rifiuto).In genere è presente verso gli otto mesi, ma anche in

questo caso se ne riscontra nella comparsa un’alta variabilità individuale.

Una volta formatisi i legami di attaccamento subiscono un altro cambia-

mento che si verifica in parallelo con lo sviluppo cognitivo. I bambini diventano

capaci di comportarsi con intenzionalità, pianificano le loro azioni in funzione di

obiettivi e cominciano ad essere in grado di prendere in considerazione i senti-

menti e gli obiettivi degli altri.

Oltre alle fasi appena considerate, Bowlby distingue i comportamenti di at-

taccamento in due diverse classi: comportamenti di accostamento e i comporta-

menti di segnalazione. Entrambi hanno la funzione di assicurare la vicinanza e il

contatto fisico con la figura materna. Appartengono alla prima tipologia condot-

te quali l’aggrapparsi, il volgersi o il “tendersi verso” che hanno per effetto

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l’avvicinamento della madre al bambino. Rientrano, invece, nella seconda tipo-

logia i comportamenti il pianto, il sorriso, le vocalizzazioni.

Alla complessità delle situazioni comportamentali precoci del bambino

corrisponde una madre biologica, particolarmente attenta ad accogliere e rispon-

dere in modo adeguato ai bisogni del bambino.

L’attaccamento trova la sua funzione nel momento in cui la madre provve-

de e contribuisce alla sicurezza del piccolo. In questo modo permette al bambino

di fare esperienza di un’interazione positiva, rassicurante che produce come ef-

fetto il costituirsi di un’attitudine di base: la fiducia. Quest'ultima è rilevante

nell'orientare le esperienze successive del bambino e nello stabilire delle modali-

tà relazionali individuali con il proprio ambiente sociale

4.5 La Strange Situation

Come medico Bowlby era profindamente convinto della necessità di tenere

conto dell'individualità di ciascun bambino, tuttavia fu in gran parte merito di

una sua collaboratrice, Mary Ainsworth, se questo aspetto è diventato oggetto di

un'intensa attività.

La studiosa mette a punto una procedura sperimentale per studiare le diffe-

renze individuali nella formazione dell'attaccamento e uno schema di classifica-

zione per descriverle. La procedura oggi è conosciuta con il nome di Strange Si-

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tuation (situazione insolita) e consiste nell'esporre il bambino a una serie di si-

tuazioni caratterizzate da un certo grado di stress che hanno luogo in un ambien-

te non familiare. Queste situazioni sono ideate con lo scopo di attivare nel bam-

bino il comportamento di attaccamento e chiarire in che modo i bambini ricorro-

no alla mamma come fonte di sicurezza.

La situazione sperimentale prevede sette brevi episodi (descritti nel riguar-

do seguente) di separazione e riunificazione con la madre (o con un'altra figura

di attaccamento) che avvengono in una stanza non familiare al bambino. Ogni

episodio ha una durata di circa tre minuti, anche se può essere diminuita se il

bambino appare eccessivamente turbato.

La Strange Situation

La mamma e il bambino sono nella stanza, il bambino esplora l’ambiente per 3 minuti

Il ricercatore (estraneo al bambino) entra nella stanza, dapprima è silenzioso poi parla con

mamma per 1 minuto, poi si siede sul pavimento e gioca con il bambino per 1 minuto

La mamma si allontana, il ricercatore gioca con il bambino.

La mamma ritorna, esce il ricercatore, la mamma calma il bambino e si siede a terra per 3 minuti

La mamma esce e il bambino è solo per un tempo massimo di 3 minuti

Il ricercatore entra, tenta di calmare il bambino, poi se possibile si allontana per un tempo mas-

simo di 3 minuti

La mamma ritorna e calma il bambino, il ricercatore esce.

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Secondo l’ipotesi della relazione di attaccamento, in una buona relazione il

bambino usa la mamma come base per l’attività di esplorazione (episodi 1, 2 e il

finale del 4), ma è a disagio in assenza della madre (episodi 3, 5, 6). Il compor-

tamento del bambino viene osservato in particolare nei momenti di riunione con

la madre.

Sulla base delle osservazioni condotte si sono ipotizzate diversi tipi di at-

taccamento: il tipo A (ansioso-evitante), il tipo B (sicuro) e il tipo C (ansioso-

ambivalente). In seguito è stato anche aggiunto il tipo D (disorganizzato).

Tipo A – ansioso-evitante: questo bambino evita di avvicinarsi alla

mamma, la ignora al suo ritorno (o l’abbraccia senza trasporto) oppure la acco-

glie con una manifesta reazione di evitamento: si volta, distoglie lo sguardo. Nei

momenti di separazione il bambino non sembra turbato dall’assenza della madre.

Questo tipo di attaccamento è caratteristico dei bambini che nel primo anno di

vita hanno sperimentato una madre insensibile ai loro segnali, che ha scoraggiato

il contatto fisico quando il piccolo aveva paura o stava male o era sottoposto ad

uno stress. Esibiscono un eccesso di autonomia e di concentrazione sul campito,

ma non mostrano né rabbia, né bisogni affettivi, non manifestano dolore ma si

mostrano distaccati ed evitano il contatto.

Tipo B – sicuro: questi bambini ricercano attivamente la mamma e man-

tengono con lei la vicinanza e il contatto specialmente nei momenti di riunifica-

zione. Esperiscono una madre responsiva alle loro richieste e sensibile ai loro bi-

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sogni di protezione. Se devono separarsi, esprimono il loro sconforto, ma poi

sono in grado di esplorare l’ambiente circostante in quanto sanno di poter conta-

re sulla mamma in caso di bisogno, sanno che se piangono avranno una risposta

e, quindi, piangono di meno e solo in caso di necessità.

Tipo C – insicuro-ambivalente: questi bambini sono caratterizzati da

un chiaro comportamento di resistenza al contatto e all’interazione con la madre

durante gli episodi di riunificazione. Piangono inconsolabilmente, non esplorano

l’ambiente se lasciati soli e al momento della riunione con la madre scaricano su

di lei la rabbia che hanno accumulato, facendo ricorso a quella che viene definita

“rabbia disfunzionale”, ovvero manifestano aggressività al momento sbagliato.

Pur volendo essere consolati respingono la madre manifestando la loro ira per

non aver potuto avere fiducia in lei. Sono bambini che nei primi mesi di vita

esperiscono una madre imprevedibile nella risposta, ovvero propensa a manife-

stare un comportamento fisicamente affettuoso non quando è il bambino a ri-

chiederlo, ma quando lei stessa sente il bisogno di provare conforto attraverso il

contatto fisico con il piccolo.

Tipo D- disorganizzato: questi bambini esibiscono un modello di

comportamento molto disorientato che presenta i tratti delle tre tipologie presen-

tate.

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Non sempre tutte le madri sanno essere in sintonia con i bisogni del bam-

bino e questo può essere dovuto a motivi culturali o a ragioni legate alla loro sto-

ria personale.

Si è visto che, man mano che il bambino cresce, i legami di attaccamento

non dipendono più dalla vicinanza fisica, ma piuttosto da qualità astratte del

rapporto (come ad esempio l’affetto, la fiducia, l’approvazione) che vengono in-

teriorizzate dal bambino e anche dall’adulto ovviamente.

Si formerebbero così dei modelli operativi interni24, cioè una rappresenta-

zione interna della relazione con la madre e con le altre figure di attaccamento.

I modelli operativi interni sono strutture cognitive che organizzano il ri-

cordo delle interazioni quotidiane con la figura di attaccamento. Sono quindi de-

gli “schemi” che guidano le azioni del bambino con la figura di attaccamento,

basati sulle interazioni precedenti, sulle aspettative e sulle esperienze affettive ad

esse associate. Se il piccolo ha sperimentato cure parentali pronte ad offrire aiuto

e conforto, costruirà un modello di sé come persona degna di essere confortata e

che può aspettarsi di essere amata e una rappresentazione interna degli altri co-

me persone pronte ad aiutarlo in caso di necessità. Sentirà meno i bisogno di

controllare in continuazione la persona che si prende cura di lui e si sentirà più

libero e autonomo nell’esplorazione del mondo circostante. Viceversa quando la

24 Un modello operativo interno è una struttura interna ipotetica con cui il bambino si rappre-senta mentalmente la relazione di attaccamento e i partner coinvolti in essa, quindi se stesso a l'altro (Schaffer, 2008).

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prontezza nella risposta a bisogni di sicurezza non è stata assicurata o quando il

bambino ha sperimentato una madre rifiutante, si formerà un modello mentale di

sé come individuo non degno di amore. E’ il caso delle persone che non si aspet-

tano mai niente dagli altri e sono evitanti e distaccati rispetto all’attaccamento o

danno risposte inaffidabili.

Secondo studi più recenti queste aspettative che il bambino matura circa la

figura di attaccamento tendono ad essere estese anche alle altre figure affettive

che egli incontrerà nel corso della vita.

Le strategie comportamentali delle mamme non sono intenzionalmente né

buone, né cattive, ed è difficile parlare di madri “cattive” anche laddove gli ef-

fetti delle loro riposte provocano palesemente un disadattamento ed una sorta di

disagio nel piccolo. Gli stili materni riflettono la storia personale, ovvero riflet-

tono il modo in cui loro stesse sono state trattate da bambine e questa trasmis-

sione di stili e di legami di attaccamento intergenerazionale avrebbe una chiara

componente culturale.

A questo punto diventa interessante chiedersi se le caratteristiche

dell’attaccamento possano variare con gli anni. L’attaccamento ai genitori in-

fluenza solo le relazioni sociali a venire o determina anche il futuro rapporto con

i propri figli? Forse dovremmo rispondere negativamente non essendoci nulla di

assolutamente determinato nello sviluppo dell’individuo. Inoltre è stato osserva-

to che donne che avevano vissuto un’esperienza assai infelice con i loro genitori

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erano poi riuscite a farsene una ragione e le avevano attribuite a difficoltà plau-

sibili come lo stress, l’eccessivo lavoro. Una volta divenute madri molte di que-

ste donne manifestavano un modello di attaccamento sicuro. Probabilmente era-

no riuscite ad aggiornare i loro modelli operativi interni a vantaggio della rela-

zione con i loro bambini.

Se il legame con la figura materna permette al bambino di sperimentare un

rapporto intenso e supportivo con l’adulto, altre relazioni contribuiranno in bre-

ve ad integrare la sua dotazione di capacità sociali fondamentali. Infatti i rappor-

ti tra esseri umani si fondano sul senso di essere legati a qualcun altro. Ma nella

prima infanzia (e non solo) un problema basilare nelle relazioni interpersonali è

quello di riuscire a legare, ovvero sentirsi uniti all’altro e al tempo stesso perce-

pirsi come individui autonomi.

Finestra di approfondimento

Attaccamento e modelli operativi interni

Studi più recenti hanno cercato di inquadrare la relazione di attaccamento

in una prospettiva che coprisse l’intero arco della vita e di misurarla in diversi

stadi evolutivi successivi. Si è visto che man mano che il bambino cresce, i le-

gami di attaccamento non dipendono più dalla vicinanza fisica, ma piuttosto da

qualità astratte del rapporto come ad esempio l’affetto, la fiducia,

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l’approvazione, che vengono interiorizzate dal bambino. Tra i metodi di cui ci si

è avvalsi per lo studio dei bambini più grandi, citiamo il Separation Anxiety

Test. La procedura prevede che ad un bambino oppure un adolescente vengano

mostrate delle foto che riproducono esperienze di separazione; il soggetto è invi-

tato ad immaginarsi quali emozioni può provare il bambino raffigurato

nell’illustrazione e a dire come si comporterebbe lui stesso se si trovasse nei suoi

panni (Main et al., 1985). Si è riscontrato un buon livello di attendibilità e di sta-

bilità per i soggetti dagli otto ai dodici anni. I bambini con un attaccamento sicu-

ro ammettono l’ansia da separazione, ma forniscono risposte verosimili, mentre i

bambini con un attaccamento insicuro negano l’ansia oppure reagiscono dando

risposte bizzarre e inadeguate.

Per quanto riguarda lo studio degli adulti Main e collaboratori (Main,

Kaplan, Cassidy, 1985) hanno sviluppato una tecnica per valutare i modelli ope-

rativi interni dei genitori e correlarli con la formazione del legame di attacca-

mento nei figli. Viene proposta un’intervista mirata a far emergere l’esperienza

di attaccamento vissuta dalla persona durante l’infanzia e a comprendere quanto

la persona consideri queste esperienze come influenti rispetto allo sviluppo suc-

cessivo. Secondo l’ipotesi della Main non sarebbero tanto i contenuti dei ricordi

ad essere significativi quanto piuttosto il modo in cui vengono rievocati, in par-

ticolare per quel che concerne gli indicatori di trasparenza emotiva e coerenza.

Lo schema seguente riporta le tre diverse posizioni identificate dalla Main:

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Genitori autonomi: le persone che rientrano in questa categoria parlano

delle loro esperienze infantili in modo aperto e coerente, riconoscendo eventi ed

emozioni sia positivi che negativi.

Genitori rifiutanti: queste persone sembrano volersi dissociare dalle carat-

teristiche emotive dell’infanzia, non ammettendo in modo particolare le espe-

rienze negative e il loro significato.

Genitori preoccupati: queste persone sono troppo coinvolte dai loro ricordi

e ne sono così sopraffatte da apparire incoerenti e confuse durante l’intervista.

Secondo questo studio le madri autonome tendono ad avere bambini sicuri,

quelle rifiutanti avrebbero bambini con attaccamento di tipo evitante e le madri

preoccupate avrebbero bambini con attaccamento di tipo ambivalente.

Gli studi non evidenziano una coincidenza perfetta, probabilmente entrano

in gioco altri fattori, ma il valore di correlazione ottenuto indica comunque un

qualche legame tra queste classificazioni.

Lo studio di Fonagy e coll. (1991), condotto con un gruppo di donne in at-

tesa, offre un interessante contributo in questa direzione. Viene somministrata

alle madri, prima della nascita dei propri figli, un’intervista sull’attaccamento e

successivamente al raggiungimento del primo anno di vita i bambini vengono

classificati sulla base della procedura della Strange Situation.

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Dai risultati si evince che il modo in cui la madre costruisce la propria sto-

ria di relazione, ha una notevole influenza sul tipo di relazione che il bambino

svilupperà nei suoi confronti.

Si suppone che il modello operativo interno della madre costruito durante

l’infanzia e utilizzato in età adulta, influenzi il modo in cui interagisce con il figlio e,

come risultato il figlio svilupperà nei suoi confronti un particolare tipo di legame di

attaccamento.

4.6 Comprensione e regolazione emotiva

La riflessione sui modelli di attaccamento e la possibilità per l'essere uma-

no di costruire legami affettivi significativi ci porta ad affrontare un ulteriore

ambito di studio e ricerca che riguarda appunto la dimensione emotivo-affettiva.

L’emergere delle espressioni emotive permette al bambino di porsi come

soggetto emozionalmente e affettivamente competente, capace di entrare in rela-

zione con il caregiver e di sostenere scambi adeguati e significativi con

l’ambiente. Egli possiede un repertorio di espressioni per indagare le proprie

emozioni; si tratta di analizzare se è altrettanto capace di riconoscere e interpre-

tare le emozioni altrui.

Dai numerosi studi compiuti negli ultimi venti anni sappiamo che il bam-

bino subito dopo la nascita e poi nel susseguirsi dei mesi mostra una predisposi-

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zione per il volto della madre e per le espressioni facciali. Queste prime forme di

riconoscimento vengono poi affinate e perfezionate grazie a processi maturativi

e di apprendimento per giungere intorno ai cinque-sei mesi a una esplorazione

sempre più accurata del volto del caregiver. Verso la fine del secondo anno con

il gioco di finzione, la comprensione del “come se”, compare anche la capacità

di padroneggiare l’ambiguità delle espressioni emotive altrui. A tre anni infatti il

bambino capisce quando l’adulto si presenta con un volto serio e finge di essere

cattivo e – cogliendo la differenza tra realtà e finzione – si diverte. Il bambino

impara anche a modificare le proprie emozioni adeguandosi al contesto, mostra

così di aver appreso le Regole di Ostentazione teorizzate da Ekman (1972) per

cui si apprende ad aumentare o diminuire l’entità dell’emozione fino a simularla.

I bambini a quattro anni dimostrano di aver compreso e di saper usare le Regole

di Ostentazione

Sarà intorno ai quattro anni che la comprensione emotiva del bambino avrà

una ulteriore svolta, in quanto compare la capacità di attribuire agli altri opinioni

e desideri riconoscendo che possono essere diversi dai propri. Così a quattro-

cinque anni il bambino sarà in grado di mettersi nei panni dell’altro e

comprendere che cosa avviene nella mente altrui sia in termini di pensiero che di

emozioni, elaborando così una teoria della mente sul funzionamento psichico ed

emotivo altrui (Harris,1989). Inoltre all’età di cinque- sei anni il bambino

formulerà ipotesi sugli stati emotivi dell’altro sempre più precise riuscendo

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anche a rappresentarsi i motivi per cui gli altri non mostrano le emozioni che

provano.

Nella comprensione delle emozioni un ultimo progresso si ha quando il

bambino comprende le emozioni ambivalenti. E’ intorno agli otto anni che c’è il

riconoscimento della contemporaneità di due emozioni con polarità opposta però

ancora rivolte a due diversi oggetti. Infine a nove anni il bambino riesce a unifi-

care emozioni con valenza opposta rispetto ad uno stesso evento (ad es. provare

contemporaneamente affetto e gelosia, affetto e rabbia verso un fratello) si è co-

sì raggiunta una rappresentazione completa e consapevole dei sentimenti ambi-

valenti (Camaioni, Di Blasio, 2002)

Si comprende, inoltre, come nel processo di socializzazione delle emozioni

un ruolo cruciale è svolto dall’attribuzione parentale; il bambino usa il compor-

tamento degli adulti al fine della propria conoscenza e di conseguenza modifica

le proprie condotte emotive in relazione al comportamento altrui seguendo pre-

cisi script culturali.

In sintesi, come evidenziato da Lewis e Michalson (1983), la socializza-

zione delle emozioni richiede al bambino che egli riesca ad apprendere: come

esprimere le proprie emozioni seguendo le regole della cultura di appartenenza;

quando esprimerle in funzione del contesto sociale di riferimento; come definire

le emozioni usando un lessico specifico e appropriato; come classificare corret-

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tamente le espressioni emotive altrui e infine come interpretare le condotte emo-

zionale proprie e altrui in una situazione sociale dotata di senso.

La regolazione emotiva nel bambino

La regolazione emotiva è alla base di molte delle componenti entrano in

gioco nello sviluppo emotivo dell'individuo. Possiamo definirla come “l'insieme

dei processi intrinseci ed estrinseci coinvolti nel monitoraggio, nella valutazione

e nella modifica delle reazioni emotive, in particolare della loro intensità e dura-

ta” (Schaffer, 2008).

Le emozioni possono essere gestite in modi differenti: con mezzi estrinseci

(genitore che calma il bambino o lo distrae) oppure con mezzi intrinseci, che

comportano cioè un impegno da parte del bambino. Questi ultimi sono rilevanti

per analizzare l'autoregolazione, ossia la capacità di esercitare un controllo sulle

proprie emozioni. Riuscire a controllare le proprie emozioni è proprio una delle

caratteristiche principali cui si fa riferimento nella vita quotidiana per indicare la

maturità psicologica di una persona.

Il controllo delle tensioni emotive, come sottolinea molto bene Petter, può

assumere varie forme a seconda del tipo di emozione cui si riferisce. Ad esem-

pio, per quanto riguarda l'emozione della collera, un primo controllo potrebbe

venire dal corpo, cioè il bambino impara a non rispondere con una motricità

estesa (sbattere i piedi, colpire un oggetto o una persona, gridare, ecc..). Con il

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passare degli anni questa componente motoria si riduce sempre più e risulta pre-

dominante il vissuto soggettivo. Un secondo progresso può riguardare l'esterno,

cioè dove si scarica la motricità del bambino: contro qualsiasi cosa che gli capiti

a tiro o verso lo stimolo che ha provocato la collera.

Spesso genitori, educatori e insegnanti appaiono perplessi e preoccupati di

fronte ai comportamenti osservati nei bambini di due o tre anni riguardo la ge-

stione della collera. I comportamenti rilevati vanno dal buttarsi a terra, picchiare

qualcuno, rompere degli oggetti e di solito queste reazioni sono provocate da di-

vieti o norme imposte loro e a cui non rispondono (ovviamente) verbalizzando il

disappunto, ma mettendo in atto una collera incontrollata. A meno che non vi

siano altre problematiche evolutive, nella stragrande maggioranza dei casi, que-

sti sono comportamenti tipici in un bambino piccolo. Con il passare degli anni,

infatti, tendono a diminuire sia come frequenza che come intensità.

Un altro progresso che possiamo ritrovare nel bambino riguarda la capaci-

tà di diluire nel tempo la reazione emotiva fino ad arrivare a posticiparla. E' co-

me se il bambino dicesse a se stesso “questo è troppo, devo affrontarlo poco alla

volta”.Questa capacità è collegata ai tratti di personalità, per cui sarà maggior-

mente presente in un bambino con uno stile di comportamento di tipo riflessivo,

meno in un bambino con uno stile di tipo impulsivo.

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Una ulteriore forma di controllo si ha quando si riesce ad isolare una certa

emozione, facendo in modo che le tensioni nate in un certo contesto (per esem-

pio a casa) non si trasferiscano in altri (ad esempio a scuola).

Fin dai tre-quattro anni imparano le regole di esibizione o mascheramento

di un'emozione e imparano a simulare (“sorridi anche se il regalo della zia non ti

piace”). Fin dai primi anni della scuola primaria imparano che è possibile con-

trollare, almeno parzialmente, le emozioni negative , privilegiando le modalità

sostitutive, cioè quelle che permettono di “riempire la mente” con ricordi o atti-

vità più piacevoli. Infatti a livello di metaconoscenza (cioè di consapevolezza ri-

guardo il proprio modo di controllare le emozioni) sembra che i bambini siano

consapevoli del fatto che un evento positivo successivo a uno che aveva procura-

to un'emozione negativa, tende a mitigare l'effetto negativo del precedente. Da

questa convinzione deriva la strategia di opporre qualcosa di positivo (anche so-

lo pensato) all'evento negativo. Per esempio un bambino di fronte ad un dispia-

cere reagisce cercando un'attività piacevole.

La capacità di comprendere le emozioni proprie e altrui e di regolare il

proprio comportamento è fondamentale nell'interazione con gli altri. La tratta-

zione delle sviluppo delle emozioni ha permesso di evidenziare che le emozioni

non hanno solo lo scopo di esprimere uno stato d’animo ma assumono significa-

to nella relazione con l’altro, quindi vi è uno stretto legame tra emozioni e inte-

razione sociale ed è proprio all’interno di queste relazioni affettive a cui sono

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strettamente connesse che le emozioni acquistano significato (Camaioni, Di Bla-

sio, 2002).

Nelle relazioni tra pari la popolarità e l'amicizia dipendono in larga misura

dalla capacità di collegare con sensibilità le proprie emozioni a quelle altrui. Le

modalità di espressione di queste abilità dipendono in gran parte secondo Schaf-

fer dal temperamento e dall'età del bambino.

Il temperamento come espressione biologicamente determinata dell'indivi-

dualità, esercita la sua influenza su caratteristiche quali la capacità di inibire gli

impulsi e l'intensità della reattività emotiva. La competenza emotiva, nella misu-

ra in cui comporta la regolazione delle proprie emozioni, è per alcuni bambini

chiaramente più difficile da raggiungere di quanto non lo sia per altri. L'influsso

dell'età è forse ancora più ovvio. I bambini compiono progressi notevoli in età

prescolare e soprattutto in età scolare, grazie sia ad una maggiore competenza

linguistica, sia allo sviluppo di una teoria della mente. Essere capaci di parlare

delle emozioni significa riuscire a prendere le distanze da esse, a rifletterci e a

discutere con gli altri, oggettivando i propri sentimenti e quelli degli altri.

4.6 Stare bene insieme a scuola: pensare le relazioni

“Sono così belli da guardare anche quando litigano. I bambini si muovo-

no di continuo, hanno sempre qualcosa in mente (anche se questo è fonte di

problemi per me) e sembra che non mi perdano mai d'occhio. Mi meraviglia la

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loro capacità di concentrarsi, magari non su quello su cui dovrebbero concen-

trarsi, ma sono sempre attenti..e poi penso molto a loro..come vivono nelle loro

case, specialmente i bambini che hanno difficoltà a scuola. Mi sconcerta, a vol-

te, vedere come cambiano da un momento all'altro: prima sembrano piccoli, con

un comportamento quasi non verbale, da bambini di scuola materna e un minuto

dopo manifestano capacità addirittura sofisticate. Talvolta mi sento impotente di

fronte al loro disagio, riesco a vedere le mille cose di cui hanno bisogno..in certi

casi riesco ad aiutarli, altre volte non posso dare loro ciò di cui hanno bisogno

o non so come fare. Sono solo la loro maestra” [scritto da un'insegnante di quin-

ta elementare e riportato da Pianta, 2001, p.55]

“Diviene possibile parlare, pur con le dovute differenze, del rapporto non

solo tra madre e figlio, ma anche tra bambino e insegnante, nei termini di rela-

zione affettiva, di funzioni di contenimento e di mentalizzazione svolte dall'adul-

to, di qualità del legame di attaccamento tra due partner, di responsività dell'a-

dulto, e di studiarne le implicazioni per la crescita affettiva, sociale e cognitiva

del piccolo” [Liverta Sempio, Marchetti, prefazione all'edizione italiana di Pian-

ta, 1999, p.XI].

La complessità del percorso di crescita frutto dell'interazione tra dimensio-

ne cognitiva, emotivo-affettiva e sociale del bambino e l'importanza dei diversi

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sistemi interattivi di sviluppo (ad esempio in contesto della vita familiare e quel-

lo scolastico) ci restituiscono un'immagine di bambino al centro di un percorso

di sviluppo e di apprendimento alquanto complesso.

Oggi, a differenza del secolo scorso, sappiamo che un bambino sereno, che

sta bene è un bambino che apprende. Lo stretto legame tra la dimensione emoti-

vo-affettiva e la dimensione cognitiva è quanto mai rilevante e degna di appro-

fondimento .

L'inizio della scuola dell'infanzia, della scuola primaria, ma anche l'ingres-

so alla scuola superiore, porta una serie di aspettative, curiosità, perplessità e

paure che vengono ovviamente diversamente condivise e verbalizzate a seconda

dell'età dello studente. L'incontro con il nuovo può stimolare, così come può in-

timorire e spaventare, generando un senso di inadeguatezza e di incapacità.

L'ingresso nel contesto scolastico chiama in causa sia il mondo cognitivo

del bambino, poiché mobilita competenze di natura cognitiva - come per esem-

pio l'attenzione, la memoria, la pianificazione e l'esecuzione di un compito – sia

la sfera emotivo - affettiva dato che nei processi di apprendimento risultano

coinvolti aspetti riconducibili alle rappresentazioni dell'ambiente di apprendi-

mento (aspettative dei genitori, degli insegnanti) oltre ovviamente allo schema,

cioè alla rappresentazione mentale che l'alunno si crea rispetto alla relazione con

i propri insegnanti (“credono in me”; “sono bravi e mi aiutano”; “pensano che io

non sia abbastanza intelligente”). La componente emotiva, inoltre, coinvolge l'a-

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rea della percezione di sé e, quindi, chiama in causa l'autostima e la percezione

della propria competenza.

Quando i bambini incontrano insegnanti attenti che sanno cogliere le emo-

zioni implicate nel processo dell'apprendere e distinguere i sentimenti e i vissuti,

non solo trovano una risorsa, ma sviluppano un senso di fiducia nell'altro che

permette la relazione e stimola sia l'apprendimento. L'insegnante diviene allora

colui che riesce a contenere le fatiche dell'apprendere e le restituisce al bambino

“gestite”, cioè organizzate secondo una programmazione e una pianificazione

pensata per il gruppo classe e per ogni bambino.

L'insegnante svolge così una funzione di contenimento e organizzazione

degli aspetti difficili dell'esperienza di apprendimento. Proviamo adesso a pensa-

re ad alcuni comportamenti del bambino, come l'aggressività, la ribellione alle

regole, gli atteggiamenti di provocazione e anziché arrabbiarci o sentirci impo-

tenti come insegnanti, pensiamo che queste condotte potrebbero costituire per

alcuni bambini l'unico modo possibile per esprimere una condizione di disagio

psichico che viene espulsa attraverso le azioni. L'insegnante sicuramente viene

messo a dura prova, perchè investito da ciò che il bambino espelle, se però riesce

a tollerare come propri i vissuti che l'alunno evoca in lei/lui, a dargli un nome e a

restituirglieli in una forma pensabile (digerita nella terminologia bioniana), svol-

gerà quella funzione di contenimento mentale che abbiamo visto caratterizzare

in modo fondante la relazione madre-bambino.

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La mente dell'insegnante diventa allora esempio di una mente che riesce a

pensare alla propria esperienza emotiva e ad apprendere da essa (Blandino, Gra-

nieri, 1995).

Del resto il processo con il quale il bambino attribuisce un senso al mondo

è un processo squisitamente relazionale, che non può fare a meno dell'altro quale

interlocutore con il quale co-costruire significati intersoggettivamente condivisi:

torniamo così a parlare di apprendimento, inteso come un fenomeno attivo, inte-

rattivo, situato in una contesto relazionale nel quale il bambino è immerso fin da

piccolo (Schaffer, 2008). Di conseguenza, essendo mediato dal mondo interno

del soggetto che apprende, mondo interno che si sostanzia nella relazione con

l'altro, l'apprendimento è un fenomeno pregno di emotività e affettività (Blandi-

no, Granieri, 1995).

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V LEZIONE La costruzione delle competenze rela-

zionali in età evolutiva

5.1 Le relazioni chiavi di volta dello sviluppo

Mentre i pionieri della ricerca sulle interazioni sociali primarie e

sull’attaccamento del bambino concentravano l’attenzione in modo pressoché

esclusivo sulla figura materna, più di recente il concetto di monotropia25 sembra

non trovare conferma in alcuni risultati di ricerca (Schaffer e Emerson, 1964)

che mostrano come il bambino diriga i propri comportamenti di attaccamento

anche verso altre persone quali per esempio il padre o i fratelli. In riferimento a

questi elementi di limitazione della teoria dell'attaccamento alcuni autori come

Schaffer e Bruner ne ampliano le prospettive e i campi d'indagine di interesse.

La complessità dei processi percettivi e cognitivi peculiari delle espressioni

dell'uomo inducono questi autori a considerare il comportamento sociale non so-

lamente come frutto di maturazione del corredo biologico, ma ad inserirlo nel

più ampio e generale sviluppo cognitivo.

25 La tendenza a riconoscere la "madre biologica" la sola principale figura di attaccamento è definita da Bowlby con il termine monotropia. In altri termini la "madre biologica" risulta essere la figura più idonea perché programmata geneticamente per rispondere al comportamento di attaccamento del piccolo.

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Come abbiamo avuto modo di vedere nel corso dei capitoli precedenti, alla

nascita il bambino non è "socialmente competente”, ma lo diventa attraverso un

lungo processo di sviluppo attraverso il quale le potenzialità che possiede gli

permettono di acquisire gli attributi fondamentali della cultura umana: pensiero,

linguaggio e uso di simboli. L'organizzazione di attività reciproche che manten-

gono una struttura fissa e si realizzano in un contesto altamente preordinato

dall'intervento dell'adulto sembrano essere i prerequisiti essenziali per un ap-

prendimento precoce dell'agire sociale e dello sviluppo in generale. Il bambino,

infatti, sulla base di esperienze ricorrenti, che ripropongono sempre la medesima

sequenza di eventi e azioni acquisisce modalità comportamentali (scripts) che gli

consentono di pianificare e coordinare le proprie azioni.

Il saper riconoscere da parte del bambino attraverso attività interattive - ti-

piche di alcuni giochi - che la struttura dell'azione sociale si configura come

scambio reciproco e complementare, è la condizione essenziale per passare da

una interazione ad una vera e propria relazione cioè alla rappresentazione che il

bambino costruisce dell'interazione stessa.

Dalla regolazione diadica in cui il ruolo della madre è preponderante, si

passa a modelli di comportamento che lasciano sempre più spazio alla partecipa-

zione del bambino. Da una iniziale situazione di fusione e di totale dipendenza

dall'adulto, il bambino che sul piano motorio impara a camminare e trasforma il

suo dire in un eloquio funzionale alla soddisfazione dei suoi bisogni, diventa

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progressivamente capace di separarsi fisicamente, ma anche psicologicamente

delle figure di riferimento.

5.2 Crescere nelle relazioni: la famiglia

La famiglia è per i bambini il primo “mondo sociale” (Molinari, 2002); il

primo contesto sociale di appartenenza, al quale ben presto si affiancheranno al-

tri contesti come la scuola, il gruppo sportivo, ecc. Come abbiamo visto nel cor-

so di questo lavoro, anche se accomunati da aspetti similari, i percorsi e gli esiti

dello sviluppo possono essere molto differenti. Ogni iter evolutivo è il risultato

di un complesso processo che vede un intreccio tra diverse tipi di variabili, alcu-

ne delle quali biologiche ed ereditarie, altre legate all’esperienza, ai contesti di

crescita e alle ripercussioni che gli eventi hanno su ciascuno di noi.

Le famiglie (nella loro accezione più classica) sono gruppi piccoli ed inti-

mi che facilitano l’apprendimento di regole di comportamento coerenti. Il mi-

crosistema famiglia è collegato a diversi contesti esterni nei quali i bambini pos-

sono essere gradualmente introdotti. Schaffer la definisce “l’unità di base”

nell’ambito della quale il bambino viene addestrato all’esistenza sociale.

Per immaginare la famiglia e le influenze che esercita sui suoi membri è

utile pensare al modello suggerito dalla teoria dei sistemi (Sameroff, 1983).

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Considerata dalla prospettiva dei sistemi26, una famiglia può essere vista come

un insieme integrato composto dai singoli membri e dalle relazioni che si stabili-

scono tra loro.

Il sistema famiglia non è dato dalla semplice somma di queste componenti,

ma è una entità dinamica caratterizzata da rapporti di reciproca influenza tra ge-

nitori e figli. Inoltre, in quanto sistema aperto, il modo in cui funziona una fami-

glia è determinato non solo dalle personalità dei singoli membri e dalle relazioni,

ma anche dall’impatto che gli eventi esterni hanno su di esse.

Esiste una diffusa convinzione che le azioni dei genitori influenzino lo svi-

luppo dei bambini. Non vi sono in realtà studi sperimentali che comprovino que-

sta assunzione. Quali che siano gli effetti prodotti dai genitori, essi sono mediati

da altri fattori, come ad esempio, le caratteristiche del bambino e quelle collega-

te al contesto sociale di sviluppo. Il contributo dei genitori è comunque cruciale

ed infatti il tema della genitorialità è da tempo affrontato da studiosi appartenenti

a diverse aree della psicologia.

Con il termine genitorialità indichiamo una funzione dinamica, attraverso

la quale individui adulti si rendono capaci di prendersi cura in modo “sufficien-

temente adeguato” (Bettelheim,1987) dei bisogni evolutivi dei figli nelle diverse

fasi d’età, in cui i compiti di sviluppo si presentano con una propria e distinta

26 La prospettiva di sistema mette in risalto il fatto che tutti gli aspetti del bambino e del conte-sto di sviluppo hanno la stessa importanza e hanno bisogno di essere compresi nella loro integri-tà.

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specificità; infatti ci possono essere stili genitoriali funzionali per i bambini pic-

coli, ma inadeguati in adolescenza”(Malagoli Togliatti e Tafà , 2005). Tra i

compiti dei genitori è la flessibilità di cura che consente di rispondere

all’impotenza e alla dipendenza del bambino, ma anche di saper cogliere e sup-

portare l’autonomia degli adolescenti, così come riconoscere il momento evolu-

tivo della maturità, con il distacco.

L’evoluzione dinamica delle relazioni costruite all’interno della vita fami-

liare indica nella funzione principale dell’essere genitori la capacità di attivare

comportamenti all’interno di uno spazio mentale e relazionale, in cui convergo-

no tutte le esperienze, le rappresentazioni, i ricordi, le convinzioni, i modelli

comportamentali e relazionali, le fantasie, le angosce e i desideri, vissuti nella

storia familiare di provenienza.

Le interazioni reali e/o fantasmatiche con le figure adulte significative co-

stituiscono la formazione di un “genitore interno”, da cui dipendono i giudizi e i

modelli relazionali, che sono utilizzati in età adulta nel rapportarsi con altri.

La mancanza di responsabilità nella cura costituisce, infatti, l’elemento cri-

tico delle famiglie in crisi e può sfociare in comportamenti maltrattanti o abusan-

ti e in traumi fisici e/o psicologici.

In un'ottica psicodinamica, considerando, quindi, le esperienze della prima

infanzia come cruciali nello sviluppo di buone competenze relazionali, Emde

(1988) individua negli aspetti precoci dell'esperienza morale un nesso tra il

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trauma con la figura d'accudimento e i comportamenti aggressivi e violenti che

si protraggono nell'età adulta

La genitorialità è dunque un aspetto della persona che si sviluppa fin

dall'infanzia e si fonda su alcune dimensioni (identificate grazie ai contributi dei

teorici dell’Attaccamento) determinate dall’aver sperimentato e appreso, nel cor-

so della propria storia evolutiva la capacità di:

1. sapersi attaccare, che connota il saper costruire e stabilire una vici-

nanza ed una relazione con qualcuno, il saper proteggere e farsi proteggere.

Questa capacità si riconduce al modello comportamentale di attaccamento sicu-

ro, che si forma nell’integrazione delle informazioni affettive con quelle cogni-

tive. Avere acquisito un modello di attaccamento insicuro, caratterizzato da dif-

ficoltà nell’accogliere le proprie emozioni e nel manifestarle, o un modello in-

terno di attaccamento insicuro-ambivalente, determinato dall’imprevedibilità

delle risposte, procurano nelle cure genitoriali una quantità crescente di disagio

affettivo (ansia, tristezza, disperazione), che può suscitare risposte aggressive o

di rabbia;

2. cogliere lo stato della mente dell'altro: comprendere quello che pensa

e sente l'altro. Si riferisce alla capacità di comprendere gli altri individui e di

pensare che possano avere credenze, intenzioni e prospettive differenti dalle

proprie. Questa capacità, oggetto di analisi degli studiosi della Teoria della men-

te, costituisce l’elemento di regolazione cognitiva delle nostre relazioni, che si

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basano sulla rappresentazione del pensiero dell’altro e la conseguente regolazio-

ne dei pensieri propri e dell’altro. Sapersi rappresentare l’altro costituisce un

elemento funzionale soprattutto nei momenti critici dello sviluppo dei figli;

3. riconoscere la soggettività dell'altro, come processo che contrasta il

desiderio di vedere l'altro come parte o derivato di se stesso. Riconoscere il con-

fine corporeo e psichico dell’altro costituisce un elemento importante in tutti i

rapporti interpersonali ed in particolare per la costruzione dell’identità;

4. accettare il cambiamento dell'altro e la sua diversità: la non accetta-

zione, la non visione del cambiamento e il non riuscire a vedere che è passato il

tempo è un elemento che favorisce il conflitto e la non comunicabilità all’interno

dei nuclei familiari e, per questo, costituisce un elemento d’incapacità di ricono-

scere e di risolvere la crisi.

5.

La funzione fondamentale della genitorialità consiste dunque nel saper ri-

conoscere i segnali di bisogno dell'altro. Sembra essere assodato che la sensibi-

lità e la reattività del caregiver agli stati emotivi del bambino sia una delle de-

terminanti fondamentali del modo in cui quest’ultimo impara a regolare gli effet-

ti disturbanti e ad entrare in relazione con gli altri.

Queste competenze richiedono al genitore di spostare l’attenzione da sé,

dal figlio che è stato, al figlio reale, per accogliere i bisogni inespressi e fornire

ai propri figli risposte, anche a livello di comunicazione non verbale (contatto

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corporeo, sguardo, tonalità della voce, ecc.) dal cui feedback si strutturano le re-

lazioni funzionali.

Finestra di approfondimento

Gli stili genitoriali

Sono state considerate numerose dimensioni secondo le quali valutare i

genitori, come per esempio, la sensibilità, l’affetto, la permissività, la punitività.

Nel raggruppare le diverse modalità individuate sono state identificate due

principali dimensioni: permissività vs severità e sollecitudine vs ostilità. La pri-

ma dimensione considera il grado di libertà lasciato ai bambini: ad un estremo

troviamo genitori che tollerano ogni comportamento, mentre all’estremo opposto

coloro che impongono un gran numero di restrizioni.

Il secondo aspetto indagato, sollecitudine vs ostilità, descrive invece la

quantità di affetto che i genitori mostrano. I genitori solleciti esprimono libera-

mente il loro affetto (approvazioni e lodi) viceversa i genitori ostili sono più

freddi e tendono a sminuire i le attività e i comportamenti messi in atto dai bam-

bini.

Se si combinano le due dimensioni in base alla funzione genitoriale, emer-

gono 4 pattern che, secondo Schaefer possono essere indicati come stili genito-

riali:

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Permissività Severità Sollecitudine Democratico Iperprotettivo Ostilità Trascurante Autoritario

Lo schema di classificazione più largamente utilizzato emerge dai lavori di

Baumrind (1973, 1993) e si riferisce a quattro dimensioni di comportamento ge-

nitoriale: controllo, nutrizione, chiarezza di comunicazione e richieste di maturi-

tà. Combinando le varie dimensioni l’autrice ha elaborato una tassonomia basata

sui seguenti pattern:

- Funzione genitoriale autoritaria: Questi genitori tendono ad essere diret-

tivi ed esigenti, i bambini godono di poca libertà e scarse gratificazioni.

Pretendono che si obbedisca ai loro ordini senza dare spiegazioni.

- Funzione genitoriale permissiva: Sono genitori molto affettivi che tendo-

no a non controllare i figli. Tendono ad essere poco coerenti riguardo la

disciplina e il rispetto delle regole. Consultano il bambino in merito alle

decisioni familiari.

- Funzione genitoriale autorevole: Utilizzano maniere non punitive, inco-

raggiano gli scambi verbali e tendono ad ascoltare e rispettare i bisogni

del bambino. Comunicano le regole di condotta, ma non limitano i figli

con restrizioni eccessive. Manifestano affetto e calore ai propri bambini.

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- Funzione genitoriale disimpegnata: Minimizzano i costi della genitoriali-

tà. Mantengono una sorta di distanza affettiva. Non sono di sostegno ai lo-

ro figli e tendono a fornire loro pochi strumenti di comprensione della

realtà che li circonda.

Lo stile genitoriale migliore sarebbe quello autorevole poiché sarebbe as-

sociato ad esiti adattivi molto positivi nei figli. Il bambino con genitori autorevo-

li tende ad essere più fiducioso rispetto alle proprie possibilità, socialmente re-

sponsabile, dotato di autocontrollo, maggiormente cooperativo con gli altri.

Come precedentemente accennato, più di recente, sono state rilevate delle

fragilità del modello tipologico sugli stili parentali. Un primo aspetto riguarda la

reciproca influenza genitori - figli, ad esempio alcune caratteristiche tempera-

mentali dei bambini potrebbero sollecitare particolari stili genitoriali. Un secon-

do aspetto riguarda, invece, la scarsa adattabilità delle misurazioni rilevate in

culture non occidentali.

Rimane difficile sostenere che si possa identificare un modello genitoriale

che rimane invariato nel tempo e applicabile a diverse culture. Limiti che si ri-

trovano optando per un modello unidirezionale e quasi deterministico e che ven-

gono invece superati ricorrendo ad una visione di tipo multifattoriale della geni-

torialità. In tale prospettiva il comportamento dei genitori può essere osservato

evidenziando i fattori prossimali (ad esempio le caratteristiche caratteriali del

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bambino) e distali (la rete sociale, l’ambiente lavorativo, ecc.) che necessaria-

mente intervengono nella costruzione delle relazioni significative.

“La questione da indagare rispetto alla funzione genitoriale è dunque come

genitori e figli coordinano e regolano le concezioni e le pratiche che ogni giorno

vengono prodotte nei contesti familiari, e come questa coordinazione cambia nel

corso dello sviluppo” (Molinari, 2002, p. 125).

5.3 La vita in famiglia

Gli studi empirici che hanno osservato i comportamenti materni e paterni

nei confronti dei figli hanno indagato la quantità e la qualità del tempo che tra-

scorrono insieme e il tipo di attività che i due genitori preferiscono. Ai padri

viene riconosciuta una modalità di relazione più “fisica” e attiva, prediligono il

“fare qualcosa insieme”. E’ uno stile, quindi, basato maggiormente sullo scam-

bio fisico, giocoso e sull’imprevedibilità. I giochi preferiti dai padri sono quelli

che coinvolgono la sfera corporea e motoria (“lanciare” in aria il bambino, inse-

guirlo, fargli il solletico)

Le madri, invece, coinvolgono il bambino in giochi tranquilli, rispondono

più tempestivamente ai bisogni del piccolo e utilizzano forme di interazione ver-

bale più che fisica.

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Non c’è quindi da stupirsi se, come ha evidenziato Lamb (1981), nella

maggioranza dei casi il bambino si rivolge alla madre quando percepisce un pe-

ricolo nell’ambiente, mentre si indirizza verso il padre quando vuole giocare.

Inoltre, nonostante la revisione dei ruoli sociali maschili e femminili, av-

viata negli ultimi decenni, le madri sono ancora le principali responsabili delle

attività di cura e assistenza dei figli e questo incide sul tipo di relazione che si

viene a creare.

Alcuni ricercatori hanno riscontrato che quando i padri si trovano ad as-

solvere la funzione di figure primarie di cura agiscono in modo altrettanto pre-

muroso, attento e competente, come a dimostrare che le differenze nella genito-

rialità non dipendono dall’appartenenza a un genere, quanto dal ruolo assunto e

dalla diversa esperienza maturata con i figli (anche rispetto al tempo trascorso

insieme).

Oltre alla relazione con i genitori, la vita familiare per la stragrande mag-

gioranza delle persone (80% degli individui ha fratelli e/o sorelle) è caratterizza-

ta dall’interazione tra fratelli. Alcuni studi sottolineano la particolarità e specifi-

cità di questa interazione e ne enfatizzano il significato per lo sviluppo cognitivo

e sociale rispetto al tipo di relazione che può essere instaurata con il genitore.

Nel crescere insieme i fratelli acquisiscono informazioni sulle regole so-

ciali che riguardano il possesso, l’imparzialità, la condivisione e l’alternanza dei

ruoli nei giochi. E’ stato osservato che le intense emozioni, positive o negative,

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che caratterizzano la relazione sono alla base di un coinvolgimento ambivalente

caratterizzato dall’alternanza di comportamenti di collaborazione, di competi-

zione, di aiuto o di vero e proprio evitamento.

Gli scambi quotidiani, emotivamente pregnanti, sensibilizzano i bambini

fin da piccoli verso i fratelli, così che questi rapporti costituiscono una vera e

propria palestra per l’esercizio delle emergenti competenze sociali (Camaioni,

1993).

Con il crescere dell’età i rapporti tra fratelli subiscono variazioni che por-

tano ad una maggior parità durante la fanciullezza, dovuta probabilmente al di-

minuire dei conflitti di dominanza del primogenito e sicuramente anche alle ac-

cresciute capacità dei fratelli più piccoli di esercitare a propria volta il potere.

Non vanno inoltre sottovalutate le notevoli differenze tra fratelli dovute sia

a fattori biologici sia alle cosiddette esperienze non condivise: il fatto di vivere

nella stessa famiglia non significa fare identiche esperienze ed essere trattati nel-

lo stesso modo. I genitori stessi rilevano diversità nella costruzione del rapporto

con il singolo figlio. Differenze che possono essere ricondotte a modalità diverse

di adattamento tra genitori e figli.

Questi studi complessivamente evidenziano importanti direzioni di indagi-

ne, soprattutto per quel che concerne le connessioni fra le relazioni tra fratelli e

le competenze che i bambini poi manifestano con i loro coetanei.

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5.4 Coetanei e amici

I molteplici rapporti significativi stabiliti nella prima infanzia consentono,

al bambino di vivere positivamente la momentanea assenza dei genitori e costi-

tuiscono un arricchimento del suo orizzonte di affetti sensibili e rassicuranti.

Grazie ad essi il piccolo può sviluppare una sorta di “flessibilità relazionale”,

basata sull’apprendimento di regole diverse di interazione, che gli permette di

non rimane ancorato ad un unico modello di relazione.

Ricerche recenti hanno rilevato che nel periodo che va dai due ai quattro

anni vi è un notevole incremento delle abilità di relazione con i pari. Diventano

più frequenti il gioco sociodrammatico, il gioco di inseguimento e di lotta. A

questo proposito ricordiamo i lavori pionieristici condotti in Italia da Luigia

Camaioni e collaboratori che compiendo osservazioni sistematiche in contesti di

nido hanno fornito interessanti modelli esplicativi delle interazioni tra coppie di

coetanei nella prima infanzia.

E’ stato rilevato che nella seconda metà del primo anno di vita si manife-

stano i primi tentativi di interazione vera e propria, mediati il più delle volte da

oggetti: ad esempio il bambino comincia a indicare o porgere un oggetto ad un

altro, oppure semplicemente a guardarlo in viso sorridendo; nella maggior parte

dei casi però questo tipo di avvicinamento non è reciproco perché questi gesti di

apertura sociale non vengono ricambiati dal partner.

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Nel secondo anno di vita si evidenziano invece interazioni speculari: ca-

ratterizzate dal fatto che i bambini fanno la stessa cosa, assumendo il medesimo

ruolo, scegliendo giocattoli uguali e mettendo in atto azioni molto simili (intera-

zione speculare contemporanea).

In un secondo momento, i comportamenti anziché sovrapporsi, tendono a

susseguirsi nel tempo: un bambino compie un’azione e si interrompe per osser-

vare l’altro, il quale è incline ad imitarlo ripetendo la stessa azione (interazione

speculare differita).

Tra i due - tre anni di vita compaiono le interazioni complementari in cui

le azioni dei due bambini vengono compiute una dopo l’altra e si completano re-

ciprocamente. I bambini sanno rispettare i turni ed imparano anche a scambiarsi

i ruoli, realizzando interazioni reciproche. Pensiamo ad esempio al gioco del na-

scondino, in cui uno si nasconde e l’altro lo cerca e che vede i due bambini rico-

prire a turno sia l’uno che l’altro ruolo. In queste ultime forme di interazione i

bambini non si limitano a “fare la stessa cosa”, ma “fanno una cosa insieme”,

cioè cooperano in un’attività comune. Con il termine di attività cooperativa si

designano situazioni in cui i bambini interagiscono in modi complementari; per

esempio, un bambino prende da una scatola le costruzioni e le porge ad un com-

pagno affinché li sistemi sulla torre. Con l’aumentare dell’età, le attività solitarie

e parallele diminuiscono , mentre le attività associative e cooperative, le sole che

presuppongono continue interazioni tra pari, aumentano.

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Le attività di gruppo tendono, invece, a incrementare nel corso dell’età

prescolare e nei primi anni di quella scolare.

La predisposizione precoce dei bambini all’interazione con i coetanei non

garantisce di per sé che tra loro si stabilisca una relazione interpersonale vera e

propria. Sono state, per cui distinte le semplici interazioni occasionali dalle rela-

zioni di amicizia tra bambini sulla base di alcuni criteri come, ad esempio, la

familiarità, la preferenza reciproca, la capacità di interagire appropriatamente e il

piacere reciproco.

Un'ulteriore distinzione sulla quale occorre riflettere, per comprendere

meglio la relazione tra coetanei, riguarda la dimensione di verticalità e orizzon-

talità descritte da Hartup (1991). La dimensione della verticalità identifica le re-

lazioni del bambino con l'adulto (genitore, insegnante, ecc.) poiché quest'ultimo

è in una posizione di supporto e sostegno rispetto ai bisogni del bambino. Tali

relazioni svolgono una duplice funzione: sul piano cognitivo e sociale trasmetto-

no conoscenze, e norme, dal punto di vista emotivo .affettivo trasmettono prote-

zione e sicurezza. L'orizzontalità, invece, chiama in causa la complementarietà,

si definiscono relazioni tra pari perchè bambini, vicini di età, si trovano ad occu-

pare la medesima posizione dal punto di vista cognitivo e sociale e gli scambi

che avvengono tra loro sono di tipo reciproco.

Dobbiamo tenere presente, però, che la distinzione tra verticalità e oriz-

zontalità è ricca di sfumature, per esempio si è osservato che le relazioni tra pari

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sono caratterizzate sia dalla dimensione di reciprocità e simmetria, sia dalla ver-

ticalità e complementarietà che, in alcuni momenti, si stabilisce tra i bambini.

D'altra parte, in un contesto di apprendimento in gruppo, o in coppia, basato

sull'interesse condiviso piuttosto che sull'autorità dell'adulto o di un individuo

più competente, il confronto tra punti di vista differenti e le capacità di ognuno è

favorito proprio dalle dimensioni di reciprocità e parità caratteristiche delle rela-

zioni orizzontali (Schaffer, 1998)

L’immagine di bambino che sembra emergere dalle ricerche più recenti è

quella di una persona molto disponibile al contatto sociale con i coetanei e capa-

ce di stabilire con essi rapporti prolungati e significativi.

5.5 Il bambino e la scuola: la competenza sociale nel gruppo dei pari

La scuola diventa luogo privilegiato per una più ampia socializzazione in

cui il bambino scopre la presenza di adulti che rappresentano una "autorità" di-

versa e relativamente indipendente da quella dei genitori. L'istituzione scolasti-

ca, in quanto tale, con la definizione di tempi e di spazi precisi in cui si avanzano

richieste specifiche relativamente a diritti e doveri (a cui anche i genitori si de-

vono adeguare), permette al bambino di intuire la presenza di un’autorità astratta

che si pone oltre i singoli e che presiede alla convivenza comune. Entra così in

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rapporto con un sistema normativo di cui deve tener conto per regolare il proprio

comportamento.

In questo contesto il bambino scopre gli altri bambini non più o non sola-

mente come compagni di gioco, ma come modelli con i quali confrontare le pro-

prie prestazioni e le proprie capacità di stare insieme e condividere i molti mo-

menti della giornata. Le motivazioni, gli interessi e i bisogni del singolo entrano

in contatto con quelli di altri individui imponendo delle regolamentazioni che

possono sfociare in comportamenti cooperativi o competitivi o conflittuali.

Le ricerche condotte su queste tematiche hanno dato maggior rilevanza ai

fattori esterni, privilegiando l’esame degli aspetti legati alle strategie educative,

alle pratiche di socializzazione, lasciando in secondo piano le variabili ascrivibili

alle differenze individuali legate agli aspetti temperamentali e alle caratteristiche

stabili di personalità.

A parità d’età e di competenze non tutti i bambini presentano, infatti, la

medesima capacità d’interazione con i compagni. Alcuni sono meno disponibili

nei confronti degli altri e attivano frequentemente episodi di competizione e di

conflittualità, il cui esito può talvolta portare ad una rottura dell’interazione tra i

partner. In genere, questi bambini, all’interno del gruppo, tendono ad isolarsi o

ad essere rifiutati e non accettati nelle varie attività comuni. Spesso alla base di

manifestazioni di questo tipo si colloca una storia personale in cui i rapporti con

le figure di riferimento significative sono risultati poco gratificanti e poco rassi-

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curanti. Un bambino che non ha fatto propria l’esperienza di una relazione fon-

data sulla fiducia e sulla bontà delle interazioni tenderà a rappresentarsi l’altro

come una minaccia per la propria persona e a considerarlo come possibile fonte

di pericolo da cui guardarsi. La conflittualità e l’aggressività che vengono mani-

festate nei rapporti con i pari, in alcuni casi limite, possono costituirsi come mo-

dalità di difesa che celano il bisogno di affermarsi e rassicurarsi sulla propria ca-

pacità di agire sulla realtà.

La sicurezza costituisce un fattore interno in grado di condizionare in sen-

so positivo l’interazione e l'apprendimento.

Ricerche osservative longitudinali hanno riscontrato una connessione tra la

disponibilità positiva nei confronti dell’altro e la natura dell’attaccamento. In

particolare i bambini con un “buon attaccamento” con la madre sono quelli che

mostrano maggiori iniziative e si impegnano in interazioni sociali più prolunga-

te, rispetto ai bambini che hanno avuto un "attaccamento meno buono". È più

probabile che bambini con difficoltà a gestire sul piano sociale le componenti

emozionali del rapporto con l'altro, mostrino comportamenti conflittuali piutto-

sto che cooperativi.

Tra i fattori interni che hanno una connessione con la cooperazione è stata

individuata, oltre ad un bisogno di sicurezza da soddisfare, anche la capacità di

simbolizzazione (Fonzi, 1991). La funzione simbolica - ovvero la capacità di

stabilire rapporti tra significanti e significati - produce delle modificazioni sensi-

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bili sia sul piano cognitivo sia su quello socio-affettivo. Essa può considerarsi il

supporto indispensabile alla capacità rappresentativa cioè alla capacità di avere

nella mente un oggetto, una persona o un avvenimento senza che questi siano

realmente presenti. La realtà con il quale il bambino entra in rapporto non è più

costituita unicamente dall'universo materiale e presente, ma è una realtà rappre-

sentata che può essere manipolata simbolicamente.

Per la Fonzi “il distacco dal reale - come rappresentazione della realtà e

non solamente azione sulla realtà - è da considerarsi un pre-requisito per l'instau-

rarsi di comportamenti collaborativi; più precisamente è la capacità di agire sim-

bolicamente sugli elementi del reale che consente di recedere dalla soddisfazione

immediata dei propri bisogni, la condizione indispensabile per la cooperazione”

(1991, p.12)

Grazie alla capacità di costruire ed usare simboli il pensiero rappresentati-

vo si socializza gradualmente tramite l'acquisizione di un sistema di significati

codificati, comuni al gruppo culturale di appartenenza. Il linguaggio verbale co-

me sistema simbolico per eccellenza si offre al bambino come incisivo mezzo

per comunicare in modo ricco ed articolato sentimenti, intenzioni, scopi, non so-

lo riferibili all'esperienza personale, ma all'esperienza di più interlocutori.

La verbalizzazione a sua volta è un fattore di promozione in quanto favori-

sce la progettualità comune e lo scambio delle idee . Si potrebbe dire che la ca-

pacità di agire simbolicamente sugli elementi del reale rafforza progressivamen-

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te l'abilità di tener conto del punto di vista altrui fino ad arrivare a sostituire ad

una prospettiva semplicemente interpersonale una prospettiva di gruppo. (Fonzi,

1991).

La cooperazione sottende la capacità del soggetto di capire le intenzioni

dell'altro al fine di integrarle in un progetto comune. Lo sviluppo del comporta-

mento cooperativo è quindi da ricollegare con lo sviluppo di certe competenze

socio-cognitive particolarmente rilevanti nelle situazioni sociali.

Cooperare significa interagire con una pluralità di persone in vista di una

meta comune, riconosciuta e condivisa dal gruppo di lavoro o di gioco. Ciò im-

plica la socializzazione delle proprie azioni per coordinarle con quelle di coloro

che si prefiggono il raggiungimento del medesimo obiettivo.

Sul piano interpersonale l'operare con gli altri richiede al soggetto di de-

centrarsi - staccarsi dalla individuale prospettiva - sia a livello cognitivo sia a li-

vello emotivo. La capacità di percepire le emozioni di un altro individuo e quin-

di di "sentire", nel senso di provare le emozioni dell'altro, ma anche di compren-

derle, è stata indicata, in ambito psicologico, col termine di identificazione affet-

tiva o empatia.

Il decentrarsi sul piano cognitivo (role-taking) e su quello emozionale

(empatia) riveste un'importanza fondamentale per i rapporti interpersonali e co-

stituisce un prerequisito per promuovere sensibilità e abilità che sono alla base

dello sviluppo sociale e morale.

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Come insegnanti, educatori o genitori non dobbiamo però dimenticare che

l'apprendimento a vivere in gruppo passa anche attraverso l'esperienza del con-

flitto, della difficoltà di trovare il giusto accordo tra le proprie azioni e quelle

degli altri e in tal senso comportamenti oppositivi o aggressivi tra coetanei non

segnano necessariamente una rottura delle relazioni sociali, ma costituiscono

nella maggior parte dei casi un'occasione di apprendimento alla regolazione e al

controllo dei propri e altrui comportamenti (Molinari, 2002).

Gli atteggiamenti cooperativi e positivi, così come quelli distruttivi e nega-

tivi hanno comunque una funzione adattiva rispetto alla struttura sociale del

gruppo stesso.

Per analizzare le componenti del contesto che possono facilitare o ostaco-

lare il raggiungimento di obiettivi sociali e di sincronia con i pari all'interno del

gruppo classe, Cohen e colleghi (1991) hanno utilizzato strumenti (prevalente-

mente di tipo osservativo) con lo scopo di rilevare i comportamenti di bambini

di scuola primaria e le loro autovalutazioni sul grado di popolarità.

Dai risultati ottenuti, gli studiosi, ribadiscono, ad esempio, l'importanza del

grado di controllo esercitato dagli insegnanti sugli alunni. Le diverse condizioni

(controllo alto/basso) producono cambiamenti sia nelle pratiche quotidiane degli

alunni, sia nella loro percezione di competenza. Diverso è, infatti, il grado di at-

tiva ricerca di interazioni con i coetanei quando il controllo dell'insegnante è

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basso (ad esempio in mensa durante il pasto), oppure quando è elevato, come

durante le attività scolastiche strutturate.

Inoltre, la disposizione dei posti nei banchi e i relativi spostamenti che, a

volte, sono attuati dagli insegnanti (spostare chi disturba; mettere davanti il

bambino con difficoltà, ecc.), sono elementi contestuali che sicuramente hanno

una rilevanza per il bambino rispetto alla percezione delle proprie competenze,

della propria popolarità e della messa in atto di relazioni sincroniche e armonio-

se con i propri compagni (Molinari, 2002).

Altri aspetti importanti sono il clima di classe e le caratteristiche relaziona-

li e strutturali del contesto scuola e classe. Per esempio nei passaggi tra ordini di

scuola si è rilevata una difficoltà nei bambini di mantenere il proprio status so-

ciale. In molti casi, bambini considerati “gregari” al termine della scuola dell'in-

fanzia perchè si caratterizzavano per una scarsa iniziativa rispetto alle proposte

di giochi e attività, una volta inseriti nella scuola primaria, non potendo più con-

tare sugli stessi compagni si sono rivelati maggiormente autonomi, attivi e parte-

cipi. Al contrario, altri bambini considerati più autonomi e quasi leader dalle in-

segnanti della scuola dell'infanzia, hanno mostrato maggiori difficoltà non po-

tendo più contare sull'adesione incondizionata dei compagni. Di conseguenza

hanno dovuto mettere a punto strategie di azione nuove per poter riaffermare la

propria posizione.

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Questi risultati sfidano le conclusioni di molti lavori che insistono su una

condizione di immobilismo relazionale, per cui un bambino identificato in un

certo status lo manterrà nel tempo. Al contrario, è possibile evidenziare, con me-

todologie maggiormente orientate all'analisi del contesto sociale, la natura dina-

mica, mutevole e articolata del processo di costruzione delle relazioni con i pro-

pri coetanei (Molinari, 2002).

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