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59 Il secondo livello ha invece tre aperture per lato an- che se di minore altezza. In origine il secondo livello presentava due finestre anche sul lato nord-orientale che poi è stato occluso con la costruzione della Chie- sa stessa. Le murature presentano due paramenti ben distinti: quello esterno molto regolare e quello interno più irregolare e rimaneggiato. Gli spessori variano da circa 150 cm a circa 100 cm rispetto ai vari livelli e rispetto ai muri. In genere quelli di monte sono più spessi di quelli di valle a favore di stabilità. Si può dedurre che i vani fossero coperti da volte, successivamente demolite. Il quadro fessurativo, (fig. F), è piuttosto semplice e assestato e rimanda ad una situazione particolare nel- la storia dell’edificio. La parete fessurata è essenzial- mente quella a sud-est e cioè quella di valle. Il movi- mento ha interessato anche la crociera coinvolta dal moto del pilone di valle, poi frenato da un evidente contrafforte. La lesione corre diagonalmente partendo dal paramento sottostante la prima cornice marcapia- no passando per lo spigolo esterno della finestra più esterna, fino alla terza cornice sommitale passando dalla zona di chiave della finestra arcuata di mezzo del secondo livello. La divaricazione procede verso l’alto. Il muro si è separato in due sezioni di cui lo spigolo NW-SW è ruotato di circa 5 cm in sommità verso l’esterno in direzione NW, mentre il lembo del- l’altra sezione è ruotato anch’esso verso l’esterno fino a circa 10 cm in sommità, ma in direzione SW. La si- tuazione di dissesto sarebbe da addebitare al tentativo di sopraelevazione del XVIII secolo, ma concomitan- ze con eventi sismici coevi rendono incerte le cause, in assenza di fonti storiche pienamente attendibili. In conseguenza furono costruiti all’epoca il contrafforte sul pilone meridionale e un arco al secondo livello che si opponesse al moto della parete dissestata, collegan- dola con la parete opposta. Quest’ultimo fu demolito di recente. Non sono stati rilevati altri particolari segni di dis- sesto, se si eccettua la fessura al primo livello per la mancata ammorsatura tra le pareti non coeve NW e NE. Sono state rilevate rare lesioni, nei vari paramen- ti, interni ed esterni, ma si è trattato sempre di eventi Quadro critico delle conoscenze Analisi dei dissesti Paolo Mattina La valutazione dello stato di dissesto degli edifici sto- rici costituisce un’attività analitica di estrema impor- tanza, oltre che di particolare impegno. Lo studio delle condizioni strutturali del manufatto e soprattutto del loro stato di efficienza o di degrado va condotto assieme al riconoscimento delle cause deter- minanti il decadimento stesso e descrivono un quadro di conoscenze necessario nella elaborazione completa del progetto di restauro. Lo studio strutturale realiz- za il supporto indispensabile alla progettazione degli interventi di ripristino dell’efficienza strutturale degli elementi resistenti. Lo studio strutturale trova una si- gnificativa relazione con la caratterizzazione chimi- co-fisica, mineralogico-petrografica e meccanica dei materiali, ai fini della scelta delle tecniche di conso- lidamento strutturale e dei materiali da impiegare ri- spetto alla compatibilità con gli schemi statici e con le caratteristiche chimico-fisiche dei materiali originari. Nel caso della Torre Ventimiglia, lo studio storico e quello morfologico condotto in situ, avevano eviden- ziato i rimaneggiamenti anche strutturali subiti nel tempo, le ultime demolizioni sommarie e le ricostru- zioni di alcuni elementi strutturali con l’utilizzo di tec- niche e materiali non propriamente tradizionali che ne avevano svilito in qualche modo anche l’immagine. La torre si presenta nella sua pianta solo apparentemen- te rettangolare, ma in realtà le irregolarità sono tali da rendere molto approssimativa tale schematizzazione, mentre la forma trapezoidale è più aderente. Si impo- sta su quattro piloni di buone dimensioni, collegati da arconi, da cui si dipartono le archeggiature costolonate diagonali che reggono le vele assieme agli arconi. I lati di nord-ovest e sud-est al primo livello si appoggiano alla parete cieca di nord-est (forse preesistente) della Chiesa attuale e presentano una coppia di bifore cia- scuno, così come l’altro lato sud-occidentale. F. Quadro fessurativo del prospetto meridionale

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Il secondo livello ha invece tre aperture per lato an-che se di minore altezza. In origine il secondo livello presentava due finestre anche sul lato nord-orientale che poi è stato occluso con la costruzione della Chie-sa stessa. Le murature presentano due paramenti ben distinti: quello esterno molto regolare e quello interno più irregolare e rimaneggiato. Gli spessori variano da circa 150 cm a circa 100 cm rispetto ai vari livelli e rispetto ai muri. In genere quelli di monte sono più spessi di quelli di valle a favore di stabilità. Si può dedurre che i vani fossero coperti da volte, successivamente demolite. Il quadro fessurativo, (fig. F), è piuttosto semplice e assestato e rimanda ad una situazione particolare nel-la storia dell’edificio. La parete fessurata è essenzial-mente quella a sud-est e cioè quella di valle. Il movi-mento ha interessato anche la crociera coinvolta dal moto del pilone di valle, poi frenato da un evidente contrafforte. La lesione corre diagonalmente partendo dal paramento sottostante la prima cornice marcapia-no passando per lo spigolo esterno della finestra più esterna, fino alla terza cornice sommitale passando dalla zona di chiave della finestra arcuata di mezzo del secondo livello. La divaricazione procede verso l’alto. Il muro si è separato in due sezioni di cui lo spigolo NW-SW è ruotato di circa 5 cm in sommità verso l’esterno in direzione NW, mentre il lembo del-l’altra sezione è ruotato anch’esso verso l’esterno fino a circa 10 cm in sommità, ma in direzione SW. La si-tuazione di dissesto sarebbe da addebitare al tentativo di sopraelevazione del XVIII secolo, ma concomitan-ze con eventi sismici coevi rendono incerte le cause, in assenza di fonti storiche pienamente attendibili. In conseguenza furono costruiti all’epoca il contrafforte sul pilone meridionale e un arco al secondo livello che si opponesse al moto della parete dissestata, collegan-dola con la parete opposta. Quest’ultimo fu demolito di recente.Non sono stati rilevati altri particolari segni di dis-sesto, se si eccettua la fessura al primo livello per la mancata ammorsatura tra le pareti non coeve NW e NE. Sono state rilevate rare lesioni, nei vari paramen-ti, interni ed esterni, ma si è trattato sempre di eventi

Quadro critico delle conoscenze

Analisi dei dissesti

Paolo Mattina

La valutazione dello stato di dissesto degli edifici sto-rici costituisce un’attività analitica di estrema impor-tanza, oltre che di particolare impegno. Lo studio delle condizioni strutturali del manufatto e soprattutto del loro stato di efficienza o di degrado va condotto assieme al riconoscimento delle cause deter-minanti il decadimento stesso e descrivono un quadro di conoscenze necessario nella elaborazione completa del progetto di restauro. Lo studio strutturale realiz-za il supporto indispensabile alla progettazione degli interventi di ripristino dell’efficienza strutturale degli elementi resistenti. Lo studio strutturale trova una si-gnificativa relazione con la caratterizzazione chimi-co-fisica, mineralogico-petrografica e meccanica dei materiali, ai fini della scelta delle tecniche di conso-lidamento strutturale e dei materiali da impiegare ri-spetto alla compatibilità con gli schemi statici e con le caratteristiche chimico-fisiche dei materiali originari. Nel caso della Torre Ventimiglia, lo studio storico e quello morfologico condotto in situ, avevano eviden-ziato i rimaneggiamenti anche strutturali subiti nel tempo, le ultime demolizioni sommarie e le ricostru-zioni di alcuni elementi strutturali con l’utilizzo di tec-niche e materiali non propriamente tradizionali che ne avevano svilito in qualche modo anche l’immagine. La torre si presenta nella sua pianta solo apparentemen-te rettangolare, ma in realtà le irregolarità sono tali da rendere molto approssimativa tale schematizzazione, mentre la forma trapezoidale è più aderente. Si impo-sta su quattro piloni di buone dimensioni, collegati da arconi, da cui si dipartono le archeggiature costolonate diagonali che reggono le vele assieme agli arconi. I lati di nord-ovest e sud-est al primo livello si appoggiano alla parete cieca di nord-est (forse preesistente) della Chiesa attuale e presentano una coppia di bifore cia-scuno, così come l’altro lato sud-occidentale.

F. Quadro fessurativo del prospetto meridionale

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scarsa entità e assestati da tempo. I fuori piombo più evidenti, quando ci sono, sono dell’ordine di qualche centimetro e rivelano in genere una certa indipenden-za del paramento esterno. È da sottolineare che nulla rimane delle vecchie volte e che al loro posto furono costruiti dei solai in laterocemento di cui uno a coper-tura dell’ultimo livello mai ultimato.

Quadro critico delle conoscenze

Diagnostica

Paolo Mattina, Luigi Guzzo

L’analisi critica del monumento è continuata con lo studio in situ e con il campionamento mirato per le successive analisi di laboratorio. Le diverse meto-dologie d’approccio allo studio dei monumenti per-mettono il confronto e l’integrazione dei dati e la verifica delle ipotesi che si possono formulare. Le indagini e i risultati delle prove di laboratorio, oltre che stabilire scientificamente natura e composizione dei materiali e prescrizioni funzionali all’esecuzio-ne delle tecniche di restauro, possono fornire notizie utili a ricostruire la successione delle fasi murarie. La fase d’indagine si è svolta con la consulenza della dottoressa Marisa Laurenzi Tabasso già direttrice del laboratorio chimico dell’Istituto Centrale di Restauro di Roma.Le indagini hanno seguito il seguente piano di lavoro:- indagine in situ- campionamento- analisi di laboratorioIn questo caso indagini e prove sono state effettuate dal laboratorio ARTELAB s.r.l. di Roma. Lo studio in situ ha previsto:- l’esame macroscopico dei materiali lapidei e litoidi (malte e intonaci) e della tipologia muraria per la preventiva caratterizzazione;- l’identificazione delle forme di alterazione macro-scopica, distribuzione e grado di sviluppo;

il campionamento mirato dei materiali per le suc-cessive analisi in laboratorio. L’esame in situ delle murature della torre ha consentito di catalogare al-meno sette fasi di muratura di cui quattro realizzate con materiali simili, che sono state accuratamente analizzate. Inoltre è interessante notare che l’esame in situ ha sottolineato che il materiale costitutivo delle ner-vature modanate della volta a crociera è diverso da quello utilizzato allo stesso livello per gli altri elementi architettonici, trattandosi di una arenaria giallastra.L’interpretazione dei risultati della campagna di in-dagine in situ ha permesso di ottenere soprattutto la mappatura dei degradi sulle superfici dei paramenti murari, cioè la rappresentazione grafica delle forme di alterazione e di degrado visibili ad occhio nudo, secondo una simbologia codificata8. Si riporta un esempio significativo riguardante il prospetto settentrionale della torre che dall’analisi è risultato il più degradato (tavola G). Successivamente all’esame in situ si è proceduto al campionamento mirato dei materiali lapidei e litoidi sulla base delle osservazioni precedenti. Gli obiettivi del campionamento dei materiali sono:- rappresentazione delle varie tipologie di materiali lapidei con riferimento alle fasi costruttive;- prelievo dei materiali interessati dalle più gravi forme di deterioramento;- correlare le varie forme di alterazione con la relati-va esposizione rispetto ai punti cardinali.In questo caso sono stati prelevati nove campioni di materiale lapideo, otto di malta, ulteriori sei campio-ni di materiale lapideo e litoide per la determinazione dei sali solubili e sei campioni di patine biologiche.Le analisi di laboratorio erano finalizzate a:- caratterizzare sia mineralogicamente sia petrogra-ficamente, i materiali lapidei e litoidi;- accertare e descrivere le principali forme di degra-do dei materiali e le possibili cause; - fornire indicazioni sulla vulnerabilità dei materiali in funzione anche della velocità di degrado;- evidenziare particolari cause delle forme più gra-

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vi di deterioramento ed eventuali interazioni con i trattamenti di consolidamento e protezione da ese-guire. I campioni rappresentativi sono stati sottopo-sti ad analisi mineralogico-petrografiche su sezione sottile al microscopio polarizzatore. Altri campioni sono stati sottoposti anche ad analisi diffrattometri-che (XRD) finalizzate all’identificazione delle varie classi di minerali argillosi presenti nella matrice fine dei materiali stessi. In particolare sono stati analiz-zati due campioni di arenaria quarzoso-feldspatico micacea e due campioni di litotipi a matrice carbo-natica, tutti nei livelli inferiori della Torre. In sintesi i risultati più significativi delle analisi e delle osser-vazioni hanno consentito di classificare sia i litotipi impiegati per la costruzione, sia quelli occorsi per i successivi restauri e manutenzioni. Riguardo alla provenienza si può affermare che du-rante la prima fase costruttiva i materiali sono stati prelevati in loco. Infatti l’abitato di Gangi si impo-sta su una formazione geologica costituita da livelli elasticizzati e deformati di bio-calcareniti giallastre alternate ad arenarie di colore grigio-verde-ceruleo. Anche il litotipo impiegato per la costruzione del se-condo livello potrebbe essere stato prelevato in zone prossime all’abitato. Il banco di provenienza era però costituito da bio-calcareniti giallastre, ma di tessitura e composizione molto simili a quella del primo livello. Non è stato possibile però risalire alla provenienza certa degli altri litotipi sia per l’inadeguatezza della cartogra-fia geologica ufficiale, ma anche per la complessità geologica della zona. Si potrebbe presumere una provenienza prossima per i materiali del terzo livello ed una generica prove-nienza dalla Sicilia settentrionale per la bio-calciru-dite grigiastra impiegata nel restauro di ampie zone del primo livello e dell’arenaria grigio-verde del re-cente rivestimento del basamento (pietra di Troina?).Si riportano nel seguito alcune schede relative a casi particolarmente significativi.

22. Esempio di degrado delle superfici: erosione, disgregazione e attacco biologico sulla bifora settentrionale superstite al primo livello

22.

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G.

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Quadro critico delle conoscenze

Interpretazione dei risultati

Paolo Mattina

I risultati delle analisi, che in genere hanno contenuti molto specialistici, devono essere interpretati ai fini del restauro lapideo per individuare e testare diretta-mente sul monumento le tecniche più opportune. In questo caso la fase di interpretazione si è svolta con la collaborazione della dottoressa Marisa Laurenzi Ta-basso già direttrice del laboratorio chimico dell’Isti-tuto Centrale di Restauro di Roma, con la consulenza della quale sono state elaborate le considerazioni se-guenti, opportunamente utilizzate per l’esecuzione dei lavori di restauro.

LitotipiIn definitiva dal punto di vista mineralogico i litoti-pi si possono sinteticamente dividere in due classi principali:- un’arenaria grigio-cerulea per la quale l’analisi dif-frattometrica delle frazioni più fini ha mostrato la presenza di minerali fillosilicatici di cui una parte è costituita da minerali argillosi appartenenti soprat-tutto ai gruppi dell’illite e della caolinite; è inoltre probabile la presenza della paligorskite, minerale af-fine alla sepiolite;- una bio-calcarenite gialla a granulometria variabile da fine a grossolana sino a calcirudite; queste hanno una composizione mineralogica variabile anche se è possibile affermare che il minerale preponderante è la calcite, poi il quarzo e altri minerali cosiddetti “terrigeni”, come le cloriti.E’ importante notare che in nessun campione di materiale lapideo è stata riscontrata la presenza di minerali argillosi fortemente espandibili (smectiti o vermiculiti) che avrebbero reso complesse le varie fasi di restauro (pulitura, consolidamento superficia-le, etc...) per l’incompatibilità con alcuni prodotti, specie consolidanti, in genere molto affidabili ma in

questi casi addirittura nocivi.Quasi tutti i materiali impiegati mostrano scarsa du-rabilità per caratteristiche intrinseche (tessitura e po-rosità soprattutto) e giustificano l’avanzato stato di deterioramento. In relazione ai risultati ottenuti è stato possibile sti-lare una scala empirica per quanto attiene la velocità di deterioramento riportata nel seguito da materiale più resistente a quello più vulnerabile:- calcari bio-clastici del terzo livello;- bio-calciruditi di restauro delle bifore e delle mo-nofore;- bio-calcareniti bio-calciruditi impure del primo livello;- arenarie grigio-verdastre-cerulee del primo livello.Particolarmente interessante è il risultato ottenuto dal campione 9L prelevato da uno dei costoloni della volta a crociera. All’esame visivo si poteva ipotizzare la presenza di uno o più stati di finitura sulla superficie lapidea, abbastanza separabili dal substrato, che appariva ben conservato. L’analisi ha consentito invece di scartare quest’eve-nienza mostrando che sulla bio-calcarenite sono presenti due tipi di deposito stratificati costituiti da prodotti precipitati da acque percolanti. Il deposito a contatto con il substrato é di circa mm 1.5, di natura calcarea costituito da lamine disposte a gruppi di cristalli di calcite ben formata con la presenza di alcuni cristalli di gesso tra le lamine. Lo strato superiore è invece più spesso, circa 4.5 mm, e costituito da cristalli aciculari di gesso che conten-gono inglobate particelle carboniose, ossidi di ferro e frammentini di materiale lapideo. Tali stratificazioni si sono formate a causa delle ac-que meteoriche le quali, infiltrandosi attraverso il pavimento del primo livello hanno disciolto sia la calcite delle calcareniti e delle malte sia le piccole quantità di gesso contenuto nelle malte. Infatti la calcite è la fase che precipita per prima essendo meno solubile del gesso che, trasportato al-l’esterno ancora in soluzione, viene depositato, man mano che l’acqua evapora, sopra il deposito calcitico inglobando anche il particolato atmosferico.G. Mappatura del degrado del prospetto settentrionale secondo Normal 1/88

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MalteSono stati prelevati in tutto nove campioni di malta e sottoposti all’osservazione al microscopio ottico in luce polarizzata e analisi XRD. Ne è risultato che i campioni erano esemplari di almeno cinque tipologie di malte che, raggruppate opportunamente in base al legante e all’aggregato, possono così elencarsi:- malta di calce e sabbia quarzosa- malta di calce e “terra rossa”- malta di calce e cemento bianco e sabbia uviale prevalentemente quarzosa o mista (quarzareniti e bio-calcareniti)- malta di calce e cemento Portland e sabbia uviale prevalentemente quarzosa- malta di calce e gesso e sabbia quarzosa mista a frammenti di rocce carbonaticheÈ evidente che le malte cementizie si riferiscono a riparazioni novecentesche e sono quelle meno inte-ressanti dal punto di vista conservativo, mentre l’uso delle malte di calce con aggregato diverso e di legan-te misto calce+gesso sia come legante strutturale che come malta di allettamento dei conci testimonia che nel tempo sono intervenute maestranze diverse che hanno utilizzato materiali locali, ma sempre diversi tra loro.È altresì indubbio che i solfati solubili, a volte riscon-trati nei campioni prelevati nelle diverse zone del mo-numento, provengono con molta probabilità dalle mal-te cementizie o da quelle a calce e gesso impiegate.

Sali solubiliL’esame in situ non aveva manifestato la presenza di ef orescenze saline. Neanche l’esame strumentale di laboratorio ha indicato particolare presenza di sali idrosolubili, circoscrivendone in qualche unità per-centuale la relativa quantità. I sali ritrovati sono esclusivamente solfati e tracce di cloruri e nitrati di sodio, potassio, magnesio e soprat-tutto di calcio. Le correlazioni tra anioni e cationi non lasciano in-dividuare con certezza le specie saline che originano gli ioni stessi. Si può supporre che una parte del sodio derivi dal

cloruro di sodio e una parte del calcio dal solfato di calcio, mentre l’ eccedenza di quest’ultimo è dovuta al metodo di analisi utilizzato. Non c’è correlazione tra concentrazione dei sali e la quota o l’esposizione del prelievo cosicché si può ra-gionevolmente affermare che l’origine dei solfati è più probabile che siano le malte cementizie o a calce e gesso impiegate piuttosto che l’inquinamento atmo-sferico. Il numero dei campioni analizzati relativamente ri-stretto, non può però far escludere del tutto la pos-sibilità di un contributo dell’inquinamento, anche se modesto, specie per le superfici dell’intradosso della volta a crociera.Microflora lichenicaLa presenza e lo sviluppo della micro ora lichenica sia epilitica che endolitica era notevolmente diffuso su ampie superfici esterne della costruzione. Mentre i licheni epilitici penetrano nel substrato solo per qual-che millimetro, quelli endolitici si sviluppano intera-mente all’interno del materiale lapideo dimostrandosi spesso più distruttivi. I licheni si nutrono dei minerali del substrato lapideo, inoltre il tallo lichenico è molto ricco di sostanze gelatinose che si contraggono o si espandono con le variazioni igroscopiche. Ciò può produrre anche uno stress meccanico che, ri-petendosi può portare ulteriore degrado ai materiali lapidei, specie in quelli più porosi e meno resistenti, per il distacco di piccole schegge. Anche i prodot-ti acidi del metabolismo dei licheni (acidi lichenici, acido ossalico, anidride carbonica) possono esercitare azioni di corrosione chimica su alcuni minerali.La di-stribuzione superficiale delle diverse specie è general-mente in uenzata dalle caratteristiche chimiche del substrato oltre che dalle condizioni microclimatiche e dall’esposizione delle diverse pareti esterne. I licheni epilitici prevalevano sulle pareti di nord-est e di nord-ovest, mentre quelli endolitici sulle zone più alte del lato sud-ovest della torre.

23. inserire didascalie

6523.

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24.

24. Vista panoramica del paese di Gangi

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Note

1. Cesare Brandi, Teoria del restauro, Roma, 1963

2. Paolo Fancelli, Restauro e storia. Roma, 1989

3. Salvatore Boscarino, Quaderni dell’istituto di storia del-

l’architettura, Fascicoli 15-20; Palermo, 1990-92

4. Cesare Brandi, op. cit.

5. Giuseppe Samonà, L’architettura in Sicilia dal sec. XIII a

tutto il rinascimento, Palermo, 1950

6. Sulla stessa facciata meridionale, il primo ordine ha due

grandi aperture a sesto acuto tompagnate che non sono

mai state decorate e quella adiacente del prospetto a ovest

è stata completata con elementi semplificati solo nel secolo

scorso con una bifora ogivale analoga alla gemella.

È più che legittimo ipotizzare che per continuare nell’opera

il primo costruttore si fosse riservato la possibilità di po-

ter inserire anche successivamente tali elementi scultorei

per non dover attendere il lavoro degli artisti o per ragio-

ni di approviggionamento o semplicemente economiche.

Tuttavia, anche per la dimensione e per la funzione sta-

tica dell’arcone in questione, sembra alquanto insosteni-

bile l’ipotesi di una prevista sostituzione dei conci d’arco

con altri modanati. Si potrebbe anche ritenere che il lato a

mezzogiorno sia quello meno in vista, e in origine poteva

essere ancor meno visibile per la presenza dello strapiombo

sottostante e quindi sarebbe stato per questo trascurato.

Ma se ciò può avere una valenza ipotetica per gli elementi

decorativi notoriamente più costosi, non pare invece ragio-

nevole per la semplice muratura di quel breve tratto che

messa in opera dalle stesse maestranze con conci squadrati

invece che con elementi irregolari, non avrebbe comporta-

to né grande dispendio economico né particolare difficoltà

nella scorta di materiale locale.

Ciò non è avvenuto, infatti, per la muratura degli ordini

superiori dello stesso fronte, in conci squadrati come gli

altri e non si spiegherebbe neanche perché sarebbero state

decorate in seguito solo le finestre del secondo ordine an-

cora più lontane da terra.

7. Disegno in sezione di un rilievo eseguito per conto della

Soprintendenza ai Monumenti della Sicilia Occidentale di

Palermo nel 1953.

8. Raccomandazione Normal 1/88 a cura di CNR e ICR

68 1

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Quadro critico delle conoscenze

Schede

Paolo Mattina

M. 01MURATURA DEL PRIMO LIVELLO (presunta fase originaria)

Descrizione Muratura in blocchetti squadrati e sottili giunti di malta.

Materiale lapideoPrevalente arenaria a granulometria media – medio fine, colore variabile da grigio a grigio verdastro a grigio ceruleo, talora anche grigio beige. Composta presumibilmente da quarzo e feldspati con abbondante mica chiara tendente a concentrarsi in piccoli livelli. Tendenza a tessitura laminare evi-denziata da degradazione differen-ziale.Subordinata bio-calcarenite gialla-stra, a volte passante a granulometria più grossolana (bio-calciruditi).

Dimensioni dei blocchiLunghezza variabile da 32 a 45 cm. Altezza 15-16 cm

Finitura superficialeNon apprezzabile a causa del deterio-ramento della superficie.

Forme di alterazioneArenaria grigio verde cerulea: i bloc-chi sono interessati da esfoliazione, scagliature, disgregazione, polveriz-zazione, degradazione superficiale, patine biologiche da licheni epilitici prevalenti sul fronte a nord-est. La maggior parte dei blocchi ha avu-to una notevole perdita volumetrica e risulta sottosquadro rispetto al livello originario. Il degrado è più evidente sul lato nord-est e all’angolo nord-est - nord-ovest.Bio-calcarenite giallastra: quasi tutti i blocchi sono interessati dalle seguenti forme di alterazione sovente sovrapposte: scagliature, disgregazio-ne, polverizzazione, patine biologiche da licheni epilitici prevalenti sulla

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facciata a nord-est. Su alcuni blocchi si è rilevata una perdita volumetrica.

Malte di allettamentoHanno colore bianco, con inerte medio grossolano. Mostrano tena-cità e durezza relativamente elevate e spesso sono in rilievo rispetto alla superficie degradata dei conci.

OsservazioniSi è rilevato un diverso impiego dei due litotipi rispetto agli elementi ar-chitettonici archi e muratura. I conci degli archi sono notevolmente più degradati di quelli della muratura.

M. 02MURATURA IRREGOLARE DEL PRIMO LIVELLO (lato sud-ovest)

DescrizioneMuratura in elementi lapidei di forma irregolare appena sbozzati da an-golosi a subrotondi. Spessi giunti di malta. Tessitura molto irregolare.

Materiali lapidei Simili a quelli della scheda M.01. Prevale la bio-calcarenite – bio-calci-rudite. È presente anche qualche ele-mento di calcarenite a granulometria fine e colore rosato. Si riscontrano frammenti di laterizio probabilmente usati in qualche ripristino successivo.

Forma di alterazioneSi riscontrano le stesse alterazioni di cui alla scheda precedente, ma meno sviluppate.

Malta strutturaleAlquanto discontinua, ma di buona tenacità e durezza. Aggregato sabbio-so di granulometria grossolana e rari frammenti laterizi.

Malta di allettamentotamponamentoNella zona basale si riscontra una malta più recente utilizzata per tam-ponare i giunti più scarni. Ha colore bianco, scarsa tenacità e durezza, forse anche a componente gessosa. Scarso l’aggregato inerte di granulo-metria sabbiosa medio fine.

M. 03MURATURA DEL SECONDO LIVELLO

DescrizioneMuratura in blocchetti squadrati e sottili giunti di malta.

Materiali lapideiBio-calcarenite di colore giallo-bei-ge passante anche a bio-calcirudite o brecciola calcarea ad elementi arrotondati. Struttura laminare della roccia, spesso interrotta da vene di calcite spastica di origine seconda-ria con spessore da centimetrico a millimetrico.

Dimensione dei blocchiLunghezza variabile da 20 a 37 cm. Altezza da 20 a 25 cm circa.

Finitura superficialeNon più apprezzabile a causa del de-terioramento subito da tutti i conci. In alcuni casi sembrerebbe rifinita a gradina o simile.

Forme di alterazioneQuasi tutti i blocchi con prevalenza di quelli posti in alto sono interessati da alterazioni spesso sovrapposte: esfoliazione, scagliatura, disgrega-zione, polverizzazione, degradazione differenziale in conseguenza alle discontinuità della roccia, patine biologiche da licheni epilitici specie nel lato nord-est ed endolitici solo nel lato sud-est. Alcuni blocchi presentano significati-ve perdite di volume.

Malta strutturaleDi colore beige, tenacità e durezza medio alte. Sembra realizzata con calce e sabbia di granulometria media. All’interno dei giunti si notato a volte frammenti di laterizio.

OsservazioniSi osservano alcuni blocchi di bio-calcirudite giallastra con toni arancio rifinita a gradina caratterizzati da scarso sviluppo di alterazioni. Potrebbe trattarsi di blocchi sostituiti in una qualche manutenzione.

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1LCAMPIONE DI MALTA DEL PRIMO LIVELLO

Zona di prelievoProspetto NW del primo livello presso l’angolo con il lato NE.

Tipo di campione esaminatoFrammento centimetrico di due scagli edi arenaria grigio ceruleo già distaccata e malta di allettamento interposta. (MACROFOTO)

Indagini eseguiteAnalisi mineralogico-petrografica su sezione sottile stratigrafica per la caratterizzazione del materiale lapideo. Analisi mineralogica mediante diffrattometria dei raggi X (XRD) delle fasi cristalline che compongono la frazione fine (matrice – cemento) con particolare riferimento alla componente argillosa.

RisultatiCaratteristiche dei granuli da limosa a grossolana a sabbia medio fine; dimensioni comprese tra 0,03 mm – 0,9 mm. Prevalgono nettamente le classi sabbiose.Grado di uniformità dimensionale dei granuli buonoTipologia: vedi tabella a destra

Caratteristiche della matrice (cemento primario)Stima percentuale rispetto al volume totale della roccia: 15-20%Tipologia:- cloritico, talora arrossato per ossidazione (+++)- a base di ossidi – idrossidi di ferro (+)- sericitico, talora arrossato per ossidazione (+)

Caratteristiche del cemento secondarioStima percentuale rispetto al volume totale della roccia: < 5%Tipologia:carbonatica a base di calcite spastica (prevalente) o micro-sparitica, localizzate a chiazza irregolari

PorositàPorosità totale: 10%

Tipo: intergranulare per scarsa cementazione e compattazione

ClassificazioneDenominazione comuneArenaria

Classificazione petrografica de visuArenaria quarzoso - feldspatico - micacea di colore variabile dal grigio ceruleo al grigio verdastroClassificazione petrografica (Folk, 1974 modificata)Grovacca feldspatica immatura derivante in buona parte da disgregazione di rocce metamorfiche(inserire campione arenaria costoloni e e malta muratura irregolare)

Ambiente di deposizioneDi scarpata – piana tidale

Età presuntaOligo – miocenica

Denominazione storica – tradizionale – commercialeIgnote

Unità lito-stratigrafica e/o formazione geologica di riferimentoFlysch Numidico o Unità Sicilidi

Sezione sottilemicroscopio polarizzatore, nicols incrociati, ingrandimento di 50x a sx e 100x a dxLe immagini descrivono la struttura della roccia costituita da quarzo (Q) feldspati, miche (M) e cloriti (Cl). La sezione evidenzia anche la matrice del cemento C.

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75

25.

25. inserire didascalie

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stauro tende invece a mantenere lo “stato di consi-stenza” raggiunto nel tempo dal manufatto architet-tonico come rispetto delle stratificazioni e dei segni del tempo1.Nemmeno la destinazione d’uso può essere considera-ta un vincolo imprescindibile o un dato di progetto, ma può essere solo un esito verso cui avviarsi. Sotto quest’ottica è evidente che il progetto non può rifarsi, come in altri casi dell’architettura, a idee e interpre-tazioni personali di tendenza o di “gusto”, ma pratica opzioni critiche e fondate su giudizi di merito il cui fare è sempre condizionato dal riconoscimento dei valori. A partire da questi presupposti teorici e nella consa-pevolezza che il restauro è un’attività estremamente complessa e in continuo divenire che deve trovare soluzione caso per caso, in questa specifica occasio-ne di studio, si è posta l’attenzione sui problemi più eminenti. Il monumento mostrava tutti i segni del de-terioramento materiale che sono stati sufficientemen-te rappresentati nei precedenti paragrafi, ma anche le conseguenze di interventi recenti che ne avevano in-comprensibilmente annientato alcuni caratteri specie

Il progetto di restauro è lo strumento della conserva-zione che specifica le modalità di intervento sull’ar-chitettura storica. Un programma di provvedimenti di simile natura dipende dall’analisi critica eseguita sin qui, ma non coincide con essa. Il progetto di restauro, perseguendo il fine della conservazione e dell’avan-zamento della soglia della permanenza, è impostato su criteri ispirati al minimo intervento che escludono i temi dell’aggiunta e del completamento. Non è una progettazione di pura creatività, nel senso che non è una progettazione libera e non tende a soddisfare le normali esigenze della vita contemporanea così come una nuova progettazione. Al contrario della nuova progettazione, è in continuo divenire e soggetta ad evoluzione e modifiche per adattarla alle realtà che i ritrovamenti di cantiere impongono. Quest’attività progettuale non prevede la possibilità di manipolare l’immagine dell’esistente o di addirittura sostituirla di con un’altra. Non propugna la modificazione del-l’effettivo nella consapevolezza che una scelta non sufficientemente meditata può comportare un danno irreversibile al bene che si voleva conservare. Il re-

Progettoe cantiere

Paolo Mattina

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nelle sue parti interne. Lo “svuotamento” dell’edificio ai vari livelli, la demolizione delle originare strutture orizzontali – verosimilmente volte in pietra – e delle scale di collegamento, per essere sostituite con solai in laterocemento e scalette in ferro di fattura appros-simativa, (fig. 27) assolutamente estranei alla logica costruttiva originaria, avevano sensibilmente depau-perato il patrimonio testimoniale dell’edificio. In più i rifacimenti con materiali e tecnologie incoerenti ave-vano conferito alla torre un’immagine incongruente. Si leggeva, infatti la volontà di reintegrare la confi-gurazione esteriore del monumento con la ripropo-sizione (e la proposizione fantasiosa) delle finestre mancanti, (fig. 29) ma lavorando su una sequenza di immagini piane bidimensionali, come per conferirgli una sorta di compiutezza piana in sè, senza tenere conto di quelli che sono gli effettivi punti di vista che riproducono al visitatore prospettive solo di scorcio e sempre dal basso con l’introspezione verso le parti più interne comprese quelle moderne e più grossolane contemporaneamente architettate. E mentre gli scarsi disegni del progetto mai realizzato interamente dal Valenti riportavano una volontà di ricostruzione filo-logica ad imitazione dell’esistente – perlomeno limi-tatamente alle bifore delle aperture – quell’ultimo in-tervento degli anni sessanta fu condotto ricostruendo con forme semplificate le colonnine, le modanature e gli stemmi delle bifore del primo livello e con forme di assoluta invenzione le finestre del livello superiore. L’intervento eseguito all’interno, letto alla luce delle osservazioni teoriche fin qui richiamate, non fu inve-ce congruente. La distruzione del testo antico si rea-lizzò con l’ablazione di ogni elemento architettonico interno e le nuove opere furono della qualità che si conviene solo agli edifici più modesti. Banali solai in laterocemento in luogo delle volte in pietra, scalette in ferro come per salire in un qualsiasi sottotetto al posto delle scale originarie. I sedili medievali in pie-tra, allestiti all’epoca nello spessore murario dei vani delle aperture, furono fagocitati da una muratura di mattoni rossi posti a davanzale, (fi g. 28) una coper-(fig. 28) una coper-una coper-tura anch’essa cementizia chiuse come un coperchio piatto la sommità dell’ultimo livello settecentesco,

27.

28.

29.

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negando ancora di più la verticalità della torre già ridimensionata a suo tempo dalla figura sopraelevata della chiesa retrostante.Mentre nessun dubbio poteva impedire oggi la sosti-tuzione dei solai cementizi con altri orizzontamenti più congruenti e rispettosi, si è comunque deciso di mantenere i rifacimenti delle decorazioni delle bifore mancanti e rifatte nel sessantanove, nonché di quelle contemporaneamente inserite nelle aperture del secon-do livello proprio per non alterare quello “stato di con-sistenza” raggiunto dal manufatto anche nell’immagi-nario collettivo col rischio che la sola rimozione, anche se teoricamente giustificabile, poteva essere percepita come “sottrazione” ad un’immagine, per quanto arbi-traria, ma ormai stratificata nella memoria comune.Un’altra scelta progettuale ha previsto che le decora-zioni in disfacimento venissero consolidate e riprese nelle modanature mancanti per restituire e conservare un’immagine unitaria altrimenti destinata a perdersi definitivamente. Si è scelto anche di liberare i sedili occultati dalle murature di mattoni rossi e, se man-canti, di ricostruirli nelle forme più essenziali per ri-dare la plasticità scultorea negata e i rapporti dimen-sionali originari tra i singoli elementi, oltre che per documentarne l’idea primigenia. (figg. 30-31)

H.

pagina precedente27. Esempio del pregresso collegamento verticale tra i diversi livelli con piccola scala in accaio28. Occlusione con muarture di mattoni dei vani destinati alle sedute in pietra29. Decorazione posticcia di una monfora al secondo livello del prospetto ovest dall’alto in bassoH. pianta del porticato (progetto) pianta del primo livello (progetto) pianta del secondo livello (progetto) pianta del terzo livello scoperto (progetto)

30. Liberazione dei sedili in pietra dalla muratura posticcia 31. Restauro e integrazione dei sedili rinvenuti32. L’ultimo livello della torre liberato dal solaio cementizio

30. 31.

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32.

Progetto e cantiere

Opere strutturali

Non avendo reperito nessuna documentazione suffi-ciente a poter supportare un’ipotesi di ricostruzione delle originarie volte di interpiano né tanto meno delle scale di collegamento, si è stabilito di rifare al loro po-sto un solaio piano nel solo materiale compatibile per la necessità. I solai esistenti in c.a. sono stati sostituiti con altri con un’orditura di robuste travi in legno la-mellare in grado di sopportare un carico compatibile con quello proprio dei luoghi pubblici suscettibili di af-follamento, stante anche la difficoltà purtroppo ormai endemica di reperire travi in legno naturale autoctono (p.es. castagno) di adeguate luce e sezione di caratteri-stiche meccaniche certificate; il tavolato ligneo sovra-stante, inchiodato alle travi principali, è stato realizzato con due distinte orditure sovrapposte di tavole incro-ciate per i due assi principali con lo scopo di apportare maggiore rigidezza al piano e contrastare le sollecita-zioni orizzontali quali vento o sisma; allo stesso scopo il tavolato è stato collegato ai muri d’ambito con delle chiavarde in ferro zincato a V (figg. I-33) inchiodate al tavolato e murate con l’inserimento di un capochiave a paletto annegato nella muratura stessa (figura). Nel collocare le travi lignee di solaio si è cercato di utiliz-zare per quanto possibile i fori praticati in precedenza nelle murature per alloggiarvi i preesistenti travetti in c.a., evitando di sottrarre altro materiale originario.Le pavimentazioni sono state eseguite con getto di coc-ciopesto assestato in opera, in grandi quadri. (fig. 35) Le stesse sono state staccate dai muri con cabalette in profilato d’acciaio. Tra il solaio e la pavimentazione è stata interposta una lamina di rame per consentire l’isolamento in caso di infiltrazioni, data l’assenza di chiusura delle aperture. (fig. 34)Il collegamento tra i piani è stato realizzato con scale in ferro che, per prescrizione della Soprintendenza dei Beni Culturali, dovevano avere andamento elicoidale con lo scopo di contenerne più possibile le dimensioni e risultare infine rispettose nei confronti degli elementi originali. In realtà la prima rampa, che doveva superare un maggiore dislivello, ha un andamento inizialmente

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I.

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35.

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che poi diventa rettilineo in alto con la pie-tubolare portante verticale sul quale si in-

gradini, per evitare sia l’effetto sgradevole di mento nel ruotare attorno all’asse della sca-di una volta percorrendola, sia conseguentioni di carattere strutturale ed estetico nella ione del solaio ligneo di arrivo. Alla simula-ca tridimensionale anche la sintassi forma-

le complessiva è risultata più soddisfacente rispetto a quella della scala elicoidale alternativa. (fig. 36)I gradini, a struttura metallica, sono stati rivestiti in legno di iroko.

35. Getto e lisciatura della pavimentazionein cocciopesto

36. Interno del secondo livello a lavori finitiL. Sezione di progetto

36.

L.

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Progetto e cantiere

Opere di restauro lapideo

Ogni intervento di restauro è un’insieme di attività coordinate che hanno lo scopo di garantire soprattut-to la conservazione del manufatto storico nella sua consistenza materiale e superficiale. I materiali del-l’architettura storica sono prevalentemente materiali naturali come le pietre utilizzate per la costruzione della Torre Ventimiglia, che cavate da luoghi vicini e plasmate da mani sapienti davano certezza di solidità e persistenza, oltre che assumere valenze simboliche e decorative. Ma, anche se lentamente, la tenacità di questi materiali è destinata a piegarsi di fronte al-l’aggressività dell’ambiente e al rigore del tempo che passa. Fino all’epoca della rivoluzione industriale, escludendo le distruzioni per mano umana, il degra-do era imputabile sostanzialmente all’esposizione agli elementi naturali e alla loro azione chimica e fisica sui materiali. Tuttavia il deterioramento era molto più lento e molto meno distruttivo. Oggi l’esposizione agli agenti inquinanti specie nelle città industriali è devastante ed ha incrementato esponenzialmente le possibilità di degrado dei materiali e delle superfici storiche. La consistenza materica delle architetture storiche viene a trovarsi in uno stato di alterazione e disfacimento per via di cause diverse, molte del-le quali, nel caso specifico, sono state ampiamente esaminate nei capitoli dedicati all’analisi. Tali cause di alterazione possono essere di origine chimica, fisi-ca o antropica anche se ogni aspetto spesso include l’altro: degradi che si manifestano come alterazione della struttura chimica dei materiali possono avere origine antropica (inquinamento atmosferico, p.es.), alcuni agenti vegetali si impiantano sulla superficie della pietra nutrendosi dei suoi minerali che dissolvo-no producendo potenti acidi, ma contemporaneamen-te con le loro terminazioni disgregano il materiale, grandezze fisiche quali l’umidità relativa o l’espo-sizione rispetto ai punti cardinali contribuiscono al proliferare di funghi e licheni, e così via. Ciò implica che patologie apparentemente analoghe possono avere derivazioni sostanzialmente diverse e

soluzioni altrettanto differenti. La mappatura delle al-terazioni e dei degradi (vedi fig. G, pag. 77 al Quadro critico delle conoscenze, Diagnostica) ha realizzato il necessario supporto alla campagna di campionamen-to ai fini delle analisi di laboratorio. Incrociando i risultati ottenuti dalla diagnostica con il più generale quadro delle conoscenze interdisciplinari, si perviene al piano di interventi di restauro più idoneo a con-seguire la finalità della conservazione delle superfici storiche. In conseguenza, nella fase progettuale, sono state re-datte le tavole degli interventi conservativi sui pa-ramenti murari con indicazione delle lavorazioni da eseguire, come quella riportata (fi g. F), anch’essa rela-(fig. F), anch’essa rela- anch’essa rela-tiva al prospetto settentrionale della torre.In realtà per l’interazione inevitabile tra progetto e cantiere di restauro ogni previsione progettuale va comunque testata e calibrata nella fase operativa di cantiere così come è stato anche in questo caso con l’esecuzione di prove a campione per le singole lavo-razioni. Per via degli interventi successivi più o meno organici che nel corso dei secoli hanno interessato le murature della torre, i suoi paramenti lapidei interni ed esterni sono stati riparati e integrati con materiali e malte di varia natura, origine e composizione. Gli interventi studiati in progetto hanno comportato in prima anali-si un piano di rimozione e demolizione degli elementi estranei ed incompatibili con il manufatto: solai in c.a. murature con mattoni, malte sovrammesse, ele-menti in ferro, etc.; alcune integrazioni coerenti come quelli realizzati al primo livello con una pietra (bio-calcirudite) grigiastra sia nelle architetture che nelle murature, o nel basamento calcarenitico grigio-verde degli anni ’50 sono state conservate per quanto già illustrato.Questa categoria di lavori non può essere affrontata senza particolari accorgimenti specie quando si lavo-ra su manufatti di pregio: le azioni meccaniche tra-smesse dagli strumenti di lavoro potrebbero indurre sollecitazioni tali da provocare danno. In particolare, i solai sono stati accuratamente demoliti a mano e con l’ausilio di speciali seghe a dischi diamantati rotanti, e

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le murature di mattoni e le malte di riparazione sono state rimosse con molta cura con l’ausilio di piccoli scalpelli.In genere gli interventi di conservazione del materiale lapideo, secondo i protocolli più avanzati, si possono ricondurre a tre gruppi fondamentali: la pulitura, il consolidamento, la protezione finale.La pulitura è quell’attività conservativa necessaria a liberare la superficie lapidea da depositi estranei, prodotti di alterazione, incrostazioni, agenti biode-teriogeni, macchie, pigmenti soprammessi, ecc... per recuperarla alle migliori qualità plastica ed espressiva. Diciamo migliori perché in genere, tranne casi ecce-zionali, le superfici lapidee di monumenti, specie quel-li esposti all’azione atmosferica e dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua, si rinvengono in condizioni tali che le qualità significative originarie delle superfici sono irrecuperabili. Quella che una volta poteva an-cora distinguersi come “patina” del tempo secondo l’accezione di Brandi2, e pertanto oggetto di conser-vazione, è ormai difficilmente ritrovabile specie nelle superfici lapidee e litoidi degli edifici di città. Quando l’inquinamento era pressoché inesistente le superfi-ci lapidee architettoniche o scultoree si degenerava-no molto più lentamente e secondo processi del tutto identici a quelli di alterazione del materiale in cava. Perciò il formarsi di certe “patine” - magari come al-terazione anche di altre artificiali stese dal costruttore e che ne impreziosivano in origine i manufatti finiti - che denotavano il trascorrere del tempo sulle cose e, per questo, preziose perché espressione materica e consistente di quel fascino sensazionale generato dal-la permanenza e dall’uso attraverso i secoli. Oggi, per effetto di solfati, uoruri, cloruri, nitra-ti, e tutti i composti chimici disciolti nell’atmosfera dall’inquinamento urbano e/o industriale, di agenti biodeteriogeni, ma anche a causa della trascuratezza protratta nel tempo se non di interventi sbagliati, è diventato veramente raro cimentarsi nella conserva-zione di “patine” sulle superfici di monumenti citta-dini. È più sovente imbattersi con le formazioni di materiale solfatato delle croste nere, sempre ricoperte da depositi carboniosi o da particellato di varia na-

37. Pulitura con micro-sabbiatura

37.

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OPERAZIONI PRELIMINARI

INTERVENTI

PRECONSOLIDAMENTO

OPERAZIONE DI DISINFEZIONE E DISINFESTAZIONE

OPERAZIONE DI PULITURA

OPERAZIONI DI RICONFIGURAZIONE

OPERAZIONE DI STUCCATURAmicrosostituzione e ricostruzione

OPERAZIONI DI CONSOLIDAMENTO E PROTEZIONE FINALE

rimozione meccanica di depositi superficiali con spazzola di saggina

stucchatura

impregnazione con preconsolidante per mezzo di pennelli e pipette

applicazione fino a rifiuto di consolidante

applicazione prodotti disinfestanti e rimozione manuale della vegetazione

applicazione prodotti per la disinfezione e rimozione meccanica della vegetazione

rimozione manuale dei depositi

applicazione di vernice antiossidante

ricostituzione di parti mancanti

riadesione di scaglie, frammenti e parti distaccate

protezione finale

H.

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H. Tavola degli interventi sul prospetto settentrionale 38. Paramento murario dopo la pulitura39. Preparazione del consolidante

38. 39.

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Fasi della ricostruzione parziale di un arco già riparato approssimativamente 40. L’arco dell’apertura sinistra della parete orientale, occluso dalla chiesa, con la riparazione pregressa in mattoni41. Centinatura e rimozione dei mattoni 42. Inserimento dei conci d’arco in pietra

43. Reintegrazione delle cornici mancanti con malta speciale a base di calce naturale e barette in vetroresina: inserimento delle barette in VTR44. La cornice dopo la fase di integrazione con la malta

40.

41.

42.

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tura, più o meno coerente3 che vanno rimosse con un’opportuna pulitura. Le tecniche di pulitura sono per loro natura proce-dimenti irreversibili che agiscono sulla facies del materiale lapideo e determinano la percezione finale della superficie restaurata. Dipendono dalla materia da rimuovere, oltre che dalla natura del materiale da pulire e dalla qualità e dallo stato di conservazione generale del manufatto. La pulitura può interessare materie incoerenti quali depositi di pulviscolo atmo-sferico, di terriccio, di guano, piuttosto che materie coerenti quali le croste nere, o le concrezioni inso-lubili piuttosto che macchie di ossidi o pellicole di resine sintetiche di vernici o trattamenti pregressi. I procedimenti di pulitura possono distinguere in mec-canici: spolveratura, con spazzole o spugne, sabbia-tura o microsabbiatura, con miscroscalpelli, con vi-broincisori, ad ultrasuoni, al laser; fisico-chimici: con acqua demineralizzata nebulizzata a bassa pressione, con impacchi di polpa di carta e acqua deionizzata; chimici: con impacchi di acqua e carbonato o bicar-bonato d’ammonio, con resine scambiatrici di ioni, con acido uoridrico.In genere i monumenti sono interessati, come nel caso che trattiamo, da specie vegetali infestanti le quali, dopo opportuni trattamenti inibitori, devono essere rimosse. In cantiere è stato, quindi, applicato prelimi-narmente un biocida a largo spettro, data la varietà di

specie licheniche ritrovate e successivamente se ne è effettuata la rimozione con tecniche di pulitura a sec-co in particolare con microsabbiatura. Su tutte le su-perfici, interne ed esterne, è stato impiegato il sistema di pulitura a secco con microsabbiatura a bassissima pressione con l’impiego di polvere abrasiva fine. (fig. 37) È stato evitato l’impiego di acqua per via della porosità del materiale calcarenitico nel quale posso-no essere facilmente veicolati sali solubili provenienti per esempio dalle malte già presenti. La rimozione della ora lichenica è stata accuratissi-ma e non ha lasciato residui; alla fine è stato effettua-to anche un ulteriore trattamento biocida di carattere preventivo. Il livello di pulitura è stato quello compa-tibile con le condizioni del manufatto che comunque si trovava in condizioni di avanzato deterioramento e tali da non consentire la conservazione generalizzata delle superfici originarie, stante che in gran parte era-no già andate definitivamente perdute. Successiva-mente alla pulitura si è provveduto alla ricostruzione degli archi e delle cornici dei finestroni. Per i conci d’arco mancanti sono stati utilizzati i conci derivanti dalla liberazione di alcuni tompagni dai finestroni del primo livello, (fig. 42) mentre sono state ritrovate e ricollocate alcune cornici originali. Le altre sono state ricostruite in pietra o in malta.Le decorazioni delle bifore, specie di quelle del pro-spetto settentrionale che si trovavano in stato di di-

43. 44.

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sfacimento, sono state reintegrate nelle forme rico-struendone le forme ricalcando quelle esistenti, con l’impiego di malte a base di calce e inerti selezionati e pigmento naturale, su un’armatura in barrette di ve-troresina. Ciò è stato necessario specie per la prima bifora a sinistra dello stesso lato, la cui decorazione fu eseguita con l’arenaria più tenera, e che si trovava in gravissimo stato di deterioramento. (figg. 43-44) Sono stati inoltre ricostituiti i giunti delle malte di allettamento con malta di calce idraulica opportuna-mente pigmentata.Il consolidamento delle superfici lapidee è il tratta-mento che in generale segue la pulitura. La superfi-cie lapidea degradata, oltre i depositi superficiali, può presentarsi erosa, decoesa se non addirittura polve-rizzata, scomposta, cioè, in particelle minutissime e poco aderenti, a volte con aspetto zuccherino come nei marmi di Carrara. Ciò dipende dalla tipologia del degrado, ma anche dalla natura del materiale. Le azioni deteriori tendono a far aumentare la porosità superficiale dei materiali per l’aumento dei vuoti tra i singoli granuli che si distanziano tra di loro e tendono a perdere i legami fisici e chimici. Dopo la pulitura la superficie si trova in uno stato di particolare vulnerabilità per la conseguenziale espo-sizione della materiale privo di difese all’aggressione degli agenti esterni. L’impiego dei prodotti consoli-danti tende al ristabilimento dei legami tra i grani ed alla riduzione dei vuoti tra le particelle stesse. Si possono classificare in due grandi categorie: i conso-lidanti inorganici e quelli organici, rispetto alla loro natura chimica. I consolidanti inorganici sono com-posti chimici semplici con molecole di piccole dimen-sioni (etilsilicati, idrossido di bario, etc.), sono ela-stici ma sono soggetti ad alterazioni; quelli organici ( alchil-alcossisilani, polisilossani, resine scambiatri-ci etcc...) sono in genere prodotti polimerici macro-molecolari più stabili, ma poco elastici di complessa utilizzazione. I composti organi, infatti, presentano difficoltà di penetrazione nei materiali a causa delle loro dimensioni molecolari e devono essere utilizzati con l’impiego di veicolanti quali con polpa di carta ad impacchi o di carta giapponese che in genere devono

essere applicati per lungo tempo e protetti con film plastici per evitare l’evaporazione, o applicati sotto-vuoto con l’impiego di tecnologie particolari. I prodotti inorganici hanno in genere una maggiore capacità di penetrazione che consente possibilmente un’applicazione più rapida a spruzzo o a pennello. Il trattamento con silicato di etile, per la sua affinità chimica, ha tradizionalmente dato buoni risultati sul-le arenarie e calcareniti nostrane. L’azione di questo composto si può semplicemente riassumere nella for-mazione di granuli microscopici di silice, conseguente all’applicazione, che si depositano nei vuoti superfi-ciali del materiale con riduzione conseguente del vo-lume dei vuoti e formazione di legami elettrochimici con le molecole del materiale originario che rinsalda-no il materiale nello spessore degradato. Dopo un’in-dagine mineralogica specifica per la ricerca di argille espandenti, si è ritenuto di utilizzarlo nel caso specifi-co quale consolidamento corticale e in particolare si è determinato di impiegare l’etilsilicato dal nome com-merciale di Wacker OH, per analogia con casi analo-ghi ritrovati in letteratura nei quali ha prodotto buoni risultati4. I minerali argillosi riscontrati nelle arenarie della Torre Ventimiglia sono riconducibili a gruppi per fortuna non particolarmente espandenti, mentre è stata esclusa la presenza delle pericolose smectiti. Quest’ultime, infatti sono responsabili della contra-zione del materiale durante il trattamento con questo rimedio, con formazione di fratture e scaglie. Il trat-tamento effettuato ha dato buoni risultati già visibili dopo un mese dal trattamento, anche se è necessario un periodo più lungo per apprezzarne la riuscita. In alcuni casi è stato necessario riapplicare il prodotto con impacchi protetti da film plastico. (figg. 46-47)Si è detto che la pulitura è in generale il primo tratta-mento che si effettua su una superficie da restaurare, ma ci sono casi in cui il pessimo stato di conserva-zione costringe ad effettuare delle operazioni di con-solidamento preliminari alla pulitura, dette pertanto di pre-consolidamento. Nel nostro caso per evitare la eccessiva perdita di materiale già decoeso o distacca-to durante il trattamento di pulitura, è stato previsto un trattamento preconsolidante nelle zone particolar-

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45.

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particolarmente erose sono state messe in opera stuc-cature appropriate per il riempimento di alveoli nei quali avrebbe potuto ristagnare l’acqua meteorica.Il trattamento consolidante effettuato con l’impie-go di etilsilicato, non assicura l’idrorepellenza della superficie lapidea, che rimarrebbe così esposta alle infiltrazioni di soluzioni dannose con l’immedia-ta ripresa di quei processi di deterioramento che si era cercato di contrastare con i trattamenti appena ultimati. Per rallentare l’azione negativa degli agen-ti degradanti è necessario applicare sulle superfici a vista dei manufatti un ulteriore trattamento. Mentre le superfici intonacate sono concepite come superfi-ci di protezione o di sacrificio, sede delle interazioni con l’esterno a contatto, i manufatti lapidei lasciati a vista necessitano di un accorgimento ulteriore che è in genere dovuto all’applicazione di una sostanza chimica idrorepellente, ma capace di permettere lo scambio di vapore acqueo e consentire l’evaporazio-ne di eventuale umidità, proveniente da altre zone, che altrimenti ristagnerebbe con ulteriori danni. Tali sostanze vengono dette a comportamento osmotico.

mente deteriorate con l’impiego di silicato d’etile an-che ad impacchi. Ad esso è seguita la pulitura.Contemporaneamente è stato necessario un consoli-damento in profondità per la presenza diffusa di sca-gliature del materiale, specie delle arenarie del primo livello. Ciò ha comportato il fissaggio delle scaglie al materiale sano del substrato con una prima stuccatura con malta di calce idraulica pigmentata dello stesso colore della pietra e il seguente riempimento dei vuoti tra scaglia e substrato con iniezioni di una specifica miscela a base di calce. In questo caso e per analogia è stata impiegata la miscela Albaria Iniezione 100 della MAC. (fig. 48) Si è provveduto inoltre alla stuccatura delle discontinuità macroscopiche con malta a base di calce pigmentata con polveri naturali. (fig. 49)È seguito il consolidamento corticale con impacco di etilsilicato. Il fissaggio delle scaglie ha avuto un buon esito ed è stato verificato a distanza di parecchi mesi dall’intervento. Lo stesso si può affermare per la si-gillatura delle fratture e dei bordi, eseguita con molta cura, anche nella pigmentazione delle malte rispetto al substrato, variabile da zona a zona. Nei casi di zone

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48.

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47.

pagina precedente45. Le diverse fasi murarie dopo il restauro dei paramenti

46. Consolidamento corticale delle zone piu critiche con impacco di polpa di carta impregnata con materiale consolidante 47. Protezione dell’impacco con film plastico per favorire la penetrazione del consolidante e imperdirne l’evaporazione48. Consolidamento in profondità del materiale distaccato con iniezioni di miscela a base di calce49. Restauro dei giunti tra i conci

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sono state riscontrate ef orescenze. Pertanto non si è ritenuto necessario prevedere trattamenti di estrazio-ne dei sali solubili.Qualsiasi intervento conservativo, anche se effettuato nelle migliori condizioni possibili e con il conforto del necessario quadro di conoscenze, ha una durata limi-tata nel tempo. La sua tenuta dipende dalle caratteri-stiche intrinseche dei materiali, dallo stato di conser-vazione prima del restauro, ma anche dall’aggressività dello spazio-ambiente. Per non vanificare gli effetti del restauro è sempre ne-cessario predisporre opportuni monitoraggi delle con-dizioni generali dei manufatti funzionali alla redazio-ne di piani di manutenzione periodica che preservino la conservazione dei monumenti, senza dover ricorre-re ad altri interventi massicci ed eccezionali.

Un buon idrorepellente deve essere trasparente, non deve cioè interferire con la cromìa del materiale e con le proprietà ottiche, (figg. 50-51) non modificare la rifrazione delle superfici e non alterarsi nel tempo con l’esposizione luminosa; deve avere buona stabilità, non dar luogo a sottoprodotti dannosi e soprattutto non deve reagire con i minerali del materiale origi-nario. Un idrorepellente è in genere un prodotto di sintesi e nel caso della Torre Ventimiglia riferendosi a casi analoghi la scelta si è indirizzata sul Wacker 290L e sull’ RC80 della Rhone Poulenc. Sono state effettuate alcune prove con i due prodotti differenti e si è deciso infine di applicare l’RC80 che interferiva in misura minima con le proprietà ottiche della pietra.L’applicazione di un prodotto idrorepellente è parti-colarmente importate in questo caso perché i diversi litotipi sono particolarmente porosi e nell’arenaria, in particolare, è presente la palygorskite, un minerale argilloso nastriforme capace di trattenere l’acqua al-l’interno della struttura cristallina.Non sono stati riscontrati apprezzabili quantità di sali solubili: quelli più abbondati erano i solfati5 ma non

50. Trattamento protettivo delle superfici lapidee 51. Test empirico dell’efficacia del prodotto idrorepellente

50. 51.

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Note

1. Marco Dezzi Bardeschi. Restauro: Punto e da capo. Milano 19912. Cesare Brandi. Teoria del restauro. Roma 19633. Le croste nere sono un’alterazione della superficie lapidea dovuta alla reazione di composti inquinan-ti, contenenti prevalentemente solfati, con i minerali calcarei delle superfici dei manufatti, che vengono trasformati in gesso per spessori anche notevoli (a volte di alcuni centimetri, mentre la patina è di qual-che decimo di millimetro) che assume consistenza di “crosta” sul materiale sano. Anche se non mancano altri composti, le croste nere sono costituite prevalen-temente da gesso che è un sale che può solubilizzarsi, per poi penetrare con la soluzione nei pori della pietra e ricristallizzare disgregandola ulteriormente.4. Restauri dei prospetti della Chiesa della Croce a Lecce e della Torre Campanaria del Duomo di Agri-gento.5. In particolare gesso probabilmente proveniente dalle malte impiegate nelle varie fasi costruttive e di manutenzione.

I.

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Conclusioni

Paolo Mattina

Il restauro di un edificio allontana dalla memoria l’idea annerita dal tempo, sempre avvilita dall’azione demolitrice degli elementi naturali, e spesso contaminata dalla parzialità umana.Ma non si tratta tanto di ricapitolare una combinazione ideale tra utilitas e venustas o disseppellire una freschezza materica conveniente, quanto della necessità di riaffermare il legame di una comunità e della sua storia con il luogo e con quel luogo in particolare, riappropriandosene.Un legame che si ripropone oggi che la singolarità del locus si fa evidente in maggior misura, rimarcando i caratteri più intimi dei legami atavici con quell’architettura e l’idea che rappresenta.Il rapporto di certe architetture con il luogo ha dimensioni ancestralmente imperscrutabili, a volte enigmaticamente affascinanti, forse solo presupposte, ma non meno autentiche.Capita spesso che le architetture si idealizzino per diventare le più significative in tal senso al di là delle dimensioni e anche al di là delle intenzioni.Quel segno, quell’oggetto e le sue pietre una sull’altra

a disegnare quelle linee ora rette ora curve, a dare forma a quei maschi murari, a lasciare spazio a quelle bifore, a quei varchi, hanno fissato un avvenimento o forse un sogno, una chimera che trova l’orma nella memoria collettiva degli eredi degli uomini e delle donne di quel borgo medievale. È il sogno di una gente che si fa materia: una vecchia torre difensiva monolitica e muta, come tante, si trasfigura, si apre alla comunità e diventa immagine del nuovo corso della storia. Non tutti lo sanno, ma lo colgono nel profondo. Riemerge dall’ inconscio risalendo l’ostica gradinata di Palazzo Bongiorno, o discendendo il corso, oppure attraversando l’ombra dell’ampia crociera mentre ci si perde con lo sguardo a mezzogiorno. Potrebbe essere solo leggenda.Il desiderio di quel restauro, è un altro significativo sintomo di una memoria genetica e collettiva, di pulsioni che vincolano alla ricerca della propria identità e, al contempo, di una ragion d’essere e di sentire comune. La torre è il segno, un luogo da vivere nello spazio e nel tempo e non il mezzo per una comunicazione istantanea da consumare

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sull’onnipresente altare mediatico. È la traccia della cultura comune, della memoria, del sogno. Il rapporto della memoria collettiva e il luogo e l’idea del luogo stesso costituisce la genesi e il fondamento del segno urbano e la sua dinamica individuale. Quando l’architettura si fa anche parte della città e vi si identifica, ispira a riconoscersi nel segno.Il centro urbano di Gangi è ricco di monumenti, forse più considerevoli, ma noi crediamo che se ce n’è uno che lo racconti più di tutti nessuno è più convincente della torre dei Ventimiglia.

pagina precedenteI. restituzione grafica del prospetto settentrionale52. scorcio della torre dal corso

55. interno al primo livello a restauri ultimati

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53. dettaglio della tessitura muraria54. interno al secondo livello a restauri ultimati

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APPENDICE

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La secolare continuità del dominio della famiglia Ven-timiglia sulle terre madonite, che affonda le sue radici nell’età sveva radica in maniera profonda la famiglia di origine ligure al territorio comprendente il massic-cio delle Madonie, che fin dall’età normanna aveva conosciuto dominazioni unitarie, cui si ricollegarono direttamente, anche a livello genealogico, i conti di Geraci e di Collesano.Tale vastissima area comprende nel tardo medioevo, accanto al dominio dei Ventimiglia, territori soggetti ad altri poteri - primo fra tutti il vescovo di Cefalù - e grossi centri del demanio regio; la storia madonita del XIV secolo si identifica tuttavia in gran parte con le vicende del gruppo familiare ventimiliano. Questo, pur disponendo di possessi feudali e beni allodiali in altre parti dell’isola, e pur sviluppando la sua azione politica nei confronti dell’intero regno, nelle contee di Geraci e di Collesano ha il cuore del suo patrimonio e su queste fonda la sua potenza economica e politica.La continuità del dominio nel XIV secolo conosce

solo una frattura, fra 1338 e 1354, quando il conte di Geraci, Francesco, a seguito di un’oscura manovra di Corte, veniva accusato di intese col nemico angioino, dichiarato ribelle e spossessato dei suoi domini. Rifu-giati alla Corte napoletana, alcuni esponenti della fa-miglia non disperavano di tornare nell’isola e nei loro patrimoni con l’appoggio angioino: nel 1338, Aldoino Ventimiglia partecipava alla spedizione dell’angioino Carlo di Artois contro il regno; dopo aver espugnato Collesano, si portava a Gratteri, della quale era stato signore, e vi entrava senza alcun ostacolo, dal mo-mento che, narrano le cronache, gli abitanti «venera-vano il detto Aldoino come loro signore».Gli episodi citati, peraltro, si collocano anteriormente a un lungo periodo di consolidamento ed espansione del potere della famiglia nell’area madonita, durante il quale l’accrescimento dei domini territoriali si svol-ge parallelamente all’acquisizione del ruolo di prota-gonisti nella storia dell’intero regno.Il dominio madonita dei Ventimiglia nel XIV seco-lo appare caratterizzato al tempo stesso da una forte omogeneità geografica e da una notevole varietà nel-Scorcio panoramico

Un territorio, un potere signorile. I Ventimiglia nelle Madonie nel tardo medioevoPietro Corrao

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le caratteristiche produttive: un massiccio montuoso tagliato da numerose valli maggiori e minori, digra-dante a Ovest e a Sud su zone alto-medio collinari, consente la compresenza di redditizie colture granarie estensive, di pascoli, di risorse boschive.Gli abitati, tutti in posizione eminente, eccetto il casa-le di Roccella, sulla costa, appaiono arretrati rispetto al litorale, che risulta relativamente povero di approdi; funzionano come tali le «marine» di Roccella, Tusa e Caronia, mentre l’assenza di un - un porto per l’espor-tazione del frumento - facilmente accessibile, orienta le esportazioni granarie dei domini dei Ventimiglia verso Termini; qui i conti di Geraci possedevano ma-gazzini portuali e la città era destinata a divenire, in-sieme a Roccella, il referente costiero più importante per la produzione cerealicola dell’entroterra madoni-ta, nonostante la sua posizione decentrata.Il controllo delle vie di accesso al massiccio madonita era assicurato da abitati fortificati quali Pollina, Tusa, Caronia, su alte rupi a guardia della costa, mentre una catena di abitati più interni, anch’essi dotati di castelli in posizione fortissima, Collesano, Gratteri, Isnello, Castelbuono, S. Mauro, Castelluzzo, Pettineo, dominava le valli con i territori boschivi e granari dell’immediato entroterra.Ai centri più interni, Caltavuturo, Geraci, le Petralie, Gangi, Sperlinga facevano capo vastissimi territori digradanti verso Sud, i feudi granari di Resuttano, Regiovanni, Casalgiordano, Bordonaro, Garbintauli (Verbumcaudo), Raulica, Artesina, Bilici, Raxafica, Rachilebbi, destinati, nel corso del ‘300 a entrare a far

parte del dominio ventimiliano. Difficile, in assenza di dati quantitativi adeguati, valutare le risorse di tale area. Ma possono essere considerati alcuni indicatori: nella richiesta di contributi proporzionali alle risorse in popolazione, produzione e ricchezza fatta da Pietro III nel 1283 ai centri abitati del regno in previsio-ne della guerra con gli angioini, le città demaniali - sotto il dominio diretto del re - appaiono i centri più popolosi: Termini con 560 fuochi, Cefalù con 800, Polizzi con 2.500 sovrastano di gran lunga gli abitati feudali di Collesano (300 fuochi), le Petralie (300 e 155), Geraci e S. Mauro (100), Isnello (205), Pollina (150), Gratteri e Ypsicro (75); a grande distanza Mon-temaggiore (30) mentre per Gangi manca ogni dato. Complessivamente, la popolazione raggiunge la rag-guardevole percentuale del 6%, sul totale del regno.Quanto alle risorse produttive, i dati rivelano un enor-me patrimonio di capi di bestiame (il 16,5% sul totale del regno), concentrato soprattutto nelle aree di Poliz-zi, Collesano, Caltavuturo e Gangi. La presenza accanto al pascolo, di vastissime aree di seminativi è testimoniata dalla ragguardevole percen-tuale di cereali (l’8% sul totale del regno) richiesta ai centri madoniti. La sola Cefalù infine, fornisce all’armata regia 1000 salme di vino, indice questo del grande sviluppo che le colture specializzate avevano avuto sui terreni col-linari già nel XIII secolo. Una notazione a parte merita poi l’enorme patrimonio forestale che in questa fonte non viene considerato, l’immensa foresta di Caronia, i boschi fra Petralia, Collesano e Castelbuono, fanno

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dell’area madonita una grande riserva di legname per le costruzioni navali e civili.

Un altro e più adeguato punto di riferimento sono i conti, del 1322, del procuratore della contea di Geraci. Riassumendo il complesso quadro economico offerto da questo documento, si rileva una rendita in cereali di circa 3.000 salme fra frumento e orzo, concentra-ta soprattutto nei territori delle Petralie, di Geraci, S. Mauro, Gratteri, Gangi e nel feudo Bilici; una rendita in denaro di circa 1.000 onze, I’esistenza di un enor-me patrimonio di capi di bestiame - 13 mandrie fra bovini, ovini, suini - e di estesissime vigne a Gangi, Gratteri, Fisaula, Caronia, Bilici, Ypsicro (Castelbuo-no). Una schiera di curatoli e procuratori del conte amministra le masserie, le vigne, le coltivazioni di lino e mirto, le mandrie e l’allevamento di giumen-te; camerari locali e procuratori gestiscono le entrate delle varie attività economiche e l’impianto di nuove attrezzature (castelli - a Castelbuono - mulini, fos-se frumentarie). Un potere signorile saldo, compatto, esteso su un’area vastissima dà dunque il suo volto al territorio, disseminandolo di castelli, organizzandone l’economia, reclutando manodopera, ma anche fon-dando e dotando chiese (S. Maria del Porto e S. Maria della Misericordia a Castelbuono, S. Maria di Pedale a Collesano, S. Maria della Casa a Geraci), e creando nella società madonita una rete di solidarietà con la famiglia dominante e di dipendenza estesi a nobili minori, clero locale, notai, reclutati nella Corte giudi-ziale e nella comitiva del conte.La preminenza economica dei centri demaniali che emerge dai dati del 1283 è senz’altro veritiera. Poliz-zi, Termini, Cefalù, sono abitati ricchi e socialmente articolati. Si è già visto come Termini si collochi fra i maggiori porti granari dell’isola; Cefalù, grazie alla presenza di un prestigioso potere vescovile, è sede di una nobiltà minore intraprendente e agiata; Polizzi, dotata di un castello strategicamente centrale nella difesa del regno, è centro economico di grande im-portanza per le colture granarie e per l’allevamento, e mostra un dinamico ceto dominante cittadino dotato di patrimoni considerevoli e di notevoli capacità im-

prenditoriali. Nella seconda metà del ‘300, in conco-mitanza con la crisi del potere regio, i Ventimiglia di Geraci e di Collesano sviluppano una serrata offensi-va per assicurarsi il controllo di tali centri demania-li e per integrarli nel complesso economico e istitu-zionale del loro dominio signorile. Gli interessi dei Ventimiglia a Polizzi, Cefalù, Termini, sono d’altronde precocemente e costantemente documentati: già alla fine del sec. XIII a Cefalù i conti di Geraci hanno un hospicium, mentre nel 1322 a Termini dispongono di magazzini granari. Alla morte del conte Francesco, nel 1388, sono due i palazzi dei Ventimiglia a Cefalù - uno dei quali, dotato di torre, è posto sulle mura - ed è nella cattedrale cittadina che il conte chiede di essere sepolto; la famiglia dispone inoltre in città di giardini e di una cappella. Il controllo dei centri demaniali si concretizza di preferenza attraverso l’assunzione delle massime cariche del governo locale. Nel 1356 il conte Francesco figura come Capitano regio di Polizzi; una forma di signoria dato il conte operava come vera au-torità sovrana, ma confermava agli uomini della terra dei capitoli stilati «de consciencia et voluntate nostre magnificencie». Analoga sorte era toccata nel 1358 a Cefalù, data dal re in rettoria al conte di Collesano, mentre in altri casi, la concessione in feudo di terre demaniali era avvenuta apertamente, come nel caso di Termini nel 1367. Capitanie e castellanie, con annessi redditi cospicui (500 onze l’anno nel caso di Polizzi nel 1371), specie se ottenute a vita o in perpetuo con-

uivano in un’unica gestione insieme alle terre tenute in dominio feudale: esplicito il riferimento all’inte-grazione del dominio in un documento del 1396, ove si parla di «terri ki ipsi [i conti di Geraci e Collesano] regginu» e si fa riferimento al complesso dei domini del conte come a lu sou paysi.Tale erosione e usurpazione del demanio, nella Sici-lia del XIV secolo, è un fatto generalizzato: ad un sempre più accentuato declino della forza del potere regio corrisponde un prepotente dilatarsi delle sfere di in uenze dei maggiori casati nobiliari che si accom-pagna a un complesso processo di ridistribuzione e di concentramento della ricchezza fondiaria; a danno principalmente del demanio regio, in una situazione

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di guerra permanente, i domini feudali - di diritto o di fatto - dei maggiori nobili siciliani si estendono enormemente, fino a delineare quattro grandi zone di in uenza, in seguito formalmente ripartite anche a livello di governo politico fra Chiaramonte, Ala-gona, Ventimiglia e Peralta. L’espansione dei domini dei Ventimiglia, tuttavia non si dirige esclusivamente verso centri demaniali, ma appare come un processo di omogeneizzazione dell’intera area madonita attra-verso il controllo dei punti strategici e l’acquisizione dei centri economici più rilevanti.Fino al momento della ribellione del conte Francesco, nel 1338, e della confisca del patrimonio madonita, il dominio dei Ventimiglia era costituito dalla contea di Geraci, il cui nucleo originario comprendeva Ge-raci stessa, Castelbuono (Ypsicro), Gratteri, Monte S. Angelo, Tusa, Caronia, Castelluzzo, le Petralie, Gangi, Montemaggiore, S. Mauro e i feudi Bilici e Fisaula.A tale complesso di terre e feudi, nei primi decenni del XIV secolo, si aggiungevano i centri strategici di Collesano e Sperlinga, in cambio della quale veniva ceduta Montemaggiore ormai fuori dal contesto della

contea; nel 1321 il conte imponeva al Vescovo di Ce-falù la cessione in permuta della rocca di Pollina, una semplice fortezza, dalle scarse rendite. A tali acquisti strategici si aggiungono le acquisizioni di terre eco-nomicamente remunerative: nel 1330 l’usurpazione del feudo e della torre di Regiovanni, nel 1331 Petti-neo. Dopo la parentesi del 1338-54, quando la contea veniva confiscata, una seconda fase della storia tre-centesca dei Ventimiglia e dei loro domini si apriva con il perdono regio e la restituzione dei beni feudali agli eredi del conte Francesco.Per volere testamentario del defunto conte, gli succe-deva nella contea di Geraci il primogenito Emanue-le, mentre al secondogenito Francesco, con conferma regia, andava una contea di nuova creazione, quel-la di Collesano, scorporata dal nucleo originario, e comprendente Collesano, Gratteri, Monte S. Angelo, Caronia e i beni burgensatici di Cefalù. Nello stesso anno, il conte di Geraci donava al fratello le Petralie e l’importante complesso feudale di Bilici riconoscendo implicitamente con tale atto la incipiente egemonia di Francesco, originata probabilmente dal ruolo di pro-

Paesaggio urbano

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tagonista svolto nella lotta per la riconquista di un ruolo primario della famiglia nella politica del regno. A Francesco, fra l’altro, andava il titolo di Maior Ca-merarius del regno, che, prima della rovinosa caduta del 1338, era stato il simbolo dell’in uenza politica del conte Francesco senior.L’estinzione della linea dei conti di Geraci permetteva in seguito a Francesco di riunificare i territori mado-niti sotto la propria autorità, e di farne la base di una politica di potenza fino all’assunzione, nel 1378, del titolo di Vicario del regno insieme agli altri tre espo-nenti della massima aristocrazia siciliana.Al conseguimento di posizioni di primissimo piano nella politica del regno, si accompagnava un ulteriore consolidamento del dominio madonita. Nel 1377 il conte comprava da Nicola Abbate la terra e il castel-lo di Asinelli (Isnello), estromettendo dal cuore dei propri domini un rivale che non aveva mancato di danneggiarlo; nel 1385 sanciva con una permuta col vescovo di Cefalù il possesso del casale di Roccella; l’atto appare puramente formale, dal momento che sul luogo il conte doveva già esercitare uno stretto con-

trollo, avendovi da tempo fatto costruire un poderoso castello sul mare, assicurandosi uno sbocco marittimo fuori dal novero dei porti autorizzati all’esportazione, e quindi fuori da ogni controllo doganale.Alla morte di Francesco, nel 1388, il patrimonio e il potere dei Ventimiglia avevano raggiunto la loro mas-sima ampiezza. L’intero complesso madonita, unificato sotto un unico potere, si configurava davvero come un’area omogenea anche dal punto di vista del domi-nio, e strettamente legata ai destini della famiglia. Al secondogenito di Francesco, Antonio, erede della con-tea di Collesano, di nuovo separata da quella di Gera-ci, passata al primogenito Enrico, spettava il difficile compito di continuare la politica di potenza del padre in una situazione che presto si delineava con caratteri-stiche assai diverse da quelle dei decenni precedenti.La Corona catalano-aragonese manifestava l’intenzio-ne di intervenire nel regno e porre sul trono l’Infante Martino, sposato all’erede della Corona di Sicilia; il conte Antonio, dopo lunghe trattative con la Cor-te, riceveva conferma dei possessi feudali e di mol-te usurpazioni degli anni precedenti e si risolveva ad

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dalla guerra, dall’altro la forzata rinuncia al controllo dei centri demaniali tenuti in rettoria e il generale ri-dimensionamento della sua in uenza sulla vita politi-ca del regno minacciavano la consolidata posizione di preminenza e l’omogeneità dei domini territoriali.Privato dopo il 1396 del controllo diretto sui centri demaniali, il conte non cessava tuttavia di condizio-narne la vita politica ed economica: all’ostilità dei fedeli della Corona rispondeva col blocco dei riforni-menti granari di Cefalù finché il Capitano regio non era costretto ad allontanarsi; in seguito assaliva mili-tarmente la città e la devastava al punto che la città rimaneva quasi habitancium viduata.La posizione di Antonio risultava, tuttavia, al volgere del secolo, notevolmente indebolita, benché procedes-se la politica di concentrazione del patrimonio terri-toriale della famiglia attorno alla contea di Collesano. Antonio, infatti, aveva assunto in nome degli eredi

appoggiare la spedizione in Sicilia. Poiché i maggiori Vicari, il Chiaramonte e l’Alagona manifestavano in-vece assai decise posizioni anticatalane, si profilava per il conte di Collesano, quale unico esponente della grande nobiltà siciliana fedele al nuovo potere regio, una posizione di grande rilievo nel quadro della rin-novata gerarchia feudale del regno.Con Martino, tuttavia, il conte Antonio doveva presto entrare in con itto. La politica regia in Sicilia oscil-lava fra un programma di restaurazione del potere centrale e di recupero del demanio e la necessità di largheggiare in concessioni nei confronti dell’aristo-crazia, sia al fine di assicurarsi la fedeltà del regno, sia per ricompensare il folto gruppo di nobili catalani e siciliani che avevano sopportato il peso della spedi-zione e della guerra di conquista. Se il conte di Col-lesano, da un lato, poteva avvantaggiarsi della vasta ridistribuzione della ricchezza fondiaria determinata

La torre domina il paesaggio

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del fratello Cicco il possesso dei feudi Regiovanni, Artesina Raulica, Bordonaro, Verbumcaudo e Cami-si, nel territorio di Polizzi, già di pertinenza di nobili ribelli; aveva comprato dal consanguineo barone di Sinagra il feudo Casalgiordano e 200 salme di terra a Petralia; nel 1408 infine era riuscito a ottenere da altri membri della famiglia la restituzione del feudo Fisaula, fra Geraci e S. Mauro, che veniva così stacca-to dalla contea di Geraci.Un disegno di vasto respiro, di espulsione dall’area madonita di poteri estranei al gruppo familiare e, nello stesso tempo, di affermazione di un ruolo egemonico all’interno della famiglia, già emerso con la contrap-posizione al fratello conte di Geraci e con l’accapar-ramento, in cambio dell’ormai insostenibile controllo di Termini e Cefalù, di diritti regi nell’area di dominio del fratello, a Pollina e S. Mauro. Un disegno, tutta-via, destinato ad arenarsi con la scomparsa del conte dalla scena politica. Allontanato dai centri del potere a causa della sua incerta fedeltà, il conte continuava a mantenere una posizione ambigua nei confronti della Corona, finché, nel 1408, dopo un’inchiesta sui suoi presunti crimini di lesa maestà, veniva imprigionato nel castello di Malta.Con la nuova confisca della contea di Collesano, tem-poraneamente assegnata a Enrico Rosso, antico al-leato dei Ventimiglia ma fedele a Martino e la con-cessione di Isnello al catalano Arnau Santacoloma, il quadro del potere feudale nel territorio madonita mutava profondamente, delineando la contea di Ge-raci, poco più di metà dell’originario dominio, come ultimo punto di forza della famiglia. Si era dunque arrestato quel processo di concentrazione dei domini familiari in un unico organismo che si è visto essere stato obiettivo della politica dell’ultimo Ventimiglia di Collesano, e appare spezzata la continuità territoria-le del dominio perseguito per tutto il secolo XIV dai maggiori esponenti della famiglia.L’assenza di personaggi dotati dell’energia di un Fran-cesco o di un Antonio impedì ai Ventimiglia di sfrut-tare l’aspra lotta per il potere nel regno durante la vacanza del trono fra 1410 e 1412 per riaffermare un loro ruolo di rilievo. Lo schierarsi del conte Giovanni

di Geraci dalla parte della regina Bianca nella guerra civile di quegli anni garantiva tuttavia alla famiglia la conservazione di una posizione di stabile dominio sui territori tradizionalmente gravitanti attorno alle due contee. La lotta politica nel regno, però, si svol-geva ormai attorno a più potenti protagonisti, e deci-siva risultava ormai non tanto la potenza territoriale, quanto la capacità di iniziativa politica, che, nel caso dei Ventimiglia, non appare di grande incisività negli anni cruciali dell’affermazione del potere viceregio.Dopo l’elezione di Ferdinando I re d’Aragona e di Si-cilia e l’arrivo nel’isola dei Viceré del nuovo sovra-no, le favorevoli circostanze consentirono a questi di realizzare, a spese dei Ventimiglia, parte di un antico programma, già ipotizzato da re Martino, che mira-va all’assimilazione della nobiltà siciliana e catalana in una aristocrazia strettamente legata alla Corona: estromettendo dalla successione l’erede del conte An-tonio, Francesco, il matrimonio fra la figlia di secon-do letto di Antonio, Costanza, e il valenzano Gilabert Centelles, che ereditava così la contea di Collesano, sembrava chiudere un ciclo nella storia della famiglia, dei suoi domini. La bandiera della famiglia veniva presa invece in mano dal conte di Geraci: è da quel ramo, con la lun-ga azione politica e militare del conte Giovanni al servizio di Alfonso nella guerra napoletana, che si origina la nuova fortuna dei Ventimiglia, che conti-nuano a figurare nell’elite nobiliare del regno ancora per molti secoli, acquisendo posizioni importanti nelle gerarchie ecclesiastiche, acquisendo il titolo di mar-chesi e poi di principi di Castelbuono. Fondamento della rinnovata eminenza della famiglia, sempre il pa-trimonio territoriale madonita: la “capitale” della con-tea, Castelbuono, diviene dal Quattrocento un luogo di attrazione per l’intera area, grazie al mecenatismo del marchese poi principe; L’amplissima area granaria e di pascolo – il versante meridionale delle Madonie, con i suoi abitati, da Polizzi a Gangi, le zone d’alta quota, controllate essenzialmente dalle Petralie, costi-tuiscono un complesso economico e politico di singo-lare e saldissima compattezza e omogeneità nel corso di tutta la vicenda della Sicilia moderna.

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Un territorio, un potere signorile

Riferimenti1. Studi generali sui Ventimiglia (ge-nealogia, patrimonio, ruolo politico della famiglia)Enrico Mazzarese Fardella, Osser-vazioni sul suffeudo in Sicilia, in «Rivista di Storia del Diritto Italiano» 34 (1961), pp.99-183; Enrico Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia dai Normanni agli Aragonesi, Milano, 1974; Enrico Mazzarese Fardella, Intro-duzione, in Il Tabulario Belmonte, Palermo, 1983; Antonio Mogavero Fina, I Ventimi-glia, Arti Grafiche Siciliane, Palermo, 1980; Antonio Mogavero Fina, Profilo storico dei Ventimiglia, signori delle Madonie, Principi di Belmonte, Paler-mo, 1973; Pietro Corrao, Per una storia del po-tere feudale nell’area madonita in età

aragonese, in Potere religioso e potere temporale a Cefalù nel Medioevo, Cefalù, 1985, pp.71-94 (versione am-pliata del presente testo, cui può farsi riferimento per maggiori dettagli e indicazioni specifiche); Vincenzo D’Alessandro, M. Granà, M. Scarlata, Famiglie medievali sicu-lo-catalane, in «Medioevo. Saggi e Rassegne», 4 (1978), pp.105-134.

2. Studi sul territorio madonita e i Ventimiglia in età medievale (visioni d’insieme, studi su singoli insedia-menti e su aspetti specifici)Vito Amico, Dizionario topografico della Sicilia, a cura di Gioacchino Di Marzo, 2 voll. (si vedano le voci rela-tive ai singoli centri abitati), Palermo, 1859; Illuminato Peri, Città e campagna in Sicilia, 2 voll., Palermo, 1953-56; Illuminato Peri, Rinaldo di Giovanni Lombardo, habitator terre Policii,

in Studi medievali in onore di A. De Stefano, Palermo, 1956; Henry Bresc, Franco D’Angelo, Structure et evolution de l’habitat dans la region de Termini Imerese (XII-XV siècles), in «Melanges de l’Ecole Française de Rome», 85 (1972), pp.361-406; Camillo Filangeri, Studi per un’ana-lisi dell’insediamento: la Contea Ventimiliana, Agenda n.2 del corso di storia dell’architettura (cicl.) Palermo, 1976-77; Vincenzo D’Alessandro, Per una storia di Cefalù nel Medioevo, in La Basilica Cattedrale di Cefalù. Ma-teriali per la conoscenza storica e il restauro, Palermo, 1989; R. Noto, La Roccella e il suo territo-rio nei secoli XII e XIII, in «Archivio Storico Siciliano» 1980, pp.81-112; Potere religioso e potere temporale a Cefalù nel Medioevo, Cefalù, 1985; Pietro Corrao, Un castello, un asse-dio, un territorio: la Roccella, 1418, in «Incontri e Iniziative. Memorie del

Il piano della MatriceIl piano della Matrice

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Centro di cultura di Cefalù», 3 (1986), pp. 37-50; 57-71.

3. Fonti documentarie e narrativePer la ricostruzione dei possessi feu-dali dei diversi rami dei Ventimiglia nelle Madonie e nel resto del regno di Sicilia, fonte importante sono la Descriptio e la Recensio feudorum, ricognizioni ordinate dai sovrani, rispettivamente nella prima metà del ‘300 e nel 1408, dei titolari dei feudi concessi dalla Corona, pubblicate nel secolo scorso da R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, 2 vol., Palermo, 1871. Le notizie sulle risorse economiche del-l’area madonita possono vedersi nella documentazione del fodro ordinato da Pietro III nel 1283, edita in De Rebus regni Sicilie, documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona e pubblicati dalla sovrin-tendenza agli archivi della Sicilia, Palermo 1882 (rist. anastatica, a cura di Enrico Mazzarese Fardella). Narrazioni molto vive delle vicende della ribellione di Francesco Venti-miglia nel 1338, come pure, più in generale, degli avvenimenti siciliani del XIV secolo sono il Chronicon si-culum (dal quale è tratta la citazione relativa ad Aldoino Ventimiglia) e la cronaca di Michele da Piazza; la prima è edita nella citata Bi-bliotheca scriptorum di R. Gregorio; per la seconda, Michele Da Piazza, Cronaca (1336-1371), a cura di A. Giuffrida, Palermo-Sao Paulo, 1980.Fonte essenziale per la storia della famiglia e del patrimonio è l’archivio della famiglia dei principi di Bel-monte, in parte inedita, conservata nell’Archivio di Stato di Palermo (fondo Archivio Belmonte), in parte edita nel citato Il Tabulario Belmonte. In particolare, in quest’ultima edi-zione, si veda il conto del procura-tore della contea (doc.17); le notizie sulle relazioni dei Ventimiglia con esponenti delle elites locali dei centri madoniti (docc.17, 24, 29, 30, 43); sugli acquisti di proprietà urbane a Cefalù, Polizzi, Termini (docc.23, 58, 62, 63); i capitoli dati a Polizzi (doc. 32); le affermazioni citate nel testo

sull’integrazione delle terre dema-niali nei domini signorili (doc.30); le informazioni sulle cariche regie ricoperte (docc. 26, 43); il testamen-to del conte Francesco (doc.30); la vicenda della cessione di Pollina e di Roccella da parte del vescovo di Cefalù (docc.16, 33); l’elenco dei centri abitati delle due parti della contea (doc.21); i passaggi dei feudi da un esponente all’altro della fami-glia (docc.20, 64, 67); le concessioni di re Martino (docc.36, 42, 43). Tra i registri dell’Archivio Belmonte, si segnala il n.133, contenente l’impor-tante testamento del conte Francesco, che descrive le proprietà urbane della famiglia (1387).I rapporti dei Ventimiglia con il ve-scovato di Cefalù sono ampiamente documentati nella raccolta dei privi-legi della chiesa cefaludense (Rollus Rubeus. Privilegia Ecclesie Cefaledi-tane..., a cura di C. Mirto, Palermo, 1972).La vicenda della ribellione e della fine del ramo dei conti di Collesano può ricostruirsi grazie a un certo numero di lettere inviate a Corte dai nobili siciliani e dai Viceré Roccel-la ora conservate all’Archivo de la Corona de Aragòn, Barcellona (fondo Cartas Reales; da queste lettere sono tratte le citazioni nel testo).Infine, va segnalata la miriade di notizie ricavabili dai registri della Real Cancelleria e del Protonotaro del Regno di Sicilia, pure conservati nell’Archivio di Stato palermitano e contenenti la documentazione regia; si segnalano, relativamente a quanto citato nel testo: nomine di Venti-miglia come ufficiali regi nelle città demaniali (Protonotaro, reg.2, cc.113, 138, 355; concessione in feudo di Termini (Cancelleria, reg.8, c.138); rapporti con gli Abbate (Protonotaro, reg.1, c.52); concessione dei poteri giudiziiari nella contea (Cancelleria, reg.21, c.208); istruzioni a Gulotta della Balba di far guerra ai Ventimi-glia (Protonotaro, reg.12, c.139,, cita-te nel testo); ostilità dei Ventimiglia contro Cefalù (Cancelleria, reg.17, c.37, reg.27, c.51 e reg.33, c.30); debiti del conte Antonio (Cancelle-ria, reg.39, c.102); cessione di feudi

ad Antonio da parte di altri membri della famiglia e di diritti regi (Can-celleria, reg.39, c.135; reg.38, c.229); ribellione di Antonio (Protonotaro, reg.17, cc.112, 140); concessione di Isnello a Santacoloma (Cancelleria, reg.44-45, c.403).

4. Studi generali sul tardo medioevo sicilianoIsidoro La Lumia, I quattro Vicari, in ID., Storie siciliane, a cura di France-sco Giunta, II, Edizioni della Regione Siciliana, Palermo, 1969, pp.135-307; Ruggero MOSCATI, Per una storia della Sicilia nell’età dei Martini (Ap-punti e documenti: 1396-1408), Uni-versità degli Studi, Messina, 1954; Salvatore Tramontana, Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, D’Anna, Messina, 1963; Vincenzo D’Alessandro, Politica e società nella Sicilia aragonese, U. Manfredi, Palermo, 1963; Vincenzo D’Alessandro, La Sicilia dal Vespro a Ferdinando il Cattolico, in Storia d’Italia, a cura di G. Galas-so, XVI, La Sicilia dal Vespro all’Uni-tà, UTET, Torino, 1989, pp.2-95; Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro. Uomini, città e campagne 1282-1376, Laterza, Bari-Roma, 1981; Pietro Corrao, Governare un regno. Potere, società e istituzioni in Sicilia fra Trecento e Quattrocento, Liguori, Napoli, 1991; Enrico Mazzarese Fardella, L’aristo-crazia siciliana nel secolo XIV e i suoi rapporti con le città demaniali: alla ricerca del potere, in Aristocra-zia cittadina e ceti popolari nel tardo Medioevo in Italia e in Germania, a cura di Reinhard Elze e Gina Fasoli, Il Mulino, Bologna, 1984.

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ancora una funzione all’interno di un contesto gene-rante relazioni profondamente diverse rispetto a quelle per cui l’oggetto di architettura era stato concepito.Edificata in stile gotico dalla famiglia Ventimiglia nel XIII secolo si presenta con artistiche finestre ogivali ed esili bifore. Ciò che a prima vista potrebbe fare pensare ad una torre di avvistamento, magari facente parte di un progetto più ampio di fortificazioni dedite al controllo del territorio, esaminata con più profonda attenzione e malgrado le possibili, ma non dimostra-te, attitudini difensive, si presenta invece con grandi aperture su ogni lato, assenza di feritoie, grandi di-mensioni globali ed elementi decorativi di un certo pregio valorizzanti i prospetti. Tutto ciò ne suggerisce una sua collocazione fra que-gli esempi di palazzi fortificati destinati a residenza aristocratica.Quando tra il finire del XVII e l’inizio del XVIII seco-lo, ampliando un oratorio trecentesco, si realizzò la Chiesa Madre, l’antica torre venne adattata a campa-nile della stessa. L’originaria destinazione della torre si trasformò a causa della mutazione del sistema di

In un passato non troppo lontano tutta una serie di edifici ed infrastrutture furono abbandonate per molteplici ragioni: obsolescenza dei materiali e delle strutture, inadeguatezza degli edifici ad una diversa configurazione rispetto a quella per cui erano stati pensati e realizzati, diversificazione delle attività pro-duttive, insufficiente competitività rispetto alla pro-gressiva apertura dei mercati, etc. Tutto ciò ha sicura-mente contribuito ad alimentare quel luogo comune secondo il quale venendo a mancare il sistema di cui l’oggetto è parte, vengono a mancare le condizioni per la sua sussistenza. L’oggetto di architettura però riesce a dialogare e a partecipare a sistemi di pensiero e a condizioni cul-turali diverse rispetto a quelle che lo hanno prodot-to. Riesce ad assumere dei significati inimmaginabili anche per gli stessi progettisti che lo hanno pensato prima e realizzato dopo.La torre campanaria della chiesa madre di Gangi è uno dei tanti esempi dove un’architettura del passato svolge

Il prospetto settentrionale della torre

La residenza decontestualizzataPietro Lo Franco

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cui faceva parte; la torre non è stata riutilizzata bensì è stata decontestualizzata.Proprio il contesto, che in origine ne ha dettato carat-teristiche e destinazione d’uso, rappresenta il bandolo della matassa. Sono passati i secoli ed il contesto è mutato, si sono modificate quelle esigenze difensive che rendevano la torre un luogo chiuso, potenzial-mente inespugnabile, una residenza che nella me-moria collettiva doveva trasmettere sicurezza, pro-tezione, forza, potere e disponibilità di mezzi. Oggi l’oggetto disegnato da una contrapposizione di linee curve e linee rette, da una sovrapposizione di pie-tre e caratteri di maestosità è un luogo aperto, un luogo che, memore del suo passato, si è rimesso in gioco mantenendo la propria struttura, ma riuscendo a dialogare con forme di pensiero, situazioni e ambiti sociali e culturali che lo hanno innalzato a simbolo di una città che guarda al futuro vivendo il presente tramite il suo passato.A Gangi si viene da terre lontane per ammirarne i tanti monumenti, forse più belli, più importanti e ar-chitettonicamente più aggraziati della torre, ma nes-suno, appartenente ad una memoria lontana o ad un recente passato, descrive e racconta luoghi, memorie e dinamicità di un contesto che con la torre ha convis-suto, con la torre si è trasfigurato e nella torre, oggi, in un insieme nuovo rispetto alle origini individua quel particolare luogo che nella vecchia costruzione di pietra ha il suo centro di gravità permanente.La torre ha scoperto, conservato, rinnovato e trasmes-so tutti quei significati che potenzialmente l’ambiente possedeva, ha cioè trasformato un sito, apparente-

mente generico in un luogo forte di una sua identità. Ha permesso alla comunità di andare oltre il semplice insediamento abitativo, ha permesso l’identificazione con quel particolare luogo, ha sottolineato il rapporto tra uomo e ambiente. Chi arriva nei pressi della torre, chiudendo gli occhi, viene proiettato in un mondo fantastico: casse di at-trezzi, sergenti, pialle, lime, mazze, tanti scalpelli e, in giro, migliaia di schegge di pietra, di parte di quella che un tempo era una montagna, grande e maestosa che si erigeva nel mezzo di una foresta, una roccia che sfidava gli elementi della natura e che ora è in terra, sagomata, modellata, trattata per diventare un qualcosa, che grazie alle sapienti mani degli artigiani, continuerà a sfidare gli elementi della natura: il vento fa forza, gli elementi si agitano, cielo e terra diventa-no un tutt’uno e una sola cosa permette all’opera di continuare a crescere e di restare in piedi, di non ca-dere, di proiettarsi verso un possibile futuro simbolico e fiabesco e quella cosa è si la robustezza, la qualità e l’affidabilità di un prodotto che nasce per raccoglie-re le sfide ma è anche il contesto e un’interminabile sistema di relazioni che si vanno instaurando con il territorio e con la società presente unitamente al luo-go che dalla torre è identificato.Qui la torre non è solo componente fondamentale del paesaggio, è molto di più: è vita. Permette all’uomo di riconoscersi, di identificarsi in uno spazio da vivere, contribuisce a stimolare i rapporti sociali ed è il car-dine del rapporto tra costruito e spazio vuoto definito dallo stesso costruito: rappresenta infatti l’ago della bilancia tra pieni e vuoti trasformando la sua zona di in uenza non in spazi di passaggio o in grandi aree trasmettenti condizioni di abbandono e disagio ma Gangi e il suo territorio

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in settori a misura d’uomo che meglio ci aiutano a comprendere il luogo. La grande costruzione di pietra pensata ed eretta per celebrare il potere aristocrati-co, resistere alle intemperie e al trascorrere del tempo suggerisce qualcosa di vecchio, di antico, ma è un qualcosa che provoca sensazioni, un qualcosa che ti fa riscoprire i mestieri antichi, che ti fa riscoprire le relazioni territoriali, che riesce a dialogare con la gen-te continuando a dare sicurezza e protezione: prima era un simbolo e un baluardo di quell’aristocrazia che deteneva il potere e governava sul popolo oggi con-tinua ad essere un simbolo e un baluardo di quei va-lori universali di pace e fratellanza che dalla religione vengono rappresentati.Quando alla fine riapriamo gli occhi il presente ci sembra diverso, non riusciamo ad abbandonare il so-gno, tutt’intorno continuiamo a vedere un cantiere di lavorazioni, un andirivieni di maestranze e di persone di ogni tipo. Non un cantiere moderno dove martinet-ti, seghe circolari, pale meccaniche e martelli demo-

litori rompono il silenzio proprio di questi luoghi, ma un centro di lavorazione dove il tempo si è fermato: la pietra si imposta, si lavora a mano, si sovrappone e giorno dopo giorno quella roccia iniziale prende for-ma, prende vita e chi da fuori guarda resta semplice-mente sbalordito innanzi ad un’opera che l’uomo ha eretto ma che il tempo ha consacrato.La grande torre non cesseremo mai di amarla, perché il suo passato ci permette di afferrare il nostro presen-te e questo presente ci fornisce una chiave immagina-ria per la conoscenza del nostro futuro.

La cupola della chiesa madre

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56.

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56. soluzione del collegamento verticale al secondo livello

57. dettaglio della scala del primo livellozzhh

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Ringraziamenti

La Soprintendenza Regionale ai Beni Culturali e Ambientali e in particolare il Sovrintendente Adele Mormino e il Direttore Matteo Scognamiglio

Nicolò Ferrara della CO.FER. per la grande professionalità e collaborazione

Lo IUAV di Venezia per la collaborazione alla restituzione del rilievo fotogrammetrico

La Biblioteca Comunale di Palermo

e Giovanna Tornabene per la grande professionalità e dedizione

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