quaderni del centro pastorale – 12 indicazioni per leggere l’antico...

38
Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento Pagina 1 di 38

Upload: votram

Post on 18-Feb-2019

234 views

Category:

Documents


1 download

TRANSCRIPT

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 1 di 38

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 2 di 38

N.B. PER ESIGENZE TECNICHE IL TESTO E’ STATO TRASFERITO MEDIANTE SCANNER, QUESTO HA COMPORTATO UNA DIVERSA IMPAGINAZIONE RISPETTO ALL’ORIGINALE

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 3 di 38

Introduzione Continuamente siamo chiamati a riscoprire il primato della Parola di Dio. Il Concilio dice che è necessario — per coloro che si dedicano al ministero della Parola, e si citano esplicitamente sacerdoti, diaconi e catechisti — essere attaccati alle Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato (Dei Verbum 25). Il Sinodo dice espressamente: “Dio ha affidato la sua rivelazione alla Sacra Scrittura, che la Chiesa ha sempre considerato, insieme con la Tradizione, come la regola suprema della propria fede. La Sacra Scrittura è la fonte principale della predicazione della salvezza e, quindi, anche nella evangelizzazione e nella catechesi, essa è il ‘libro’, non solo un sussidio, in quanto composta sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e, come tale, consegnata alla Chiesa” (Costituzioni Sinodali 102). Il nostro Vescovo nell’ambito del Convegno Pastorale “In principio la Parola” del giugno 1999 ha ripetutamente affermato sia la centralità della Parola di Dio sia la necessità di porsi in fedele ascolto di essa. La fede nasce da questo ascolto. Fides ex audito. Dunque una Parola che richiede il nostro sincero ascolto, anzi, come ci ricorda mons. Nicolini, una Parola che intende cambiarci la vita, che esige una traduzione pratica: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28); “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Cc 1,22). Questi appunti di don Cavedo vogliono essere una traccia per chi si accosta all’Antico Testamento e prima di approfondire un singolo testo o autore comincia con uno sguardo d’insieme su questi libri che, come afferma sempre la Dei Verbum, “sono libri divinamente ispirati” e “conservano valore perenne” (DV 14). I “Quaderni del Centro Pastorale” sono strumenti agili e umili. E queste note di don Romeo Cavedo di fronte alla vastità e complessità degli argomenti inerenti all’Antico Testamento intendono esserne una dimostrazione: si tratta di alcune scarne indicazioni, di una griglia di lettura, di un quadro d’insieme che risulta utilissimo per chi si accosta all’Antico Testamento con il desiderio di cominciare a leggerlo e il proposito di conoscerlo meglio. Certamente non solo per una crescita culturale... ma anzitutto per porsi in attento ascolto di quel Dio che — come ci ha ricordato il Vescovo — parla con discrezione. “Nella trascendenza del suo mistero e nella vicinanza amorevole delle sue creature, sceglie il tono, il momento, le circostanze giuste, senza mai vincolare la libertà dell’uomo”. E, forse, il parlare discreto di Dio nell’Antico Testamento merita da parte di tutti noi un po più di attenzione. Cremona 13 luglio 1999 Don Enrico Trevisi

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 4 di 38

Capitolo I La Bibbia 1. I DUE TESTAMENTI La parola viene dal greco e significa “Libri”, perché la Bibbia è un insieme di 73 libri, che sono stati composti nell’arco di circa un millennio, dal 900 a.C. fino al 100 d.C. Nelle nostre lingue BIBBIA è diventato un nome singolare, perché noi crediamo che i molti libri della Scrittura costituiscono un messaggio unitario che Dio rivolge agli uomini di tutti i tempi. La BIBBIA si divide in due grandi parti: • Antico Testamento • Nuovo Testamento Gli Ebrei hanno in comune con noi l’Antico Testamento (per maggiori precisazioni vedi il paragrafo seguente sul canone). Perché chiamiamo Testamento le due parti della Bibbia? Questa parola è entrata nelle nostre lingue dal latino, il quale ha tradotto così un termine greco, che, a sua volta, intendeva esprimere il vero senso della parola ebraica che noi solitamente traduciamo con alleanza o patto. Antico e Nuovo Testamento indicano perciò i libri che appartengono rispettivamente all’antica e alla nuova alleanza di Dio con gli uomini. L’antica alleanza è quella rivolta al popolo ebraico (e poiché il popolo ebraico è ancora oggi inserito in questa relazione con Dio alcuni ritengono improprio definirla “antica”), la nuova quella che, in Gesù, si rivolge a tutti gli uomini. Al posto di alleanza si è usata la parola Testamento per sottolineare che non si tratta di un contratto alla pari tra noi e Dio, ma di una libera decisione di Dio di essere Padre e salvatore degli uomini, una decisione unilaterale, gratuita e obbligante, come lo è il testamento di una persona che dispone le sue decisive volontà. Progetto salvifico o disposizione salvifica è un buon equivalente della parola Testamento. 2. IL CANONE DELL’ANTICO TESTAMENTO Canone significava in greco misura o regola. Si chiamarono canoni le regole della retta fede e anche oggi, in diritto ecclesiastico, si chiamano canoni le regole della retta condotta raccolte nei codici. In riferimento alla bibbia “canone” è passato a significare l’elenco dei libri che la compongono. Chi ha deciso quanti e quali libri devono far parte della Bibbia? Con una battuta potremmo rispondere: nessuno. Più seriamente possiamo dire che lo ha deciso, indirettamente, la volontà di Dio che dirige, senza farsi notare, la vita del suo popolo. Le cose infatti sono andate così. Nella lunga storia del popolo ebraico si è a poco a poco costituito un patrimonio di testi che tutti consideravano necessari per la vita di fede e che tutti riconoscevano voluti da Dio. Di alcuni di questi libri, i più recenti, non tutti erano sicuri di doverli accogliere come normativi e sacri. Gli Ebrei che vivevano al di fuori della Palestina e parlavano greco, consideravano come facenti parte della Bibbia dei libri che i loro fratelli della Giudea, pur apprezzandoli e usandoli, non ritenevano così normativi (ossia canonici) come gli altri. Questi libri sono: i e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Giuditta, Tobia, Baruc, una forma greca di Ester più ampia di quella ebraica e alcune aggiunte al libro di Daniele. Quando gli Ebrei fissarono finalmente in modo ufficiale l’elenco o canone (ciò avvenne verso la fine del primo secolo dopo Cristo) esclusero questi libri dall’elenco. Perciò essi non fanno parte della Bibbia ebraica.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 5 di 38

Poiché la Chiesa cristiana si diffuse soprattutto al di fuori della Giudea per opera di Ebrei convertiti di lingua greca, i primi cristiani accolsero tutti i libri che venivano considerati Scrittura sacra dagli Ebrei di lingua greca, quindi anche quelli appena elencati. Di conseguenza noi abbiamo più libri degli Ebrei in quella parte della Bibbia (l’Antico Testamento) che abbiamo in comune con loro. I Protestanti, però, decisero di seguire l’elenco ebraico, perciò non considerano Bibbia i libri sopra elencati. Li considerano utili ma non normativi. Li chiamano apocrifi. Noi cattolici, per ricordarci che non sono accolti da Ebrei e Protestanti, ma non per dire che valgono meno degli altri, li chiamiamo Deuterocanonici, cioè facenti parte di un secondo elenco. La ragione vera per cui noi consideriamo “Bibbia” l’intero elenco di questi libri è il fatto che Gesù stesso e poi gli apostoli li ritenevano parola di Dio. Per l’Antico Testamento non abbiamo quindi avuto problemi nel fissare l’elenco, perché abbiamo preso quello in uso presso gli Ebrei di lingua greca, adottato già dagli Apostoli. Meno facile è ricostruire in che modo si è formato l’elenco dei libri del Nuovo Testamento. Fino ai concili di Firenze e di Trento non ci furono precise decisioni dell’autorità, ma già alla fine del Il secolo un elenco esisteva, con qualche oscillazione per alcuni libri, tra cui l’Apocalisse. A formarlo bastò l’uso delle Chiese. Infatti entrarono a far parte del Nuovo Testamento quei libri che, di fatto, tutte le Chiese usavano considerandoli la norma per la fede e la vita. L’uso concorde determinò l’elenco. Per questo abbiamo detto che tutto dipese dalla volontà di Dio che segretamente ha guidato le scelte delle Chiese. 3. IL TESTO DELL’ANTICO TESTAMENTO Dobbiamo aggiungere qualche informazione sul modo con cui si è concretamente conservato il testo dei libri dell’Antico Testamento. Già abbiamo notato che esso ci è giunto in due forme: l’originale ebraico e la traduzione greca. Cominciamo con due parole sulla storia del testo ebraico. Come è noto nelle lingue semitiche non è necessario scrivere le vocali, che vengono introdotte da chi sa la lingua all’atto della lettura. Il testo biblico che a poco a poco venne fissato era dunque il cosiddetto testo consonantico. Alla fine del I secolo dopo Cristo esso è ormai stabilizzato. Studiosi ebraici detti masoreti (masora significa, forse, tradizione) nei secoli II-VII dell’era cristiana, operanti in due scuole (palestinese - la più autorevole - e babilonese) onde preservare il testo consonantico lo arricchirono di annotazioni, statistiche di vocaboli, precisazioni grammaticali e anche di segni aggiunti per indicare le vocali della corretta pronuncia. È il famoso testo masoretico, solitamente abbreviato TM. La trasmissione delle copie manoscritte di questo sistema testuale fu così rigida e fedele che praticamente il TM è giunto a noi in forma pressoché identica in tutti i manoscritti. Per questa ragione le edizioni critiche moderne della Bibbia ebraica riproducono sostanzialmente il miglior manoscritto a noi giunto del TM, quello conservato nella biblioteca di San Pietroburgo e datato 1008 d.C.. Quello dell’AT è un caso unico nella critica testuale perché normalmente - e qualcosa di simile accade anche per il NT - le edizioni critiche cercano di ricostruire con scelte e confronti il testo più vicino possibile all’originale a partire dalle numerose varianti che i codici più autorevoli presentano. Probabilmente è stata proprio la masora che, avvertendo i copisti delle caratteristiche anche minime del testo, li ha dissuasi dall’inserire correzioni intenzionali e li ha aiutati a diminuire il numero degli errori involontari, anche se questi sono statisticamente inevitabili. Come è noto, dopo la seconda guerra mondiale, furono scoperti a Qumran, sul Mar Morto, numerosi manoscritti di testi della Bibbia ebraica risalenti al I secolo avanti Cristo, testi antichissimi e autorevoli. Ci si è subito chiesti se essi confermino o no il TM. La risposta non è del tutto univoca e differisce da libro a libro. Tuttavia, globalmente, il TM è risultato corrispondente alle testimonianze di Qumran. Solo in alcuni settori (ad esempio i e 2 Sam) Qumran sembra riflettere un testo diverso da TM o un testo più simile a quello dei LXX.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 6 di 38

La traduzione greca dei LXX, della quale passiamo a trattare, presenta, infatti, un testo biblico che in molti punti e per diversi aspetti è diverso dal TM. Le differenze in alcuni casi dipendono certamente dalle scelte dei traduttori che vollero semplificare, spiegare o approfondire il senso dell’originale. Molto spesso, però, sorge il sospetto che i LXX avessero a disposizione un antico testo distinto da quello che poi si è sedimentato nel TM. In questo caso la disuguaglianza dipenderebbe dal diverso punto di partenza, non da trasformazioni operate nel tradurre. Tale ipotesi di un diverso testo ebraico all’origine dei LXX è la più probabile. Si apre allora un particolare problema su cui la discussione è in atto: • abbiamo due differenti antichi Testamenti, il greco e l’ebraico? • per quali ragioni dovremmo preferire l’ebraico dal momento che il cristianesimo apostolico e primitivo si basò su quello greco? • esistono due forme di AT canonico ed ispirato? Agostino, ad esempio, era favorevole all’idea del doppio testo, mentre S. Gerolamo optò per la veritas hebraica e la sua scelta è ancora prevalente. Il livello introduttivo dei nostri studi non ci consente di andare oltre. Ed è giusto però che lo studente sappia che il testo che la sua Bibbia gli offre è meno lineare di quanto appaia. Per questo troverà frequentemente nelle note la menzione di problemi testuali e di scelte fatte da altre traduzioni. 4. LA BIBBIA È PAROLA DI DIO Tutti i libri della Bibbia sono stati scritti da uomini, convinti di compiere un servizio al piano di Dio e per il bene dei suo popolo. Chi studia questi libri constata che questi autori hanno scritto sfruttando le loro conoscenze e capacità umane, ma anche conservando tutti i loro limiti e condizionamenti. Nonostante questo, Ebrei e Cristiani sono convinti che la Bibbia non è soltanto un libro che parla di Dio, ma un libro attraverso il quale Dio ci parla. Servendosi delle imperfette espressioni degli autori umani, Dio dialoga con noi e ci svela il mistero della stia persona. Lo Spirito Santo ha guidato tutta la complessa formazione dei testi biblici, ha assistito gli scrittori nella progettazione e nell’esecuzione della loro opera affinché scrivessero tutto e soltanto quello che Dio voleva fosse scritto. Ma Dio, tranne forse qualche momento di eccezionale importanza, ha accettato di far passare il suo messaggio attraverso le idee, i modi di pensare, le concezioni del mondo, la sensibilità artistica, le doti e le preferenze degli scrittori umani di cui si è servito. Per questo il dogma cattolico ritiene vere queste due affermazioni complementari: • Dio è autore della Bibbia • Anche gli scrittori umani sono veri autori della stessa Bibbia. Questo misterioso rapporto tra Dio e gli autori umani si chiama, con una parola che deriva da una frase della Seconda Lettera a Timoteo, ispirazione. Ma questo termine non significa altro se non quello che abbiamo spiegato: ispirare non significa suggerire i contenuti da dire né le parole con cui dirle, ma soltanto assistere gli autori affinché, esprimendo l’esperienza di fede che essi hanno avuto la grazia di fare vivendo entro il popolo di Dio, possano produrre dei testi di cui Dio intende servirsi per comunicare in ogni tempo con gli uomini aperti al dono della fede.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 7 di 38

Capitolo 2 Natura e origine del Pentateuco

1. L’IPOTESI DELLE QUATTRO FONTI

Avvertenze Nel corso della trattazione si usano abbreviazioni, che sono di volta in volta spiegate. Aggiungiamo che BG significa Bibbia di Gerusalemme (ed. Dehoniane) e NVB significa Nuovissima Versione della Bibbia (ed. 5. Paolo). In francese è uscita una nuova edizione della Bibbia di Gerusalemme, rinnovata anche nelle introduzioni e nelle note. Ma, quando noi suggeriamo di leggere alcune note della BG, ci riferiamo ancora alla vecchia edizione italiana, che è quella che hanno a disposizione i lettori di queste guide introduttive all’Antico Testamento. Molte volte sono di grande interesse e utilità le note (ecumeniche) della Bibbia TOB (ed. LDC). A chi non possiede ancora una Bibbia con note consigliamo l’acquisto di quest’ultima. La traduzione è uguale in tutte le Bibbie o quasi (fatta eccezione di NVB) ed è quella, ufficiale per la liturgia, della Conferenza Episcopale Italiana (anche nella BG in italiano). Prima di affrontare la lettura di questi libri è necessario conoscere almeno l’essenziale dei risultati conseguiti in anni di studi critici sulla storia della formazione del Pentateuco. Le ricerche iniziarono alla fine del 1600 e sono tuttora in corso. L’avvio fu determinato dall’obiettiva necessità di rispondere a difficoltà e problemi che il testo di questi libri presenta. Ci sono, ad esempio, molti doppioni (la cacciata di Agar e Ismaele è narrata due volte; tre volte — due per Abramo e una per Isacco — si parla di una moglie presentata come sorella) e molte incongruenze o diversità (il Sinai è chiamato anche Oreb, il suocero di Mosè ha tre nomi diversi, ecc.). Lo stile è diverso da narrazione a narrazione e le leggi contengono spesso norme divergenti a riguardo del medesimo oggetto. Fin dall’inizio degli studi l’ipotesi più sensata parve quella di fonti diverse, nate e trasmesse in epoche e ambienti diversi, le quali, a un certo punto, furono raccolte insieme da redattori che compilarono i libri che oggi possediamo. Gli studiosi si concentrarono nella ricerca di queste fonti, per stabilire quante e quali fossero, in quale epoca e ambiente si fossero formate, quali evoluzioni, aggiunte, modifiche avessero subito e, infine, con quali criteri fossero state conglobate negli insiemi attuali. Le ipotesi furono moltissime e con moltissime varianti. La più celebre di queste è la classica ipotesi delle quattro fonti, basata sugli studi del tedesco J. Wellhausen (1844 — 1918). Secondo questa ipotesi il Pentateuco attuale risulta dalla fusione o compenetrazione, operata da un redattore, di quattro fonti. Nomi, sigle, luogo ed epoca di origine finirono per assestarsi secondo questo schema: J (Y) Yahvista Regno del Sud sec. X-IX E Elohista Regno del Nord sec. VIII D Deuteronomica Regno del Sud sec. VII P Sacerdotale (P da Priester Codex) Esilio sec. VI-V Nei primi cinquant’anni di questo secolo il consenso su questa ipotesi andò crescendo. Una volta individuati i brani appartenenti a una singola fonte, si studiavano di seguito e si cercava di mostrare quali linee di pensiero ne avevano guidato la composizione e si elencavano, per ciascuna fonte, non solo le caratteristiche dello stile, ma soprattutto le idee teologiche. 2. GLI ORIENTAMENTI ATTUALI Oggi la teoria è in gran parte ridimensionata. Mentre, fino agli anni 50 — 60 del nostro secolo l’interesse principale degli studiosi era la ricostruzione delle quattro fonti, intese come vere opere letterarie (oggi diremmo come “libri”), negli anni successivi si approfondì un diverso metodo di studio, che indaga sull’origine dei singoli testi nella tradizione orale, cercando di ricostruire la

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 8 di 38

funzione e il senso che narrazioni, discorsi, raccolte di norme potevano avere nella viva cultura e nel vissuto degli antichi Israeliti. E’ lo studio delle forme e dei generi letterari. Più recentemente si va diffondendo un terzo tipo di approccio, dopo quello delle fonti e dei generi letterari, non necessariamente alternativo ai due, ed è lo studio del senso che i brani assumono all’interno dell’attuale redazione postesilica del Pentateuco. È una via ritenuta più convincente soprattutto se si fa leva sul valore normativo per la fede del testo biblico. Si osserva che il testo “ispirato” e canonico è quello ultimo a noi giunto e che il messaggio teologico deve essere ricavato da questa attuale configurazione dei libri. Eventuali livelli anteriori di significanza o precedenti funzioni o finalità di singoli brani in contesti vitali preredazionali possono contribuire alla conoscenza della storia della fede di Israele, ma solo indirettamente alla enucleazione del messaggio teologico. A questa valutazione di tipo teologico si può affiancare l’odierna rivalutazione, nella critica letteraria, dello studio sullo stile, la lingua, le tecniche compositive, il vocabolario, le immagini, i simboli. Non è solo la storia della formazione di un testo che può farlo comprendere, ma anche o soprattutto l’analisi della tessitura compositiva, anche nel caso si sia prodotta per successivi interventi redazionali. Tuttavia, siccome questi interventi ci sono stati e sono durati per secoli, è utile avere un’idea di come possono essere andate le cose. Allo stato attuale degli studi la storia della formazione del Pentateuco si può riassumere in queste tappe. 1. Fin dai tempi antichissimi (già alla fine del secondo millennio) i clan che entreranno a far parte del popolo di Israele custodiscono e trasmettono narrazioni sui loro antenati e su vicende significative della loro storia. Spiegano con questi racconti le ragioni dei loro usi e costumi. Il fine di queste memorie è soprattutto eziologico (spiegano il perché e l’origine della prassi e dell’identità del clan). 2. Nell’epoca dell’insediamento nella terra (al tempo di Giosuè e dei Giudici) clan e tribù diverse si uniscono fino a prendere coscienza di essere un popolo unito.In quest’epoca le diverse tradizioni dei clan si fondono, si ampliano e gradualmente si costituiscono piccoli cicli di tradizioni che tutti (o quasi) i clan considerano ora patrimonio della loro tradizione. 3. Durante l’epoca monarchica, forse già al tempo di Salomone, più probabilmente nel periodo che va da Ezechia all’esilio, nascono, in ambienti diversi, raccolte scritte di antichi cicli di tradizione. E oggi imprudente essere sicuri che una di queste raccolte avesse l’ampiezza e la struttura che un tempo si assegnava allo Jahvista e che un’altra corrispondesse all’Elohista, ma sembra certo che molti testi del gruppo jahvista e di quello elohista risalgono, come stesura scritta, all’epoca monarchica. È difficile dire se già in quest’epoca esistessero testi scritti di tipo sacerdotale (P). 4. Verso la fine dell’epoca monarchica nasce il Deuteronomio, di cui si parlerà a suo tempo. 5. Durante l’esilio, i sacerdoti del tempio, esiliati, compongono gran parte dei testi P e, nel corso del secolo VI e agli inizi del V, inseriscono nel loro inquadramento storico-legislativo (di cui si darà uno schema più avanti) tutti gli scritti e le tradizioni preesistenti. Al tempo di Esdra (inizi del IV sec.) il Pentateuco è completato ed è uguale a quello che oggi possediamo. 3. DIVERSI TIPI Dl TESTI NEL PENTATEUCO La conoscenza dell’ipotesi delle quattro fonti, nonostante tutto, rimane indispensabile anche perché le edizioni, anche recenti, della Bibbia continuano a classificare i testi, nelle introduzioni e nelle note, usando le classiche denominazioni e sigle, che anche noi continuiamo a usare. Questa ripartizione è ancora valida e utile, anche se oggi gli studiosi non sono più così sicuri né sulla consistenza effettiva di queste fonti né sulle date di origine di ciascuna di esse. Infatti rimane vero che all’interno dei libri del Pentateuco esistono brani che sono accomunati tra di loro per molte caratteristiche, a differenza di altri: esistono cioè testi che, almeno per comodità, possiamo ancora classificare rispettivamente come jahvisti, elohisti, sacerdotali, deuteronomici. È utile riassumere brevemente i caratteri tipici dei diversi generi di testi e lo faremo usando spesso, per brevità, le tradizionali sigle J, E, P e D.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 9 di 38

3.1 I testi jahvisti Quando un testo viene indicato come J, nella nota di una Bibbia moderna, vuol dire che appartiene a quel tipo di brani che hanno una o più delle particolarità seguenti. • Il nome di Dio è YHWH (Yahveh, generalmente tradotto con Signore nelle nostre Bibbie) anche prima della sua rivelazione in Es 3. L’uso è fatto risalire da J a Enos, figlio di Set, figlio di Adamo (Gen 4,26) quindi agli inizi della storia. Dopo Es 3 anche altre tradizioni usano il nome YHWH. • Il monte di Dio è chiamato Sinai (nei testi E e D: Oreb). • I popoli che abitano la Palestina prima degli Ebrei sono Cananei (nei testi E: Amorrei). • Il suocero di Mosè è Reuel (E: Tetro). • Le narrazioni sono ben localizzate, inserite in uno schema storico globale, con particolare attenzione alla vivacità aneddotica delle scene. • Si trovano tipiche espressioni antropomorfiche (Dio fabbrica per Adamo ed Eva tuniche di pelle e chiude la porta dell’arca) descri14 vendo così Dio benevolmente vicino all’uomo, mentre E inserisce mediazioni come l’angelo e il sogno: caso tipico il confronto tra Gen 16 (J) e Gen 20 (E). • Si descrive la psicologia umana, soprattutto quella femminile. • I testi di tipo jahvista sono permeati di ottimismo religioso, fondato sulla conoscenza di YHWH, dei suoi disegni, e della sua potenza. • Il Dio dei testi j è trascendente ma più ancora è vicino all’uomo, gli parla, prende i pasti con lui. La sua legge è un imperativo che si indirizza direttamente, in materia autoritaria, alla coscienza dell’uomo, ma si fonda prevalentemente su precetti cultuali (infatti il decalogo J che si trova in Es 34 è cultuale). 3.2 I testi elohisti Il materiale elohista è scarso (nessuna traccia prima di Abramo, per cui il primo brano E di sufficiente ampiezza sarebbe in Gen 20 il sacrificio di Isacco), tanto da far pensare, più che a un vero e proprio documento, a un complesso di tradizioni che sarebbero state ben presto fuse con J (forse al tempo di Ezechia). A E si attribuisce il Decalogo e l’inserimento al Sinai del codice dell’alleanza. Possiamo riassumere brevemente l’esposizione classica dei caratteri formali, stilistici e teologici di E. Il nome YHWH non è usato prima di Es 3. I racconti E non hanno la vivacità e il vigore drammatico di J; sono più semplici, scorrevoli, qualche volta più teneri (Agar!) con presenza di arcaismi. E è interessato a località e a personaggi del Nord. Tipica è la sua profondità morale, il senso del peccato, della trascendenza di Dio. Il suo decalogo è morale, non cultuale (al nord mancava la ideologia del tempio e del suo culto). La mediazione salvifica principale non è il re, né il tempio né la terra, ma la fedeltà al volere di Dio, come affermano i profeti. E veramente probabile che i pochi testi di tipo Elohista vengano dal Nord e risalgano a non prima del sec. VIII. 3.3. I testi sacerdotali Lo schema P costituisce l’intelaiatura in cui tutto il restante materiale del Pentateuco è ora inquadrato (si pensi al valore strutturante delle genealogie e della cronologia P) per cui rendersi conto della linea espositiva di P equivale a percepire la struttura portante dell’intero Pentateuco. Il filone P è facilmente individuabile anche in una traduzione per il suo stile solenne e freddo, le genealogie, le cronologie, l’interesse per il rituale e la legislazione. A P appartengono testi narrativi e un insieme molto più esteso di testi legislativi. Gli uni e gli altri hanno un’unità di vocabolario, di stile e di idee. La caratteristica di P consiste proprio in questa unità tra le parti narrative e quelle legislative. Anche all’interno dei testi P si notano, però, numerosi doppioni e incongruenze. Un piccolo ma significativo esempio può essere la differenza di età per l’inizio del servizio dei lieviti: 30 anni secondo Num 4,23; 25 anni secondo Num 8,23.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 10 di 38

Molti sono stati i tentativi di distinguere i vari strati che compongono l’insieme di P e di ricostruire la storia delle successive aggregazioni di materiale. Le opinioni sono spesso divergenti e non interessano direttamente il nostro studio. 3.3.1 La linea storica di “P” È invece interessante seguire la linea storica che i testi P impongono a tutto il contenuto del Pentateuco, conglobando in essa i più antichi testi di tipo jahvista ed elohista. 1. Gli inizi della storia • Nel mondo creato da Dio in sei giorni, l’uomo, fatto a immagine di Dio, è chiamato ad operare e moltiplicarsi. Il giorno settimo è il giorno di Dio. • Si enuncia la teologia del sabato (Gen 1, 1-2, 4a). • La genealogia dei dieci discendenti di Adamo rivela, nella cifra simbolica degli anni, prossima ma inferiore a mille, la distanza tra il tempo primordiale e la storia successiva (Gen 5,1-28.30-32). 2. La prima alleanza • Il diluvio consegue alla decadenza morale dell’umanità. È catastrofe cosmica, a cui segue un rinnovamento della creazione. • A Noè viene offerta la prima alleanza. Con la concessione della carne e la proibizione di nutrirsi di sangue, si enuncia la teologia delle norme alimentari (Gen 6-9 ove i versetti sono intrecciati con il testo J). • La genealogia dei discendenti di Noè presenta il quadro dei popoli della storia mondiale sparsi nel mondo (Gen 10, misto con J; 11, 10- 26). 3. La seconda alleanza • Nella storia di Abramo, all’interno di una sequenza di fatti brevemente enunciati emergono due grandi racconti: - l’alleanza con il segno della circoncisione (Gen 17) - l’acquisto della grotta di Macpela per la sepoltura di Sara, segno giuridico del futuro diritto alla terra (Gen 23). I due racconti sono espressione narrativa della duplice promessa: della discendenza e della terra • Da Isacco al soggiorno in Egitto la sequenza dei fatti procede per brevissime enunciazioni. Emerge soltanto l’apparizione di Betel (Gen 35,6.9-13.15) in cui viene ribadita la duplice promessa. Tutte le altre storie su Abramo, Isacco e Giacobbe sono costituite da testi jahvisti o elohisti, o da tradizioni isolate che non rientrano nelle due tipologie J ed E. 4 . Dall’Egitto al Sinai verso la terra I racconti si fanno in genere più estesi. • Dio si rivela a Mosè in Egitto (Es 6,2-12+7,1-6). Aronne con il suo bastone è affiancato a Mosè già nelle piaghe. Dopo la Pasqua il passaggio del mare avviene come una solenne processione tra le acque. • La manna (Es 16) è il cibo che permette di raggiungere il Sinai. Qui Mosè riceve le istruzioni per la costruzione del santuario e appare la gloria del Signore. Al Sinai fu collegato il complesso legislativo contenuto in Lev 17-26 che l’esegesi denomina Codice di Santità. Il Sinai però non è chiamato alleanza. • Il popolo è costituito e si compie un primo censimento (Num 1-4). Dio lo ha preparato per l’ingresso nella terra ma il popolo teme di entrarvi per paura dei suoi abitanti: è il suo grande peccato (Num 14,1-a);anche i leviti si ribellano (Num 16,2-7a 16-24.35; 17,6-15); infine Mosè stesso e Aronne peccano di infedeltà (Num 20,1-12,22-29). • Solo la nuova generazione purificata potrà entrare nella terra, dopo un secondo censimento (Num 26,1-56). Mosè potrà solo contemplare la terra dal monte Nebo senza entrarvi, prima della sua morte (Num 27,12-23). Forse la storia P aveva la sua conclusione in frammenti ora incorporati nel libro di Giosuè (14,1; 18,1; 19,51a; 22,9-34).

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 11 di 38

Appartengono all’ambiente sacerdotale P anche tutte le altre leggi ora raccolte nel libro del Levitico e in quello dei Numeri. 3.3.2 Contenuto teologico dei testi “P” La narrazione è scandita da genealogie e notazioni cronologiche. Al di là del concreto e dell’episodico P sembra andare alla ricerca del senso essenziale della storia. La storia umana procede dall’atto creatore di Dio e, nonostante il peccato, la pace di Dio è offerta all’umanità intera anche dopo il diluvio. Vi è in P una forte apertura universalistica. La duplice promessa della posterità e della terra è alla base della chiamata di Abramo e della storia patriarcale. Al centro della storia sta la faticosa costituzione del popolo attraverso l’Esodo, il Sinai e il deserto. Qui l’offerta di Dio si scontra con la riluttanza colpevole del popolo, tanto che l’ingresso nella terra è concesso solo a una generazione completamente nuova. Questa lontananza della terra, che è luogo verso cui si va più che luogo in cui si dimora - e, nel caso vi si dimori, ciò e solo come stranieri residenti alla maniera dei patriarchi e dei leviti - sembra riflettere la situazione del popolo in esilio, consapevole di non essere stato in grado di godere stabilmente del dono della terra. La centralità per P del tema della terra è difesa da molti studiosi. La speranza del reingresso rimane costante. Ma la grazia di essere popolo di Dio può passare per altre vie: il sabato, le norme alimentari, la circoncisione, osservanze che si radicano ancor più profondamente nel disegno divino per la loro antichissima istituzione e che sono praticabili ovunque, anche nella diaspora. La garanzia primaria rimane però la presenza del Signore, talvolta ritenuta costante, tal altra saltuaria, nella tenda dell’incontro. Dell’incontro, dopo Mosè e Aronne, sono mediatori i sacerdoti. La figura del re è assente dallo schema di P. Gli elementi costitutivi dell’appartenenza a Dio sono i legami genealogici, la comune tradizione, un sacerdozio autentico, la fedeltà alla Legge e, al di sopra di tutto, la benevola presenza di Dio. La terra rimane sullo sfondo come aspirazione di completezza. Si può essere di Dio anche al di fuori di essa perché tutto il mondo vive nel suo grande sabato, tutti gli uomini sono sotto la benedizione dell’arcobaleno e i figli di Abramo portano ovunque la testimonianza della loro fede nel segno personale della circoncisione. Altri testi P hanno soprattutto di mira la purificazione dal peccato (si pensi a Lev 16) e dall’impurità, entrambi considerati soprattutto a livello oggettivo come condizioni poste o subite; analoghe a un male da cui si viene colpiti, e da cui è necessario lavarsi per rientrare nella piena appartenenza alla compagine sociale e godere di una sana relazione con Dio. *** Il Pentateuco può essere paragonato a una delle tante chiese romaniche o gotiche trasformate in epoca barocca, un po’ come l’attuale interno di 5. Agostino a Cremona. L’impianto generale seicentesco corrisponde a P, ma sui muri, agli altari, in qualche nicchia, c’è una quantità di materiale più antico: jahvista, elohista e di altro tipo ancora. Per studiare bene il Pentateuco occorre andare avanti e indietro tra epoca ed epoca, senza mai dimenticare uno sguardo finale all’effetto complessivo dell’insieme.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 12 di 38

Capitolo 3 Guida alla lettura del Pentateuco 1. GENESI 1.1 I miti delle origini I capitoli iniziali della Genesi sono tra i più frequentemente commentati e per questo in parte già noti allo studente. Possiamo perciò procedere in forma sintetica. In questa sezione i testi sacerdotali sono ben più che una cornice. Comprendono 1,1-2,4a: la creazione; 5,1-32 (tranne il v.29): le genealogie antidiluviane; 6-9: il diluvio, intrecciato con il parallelo testo di J; 10,1-7. 20. 22-23. 31-32. + 11,10-27: le genealogie postdiluviane. 1.1.1 La creazione secondo P - 1, 1-2,4a Il lettore dovrà in primo luogo rendersi conto dei caratteri stilistici del testo: andamento strofico, ripetizione di formule fisse, introduzione per gli animali e l’uomo del tema della benedizione, ampliamenti per la creazione dell’uomo. Il testo si rivela frutto di composizione accurata e studiata, volutamente ritmica. E un’esposizione teologica, laudativa, quasi innica dell’azione divina. Non ha finalità informative: un confronto alla pari con enunciati scientifici è escluso in partenza (se ciò è avvertito si deve ad una valutazione irrispettosa delle finalità teologiche del brano). I contenuti teologici vengono alla luce a partire dalla struttura letteraria del testo. Seguendo la cosmologia allora adottata, il testo rivela che tutto il mondo, soprattutto la sua completezza (si noti la classificazione dei vegetali) e il suo ordine, sono opera di Dio: la totalità nell’ordine è il frutto della parola e dell’agire dell’unico Dio che opera senza concorrenti o avversari (come invece in altre mitologie). Dio è unico (sono evitati i nomi sole e luna che erano anche nomi di divinità) e il mondo è solo mondo, senza alcunché di demoniaco e di divino. Dio lo ha creato in un’immaginaria settimana, con la rapidità di un abile artigiano. Tutto è al suo posto, nella pace: il testo che apre la rivelazione biblica è sommamente rassicurante. È difficile determinare l’esatta portata dell’immagine di Dio attribuita a tutto l’uomo (non solo ad una sua parte) nella sua realtà di maschio e femmina: probabilmente l’uomo è trattato da Dio come sua immagine sia perché responsabile del mondo sia perché chiamato ad essere suo interlocutore. Velatamente il settimo giorno, che Dio riserva a sé, preannuncia il sabato in cui l’uomo, dal mondo, si rapporta al suo Dio. Il chiaro monoteismo, la sdemonizzazione del mondo, la visione cosmico universalista, l’accenno al sabato coincidono con la situazione culturale dell’epoca esilica. 1.1.2 lI giardino, l’uomo, il serpente - 2,4b-3,24 Questo brano sarebbe l’inizio della tradizione J e lo si designa solitamente come il racconto jahvista della creazione. Non ha le prospettive cosmiche del precedente, ma un orizzonte più terreno, interessato alla figura dell’uomo come agricoltore. L’interpretazione deve passare attraverso il riconoscimento di molteplici simbologie. Alcune sono chiare (vitalità e nutrimento per gli alberi, fecondità e civiltà per i fiumi); altre più complesse come l’albero della conoscenza del bene e del male e il serpente. A livello introduttivo è soprattutto interessante ricordare la stretta relazione tra una possibile esegesi di questo passo e la più generale ipotesi sull’origine in epoca salomonica della tradizione J. La relazione di questo testo con la cultura salomonica facilita l’identificazione del serpente con tin simbolo dei culti cananei della fecondità e/o con la sapienza idolatrica egiziana. In questo caso l’autore avrebbe presentato come colpa primordiale proprio quella che poteva verificarsi al suo tempo accordando fiducia a culti e pratiche a cui Salomone (a causa delle mogli straniere!) non aveva opposto sufficiente resistenza. Nel seme della donna, vincitore del serpente, si poteva così vedere la promessa di un re ideale fedele a Dio e l’inizio di una concezione messianica. Parimenti si

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 13 di 38

attribuiva all’umanesimo salomonico l’attenzione al valore della donna e alla sua psicologia. Tale interpretazione non ha perso la stia suggestione anche se è meno diffusa oggi di qualche tempo fa. Il testo J s’inserisce ora armonicamente dopo quello P, come se fosse una ripresa nei dettagli della enunciata creazione dell’uomo come immagine, e completa il testo P con il tema della trasgressione e della cacciata, che introduce per la prima volta la dimensione del male come avente origine esclusivamente dall’uomo. Dio né è giudice, ma manifesta subito una volontà salvifica, per cui fin dalle origini si apre la prospettiva di una storia di salvezza, nella quale può positivamente rientrare come benefico anche il castigo. 1.1.3 Caino e la sua discendenza - 4, 1-26 Almeno due tradizioni indipendenti (quella dell’omicidio di Abele e quella sull’origine delle arti e mestieri) sarebbero state unificate dallo J per rivelare, nella sua originaria trama compositiva, l’estendersi del male da ribellione a Dio a inimicizia immotivata verso il fratello e per mostrare l’intrinseca contraddizione del progresso della civiltà, in quanto originantesi dai discendenti di Caino fino a sfociare nella iperbolica volontà di violenza di Lamec (4, 23-24). Questo è indubbiamente il senso teologico del capitolo nella sua collocazione redazionale. A livello di antiche tradizioni orali, però, sia la storia di Caino e Abele sia quella dei discendenti devono aver avuto diverse finalità. La prima forse spiegava usi e costumi dei Keniti e giustificava la loro amicizia con gli Ebrei. La ricerca di questi primitivi scopi eziologici di testi ora arricchiti di diverso senso teologico può essere un esempio del tipo di risultati a ctu può condurre lo studio dei generi letterari cui si accennava nel capitolo precedente. 1.1.4 La genealogia antidiluviana - 5, 1-32 È un testo P (da cui solitamente si esclude il solo detto sulla nascita di Noè al 29 che sembra alludere al racconto J di Gen 3). Il genere letterario delle genealogie per coprire epoche storiche prive di concrete memorie era in uso in tutta l’antichità. Le cifre delle età, differenti nei diversi canali della trasmissione testuale: ebraico, samaritano e greco, hanno probabilmente un valore convenzionale. Da un lato presentano come più elevata agli inizi la potenza vitale dell’umanità; dall’altra permettono di separare Adamo e i primi suoi discendenti dalla generazione peccatrice che sarà distrutta dal diluvio (è interessante calcolare quali personaggi sono supposti ancora viventi al tempo del diluvio). 1.1.5 Il diluvio - 6-9 I primi 4 versetti del cap. 6 (tipico esempio di attribuzione a J di un testo autonomo per forma e contenuti) contengono riferimenti ad antichi miti e leggende e sono di discussa interpretazione. Redazionalmente sono posti qui per annunciare la caduta dell’umanità in una condizione di progressivo distacco da Dio. Da 6,5 a 9,27 si hanno due relazioni tra loro intrecciate del diluvio, una P e l’altra J. Il brano si presta per un classico esercizio di ripartizione dei versetti tra le due tradizioni, possibile anche per chi lavori su un testo tradotto. Lo studente dovrà fare questo esercizio, seguendo le chiare indicazioni che sono date in BG nella nota introduttiva alla sezione. Potrà cosi rendersi conto del diverso quadro che J e P danno del peccato, del diluvio e della sua conclusione. J parla di una pioggia di quaranta giorni, P di un evento cosmico durato oltre un anno per lo sconvolgimento dell’ordine stesso della creazione, che scatena di nuovo il caos iniziale facendo irrompere le acque dall’abisso e da sopra il firmamento. Coerentemente in P la fine del diluvio ha i caratteri di una nuova creazione e sono evidenti i parallelismi tra Gen 9 e Gen i sui temi della vita e del nutrimento. Presentando P si è già accennato al valore del tema dell’alleanza. Le storie delle benedizioni dei figli di Noè alla fine dei cap. 9 sono un’eziologia (spiegazione della causa) della situazione dei popoli nei confronti di Israele in antica epoca monarchica. E un classico esempio dell’uso eziologico delle benedizioni e dei collegamenti genealogici per rendere ragione di situazioni socio-politiche posteriori.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 14 di 38

1.1.6 La tavola dei popoli - 10-11 (tranne 11, 1-9) Analoga funzione hanno le genealogie del cap. 10 e della seconda parte del cap. 11. Il cap. io è stato chiamato la prima carta geografica del mondo biblico. La finalità primaria del testo è spiegare le complesse relazioni tra i popoli e i loro insediamenti sulla base di antiche (e perciò normative) relazioni degli antenati. 1.1.7 La torre di Babele - 11,1-9 Questo passo J tratta più della dispersione dei popoli che dell’origine delle lingue. Presenta un’ulteriore forma del peccato umano (dopo la manducazione del frutto, Caino e gli antecedenti del diluvio) che consiste nell’aspirazione a un potere universale mediante l’appropriazione del divino. Come nella cacciata dal giardino la dispersione operata da Dio è sì un castigo, ma è anche l’unica garanzia di una possibile continuazione della vita umana. La rovina dell’uomo nasce sempre - già secondo l’antica visione di J - dalla sua prevaricazione nei confronti del comando divino e la sua salvezza consiste nell’intervento di Dio che fissa di nuovo all’uomo il suo limite. La sua grandezza, infatti, è salvaguardata solo dall’ubbidienza e, dopo la trasgressione, dai limiti anche dolorosi che Dio instaura. Il messaggio fondamentale di questi capitoli consiste proprio nell’enunciazione di questo contrasto tra l’errore, continuamente possibile all’uomo, di autoesaltarsi, e il benevolo intervento limitante di Dio. Il carattere primordiale e mitico delle narrazioni dà a questa diagnosi dell’esistenza umana un valore universale nel tempo e nello spazio. Il dramma dell’uomo di sempre è retrodatato agli inizi e presentato così nella sua verità eterna. In questo senso il contenuto di questi capitoli è assolutamente vero e, se si vuole, storico, non però nel senso di una verificabilità dei fatti storiografica in senso metodologico. 1.1.8 Il problema del rapporto con i dati scientifici I testi di Gen 1-11 sono eziologie religiose che si servono, come mezzo espressivo, del simbolo e del mito (espressione questa legittima, a condizione che per mito si intenda semplicemente un’amplificazione e concatenazione di simboli fino a formare una sequenza narrativa). Sono eziologie in quanto vogliono spiegare, alla luce della fede, le ragioni dell’attuale situazione dell’uomo nel mondo al cospetto di Dio: la sua grandezza e fragilità, la sua resistenza al comandamento, la sua aspirazione a oltrepassare il limite, a rischio di cadere nella miseria proprio a causa di tentativi di autoesaltazione. Antichi complessi mitico-sapienziali, in gran parte diffusi in forme varianti nell’oriente soprattutto mesopotamico, sono stati riformulati, in coerenza con la fede di Israele, per fornire una possibilità di comprendere la situazione storica dell’uomo alla luce della promessa salvifica del Dio d’Israele. Questo messaggio centrale si colloca su un piano diverso rispetto al discorso scientifico e, in forma diretta, non può essere in conflitto con esso. Anche le modalità dell’origine rispettivamente del mondo, dell’uomo, del male, sono rievocate non per intenti di conoscenza oggettiva, ma al fine di scoprire il senso ultimo della realtà. La convinzione che questo senso era rintracciabile risalendo ai primordi (ma la Bibbia valorizza ugualmente il riferimento alla meta finale) era comune a tutta l’antichità. Per questo, cioè per capire più che per sapere, si espongono immagini dell’origine. Può anche darsi che gli autori ritenessero le immagini usate più o meno corrispondenti allo svolgersi dei fatti - cioè è da dimostrarsi caso per caso e, ad esempio, la doppia modalità del diluvio attesta il contrario - ma non è per questa coincidenza che tali testi ebbero ed hanno valore. 1.2 I patriarchi - Gen 12-36+ 38 Un’osservazione preliminare potrà orientare il metodo di lettura. Gran parte dei testi che lo studente incontrerà devono aver avuto una lunga preistoria prima di essere raccolti in cicli e assumere a poco a poco l’attuale posizione redazionale. Nella loro situazione vitale primitiva molti di essi avevano funzione e carattere eziologici: erano cioè finalizzati a spiegare l’origine di gruppi etnici, relazioni ostili o amichevoli tra loro, usi e costumi, diritti di possesso o di uso di terreni o

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 15 di 38

pozzi, legittimità e valore di luoghi di culto, ecc. Queste antiche finalità eziologiche traspaiono ancora dal tenore delle singole sezioni e il lettore deve cogliere questa dimensione. La progressiva concatenazione narrativa li ha tutti trasformati in vicende premonitrici della vocazione e dell’identità di Israele già precontenute nella storia degli antenati. I temi della promessa, della benedizione, dell’elezione e separazione, della discendenza, della terra sono gli elementi che creano ora unità di senso e di indirizzo teologico-narrativo. La continua elevazione dei testi da eziologie particolari a grande eziologia unitaria della vocazione del popolo costituisce la struttura creativa unificante dell’intera storia. Coglierla nella lettura è il metodo migliore per percepire la bellezza e il messaggio di questi testi. Il problema della storicità non deve preoccupare troppo il lettore. Ciò che trasmette senso è la storia narrata nel suo intreccio, probabilmente inestricabile, di memoria storica e di creazione narrativa. 1.2.1 Abramo - 12-23 Lo studente farà una lettura continua dell’intera sezione e poi si soffermerà su alcuni punti particolari seguendo queste indicazioni: • verificare i caratteri di P in 17, 1-27 e 23, 1-20; • studiare le note di BG o NVB per 12, 1-9 e 15, 1-20; • confrontare 12, 10-20 con 20, 1-18 e quest’ultimo con il testo su cui forse è modellato di 26, 1-33; • confrontare 16, 1-16 con 21, 8-21 (E); • studiare le note di 22, 1-19; • verificare l’estraneità all’insieme del cap. 14. Questa analisi di alcuni testi abituerà lo studente a rendersi conto direttamente di alcuni problemi esegetici tipici di questi testi. Dopo queste ricerche particolari potrà riprendere ancora una volta il testo per cogliere gli elementi che, nell’attuale redazione, hanno maggior rilievo teologico. Ne elenchiamo alcuni cercando di seguire l’ordine della narrazione: • Il passaggio di Abramo nei santuari come atto di consacrazione della terra e legittimazione della loro assunzione nel culto israelitico; • Il tema dell’Egitto da cui Abramo è liberato e da cui esce arricchito (in vista dell’Esodo); • Il tema della separazione da Lot per l’identificazione del vero popolo di Dio e l’eziologia dell’origine dei Moabiti e Ammoniti (19, 30- 38); • La vanità dei tentativi umani di ottenere l’adempimento della promessa nella storia di Agar e l’eziologia dell’origine degli Ismaeliti; • La presentazione (forse tardiva) di Abramo come profeta al cap. 18 e il problema teologico della relazione alcuni-tutti nella storia della salvezza (“problema di tutti i tempi” - nota BG a 18, 24 - o dell’epoca esilica?); • Il tema della prova che si sovrappone a un testo forse finalizzato a giustificare l’inesistenza in Israele del sacrificio dei primogeniti (22). Lo studente potrà rintracciare altre tematiche. Potrà così rendersi conto come in questi brani, al di sopra di arcaiche funzioni eziologiche (già complesse), si accumulino applicazioni teologiche di grandissimo rilievo che riflettono sensibilità e problematiche di periodi posteriori, riguardanti l’elezione, la benedizione, il rapporto d’Israele con gli altri popoli, la natura della fede, della tentazione, dell’ubbidienza, ecc. Già questo basta a convincere come sia quasi impossibile rintracciare in questo accumulo di sensi un’immagine storica del mondo soprattutto interiore di un Abramo, uomo di Dio - come si suppone - nel II millennio. Ma, al di là di questo problema, ci si rende soprattutto conto di come questi testi abbiano fatto di Abramo il prototipo e il padre d’Israele e della sua complessa fede. È questo Abramo biblico, sovraccaricato dei problemi di coloro che si proclamano suoi discendenti, l’unica figura rilevante di cui si deve approfondire la conoscenza. 1.2.2 Isacco e Giacobbe - 24-36+ 38 Nell’economia del nostro piano di studi, se si è veramente approfondita secondo le indicazioni date la ricerca su Abramo, può essere condotta più rapidamente quella su Isacco e Giacobbe. Si può iniziare con una lettura continua dal capitolo 24 al 33. Tolti alcuni versetti P

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 16 di 38

(soprattutto al cap. 25 e all’inizio del 28) abbiamo le lunghe storie del messo inviato a trovare moglie per Isacco (24), della nascita dei due gemelli e della vendita della primogenitura (25, 19-34) della benedizione carpita a Isacco (27) e dei lunghi conflitti tra Giacobbe e Labano per avere mogli, salario e permesso di ritorno (28-31), per terminare con l’incontro con Esaù (32-33). Rispetto al ciclo di Abramo le storie si allungano in novelle di famiglia o di clan con al centro il protagonista, predestinato fin dalla nascita al successo ma costretto a conquistarselo con rischi e avventure, lottando con l’arma incruenta ma non inoffensiva dell’astuzia. La promessa di Dio è ancora presente, ma il racconto mette a tema esplicitamente la relazione di Giacobbe con Dio in due soli brani 28, 10-22 e l’ancor più oscuro 32, 23-33, per i quali lo studente dovrà consultare le note della sua Bibbia. Le tradizioni su Giacobbe, ora unificate mediante il tema della promessa e della discendenza, sono diverse da quelle su Abramo, soprattutto a livello antropologico, per la predominanza dei temi della lotta e dell’astuzia. Sono inoltre più interessate all’origine del sistema tribale interno di Israele; riguardo agli altri popoli spiegano solo la separazione dagli Edomiti discendenti da Esaù. Nella prospettiva redazionale la storia di Giacobbe, trasformando la sua fuga in un racconto sì di rischi, ma coronato dal massimo successo secondo le iniziali promesse, diviene un’epopea premonitrice della grandezza che Dio potrà dare a Israele al di là di ogni minaccia e perfino di ogni sua prevaricazione. Per completare la lettura continua si passerà al cap. 34 (uno dei tipici testi che si davano a J per risulta) interessante perché il tentativo, contrastato da Simeone e Levi, di un’alleanza con i Sichemiti tradisce l’esistenza di antichi contatti con gruppi cananei (una designazione per altro anacronistica in epoca patriarcale) che fornisce indizi per una ricostruzione delle reali modalità dell’inserimento degli Israeliti in Canaan. Al cap.35 è interessante il testo P sull’esperienza religiosa di Giacobbe a Betel. Il 36 è una serie di genealogie P di carattere redazionale. Infine il cap. 38, che stranamente interrompe la storia di Giuseppe iniziata al 37, è, per certi aspetti, analogo al 34: ricorda contatti di Giuda con l’ambiente cananeo e cerca di spiegare la natura particolare di questa tribù rispetto agli altri figli di Giacobbe. Si trova qui l’Onan da cui è venuta la designazione morale del peccato di onanismo. L’interpretazione dell’episodio è molto discussa, ma è certo che il redattore ha valutato positivamente l’operato di Tamar (nominata in Mt nella genealogia di Gesù) per il suo interesse alla discendenza. 1.2.3 La storia di Giuseppe - 37-50 Questa storia, letterariamente assai ben costruita, ha un carattere unitario e distinto dal resto di Genesi. L’attribuzione a J ed E (a seconda, ad esempio, che sia Ruben o Giuda il difensore di Giuseppe) è sempre stata fragilissima, anche perché il nome YHVH si trova solo nel cap. 39 e oggi si propende per l’indipendenza di questi capitoli. C’è chi ha pensato di poter dimostrare l’antichità del testo sulla base di dati sulla vita in Egitto la cui conoscenza sarebbe stata possibile solo in epoca vicina ai fatti. La tesi non ha convinto. In genere si afferma che la storia è ricca di motivi sapienziali (come quello del giusto che alla fine trionfa). Forse però, più che la conferma della dottrina dei sapienti, questa storia vuol mettere in luce l’azione di Dio che porta il suo eletto al trionfo attraverso la tribolazione. Vuole anche ricordare al popolo che l’interna fraternità non può nascere solo da vincoli genealogici, ma deve essere ricostruita attraverso il pentimento per i tradimenti commessi e la libera accettazione dell’altro come fratello. Sebbene gli antefatti dell’esodo non abbiano alcun legame necessario con questa storia, essa è stata collocata qui come transizione tra le memorie patriarcali e l’epopea dell’esodo. Lo studente, dopo la lettura continua dell’intera sezione, consulterà un commento o almeno le note di BG per il cap. 49 contenente le cosiddette benedizioni di Giacobbe per le future dodici tribù. 2. ESODO 2.1 Esodo 1-e: in Egitto

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 17 di 38

L’Esodo è la storia della rivelazione di Dio come liberatore d’Israele. Inizia con la descrizione, fatta con brevi aneddoti, dell’oppressione da parte del Faraone e del suo progetto di genocidio. La prodigiosa salvezza di Mosè nel cestello sui Nilo è un annuncio di speranza, ma la storia degli insuccessi del giovane Mosè nel tentativo di indurre gli Ebrei alla difesa dei loro diritti dimostra che solo Dio potrà essere il vero liberatore. Infatti, Dio si rivela a Mosè, che è fuggito dall’Egitto per timore del faraone e si è ridotto a fare il pastore di un sacerdote madianita, come l’unico vero liberatore. Dio scenderà a liberare gli Ebrei! A Mosè (cap.3) egli rivela il suo nome (che la tradizione jahvista considerava già in uso prima del diluvio). È il famoso tetragramma YHWH. I versetti 14 e 15 di Es 3 collegano questo nome ad una forma del verbo “essere” per dire non tanto che Dio “è”, ma che egli è presente e attivo per salvare, “c’è” quando il popolo oppresso lo invoca. In questi racconti sono presenti diversi motivi:

• Il motivo socio-politico: l’oppressione egiziana dettata da interessi nazionali giunge fino a un’ipotesi di genocidio. Il gruppo degli Ebrei subisce. Le levatrici si affidano al timore di Dio e i loro nomi sono ricordati come quelli di eroine popolari. Ma non c’è consapevolezza politica di reagire, anzi la paura spinge alla connivenza con il potere, tanto da indurre Mosè alla fuga. Dalla sua posizione privilegiata egli poteva concepire qualche idea di rivendicazione, ma senza possibilità di esiti positivi. Basta questo per dire - nonostante ciò possa dispiacere a molti che hanno propagandato letture cosiddette politiche dell’Esodo - che il testo non avalla alcuna progettazione di itinerari politici di liberazione, anche se è la storia del passaggio dalla schiavitù egiziana al servizio di Dio (abodah in entrambi i casi in ebraico).

• • Il motivo taumaturgico: è presente nel racconto della nascita di Mosè e nel tema dei segni. Ad esso si può accostare il motivo del successo provvidenziale e della fortuna (ad esempio per il matrimonio di Mosè). Attesta la presenza protettiva di Dio che guida gli eventi.

• • Il motivo dell’incredulità. È presente più volte, più in riferimento agli Israeliti che al Faraone e sarà ampiamente sviluppato in seguito. Rivela che la liberazione sarà opera soltanto di Dio ed esige un’accoglienza di fede.

• • Il motivo della rivelazione. È quello centrale. Ci sarà l’esodo dal l’Egitto perché Dio ha udito il lamento e sarà “Colui che è”, il “Signore” per il suo popolo, soprattutto attraverso la mediazione primaria di Mosè, dalla quale non deve essere disgiunta (come ribadisce una riflessione forse posteriore) quella di Aronne, il padre dei sacerdoti.

In conclusione la storia dell’Esodo si annuncia come essenzialmente religiosa, li testo sacerdotale del cap. 6 che conclude la parte esaminata, con la sua concentrazione sulle sovrane dichiarazioni di Dio a Mosè, unifica la narrazione, ai di là dei suo livello spesso episodico, attorno ai suo centro teologico: l’io del Signore che domina la storia (6,2.6.29). 2.2 Es 7-15: i dieci prodigi e l’esodo dall’Egitto Il primo blocco narrativo che incontriamo nella nostra sezione è quello delle “piaghe”, come sono tradizionalmente indicati i segni e prodigi che Dio compie con il duplice scopo di vincere l’Egitto e di rafforzare a fede degli Israeliti. Di questi prodigi si parla poeticamente anche in Sai 78,43-51 e 105,27-36: l’elenco dei mali non è in tutto identico ma presenta una struttura molto simile a quella dell’Esodo. Nel caso delle piaghe riteniamo utile, più che l’analisi distinta delle singole pericopi e delle differenze tra le possibili fonti, l’esame del testo nella sua forma attuale. Il lavoro redazionale ha prodotto, infatti, in questo caso un blocco unitario in cui domina una specie di crescendo in diversi motivi della narrazione. • Il più evidente riguarda il progressivo deterioramento delle condizioni ambientali. Il Nilo rosso provoca una moria di pesci, di qui uno sviluppo sproporzionato prima delle rane e poi delle zanzare. L’invasione dei mosconi si collega alla moria dei bestiame e questa, a sua volta, può dar luogo a infezioni ulcerose. Infine grandine - l’unico fenomeno del tutto eccezionale per

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 18 di 38

l’Egitto - e cavallette producono una distruzione totale dei prodotti del suolo e del bestiame. L’ultima piaga colpirà direttamente gli uomini. L’Egitto è progressivamente annientato nella sua fecondità naturale. • Si riscontra un evidente crescendo nelle reazioni degli Egiziani. I loro maghi riescono a compiere anch’essi i primi due prodigi, non il terzo in cui riconoscono il dito di Dio (8,15) e al sesto sono colpiti dalle ulcere come tutti gli Egiziani. Il faraone, indifferente alla prima piaga, chiede la liberazione dalla seconda, ma alla fine rimane ostinato. Alla quarta concede la partenza temporanea per il sacrificio ma poi ritratta. Contemporaneamente le piaghe non colpiscono più i terreni abitati dagli Israeliti. Alla settima il faraone si dichiara colpevole e peccatore, ma poi si ricrede. All’ottava i suoi ministri si dissocia- no e il faraone permette la partenza ai soli uomini; dopo l’invasione di cavallette chiede perdono, ma ritratta di nuovo. Parallelamente vi è un crescendo nelle richieste degli Ebrei: da quella di assentarsi per un singolo servizio cultuale si passa alla richiesta della libertà completa per il servizio stabile del loro Dio. La serie delle prime nove piaghe si conclude con l’ultimo rifiuto del faraone che minaccia Mosè di morte se osasse ricomparire davanti a lui a cui Mosè replica: “Hai parlato bene; non vedrò più la tua faccia” (10,29). In genere gli esegeti osservano che, di conseguenza, la serie delle nove piaghe sfocia nella prospettiva della fuga degli Ebrei che avrebbe il suo seguito logico nel cap. 14. La storia della decima piaga si conclude invece con la cacciata degli Ebrei a cui dovrebbe seguire un ultimo pentimento del faraone e l’inseguimento. Questa tradizione serve più a spiegare il rito della Pasqua che non l’uscita dall’Egitto come tale. Si ritiene in genere che le due prospettive riflettano due diverse tradizioni non conciliabili. Si può osservare tuttavia che la redazione riesce ad armonizzarle ottenendo un ultimo crescendo: coloro che volevano ostacolare la fuga sono costretti a decretare l’espulsione per timore della potenza di Dio. Il cantico di Es 15 è probabilmente una composizione con un nucleo antico. Ma l’attuale allusione, al v. 17, non solo all’ingresso nella terra, ma al monte che il Signore ha preparato per sua sede, cioè al tempio di Gerusalemme, implica una datazione al periodo monarchico. Si noterà l’insistente raffigurazione di Dio come guerriero e l’immagine dell’esercito egiziano sommerso nel mare, senza alcuna menzione del passaggio degli Ebrei all’asciutto: una descrizione simile ma non identica, alla più antica delle due versioni dei cap. 14. Più importante è la luce che il cantico getta sull’interpretazione complessiva dei capitoli 1-15 dell’Esodo. La narrazione era iniziata con i temi dell’oppressione e del lamento. I capitoli 3-6, usando materiale di più tradizioni, avevano presentato Dio che ascolta il grido di lamento e proclama con oracolo indubitabile la decisione di salvezza. Dopo la vittoria sui nemici viene alla fine il ringraziamento. Tutta la vicenda è inquadrata nello schema supplica - annuncio di salvezza - ringraziamento, schema che in forme più sintetiche si trova in molti salmi di lamentazione e ringraziamento. L’intera narrazione è posta sotto il segno della lode riconoscente. L’esodo è grazia liberamente concessa da Dio al popolo oppresso che lamenta la sua miseria. Non è frutto di lotta umana o di rivendicazioni politiche, ma di Dio che gratuitamente libera. Ha come fine il riconoscimento della potenza di Dio, che si esprime liturgicamente nella lode e nella fondazione della Pasqua come memoriale del fatto. Il luogo ove collocare l’esodo è al di sopra del livello sociale e politico in cui talvolta esso è stato recentemente confinato. Per P, in particolare, l’Esodo è il punto di origine della Pasqua! Il Passaggio del mare è descritto da P come una marcia liturgica tra le acque che ricoprono l’esercito egiziano come le acque primordiali ricoprivano la terra prima che Dio la liberasse dal caos, mentre gli Ebrei camminano sulla terra, che è asciutta (l’aggettivo è lo stesso in ebraico) come la terra che emerse nella creazione dopo la separazione delle acque. Come nel diluvio P eleva l’evento a dimensioni cosmico-creative. 2.3 Es 16-18: verso il Sinai

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 19 di 38

L’ultima parte del cap. 15 (dopo il breve inno di Maria) contiene, all’inizio e alla fine (22a e 27), due annotazioni geografiche di tradizione sacerdotale e, al centro, una prima narrazione delle “prove” che il popolo incontra nel deserto: le acque di Mara sono amare e diventano dolci per mezzo di un legno che il Signore indica a Mosè. Quest’episodio è subito occasione per un’aggiunta che allude al dono della legge come sorgente del risanamento e della protezione della vita del popolo. Nel capitolo 16 compare il dono della manna e delle quaglie. Il testo - non facile - è orientativo per l’interpretazione di tutto l’itinerario del deserto: preannuncia, infatti, i temi della prova, della fede, del segno, della grazia divina e del dono della legge, che ritorneranno con differenti prospettive in molte altre sezioni. Unifica insieme i due doni della manna e delle quaglie. Il resoconto J della manna si leggerà solo in Num 11. Si osservi la tonalità cultuale della narrazione, la menzione del sabato, la regolarità dell’evento, l’esclusione di ogni affanno e ingordigia. P trasmette ancora una volta la sua visione rassicurante delle cose. Dopo un breve lamento, la traversata dei deserto si annuncia serena e regolare sotto la protezione divina. Il prossimo appuntamento con testi P è al Sinai, al cap. 24 (se si eccettuano le due notazioni geografiche di 17,la e 19,1-2a). Nei capitoli 17-18 leggiamo quattro episodi: • Dio fa scaturire l’acqua dalla roccia a Massa e Meriba. • Israele guidato da Giosuè deve combattere contro gli Amaleciti e vince finché le braccia di Mosè sono alzate in gesto di preghiera. • Mosè incontra il suocero Ietro e questi benedice il Signore e offre un sacrificio. • Per consiglio di Tetro Mosè istituisce capi per il popolo incaricati di dirimere le questioni di minore importanza. È difficile e incerto ricostruire la posizione che questi episodi possono aver avuto in precedenti stadi della redazione. Attualmente i primi due costituiscono una specie di dittico che vuoi mostrare che la benevola disposizione di Dio verso il popolo è condizionata alla supplica e alla mediazione di Mosè. Gli ultimi due presentano Mosè come colui che crea le premesse affinché la legge che verrà data al Sinai possa essere osservata. È interessante notare che l’episodio di Meriba avrà un suo doppione P in Num 20,1-13. Intanto il lettore ricordi l’episodio perché esso, collegato con i racconti di altre ribellioni, ci sarà utile alla fine per ricostruire una linea significativa. 2.4 Es 19-40: al Sinai I testi che dovranno essere letti per cogliere la sequenza narrativa sono i capitoli 19; 24; 32-34. Il cap. 19 appare contorto e pieno di ripetizioni (ad Es nei vv. 7-9) anche ad una lettura superficiale. Nella sequenza attuale si apre con una specie di annuncio dell’alleanza (vv. 3-8) a cui il popolo risponde con un’iniziale dichiarazione di ubbidienza. Segue la preparazione per la teofania: il popolo deve purificarsi in vista dell’incontro con Dio, ma nessuno può salire sul monte tranne Mosè (e Aronne). La teofania è descritta nel v. 16 come una bufera e nel v. 18 come un’eruzione vulcanica e un terremoto. Tuono e fuoco sono, rispettivamente, i segni dominanti della presenza di Dio. Tutto il capitolo tende a comunicare il senso della trascendenza, santità, inaccessibilità di Dio. La lettura del versetto finale del cap. 19 e di quello iniziale del 20: “Mosè scese verso il popolo e disse loro”“Dio allora pronunciò tutte queste parole” rivela chiaramente una frattura. Evidentemente il decalogo del cap. 20 è stato inserito qui spezzando il seguito della narrazione. Essa potrebbe forse continuare ai vv. 18-20 del cap. 20, che riprendono il tema della teofania e del timore del popolo: solo Mosè può avanzare “verso la nube nella quale era Dio”. La continuazione al v. 22 è collegata al versetto precedente meno bruscamente del decalogo, ma non elimina l’impressione che anche il cosiddetto Codice dell’Alleanza sia inserito redazionalmente allo scopo di collegarlo con il Sinai (si veda la nota a 20,22 della BG).

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 20 di 38

La narrazione prosegue al cap. 24 e presenta due modalità tra loro intrecciate di celebrazione della ricezione dell’alleanza. Una accenna ad un banchetto sacro a cui partecipano i settanta anziani (vv. 9-11) e l’altra più ampia (v. 3b-8) ricorda un rito con il sangue il quale sottolinea che l’impegno con Dio crea un legame vitale e non può essere trasgredito senza mettere in pericolo la vita. Il resto del cap. 24 (i vv. finali 15b-18 sono sacerdotali) parla della salita dei chiamati sul monte e il v. 12 accenna alla consegna delle tavole della legge. Ma, di nuovo, la legislazione che segue dal cap. 25 al 31, tutta di tradizione P, è collegata solo in modo redazionale con il Sinai. L’ultimo versetto del cap. 31 si richiama al cap. 24 (si veda la nota di BG). La narrazione prosegue al cap. 32 con il noto episodio del vitello d’oro (si legga la nota iniziale di BG). Molto più composito è il cap. 33 ove però si trova il densissimo testo dei vv. 18-23 ove è enunciata scenograficamente la trascendenza e l’invisibilità di Dio del quale Mosè può vedere solo le spalle. È forse di questo tipo l’originaria esperienza sinaitica, prima delle aggiunte redazionali? Criticamente è difficile documentarlo, ma è un’ipotesi suggestiva. Leggendo l’inizio del cap. 34 il lettore ha l’impressione di seguire un racconto coerente: verranno date tavole della legge come le prime. Ma, continuando la lettura, scoprirà che le leggi delle nuove tavole (34,10- 26) convergono sì - specialmente le prime - con l’impostazione monoteistica del decalogo del cap. 20 (che il redattore lasciava intendere fosse il testo delle prime tavole) ma sono nettamente diverse da quelle: si suole chiamarlo un decalogo cultuale e, nell’ipotesi delle quattro fonti, lo si assegnava allo Jahvista mentre si attribuiva all’elohista quello del cap. 20. Il percorso di lettura fin qui indicato ha lasciato fuori due grosse sezioni, cioè i capitoli da 25 a 31 e quelli da 35 a 40. Basta scorrere rapidamente questi testi per rendersi conto che le due sezioni sono praticamente uguali. Parlano del santuario portatile (la tenda del convegno o Dimora), dell’arca, degli altri arredi per il culto, dei sacerdoti e dei loro paramenti, della loro consacrazione e di tutti gli altri riti. Nella prima sezione, da 25 a 31, si prescrive come ogni cosa deve essere fatta, nei successivi capitoli da 35 a 40 si riferisce come tutto venne eseguito ripetendo le stesse parole, per assicurare che ogni ordine divino fu rispettato. In mezzo stanno i capitoli, che abbiamo già studiato, che raccontano del vitello d’oro e delle nuove tavole, quasi a dire che, fin quando non fosse stato costruito il santuario, il popolo, Aronne compreso, era in pericolo di perdere la fede e passare all’idolatria. Senza santuario, senza ubbidienza alle norme divine sul culto, senza legittima consacrazione, la fede e la stessa vita sono in pericolo. È la grande tesi teologica di P, che ora domina tutta la presentazione dell’Esodo. Tutto il bene che Dio ha fatto al popolo può essere perduto se non è custodito dalla fedeltà al culto e ai riti. La legislazione P, come già abbiamo detto, continua nel Levitico, libro di cui non intendiamo occuparci nei dettagli. Per comprendere il valore complessivo basta quel poco che è stato detto riassumendo le idee di P nel capitolo precedente. 3. NUMERI: DAL DESERTO ALLA TERRA Supponiamo che il lettore abbia la pazienza di leggere o, almeno, di sfogliare il libro dei Numeri e di fermarsi a riflettere stille sezioni narrative. Per aiutarlo a capirne il valore, le presentiamo raggruppate per tema. 3.1 Le ribellioni Costituiscono il tema narrativo dominante. Nella redazione attuale, come già abbiamo visto, due di esse sono brevemente narrate prima del Sinai in Es 15,22-26 e 17,1-7; la più grave, quella dei vitello d’oro dopo il Sinai in Es 32. Molto più numerosa è la serie contenuta nel Libro dei Numeri. Eccone un primo elenco: • 11,1-3: mormorazione - fuoco - liberazione per intercessione di Mosè;

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 21 di 38

• 11,4-35: mormorazione contro la manna - lamento di Mosè - promessa e dono delle quaglie - Dio colpisce il popolo con una piaga imprecisata; + 12,1-3: protesta della sorella Maria contro il matrimonio di Mosè con un’etiope; • 13-14: esplorazione della terra - paura e lamento - castigo e intercessione - decisione divina di escludere dall’ingresso tutta la generazione dell’esodo e di prolungare la peregrinazione per quarant’anni. La lunga narrazione di qtiesti due capitoli fonde insieme un resoconto P con una tradizione più antica; • 16 (passim): rivolta di Datan e Abiram - rinnegamento dell’Esodo: “Noi non verremo” (cf. 16,12-15); • 21,4-9: mormorazione - piaga dei serpenti velenosi - salvezza mediante il serpente di bronzo; • 25,1-5: peccato di idolatria con le donne moabite a Baal Peor. I racconti di queste ribellioni hanno spesso forma eziologica (servono a spiegare il nome di certe località) e potrebbero aver avuto una preistoria locale e indipendente, ma, redazionalmente collegate, formano ora un crescendo. Dal lamento per il cibo e dalla semplice nostalgia per l’Egitto si passa al rinnegamento dell’esodo, al progetto concreto di ritornarvi (Num 16,l2ss), al disprezzo dì Mosè e, infine all’idolatria. Anche i castighi divini sembrano farsi sempre più rigorosi, sino a quello simbolicamente decisivo dei serpenti velenosi, che potrebbe rievocare la tentazione originaria del serpente di Gen 3. Per farsi un’idea della tragicità con ctu ribellione e castigo sono messi in evidenza in questi racconti si potrà confrontare il racconto sulla manna e le quaglie in Num 11 e soprattutto la cupa brevità del v. 33 con l’atmosfera serenamente positiva del parallelo racconto sacerdotale sulla manna di Es 16. 3.2 Le profezie di Balaam La storia di Balaam si trova nei capitoli da 22 a 24 di Num e deve essere letta con attenzione aiutandosi con introduzioni e note della propria Bibbia. E interessante per vari motivi, tra cui: il tema della lotta contro i Moabiti, il nesso con il successivo episodio già studiato di Baal Peor, la concezione di un certo tipo di profetismo, la tematica della benedizione di Israele al di sopra dei popoli circostanti. Tradizionalmente si considerava il testo attuale come l’integrazione della tradizione jahvista ed elohista. Anzi si riteneva che il confronto tra gli oracoli elohisti (i primi due, al cap. 23) e quelli jahvisti (il terzo e il quarto, al cap. 24) fosse didatticamente esemplare per cogliere le differenti culture e teologie rispecchiate dalle due tradizioni. Checché si pensi oggi di J e E lo studio comparato delle due coppie di oracoli è ancora fruttuoso per coglierne il senso. Gli oracoli potrebbero essere più antichi della storia leggendaria che li incornicia e dicono qual è la natura e il destino dei popolo di Dio tra gli altri popoli della zona. Si noterà l’insistenza sul “popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera” (23,9) perché è protetto dal “Signore suo Dio che è con lui” nei primi due oracoli. Negli altri si noterà soprattutto una più chiara allusione alla regalità in 24,7 e 17. Non manca chi fa risalire la stesura di questi brani poetici all’epoca davidicosalomonica. Nell’economia attuale del racconto questi testi bilanciano l’incertezza del futuro che traspare, invece, dalle storie delle ribellioni. 3.3 Le vittorie Analoga funzione di segno premonitore della riuscita finale dell’Esodo hanno le narrazioni di vittorie che sono attualmente disseminate nell’itinerario della peregrinazione. Indichiamo le principali. La prima si trovava già nella via verso il Sinai in Es 17,8-13: è la battaglia contro gli Amaleciti: mette in luce che il mezzo per la vittoria è soltanto l’intercessione di Mosè e preannuncia inimicizia e disfatta perenne per Amalek. La seconda si trova molto avanti nella narrazione in Num 21,1-3 ed è la presa e lo sterminio di Corma. Ma proprio il carattere eziologico e geograficamente poco verosimile del testo ci rimanda a una precedente menzione di Corma in Num 14,39-45 e ci permette di cogliere il senso teologico dei due episodi al di là della loro inconsistenza sul piano storiografico. In Num 14 Corma era stata il luogo della strage degli Ebrei che avevano tentato di penetrare nella terra con le loro forze dopo che il Signore lo aveva negato a un popolo privo di fede. In Num 21 è un luogo di vittoria, premonitore del futuro

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 22 di 38

ingresso nella terra, perché, gli Ebrei avevano fatto un voto al Signore. In conclusione possiamo rilevare la scarsità di episodi bellici nella storia del deserto e la finalità totalmente teologica dei pochi che ne fanno parte. 3.4 L’organizzazione del popolo Un altro tema che emerge in vari punti riguarda l’immagine di un popolo in progressiva organizzazione. Il primo testo che ne parla nell’ordine attuale è Es 18: Mosè incontra il suocero madianita Ietro e, per suo consiglio, istituisce dei giudici per le cause minori. Teologicamente più interessante è l’istituzione dei settanta anziani in Num 11,16s.24-30 incorporata nel racconto della ribellione contro la manna e delle quaglie. I settanta ricevono lo spirito per essere profeti e Mosè approva anche il dono concesso a due che non fanno pienamente parte dei gruppo, auspicando che tutti possano avere nel popolo il dono dello Spirito profetico. Si tratta di un testo rilevante per la sua concezione non giuridica della natura del popolo e non gerarchica della stessa profezia. (Lo si considerava elohista, espressivo della stima per il profetismo tipica del Nord). Oltre a ciò la connessione redazionale con il cibo che Dio dona (la manna e le quaglie) anticipa la nozione deuteronomica secondo cui il vero cibo che esce dalla bocca di Dio è la sua parola (Dt 8,3). Il primato della guida profetica per la vita dei popolo risulta infine dalla presentazione dello stesso Mosè come profeta e, in particolare come profeta che intercede per il perdono del popolo ribelle (ad esempio in Es 32,11-14.30- 31; ecc.) Pur conoscendo le funzioni del sacerdozio, queste tradizioni esaltano la funzione profetica che, quasi come in Elia, congiunge al servizio della parola il potere taumaturgico, l’intercessione e la guida carismatica del popolo. Nettamente diversa è la concezione della struttura del popolo quale appare dai testi della tradizione P. In primo luogo va segnalata l’importanza dei due censimenti: il primo in Num 1-4 e il secondo in Num 26. In mezzo sta la serie delle ribellioni e soprattutto, per P, il rifiuto di entrare nella terra di 13-14. Nei due censimenti è prevalente, per completezza e precisione di suddivisioni, il gruppo dei Leviti. P suppone l’immagine di un popolo rigidamente numerato e distribuito in tribù e gruppi di famiglie, un insieme ordinato e classificato di persone, ognuna al suo posto nell’accampamento attorno alla dimora, che riceverà una ripartizione definita del territorio, ad esclusione dei Leviti la cui eredità è il Signore. Si tratta del quadro ideale di un popolo ordinato, appartenente a Dio, autosufficiente, impegnato nel culto, in una parola: santo. Per questo al primo censimento della generazione infedele che non entrerà nella terra, segue il secondo del popolo nuovo e purificato. In questo contesto prendono rilievo altri singoli episodi di repressione di infedeli e ribelli in vista della costituzione di un popolo ideale, ad esempio Num 15,32-36; 17,6-15; 25,6-13 e soprattutto l’inserzione probabilmente di mano sacerdotale di Es 32, 25-29, che indica l’essenza della benedizione levitica nella fedeltà a Dio contro ogni altro legame umano. Secondo P il sacerdozio, con le cui prerogative nessuno può osare di competere (si veda a proposito il noto grazioso episodio di Num 17,16- 26), è garanzia di vita per il popolo perché sostiene il culto e i suoi ordinamenti e perché, con i riti di espiazione, libera il popolo dal peccato. In cambio il popolo sostiene il sacerdozio con le sue offerte. Tutta la legislazione P è espressiva di questi concetti; per averne un breve saggio lo studente potrà limitarsi alla lettura di Num 18-19 con l’aiuto delle note della sua Bibbia. 3.5 L’esperienza di Dio Trattiamo per ultimo questo tema proprio perché è teologicamente il più rilevante. Già parlando del Sinai abbiamo accennato alle figure con cui viene espressa la divina trascendenza. Il redattore che ha inserito al primo posto nel Sinai il decalogo ha ribadito l’unicità e la non raffigurabilità di Dio. Eppure questo Dio è il Signore YHWH liberatore del suo popolo. È interessante dunque vedere il modo con cui la prossimità attiva del Dio trascendente viene espressa. Il testo teologicamente più denso è il già citato Es 33,12-23+ 34,5-8. Ad esso si devono però aggiungere le immagini della colonna di nube e di fuoco che compare la prima

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 23 di 38

volta in Es 13,22. La tradizione P conosce invece la gloria (Es 24,16) che e contornata dalla nube che l’accompagna. Si noti l’accurata terminologia di Es 40,34- 35 e l’importanza della manifestazione della gloria a tutto il popolo in Lev9,22-24. per P la gloria è la massima manifestazione di Dio al mondo che avviene nel centro dell’accampamento di Israele, il popolo che dedica ogni suo sforzo a santificarsi per custodire quella presenza.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 24 di 38

Capitolo 4 Il Deuteronomio e la storia deuteronomistica 1. IL DEUTERONOMIO E I DEUTERONOMISTI Nel secondo libro dei Re, al cap. 22, si racconta che, al tempo del re Giosia, nel 621, fu scoperto nel tempio un rotolo contenente la legge di Mosè, fino ad allora sconosciuto. Già antichi studiosi avevano avanzato l’ipotesi che quel rotolo corrisponda, almeno in parte, al libro del Deuteronomio. Molti studiosi moderni ritengono che le cose siano andate più o meno così. Quando fu distrutto il Regno del Nord, nel 722, alcuni fedeli fuggirono nel Sud e alcuni di loro trovarono impiego nel servizio del tempio. Durante il lungo regno di Manasse, un re idolatra che trascurò la vera fede e il culto del tempio, essi raccolsero in segreto le loro tradizioni religiose e scrissero le regole e le leggi che si sarebbero invece dovute rispettare sia nel culto sia nell’impegno morale quotidiano. Questo scritto, ritrovato o rivalutato al tempo di Giosia, è appunto il nucleo dell’attuale Deuteronomio. Giosia si servì di quel testo per tentare una riforma religiosa che ridesse solidità spirituale alla compagine del popolo. Il Deuteronomio contiene un codice dileggi contornato da discorsi iniziali e finali che si suppongono pronunciati da Mosè, sulla sponda orientale del Giordano prima dell’ingresso del popolo nella terra. In questo modo le norme e gli ammonimenti contenuti nel libro appaiono come le condizioni richieste da Dio perché il popolo possa mantenere il possesso della terra in cui sta per entrare. La condizione basilare è la fedeltà all’unico Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la forza e al suo culto in un unico santuario. Quando, nel 587, Gerusalemme fu distrutta dai Babilonesi, negli anni dell’esilio, gli eredi dei compilatori del Deuteronomio si assunsero il compito di dimostrare che la distruzione era avvenuta non per infedeltà del Signore al suo impegno di Dio del popolo, ma piuttosto per l’infedeltà del popolo ai suoi impegni, quegli impegni che il Deuteronomio enunciava in maniera così convincente e appassionata, come constata anche oggi ogni lettore di quel libro. In vista di questa difesa della rettitudine e giustizia di Dio, essi raccolsero tutte le notizie che erano state conservate sulla storia del popolo dal tempo di Giosuè fino alla caduta di Gerusalemme. Poteva trattarsi, a seconda dei casi, di documenti da archivio o di saghe o storie popolari. A loro interessavano soprattutto quei racconti dai quali si poteva constatare che, quando il popolo o i suoi capi erano stati fedeli, Dio aveva loro garantito successo e vittoria, mentre li aveva abbandonati e puniti quando essi per primi avevano violato gli impegni dell’alleanza. Tutta questa serie di episodi venne raccolta nei libri di Giosuè, dei Giudici, in i e 2 Samuele e in i e 2 Re, cioè nei libri che la tradizione cristiana classifica come storici e che gli studiosi qualificano come storia deuteronomistica. Lo scopo dei redattori era duplice: volevano conservare le antiche memorie ora che il regno era scomparso e, soprattutto, volevano trasmettere una valutazione di fede su quanto era accaduto. La loro tesi è che la terra era stata donata da Dio al popolo ad una condizione: che il popolo rimanesse fedele all’unico Dio, rifiutando ogni contaminazione idolatrica. Ogni infedeltà avrebbe prodotto un castigo e, se l’infedeltà si fosse protratta nel tempo aumentando invece di diminuire, Dio avrebbe scacciato il popolo dalla terra. La loro idea teologica fondamentale è che l’impegno divino di alleanza è condizionato alla fedeltà del popolo. Essi raccolgono le memorie del passato per mostrare che il nesso tra fedeltà di Dio e fedeltà del popolo è sempre stato il criterio dell’agire divino. Ogni benedizione o vittoria del passato è avvenuta grazie alla fedele osservanza delle norme date da Mosè (quelle riassunte nel Deuteronomio), ogni sconfitta o perdita è castigo di Dio che richiama alla conversione. La rovina finale è la conseguenza del rifiuto secolare opposto ai richiami di Dio. Questi richiami erano dati dai profeti, il primo dei quali fu Mosè. Per questo sono moltissime, in tutti questi

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 25 di 38

libri, le narrazioni di interventi profetici. Si capisce così perché gli Ebrei considerano questi libri la prima parte dei libri profetici. Gli studiosi cristiani moderni li chiamano storia deuteronomistica, perché tutta ispirata alle idee tipiche del Deuteronomio: un solo Dio, una sola terra, un solo popolo (ecco perché fu grave colpa la divisione dei regni), un solo tempio, da amare con tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze. Espressioni come questa, caratteristiche dello stile esortativo e persuasivo del Deuteronomio, si trovano continuamente in questi libri e sono la prova che essi sono stati veramente redatti da un’unica scuola: la scuola Deuteronomista. Probabilmente, nell’intenzione di questi redattori, il Deuteronomio doveva essere il libro introduttivo della grande storia che va da Giosuè a Re. Più tardi i sacerdoti, che sistemarono memorie e leggi del tempo dei patriarchi e dell’Esodo, staccarono il Deuteronomio dalla storia deuteronomistica e ne fecero il quinto libro della Torà o Pentateuco. 2. I LIBRI DELLA STORIA DEUTERONOMITICA Ecco ora una brevissima presentazione dei singoli libri: Giosuè: si divide in due parti: la prima racconta alcuni episodi esemplari della presa di possesso della terra, dopo il prodigioso passaggio del Giordano (che ricorda l’esodo). E celebre il racconto della presa di Gerico e, al contrario, della mancata conquista di Ali a causa di una trasgressione alla legge. Ciò dimostra che la forza del popolo non è militare, ma è data da Dio a chi gli ubbidisce. La seconda parte usa elenchi catastali dell’epoca dei Re per attribuire la ripartizione della terra a Giosuè. Giudici: utilizza antiche narrazioni locali di imprese di grandi eroi (i giudici) e le trasforma in lezioni sulla gravità del peccato, inserendole in uno schema, che si ripete ogni volta, comprendente: infedeltà del popolo, aggressioni di nemici, supplica, invio del liberatore, pace, ripresa del peccato di infedeltà e necessità di una nuova liberazione. Ogni storia si conclude con il ritornello: neppure ai giudici davano ascolto! Samuele: i due libri raccontano l’inizio della monarchia prima con Saul e poi con Davide sotto la guida del profeta Samuele. Nelle storie della giovinezza di Davide e del suo regno comprendono blocchi di narrazioni antichissime, composte subito dopo i fatti (ad es. la rivolta di Assalonne). Gli interessi teologici di questi libri ruotano attorno a domande come queste: basterà la presenza dell’arca e di un santuario a garantire la fedeltà religiosa del popolo? La monarchia è un bene in se stesso o ha bisogno di una particolare guida divina? Sarà sufficiente la presenza dei profeti? Saul è presentato in maniera molto negativa, perché ha disubbidito a Samuele, ma Davide riuscirà ad essere fedele? Non sarà forse Dio, nonostante i suoi errori (si pensi all’adulterio con Betsabea e all’uccisione del marito Una), a trarre dal male il bene? Re: I due libri raccontano la storia di Salomone che edifica il tempio e poi dei due regni separati. Il tempio è presentato come il luogo unico da cui può venire, grazie alla preghiera, la salvezza. La storia del regno del Nord è scritta per dimostrare che Dio non poteva far altro che distruggere questo regno per la sua infedeltà, soprattutto per non aver dato ascolto ai gradi profeti Elia ed Eliseo. Ma anche il Sud cade sempre più nell’infedeltà e non bastano i tentativi di riforma di alcuni re a salvarlo.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 26 di 38

Capitolo 5

I Profeti 1. CRONOLOGIA Mentre gli Ebrei chiamano profetici anche i libri da Giosuè a 2 Re, la classificazione cristiana comprende tra i Profeti i libri di Isaia, Geremia, Ezechiele, i Dodici profeti minori e Daniele, anche se quest’ultimo libro appartiene già al genere apocalittico. Nella Bibbia questi libri sono disposti più o meno in ordine di lunghezza, ma è opportuno ricostruire invece l’ordine cronologico, cioè studiarli cominciando dai più antichi fino ai più recenti. Ma. prima di far questo, è necessario ricordare che il libro di Isaia comprende tre parti distinte, che risalgono ad epoche diverse: a) Isaia 1-39 è la parte che contiene, insieme a materiale più recente, gli oracoli autentici risalenti a Isaia; b) Isaia 40-55 è opera dì un altro autore, che si ispira a Isaia, ma predica durante l’esilio e viene chiamato Deutero (o Secondo) Isaia; c) Isaia 56-66 è stato composto dopo l’esilio dallo stesso autore del Deutero o da un suo continuatore, che viene chiamato Trito (o Terzo) Isaia. Anche in Zaccaria (uno dei Dodici minori) gli studiosi distinguono un Proto (o Primo) e un Deutero Zaccaria. Dopo queste precisazioni è possibile ricostruire l’ordine cronologico. A. I PROFETI PREESILICI • I profeti più antichi sono Amos e Osea, che predicarono nel regno del Nord, tra il 760 e il 725 circa durante il regno di Geroboamo 11. • Isaia operò nel regno del Sud tra circa il 740 e il 640. Suo contemporaneo è Michea. In anni successivi si possono collocare i brevi testi di Naum e Abacuc. • Geremia fu attivo dal tempo di Giosia (626 circa) fino a dopo la caduta di Gerusalemme (586). Dal suo libro conosciamo molti particolari del decennio tra i due assedi della città. Durante il regno di Giosia predicò anche Sofonia. B. DURANTE L’ASSEDIO (597-538) • Ezechiele predica in esilio dal 593 al 571 circa. • Il Deutero Isaia predica in esilio nel periodo immediatamente precedente il 538, e annuncia l’imminente possibilità di rimpatriare, grazie alla politica che Dio ha ispirato a Ciro re di Persia. Appartengono agli anni che seguono alla distruzione di Gerusalemme Abdia e le Lamentazioni dette di Geremia. C. DOPO L’ESILIO Aggeo e il Proto Zaccaria raccomandano l’impegno per la ricostruzione del tempio tra gli anni 520 e il 515. Il Trito—Isaia incoraggia i rimpatriati insistendo sull’amore di Dio per il suo popolo. In anni successivi si collocano Gioele, Giona, il Deutero Zaccaria e, per ultimo, il libretto di Malachia. 2. CHI ERANO I PROFETI Anche i libri dei Profeti hanno subito ritocchi, aggiunte, sistemazioni redazionali a più riprese fino alla stesura definitiva (talvolta, come per Geremia, diversa nella forma greca rispetto a quella ebraica) dopo la quale sono divenuti intoccabili, stesura che può risalire al III o Il secolo a. C.. Tuttavia questi interventi redazionali, talvolta indicati, nelle note delle bibbie,

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 27 di 38

non impediscono di leggere molti testi che sembrano ancor oggi uguali all’originaria predicazione dei profeti o alla prima stesura scritta, fatta dai loro immediati discepoli. Nei libri dei Profeti, più che nei libri storici, possiamo trovare testi veramente antichi, che ci riportano alla situazione di vita dei secoli dall’ottavo al quinto prima di Cristo. Per gustare i testi profetici bisogna collegarli alla vita e ai problemi de loro tempo perché essi furono soprattutto giudici del loro presente, alla luce delle loro tradizioni culturali e religiose. Essi, mentre si pronuncia- vano sul presente, hanno anche aperto prospettive sul futuro ma il loro compito non fu quello di predire il futuro. Profezia non significa predizione, ma parola rivolta ai contemporanei del profeta in nome di Dio. Oltre ai grandi profeti del libro, che abbiamo elencato, vanno nominati, nei libri da Giosuè a 2 Re e nelle Cronache, numerosi altri profeti, da Samuele a Natan consigliere di Davide, fino ai grandi Elia ed Eliseo e ai molti che accompagnarono la vita del popolo durante tutta l’epoca monarchica. Il profetismo fu una componente che accompagnò con continuità tutta la vita del popolo, dall’inizio alla fine della monarchia. Che ci fossero profeti e che alcune persone, per vocazione o per scelta, facessero il profeta era ritenuta una cosa del tutto normale. Il profetismo era una funzione normale della vita sociale di allora, come lo era quella dei sacerdoti e dei sapienti. I profeti erano coloro dai quali ci si attendeva un giudizio, pronunciato in nome di Dio, sulle decisioni da prendere soprattutto nella, vita collettiva. Anche i sacerdoti davano consigli e norme ai pellegrini che visitavano i santuari. I profeti operavano anch’essi nei santuari, ma anche al di fuori di essi: parlavano a corte ai re e ai funzionari e, nella piazza antistante le porte delle città, a tutta la gente. Davano giudizi soprattutto sulle scelte politiche e militari, sulle alleanze da fare o da evitare, sul comportamento dei giudici e, in genere sull’impostazione delle scelte che coinvolgevano la vita della comunità. Ciò che altre popolazioni cercavano di scoprire da maghi, indovini, interpreti di segni celesti o di presagi ricavabili dall’esercizio del culto, in Israele e Giuda veniva offerto dalla predicazione dei profeti. Essi si sforzavano di apparire ed essere uomini di Dio, da lui illuminati, radunandosi insieme, abbandonando saltuariamente le normali attività., praticando l’ascetismo, pregando, digiunando. La gente li riconosceva con naturalezza e spontaneità come uomini in grado di parlare in nome di Dio. In questa massa costantemente presente di profeti alcuni si distinsero per intelligenza, capacità di creazione poetica, intuizione, santità: sono i nostri grandi profeti da Amos in avanti. La loro superiorità rispetto agli altri è spesso giustificata da un racconto di vocazione, dal quale si comprende che una chiamata divina ha fatto di questi uomini dei portavoce di Dio infinitamente più fedeli ed efficaci di altri. Come, tra i molti bravi cappuccini, è emerso come figura d’eccezione padre Pio, così Dio ha fatto emergere tra i molti profeti di allora i nostri grandi profeti del libro. Quando essi dicono “Così dice il Signore” oppure quando i redattori dei libri scrivono “La parola del Signore fu rivolta a” vogliono semplicemente sottolineare che il messaggio di questi artisti della Parola deve essere riconosciuto conforme al pensiero e al volere di Dio infinitamente di più dei luoghi comuni che i normali profeti ripetevano senza originalità. Non è necessario pensare a prodigiose comunicazioni di parole o idee: anche i grandi profeti pensano con la loro testa, cercano le forme espressive migliori con la loro arte, pregano e meditano per capire come giudicare gli eventi. I redattori dei loro oracoli (così si chiamavano le parole dei profeti, senza implicare somiglianze con gli oracoli degli indovini), avendoli riconosciuti di valore perenne, li incorniciano con formule come quelle citate per dire che in quelle parole è presente il giudizio di Dio. 3. IL. MESSAGGIO DEI PROFETI I profeti da Amos a Geremia furono tutti e sempre profeti di giudizio, di minaccia, di condanna. La presenza nei loro testi di oracoli di salvezza deve essere dimostrata caso per caso, perché in molti casi furono i redattori posteriori a inserire in più punti promesse di salvezza per riatttualizzare il loro messaggio alla mutata situazione di secoli successivi. Quando, infatti, i

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 28 di 38

redattori sistemano questi libri, il castigo della distruzione del regno è già avvenuto e, anche se rimangono sempre persone ostinate nel male, Israele è diventato un popoio penitente, che accetta la sottomissione a imperi pagani come castigo delle sue colpe. A costoro vengono perciò ripresentati gli antichi testi, ma arricchiti di molta consolazione e speranza. Ma, durante l’epoca monarchica, la predicazione storica dei profeti era stata di giudizio e di condanna. Dai libri dei Re e dalle Cronache veniamo a conoscere che il tempio era quasi sempre profanato da culti idolatrici, che violenza e ingiustizia dominavano e che il ricordo degli antichi benefici di Dio veniva sfruttato per avere certezza di una benedizione irrevocabile, di un’alleanza indistruttibile in nome della scelta divina del Tempio come dimora del Nome di Dio. Contro questa meccanica sicurezza, quasi magica, predicano gli antichi profeti. Per questo essi denunciano l’inutilità del culto. Impressionante è la capacità dei profeti antichi, a cominciare da Amos, di capire che non basta il culto per essere a posto con Dio, ma occorre il rispetto dell’uomo, la salvaguardia del diritto, la pratica della giustizia. Amos è celebre perché, all’inizio del suo libretto, giudica in nome di Dio i popoli che circondano Israele per i loro delitti contro altre nazioni e giudica Israele per le ingiustizie che si commettono al suo interno contro i poveri. La sua tesi è che Dio metterà fine all’esistenza di queste nazioni immorali. Osea è il primo a paragonare l’alleanza a un vincolo matrimoniale. Vede in Dio uno sposo innamorato che si servirà sia del castigo sia dell’amore per riconquistare la fedeltà di una sposa dall’animo di prostituta. E difficile dire se speri veramente in una conversione. Isaia è più difficile da sintetizzare perché la sua profezia è più ricca e protratta nel tempo. In un primo periodo denuncia le ingiustizie sociali, la spensieratezza dei ricchi, l’orgoglio di chi si sente sicuro nonostante i pericoli che minacciano il regno di Giuda dall’esterno. Mentre Giuda è minacciato da Israele e dai Siriani e spera nell’aiuto degli Assiri, predica che la salvezza potrà venire solo dalla fede in Dio, fede che non hanno né il re né le classi dirigenti. Dice che Dio darà un segno di salvezza con la nascita di un bambino (l’erede al trono?) dal nome simbolico di Emmanuele, che nascerà mentre già vivono altri bambini (figli di Isaia) i cui nomi parlano di distruzione e di un solo piccolo resto salvato. Racconta di aver visto nel tempio la maestà di Dio e di essere stato mandato per rendere il popolo cieco e sordo, perché solo una decimazione purificatrice potrà far sorgere, dopo una dolorosa umiliazione, un re fedele. Ma, durante il regno del nuovo re Ezechia, Isaia dovrà denunciare la ingannevole fiducia che tutti ora ripongono nell’Egitto e condannare gli stessi abusi sociali di prima. Solo alla fine troverà in Ezechia la fede richiesta e assisterà all’inaspettata liberazione da un assedio assiro nel 701, che poteva portare alla fine della città. Questa grande liberazione indurrà, per paradosso, a perpetuare l’equivoco che Gerusalemme non cadrà mai nonostante le colpe dei suoi abitanti. Geremia quasi un secolo dopo, intuisce invece che questa volta Dio ha deciso la fine, predica inascoltato il dovere di arrendersi ai Babilonesi. Viene per questo perseguitato con pericolo della vita, ma rimane inascoltato e Gerusalemme cade nel 586. Geremia vive nella sua persona il mistero della parola di Dio inascoltata e contraddetta e, per questo, i cristiani vedranno in lui una prefigurazione del Cristo rifiutato e messo a morte. Ezechiele nella prima parte del suo ministero, che si svolge tra i primi esiliati in Babilonia nel decennio fra i due assedi, concorda con Geremia. Gli anni che seguono alla distruzione della città producono una svolta nella predicazione dei profeti. Il castigo è avvenuto e molti sono tentati di pensare che tutto è finito, Dio ha abbandonato il suo popolo e non è più il caso di rimanergli fedeli. Perché non seguire le divinità dei vincitori? Per evitare questo, ora i profeti si sforzano di trovare il modo per fondare la

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 29 di 38

speranza in un futuro diverso da prima, affinché la fede in Dio non perisca insieme con il regno, la città, il tempio e l’indipendenza. Essi presentano diverse prospettive. In primo luogo sia Ezechiele sia Geremia annunciano che Dio rimane vicino agli esiliati (Ezechiele vede la Gloria di Dio trasferirsi da Gerusalemme alla terra dove in Babilonia vivono i primi esiliati). Nasce la legittimazione teologica della diaspora e gli Ebrei rimangono popolo di Dio anche al di fuori della terra promessa ai padri. Entrambi i profeti hanno un’idea ancora più profonda: annunciano un’alleanza nuova, basata sulla fedeltà della persona (il nuovo cuore di carne di Ger 31 ,31 ed Ez 36,25ss) e sul dono interiore dello Spirito di Dio (una novità di Ezechiele!) per assicurare che anche senza terra e senza re si potrà essere popolo di Dio e popolo fedele, che non incorrerà più nel pericolo di essere distrutto. È evidente l’importanza di queste idee per il rinnovamento della fede d’Israele. Ezechiele aggiunge a ciò il criterio della responsabilità individuale, temperata (per non cadere nell’individualismo) dal compito di essere sentinelle che mettono in guardia, se pecca, il proprio vicino. Il Deutero - Isaia, che scrive più tardi, annuncia invece un prodigioso e grandioso ritorno in patria guidato da Dio stesso e prospetta la guarigione dalla cecità, dalla sordità e dalle debolezze di un tempo. Le sue grandiose immagini di restaurazione sono state poi inserite qua e là anche tra gli antichi severi oracoli di minaccia dell’Isaia storico. Poiché, secondo il Deutero Isaia, con la distruzione della città e del regno Israele ha subito il castigo per tutti i suoi peccati, rimane da spiegare il perché della sua sofferenza nell’esilio. Si affaccia così l’idea che può esistere un dolore innocente e questo profeta intuisce (andando in ciò al di là di Giobbe) che la sofferenza del giusto può contribuire a compensare le colpe di altri. E l’idea più nuova che si trova nei canti del Servo del Signore, soprattutto nel quarto ai capitoli 52 e 53. Dopo l’esilio, gli ultimi profeti si adoperano per dare coraggio e fondare una moralità stabile tra i rimpatriati. Insistono nell’osservanza del sabato, sulla cura per il tempio, sulla sincerità delle pratiche religiose, a cominciare dal digiuno, sulla necessità di un permanente atteggiamento penitenziale, sulla generosità verso i più bisognosi. Tornano, qua e là, a minacciare castighi, ma essi credono, più dei profeti antichi, sulla possibilità di uno sforzo quotidiano di conversione. Il loro tono si fa gradualmente più pastorale. Esempi caratteristici di questa attitudine educativa sono il trito Isaia, Gioele, Giona, Malachia. Lo sforzo di tutti i profeti è stato quello di convincere che solo la retta fede nell’unico Dio e una prassi normale onesta e sincera danno al popolo la possibilità di godere della benevolenza divina e di sopravvivere nelle difficoltà della storia.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 30 di 38

Capitolo 6 Gli altri scritti 1. LA LETTERATURA SAPIENZIALE Alcuni libri che fanno parte degli Scritti nel canone ebraico sono da noi classificati come libri sapienziali perché hanno caratteristiche comuni di forma e soprattutto di contenuto. Trattano, infatti, della via attraverso cui l’uomo saggio può raggiungere una vita buona e serena conoscendo e rispettando l’ordine del mondo, ma anche delle difficoltà che si oppongono a questo progetto. Fanno parte di questo gruppo tre libri presenti nella Bibbia ebraica, e due che sono contenuti soltanto nella Bibbia greca dei LXX e che sono pertanto deuterocanonici. I tre libri del canone ebraico sono: Proverbi, Giobbe e Qoélet (o Ecclesiaste); i due libri della raccolta greca sono Sapienza e Siracide (o Ecclesiatico). Influssi della mentalità sapienziale si trovano però anche in altre parti della Bibbia, ad esempio nella storia di Giuseppe in Gen 37-50, in alcuni Salmi, nel Cantico dei Cantici e nel deuterocanonico libretto di Tobia. La più importante caratteristica comune a tutti questi libri è, da tin lato, la loro somiglianza con testi sapienziali mesopotamici ed egiziani e, dall’altro, l’assenza in essi ditemi tipici della fede storico-salvifica di Israele. Per questa ragione uno degli aspetti più interessanti nello studio di questi libri è proprio la ricerca della loro specificità all’interno dell’esperienza culturale e religiosa di Israele e il loro inserimento nel quadro generale della teologia biblica. Mentre nella Torà la volontà di Dio che porta all’uomo la benedizione è presentata come rivelata e autoritativamente imposta come obbligo di alleanza, i sapienti fondano il valore dei loro consigli nell’esperienza e nell’osservazione razionale della realtà. Analogamente essi si distinguono anche dai Profeti che pronunciano un giudizio fondato sull’autorevolezza del messaggio divino. Non è facile ricostruire come si collegassero e si componessero insieme nell’antico Israele queste diverse modalità e prospettive di interpretazione della realtà, tutte finalizzate alla guida del popolo e dell’individuo in vista della salvezza. D’altra parte non si deve neppure esagerare la scelta razionale dei sapienti, quasi si trattasse di una specie di autonomia assoluta della ragione. Anche in Egitto e Mesopotamia il riconoscimento del governo divino del mondo è sempre supposto, perché è su di esso che si fonda quel senso e quell’ordine del mondo su cui i sapienti intendono indagare. I libri sapienziali somigliano a una meditazione “filosofica” sulla vita. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Di fatto essi presuppongono sempre la fede in Dio, il cui riconoscimento è spontaneo e mai messo in questione. Questo modo di pensare è stato giustamente definito un “umanesimo con Dio”. Infatti la fede in Dio fa parte essenziale dell’esperienza concreta della vita nel sapiente. Ma la fede non sostituisce la ricerca, lo studio, lo sforzo di capire e non dispensa dall’attività di insegnamento e di trasmissione della sapienza alle generazioni future, tutte attività proprie del saggio. I sapienti non ignorano la storia. I loro libri hanno profondi legami di parentela con quelli storici e profetici, sono connessi col periodo storico vissuto dai loro autori in seno ad Israele. Talvolta, come si vede in Sapienza e Siracide, vien fatta una “rilettura” sapienziale della storia della salvezza. Questo legame con la storia salvifica del popolo di Israele è caratteristica peculiare della letteratura sapienziale biblica. È vero tuttavia che questi libri non mostrano grande interesse per le istituzioni del popolo di Israele, anzi talora sembrano ignorarle.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 31 di 38

Ma ciò è dovuto alla loro preoccupazione prevalente che è di dare orientamenti per la condotta pratica della vita e rispondere ai grandi interrogativi dell’uomo. Ma non mancano testi molto importanti che richiamano significativamente “istituzioni” israelitiche. Ricordiamo soltanto l’identificazione tra Legge e sapienza in Sir 24. In Mesopotamia e in Egitto la letteratura sapienziale è soprattutto finalizzata alla formazione dei funzionari dello stato e dei giovani delle classi nobili, dirigenti e agiate. Ci si è chiesti se lo stesso valga per la sapienza israelitica, oppure se essa abbia caratteri più popolari, se non possa riflettere (come è stato recentemente suggerito) una cultura agricola che esprime le sue regole di vita indipendentemente o addirittura in antitesi rispetto al potere statale, infine se i sapienti non fossero in realtà anche i maestri di scuola a cui era affidata l’istruzione dei giovani di ogni ceto sociale. A corte, in famiglia, nella scuola il sapiente insegna la giusta e opportuna condotta di vita. Egli si sforza di dare un insegnamento pratico che guidi l’uomo nella ricerca del successo e della felicità. L’esperienza propria e degli altri offre una lezione importante sia per il principe di corte e i suoi funzionari, sia per genitori e figli, sia per i giovani che affrontano la vita col desiderio di riuscire e di essere felici. Ma è la stessa esperienza della vita che rende il sapiente un osservatore realista e disincantato: l’insuccesso dei buoni, il trionfo dei cattivi, la morte sono fatti che mettono in crisi ogni pretesa orgogliosa della sapienza. Di qui la reazione di certi sapienti verso una sapienza troppo sicura di sé: Dio solo ha la chiave dell’enigma della vita, del dolore e della morte. Questa coscienza del limite dì fronte ai temi più gravi come quello della sofferenza dell’innocente è già presente nella riflessione più antica, quella cioè che si esprime preferibilmente nella forma letteraria del “proverbio”. Ad un certo punto, però, il problema viene affrontato in maniera più diretta ed esaustiva, dibattendo e cercando di sviscerarlo in tutte le sue componenti. Quando ciò accade anche la forma letteraria diventa diversa e si ha la cosiddetta sapienza trattatistica che sostituisce alla sintetica formulazione del proverbio la lunga e reiterata esposizione del problema. Nella Bibbia ciò avviene nella forma del dialogo in Giobbe e del soliloquio in Qoélet. A parere di non pochi studiosi questo nuovo modo di affrontare i casi limite, insolubili con le metodologie razionali della sapienza antica, fa emergere, anche all’interno della ricerca sapienziale, la necessità della invocazione di Dio. C’è chi ha parlato, anche se l’espressione è impropria, di “conversione” dei sapienti alla fede e al timore di Dio, inteso come ascolto, supplica e ubbidienza. A questo punto sorge in Israele, nel tardo postesilio, la nozione di una Sapienza attributo divino che si offre come guida all’uomo che l’implora e l’accoglie. Questa idea è caratteristica del Siracide, del libro della Sapienza (scritto in greco verso il 50 a.C.) ma è stata aggiunta anche all’antico libro dei Proverbi, premettendo a raccolte più antiche gli attuali capitoli 1-8. In questi testi la Sapienza divina è personificata nella figura di una donna, affascinante e saggia, che offre con amore i suoi insegnamenti ai discepoli, quasi a dire che la retta conoscenza si può avere solo se si coltiva l’amore per Dio. È noto che alcune descrizioni di questa figura della Sapienza sono state utilizzate nel Nuovo Testamento per parlare di Gesù, sapienza rivelatrice del Padre. 2. L’APOCALITTICA È una forma espressiva che si evolve dalla profezia. Nasce in un tempo in cui non si spera più che i mutamenti delle condizioni storiche possono portare salvezza duratura. Si ipotizza allora che la storia finirà, anzi crollerà il mondo stesso, scomparirà il sole, cadranno gli astri per distruggere tutto il male, dopodiché sorgerà un mondo nuovo di soli giusti. Poiché gli autori di questi testi pretendono di avere avuto visioni misteriose che hanno loro rivelato questo progetto divino, i loro scritti si chiamano rivelatori o, con la parola greca, apocalittici. Testi di questo genere sono già inseriti nel libro di Isaia e Ezechiele. Apocalittiche sono anche le visioni del libro di Daniele. Lo stile apocalittico è presente in molti scritti religiosi del 11 e I secolo a.C. che non sono entrati nel canone biblico ma hanno influenzato, con il loro linguaggio artificiosamente enigmatico, la religiosità popolare dei tempi del Nuovo Testamento.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 32 di 38

3. CRONACHE - ESDRA - NEEMIA Ci sono nell’Antico Testamento quattro libri provenienti da un medesimo ambiente e di epoca assai tarda (IV — III secolo). Sono Esdra, Neemia e 1 -2 Cronache. I primi due narrano episodi particolari della ricostruzione dopo l’esilio. Esdra è colui che promulga in Giudea la Torah, fa cioè conoscere il Pentateuco, di cui gli Ebrei lo considerano l’ultimo redattore. Neemia è un diario in prima persona di questo personaggio che ha ricostruito le mura di Gerusalemme. I due libri delle Cronache, gli ultimi nell’Antico Testamento ebraico, sono una specie di ricapitolazione di tutta la storia, da Adamo alla fine dell’esilio. Da Adamo a Davide il procedimento è rapidissimo: solo una serie di genealogie. Di Davide si tralasciano tutti gli episodi avventurosi, ma poco edificanti e si parla molto invece del suo progetto per il Tempio e per l’organizzazione del culto, soprattutto per opera dei cantori leviti. Salomone non farà che eseguire i piani di Davide. Poi la narrazione prosegue occupandosi soltanto del regno del Sud e dilungandosi soprattutto a presentare quei re che si dedicarono a riforme religiose. Anche per il cronista il centro di tutto è il Tempio, di cui apprezza soprattutto il rituale dei sacrifici e delle lodi cantate. Il Cronista scrive in un tempo (dopo Alessandro Magno) nel quale molti Ebrei sono tentati di vivere come i Greci (specialmente nella diaspora) trascurando la centralità del Tempio. A loro il Cronista vuol dire che esso è invece, nel piano di Dio, il punto da cui veniva ogni salvezza. Senza tempio il popolo sarebbe perduto.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 33 di 38

Capitolo 7 Le grandi idee dell’Antico Testamento DIO Dio è unico, non solo uno di numero, ma è colui che non ha nulla simile a sé (anche se considera l’uomo sua immagine), per questo non può essere raffigurato con alcuna immagine. Non va dimenticata l’importanza di questa proibizione nel garantire la concezione monoteistica dell’Antico Testamento. Non tutti gli antichi Ebrei furono in grado di capire pienamente e da sempre questa unicità di Dio. Probabilmente, fino all’esilio, fu concezione comune che per Israele c’è un unico Dio, il Signore, mentre altri popoli hanno altre divinità che non sono nulla, nel senso che non hanno vero potere rispetto al Signore. Forse solo al tempo del Deutero-Isaia si arrivò ad affermare con chiarezza che gli altri dei non sono, cioè non esistono. Si passò cioè dal monoteismo pratico al monoteismo teoretico. Caratteristica principale del Signore (YHWH) è la sua libertà. Dio non è una potenza della natura (come l’unico sole adorato da Akenaton in Egitto), ma un essere sovranamente libero e disposto all’Alleanza. ALLEANZA Dio liberamente decide di scegliere un popolo e di essergli fedele, beneficiandolo, anzi facendolo esistere come suo popolo mediante la liberazione dall’Egitto. Alleanza significa in primo luogo questo impegno di Dio di essere a favore di Israele per la realizzazione di un progetto storico del quale, a suo tempo, saranno chiamati a far parte anche altri popoli. Al popolo Dio chiede in cambio di assumersi l’impegno di seguire fedelmente gli indirizzi di vita che Egli gli impone mediante la Torà (Legge) eche continuamente ribadisce con l’assistenza che offre ai profeti. L’idea di Alleanza viene dall’esperienza dei rapporti sociali e giuridici e, applicata a Dio, riflette il rapporto (non paritetico) tra il potente e il debole, il Signore e il servo, lo sposo e la sposa (allora ritenuta subordinata al marito). Dio si impegna a favore del popolo e il popolo è obbligato a servirlo nella vita e nel culto. Fa parte della fedeltà divina all’Alleanza anche il castigo con il quale Dio chiama il popolo alla conversione e alla purificazione. Dopo che il castigo è avvenuto con la distruzione di Gerusalemme, Geremia ed Ezechiele annunciano un’alleanza nuova, basata sul dono interiore dello Spirito, che renderà possibile la fedeltà anche al cuore umano. Si parla in questi testi di “ctiore di carne”, contrapposto al “cuore di pietra”, per indicare il rinnovamento totale dell’uomo, perché il cuore, per la lingua ebraica, è la sede non solo dei sentimenti, ma anche dei ricordi, delle idee e delle decisioni. POPOLO L’Alleanza è rivolta al popolo nel suo insieme (solo in Ezechiele verrà messa in rilievo la responsabilità esclusivamente individuale) perché lo scopo della scelta divina è l’esistenza di una realtà chiamata ad agire nella storia. Il compito del popolo è quello di realizzare e così rendere visibile la “santità”, cioè l’appartenenza a Dio. Il popolo di Dio è chiamato ad essere “santo” perché Dio è santo. Questa santità consiste essenzialmente nella coscienza della appartenenza a Dio e si manifesta in forme molteplici. La prima è l’osservanza della Legge, delle sue norme morali, di quelle sul culto e anche delle prescrizioni sulla purità. Queste ultime riguardano le relazioni dell’uomo con il mondo e i suoi elementi. Obbligano il popolo ad astenersi dal contatto con certi elementi, considerati dalla cultura di allora pericolosi per la vita, portatori di morte o tali da rendere le persone inadeguate alla loro

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 34 di 38

vocazione di persone dedite al culto di Dio. Spesso ci sfugge la connessione tra certi contatti e la presunta impurità da essi provocata, ma è comprensibile lo spirito che anima questa normativa, cioè la necessità di ricordare che tutto è da Dio e tutto è buono, ma l’uomo deve discernere ciò che più lo rende prossimo a Dio da ciò che potrebbe allontanarlo. Gesù dichiarerà che l’unico pericolo da evitare è il male che esce da noi stessi, ma l’Antico Testamento non dimentica che spesso questa interiore malizia è provocata dalla nostra sbagliata valutazione del valore degli elementi del mondo. Il popolo di Dio ha bisogno di una sua organizzazione interna. L’Antico Testamento conosce diversi modelli (dalla libera tribù alla monarchia) ma non ne assolutizza nessuno, perché sia salvo il principio che l’appartenenza a Dio deve mantenere una dimensione comunitaria. MESSIA Per un lungo periodo vi fu il re alla guida del popolo. Il giudizio dei Profeti e del Deuteronomista sui re è severamente negativo. Tuttavia in alcuni testi è presente l’idea che Dio vuole per il futuro del suo popolo una guida unitaria, di tipo regale, che dia un sicuro e unitario indirizzo alla presenza del popolo nella storia, garantisca a tutti uguale partecipazione ai doni di Dio, lo protegga e lo salvi da ogni nemico. Questa guida regale è la figura del Messia. L’aspettativa di un Messia si trova nella tradizione di Isaia, in alcuni salmi e qua e là in altri autori, ma non è presente dappertutto. I doni di Dio che danno la grazia di essere suo popolo sono anche altri. PAROLA Il primo di essi è il dono della divina rivelazione che avviene mediante la Parola. La Parola non cade dal cielo, ma è frutto dell’assistenza divina alla guida del suo popolo. Si manifesta come legge, profezia e sapienza e, in questo modo, copre tutti gli ambiti dell’esistenza umana. Grazie alla presenza costante della Parola, Dio si rivela come colui che è accanto all’uomo come pastore, re, maestro e giudice. Non è il Dio muto della natura, ma il Dio unico e libero, fedele all’alleanza, che chiede fede e suscita responsabilità. Il termine ebraico per indicare “parola” indica anche fatto, avvenimento, cosa. Sono, infatti, rivelazione di Dio anche gli eventi che accadono nella vita dei popolo di Dio, dall’esodo all’esilio. Fatti simili sono accaduti anche ad altri popoli, ma la parola ne rivela al popolo il senso che devono assumere per la sua storia e così, in Israele, questi accadimenti diventano essi stessi parola che muta la situazione del popolo nel mondo al cospetto di Dio. Qualche volta vi è nei fatti un aspetto prodigioso che basta da solo a richiamare l’agire di Dio, ma è sempre la parola della Legge, dei profeti e dei sapienti che rende i fatti veramente significativi e parlanti. CULTO La forza rivelativa dei fatti e della parola che li accompagna e illumina trasforma anche il culto. Esso ha in Israele tre aspetti fondamentali: il sacrificio, il memoriale, la preghiera. Il sacrificio non è molto diverso da come veniva inteso e celebrato nell’antichità. È invece proprio di Israele il memoriale, cioè la certezza che i grandi eventi con cui Dio ha dato al popolo la sua identità ritornano presenti nella loro efficacia quando, in unione con Dio, se ne fa memoria (con sacrifici, riti e preghiere) nelle grandi feste come la Pasqua. La preghiera ha in Israele tutte le forme possibili: lode, ringraziamento, supplica. Fra tutte emerge la lode, considerata equivalente se non addirittura più efficace del sacrificio (è, infatti, detta sacrificio di lode), perché nella lode il popolo esprime la fede nella realtà dell’agire divino. I salmi sono la raccolta di tutte le forme della preghiera di Israele. IN SINTESI La storia è l’oggetto dell’interesse di Dio; dopo la creazione Egli agisce suscitando un popolo che accolga la sua rivelazione, lo serva, si adegui alla sua santità, si senta responsabile di un compito, quello di appartenere a Dio per realizzare la sua idea di comunità umana.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 35 di 38

Terra, regno e tutte le altre istituzioni sono finalizzate a questo impegno e progetto a cui Dio chiama il popolo. Dio ha in mente la convocazione di tutta l’umanità, ma nell’Antico Testamento il popolo è chiamato soprattutto a costruire la sua identità, differenziandosi o anche separandosi dagli altri popoli dei quali dovrà essere guida e luce. A questo sono finalizzate Legge, profezia e sapienza. L’Antico Testamento è vera rivelazione del Dio vero in relazione con gli uomini e può essere sufficiente al alimentare una fede vera, come accade per l’ebraismo. Noi cristiani, dopo aver conosciuto Cristo, abbiamo compreso che l’Antico Testamento è pienamente vero quando conduce al suo compimento che è Cristo. Di conseguenza sono possibili e doverosi due livelli di lettura di questi libri. Il primo, quello a cui introducono queste note, lo studia in se stesso; un secondo livello lo rilegge come preparazione della rivelazione cristiana e alla luce di essa. L’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento suppone però la conoscenza del Nuovo e non rientra nello scopo di questi appunti.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 36 di 38

Appendice PER CONTINUARE LO STUDIO 1. Per approfondire la riflessione stilla natura della Bibbia come Parola di Dio, che si incarna in opere letterarie nella storia della fede, prima di Israele e poi dei discepoli di Gesù: • Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, ed. Vaticana 1993 • CITRINI T., Identità della Bibbia, Queriniana, Brescia 1982 2. Un agile e aggiornata storia di Israele è: • MAZZINGHI, Storia di Israele, Piemme, Casale Monferrato 1991 3. Poiché del Pentateuco si parla ampiamente in queste note, ci limitiamo a suggerire qualche lettura per le altre sezioni dell’AT. Per i Profeti il testo più utile ci pare ancora quello di: • AMSLER S. (e coli.), I profeti e i libri profetici, Borla, Roma 1987. Questo libro fa parte della collana Piccola Enciclopedia Biblica dell’Ed. Borla. Anche gli altri volumi sono in genere ben fatti. Sempre sui profeti si può utilizzare anche un libretto più piccolo, ma ben impostato, con saggi di lettura: • SPREAFICO A., I profeti, EDB, Bologna 1993 4. Per i libri sapienziali può essere utile il volume quinto della citata Piccola Enciclopedia Biblica dell’ed. Borla, intitolato I Salmi e gli altri scritti. 5. Segnaliamo infine un sussidio che può essere utile soprattutto a chi insegna o fa catechismo per utilizzano con i suoi alunni. E corretto e aggiornato nei contenuti, ma soprattutto utile didatticamente per la presenza di schemi e grafici per la memorizzazione: • ELWELL W.A., Guida allo studio della Bibbia, LDC, Torino 1997 6. Ma, per tutti, vale in primo luogo il consiglio di sfruttare con intelligenza la massa di informazioni e sussidi che si trova in ogni buona Bibbia (come ad esempio nella TOB già consigliata). Bisogna leggere con attenzione le introduzioni, tener conto delle suddivisioni e dei titoli e sottotitoli, ponderare bene le note, consultare i passi paralleli indicati, utilizzare cartine e dizionari spesso presenti in appendice. E non bisogna aver paura di sottolineare e aggiungere a matita le osservazioni che di volta in volta risultano utili.

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 37 di 38

Indice Introduzione 3 Capitolo 1: La Bibbia 4 1. I due Testamenti 4 2. Il canone dell’Antico Testamento 4 3. Il testo dell’Antico Testamento 5 4. La Bibbia è Parola di Dio 6 Capitolo 2: Natura e origine del Pentateuco 7 1. L’ipotesi delle quattro fonti 7 2. Gli orientamenti attuali 8 3. Diversi tipi di testi nel Pentateuco 8 3.1 I testi jahvisti 9 3.2 I testi elohisti 9 3.3. I testi sacerdotali 9 3.3.1 La linea storica di “P” 10 3.3.2 Contenuto teologico dei testi “P” 11 Capitolo 3: Guida alla lettura del Pentateuco 12 1.GENESI 12 1.1 I miti delle origini 12 1.1.1 La creazione secondo P - 1, 1-2,4° 12 1.1.2 Il giardino, l’uomo, il serpente - 2,4b-3,24 12 1.1.3 Caino e la sua discendenza - 4, 1-26 13 1.1.4 La genealogia antidiluviana - 5, 1-32 13 1.1.5 Il diluvio - 6-9 13 1.1.6 La tavola dei popoli - 10-11 (tranne 11, 1-9) 14 1.1.7 La torre di Babele - 11,1-9 14 1.1.8 Il problema del rapporto con i dati scientifici 14 1.2 I patriarchi - Gen 12-36+ 38 14 1.2.1 Abramo - 12-23 15 1.2.2 Isacco e Giacobbe - 24-36+ 38 15 1.2.3 La storia di Giuseppe - 37-50 16 2. ESODO 16 2.1 Esodo 1-6: in Egitto 17 2.2 Es 7-15: i dieci prodigi e l’esodo dall’Egitto 17 2.3 Es 16-18: verso il Sinai 18 2.4 Es 19-40: al Sinai 19 3. NUMERI: DAL DESERTO ALLA TERRA 20 3.1 Le ribellioni 21 3.2 Le profezie di Balaam 21 3.3 Le vittorie 21 3.4 L’organizzazione del popolo 22 3.5 L’esperienza di Dio 22

Quaderni del Centro Pastorale – 12 Indicazioni per leggere l’Antico testamento

Pagina 38 di 38

Capitolo 4: IL Deuteronomio e la storia deuteronomistica 23 1. Il Deuteronomio e i deuteronomisti 23 2. I libri della storia deuteronomistica 24 Capitolo 5: I Profeti 25 1. Cronologia 25 2. Chi erano i Profeti 27 3. Il messaggio dei Profeti 27 Capitolo 6: Gli altri scritti 30 1. La letteratura sapienzale 30 2. L’Apocalittica 31 3. Cronache - Esdra - Neemia 31 Capitolo 7: Le grandi idee dell’Antico Testamento 33 Appendice: Per continuare lo studio 35