quaderni della ginestra 3

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rivista di appunti filosofici

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Page 1: Quaderni della Ginestra 3
Page 2: Quaderni della Ginestra 3

REDAZIONE

Direttore: Anna Maria Ricucci.

Vicedirettore: Corrado Piroddi.

Figure dell’individualismo: Ferruccio Andolfi, Simona Bertolini, Simona Del Bono, Antonio Freddi, Donatella Gorreta, Nau-

sicaa Milani, Giacomo Miranda.

Meditazioni filosofiche:Marco Anzalone, Elisa Bertolini, Valeria Bizzari (coordinatrice), Anna Pagliarini, Lavinia Pesci, Martino

Pesenti Gritti, Alberto Siclari, Timothy Tambassi, Roberto Venturini.

Cinema e filosofia: Marco Bigatti, Roberto Escobar, Pietro Parmeggiani, Corrado Piroddi (coordinatore).

Libri in discussione: Mara Fornari, Mirella Lucchini, Timothy Tambassi (coordinatore).

Esperienze didattiche: Teresa Paciariello (coordinatrice), Marina Savi, Chiara Tortora.

Letteratura e filosofia: Margherita Aiassa (coordinatrice), Alessandro Bonanini, Carlo Guareschi, Italo Testa.

Promozione: Marco Anzalone, Carlo Guareschi, Mirella Lucchini, Martino Pesenti Gritti, Anna Maria Ricucci.

Ricerca immagini, composizione, grafica e web: Margherita Aiassa, Marco Anzalone, Elisa Bertolini, Valeria Bizzari, Ales-

sandro Bonanini, Pietro Parmeggiani, Corrado Piroddi, Anna Maria Ricucci, Roberto Venturini.

Direttore responsabile: Ferruccio Andolfi.

Page 3: Quaderni della Ginestra 3

SOMMARIO

Figure dell’individualismo................................................................................................................................................p. 4

Controllo degli affetti e tessuto sociale. La teoria del processo di civilizzazione di Norbert Elias. Di Axel Honneth, Hans Joas a cura di

Giacomo Miranda.......................................................................................................................................... ........................................p. 5

Meditazioni filosofiche...................................................................................................................................................p. 16

Nietzsche e l’autodeterminazione dello spirito di Anna Pagliarini.......................................................................................................... .p. 17

“Dioniso contro il crocifisso”. Nietzsche nella teoria di René Girard di Martino Pesenti Gritti.............................................................p. 21

Cinema e filosofia............................................................................................................................................................p. 26

La forza della parola tra le mura de “La classe” di Anna Ricucci...................................................................................................... ....p.27

“Examined Life” di Astra Taylor di Antonio Freddi...........................................................................................................................p.31

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Letteratura e filosofia..................................................................................................................................................p. 36

Il paradosso della corporeità ne “La metamorfosi” di Kafka di Carlo Guareschi..................................................................................p. 37

“Il seno” e “La metamorfosi”. Roth e Kafka a confronto di Margherita Aiassa....................................................................................p. 41

Didattica e filosofia......................................................................................................................................................p. 46

Ecce musica! Di Francesco Gallina.................................................................................................... .................................................p. 47

Libri in discussione................................................................................................... .................................................p. 50

Per un individualismo democratico di Mirella Lucchini..........................................................................................................................p. 51

La liquidità delle Barbarie di Mara Fornari........................................................................................................... ................................p. 54

L’individuo e la comunità degli spiriti di Timothy Tambassi.................................................................................................................p. 59

Sempre di corsa: l’ossessione della fretta di Giacomo Miranda.............................................................................................................. .p. 60

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Figure dell’individualismo

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l capolavoro di Norbert Elias Il processo di Civilizzazione. Le trasforma-

zioni dei costumi nel mondo aristocratico occidentale (1939), scritto al tempo

del terzo Reich, destò scarso interesse quando fu pubblicato in tedesco,

ma fuori dai confini della Germania, dal suo autore emigrato. Nel primo

decennio del dopoguerra l’opera condusse un’esistenza anonima nel

quadro della sociologia. Il suo approccio storico e interpretativo la fece

passare inosservata ai sociologi, mentre il proposito di un’imponente

costruzione teorica le precluse il consenso degli storici di professione.

Solo per esempio nella cerchia di Helmuth Plessner e dei suoi allievi, o

di Hans Freyeri, la ricerca di Norbert Elias apparve come uno sforzo,

tanto pionieristico quanto sottovalutato, in grado di produrre risultati di

rilievo.

In anni recenti la situazione è andata incontro a rapidi cambiamenti.

Il libro di Elias è stato celebrato come un testo paradigmatico per

un’antropologia storica e ha così conosciuto numerosi, per quanto tar-

divi, apprezzamentiii; la chiarezza espositiva gli ha garantito vasta riso-

nanza; il legame, infine, con l’aspirazione a costituire un’alternativa alle

teorie dell’evoluzione di matrice sociologica, ma superiore ad esse per

concretezza storica, lo ha collocato allo stesso tempo in una posizione

che va ben oltre il genere letterario delle collezioni di curiosità storico-

culturali.

Per comprendere la rapida crescita di interesse che conobbe il lavoro

di Elias, al punto da condurre alla formazione di una schiera di sosteni-

tori assimilabile a una ‘scuola’, è necessario rivolgere un rapido sguardo

alle circostanze in cui fu composta la sua opera maggiore, nonché ai

motivi dell’odierna renaissance. In particolare Karl-Siegbert Rehbergiii si è

opposto alla stilizzazione che Elias suggerisce di se stesso quale pensa-

tore solitario, ma anche alla ricezione del suo libro ridotta ad un colpo

di fortuna individuale, dedicando al lavoro di Elias medesimo

un’interpretazione dettagliata e perspicua nel restituire l’orizzonte in cui

esso ebbe origine. E tale orizzonte consta dei tentativi di determinare la

genesi del mondo borghese attraverso l’emergere dei caratteri peculiari

della razionalità borghese. Sebbene Elias sia parco di riferimenti a que-

ste fonti, le indagini di Max Weber, Scheler, Troeltsch o Groethuysen

non sono molto distanti nella formulazione delle questioni di principio.

L’originalità dell’approccio di Elias, tuttavia, risiede anzitutto nella scelta

di non esaminare la borghesia come guida di un processo di razionaliz-

I

CONTROLLO DEGLI AFFETTI E TESSUTO

SOCIALE. LA TEORIA DEL PROCESSO DI

CIVILIZZAZIONE DI NORBERT ELIAS. DI AXEL HONNETH, HANS JOAS1

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zazione progressiva ma, principalmente, le élite aristocratiche, mettendo

a fuoco in un altro voluminoso scritto la ‘società di corte’iv. Si pongono

così le questioni circa il rapporto tra la dinamica fissata da Elias e le li-

nee di sviluppo sociale messe in rilievo da altri studiosi; ma, soprattutto,

l’approccio adottato consente al nostro autore di procedere oltre la mera

ricostruzione storica generalizzando il suo programma in una teoria di

ampio respiro.

Un’altra conquista non priva di originalità è legata al fatto che Elias si

riferisce molto meno ai contenuti ideologici, nell’accezione di vasti si-

stemi esplicativi, ed opta invece principalmente per le forme della cor-

poreità e dell’interazione immediata. È ben questo però un ambito cen-

trale di applicazione dell’antropologia storica, nella cui prospettiva può

sembrare inevitabile occuparsi di Elias.

Ora, non vi è dubbio che proprio la questione dei limiti della raziona-

lità imperante e dei costi della nostra civilizzazione, posta al centro del

dibattito nel decennio passato, abbia fatto rivivere la problematica stori-

ca riguardante l’origine del mondo borghese; e che, con lo spostamento

delle prospettive di trasformazione in senso soggettivistico, qualunque

trattazione storica della corporeità abbia guadagnato in attrattiva. La

combinazione di entrambi gli aspetti fu ulteriormente rafforzata dalle

idee che numerosi autori propugnarono. Ma con l’impostazione di Elias

si presentò un’alternativa autentica alla teoria della storia elaborata dal

materialismo storico, autenticità suggellata dal fatto che nell’analisi della

genesi dello stato moderno egli rimandò al difetto di principio di una

teoria dello stato derivata da Marxv. Occorre anzitutto rivolgere uno

sguardo d’insieme al metodo di Elias per poi discutere nei particolari se

il suo lavoro abbia soddisfatto i requisiti di un’antropologia storica e sia

stato all’altezza dell’affermazione di una superiorità nei confronti del

materialismo storico.

Lo studio di Elias, come si evince dalla sua presentazione, nasce «dal-

le esperienze che noi tutti viviamo, le esperienze della crisi e della tra-

sformazione dell’attuale civiltà occidentale, e dalla semplice necessità di

conoscere che cosa sia in realtà questa ‘civiltà’»vi.

Elias vuole comprendere la civilizzazione nella forma di un processo

e si concentra sull’esperienza di esigenze e paure sorte, nella loro speci-

ficità, solo con l’avvento di questo processo: ma persegue un simile o-

biettivo non confidando, al modo degli evoluzionisti, in un progresso

costante dell’umanità e neppure nutrendo ostilità verso la civilizzazione

stessa, bensì sviscerando, con un criterio marcatamente ‘avalutativo’,

forme di regolarità protrattesi nel tempo. Scopo di Elias è coniugare la

trasformazione, dispiegatasi in grandi correnti storiche, delle strutture

della personalità con processi struttural-sociali di lungo corso, senza su-

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Figure dell’individualismo

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bordinare allo sviluppo storico

connessioni riconducibili alla lega-

lità naturale. La sua tesi cardine

porta a questo esito:

l’instaurazione di un crescente

controllo degli affetti, e di un re-

gime di disciplina che i singoli a-

genti si impongono, è comprensi-

bile solo come il risultato di pro-

cessi di interconnessione sociale

sempre più fitta che, a livello ma-

crosociologico, si riflettono

nell’emergenza dello stato assolu-

tista in quanto prima forma di sta-

to moderno. L’origine di una forte

azione interiorizzata di controllo

del comportamento sembra,

quindi, inseparabile dall’origine del monopolio esercitato dallo stato

moderno sulla violenza e sulla riscossione delle tasse.

Elias inizia la sua indagine con una storia dei concetti di ‘cultura’ e

‘civilizzazione’. Nello specifico mostra come, nel quadro di

un’opposizione di significato tra questi concetti, l’antagonismo origina-

rio dell’intellighenzia tedesca con la classe sociale più alta gravitante intor-

no alla corte assunse i connotati di un contrasto nazionale tra il ‘caratte-

re essenziale’ tedesco e quello francese. Un taglio di questo genere, che

tende a minimizzare in maniera discutibile la tradizione rousseauiana in

Francia, è solo il preludio alla vera impresa storiografica di Elias, il ten-

tativo cioè di scrivere una storia dei costumi. Egli dimostra uno straor-

dinario ingegno nella citazione delle fonti – testi che prescrivono un

contegno appropriato, manuali di galateo e così via – per provare e illu-

strare la trasformazione storica. L’impressione più vivida che suscitano i

luoghi tratti dalle fonti si traduce nello stupore per il complesso di que-

ste regole di comportamento, tutt’altro che ovvie e perciò vincolate ad

un richiamo necessario; regole che oggi ci sembrano invece naturali e da

dare per scontate:

Non si deve rimettere sul vassoio comune il boccone già messo in bocca: questa prescrizione è ripetuta più volte. Altrettanto spesso si ammonisce di lavarsi le mani prima di mangiare, o di non immergere il cibo nella saliera. Inoltre viene ripetuto di continuo che non ci si devono pulire i denti con il coltello, che non si deve sputare sulla tavola o al di sopra di essa. [...] Non ti pulire i denti col tovagliolo. Non offrire ad altri i resti della tua minestra o il pezzo di pane che hai già addentato, e non soffiarti il naso troppo rumorosamente. Non addormentarti a tavola, e similivii.

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Con grande acutezza Elias delinea il processo che coinvolse

l’individuo in una graduale presa di distanza dal proprio corpo – così

come avvenne tra i corpi degli altri individui – nel frangente delle usanze

a tavola, della storia degli utensili impiegati per mangiare, delle abitudini

di sonno e degli usi in bagno, della sessualità e dell’aggressione. La dovi-

zia di particolari della documentazione e la forza persuasiva

dell’interpretazione, tuttavia, risultano meno marcate nel caso di sessua-

lità e aggressione che in altre sezioni dello studio di Elias, una differenza

dovuta probabilmente al privilegio accordato a particolari fonti docu-

mentarie. E tuttavia come spiega Elias il processo sopra menzionato?

Resta ora da esaminare più da vicino quali trasformazioni della strut-tura sociale siano state propriamente provocate da questi meccanismi psichici, quali trasformazioni delle eterocostrizioni siano state avviate da questa ‘civilizzazione’ delle manifestazioni affettive e del comportamen-toviii.

Il secondo volume è dedicato alla risposta a questa domanda.

Sull’esempio soprattutto della storia francese a partire dalla tarda età ca-

rolingia, Elias ricostruisce i meccanismi d’origine della società feudale,

nonché il suo transitare nella forma sociale delle monarchie assolutiste.

Non è questa la sede adatta per riprodurre nel dettaglio le esposizioni

condotte da Elias; ciò che tuttavia colpisce è l’emergere della ‘concor-

renza’ e del ‘meccanismo di monopolio’ come le due forme più impor-

tanti di regolarità ricorrente. Per quanto entrambi i concetti attengano,

come di consueto, all’analisi del capitalismo, Elias li utilizza in un signi-

ficato che dilata la prospettiva storica, ma, in questo modo, essi perdono

il loro senso specifico e manifestano una forte analogia con le nozioni di

‘differenziazione’ e ‘integrazione’ mutuate dalla tradizione evoluzionisti-

caix. Di conseguenza il corso della storia, in una modalità relativamente

formale, viene ricondotto a un modello lineare:

Per quanto complicati possano apparire a prima vista i meccanismi della rete di interdipendenze nel cui quadro procede la civilizzazione occidentale del comportamento, lo schema di questi meccanismi è invero piuttosto semplice: tutti i singoli fenomeni che abbiamo sin qui illustrato – il lento miglioramento dello standard di vita di ampi strati della popolazione, la più stretta dipendenza funzionale degli strati superiori, la stabilità dei monopoli centrali – sono conseguenze e manifestazioni parziali di una divisione delle funzioni che procede a ritmi più o meno accelerati. La divisione delle funzioni stimola la crescita della produttività del lavoro; l’accresciuta produttività del lavoro è la premessa per il miglioramento dello standard di vita di strati sempre più ampi; la divisione delle funzioni accresce inoltre la dipendenza degli strati superiori. Soltanto a partire da un livello assai elevato di divisione delle funzioni diviene però possibile la formazione di più stabili monopoli della costrizione fisica e del fisco che comportano amministrazioni monopolistiche fortemente specializzate – ossia la formazione di Stati nel significato occidentale del termine – che poco a poco garantiscono alla vita dell’individuo una sempre maggiore ‘sicu-

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rezza’. Ma questa divisione delle funzioni provoca anche la reciproca dipendenza di masse umane sempre più numerose e di sempre nuove regioni; esige e inculca nel singolo un crescente riserbo, una più rigorosa regolazione del suo comportamento e dei suoi affetti; richiede una più forte repressione delle pulsioni e, a partire da un determinato livello, una più costante autocostrizione. Questo è il prezzo – se così possiamo chiamarlo – che dobbiamo pagare per la maggior sicurezza e per tutti gli altri vantaggi del generex.

Oltre a provvedere una sintesi del nocciolo del pensiero di Elias in

merito a una teoria della storia, questo passo mette in risalto due aspetti.

In primo luogo mostra quanto sia ambivalente la valutazione del pro-

cesso di civilizzazione operata da Elias e quanto un vago rafforzamento

dell’autocostrizione si collochi a metà tra i due significati, da un lato, di

liberazione che rende possibile l’autodeterminazione e, dall’altro, di co-

ercizione di sé che risulta di ovvia necessità per la sicurezza del vivere in

società, ma che nondimeno agisce come una forza repressivaxi.

In secondo luogo rivela quanto grande sia l’onere della prova impo-

sto dalla costruzione storica di Elias alla sua idea di interiorizzazione

delle costrizioni esteriori. Solo quando è in grado di identificare le con-

dizioni antropologiche e psicologiche che determinano la possibilità del-

le tendenze prese in esame, la suddetta costruzione va oltre i limiti di

una suggestiva – benché manchevole nello stabilire relazioni causali –

combinazione di linee di sviluppo a lungo termine.

Pertanto è ancora più sorprendente constatare quanto poco Elias

spieghi i fondamenti antropologici della sua teoria della socializzazione.

Il modo originale di procedere

da lui adottato – delineare la

genesi storica del Super-Io at-

tenendosi liberamente a Freud,

e quindi integrare tale Super-Io

entro gli sforzi non psicologici

di render conto della genesi del

mondo borghese – non lo por-

ta a definire più nettamente, sul

piano teorico, il suo rapporto

con Freud. Senz’altro Elias

menziona punti di divergenza

con la teoria freudiana, limitan-

dosi tuttavia ad abbozzarli. Di-

viene d’altro canto esplicito il

suo tentativo di sistemare le i-

dee psicanalitiche nella cornice di un modello teorico desunto dalle pri-

me espressioni del comportamentismo. Ciò non riguarda solo la sua

propensione a parlare incessantemente di ‘condizionamento’, ma appar-

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tiene anche alla sostanza dell’argomentazione svolta. Dalla vita chiusa

degli esseri umani in società Elias conclude la necessità ineludibile che

essi rinuncino a seguire e ad appagare i loro impulsi. Si pretende che il

bambino eserciti una costrizione di questo tipo sugli impulsi, finalità

conseguita instillando in lui paure e addestrandolo alla disciplina così

che manifesti da sé un comportamento socialmente desiderabile e ogni

trasgressione alle proibizioni sociali gli appaia assai temibile. Elias accen-

tua espressamente la necessità di usare la paura in qualunque forma e-

ducativa:

L’adolescente non perviene mai a regolare il suo comportamento se non intervengono le paure provocate in lui dagli altri. Senza la leva di queste paure, il giovane animale umano non diventerà mai un essere adulto meritevole del nome di uomo...xii.

Ciononostante prende corpo un’indubbia differenza rispetto a tutte

le versioni della psicanalisi che non offrono modelli alternativi di educa-

zione non foriera di paure: infatti Elias assume semplicemente la possi-

bilità di una disciplina del potenziale degli impulsi che serva, almeno in

parte, a reprimerli ma senza imporre a posteriori dei costi nei termini di

energie inibitorie o disturbi nevrotici. Mentre anche in Freud viene dife-

sa la necessità culturale di sottoporre gli impulsi a misure coercitive, pur

conservandosi l’esigenza che le aspirazioni alla vita associata siano giu-

stificabili razionalmente, fine di Elias è dimostrare l’aumento lineare del-

la necessità di un autocontrollo repressivo. Egli può così concepire

l’interiorizzazione di un simile controllo solo come il cieco meccanismo

automatico di costrizioni comportamentali che generano paura, e non in

quanto interiorizzazione, flessibile ed accessibile all’Io, di norme scaturi-

te dal riconoscimento della loro necessità o utilità.

Pertanto i desideri che nell’individuo nascono dagli impulsi collidono senza mediazione con i controlli del Super-Io. Gli impulsi si affannano incessantemente nella lotta contro i vincoli sociali e non trovano aiuto in un’istanza che possa entrare in dialogo con la società intorno a quegli obblighixiii.

Un Io quale istanza autonoma non esiste nel modello di personalità

di Elias, viene impercettibilmente incorporato nel Super-Io.

Una prima critica al modello di storia di Elias è stata già accennata

nella presentazione della sua teoria. Tale modello risulta molto più for-

malistico e prossimo a obsolete teorie evoluzionistiche di quanto la ric-

chezza di materiale storico-documentario induca a credere. Elias sostie-

ne una regolarità nel mutamento delle forme sociali che si mantiene co-

stante, e che – nella misura in cui, in generale, risultasse dimostrabile –

non è intesa come l’esito di una conquista di autonomia, da parte delle

istituzioni, suscettibile di essere nuovamente perduta. L’incremento nel-

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Figure dell’individualismo

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la divisione delle funzioni non è derivato dalle dimensioni

dell’organizzazione della produzione, appare invece come una necessità

che cresce linearmente. La ‘concorrenza’ non è distinta da forme di co-

operazione radicate nella solidarietà, sembra piuttosto una legge impos-

sibile da mettere a margine e che può essere liquidata solo stabilendo

unità di dominio sempre maggiori.

In un articolo più recente (1977)xiv, Elias illustra la sua nozione di

storia avvicinandola esplicitamente alle idee di Darwin e ritenendola,

similmente a quest’ultimo, un progresso privo di finalità ma non inespli-

cabile. Ora, è certamente corretto affermare che la spiegazione della sto-

ria non si può costruire sulle intenzioni finalizzate dei singoli attori o di

collettività agenti; lo storico deve altresì tener conto, senza relegarle ad

una funzione accessoria, delle conseguenze impreviste dell’agire, della

dinamica propriamente riconducibile a oggettificazioni e istituzionaliz-

zazioni, nonché degli effetti strutturali di nessi dell’agire medesimo tra

loro correlati. D’altro canto il legame delle intenzioni degli agenti con la

storia non deve essere scisso così drasticamente come fa Elias, appunto

perché una connessione interna tra agire ed effetti e conseguenze dive-

nute indipendenti può essere provata solo se la situazione, colta in una

dinamica di sviluppo, in cui si attua l’interconnessione sociale è concepi-

ta in termini di categorie dell’azione.

Il pathos dell’avalutatività alla luce della quale Elias presenta la sua

teoria è la conseguenza logica di questa premessa: il problema posto dai

valori necessariamente soggiacenti ad una ricostruzione storica, e che

includono in sé le caratteristiche di un futuro desiderabile, non nasce

soltanto quando lo sviluppo storico viene piegato ad una concezione

evoluzionistica secondo l’uso del XIX secolo. L’illustrazione più eviden-

te del mancato riconoscimento di questo difetto nell’approccio di Elias

è offerta dalla ricezione della sua teoria della formazione dello stato. È

certamente corretto che la formazione dello stato goda di una relativa

autonomia, non passibile di essere risolta nella conformità a determinate

leggi del modo di produzione. E tuttavia si

rivela del tutto fuorviante cercare di combinare esternamente una dina-

mica, compresa in chiave evoluzionistica, dello sviluppo delle modalità

produttive con una corrispondente dinamica di sviluppo delle forme

dello stato. Ciò che fa difetto al materialismo storico non è il profilarsi

di una simile teoria dello stato o della sovrastruttura, bensì il collegarsi

reciproco e storicamente concreto dei processi sociali, che si dispiegano

in una prospettiva di conformità a leggi naturali, con l’azione in una di-

mensione della ‘politica’ pragmaticamente intesaxv.

Una prova ulteriore del pericolo di derive meccaniciste nel modello

di Elias viene alla luce esaminando le affermazioni relative all’estensione

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alle classi inferiori, o ai popoli colonizzati, dei risultati emersi dallo stu-

dio di quelle superiori. Il punto debole dell’approccio di Elias non con-

siste tanto nell’aver accordato un particolare

privilegio all’indagine delle classi superiori,

quanto nell’aver presupposto una diffusione

trasversale dei fenomeni a loro peculiari. Le

stratificazioni sociali, le classi e i popoli sono

lontani dall’essere concepiti in base a schemi

d’azione e forme culturali stabilite a partire

dalla divisione sociale del lavoro, bensì gravi-

tano, in ossequio alla tradizione della storio-

grafia culturale, attorno a un quadro concet-

tuale dominato dai termini di ‘influsso’ e ‘tra-

dizione’. Dal punto di vista di Elias, le loro

forme proprie appaiono antiquate e barbare,

non resistenti ad essere soppiantate né dotate

di una capacità intrinseca di sviluppo.

Data questa costruzione ipersemplificante

del modello storico, tuttavia, alcune conquiste

nell’opera di Elias si rivelano sotto una luce non veritiera. Sfugge così

alla nostra valutazione il fatto che l’autore incontri difficoltà nel rendere

ragione di dinamiche di sviluppo in perfetta antitesi con la sua

costruzione, il che vale soprattutto per la sfera della sessualità. Una

morale sessuale più permissiva e un mutato

atteggiamento verso la nudità denunciano,

secondo Elias, movimenti di liberalizzazione

che si producono alla radice del controllo

stabilito sugli affetti e del distanziamento dalla

corporeità. Sotto certi aspetti può essere vero,

ma la prospettiva del discorso finisce per

restringersi al caso di un ordinamento sociale

effettivamente benevolo nei confronti degli

impulsi e che esige una minore

autocostrizione.

Anche sul terreno dell’aggressione, o

‘aggressività’, la spiegazione di Elias che

invoca un aumento del controllo non è del

tutto oggettiva. Muovendo dalle

considerazioni svolte nella sua opera, egli

giunge alla conclusione che la società

premodernaxvi non può essere affatto caratterizzata da un’aggressività

dei singoli svincolata da qualunque forma di inibizione. Tuttavia nel

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Figure dell’individualismo

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descrivere il fenomeno non viene menzionato rispetto a chi valessero le

ferree norme della pace, né chi fosse preda di un’aggressività sfrenata:

Nessun ostracismo sociale puniva queste esplosioni di crudeltà, che non erano messe al bando dalla società. Il piacere di torturare e uccidere era grande, ed era un piacere cui la società consentiva. Anzi, entro certi limiti la struttura sociale spingeva in questa direzione, giudicando necessario tale comportamento quando fosse funzionale a uno scopoxvii.

L’assenza di forze di contenimento dell’aggressività non si deve

imputare a un difetto generale nel controllo degli affetti, è altresì

riconducibile ai confini netti tra la morale interiore e la morale che

interviene nella relazione con gli estranei. Poiché nemmeno la pace,

nello spazio interno ai gruppi sociali, era assicurata dall’interiorizzazione

(‘coscienza’), ecco che nella stessa misura forme relazionali ritualizzate e

tabù esteriori furono deputati a garantirla. D’altra parte dare libero

sfogo all’aggressione contro l’estraneo o l’escluso rientra ancora oggi nel

patrimonio fondamentale dei meccanismi d’integrazione sociale.

Laddove Elias fa supporre una diminuzione lineare delle manifestazioni

aggressive, sarebbe invece opportuno pensare alla graduale sostituzione

di forme d’integrazione esaurite in una ritualità esteriore con le

potenzialità del chiarirsi discorsivamente, componendo così i conflitti

all’interno dei gruppi sociali. Ad esempio George Herbert Meadxviii, nella

sua analisi dei meccanismi psicologici concomitanti alla giustizia

punitiva, ha dato rilievo a quanto l’esistenza di un binomio schematico

amico/nemico sia il rovescio della medaglia della mancanza di processi

discorsivi funzionali a disciplinare la volontà e a creare consenso.

Si è detto che l’originalità di Elias risiede nell’addurre non solo

l’esempio della borghesia ma anche, e con una funzione essenziale, quel-

lo dell’aristocrazia per spiegare la genesi della razionalità nel mondo

borghese. È indiscutibile il ruolo giocato dall’assolutismo aristocratico ai

fini dell’affermarsi di una razionalità formale. Elias, tuttavia, non riesce a

rendere perspicua la relazione tra aristocrazia e borghesia nell’arco di

questo sviluppo; in particolare circoscrive eccessivamente la sua indagi-

ne ai requisiti ‘di etichetta’ invalsi presso la corte reale, limita il campo di

ricerca alla cerchia dei rappresentanti del sistema di potere assolutistico

e non prende in considerazione gli altri ‘ruoli inediti’ che la classe feuda-

le si trovò costretta ad apprendere: accanto al ‘cortigiano elegante e raf-

finato’, la figura dell’‘ufficiale disciplinato’, del ‘funzionario dalle buone

maniere’ e del ‘proprietario terriero assennato nell’amministrare il suo

patrimonio’ (cfr. Anderson 1974). La pressione ad adottare forme ra-

zionali di economia e gestione dei beni sarebbe da riportare all’interesse

per il controllo delle masse degli agricoltori, nonché alla commistione

con i settori in espansione dell’economia borghese. Un ritratto concreto

di questa dinamica metterebbe in luce, tra le altre cose, quanto poco i

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concetti di ‘formazione del monopolio’ e ‘concorrenza’ rendano giusti-

zia al fenomeno centrale dell’assolutismo quale viene descritto da Perry

Anderson:

L’aumento dell’autorità politica dello stato monarchico fu accompagnato non dal declino della sicurezza economica della proprietà fondiaria nobiliare, ma da un aumento corrispondente dei diritti generali della proprietà privata. L’epoca in cui fu imposta un’autorità pubblica ‘assolutista’ fu nel contempo anche l’epoca in cui si consolidò progressivamente il carattere ‘assoluto’ della proprietà privataxix.

L’assolutismo non equivaleva in alcun modo al dispotismo orientale,

per il quale il modello di Elias non offre risorse esplicative.

Le varie imperfezioni della ricostruzione di Elias sono riassumibili

come segue: la riduzione dell’interiorizzazione delle norme, nel corso

della socializzazione, ad una direzione quasi-automatica, compulsiva, del

comportamento; la separazione della storia dall’azione intenzionalmente

strutturata di singoli individui, gruppi e classi; l’erronea identificazione e

descrizione della dimensione di una politica guidata da processi

decisionali collettivi; la mancata considerazione delle forme discorsive

che partecipano al costituirsi di una decisione; il fatto di aver

marginalizzato le richieste di legittimità che necessariamente si

accompagnano al monopolio della violenza detenuto dallo stato: tutto

ciò ostacola la prospettiva di una civilizzazione futura contraddistinta da

una minore autocostrizione e meno soggetta ad un’autorità centrale.

Colto con lo sguardo di una neutralità avalutativa, secondo Elias lo stato

ha «il carattere di organo supremo di coordinamento e

regolamentazione di tutto il complesso dei processi di divisione delle

funzioni»xx. L’approccio di Elias lascia in ombra sia la possibilità di

autodeterminazione individuale nel rapporto del singolo con se stesso,

con il proprio corpo e con gli altri, sia al contempo la possibilità di

revocare lo stato nell’organizzazione sociale dei ‘produttori associati’.

TRADUZIONE DI GIACOMO MIRANDA

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Figure dell’individualismo

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1 Il presente paragrafo è tratto dalla terza parte di A. Honneth, H. Joas, Soziales Handeln und menschliche Natur. Anthropologische Grundlagen zur Sozialwissenschaften, Campus Verlag, Frankfurt/New York 1980, pp. 115 – 123. Per la traduzione ho tenuto conto della versione inglese Social action and human nature, a cura di R. Meyer, Cambridge University Press, Cambridge 1988. i Cfr. H. Freyer, Theorie der gegenwärtigen Zeitalters, Stuttgart 1976, p. 53 e segg. ii Il più spettacolare, senza dubbio, fu l’assegnazione del ‘Premio Adorno’ a Norbert Elias da parte della città di Francoforte (Cfr. Elias/Lepenies 1977). iii Cfr. K. S. Rehberg, Form und Prozeß. Zu den katalysatorischen Wirkungschancen einer Soziologie aus dem Exil: Norbert Elias, in P. Gleichmann et al., Materialen zu Norbert Elias’ Zivilisationtheorie, Frankfurt am Main 1979, pp. 101– 169. iv Cfr. N. Elias, Die höfische Gesellschaft, Neuwied 1969; trad. it. La società di corte, a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1980. v Cfr. G. van Benthem van den Bergh, Is a Marxist theory of the state possible?, in P. Gleichmann et al. (ed.), Human Figurations. Essays for Norbert Elias, Amsterdam 1977; F. Matzner, Die Soziogenese des Staates nach Elias und Schumpeter. Ihr Beitrag zu einer Theorie staatlicher Interventionen, Wissenschaftszentrum Berlin, discussion paper 79–57. vi N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation, vol. I, 1936, 19692, p. XXX; trad. it. La civiltà delle buone maniere, a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1982, 20092 , p. 76. vii Ibidem, p. 164. viii Ibidem, p. 363. ix Cfr. N. Elias, Zur Grundlegung einer Theorie sozialer Prozesse, in Zeitschrift für Soziologie, 6, 1977, pp. 127–149. x N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation, vol. II, 1937, 19802, p. 422; trad. it. Potere e civiltà, a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1983, 20102, p. 398. xi Questa assomiglia molto alla posizione di Plessner; cfr. p. 83 e segg. del presente la-voro. xii Ibidem, p. 422. xiii A. Wehowsky, Studie zu Norbert Elias: Über den Prozeß der Zivilzation, Soziologische Diplomatarbeit FU Berlin, 1976, p. 78. xiv Cfr. supra. xv In particolare lo ha mostrato Antonio Gramsci. xvi Cfr. K. H. Osterloh, Die Entstehung der westlichen Industriegesellschaft und die Revolution der Interaktionsweisen. Europäischer Kulturwandel als psychosoziales Problem, in Archiv für

Kulturgeschichte, 58, 1976, pp. 340 – 370. xvii N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation, vol. I, 1936, 19692, p. XXX; trad. it. La civiltà delle buone maniere, a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1982, 20092, p. 349. xviii Cfr. G. H. Mead, The psychology of punitive action, in American Journal of Sociology, 23, 1918, pp. 577– 602. xix P. Anderson, Lineages of the Absolutist State, 1974, p. 429; trad. it. Lo stato assoluto, a cura di R. Pasta, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1980, p. 383. xx N. Elias, Über den Prozess der Zivilisation, vol. II, 1937, 19802, p. 422; trad. it. Potere e civiltà, a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1983, 20102, p. 218. LE PRIME DUE OPERE RIPRODOTTE SONO DI LUCA MAZZIERI. L’ULTIMA OPERA RIPRODOTTA È DI FABIO IEMMI.

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Meditazioni filosofiche

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Meditazioni filosofiche

17

‹‹Tre metamorfosi vi cito dello spirito: di come lo spirito si trasforma in cammello e il cammello in leone e da ultimo il leone in bambino. Per lo spirito ci sono molte cose gravose, per il forte e tollerante spirito in cui alberga il timore reverenziale. La sua forza esige pesi e pesi ancora più gravosi. “Che cosa è pesante?” Così chiede il tollerante spirito, così s’inginocchia a terra, simile al cammello e vuol venire caricato bene. “Che cosa è più pesante di tutto, o eroi” così chiede il tollerante spirito “perché io lo carichi su di me e mi rallegri della mia forza? Non è forse mortificarsi per far male alla propria superbia! Lasciar splendere la pro-pria stoltezza per farsi beffe della propria saggezza? Oppure è questo: separarci dalla nostra causa quando festeggia la sua vittoria? Salire su alti monti per tentare il tentatore? Oppure è questo: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e per amore della verità patire la fame dell’anima? Oppure è questo: essere ammalati e rimandare a casa le per-sone venute a consolare, e fare amicizia con i sordi che non ascoltano mai quel che vuoi tu? Oppure è questo: entrare in un’acqua sporca pur-ché sia l’acqua della verità e non allontanare da sé le rane fredde e i bol-lenti rospi? Oppure è questo: amare coloro che ci disprezzano e tendere la mano allo spettro che vuole metterci paura?” Lo spirito tollerante si carica di tutte queste cose difficilissime: simile al cammello che si affret-ta carico nel deserto, così si affretta anche lui nel suo deserto. Ma nel deserto più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito di-viene leone, vuole conquistarsi la libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: vuole diventare nemico suo e del suo ultimo dio, vuol combattere per la vittoria con il grande drago. Qual è il grande drago che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? Il grande drago si chiama “Tu devi”. Ma lo spirito del leone dice “Io voglio”. “Tu devi” gli sbarra il cammino, scintillante d’oro, animale

squamato e su ogni squama splende aureo “Tu devi!” Su queste squame splendono valori millenari e così parla il più potente di tutti i draghi: “Tutti i valori delle cose splendono su di me. Tutti i valori sono già stati creati e io sono tutti i valori creati. In verità, nessun “Io voglio” deve più esistere!” Così parla il drago. Fratelli miei, a che scopo c’è bisogno del leone nello spirito? A cosa non basta l’animale da soma che rinuncia e prova timore reverenziale? Creare nuovi valori – neppure il leone ci riesce: ma procurarsi libertà di creare – questo il potere del leone riesce a farlo. Per procurarsi libertà e un sacro No anche dinanzi al dovere: per questo, fratelli miei, ci vuole il leone. Prendersi il diritto di stabilire nuo-vi valori – questo è il più terribile atto per uno spirito tollerante e rive-rente. In verità per lui è un rapinare: una cosa per animale da preda. Un tempo amava come suo dovere più sacro il “Tu devi”: ora anche nel suo dovere più sacro deve trovare la pazzia e l’arbitrio per potersi prendere con la forza la libertà dell’amore: per questa rapina ci vuole il leone. Ma dite fratelli miei, che riesce a fare il bambino che non riesca a fare anche il leone? A che scopo il leone predatore deve divenire bambino? Inno-cenza è il fanciullo e dimenticanza, un nuovo inizio, un gioco, una ruota che gira da sola, un primo movimento, un sacro dire di sì. Sì, per il gio-co del creare, fratelli miei, ci vuole un sacro dire di sì: ora lo spirito vuo-le la sua volontà, il senza mondo si conquista il suo mondo. Tre meta-morfosi dello spirito vi ho citato: di come lo spirito si è trasformato in cammello e il cammello in leone e il leone da ultimo in bambino››. Così parlò Zarathustra. E all’epoca dimorava nella città detta Mucca Pezzata.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Giunti Editore, Firenze 2006, pp. 31-33.

NIETZSCHE E L’AUTODETERMINAZIONE

DELLO SPIRITO

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Quaderni della Ginestra

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uesto celebre brano dello Zarathustra è in grado di affascinare il

lettore non solo per il contenuto che l’autore esprime, ma anche

per il modo in cui lo esprime, che risulta essere poetico e magico come

in una favola. Molto interessante e sempre attuale è il senso del testo,

che descrive l’evoluzione dello spirito da una dimensione di dipendenza

e sofferenza voluta, a una situazione di emancipazione e autonomia. Lo

spirito, infatti, non solo si è permesso di sfidare la morale tradizionale e

precostituita, ma è stato anche capace di uscire vittorioso da questo

scontro, giungendo alla possibilità di creare valori propri e autentici.

Lo spirito del cammello ben sopporta le fatiche, è contento di obbedire

alla morale tradizionale ed è orgoglioso della sua pazienza e forza nel

sopportare i pesi della vita. Esso stesso vuole portare su di sé tali pesi,

per poter mostrare a tutti, e in primo luogo a se stesso, quanto è corag-

gioso e paziente. Il cammello, nella solitudine del deserto, diventa leone

e scopre l’esigenza di essere libero dalle sofferenze e dagli obblighi, per

essere finalmente autonomo e indipendente. Questa seconda evoluzione

dello spirito ci ricorda l’importanza della capacità critica e di pensiero

autonomo, tipico di chi è in grado di mettersi in discussione e rivalutare

i precetti morali ed etici acquisiti nel tempo; cambiare idea è, infatti, se-

gno di maturità e intelligenza, non di indecisione o fragilità. Lo spirito

del leone è uno spirito che vuole essere adulto, slegato da ogni forzatura

Q

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Meditazioni filosofiche

19

e libero di vivere secondo ciò che ritiene più giusto, è uno spirito che

vuole bastare a se stesso, essere autosufficiente e autore del proprio de-

stino. L’attualità e l’importanza di questa seconda fase dello spirito è e-

vidente ancora oggi, difatti ci rendiamo sempre più conto che il pensiero

autonomo e critico è elemento necessario e fondamentale per la costru-

zione della personalità libera, consapevole e autonoma. Solo in questo

modo si può evitare di essere in balìa delle circostanze, vittime di false

convinzioni e falsi miti, ed essere, al contrario, capaci di diventare pro-

tagonisti consapevoli della propria vita. Il drago, in questo senso, oltre

a rappresentare l’obbligo della morale, diviene portatore di tutto ciò

che è imposto dall’alto, alludendo a una situazione in cui il soggetto non

è in grado di valutare le imposizioni, che accetta passivamente, e non ha

la possibilità di disobbedire o di rifiutare tali precetti. Nel tentativo di

costituire una nuova e propria morale, quindi, il leone rappresenta la ri-

bellione alla morale data dall’alto e obbligatoria.

In questo momento subentra la terza e ultima evoluzione dello spirito

che da leone diventa bambino. Non è sufficiente la sola ribellione, oc-

corre, dopo aver sconfitto il drago, la capacità di trovare un’alternativa

alla vecchia morale; la semplice vittoria sul drago, infatti, non porta ne-

cessariamente alla sostituzione della morale tradizionale con una morale

nuova. Per fare questo, bisogna che il leone diventi bambino, per poter

ritrovare «quel sacro dire di sì», quella purezza tipica del fanciullo che

permette il nuovo inizio, ovvero la formulazione di nuovi valori tramite

un atto creativo. Questa nuova morale richiede l’eliminazione della vec-

chia e il nuovo inizio può verificarsi solo a partire da una situazione di

autenticità e genuinità tipiche del fanciullo.

In conclusione, possiamo dire che le tre metamorfosi ben rappresenta-

no il cammino di emancipazione dello spirito. Partendo dallo spirito tol-

lerante e paziente del cammello che non ha alcuna intenzione né capaci-

tà di ribellarsi alla morale tradizionale, che anzi rispetta volentieri, si

giunge al leone che sfida la morale vigente, nel tentativo di emanciparsi

da essa per creare in autonomia una nuova morale che sia propria e per-

sonale. Per fare questo, tuttavia, è necessaria l’ultima evoluzione che è

quella del bambino: solo grazie alla genuinità e alla purezza del fanciullo

è possibile il nuovo inizio.

ANNA PAGLIARINI

L’OPERA RIPRODOTTA È DI MASSIMO VIOLI

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IN LIBRERIA A SETTEMBRE

Ritorno della razza e nuove schiavitù

Thomas Casadei, Neorazzismo, neoschiavismo

Etienne Balibar, Lo schema genealogico: razza o cultura?

Gaia Giuliani, Assegnazione del colore e lavoro servile, Il fenomeno del blackbirding nel contesto australiano

Dino Costantini, Metamorfosi dell’integrazione, Dalla non-discriminazione al razzismo

Chiara Marchetti, Assistiti o segregati? I grandi centri per richiedenti asilo in Italia Mara Fornari, Logiche e forme dell’esclusione, Un percorso storico-concettuale

Archivio: Comunismo e lavoro

Karl Marx, Il lavoro estraniato, a cura di Ferruccio Andolfi

Linguaggio e comunità

Donatella Di Cesare, Linguaggio, un paradigma della comunità a venire, Humboldt nel futuro

Scritture

Umberto Piersanti, Presso il tronco del tiglio

Questione morale

Giacomo Costa, Il ‘moralismo’: una prima ricognizione

Individualismo

Rino Genovese, Com’è possibile un individualismo sociale?

A due voci

Schiavitù, razza e memoria: il caso francese

Thomas Casadei intervista Costanza Margiotta Broglio

Note di lettura

Nadia Urbinati, Liberi e uguali (Giacomo Miranda); Roberta De Monticelli, La questione morale (Marina Savi); Axel Honneth, Capitalismo e riconoscimento (Giuseppe Rubinetti); Annamaria

Rivera, La Bella, la Bestia e l’Umano (Mara Fornari); “Ragion Pratica”, n. 35 (Barbara

Bartocci); Pietro Basso, a cura di, Razzismo di Stato (Lucia Dileo); Thomas Casadei, Sauro

Mattarelli, a cura di, Il senso della repubblica. Schiavitù (Simona Bertolini).

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Meditazioni filosofiche

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Dioniso contro il Crocifisso: eccovi l’antitesi. Non è una differenza

in base al martirio – solo essa ha un altro senso. La vita stessa, la sua e-terna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la di-struzione, il bisogno di annientamento… .

Nell’altro caso il dolore, il “crocifisso in quanto innocente” valgono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna.

F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII, tomo III, Frammenti Postumi 1887 – 1888, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Mi-lano 1986, 14 [89], p. 56.

ietzsche ci mostra in questo frammento quale sia, a suo avviso,

la differenza tra il senso dato alla sofferenza da Dioniso e dal

Crocifisso.

René Girard ha avuto modo, nei suoi vari scritti, di tornare su questo

frammento e di trovare riscontri con l’interpretazione della genesi del

sacro che la sua teoria mimetica ci propone. La teoria girardiana, infatti,

riprende molto dal pensiero di Nietzsche e ne diventa, per dirla con Gi-

rard, il “negativo fotografico”.

La grande scoperta di Girard sta nel nuovo modo di considerare il

desiderio. La teoria mimetica afferma che l’uomo non è in grado di de-

siderare autonomamente ma ha sempre bisogno di un terzo, un model-

lo, che gli suggerisca cosa desiderare, magari desiderandolo lui stesso.

Nel Romanticismo, il desiderio era concepito linearmente. Il sogget-

to, in questa visione, è attratto dall’oggetto per il suo valore intrinseco

oppure perché è in grado da solo di conferire valore a ciò che desidera.

Girard, invece, ci mostra la natura triangolare del desiderio. Il sogget-

to desidera sempre ciò che desidera il modello, cioè una persona che e-

sercita un certo prestigio sul soggetto.

Qui abbiamo già una differenza con Nietzsche, e tale differenza, for-

se la più evidente, produrrà di conseguenza tutte le altre. Il filosofo te-

desco, esponente sotto questo aspetto della cultura romantica, ritiene

che l’uomo sia in grado di desiderare senza mediatori. Il Superuomo, o

meglio, l’oltre-uomo nietzschiano, è indipendente dallo sguardo degli

altri e riesce da solo a costruire i suoi valori.

D’altro canto, Nietzsche ritiene che le persone deboli, incapaci di di-

staccarsi dallo sguardo degli altri, si ammalino di risentimento, la vendet-

ta immaginaria e sublimata di cui deve accontentarsi chi non riesce a

vendicarsi sul serio dei torti subiti. A lungo andare, il risentimento sfocia

N

“DIONISO CONTRO IL CROCIFISSO”. NIETZSCHE NELLA TEORIA DI RENÉ

GIRARD

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Quaderni della Ginestra

22

nella violenza e nell’odio. Il risentimento, tuttavia, è a sua volta genera-

tore di valori: i deboli, non sopportando più la loro condizione, si coa-

lizzano per ribaltare la scala sociale, e danno vita a nuove istituzioni e

religioni che tendono ad annientare la gerarchia stabilita naturalmente. Il

cristianesimo, figlio del risentimento, è l’apice della morale da schiavi.

René Girard capovolge la visione di Nietzsche. La teoria mimetica è

la constatazione dell’inesistenza del Superuomo, ovvero del fatto che,

forse, accusare gli altri di essere risentiti è proprio di chi è pieno di risen-

timento.

Tutti, strutturalmente, siamo dipendenti dallo sguardo degli altri,

proprio perché ci imitiamo e ci suggeriamo a vicenda che cosa desidera-

re. Non esistono, quindi, né autonomia né autenticità e proprio le rela-

zioni che Nietzsche intratteneva con Wagner offrono un esempio lam-

pante di ciò.

Ma cosa succede quando i nostri desideri coincidono e il soggetto si

fa sempre più vicino al mediatore? In questi casi la rivalità diventa inevi-

tabile. Il soggetto si sforzerà di sottrarre al mediatore l’oggetto desidera-

to ingaggiando con lui un combattimento. In questa lotta per il posses-

so, i due rivali si attaccheranno reciprocamente in un movimento a spi-

rale. A ogni atto violento, il rivale ne opporrà un altro di pari o maggio-

re intensità. La violenza, infatti, è anch’essa mimetica; ogni comporta-

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Meditazioni filosofiche

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mento violento da parte di uno dei due contendenti tenderà a essere i-

mitato dall’altro. Tale caratteristica della violenza fa sì che i due rivali di-

vengano sempre più simili quanto più cerchino di differenziarsi. Essi,

quindi, diventano due doppi mimetici.

La violenza, proprio perché mimetica, è anche contagiosa. In altre

parole, essa tende a dilagare in un numero sempre maggiore di soggetti,

in modo analogo a un virus.

Una comunità primitiva, in cui tutti i membri sono stati contagiati dal

ciclo della violenza mimetica, rischia l’autodistruzione. Per salvarsi dalla

violenza generata dalla crisi dei doppi, la comunità mette in atto uno

stratagemma, che l’uomo condivide con alcuni primati. La società si sal-

va a spese del suo capro espiatorio.

Un capro espiatorio è una persona che per qualche motivo (caratteri

fisici, posizione sociale ecc.) riesce ad attirare l’attenzione del gruppo

tanto da coalizzarne la violenza contro di sé. Il gruppo, contagiato dalla

violenza mimetica, perseguita il suo capro espiatorio fino al punto di uc-

ciderlo o di espellerlo dalla comunità perché accusato di aver provocato

la degenerazione dei rapporti sociali.

Dopo che il gruppo ha ucciso il proprio capro espiatorio, si trova

improvvisamente rappacificato. Per questo la vittima dovrà essere anco-

ra viva da qualche parte: ecco che la comunità divinizza la propria vitti-

ma collocandola in un al di là da dove può far discendere i suoi benefici

sul gruppo. Il capro espiatorio divinizzato ha il merito di riportare

l’ordine dove prima vi era disordine e di ricreare le istituzioni della co-

munità che si erano perse durante la crisi. Nasce cioè un nuovo sistema

di simboli che crea un’articolazione di differenze dove prima esisteva

l’indifferenziazione dei doppi.

Il sacro primitivo, quindi, ha la funzione, anche grazie ai propri divie-

ti e prescrizioni, di impedire la crisi dei doppi, cioè di evitare la violenza.

Il sacrificio rituale è il modo di ripetere l’evento primordiale che ha sal-

vato la comunità dall’autodistruzione. Ripetendo questo evento, il grup-

po si tiene a distanza dalla violenza reale ripetendo il meccanismo in

maniera controllata.

I miti, invece, ci danno il resoconto della vicenda di persecuzione

dalla prospettiva distorta dei persecutori. Le storie mitologiche sono tut-

ti racconti di persecuzione con un dramma al loro interno. Anche la

Passione di Gesù raccontata nei Vangeli è una storia di persecuzione.

Tuttavia essa non condivide la prospettiva adottata dal testo mitologico.

Il cristianesimo è l’unica religione che ha svelato il meccanismo di per-

secuzione bloccandolo dall’interno. Se con il paganesimo la vittima era

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Quaderni della Ginestra

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ritenuta colpevole della crisi, e di conseguenza veniva sacrificata e poi

divinizzata dai persecutori stessi, il cristianesimo guarda gli eventi dalla

prospettiva della vittima.

I testi evangelici, a differenza della mitologia, non sono testi di perse-

cuzione ma, al contrario, sono testi che riabilitano la verità delle vittime,

rimasta fino a quel momento celata.

I Vangeli sono costruiti sullo stesso schema dei miti, ma a differenza

di questi, cosa che era sfuggita alla scienza positivista dell’epoca fino a

quel momento, essi non approvano e non incoraggiano la violenza.

Qui la visione girardiana si incontra con quella nietzschiana: il punto

di tangenza fra le due teorie è la scoperta della violenza nel religioso.

Secondo Girard, Nietzsche è stato l’unico che ha intuito sia il mec-

canismo violento con il quale i popoli primitivi formavano le proprie

divinità, sia la differenza fra il cristianesimo e le religioni primitive.

L’assassinio di Dio, tema centrale della filosofia nietzschiana, è

l’opposto speculare del pensiero vittimario di Girard. Per Nietzsche la

morte di un capro espiatorio è salutare e mantiene coesi gli uomini fra

loro. La prospettiva girardiana, invece, è a favore della vittima e ci mo-

stra la violenza contenuta nelle istituzioni umane.

Nietzsche ci parla di un assassinio compiuto collettivamente, di cui

tutta l’umanità è responsabile, e lo descrive nei particolari (mi riferisco al

testo Gaia scienza, af. 125). Chi, in un’esegesi del passo, non tenesse con-

to dell’uccisione collettiva di Dio tenderebbe a comportarsi come gli «a-

tei al mercato». L’annuncio dell’uomo folle, infatti, è compiuto in mezzo

a molte persone che già non credono più in Dio e che, di conseguenza,

non riescono a capire l’annuncio: come è possibile uccidere Dio se non

è mai esistito? Mostrandoci la genesi del sacro, Girard risponde a que-

sta domanda: la morte del capro espiatorio è la condizione senza la qua-

le le divinità non possono nascere.

Secondo Girard, l’azione che Nietzsche annuncia è lungi dall’essere

compresa anche oggi. Per tutti e due gli autori, l’incomprensione della

nostra violenza è la più grave sciagura dell’umanità, ma per ragioni op-

poste.

Nietzsche sostiene che il Superuomo ha bisogno di sbarazzarsi del risen-

timento che lo avvelena e di tornare al sacrificio, che deve essere compiuto,

questa volta, a occhi aperti e rivendicato come un atto glorioso.

Girard, al contrario, afferma la prospettiva del cristianesimo e vede

l’amore come l’unica arma in grado di controbattere al risentimento im-

perante nella nostra epoca.

Contrariamente a quanto Nietzsche è portato a credere, infatti, il cri-

stianesimo ha generato il risentimento come figlio illegittimo per impe-

dire che la violenza dilagasse, ma non ne è stato di certo generato.

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Meditazioni filosofiche

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Il conflitto più importante fra le due teorie sta proprio nella visione

del desiderio umano. Nietzsche sembra non voler vedere l’importanza

delle relazioni. Nessuno è in grado di costruire qualcosa se non insieme

con gli altri, e questo porta strutturalmente alla violenza se non siamo in

grado di difendercene tramite l’amore. La filosofia nietzschiana, presen-

tandoci un uomo in grado di creare e di gestire autonomamente la pro-

pria vita, ha finito col chiudere gli occhi di fronte alla competizione che

quotidianamente ognuno porta avanti con i suoi simili. Presentando la

violenza come necessaria e anzi come un atto glorioso da rivendicare,

Nietzsche sostanzialmente ha finito con l’approvarla. Essere al di là del

bene e del male significa non guardare alle relazioni che ci costituiscono

e che noi continuamente portiamo avanti. Per questo non esiste un al di

là del bene e del male dove l’uomo sia indipendente dal suo simile, che

lo interpella costitutivamente.

Il risentimento, emozione che secondo Nietzsche colpisce la nostra

epoca, è generato principalmente dalla non accettazione dell’altro. Tutti

siamo infettati dal risentimento. Accettare questo significa rinunciare a

fare altre vittime, a favore di una maggiore comprensione della natura

umana.

MARTINO PESENTI GRITTI

L’OPERA RIPRODOTTA È DI ALDO CURZIOTTI

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Cinema e filosofia

27

a classe di Laurent Cantet, uscito nelle sale cinematografiche

l‟autunno del 2008 dopo aver conquistato la giuria del 61° Festi-

val di Cannes meritandosi la Palma d‟Oro, è basato sul romanzo Entre le

mure di François Bègaudeau, interprete egli stesso del film nel ruolo del

professore di francese. Con temi da far invidia a un civile, quanto utopi-

stico, dibattito in Parlamento in materia di riforma scolastica – disagio

sociale, conflittualità generazionali, differenze culturali, ruolo degli inse-

gnanti – il film è la trasposizione sul grande schermo del „diario di bor-

do‟ di un anno scolastico vissuto tra le pareti di una scuola media supe-

riore della periferia di Parigi. Protagonisti sono il professore e i suoi stu-

denti, adolescenti tra i 14 e i 16 anni. Dall‟arrivo dei nuovi professori al-

la conoscenza della classe, dai colloqui con i genitori ai collegi didattici

fino all‟ultimo giorno di scuola, la narrazione non oltrepassa mai gli spa-

zi dell‟istituto e procede lineare tra lezioni frontali, scambi di vedute tra

docenti, ricreazioni ecc. Ma se con uno zoom out allarghiamo

l‟inquadratura così da spostare il focus dai volti degli attori all‟intera

classe poi all‟istituto e via via fino all‟intero set, backstage compreso, ci

accorgiamo che il panorama è ben più articolato.

Siamo a Belleville, nel XX arrondissement di Parigi, quartiere di me-

dia periferia denso di disuguaglianze sociali, mescolamenti etnici e diffe-

renze culturali. In questa cornice il sistema scolastico nel suo complesso,

e nella sua complessità, diventa lo spaccato di una realtà sociale ricca di

sfumature. La scuola – alle prese con una generazione assolutamente i-

nedita perché alla differenziazione di classe sociale delle famiglie di ap-

partenenza e allo scarto generazionale si aggiunge la diversità di prove-

nienza dei suoi utenti – diventa cassa di risonanza dei problemi di tutta

la società, globale e globalizzata: immigrazione, identità culturali, inte-

grazione, devianza, droga, violenza... Da qui la difficoltà della scuola a

instaurare un dialogo costruttivo, una comunicazione formativa che aiu-

ti le nuove generazioni a recuperare quei valori che sono gli strumenti

indispensabili per la crescita dell‟individuo. Fin qui insomma niente di

originale. Il film ricalca il modello di tante produzioni hollywoodiane

ambientate nelle periferie delle grandi città americane ricche di volti su-

dafricani, sudamericani, ispanici o diversamente „abbronzati‟. E non

manca neppure il colpo di scena finale tanto caro ai nostalgici

dell‟Attimo fuggente. Allora dov‟è la particolarità?

Uno dei temi del film, il tema centrale forse, il vero protagonista, è il

dialogo. E con il dialogo il linguaggio e, in ultimo, l‟unità minima con

cui il linguaggio si articola: la parola.

L

LA FORZA DELLA PAROLA TRA LE MURA DE

LA CLASSE

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Quaderni della Ginestra

28

François, il professore di lingua francese, è uno che crede nel dialogo

e si confronta quotidianamente con i suoi studenti anche quando le cose

si fanno difficili. Il rapporto tra insegnate e ragazzi è diretto, colloquiale,

quasi paritario. Le lezioni mostrate nel film solo raramente sfiorano gli

ambiti curriculari, o meglio questi offrono il pretesto per indugiare in

discussioni trasversali ed esperienziali che vanno

dalla conoscenza del significato delle parole –

l’argenteria è un’abitante dell’Argentina? chiede uno

studente – a discussioni sulle squadre di calcio

che partecipano alla Coppa d‟Africa. C‟è persino

un richiamo alla Repubblica di Platone che il regi-

sta cita non per bocca del colto professore ma at-

traverso le letture di una giovane alunna,

l‟indisciplinata Esmeralda, quasi a voler accredita-

re l‟efficacia di una pratica educativa che ha origi-

ni remote ricordandoci appunto le abitudini degli

antichi filosofi, primi fra tutti Socrate, i quali fe-

cero del dialogo lo strumento privilegiato di inda-

gine della verità. Il professore, insomma, intende incarnare non solo un

modello di educazione ma uno strumento di comunicazione in cui la

spontaneità del dialogo e il confronto giocano un ruolo fondamentale

nella costruzione della conoscenza. Peccato che il tentativo fallirà e cia-

scun interlocutore sperimenterà la forza straordinaria della parola che

irrompe violenta, anche al di là delle intenzioni o degli autentici signifi-

cati. Ecco la novità.

Assistiamo per tutto il film a un crescendo in cui la comunicazione

da momento di confronto diventa scontro, il

rapporto diventa sfida. I dialoghi tra docente e

studenti si trasformano in veri e propri duelli lin-

guistici in cui il vincitore è colui che ha l‟ultima

parola, a prescindere dalla correttezza delle ar-

gomentazioni. Accade allora che la contestazione

nei confronti dell‟insegnante diventa la regola, e

accade anche che il professore si ritrovi, a volte, a

corto di argomenti e perda la pazienza. E così, là

dove la carica esplosiva dei linguaggi si fa intensa,

alta è la probabilità che la situazione sfugga di

mano e che si oltrepassi la soglia di tolleranza.

Basterà, infatti, un imperdonabile appellativo,

“due sgallettate”, e tutti quegli sforzi tesi a conquistare fiducia e credibi-

lità attraverso la ricerca di un dialogo si annulleranno in un sol gesto. La

ricerca del dialogo diventerà conflitto aperto. La tensione latente che si

Page 30: Quaderni della Ginestra 3

Cinema e filosofia

29

percepisce fin dalle prime sequenze si libererà finalmente con tutte le

sue conseguenze. E l‟esito sarà doloroso per lo studente e amaro per il

professore.

Questa escalation ci ricorda un altro film, anch‟esso francese (forse

non è un caso), la cui trama è sintetizzata tutta nella metafora raccontata

all'inizio del film da una voce fuori campo che a nero, prima dunque che

siano le immagini a parlare, dice: «Questa è la storia di un uomo che ca-

de da un palazzo di cinquanta piani. Cadendo passa da un piano all'altro

e il tizio, per farsi coraggio, ripete fra sé: Fin qui, tutto bene. Fin qui, tutto

bene. Fin qui, tutto bene... Sì, perché il problema non è la caduta, ma l'atter-

raggio». Il film è L’odio di Mathieu Kassowitz, anno 1995, vincitore del

premio per la miglior regia al 48° Festival di Cannes, nato dallo spunto

di un fatto reale: l‟uccisione di un ragazzo delle banlieue parigine da parte

della polizia. Ma torniamo in classe.

É interessante notare il fatto che sia proprio Souleymane il protago-

nista dello scontro finale tra insegnante e studente. Souleymane è un ra-

gazzo originario del Mali seduto nell‟ultima fila di banchi. Apparente-

mente privo di interessi, distratto e strafottente, non ha mai aperto un

libro. Eppure è capace di realizzare un bellissimo autoritratto della pro-

pria vita e di quella della sua famiglia grazie ad una fotocamera digitale.

É insomma colui che ha deciso di affidare, con discreto successo, la po-

tenza della comunicazione non alla parola ma all'immagine. L‟ironia del-

la vita, però, lo riporterà alla realtà: sarà proprio lui a dover fare da in-

terprete tra sua madre, che non parla il francese, e i suoi giudici, il Con-

siglio di Disciplina. Quest‟ultimo dunque, oltre a riaffermare la presenza

normalizzante dell‟istituzione riportando i soggetti alla loro funzione

pubblica e istituzionale e a una concezione omogeneizzante

dell‟istruzione, dimostrerà anche che il potere normalizzante si fonda su

una comunicazione basata su codici che non prevedono eccezioni, che

non prevedono altri linguaggi e altre modalità di espressione. É la scon-

fitta dell‟educazione di fronte all'imprevedibilità delle emozioni? Non lo

sappiamo. O meglio, La classe di Cantet non ce lo dice. Il film non e-

sprime giudizi, ritrae solo situazioni.

Due parole, infine, sul linguaggio cinematografico. Sappiamo che il

regista ha lavorato con tre videocamere digitali: una puntata sul profes-

sore, una sul personaggio che ha la battuta, la terza che va a cercare pic-

coli momenti di vita quotidiana come un ragazzo che manda un sms, un

altro che parla in fondo alla classe e tutto quello che succede quando ci

sono venticinque ragazzi in una stanza. Audio sporco con notevole bru-

sio di fondo e il silenzio quasi impossibile da ottenere. Inquadrature

strette sui primi piani per catturare ogni senso di realtà che passa attra-

verso un‟espressione o un gesto imprevisto. Recitazione naturale,

Page 31: Quaderni della Ginestra 3

Quaderni della Ginestra

30

lasciata alla quasi totale improvvisazione degli attori non pro-

fessionisti colti direttamente „dalla scuola‟. Un montaggio che

segue il ritmo delle parole. Come stile, insomma, siamo in

pieno neorealismo moderno. Quello che vediamo “dentro le

mura” è uno sguardo diretto sulla realtà, non solo quella sco-

lastica, ma anche e soprattutto quella che resta „fuori campo‟ e

che vi penetra inevitabilmente. La classe diventa, così, meta-

fora di un mondo confuso dove la scuola è chiamata, necessa-

riamente, ad andare oltre la trasmissione della sola conoscen-

za. L‟insegnante, infine, è quasi sempre ripreso da destra ver-

so sinistra, mentre i ragazzi dall‟angolatura opposta senza che

vi siano piani di insieme che accolgano nella stessa inquadra-

tura tutti gli attori in campo. Sembra quasi che

l‟incomunicabilità tra l‟istituzione scolastica e la vita dei ragazzi sia anti-

cipata dalle scelte stesse del regista che decide di rompere il contratto di

eguaglianza tra professori e studenti con un linguaggio cinematografico

che mette la parola „fine‟ all‟utopia paritaria.

ANNA RICUCCI

SCHEDA

Titolo originale: Entre les murs

Nazione: Francia

Anno: 2008

Genere: Drammatico

Durata: 128‟

Regia: Laurent Cantet

Sceneggiatura: Laurent Cantet, François

Bégaudeau, Robin Campillo

Cast: François Bégaudeau, Nassim Amrabt,

Laura Baquela, Cherif Bounaïdja Rachedi,

Juliette Demaille, Dalla Doucouré

Produzione: Haut et Court

Distribuzione: Mikado

Page 32: Quaderni della Ginestra 3

Cinema e filosofia

31

he cosa è “Examined Life”? Banalmente una successione di

interviste-monologhi sul significato della vita nelle quali

l‟ideatrice e regista Astra Taylor ha coinvolto alcuni filosofi viventi: da

un certo punto di vista è quindi un testo filosofico, un‟opera collettanea.

Allo stesso tempo è un documentario se non addirittura un vero e

proprio film. Ma forse è impossibile nonché inutile forzare quest‟opera

in una particolare definizione. E‟ inafferrabile non solo da un punto di

vista formale ma anche nel suo significato: l‟accostamento di tecniche

ed ambiti (film e filosofia), normalmente alieni tra loro, eccita infatti

nello spettatore frotte di riflessioni e di sensazioni che forse vanno al di

là dei temi previsti dall‟autrice e dai filosofi stessi; la forma immagine del

cinema costituisce un ottimo terreno di coltura per la filosofia. Per

esempio, diversamente da quanto accade nel normale rapporto filosofo-

lettore, qui c‟è il volto del filosofo: la regista avrà voluto richiamare

l‟idea di Lévinas che il volto inizia e rende possibile ogni discorso,

presuppone a tutte le relazioni umane? Tale presenza corporea è resa

poi parossistica dal contenuto di alcuni interventi, come quelli di

Nussbaum e di Butler, che sottolineano proprio l‟importanza del corpo

nel rapporto tra filosofia e vita. Ecco allora emergere due delle

tematiche principali di questo composito oggetto: il rapporto analitico

tra filosofia e vita, evidente fin dal titolo, e quello tra il detto, le parole

dei filosofi, e il non detto, costituito dalle immagini.

Uno dei filosofi intervistati, Martha Nussbaum, ha affermato che il

film tradisce lo spirito del filosofare dialettico come inteso a partire da

Socrate: i filosofi non avrebbero cioè instaurato un vero dialogo con i

loro interlocutori, si sarebbero posti in posizione autoritaria, inclini a

parlare ma non ad ascoltare. Ad un livello immediato ciò è in parte vero,

sebbene non manchino esempi di assenza di scambio nelle opere

platoniche e momenti di colloquio classico nell‟opera della Taylor.

Credo però che in quest‟ultima siano presenti livelli di dialogo che

sfuggono alla Nussbaum, forse incurante del ruolo delle immagini.

Eppure il nascondimento dell‟intervistatore smaschera in modo

inequivocabile queste ultime come principali referenti dialogici. Ogni

filosofo si muove in un paesaggio diverso, a volte direttamente

collegabile a ciò di cui parla, altre senza apparenti legami. Eppure questi

ultimi ci sono sempre perché il pensiero dello spettatore, magari anche

inconscio, non può rinunciare al tentativo di trovare o costruire una

relazione tra parola e immagini. Le parole si confrontano

C

EXAMINED LIFE DI ASTRA TAYLOR

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Quaderni della Ginestra

32

immediatamente con i primi piani, il contesto, gli oggetti, le persone e

gli eventi, che non sono certo la neutra pagina bianca di un libro o la

nera lavagna di una lezione frontale. Ma non solo: l‟apporto delle

immagini è filosoficamente fondamentale perché esse possono dire

l‟indicibile, possono eludere il wittgensteiniano monito a tacere di ciò di

cui non si può parlare. La ricerca del non detto riprende almeno in parte

l‟abitudine platonica di realizzare nei propri dialoghi vere e proprie

messe in scena (basate sui ruoli dei personaggi, sui luoghi, sui tempi,

ecc.) finalizzate alla resa dialettica, sebbene la regista di questo film affidi

la creazione di simili legami e sviluppi semantici ad un processo

ermeneutico molto più spontaneo.

Talvolta la vita che scorre nei fotogrammi, nonostante il tentativo del

filosofo di racchiuderla ed esaurirla con i suoi concetti, sembra discutere

o addirittura contraddire il contenuto dei discorsi (se non la possibilità

stessa del discorso): più che essere la filosofia a esaminare la vita sembra

allora che sia quest‟ultima ad esaminare la prima, sebbene ciò nello

spettatore penetri solo a livello irriflesso e non dialogico. E‟ poi

interessante notare che tutti i filosofi parlano mentre sono in

movimento, a piedi, in auto, in barca, ecc.: il continuo cambiamento di

prospettiva accentua ulteriormente il confronto. Da una parte la

dialettica dei filosofi, il movimento di parole e concetti, dall‟altra il

movimento fisico delle immagini e dei corpi. Si può anzi

paradossalmente osservare che anche quando i contesti scelti sono oasi

di tranquillità il flusso della vita rischia quasi di evidenziare la staticità

dei discorsi dei filosofi.

Al di là di queste considerazioni generali è poi opportuno riflettere

sui “testi” specifici, fatti di parole e immagini, che ogni filosofo offre

durante la sua performance.

Il primo è Cornel West, che vaga per le strade di New York,

predicando dal sedile posteriore di un‟automobile. L‟obiettivo della

macchina è sulla sua bocca, sulla parola del filosofo che allude alla vita al

di là del finestrino. Sua la frase d‟apertura ‹‹the unexamined life is not

worth living››: ma quindi senza filosofia la vita non è degna di essere

vissuta o la filosofia è solo uno dei vari modi di esaminare la vita?

Sicuramente la filosofia è per lui una disposizione alla lotta contro il

dogmatismo e contro le strutture di dominazione. Non stupisce perciò

che individui nel coraggio la virtù fondamentale del filosofo: capace di

rivolgere l‟analisi anche verso se stesso e di accettare il proprio essere

per la morte, intesa come inevitabilità del cambiamento e della

trasformazione continua. A ciò si collega la critica alle grandi visioni

totalizzanti e all‟ossessione per l‟armonia, che trova nella musica blues e

nelle sue dissonanze la massima e più compiuta espressione.

Page 34: Quaderni della Ginestra 3

Cinema e filosofia

33

A questa critica potrebbe aderire anche Avital Ronell con la sua

stigmatizzazione della brama di significato che pervade la società attuale:

le cose vanno lasciate aperte, non devono per forza essere afferrate e

comprese. Da un punto di vista etico ciò deve trasformarsi nell‟ansia: se

sei sicuro di aver capito le cose e le persone allora credi di poterne

disporre correttamente e non avrai dubbi nel compiere gesti, anche

brutali, nei loro confronti. Decisamente autoironico sottoporre lo

scetticismo peripatetico della filosofa all‟appisolata perplessità delle

persone sedute in un parco, quasi infastidite dalla sua presenza come lo

fu Diogene da quella del grande Alessandro.

Avvolto dal

caotico e alie-

nante traffico

della quinta

strada a New

York, Peter Sin-

ger converge in

parte con il de-

costruzionismo

della Ronell: la

filosofia deve proporre soluzioni e significati alternativi, sfidare la

morale del senso comune soprattutto relativamente alle scelte etiche,

cioè quelle che danno senso alla vita contemporanea.

L‟aeroporto, il non-luogo scelto da Kwame Anthony Appiah,

simboleggia la vicinanza tra singolo e resto del mondo nonché

l‟ambigua espansione che di recente ha avuto la nostra responsabilità

individuale, fenomeno già osservato da Singer. Se da una parte la nostra

vita morale non può più essere limitata al nostro piccolo contesto, allo

stesso tempo non si può abbandonare il proprio gruppo locale perché

ciò significherebbe abbandonare la propria umanità, intesa come

bisogno di valori. Dalla constatazione dell‟importanza della diversità

così come della inevitabilità dei valori, non deve quindi scaturire la

concorrenza agonistica tra le varie opzioni ma il rispetto e la

convivenza. Peccato che l‟aeroporto sia pressoché vuoto e ricordi quello

di Beirut nell‟allucinazione del protagonista di Valzer con Bashir.

Abbandonare le grandi narrazioni significa, nelle teorie sociali,

considerare il divenire e le differenze anche fisiche tra uomini, donne,

bambini, vecchi, disabili, anziché perdersi nell‟inutile ricerca di stati di

natura ed essenze umane: secondo Martha Nussbaum tutti gli esseri

umani hanno diritto a narrazioni specifiche e quindi proprio dalle

differenze devono partire le teorie. Quasi metafisico è però l‟epilogo

dell‟intervento di questa filosofa: gli esseri umani si uniscono nelle

Page 35: Quaderni della Ginestra 3

Quaderni della Ginestra

34

società per amore e con l‟intento di creare il miglior mondo possibile;

che sia forse inevitabile il prevalere dell‟ottimismo quando si percorre

un verde lungolago animato da cigni e bambini giocosi?

Michael Hardt preferisce invece cimentarsi con una barca nel

laghetto di un parco metropolitano: che si tratti di una richiamo alla

nave dei folli di cui parla Foucault, voluto dal filosofo per potersi

arrischiare in utopie, in discorsi da non prendere sul serio? Il tema in

effetti è la rivoluzione negli Stati Uniti, ottenuta attraverso non un

mutamento della leadership o della forma di governo ma rendendo

l‟uomo capace di vera democrazia. Secondo questo filosofo, che rema

impacciato, la natura umana deve quindi adattarsi ad una forma politica

calata dall‟alto, perché ritenuta superiore a priori, e che,

paradossalmente, si impara solo attuandola. Allo spettatore lo spassoso

compito di spiegare perché nel bel mezzo del suo discorso Hardt urti in

pieno uno scoglio.

Un centro raccolta rifiuti, all‟apparenza il più dirompente tra gli

sfondi, è in realtà in perfetta armonia con le parole della philo-star

Slavoj Žižek. L‟ecologia è un‟ideologia perché si rivolge a problemi reali

ma li mistifica creando situazioni come il disconoscimento del rischio

che corriamo distruggendo il mondo naturale: anche se a livello

razionale sappiamo del pericolo non facciamo niente per evitarlo perché

visceralmente non possiamo immaginarlo e tanto meno crederlo reale.

La soluzione che infine il filosofo sloveno provocatoriamente individua

è acuire l‟alienazione tra uomo e natura in modo che diventi concepibile

ad ogni livello l‟imminente catastrofe ecologica. Mi chiedo però perché

Žižek, nella sua volontà demistificatoria, applichi a sua volta il mito

dell‟uomo che agisce come un unicum immortale e lungimirante,

anziché come individui cinicamente consapevoli che nel lungo termine

saranno tutti morti.

L‟unico caso di classico dialogo a due è offerto da Judith Butler e

Sunaura Taylor, la sorella disabile della regista. Niente di meglio della

loro passeggiata a San Francisco per mostrare cosa significhi la

differenza e a che cosa alludesse anche la Nussbaum parlando di

possibilità fisiche che diventano possibilità sociali. Differenza, possibilità

e relazione sono gli oggetti della loro speculazione filosofica: che cosa

diversifica normalità e disabilità se non possibilità socialmente

contingenti? Non abbiamo tutti bisogno di supporti e di aiuto per fare

qualsiasi cosa (decisamente funzionale, nel film, l‟acquisto, strada

facendo, di un indumento)? La ridescrizione investe anche il concetto di

corpo, che la Butler fa a pezzi, considerandolo un semplice

assemblaggio di capacità e azioni, privo di essenza ed unità: ma può

l‟individuo sopravvivere a ciò? Il rifiuto di etichette (uomo, donna, abile,

Page 36: Quaderni della Ginestra 3

Cinema e filosofia

35

disabile, ecc.) pare qui condurre ad un certo riduzionismo, che elimina le

strutture emergenti dall‟insieme a favore della funzionalità atomica delle

parti.

Al di là dei dibattiti è comunque evidente l‟inevitabilità filosofica per

lo spettatore di decostruire e poi rinarrare il pout-pourri di parole, di

simboli e di concetti-immagine offerto da questo „iper-testo‟ senza fine.

ANTONIO FREDDI

SCHEDA

Regia: Astra Taylor

Soggetto, sceneggiatura: Astra Taylor

Fotografia: John M. Tran

Musiche: vari

Montaggio: Robert Kennedy

Scenografia: /

Interpreti: Kwame Anthony Appiah, Judith Butler, Michael Hardt,

Martha Nussbaum, Avital Ronell, Peter Singer, Sunaura Taylor, Cornel

West, Slavoj Žižek

Produzione: Silva Basmajian, Bill Imperial, Ron Mann, Lea Marin

Origine: Canada, 2008; 88‟.

L‟OPERA RIPRODOTTA È DI GIACOMO CARRA

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Page 38: Quaderni della Ginestra 3

Letteratura e filosofia

37

onfrontarsi con un ‘classico’ della letteratura è molto

complicato, recensirlo, almeno per quanto mi riguarda,

sarebbe impossibile. De La metamorfosi di Kafka è stato detto

moltissimo, tutto forse; tuttavia la densità della narrazione consente di

pensare, e ripensarsi, di fronte a temi centrali del panorama culturale

contemporaneo, quali: alienazione, principio di autorità, crisi della

soggettività, ecc... . La trama di questo celeberrimo racconto è nota: il

commesso viaggiatore Gregor Samsa dopo una notte segnata da sogni

inquieti, si risveglia nella propria angusta stanzetta piccolo-borghese

tramutato in insetto. Dapprima indotto a considerare tale condizione

come fittizia, quasi onirica, e quindi come causata dai ritmi lavorativi o

meglio, esistenziali, indotti dalla sua professione commerciale e dal

proprio contesto sociale; deve poi prenderne pian piano coscienza in

quanto obbligato dalla trasformazione del proprio spazio corporeo e,

conseguentemente, della percezione di sé. Da questo momento in poi, la

metamorfosi sarà definita, nelle sue tappe fondamentali, dalle figure

familiari del padre, della madre e della sorella, tanto care allo scrittore e

indicative della forte carica autobiografica del racconto. Partendo

dall’arrovellarsi dei pensieri del protagonista circa la sua condizione, non

più prettamente umana, all’interno delle quattro mura della stanza, la

narrazione si articola seguendo da un lato la modificazione della

percezione di sé come percipiente; dall'altro lato considerando la

differente percezione che gli altri individui (in particolare quelli del

medesimo nucleo familiare) hanno del protagonista. La mancata

presenza sul luogo di lavoro, con la conseguente visita del procuratore,

segnerà l’inizio della rescissione del legame sociale; di fronte alle

richieste di spiegazioni da parte del superiore, Gregor, seppur nella

totale preoccupazione verso il proprio futuro lavorativo, risponderà

esplicitando tutte le sue motivazioni in una articolazione linguistica che

agli altri suonerà come priva di senso e simile alla ‘voce’ di un animale.

In questo primo stadio del racconto, da una parte il protagonista è

ancora coscienzialmente preso dalle proprie preoccupazioni umane

(mantenere il posto di lavoro e quindi esaurire il debito della propria

famiglia). Dall'altra parte, a fronte del riconoscimento della propria

bestialità da parte dei familiari e del procuratore, prende avvio il

processo di individuazione determinante il realizzarsi della

consapevolezza circa la propria animalità, processo articolato attraverso

i ruoli svolti dai personaggi familiari: padre (principio di autorità, tipico

della famiglia patriarcale borghese), sorella (complicità quasi incestuosa),

C

IL PARADOSSO DELLA CORPOREITÀ NE LA

METAMORFOSI DI KAFKA

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Quaderni della Ginestra

38

madre (figura di legame inscindibile con la propria umanità). La

metafora dell’insetto esibisce sicuramente l’atto di dissidenza di un

giovane nei confronti dell’autorità paterna, e mostra chiaramente

l'anelito di Gregor verso il compimento della propria individualità al di

fuori degli obblighi sociali – dissidenza tuttavia votata allo scacco e

segnata dalla morte ultima cui porta la metamorfosi del protagonista: un

finale tragico che esprime l'idea della morte intesa come unico risultato

possibile per l’azione svolta da un

personaggio che porta in sé la colpa di cedere

all’illusione di una possibile realizzazione

dell’ipseità al di fuori del vincolo familiare. Al

di là di ogni personale interpretazione non si

può negare la messa in evidenza della

necessità del vincolo biologico, fra il sé e la

famiglia (con tutte le sue relazioni), ma anche fra l’io e la propria sfera

corporea. Superando le appropriate e assodate analisi psicoanalitiche de

La metamorfosi, propongo di considerare il ruolo paradigmatico della

corporeità all’interno di questo ‘classico’. Nello svolgersi dei tre

paragrafi che costituiscono il racconto, la corporeità funge da tessuto

connettore; specifica, a mio parere, la complessità della situazione del

personaggio principale, approfondendone il rapporto con il legame

biologico, fondamentale per Kafka stesso. La metamorfosi corporea

giunge a localizzare, nel percorso narrativo del racconto, la mutazione

coscienziale del protagonista, e conseguentemente a porre chiaramente

la propria funzione di ambivalenza. Il proprio corpo esprime da un lato

la materializzazione del principio di individuazione attraverso la

costituzione di una propria dimensione spazio temporale; dall’altro lato

rimarca la necessità della prospettiva di un alter ego che conduca

all’estremo il processo del riconoscimento

della non umanità del protagonista. Si può

quindi affermare che la metamorfosi procede

negativamente nella misura in cui le figure

familiari definiscono Gregor per via negativa,

giudicandolo via via come in difetto circa

quelle che comunemente vengono con-

siderate essere le proprietà normali di un essere umano. Tuttavia essa

viene a svolgersi anche in maniera positiva, poiché il personaggio,

poggiante su una relazione negativa con il contesto familiare, spinge

all’estremo la propria ipseità animale in una progressiva presa di

coscienza circa la propria nuova corporeità. Il ritmo metamorfico è

scandito lungo i tre paragrafi del racconto e implica una dialettica

costante fra l’istanza negativa e quella positiva. Nel primo paragrafo, la

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Letteratura e filosofia

39

corporeità propria inizia a definire i propri confini iniziando a plasmare

conseguentemente l'immagine del protagonista agli occhi dell'ambiente

sociale di appartenenza. La voce di Gregor appare animalescamente

indecifrabile nel momento stesso in cui una fisicità mutata veicola una

coscienza ancora non appercipiente della propria struttura corporea.

L’inizio del racconto stabilisce la discrepanza fra l’irrimediabile

mutamento biologico e la condizione coscienziale ancora volta

nostalgica dell’esser stato uomo. È con il secondo paragrafo che la

rimodulazione spazio-temporale del protagonista determina la quasi

totale acquisizione della nuova condizione vitale; il tempo viene

percepito confusamente a dispetto della dimensione spaziale che assume

coordinate precise: all’orizzontalità dei pavimenti si somma la verticalità

delle pareti. La stanza, ormai spogliata dalla presenza di mobili

ingombranti per la motilità del ‘nuovo Gregor’, inizia a comparire non

più angusta quanto piuttosto gradevole, in relazione a ciò la coscienza

del protagonista viene raccontata nella sua indifferenza nei confronti del

consorzio civile. Tuttavia il terrore della madre alla vista della

mostruosità delle sembianze del figlio richiamerà l’intenzionalità di

Gregor verso la propria alienazione dal focolare domestico. Con il terzo

paragrafo, Kafka sancisce l’irrimediabile distanza spazio-temporale del

protagonista da qualsivoglia dimensione umana. Nella totale oscurità

della propria camera, un Gregor costretto alla quasi totale immobilità

dalla ferita provocatagli dall’ira del padre, si ripiega su sé stesso

marcando sempre più nettamente la propria individualità non umana.

Sarà la musica a interrompere un processo metamorfico che ormai

sembra irreversibile. Gregor, destato dal suono del violino della sorella,

non esita ad uscire dal proprio confino, penetrando nei confini umani.

Con questo gesto si innesca il meccanismo fatale: gli inquilini, cui erano

stati affittati spazi dell’appartamento, si spaventano alla vista dell’insetto

e lasciano l’appartamento senza voler pagare tutti gli arretrati. Da qui

l’intero nucleo familiare si interroga circa la pesante presenza in-

quietante del figlio e inizia a propendere per la sua soppressione;

tuttavia nella notte è Gregor nel suo totale isolamento ad esalare

l’ultimo respiro. Scrive Kafka:

Come poteva dunque essere proprio una bestia se la musica lo affer-rava a tal punto? Gli pareva che gli si mostrasse la via verso il nutrimen-to ignoto che egli agognava.

Gregor è il proprio corpo, o meglio, diviene insetto grazie al suo

corpo: esso specifica l’individualità del protagonista nella propria

animalità, conducendolo però al paradosso secondo il quale, nel

momento di maggior distanza dalla condizione umanamente sociale,

trova una morte sancita dal suo essere irrimediabilmente troppo umano.

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Quaderni della Ginestra

40

A fronte di ciò, non sarebbe opportuno vedere il processo metamorfico

del protagonista come progressivo più che regressivo? Intendendolo

dunque come processo costitutivamente positivo e catartico, più che

negativo e dispiegato verso la totale alienazione? Al di là di ogni

suggerimento, è bene lasciare l’interpretazione di questo racconto alla

discrezione di ogni singolo lettore, tuttavia in un periodo storico come il

nostro, in cui le ansie ‘estetiche’ di perfettibilità corporeo-ambientali –

ma si potrebbe azzardare, sociali – strutturano una concezione di bello

ossessivamente iper-reale tale da rilegarlo quasi totalmente nel virtuale e

da condurlo alla soglia di una bruttezza malsana; leggere fra le righe di

un classico come questo diviene intellettualmente significativo. Kafka

riesce, attraverso il coraggio della sua narrazione, a rendere attuale la

necessità di cogliersi responsabili in prima persona della mostruosità

umana tout court. Sapendo che in fin dei conti e nonostante i rischi,

almeno l’onestà verso sé stessi è un atto pregnante che non dimentica la

riconoscenza verso la bellezza del reale.

CARLO GUARESCHI

Page 42: Quaderni della Ginestra 3

Letteratura e filosofia

41

hi all’epoca si era scandalizzato per la vita dissoluta di

Alexander Portnoy, sessuomane ed eponimo protagonista di

Lamento di Portnoy, secondo romanzo di Philip Roth, di certo avrà

guardato con sospetto a Il seno, scritto sempre da Roth, a quattro anni di

distanza dal successo del Lamento (1971).

Se il titolo rimanda inevitabilmente alla sessualità, se l’occhio viene

colpito dal sinuoso profilo di seno disegnato in copertina – come accade

nell’edizione italiana – e se la sessualità è, in fin dei conti, una cifra

tematica della produzione rothiana, pur tuttavia non sono dati ancora gli

estremi per liquidare Il seno come ulteriore ‹‹monologo erotico›› – come

Lamento di Portnoy è stato da più parti definito.

Il seno in questione è David Kepesh, uno dei tanti eteronimi di Roth,

qui alla sua prima apparizione – a Il seno seguiranno Il professore di

desiderio, nel 1977, e L’animale morente, 2001 –. Professore di letteratura

comparata in un anonimo college dell’East Coast, trentottenne,

ipocondriaco ‹‹superappassionato e attento a ogni variazione della

temperatura corporea e della regolarità fisiologica››, Kepesh si ritrova,

tra la mezzanotte e le quattro del 18 febbraio del 1971, tramutato in un

enorme seno femminile, una ‹‹ghiandola mammaria scissa da qualsiasi

forma umana›› del peso di settanta chili per centottanta centimetri di

altezza.

Kepesh – la mammella – non può vedere, ma sente e soprattutto ha

un tatto sensibilissimo ed è proprio per mezzo del tatto che egli – o essa

– può vivere i momenti più gratificanti della sua nuova esistenza, nella

piccola camera di una clinica privata, prima attraverso le professionali

cure dell’infermiera Clark, poi grazie alle arrendevoli ‘cure’ della

compagna Claire, ‹‹un tipo niente affatto spregiudicato››, ma che,

paradossalmente, vive una nuova e più aperta vita sessuale proprio nel

momento in cui il proprio partner non può più averne una. Al contrario

del tatto, all’udito spetta il poco piacevole compito di sorbirsi tutte le

inezie del padre e le ben poco illuminanti sessioni di psicoterapia del

dottor Klinger.

Ma come è possibile accettare di essere un’enorme mammella di settanta

chili eccitabile al tatto? Tentando di dare una risposta a questa domanda è

possibile mettere in luce le grandi differenze tra questo comico ma

grottesco racconto e la ben più famosa novella kafkiana, con cui Il seno

viene messo spesso in relazione, ma, a mio avviso non legittimamente.

Nella Introduzione all’edizione BUR de La metamorfosi Giuliano Baioni

afferma che

C

IL SENO E LA METAMORFOSI. ROTH E KAFKA A

CONFRONTO

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Quaderni della Ginestra

42

Kafka esprime tutta la sua ribellione all’ordine oppressivo della fami-glia borghese affidandosi al materialismo immediato di una metafora che ... si dimostra del tutto irriducibile alle astrazioni idealistiche ... .

Qui Baioni sta immergendo l’opera kafkiana nell’umore del tempo in

cui fu scritta. Vi si legge necessariamente da una parte la critica

all’ideologia borghese di cui Kafka si servirà spesso nelle sue opere

letterarie e che si disegna come la posizione social-culturale per

eccellenza di quegli anni; dall’altra, una concezione dell’ego che

potremmo definire linguistica, laddove

le relazioni sovrastrutturali rappresentate dalla forma razionale dell’ego e designate dal sistema dei segni della parola crollano... di colpo rivelando la realtà della mera materia organica.

In altre parole, una concezione in cui l’ego si manifesta a partire dal

linguaggio, ma al contempo si ritrova, nel linguaggio, già legato a tutto

quell’apparato di forze (le ‹‹relazioni sovrastrutturali››) che ne

determinano la prigione ideologica: il linguaggio, consumato dalla

società borghese, vincola l’ego, ma non lo riesce a interpretare, e neppure

riesce a interpretare un mondo ‹‹sordo›› e ‹‹oramai privo di significati nel

vedersi improvvisamente confrontato con una verità che ha tenuto

nascosta dietro la maschera della propria ideologia››.

L’uomo è dunque tale – e sviluppa il proprio ego all’interno della

società, ma della società è anche il prodotto deteriore. In questo senso

dietro alla facciata dell’istituzione borghese... non c’è per Kafka nes-suna possibile realizzazione dell’io, nemmeno nella forma pervertita dell’animale... nella cui ottusità si spegne ogni significato dell’io.

A questo Roth ‘risponde’ per mezzo di quel linguaggio ossessivo che

Kepesh non smette di produrre. Mentre lo scarafaggio di Kafka si

distingue per il suo mutismo – in un mondo dove, appunto, non c’è

niente da dire – il seno di Roth fa del linguaggio la sua arma migliore:

guerreggia con lo psicoterapeuta, monologa fra sé e sé, invita il lettore a

unirsi al suo solitario dibattito. Kepesh – come Roth – è anzitutto un

professore e come tale un intrattenitore e nel linguaggio si identifica

come tale. È l’azione linguistica in prima persona a determinare lo

svolgersi della narrazione.

Parlare dell’opera di Kafka vuol dire scontrarsi con l’evocazione della

figura del padre. Famosissima è la Lettera al padre, ove il genitore viene

visto nella doppia accezione freudiana del padre-padrone. Tuttavia

Baioni ben rileva l’identica importanza della lettera che Kafka scrive a

Felice Bauer, nell’ottobre del 1916. Ivi Kafka ammette che pur essendo

disgustato dal ‹‹branco familiare›› allo stesso tempo comprende che

questo ed egli stesso condividono il sangue e le origini e che, anzi, egli

proviene dai suoi genitori. Da questa lettura Baioni perviene alla

Page 44: Quaderni della Ginestra 3

Letteratura e filosofia

43

centralità del vincolo biologico nella poetica del racconto kafkiano:

incapace di qualsiasi recupero storico dell’autorità del padre... Kafka deve sacralizzarne il potere assoluto... ma se il potere dell’organismo familiare viene in questo modo tabuizzato e sottratto a qualsiasi possibi-lità di analisi e di intervento razionale... Kafka può ribellarsi all’organismo tirannico della famiglia solo odiando il proprio corpo e... lo perverte nella forma orripilante dell’insetto.

Anche in questo caso il racconto di Roth non potrebbe coincidere

meno. Qui, anzi, il padre, ‹‹aggressivo, furbo, nel lavoro tirannico; con

noi, la famigliola, innocente, protettivo, tenero e profondamente

affezionato››, è un personaggio completamente positivo. Tutto

all’opposto del padre kafkiano, questo uomo ‹‹grande e nobile e

coraggioso›› accetta la trasformazione di un figlio che seppur vivente

sotto le sembianze di seno non è comunque meno figlio di quando era

un brillante professore. D’altronde nella poetica di Roth la vera figura

terribile e magnifica insieme è quella della madre. Nelle varie madri

rothiane traspare sempre chiaramente il prototipo della madre

ebrea: colonna portante del focolare domestico, eccitabile, iperprotettiva

nei confronti dei figli quanto scontrosa nei confronti degli estranei, spesso

invadente e con la quale i personaggi di Roth instaurano un rapporto

sempre incentrato sulla ambivalenza del rifiuto e della passione – uno su

tutti il già citato Alexan-der Portnoy, che alla madre ricollega la propria

Page 45: Quaderni della Ginestra 3

Quaderni della Ginestra

44

malattia sessuale.

Neppure scambiando il Padre kafkiano con la Madre di Roth si può

parlare di un’analogia: nel secondo – e contrariamente al primo – il

rifiuto materno da parte dei personaggi non è mai un rifiuto tout court, né

va a inserirsi in quel movimento di frizione tra l’appartenenza al e la

ricusazione del dato biologico in cui Kafka rimane stritolato. Piuttosto,

il difficile rapporto madre/figlio è, in Roth, uno dei migliori espedienti –

se non il migliore – usati dallo scrittore per far procedere la narra-

zione: la figura della madre viene spesso rievocata come elemento

‘disturbatore’ dell’infanzia del protagonista e come causa dei suoi

problemi attuali; da questa rievocazione, poi, la narrazione devia verso

elementi contingenti, alla ricerca di uno sbocco narrativo

completamente differente.

Questo doppio discorso – ma le differenze non si fermano qui –

mette in dubbio la liceità della relazione tra i due lavori. In Kafka

l’accento è posto anzitutto sull’individuo e in secondo luogo

sull’individuo immerso nella sua rete di rapporti e legami con gli altri

individui. Gregor Samsa ricerca la pace degli affetti, la stabilità – e

Kafka ne vanifica i tentativi –. Kepesh, al contrario, ricerca se stesso e lo

fa ribellandosi ai propri legami e affetti: trovare se stesso vuol dire, per

Kepesh, convincersi della propria pazzia, poiché gli risulta molto più

semplice vivere da pazzo che non vivere da ghiandola mammaria:

quando rinvenni capii per la prima volta di essere impazzito. Non sognavo. Ero impazzito. Non ci sarebbe stato nessun risveglio magico, non mi sarei mai alzato dal letto per lavarmi i denti e andarmene a far lezione, come se a interrompere la mia ordinaria e prevedibile vita non fosse stato altro che un incubo; se qualcosa restava in serbo per me, era la lunga strada del ritorno – il recupero della sanità.

In questo, forse, Kafka e Roth si somigliano. Ma i due scrittori

giungono alla verità per strade completamente differenti: il primo sceglie

la morte e attraverso essa resetta l’ego. Il secondo sceglie la vita e

conclude con l’accettazione delle proprie forme. E nel frattempo,

mentre uno rifiuta, attraverso la morte, la condizione della società – la

borghesia – ora, a distanza di sessantuno anni, il secondo accetta questa

stessa condizione, e anzi ne cavalca l’onda, sull’orlo – diciamolo – di una

invasata, ironica euforia.

Un racconto assurdo, quello di Roth, grottesco, teso a denunciare,

non già l’ideologia borghese, bensì l’ideologia della nostra (presunta)

razionalità.

MARGHERITA AIASSA

L’OPERA RIPRODOTTA È DI MASSIMO VIOLI

Page 46: Quaderni della Ginestra 3

45

IN LIBRERIA

I Monologhi (1800) contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione»,

«sondaggi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»). Insieme ai Discorsi sulla religione offrono un documento significativo dell’individualismo nella

cultura romantica. L’individualismo viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell’animo religioso o morale possano comporsi in un

tutto armonico. L’orizzonte entro cui Schleiermacher si muove è “idealistico”: e tuttavia egli pone l’esigenza, in tacita polemica con Fichte, di una

ricongiunzione di filosofia e vita. L’altro grande interlocutore dei Monologhi è

Kant. In polemica con lui ogni elemento imperativo e giuridico viene bandito dall’etica, come ogni soggezione a una legge, fino alla stupefacente

dichiarazione: «non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza». Nelle pagine dell’opera si trovano anticipate molte figure che sarebbero state

svolte nel secolo XIX dagli esponenti del cosiddetto «individualismo della differenza»: dalla «peculiarità» di Stirner allo «spirito libero» di Nietzsche fino

al concetto di «legge individuale» formulato da Simmel.

Friedrich D. E. Schleiermacher (Breslau 1768-Berlino 1834) fu educato nella

Comunità pietista dei Fratelli moravi, dove si aprì però a più vasti interessi umanistici.

Pastore luterano, inaugurò la tradizione della teologia liberale. Nel 1808 divenne

predicatore assai apprezzato nella Chiesa della Trinità di Berlino e nel 1810 professore

di teologia nella stessa Università. I Discorsi sulla religione (1799) sono la sua opera più

importante e radicale di filosofia della religione. I Monologhi (1800) e le Linee fondamentali

di una critica delle teorie morali (1803) costituiscono un contributo decisivo per un’etica

non imperativa e individualizzata.

Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia all’Università di Parma, si occupa

dei rapporti fra umanesimo e individualismo, con particolare riguardo alla storia del

secolo XIX. Dirige «La società degli individui», quadrimestrale di teoria sociale e storia

delle idee. Con Edizioni Diabasis ha pubblicato Lavoro e libertà. Marx Marcuse

Arendt (2004) e curato i volumi: Friedrich Nietzsche filosofo morale, di Georg Simmel

(2008), La rivoluzione di Gustav Landauer (2009) e Abbozzo di una morale senza obbligo nè

sanzione di Jean-Marie Guyau (2009).

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Page 48: Quaderni della Ginestra 3

Didattica e filosofia

47

Nella sezione didattica di questo numero de “I quaderni della

ginestra” pubblichiamo l’articolo di Francesco Gallina, un ex-

alunno del liceo Ulivi di Parma, che racconta, dal suo punto di vista

di studente, un’esperienza di studio e insegnamento della filosofia a

scuola. Si tratta di una novità per la nostra rivista: per la prima volta

lasciamo la parola ad uno studente liceale, convinti che la didattica

sia prima di tutto esperienza sul campo, confronto e relazione

quotidiana tra docenti ed alunni. Oggi più che mai occorre

raccontare con le parole dei professori, ma anche attraverso le

testimonianze dei ragazzi, la ricchezza di esperienze che maturano

nelle nostre scuole, dove si continua, tra tagli e mancanze di risorse,

a riflettere, a sperimentare, a crescere, ad insegnare a ragazzi

curiosi come affacciarsi in modo critico sul mondo. Sappiamo che la

scuola italiana soffre di molti mali, che in strutture carenti e

arretrate è sempre più difficile la comunicazione tra insegnanti

spesso frustrati e ragazzi distratti, eppure ancora oggi e nonostante

tutto, la scuola riveste un ruolo centrale nella vita e nella formazione

dei futuri cittadini italiani.

Da più parti si reclama la necessità di una svolta etica nella

società italiana, di un ricambio generazionale: siamo fermamente

convinti che la scuola possa ancora essere il laboratorio di un futuro

diverso, l’officina di una nuova coscienza etico-politica capace di

cambiare la nostra società.

La musica sia materia obbligatoria per tutti». Lo scorso

settembre il maestro Riccardo Muti si era espresso in modo

chiaro e incisivo nell’evidenziare quanto, in ogni Liceo, fosse

auspicabile la presenza di un insegnante che avvicinasse i giovani al

mondo della musica.

Alla realizzazione di un progetto funzionale a questo obiettivo si è

dedicata la VG del Liceo Scientifico Ulivi di Parma, classe in cui il

professore di storia e filosofia, Gabriele Trivelloni, ha intrapreso

un’interessante e innovativa esperienza didattica, utilizzando concetti

e tematiche prettamente filosofiche come linee guida per l’ascolto di

opere e brani musicali.

Un semplice stereo è bastato per dare il via a un percorso musicale

originale e integrativo del programma scolastico, strutturato su due

linee portanti: in primis un lavoro di esegesi, analisi e trattazione di

concetti filosofici, quindi l’ascolto di opere o brani musicali (risalenti

perlopiù all’età romantica e decadentista) che ricalcassero aspetti

analoghi od opposti a tali concetti.

Il piano di lavoro ha avuto inizio con l’ascolto del Canone in D

major composto da Johann Pachelbel, finalizzato a un’analisi

dell’idea barocca di bello e della ripetitiva circolarità espresse dalle

ventotto variazioni che si susseguono nell’opera. Si è notato come la

perfezione della realtà trasmessa dal compositore di Norimberga

dipenda da una proporzione fra armonia e melodia: in particolare

l’ascolto di questa composizione ha permesso di ricondurre la

proporzione matematica dell’opera a una concezione filosofica di

natura spinozianamente more geometrica.

L’ascolto del Preludio n.15 di Chopin, della Pastorale di

Beethoven e dell’Incompiuta di Schubert ha invece permesso di

esaminare le molteplici concezioni romantiche dell’idea di natura e

« ECCE MUSICA !

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Quaderni della Ginestra

48

spirito soggettivo, per poi approdare al penetrante decadentismo

mahleriano, con l’ascolto dell’Adagetto dalla Sinfonia n.5, e

wagneriano, con l’ascolto di alcuni brani dal Gotterdammerung (Il

crepuscolo degli dei), creando un ponte di riferimento con la

concezione di nichilismo e morte di Dio espressi da Nietzsche ne Il

crepuscolo degli idoli.

Parallelamente, il progetto didattico è consistito nell’assistere,

oltre al Trovatore verdiano al Teatro Regio di Parma, alle prove

generali di due concerti al Teatro alla Scala di Milano. Nella prima

prova, tenutasi il 14 marzo, il giovane maestro di musica israeliano

Omar Meir Wellber, coadiuvato al pianoforte dal maestro Scaligero

Daniel Barenboim, ha diretto l’Ottava Sinfonia di Beethoven, i

Concerti per pianoforte n.1 e n.2 di Liszt e le Variazioni per

Orchestra di Carlo Boccadoro. La seconda prova, tenutasi il 17

aprile, ha avuto invece come protagonista Valery Gergiev, prestigioso

direttore d’orchestra al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, che ha

diretto la Sinfonia n.6 Patetica di Tchaikovskij e il Concerto per

violoncello di Dvorak. Queste uscite sono state realizzate grazie

all’istituzione, presso il Liceo Ulivi, del GIS (Gruppo Interesse Scala)

attraverso al quale è stato creato un rapporto istituzionale tra il Liceo

e il Teatro di Milano.

Osservare all’opera gli esecutori e ascoltare dal vivo questi

concerti sono state occasioni per ulteriori analisi dedicate al ruolo del

maestro di musica nell’esecuzione di un’opera. Riguardo a ciò sono

state ascoltate in classe due versioni differenti del Canone in D: l’una

in cui gli strumenti danno corpo a voci nette e separate, l’altra in cui

traspare maggiormente un’idea di circolarità e ripetitività coerente

con il concetto di natura espresso dal monismo spinoziano.

Il progetto si è quindi concluso con l’analisi di alcune delle

principali arie dal Don Giovanni di Mozart, attraverso gli studi

kierkegaardiani – poi comparati con la filosofia freudiana – su

questo personaggio, simbolo dell’esistenza estetica e delle categorie

di possibilità, disperazione e angoscia.

Terminato il progetto, ho quindi deciso di promuovere una serie di

interventi radiofonici, intitolati Pillole Musicali1, inserendoli in Radio

Noi dell’Ulivi, radio in podcast del Liceo, che ha permesso di rendere

fruibili le analisi compiute in classe, arricchendole di ulteriori letture.

A livello personale, l’esperienza didattica è stata positiva per

almeno due aspetti. Da un lato ha permesso un generale

avvicinamento degli studenti a una certo tipo di musica, analizzando

le varie forme musicali al di là della mera tecnica e, al contempo,

comprendendo le ragioni per cui la musica è specchio di un’epoca. In

questo senso il progetto intrapreso è riuscito a ridurre le distanze tra

scuola e analisi musicale, stimolando nella scuola un confronto e un

dibattito critico sulla musica ed evindenziando come la musica stessa

possa costituire uno strumento essenziale per ampliare le conoscenze

e creare collegamenti intertestuali fra diverse discipline, periodi

storici, autori filosofici e letterari.

Dall’altro lato, l’analisi musicale attraverso concetti filosofici ha

consentito di arricchire di significati aggiunti opere che hanno fatto la

storia della musica. In particolare, ha permesso un approccio diverso

alla musica, filosoficamente comprensivo di quanto la musica stessa

sia evasione, oltrepassamento dei limiti, risoluzione del finito

nell’infinito e ricerca del sublime.

Come affermava H. Heine infatti, “dove le parole finiscono, inizia

la musica”. E allora, ecce musica!

FRANCESCO GALLINA

1 Ascoltabili all’indirizzo: http://radio.scuolaer.it/radionoidellulivi/.

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49

IN LIBRERIA Vite rinchiuse

Marco Deriu, Gated communities, gated life Paola Somma, La città dell’ingiustizia. Politiche urbanistiche e segregazione

Nan Ellin, Supporto vitale: Nacirema redux Elisabetta Forni, La reclusione dell’infanzia. Com’è difficile crescere in città

Vincenzo Scalia, Dall’altra parte del cancello. La vita dietro le sbarre di due detenuti Marina Valcarenghi, Espropriare e ferire. Appunti sulla psicologia del carcere in Italia

Cinema e prigioni

Corrado Piroddi, Reclusi in 35 millimetri

Archivio: Il socialismo di Fournière

Eugène Fournière, Individualismo e socialismo Philippe Chanial, Il socialismo, un liberalismo di estrema sinistra? Fournière, la questione

dell’individualismo e l’associazione

Individualismo

Franco Crespi, Quale individuo oltre l’individualismo?

Scienza e realtà Gian Luca Sanna, Logica e realtà in Alfred Schütz

Polanyi oggi

Nancy Fraser, Mercatizzazione, protezione sociale, emancipazione. Verso una concezione neo-polanyiana di crisi capitalista;

Note di lettura Pierangelo Di Vittorio, Alessandro Manna, Enrico Mastropierro, Andrea

Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo (Francesco Paolella); Karl Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica. Commento storico

critico di Marcello Musto (Gianfranco Ragona); Giorgio Triani, L’ingorgo (Valeria Zangrandi); Massimiliano Guareschi, I volti di Marte. Raymond Aron sociologo e

teorico della guerra (Francesco Raschi)

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Libri in discussione

51

PER UN INDIVIDUALISMO DEMOCRATICO

osa intendiamo oggi col termine individualismo? In quale

contesto si inserisce questo concetto? Ma soprattutto: ha

senso interrogarsi ancora su tale tematica?

A queste e ad altre domande cerca di rispondere Nadia Urbinati,

docente di Teoria politica presso la Columbia University, nel suo ultimo

libro, Liberi e uguali. Tale ricerca prende le mosse dalla necessità primaria

di proporre un diverso sguardo sulla democrazia, qui intesa come

«ordine politico che meglio è disposto e predisposto a trattare gli

individui come liberi e uguali». Problematizzare il ruolo dell’individuo

risulta quindi più che attuale in una società che cambia a ritmi

sorprendentemente veloci.

Filo conduttore di tutta l’opera è il legame tra libertà e uguaglianza,

aspetti inseparabili dell’individualità e della socialità: l’individuo è libero

di agire da solo ma allo stesso tempo può decidere di collegare i suoi

sforzi a quelli dei suoi simili poiché la relazione tra loro esistente è di

eguaglianza. L’idea di base è «che gli esseri umani, donne e uomini, siano

eguali per valore e dignità morale e che nessuno abbia per natura,

tradizione, convenzione, volontà umana o divina un potere superiore

tale per cui possa prendere decisioni sulla vita degli altri senza o contro

il loro consenso». Tale uguaglianza «consente a tutti noi di prendere

decisioni collettive sulle questioni che ci riguardano». Ciò che rende

possibile tale relazione è la democrazia in quanto insieme di istituzioni

che regolano senza distinzioni i rapporti tra liberi cittadini. A partire da

questi presupposti Urbinati introduce il concetto di individualismo

democratico, privo di qualsiasi accezione negativa in virtù della presa di

distanza dall’egoismo. Tale concetto declina la possibilità per il singolo

di costruirsi in piena libertà e allo stesso tempo di interagire col

prossimo per mezzo del diritto, che qui riveste il ruolo di una lingua

comune, poiché uguale per tutti indipendentemente. Scrive al riguardo

l’autrice: «L'individualismo democratico è l'alternativa più coerente

all'ideologia individualista perché è una cultura politica e morale di

rispetto della persona, dei suoi diritti e della sua fondamentale

eguaglianza». Si tratta quindi di una concezione diversa dall’ideologia

liberale classica: se da una parte la teoria liberale è sostenitrice della

tolleranza (nel senso di mera accettazione passiva della diversità senza

apertura al confronto), dall’altra l’individualismo democratico è dotato della

capacità di porre al centro della propria riflessione l'uguale dignità della

vita umana e di spingere «in direzione del dialogo e della disponibilità

all’ascolto» .Compito delle istituzioni politiche non è quindi la semplice

tutela dei diritti del singolo, ma la realizzazione di politiche di intervento

C

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Quaderni della Ginestra

52

indirizzate al cittadino nel suo momento pubblico, con l’intento di

favorire l’incremento del dialogo, riservando a tal fine grande attenzione

al momento educativo. Ciò è possibile solo se l’individualismo si

ricolloca nel mondo delle categorie politiche, uscendo definitivamente

dalla morale e reinserendosi all’interno della vita democratica da cui

nasce e a cui naturalmente fa ritorno.

Si snoda su tali premesse l’indagine storica dei vari individualismi, dalle

accezioni che ne sono state date nella storia, agli sviluppi pratici di

interpretazioni fuorvianti e derive conseguenti all’egoismo. L’inevitabile

conseguenza dell’associazione dell’individualismo politico al mero

interesse privato è la crisi dell’uguaglianza repubblicana, e di pari passo

di quell’idea di sovranità popolare che è il punto su cui si regge una

comunità politica democratica. Nel caso di tale distorsione dell’idea di

libertà ci troviamo a scontrarci con le aberrazioni del rapporto tra

libertà ed eguaglianza, aberrazione per cui la libertà viene ridefinita in

base alla logica del possesso: come normalità, cioè come diritto di tutti,

sfocia nell’apatia e nell’indifferenza verso la politica, come privilegio di

alcuni, sulla base ad esempio di principi di appartenenza comunitaria o

territoriale, sfocia nell’autoesclusione dall’istituzione non riconosciuta.

Tanto l’indifferenza quanto l’esclusività del privilegio sono espressione

di un progressivo allontanamento dalla politica, che si attua nella

chiusura nel proprio privato (apatia verso la cosa pubblica, quindi

disinteresse nei confronti della politica) piuttosto che nella ricerca di un

sistema valoriale codificato differente dal diritto istituzionalizzato

(gregarismo, inteso come costituzione di comunità chiuse). A tal

proposito Urbinati cita come esempio l’attaccamento a un sistema di

valori di appartenenza territoriale, come principi di esclusione dalla vita

della comunità nella sua totalità. Proprio tale esempio ci spinge a

riflettere su situazioni che ci si presentano nel quotidiano, ascoltando la

voce di quei gruppi che vanno formandosi sulla base di principi di

appartenenza territoriale e conseguente esclusione dei nuovi arrivati sul

principio di non originarietà, piuttosto che le comunità saldamente

vincolate a dogmi religiosi. Ritroviamo qui l’importanza della riflessione

sull’individualismo e sul suo ruolo all’interno della democrazia, ma

anche sul ruolo della democrazia nella creazione dell’individualità. Come

sostiene infatti Urbinati nella prefazione del testo: «L’individualismo è il

fondamento politico e ideale della democrazia e non è identico né a

egoismo antisociale né a indifferenza verso gli altri e la politica. Questo

rende la distinzione tra forme di individualismo un esercizio tutt’altro

che scolastico e inutile».

Secondo Urbinati la democrazia non ha bisogno di rintracciare i suoi

presupposti all'esterno, proprio perché costruisce e si costruisce

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Libri in discussione

53

sull’individuo, o meglio sugli individui tra loro uguali a cui fornisce gli

strumenti per comunicare, qualora lo vogliano, la propria individualità.

Ma è proprio per questa sua duplice anima che la democrazia non arriva

mai ad un traguardo, bensì è in continuo movimento: «la democrazia è il

solo regime che non ha una meta specifica ed è un moto perpetuo verso

un fine che è sempre al di là delle sue contingenti realizzazioni». La

libertà individuale è ciò che consente di esprimere la propria opinione e

quindi il proprio dissenso nella certezza del rispetto da parte dell’altro

ma anche nell’applicazione del medesimo rispetto sulla base del

principio di eguaglianza. Finché saranno rispettati gli individui

democratici, quindi i principi di libertà ed eguaglianza, non si incapperà

nel rischio della fine della democrazia, poiché tali principi garantiscono

il diritto di espressione e la pari dignità di ogni individuo

nell’esternazione del proprio pensiero. Tale concezione dell’individuo

nella democrazia consente al dibattito di non estinguersi e quindi alla

democrazia stessa di non degenerare in una forma politica incentrata sul

potere di pochi o di un solo individuo.

Ritroviamo in questo percorso storico attraverso le varie forme di

individualismo l’attenzione propria di Urbinati all’analisi della

contemporaneità, a partire dal confronto preciso tra differenti punti di

vista. Il testo vuole dunque essere punto di partenza per una riflessione

sulla società, presa nel suo momento politico, cioè nel momento della

scelta comunitaria in cui l’individuo costruisce se stesso nel rapporto

con l’altro (attenzione alle ripetizioni!). Tale lettura ci spinge quindi a

due osservazioni proprio in virtù della nostra condizione di cittadini di

una democrazia: la prima riguarda la capacità di far coesistere il

principio di maggioranza con la libertà di pensiero ed espressione del

singolo, la seconda, diretta conseguenza e allo stesso tempo punto di

partenza della prima, riguarda la necessità vitale per una democrazia di

coltivare un dissenso costruttivo nei confronti della politica. Solo

attraverso questi due momenti sono possibili l’espressione e la

concretizzazione dell’individualismo democratico, cioè quel momento di

condivisione basato sulla consapevolezza della propria libertà che è

anche libertà dell’altro.

MIRELLA LUCCHINI

Nadia Urbinati, Liberi e uguali, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 175, € 16.

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Quaderni della Ginestra

54

LA LIQUIDITÀ DELLE BARBARIE

‟incontro con una delle opere del sociologo polacco Zygmunt

Bauman è un implicito invito a conoscere meglio e più

approfonditamente il suo pensiero. In particolare in Lo spettro dei barbari

– ultimo suo saggio tradotto in italiano – si ritrovano le tesi

maggiormente note dello studioso messe in connessione con una

problematica antica e contemporanea allo stesso tempo: quella del

rapporto col diverso, con lo straniero.

Ma chi è „il barbaro‟? E‟ un qualcuno con cui si fatica a comunicare,

del quale non ci si fida completamente, che si percepisce come lontano

e come estraneo. La sua presenza crea disagio e insicurezza, porta

all‟emergere di paure e alla necessità di un atteggiamento difensivo che

vada a confermare quella che è la „nostra‟ quotidianità, ora messa in

dubbio dalla presenza di „persone‟ con stili di vita differenti.

Come risolvere dunque questa „fastidiosa‟ e faticosa situazione?

Bauman propone due strategie – riprese dalla riflessione di Claude Lévi-

Strauss – l‟una antropofagica e l‟altra antropoemica. «La prima

consisteva nel “divorare” lo straniero fisicamente o metaforicamente:

mangiandone letteralmente la carne come nel caso del cannibalismo

oppure, nei tempi moderni della costruzione nazionale, tramite

un‟assimilazione culturale imposta o guidata dal potere. […] La seconda

strategia, al contrario, consisteva nel “vomitare” gli stranieri: isolandoli

dai “nativi”, sterminandoli o costringendoli ad andarsene».

Storicamente si è affermata inoltre una terza opzione: il barbaro non

è solo il diverso, ma l‟inferiore, colui che va „guidato‟ dalla civile e

civilizzante Europa verso la modernità. I popoli barbari necessitavano

d‟essere condotti alla civiltà, dovevano essere portati fuori dalle barbarie

e, finché ciò non fosse avvenuto, sarebbero stati considerati fuori dalle

norme usualmente utilizzate.

Abilmente, Bauman ricorda la triste sorte toccata alle civiltà

precolombiane in nome della civiltà, e anche come questa visione della

storia sia stata fatta propria da quei filosofi che dovevano giustificare la

«marcia trionfante e inarrestabile della ragione verso la vittoria finale

sulle passioni».

Si è in presenza di un ribaltamento delle responsabilità, di una logica

dei „due pesi e due misure‟ in funzione del fine che si fa proprio:

civilizzare è nobile missione e se costa vite umane ciò è giustificato.

Mentre essere barbari è condizione odiosa e condurne fuori chi ne è

vittima è scopo nobile, anche se questo implica violenza e crudeltà.

Ed è su tale tipologia di violenza che sorge la necessità di una

riflessione, ponendola in relazione al concetto di „legittimità‟. Sono

L

Page 56: Quaderni della Ginestra 3

Libri in discussione

55

tutt‟altro che rari i casi in cui si ritiene che la violenza sia legittima e ad

affermare questo sono proprio i governi, ovvero coloro che sono

autorizzati a gestire il potere.

E nulla è reputato più legittimo che difendere la libertà e la civiltà da

quei regimi che ne sono esclusi: costoro vengono sospesi dai „diritti

umani‟, che solitamente a tutti

vengono garantiti, e sovente

ciò si giustifica «perché

venivano descritti come

incapaci o restii ad adottare le

norme del vivere civile, perché

mancavano di quelle qualità

che è necessario possedere per

poter seguire tali norme,

perché erano umani imperfetti,

sub-umani, non veramente

umani “come intendiamo noi”».

Pericolosamente si torna

alla concezione di „persone non umane‟, richiamando quel concetto di

disumanizzazione che venne fatto proprio dalle „barbarie‟ naziste,

analogia citata esplicitamente da Bauman che etichetta il caso nazista

come esempio di una potenza barbarica del mondo civilizzato.

Siamo in presenza di una visione liberale teleologica della storia che,

da Hegel in avanti, ha sancito l‟evoluzione storica come passaggio dalle

barbarie alla civiltà/libertà e che è tutt‟altro che superata. Pare essersene

però sdoganato il concetto di cultura, che, in un‟ottica multiculturale e di

modernità liquida, diviene «misura della libertà di scelta dell‟individuo»,

il quale si carica di responsabilità e si proclama unico soggetto della

«politica della vita». Al fine di comprendere questa affermazione è

necessario ricordare come Bauman definisce la modernità liquida: «La

modernità-liquida è una condizione di logorante guerra permanente

intrapresa contro qualsiasi sorta di paradigma e qualsiasi congegno di

omeostasi, di promozione della conformità e della routine, tesa a

sostenere eventi ripetitivi e monotone riproduzioni di schemi».

Nella „liquidità‟ i paradigmi cessano di avere un senso in quanto tali,

tra questi anche il concetto di cultura, figlio della illuminista modernità-

solida. Il progetto nato dall‟Illuminismo considerava infatti la cultura

come una sorta di diritto universale cui tutti dovevano approdare e

veniva posto di pari passo con la necessità di civilizzare les barbares e di

portare a termine la costruzione dello Stato-Nazione. Si creò così una

dicotomia tra cultura-ordine e barbarie-caos che a lungo accompagnò il

percorso storico del colonialismo e dell‟imperialismo, trovando

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Quaderni della Ginestra

56

gradatamente un alleato nella „teoria dell‟evoluzione‟, intesa nelle sue

molteplici accezioni.

Oggi la cultura „liquida‟ ha abbandonato queste rigidità rendendosi

maggiormente flessibile a quello che Bauman definisce come un mondo

di consumatori estremamente variegato e irrequieto. «La cultura

“liquida” non ha persone da coltivare. Ha invece clienti da sedurre.

Diversamente dal suo antenato “solido”, non ha nessuna missione da

adempiere e completare. Il suo obiettivo è quello di sopravvivere in

eterno, seguendo ogni istante della vita dei suoi adepti e condannandoli

a un‟eterna parzialità».

Vivere nella diversità è ormai una condizione di fatto dell‟uomo

contemporaneo, che si trova inserito in un contesto in continuo

movimento ove parlare di una cultura universale è divenuto fuorviante.

Il barbaro non è più così chiaramente identificabile né riconoscibile,

le culture non sono più in una situazione nettamente gerarchica. Anzi,

l‟accusa di barbarie viene spesso bollata come non politically correct e

coloro che fino a poco tempo fa erano oggetto dell‟azione civilizzatrice

ora la valutano e sovente ne bocciano gli esiti. Fuoriesce da qui una

triplice disfatta della civiltà: verso i suoi standard, i suoi impegni e i suoi

risultati (reali o presunti che fossero). «Conformemente ai comuni usi

semantici della narrazione moderna, si potrebbe dire che la sovranità

consiste nella capacità di passare dallo stato civile allo stato di barbarie… O

almeno nel diritto effettivo di designare i luoghi, i periodi e le categorie

di oggetti in cui, o in relazione ai quali, la barbarie (come assenza di

diritto) è permessa».

E ciò è tristemente accaduto ad Auschwitz come ad Abu Ghraib, a

Guantanamo ed in altri luoghi ove sono state collocate persone hors de

loi. Evidenzia Bauman come oggi la legge si mostri più come assenza,

sospensione, pigrizia, indifferenza piuttosto che nella sua componente

attiva. Il che rende lo „stato d‟eccezione‟ arma sempre più utilizzata dai

governi per gestire momenti di crisi senza per questo riuscire realmente

a risolverli. «Fomentare l‟ansia collettiva e le paure individuali è oggi uno

dei dispositivi a cui si fa più frequentemente ricorso; a dimostrazione

che il tratto caratteristico dell‟attuale sovranità politica è dato dal diritto

di reintrodurre, per intero o selettivamente, lo stato di barbarie.

Bisognerebbe riconoscere l‟importanza che tale scoperta possiede, e

trattarla con la serietà che merita».

MARA FORNARI

Z. Bauman, Lo spettro dei barbari. Adesso e allora, Bevivino Editore, Milano-Roma, 2010, pp.64, € 9,00.

L‟OPERA RIPRODOTTA È DI MASSIMO VIOLI

Page 58: Quaderni della Ginestra 3

Libri in discussione

57

ona uscita della collana La Ginestra, i Monologhi di Friedrich D.E.

Schleiermacher, versione italiana dei Monologen (1800),

rappresentano un documento significativo dell’individualismo morale

della cultura romantica, contenendo, in forma lirica e non sistematica, il

nucleo del pensiero etico del teologo berlinese, e documentando al

contempo la fase più propriamente romantica del suo percorso.

Obiettivo dell’opera è presentare ad anime affini il dono di un dialogo

interiore, con una duplice finalità: condividere il pensiero libero del

proprio spirito, e offrire all’altro la possibilità di una nuova scoperta del

proprio sé. La visione dell’individualità che emerge, come sottolinea il

curatore Ferruccio Andolfi nel saggio introduttivo, è dunque finalizzata

a questa apertura altruistica: l’affermazione della propria individualità

produce per contagio l’emergere di altre individualità. E proprio il

saggio introduttivo, assieme alle annotazioni finali di Friedrich Michael

Schiele, autore nel 1902 di una preziosa edizione critica dei Monologhi,

costituisce un’importante chiave di lettura dell’opera, che evidenzia gli

autori – Fichte e Kant – con cui Schleiermacher si è maggiormente

confrontato, e l’influenza delle sue tesi nel dibattito sull’individualismo

del diciannovesimo secolo. Rispetto a Fichte, Schleiermacher, nel

tentativo di congiungere riflessione e vita, rifiuta la separazione «tra una

sfera della vita, che sia governata dalla pura necessità naturale», e «una

sfera trascendente, spirituale, nella quale trovi espressione il punto di

vista filosofico». Il contrasto con Kant si manifesta invece sul piano

etico. All’«innovazione kantiana dell’autonomia e dell’universalità della

legge come fondamento irrinunciabile su cui l’etica deve essere

costruita», Schleiermacher contrappone un’etica che bandisce ogni

elemento imperativo e mette in discussione l’universalità della legge. Ciò

presuppone per Schleiermacher «la ricerca di una nuova forma di

legalità, pensata in analogia alla “legge naturale”», che regga la crescita

organica e i processi di autoformazione, e inauguri così

quell’individualismo della differenza che, secondo Simmel, ha fortemente

influenzato le filosofie individualistiche successive.

Il testo è suddiviso in cinque meditazioni (riflessione, sondaggi, mondo,

prospettiva, gioventù e vecchiaia), di cui le prime due presentano i

presupposti concettuali su cui si basano le successive. Nella prima

meditazione si evidenziano due tesi fondamentali: il fatto che «ogni

attimo nel corso della vita ha una connessione diretta con l’Eterno e

l’Infinito», e che il mondo esterno riflette il nostro essere interiore. In

questo senso secondo Schleiermacher, il nostro essere interiore – il

N

L’INDIVIDUO E LA COMUNITÀ DEGLI

SPIRITI

Page 59: Quaderni della Ginestra 3

Quaderni della Ginestra

58

nostro spirito – diviene la prima e unica realtà, che crea il mondo come

proprio specchio. Non dobbiamo però presumere che, così concepito,

l’io (lo spirito) si muova nel vuoto: ad esso si contrappone infatti

«l’eterna comunità degli spiriti» che, attraverso il loro reciproco influsso,

trasformano e plasmano la superficie dell’individuo. L’essenza umana

viene dunque concepita come una «comunità di spiriti che si

definiscono e si limitano reciprocamente».

A queste tesi si collega l’etica di Schleiermacher, i cui tratti principali

sono ben delineati nella seconda meditazione. L’autore in particolare si

sofferma sul rapporto tra la coscienza del singolo e quella dell’umanità. Per

l’individuo attingere alla coscienza dell’umanità rappresenta un primo

passaggio per cogliere l’umanità che ha in sé. Il passaggio decisivo consiste

però nell’abbandonare questa coscienza dell’umanità e cogliere

l’individualità incomparabile di ciascun essere: «ogni uomo deve

rappresentare l’umanità a modo proprio, con una mescolanza particolare

dei suoi elementi». In questo senso si può ben cogliere l’importanza che

Schleiermacher attribuisce al processo di formazione del sé, essenziale per

scorgere il profilo più intimo (l’identità) del proprio essere. La formazione

non è però un processo che il singolo può vivere in completa autonomia,

ma esige piuttosto una comunione con gli altri spiriti, necessaria per una

costruzione di sé attraverso un continuo scambio del dare e del ricevere.

Page 60: Quaderni della Ginestra 3

Libri in discussione

59

Nella terza meditazione Schleiermacher si concentra invece sulla

concezione illuministica del mondo. Di questa, condivide l’idea di una

continuità di generazioni e opere che si sono succedute nel tempo, ma

critica l’innalzamento progressivo del benessere materiale come fine

ultimo. Questo fine ultimo, secondo Schleiermacher, non deve essere

rintracciato nella materialità, ma piuttosto in una comunione di spiriti

affini. Su queste basi l’autore sviluppa anche una sottile critica alle

istituzioni sociali, colpevoli di esplicare solo limitate possibilità materiali,

escludendo la possibilità di potenziare la propria formazione interiore.

Altre forme associative sono tuttavia possibili e forse anche prossime a

realizzarsi, benché Schleiermacher, in quest’opera, non ne delinei i tratti

fondamentali.

Infine, nelle ultime due meditazioni, la critica di Schleiermacher si

sofferma su due punti: l’idea di un destino (o di una divina provvidenza)

che annulli le decisioni (e quindi la libertà) dell’uomo, e la presunta

connessione tra vita dello spirito ed età della vita. Per quanto riguarda il

primo punto, l’autore sottolinea come, «a partire da quel primo atto

originario della volontà che lo costituisce, l’uomo resta padrone di sé» e

si sottrae a ogni potenza estranea, negando così la possibilità di un

destino che annulli le decisioni individuali. È vero, sottolinea

Schleiermacher, che l’agire e la libertà degli altri uomini sembrano

limitare alcuni aspetti della mia libertà, tuttavia tutto ciò che proviene

dall’agire comune degli uomini passa comunque attraverso la mia libertà.

E l’azione che in ogni momento sono in grado di intraprendere mi dà la

certezza di disporre sempre di me stesso, attraverso la crescita della mia

vita interiore. La critica all’idea di una connessione tra vita dello spirito

ed età della vita (gioventù e vecchiaia) si basa invece su due assunzioni

preliminari: l’indipendenza dell’anima dal corpo, e il fatto che lo spirito

sia presente per l’intera durata della vita e non sia soggetto a

logoramento. Su questi presupposti Schleiermacher evidenzia come

virtù e malanni di un uomo (sia del corpo che dell’anima) siano

effettivamente ripartiti in modo diverso tra gli uomini, ma anche come

questa ripartizione sia indipendente dalle stagioni della vita. Lo stesso

discorso può essere esteso al processo di formazione del proprio sé (del

proprio spirito) che, fondato sulla certezza e sulla persistenza della

libertà interiore, ne percorre indistintamente tutte le età.

TIMOTHY TAMBASSI

Friedrich D.E. Schleiermacher, Monologhi, Diabasis, Reggio Emilia 2011,

pp. 128, € 12

L’OPERA RIPRODOTTA È DI GIACOMO CARRA

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Quaderni della Ginestra

60

SEMPRE DI CORSA: L’OSSESSIONE DELLA FRETTA.

distanza di un anno da Bentornato Marx! Diego Fusaro ha

pubblicato Essere senza tempo, disponibile in libreria dallo scorso

autunno. Il titolo di questa ultima opera rievoca immediatamente il noto

capolavoro heideggeriano del 1927, ma l’essere pensato da Fusaro in

quanto senza tempo si delinea, in verità, entro la cornice di un dialogo con

molteplici interlocutori: voci che spaziano dall’affermazione

dell’incessante fluire di tutte le cose in Eraclito alla visione baumaniana

di un postmoderno che si identifica con la fluidità e la considera uno

stadio insuperabile. Anche la letteratura entra a pieno titolo nella

riflessione di Fusaro che indica, come cruciale premessa di metodo,

l’opportunità di assumere la fretta, figura per eccellenza della mancanza

di tempo (dell’essere, appunto, senza tempo), come fenomeno

soggettivo e quotidiano ma inscindibile da quell’accelerazione della

storia, quindi di un orizzonte relativamente extrasoggettivo, che si

produsse a partire dalle due grandi Rivoluzioni del XVIII secolo. Si può

dire che la dimensione circoscritta dell’esperienza dei singoli e quella,

ben più estesa, delle trasformazioni epocali vertiginosamente accelerate

in età moderna si implichino a vicenda. Tematizzare filosoficamente la

fretta significa allora mantenere congiunti entrambi i piani, recuperando

il tratto comune che li caratterizza nella vergangene Zukunft (‘futuro

passato’) introdotta da Koselleck, in quel futuro che nell’atto di farsi

presente è già passato.

La tesi del ‘futuro passato’ emergente nel primo capitolo prelude

all’indagine, nel secondo, delle cause che scatenarono un simile

sconvolgimento della temporalità. In parte già anticipate, esse

corrispondono alla Rivoluzione industriale e alla Rivoluzione francese.

L’una in ambito socio-economico, l’altra in ambito socio-politico, sono

lette come eventi connotati da radicalità e rapidità, potenti catalizzatori

ora della dissoluzione del passato, ora della corsa verso un futuro di

innovazione e miglioramento generale. Il pensiero illuminista, trait

d’union tra le due Rivoluzioni, fu, per richiamare una felice immagine

proposta dall’autore, il detonatore di un’esplosione annunciata, come se

nella seconda metà del ‘700 una fiamma fino ad allora lenta e tenue

avesse preso a divampare. Con la Rivoluzione industriale, tuttavia, il

nuovo regime di produttività iniziò a profilare la frattura, destinata in

seguito ad approfondirsi, tra i tempi ipersegmentati che rispecchiavano

la crescente divisione del lavoro e i ritmi biologici inesorabilmente

perturbati: la fretta in senso proprio si originò dalla tensione a seguire i

primi adeguando ad essi i secondi.

Figlia delle due Rivoluzioni fu la persuasione che la storia,

A

Page 62: Quaderni della Ginestra 3

Libri in discussione

61

configuratasi nella linearità di un processo

singolare e, quasi per conseguenza inevitabile,

proiettata verso un avvenire migliore, si fosse

avviata sulla strada di mutamenti irreversibili.

Al riguardo Fusaro insiste sul carattere delle

Rivoluzioni quali direttrici parallele di un’unica

dinamica di ‘infuturamento’ accelerato,

delineato nelle previsioni dei philosophes. Come

detto, la fretta relativa ai ritmi esistenziali

derivò dal combinarsi di ambedue gli eventi

storici, e di qui – parafrasando Freud – il

‘disagio della velocità’, l’anticamera

all’alienazione cui il capitalismo condannò le

masse lavoratrici rendendo impersonale

l’irrequietezza produttiva rispetto alle esigenze

di tempo dei singoli. L’esistenza umana fu

denaturalizzata così come il tempo, dapprima

misurato in funzione dell’alternarsi delle

stagioni e poi sottomesso a criteri artificiali. In un passo suggestivo del

libro, Fusaro, menzionando Schivelbusch, collega tre bevande alle tre

differenti classi sociali: mentre la cioccolata può essere ritenuta

l’emblema dei costumi rilassati e dei ritmi

languidi dell’aristocrazia, il caffè esprime lo

spirito di una borghesia industriosa,

l’acquavite lo stordimento necessario

richiesto dai lavoratori per liberarsi

rapidamente dalla fretta alienante della

produzione. E tutto all’ombra di miti del

progresso come la locomotiva che,

inarrestabile, divorava le rotaie dello spazio e

del tempo.

Un’idea di accelerazione di questo genere,

continua Fusaro nel terzo capitolo, era

ignota all’antichità, là dove la fretta esisteva

ma legata strettamente alle azioni individuali,

non certo alla dimensione storica. Risalendo

oltre il XVIII secolo, tuttavia, è forse

possibile rinvenire una formulazione

embrionale della nozione di ‘fretta’ nel

pensiero cristiano, tale quindi da prefigurare la diagnosi dei moderni di

vivere in una fase di accelerazione ineludibile? Senza dubbio, con

l’avvento del cristianesimo, la linearizzazione sostituì la circolarità del

Page 63: Quaderni della Ginestra 3

Quaderni della Ginestra

62

tempo; e tuttavia è opportuno seguire Löwith sostenendo che

l’escatologia giudaico-cristiana, tradottasi nell’attesa di un fine

trascendentale destinato a irrompere nella temporalità, fu secolarizzata e

immanentizzata proprio in età moderna? Fusaro mostra di diffidare dei

riduzionismi che si annidano sotto ipotesi così generali ribadendo gli

aspetti peculiari e originariamente settecenteschi del concetto di

accelerazione della storia.

Un percorso attraverso le ‘filosofie della fretta’, nel quarto capitolo,

guida il lettore verso quello conclusivo, evocativamente intitolato

‘Accelerazione senza futuro e nichilismo della fretta’. Proprio in questa

sede si può apprezzare l’originalità dell’interpretazione di Fusaro. All’età

contemporanea, segnata da tappe decisive come la fine della Guerra

Fredda e la dissoluzione del blocco sovietico, si attaglia, potremmo dire,

la definizione di fase di accelerazione ohne Warum (‘senza perché’),

riprendendo la nota espressione di Angelo Silesio. Nonostante

quantitativamente la corsa alla produzione non abbia subito contrazioni,

e anzi, cresca d’intensità in un contesto di mercato globale, rimane

aperta la questione sulla natura del fine che essa persegue e in vista del

quale impone agli individui ritmi esistenziali sempre più concitati. In

realtà, proprio in quanto senza perché, la sola finalità ammessa si traduce

nella necessità di preservare l’assetto vigente, ossia quello della macchina

capitalistica che da strumento si è progressivamente imposta come fine

in sé. Le attese, di sapore illuminista, di un futuro fortemente accelerato

ma volto al bene dell’umanità, cedono così il passo ad un presente

cangiante, benché essenzialmente irrevocabile nel suo primato di unica

dimensione temporale, in cui l’agire umano risulta del tutto simile alla

corsa su un tapis-roulant. L’individuo non può rinunciare al suo statuto di

homo currens pur ignorando la meta cui tende quello sforzo sempre più

intenso; e, in fondo, non deve nemmeno conoscerla così da evitare,

preventivamente, deviazioni rispetto alla direzione sempre uguale cui il

nastro – per rimanere nella metafora – lo conduce. L’accelerazione del

postmoderno, dunque, nella visione di Fusaro è divenuta funzione in e

per se stessa, desertificando le speranze degli uomini e annichilendo il

loro futuro in un’eterna presentificazione.

GIACOMO MIRANDA

D. Fusaro, Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita, Bompiani,

Milano 2010, pp. 411 , !12.

L’OPERA RIPRODOTTA È DI ANGELO MASSARO

Page 64: Quaderni della Ginestra 3