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Quando l’Informatica si veste di Robotica Giuseppe Albano L’impiego di “Apparati e Ambienti Mediatori” a matrice robotica sin dalla Scuola dell’Infanzia rappresenta una ineludibile opportunità di introdurre la disciplina informatica come efficace supporto al processo di apprendimento: vediamo come. Keywords: Educational Robotics, Constructionism, Computational Thinking, Procedural Thinking, Metacognition. 1. Introduzione “[] Ed allora ecco che nella scuola i computer li troverete sì, ma non su ogni banco, nemmeno in ogni aula, ma ben chiusi dietro una porta blindata in aule (laboratori) il cui uso e la cui gestione non è sempre né facile né programmabile. Laboratori definiti, a piacere, "informatici" o "multimediali", in cui potete trovare le più svariate configurazioni (nel senso della disposizione fisica) e dotazioni (in rete e no, con una stampante a testa o senza nessuna periferica connessa, a volte anche con un masterizzatore su ogni pc (perfetto per una produzione di massa)), casse semplici o amplificate, mini, maxi o integrate, comunque sempre in grado di far risuonare per i corridoi attorno polifonie risultanti dal noto motivetto che accompagna l’accensione scandito in canone casuale. E davanti ai computer chi? Se siete esterno alla scuola, e avete seguito il mio consiglio di intrufolarvi, provate ad andare nell’orario di servizio, e con la scusa di stare pensando ad iscrivere vostro figlio (la scusa funziona, anche se non avete figli ) a quella scuola, chiedete di poter vedere i laboratori. In clima di concorrenza, di corsa all’accaparramento di alunni la forza del marketing supera ogni remora, e non sarà difficile convincere chi eventualmente vi chiederà di Mondo Digitale N. 47 Settembre 2013

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Page 1: Quando l’Informatica si veste di Roboticamondodigitale.aicanet.net/2013-3/articoli/04... · Quando l’Informatica si veste di Robotica Giuseppe Albano L’impiego di “Apparati

Quando l’Informatica si veste di Robotica

Giuseppe Albano

L’impiego di “Apparati e Ambienti Mediatori” a matrice robotica sin dalla Scuola dell’Infanzia rappresenta una ineludibile opportunità di introdurre la disciplina informatica come efficace supporto al processo di apprendimento: vediamo come.

Keywords: Educational Robotics, Constructionism, Computational Thinking, Procedural Thinking, Metacognition.

1. Introduzione

“[…] Ed allora ecco che nella scuola i computer li troverete sì, ma non su ogni banco, nemmeno in ogni aula, ma ben chiusi dietro una porta blindata in aule (laboratori) il cui uso e la cui gestione non è sempre né facile né programmabile. Laboratori definiti, a piacere, "informatici" o "multimediali", in cui potete trovare le più svariate configurazioni (nel senso della disposizione fisica) e dotazioni (in rete e no, con una stampante a testa o senza nessuna periferica connessa, a volte anche con un masterizzatore su ogni pc (perfetto per una produzione di massa)), casse semplici o amplificate, mini, maxi o integrate, comunque sempre in grado di far risuonare per i corridoi attorno polifonie risultanti dal noto motivetto che accompagna l’accensione scandito in canone casuale.E davanti ai computer chi? Se siete esterno alla scuola, e avete seguito il mio consiglio di intrufolarvi, provate ad andare nell’orario di servizio, e con la scusa di stare pensando ad iscrivere vostro figlio (la scusa funziona, anche se non avete figli …) a quella scuola, chiedete di poter vedere i laboratori. In clima di concorrenza, di corsa all’accaparramento di alunni la forza del marketing supera ogni remora, e non sarà difficile convincere chi eventualmente vi chiederà di

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tornare dopo le lezioni ("Sa, sono sempre di fretta e se non era per quest’appuntamento saltato …"). Chi avete trovato nel laboratorio informatico (o multimediale)? Tre le ipotesi. La prima: nessuno. In tal caso chi vi accompagna o si sente in imbarazzo e accenna a scuse varie tipo "Che combinazione, è proprio l’unica ora buca della settimana. Lei è proprio fortunato, così non disturbiamo la lezione", oppure non si rende neanche conto della stranezza della situazione e passa ad esaltarvi la potenza delle macchine e di quanto è costato quel ben di Dio. Mio consiglio: non guardate le macchine, ma cercate appeso da qualche parte – di solito sulla porta – il regolamento e l’orario d’aula. Leggete il regolamento e la lista di "divieti", è un documento molto esplicativo di come la si pensa in quella scuola sull’uso didattico dei computer. Se poi trovate anche l’orario, siete stati davvero fortunati. Controllate allora quante ore d’uso sono davvero programmate e chiedete quali materie si svolgono in quelle ore.

Seconda ipotesi: alle macchine trovate uno o più professori e/o tecnici. Osservate cosa stanno facendo, se conoscete ed usate i computer ed Internet sarete ben in grado di capire da soli. Fate finta di niente – voi quelle macchine non le conoscete per nulla – e fatevi spiegare da loro i progetti in corso che i ragazzi svolgono in quel laboratorio.

Terza ed ultima ipotesi: c’è una classe al lavoro. Bellissimo! Un ottimo campo di osservazione che analizzato con attenzione vi potrà portare a tre scenari possibili, rispetto alla normale attività didattica che si svolge nelle spoglie aule "normali". Potrete vedere qualcosa di uguale, di peggiore o – infine – di migliore rispetto all’oggetto ultimo di tutto questo parlare di tecnologie: l’insegnamento e l’apprendimento.”Il testo che introduce questo contributo è tratto da un articolo di Stefano Tommaso Donati del 2003; un articolo che non ha perso, anzi si può dire abbia consolidato la sua attualità in un panorama, quello della Scuola Italiana di base, oramai teatro di aperto confronto sul ruolo delle Tecnologie Digitali in ambito educativo.

L’articolo citato, in realtà, nell’intento di porre l’accento su comportamenti didattici inidonei allo sviluppo di competenze in materia digitale, per fortuna non rispecchia una realtà sicuramente non più attuale (l’articolo risale ad un decennio fa): molte sono al giorno d’oggi, infatti, le Scuole che adottano strategie didattico-educative tali da porre l’Allievo al centro del processo di apprendimento. In tali Scuole, l’impegno profuso dai Docenti è probante di una realtà ben diversa rispetto a quella che il Prof. Donati tratteggia nel contributo citato, e i laboratori multimediali sono una reale fucìna di idee e attività al servizio di forme di didattica inclusiva e dagli evidenti tratti partecipativi.

Ancora una citazione, questa volta tratta da una tesi di laurea: quella del dott. Luca Leoni discussa presso l’Università di Bologna nell’anno accademico 2011-2012 ed avente per argomento “Competenze e competizioni di informatica:

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valutazioni sperimentali”. Nell’introduzione si legge: “La scuola italiana rischia come il Titanic: naviga verso il futuro senza una chiara percezione dell'iceberg rappresentato dall'Informatica”, ed ancora, l’Autore afferma che “Nelle scuole sono presenti i computer, non l'Informatica.”, stigmatizzando in tal modo quale sia la percezione condivisa di quanto la Scuola sia ben lontana dall’affrontare e risolvere le problematiche annesse al ruolo e alle connotazioni che questa importante disciplina dovrebbe assumere nel contesto educativo.

Non meravigli la quasi totale assenza di note e riferimenti bibliografici di questo contributo: è intenzione di chi scrive disporsi ad un confronto di idee con il Lettore, cui è demandato il compito di valutare l’argomento descritto sulla base delle argomentazioni addotte, rapportate alla propria esperienza e, semmai, fornire attraverso una critica costruttiva, suggerimenti utili a migliorare la loro efficacia. Un confronto diretto, insomma, senza intermediari culturali che pure sono presenti fra le righe. Per crescere insieme, così come nello spirito delle stesse esperienze qui illustrate.

2. Il contesto

Quando parliamo di Scuole del primo ciclo dell’istruzione, parliamo di Fascia dell’Obbligo, oramai comprensiva dei primi due anni del biennio secondario superiore. Al suo interno, però, è determinante la presenza di una fascia d’età – quella dai quattro ai dieci anni – in cui la parola “insegnamento” dovrebbe essere sostituita dall’espressione “processo di apprendimento”. Un’espressione ricca di suggestioni e spesso estesa, come peraltro è giusto che sia, all’intero percorso scolastico, ma che nei fatti in questo particolare periodo della vita dell’Individuo assume tinte forti più che in ogni altro.

Non ho parlato, si badi bene, di età scolare quanto di età cronologica, inserendo nel quadro dell’intervento educativo “intenzionale (quello, per capirci, in cui la Scuola interviene in modo intenzionale) anche il periodo prescolare affidato alla Scuola dell’Infanzia. Un segmento che sempre più assume legittima cittadinanza nel contesto scolastico per la sua forte valenza educativa.

È questo il periodo che intendiamo prendere in considerazione: dai quattro ai dieci anni il Bambino, lungi dall’essere considerato un “adulto in miniatura”, condensa potenzialità che lo pongono in grado di forgiare atteggiamenti mentali e cognitivi che lo accompagneranno lungo tutto l’arco della propria vita. Ed è proprio in questo periodo che l’Informatica, quella “vera”, può apportare il suo determinante contributo trasversale, sviluppando e consolidando atteggiamenti positivi e positivamente critici verso forme di apprendimento efficaci quanto permanenti.

In tal senso, l’informatica può essere considerata come un’inesauribile fonte di strumenti, attrezzi mentali a disposizione del Soggetto Educando; strumenti semplici nella loro essenza, tali da consentire di manipolare e modellizzare le

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diverse situazioni per poterle padroneggiare e risolvere; Un vero e proprio ambiente di apprendimento, in cui l’errore è considerato come momento essenziale per progredire verso nuove conoscenze.

Perché ciò si realizzi, è necessario però valutare l’essenza di questa disciplina, riconducendo l’Informatica alla sua vera essenza, staccandola dal concetto prevalente per cui Informatica e Computer si identificano, così come pare sia per la Scuola, ignorando l’assunto secondo cui “L'informatica non riguarda i computer più di quanto l'astronomia riguardi i telescopi (Edsger Dijkstra, citazione attribuita)”.

3. informatica e metacognizione

Con l’espressione “metacognizione”, termine che può assumere significati diversi in relazione al contesto in cui viene utilizzato, possiamo sostanzialmente indicare l’attività di una mente che riflette su se stessa e sui processi che è in grado di innescare quando si trova ad affrontare una nuova conoscenza.

Gli atteggiamenti metacognitivi sono acquisiti in età infantile (3-4 anni), ed assumono nell’Individuo adulto un carattere solitamente inconsapevole, in altri termini, Egli riflette sulla conoscenza senza sapere di farlo, ma contestualmente questo lo aiuta a comprendere meglio ciò che conosce. Possiamo quindi affermare che la metacognizione è uno strumento che agevola ogni forma di apprendimento, indipendentemente dal contesto in cui l’argomento dell’apprendere può essere collocato. Ma cosa c’entra l’Informatica in tale processo? Qual è il suo ruolo nell’agevolare o sostenere i processi metacognitivi?

Una volta chiarito l’assunto iniziale – e cioè che l’Informatica non può e non deve essere confusa con il computer, che rispetto alla prima è da considerarsi come uno dei suoi prodotti, forse il più emblematico e rappresentativo – dobbiamo ricondurre il significato di questo termine al suo valore disciplinare.

Essa è sicuramente una scienza, il cui ambito d’indagine è l’informazione e i modelli che ne possono consentire la gestione in modalità automatica. Per fare questo, l’Informatica adotta strutture “elementari”, come gli algoritmi, i quali, riduttivamente, altro non sono se non rappresentazioni di processi scomposti in parti elementari. Attraverso architetture complesse di elementi algoritmici e codici (il codice binario è alla base dei sistemi informatici), l’Informatica perviene alla realizzazione di “modelli” che, applicati a sistemi automatici in grado di gestirli (l’hardware) consentono la gestione automatica di informazioni (i software), dando origine al quel sistema complesso che è un computer.

Un panorama, quello delineato, che appare ben lontano dalla Scuola dell’Infanzia e dalla Scuola Primaria come possibile ambiente in cui tali concetti, apparentemente alla portata solo di studi universitari, possano essere applicati a

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sostegno di processi educativi e di apprendimento. La domanda è quindi: come è possibile introdurre l’Informatica in un tale contesto perché risulti utile ai processi di apprendimento propri di questa fascia d’età e, soprattutto, con quali obiettivi?

4. La memoria procedurale

Con questa espressione (la memoria procedurale viene anche definita “memoria implicita”) si suole indicare una particolare tipologia di memoria, tipica dell’essere umano, in grado di “immagazzinare” le procedure tipiche di comportamenti di tipo complesso, sino a renderli automatici e spontanei. Un esempio significativo è quello riconducibile alla guida dell’auto, in cui si pongono in essere una serie di operazioni coordinate fra loro che ne consentono il controllo in ogni situazione. Inizialmente, il neo-patentato si pone alla guida della propria automobile con fare attento e meticoloso, impegnandosi a ricordare i consigli dell’Istruttore e rispettando rigidamente la sequenza di operazioni che ne consentono l’avvio, il movimento e la sosta. Gradualmente, egli diventa sempre più sicuro di sé, sino al punto in cui quasi non si accorge di quello che sta facendo: in questa fase, la procedura è stata completamente acquisita inducendo alla guida comportamenti spontanei quanto inconsapevoli.

Di tali esempi è piena la nostra vita di tutti i giorni; per accorgerci di quanto la memoria procedurale sia in grado di supportarla, basterà soffermarsi sui gesti e i comportamenti più usuali, quali il camminare, fare una telefonata, preparare il caffè…. tutto ciò che, in sintesi, richiede operazioni precise che inducano verso un obiettivo altrettanto preciso attraverso una sequenza di operazioni. È importante, però, non confondere i comportamenti procedurali con quelli riflessi o spontanei, frutto di reazioni all’ambiente che ci circonda.

Col tempo, la memoria procedurale potrebbe risultare compromessa a causa del sopraggiungere di deficit mentali o malattie; in tal caso, il Soggetto andrebbe incontro a gravi deficit, sino alla perdita di autonomia motoria, con conseguenze facilmente immaginabili.

5. Dalla memoria procedurale al pensiero procedurale

Analizzare e riprodurre i comportamenti procedurali, realizzando modelli applicabili in situazioni diverse, è compito dell’Informatica, che assume un valore metacognitivo quando contribuisce a sollecitare atteggiamenti mentali analitici nei confronti di situazioni cognitive diverse. In tal senso, è possibile parlare dello sviluppo di un pensiero di tipo procedurale, vale a dire di un vero e proprio atteggiamento autonomo e spontaneo del pensiero cognitivo rispetto ad una nuova conoscenza.

È questo un processo che si innesca naturalmente nel Soggetto sin dalla più tenera età (3 – 4 anni), tale da divenire del tutto inconsapevole e spontaneo col

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passare del tempo. Se però, attraverso la mediazione di un intervento esterno e intenzionale, il Soggetto esercita tale forma di pensiero in situazioni e contesti esperienziali differenti, apprezzandone l’efficacia in termini di economia e produttività dei risultati, ecco che Egli lo applicherà in tutte quelle situazioni che richiedono di ricercare soluzioni ad un problema, quale che sia la natura di quest’ultimo: è quello che comunemente viene definito “Problem Solving”, una strategia che travalica i confini del pensiero logico-matematico per “invadere” positivamente altri settori della conoscenza e dell’esperienza, definiti e definibili, per l’appunto, “problematici” laddove richiedano attività di analisi, di ricerca e di individuazione di risposte.

Pensiero procedurale e Problem Solving, da intendersi rispettivamente come strategia d’intervento e campo applicativo, si fondono in questo modo in un atteggiamento mentale che è alla base di quel processo di educazione permanente (“Imparare ad imparare”) da più parti e universalmente ritenuto come “competenza chiave” per il corretto inserimento nell’attuale contesto economico, culturale e sociale del nostro Paese, in linea con gli orientamenti comunitari.

È quindi un problema non soltanto educativo quello che la Scuola si trova ad affrontare, recuperando quel ruolo di “maestra di vita” a suo tempo attribuitole e da troppo tempo, forse, usurpatole da altre agenzie educative (tecnologie e mass media); un compito arduo ed elevato, ma se vogliamo proprio dell’Istituzione scolastica, soprattutto in tempi come gli attuali, non sempre caratterizzati da messaggi positivi.

6. Apparati e ambienti mediatori

Il pensiero, nella sua attività cognitiva, è favorito dalla mediazione di Oggetti e Ambienti. È questo, in estrema sintesi, il pensiero pedagogico di Reuven Feuerstein e Seymour Papert, le cui teorie sono alla base del concetto di Informatica Metacognitiva o, meglio, delle strategie ad essa sottese per una sollecitazione efficace delle strutture mentali interessate. Le teorie dei due Pedagogisti sottolineano l’importanza di un approccio spontaneo alla conoscenza, mediato, per l’appunto, dall’impiego di oggetti in grado di favorire e supportare il processo di apprendimento.

Parliamo quindi di “Apparati e Ambienti Mediatori”, costituiti da Robot programmabili, ambienti di programmazione iconici e testuali, ambienti di progettazione di documenti ipertestuali: il tutto a sua volta mediato da un Docente non più “trasmettitore” di contenuti ma disposto ad assumere il ruolo di “Regista” delle operazioni che possono essere compiute in quello che, complessivamente, può essere definito come veri e propri “Ambienti di Apprendimento”, in cui il Bambino procede alla scoperta di occasioni di nuovi ambiti di conoscenza, favorito, e non ostacolato, dallo stesso errore, che in tale contesto assume un ruolo necessario e positivo.

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7. Il ruolo dell’errore nel processo di apprendimento

Ed è proprio l’errore, anzi, il “Signor Errore”, come amava definirlo Maria Montessori, che è posto alla base del processo di apprendimento: sbagliando s’impara, affermavano i nostri Genitori, e non avevano assolutamente torto.

Contrariamente al valore negativo e sanzionatorio che caratterizza un approccio di tipo trasmissivo, tipico di molte scuole e Docenti, le strategie basate sull’errore come momento fondamentale dell’apprendimento ne esaltano il ruolo e la valenza quale “innesco” per procedere in forma autonoma e significativa verso nuove conoscenze. Autonoma, poiché il Soggetto, in presenza dell’errore, assume spontaneamente un atteggiamento di riflessione e analisi della situazione in cui l’errore stesso, manifestandosi, ha impedito il raggiungimento di un determinato obiettivo; significativa perché l’apprendimento generato dall’errore viene dal Soggetto interiorizzato e correlato con le conoscenze pregresse, generando una vera e propria “competenza” trasferibile in altre situazioni e contesti operativi.

Un esempio, per quanto banale, può ulteriormente chiarire questo concetto. Capita spesso di operare al computer che, in quanto macchina esecutrice e non intelligente, incapace cioè di pensare e discernere fra ciò che è giusto o sbagliato fare, si limita ad eseguire l’istruzione impartita dall’operatore, ad esempio eliminare un testo selezionato in precedenza a seguito della pressione di un tasto.

Una situazione comune a quanti sono abituati ad usare il computer per elaborare un testo, e come tale oggetto di specifica attenzione nei vari corsi di formazione sul word processing.

Eppure, per quanto il Docente insista sulle corrette operazioni da effettuare in presenza fi un documento di testo elaborato al computer, prima o poi capita di impartire un comando sbagliato, con conseguenze spesso traumatiche per chi commette un errore di questo tipo (per fortuna non irreversibili negli attuali software di word processing).

Prescindendo dagli effetti emotivi prodotti (“oddio, e ora come faccio…. Ho perso il mio lavoro!), riflettendo con fare analitico sulle operazioni effettuate, l’operatore non tarderà ad apprendere che la pressione di quel tasto, ad esempio la barra spaziatrice, è da evitare in presenza di un testo selezionato, pena il vederlo scomparire, sostituito da un malinconico spazio vuoto; difficilmente, Egli commetterà ulteriormente la stessa operazione.

Nell’esempio riportato, il Soggetto ha fatto i conti con se stesso, Allievo e Insegnante allo stesso tempo, partendo dall’errore commesso per avviare un processo di riflessione altrimenti assente, e acquisendo una nuova conoscenza.

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L’errore, quindi, lungi dall’essere considerato come segnale di incapacità o incompetenza, rappresenta l’ineludibile punto di partenza per procedere verso nuove conoscenze, oltre a costituire un punto di riferimento per una nuova indagine, tesa a verificare i comportamenti posti in essere sino alla sua scomparsa nel processo avviato dal Soggetto. Tanto più esso assumerà un valore educativo se affrontato in maniera spontanea e autonoma, ancorché accettato dal Soggetto come fattore positivo.

Nell’Informatica Metacognitiva, l’errore è perciò un fattore fondamentale, così come lo è l’attività, definita di debugging, che attraverso una vera e propria “caccia all’errore” accresce sempre più le competenze messe in campo dal Soggetto, sino a generare, in concorso con le conoscenze e le abilità acquisite nel tempo, quella competenza che gli consente di applicare un tale atteggiamento in contesti differenti.

8. Apparati e ambienti a matrice robotica

In tutto questo, la Robotica Educativa (espressione utilizzata per indicare una metodologia basata sull’impiego di hardware e software robotico in attività di tipo educativo) rappresenta uno dei possibili approcci all’Informatica Metacognitiva; un approccio “mediato” dall’impiego di apposito hardware e software che, in linea con il pensiero costruzionista di Papert, consentirebbe al Soggetto educando di “manipolare” i concetti, in altre parole di renderli concreti e in diversa misura percepibili. Un piccolo robot che si muove in uno spazio percettivo strutturato (ad esempio un pavimento opportunamente predisposto attraverso una griglia di movimento); un software i cui elementi grafici siano in grado di richiamare l’esperienza manipolativa attraverso la presenza di icone facilmente riconducibili ad azioni concrete; l’uso, infine, di linguaggi di programmazione testuali, in altre parole di simboli vicini alla comprensione da parte della macchina ma anche del Soggetto (perché riproducenti forme di linguaggio consuete); tutto questo è in grado di “mediare” la conquista graduale di abitudini mentali, sino a radicarle in veri e propri comportamenti autonomi. E quanto più precoce è l’approccio a una tale strategia, tanto più sarà possibile favorire la costruzione di architetture mentali di tipo trasversale rispetto alle diverse esperienze, architetture spendibili in qualunque situazione che preveda l’analisi di situazioni, la risoluzione di problemi, l’attivazione di comportamenti cognitivi.

9. Un simpatico “antenato”

1979. La MB, azienda inglese di giocattoli che prende il nome dalle iniziali di Milton Bradley, suo ideatore e fondatore, immette sul mercato un nuovo giocattolo robotizzato: il Big Track (Figura 1).

Dalla avveniristica forma ispirata ad un fantascientifico mezzo blindato, il Big Track è dotato di tre assi di cui quello centrale eroga la trazione. Gli assi possono

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ruotare in modo inverso, permettendo al giocattolo di ruotare su se stesso come un carro armato.

Ciò che lo rende però unico nel suo genere, rispetto ai giocattoli dell’epoca, è la modalità con cui è possibile programmarne i movimenti, vale a dire attraverso una tastiera posta sul dorso dello scafo (Figura 2); una tastiera che consente di memorizzare all’interno di un microchip una serie di azioni che vanno dal procedere avanti e indietro, ruotare secondo un angolo di rotazione definito dall’operatore, inserire pause fra un movimento e l’altro, persino sparare con un suggestivo raggio di luce emesso dal suo “cannone laser”, a colpo singolo o continuo. Oltre ai due servomotori

che ne assicurano i movimenti, infatti, il Big Track era anche dotato di un piccolo cervello elettronico e di una minuscola memoria RAM, utile a memorizzare i comandi impartiti per poi eseguirli in una singola procedura (per questo era dotato di un tasto di avvio della stessa).

Un oggetto che del giocattolo vero e proprio, in considerazione dell’epoca in cui venne immesso sul mercato, aveva ben poco: ci si trovava di fronte ad un vero e proprio robot di tipo “stand alone (funzionante in modo indipendente)” chiaramente ispirato all’ambiente di programmazione LOGO di Papert. Purtroppo, all’epoca, il Big Track non ebbe molta fortuna, almeno nel nostro Paese; paradossalmente, a tanti anni dalla sua prima presentazione oggi esso può vantare numerosi Fan, soprattutto fra un pubblico inaspettatamente adulto, che ancora può comprarlo a prezzi molto bassi sui diversi siti d’asta internazionali.

Chi ora è impegnato a scrivere questo contributo ha avviato le sue esperienze in materia di Robotica educativa proprio grazie a questo giocattolo, portato a scuola da uno dei suoi Allievi al rientro dalle vacanze natalizie. Il piccolo non riusciva a farlo funzionare, per cui chiedeva aiuto al suo insegnante.

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!Figura 2

La tastiera dei comandi del Big Track; da notare i tasti per il

movimento, la rotazione, il tasto di avvio della procedura (GO)

Figura 1Il Big Track della MB

!

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Immediatamente, come era prevedibile, l’oggetto attrasse l’attenzione degli altri compagni, ancor più, lo confesso, quella del loro insegnante, il quale ne intuì le potenzialità come centro d’interesse per numerose attività (era una seconda classe elementare). I bambini, messi da parte i loro quaderni e abbandonati i banchi, fecero circolo intorno al loro compagno e a me, in quel momento nominato suo “tutore” proprio dai suoi occhi: con accanto qualcuno che, per il ruolo rivestito, doveva per forza “saperne più di lui” lo faceva sentire più sicuro e più spavaldo nei confronti dei compagni. Chissà cosa avrebbe pensato se solo avesse intuito che, forse, ne sapevo quanto lui su quel “coso” e che morivo dalla voglia di giocarci.

Le domande e la ricerca di risposte furono immediati, come immediata si ravvisò l’esigenza di procedere con maggiore ordine e disciplina: una disciplina, una volta tanto, scaturita non dalla imposizione quanto da un bisogno sentito del gruppo. Non ci volle molto a capire che il veicolo eseguiva movimenti in avanti e all’indietro che, misurati, corrispondevano alla sua lunghezza. Così, per capire quanti passi avrebbe dovuto compiere per raggiungere, ad esempio, la parete in fondo all’aula (liberata ovviamente dai banchi e dalle sedie9, il gruppo fu costretto a rilevare un’unità di misura, moltiplicandola per tante volte quante corrispondevano ai passi di un compagno che, spontaneamente, si era offerto di misurare con i suoi piccoli passi tale lunghezza….

Le attività continuarono, fino a quando uno dei bambini, il padrone del Big Track, lanciò una sfida a me e ai compagni: egli sarebbe riuscito a programmarlo esattamente, una volta stabilito il suo obiettivo, senza guardare. La sfida fu raccolta con entusiasmo e scetticismo da tutti: il primo a non credere nella riuscita dell’impresa ero proprio io.

Meraviglia delle meraviglie.

Spontaneamente, senza suggerimento alcuno, il Bambino si procurò un foglio di carta e una matita su cui, procurano di non essere visto, aveva tracciato il percorso assegnato dai compagni, accompagnato da una serie di “blocchi” che indicavano passi, pause e rotazioni. In una parola, aveva realizzato un algoritmo di procedura. Quel foglio a quadretti, spiegazzato e dai tratti ingenui, aprì le porte della nostra aula alla robotica e ad un modo diverso di fare scuola.

10. Dal Big Track al Bee Bot

Dopo aver cercato di sottolineare, nel paragrafo precedente, come le origini del presente siano sempre da ricercare nell’esperienza pregressa, passiamo ora ad elencare alcuni fra questi dispositivi hardware (Apparati) e software (Ambienti), attualmente in uso in ambienti educativi. Essi sono stati individuati non in base alla loro più recente produzione rispetto ad altri, quanto sulla scorta della loro collaudata valenza ed efficacia in campo educativo, e riferiti a precise fasce d’età, secondo lo schema che segue:

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Fascia di riferimento Apparato Ambiente

4/7 anni Bee Bot Focus on Bee Bot8/10 anni Pro-Bot LOGO - Robomind11/13 anni Scribbler Scribbler

Sono, sia chiaro, apparati e ambienti indicati come orientativi, selezionati come già riferito in base all’esperienza condotta da chi scrive in diversi contesti operativi e resi disponibili in percorsi di formazione e aggiornamento destinati ai Docenti. Va precisato che la loro efficacia non è intrinseca, ma può variare in base all’uso che ne viene fatto: sistematico, episodico in ambienti di apprendimento appositamente realizzati e progettati o nel chiuso di laboratori. Tutti rivelano comunque una matrice comune: l’attenzione allo sviluppo e al consolidamento di forme di pensiero procedurale a matrice informatica e a valenza trasversale.

Ci limiteremo, in questa sede, ad una descrizione delle risorse elencate, essendo la trattazione delle strategie connesse al loro impiego didattico-educativo non riducibile allo spazio riservatoci. Basterà affermare, in questa sede, come l’impiego di apparati e ambienti mediatori presupponga da parte del Docente la disponibilità ad assumere un ruolo apparentemente contrastante con quello solitamente attribuito a chi insegna: da semplice “trasmettitore” di contenuti, dovrà predisporsi a rivestire egli stesso il ruolo di “Regista” e “Mediatore” nei confronti del Bambino, affiancandolo nel processo di apprendimento e procedendo con lui alla scoperta e alla costruzione di nuove conoscenze. È questo lo spirito che anima le stesse teorie poste alla base di un atteggiamento costruzionista, lo stesso teorizzato da Papert e da quelli che egli chiama “Micromondi”.

11. Il Bee Bot

Questa simpatica “Ape Robot” (Figura 3), prodotta dall’inglese TTS e distribuita in Italia da Media Direct attraverso il sito Campustore (www.campustore.it) rappresenta una intelligente risorsa mediatrice in grado di favorire l’approccio alla Robotica sin dai tre – quattro anni di età: ergonomicamente ben concepito (può essere agevolmente afferrato con una sola mano), equilibrato nel peso e realizzato con materiali atossici, il piccolo Robot può diventare nel giro di poco tempo il compagno di giochi preferito dal Bambino, ben presto compreso nel suo ruolo di programmatore in erba.

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!Figura 3

Il Bee Bot dell’inglese TTS

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Il Bee Bot è un dispositivo “Stand Alone”, programmabile cioè indipendentemente dal computer con cui non è interfacciabile. I comandi sono disposti sul dorso della scocca, immediatamente e intuitivamente individuabili da parte del bambino grazie a precisi simboli. È inoltre dotato di due servomotori collegati alle ruote indipendenti, che gli consentono di ruotare verso destra o sinistra facendo perno su ciascuna ruota, a seconda dell’istruzione impartita (la rotazione è di 90 gradi e non può essere variata). Oltre ai comandi di movimento e rotazione, il Bee Bot dispone del tasto “Go (vai)”, che corrisponde al tasto “INVIO” del computer e consente l’avvio della procedura precedentemente programmata dal suo operatore. Il corredo dei comandi è completato dal tasto “Pause”, utile ad inserire intervalli nel percorso di diversa lunghezza, e del tasto “Clear” che provvede a ripulire la sua memoria dai comandi impartiti in precedenza:

L’immagine (Figura 4) evidenzia chiaramente i comandi descritti. Nella parte inferiore della scocca sono collocati il vano batterie e i pulsanti di accens ione/spegnimento e d i a t t ivaz ione/disattivazione di luci e suoni (gli occhi del Bee Bot si illuminano per indicare l’inizio e la fine di una procedura, e il robot può emettere suoni allo stesso scopo e ad ogni movimento effettuato).

12. Il Software “Focus on Bee Bot”

Al Bee Bot è abbinato uno specifico software, denominato “Focus on Bee Bot (Figura 5)”, che può essere utilizzato dal Bambino per guidare il robot in un ambiente virtuale, costituito da percorsi diversi per tipologia e difficoltà di esecuzione. Questi ambienti, definiti “tappetini”, raffigurano situazioni e contesti diversi, dal circuito di gara da effettuare schivando ostacoli alle strade di una ipotetica cittadina, all’isola del tesoro. Non mancano percorsi simbolici, costituiti da lettere, numeri e forme, che propongono diverse attività per un corretto approccio al simbolo iconico e alfanumerico.

Come è possibile evincere dalla figura 5, l’ambiente operativo è ricco di opportunità: oltre al campo d’azione del Bee Bot, infatti, il piccolo operatore può disporre di una tastiera per i comandi del tutto simile a quella reale posta sul dorso del robot, e di una finestra che gli consente di visualizzare, modificare o cancellare le istruzioni impartite in caso di errore, facilitando una attività che non esitiamo a identificare con il processo di “debugging” in uso quando una procedura algoritmica presenta degli errori. In questo modo, il Bambino si abituerà presto a considerare l’errore come fattore che di per sé non invalida un intero processo, e che una volta individuato rende l’intera procedura eseguibile.

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!Figura 4

Il pannello comandi del Bee Bot

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A completare il quadro delle opzioni, il software consentirà di variare l’angolo di visuale, di usufruire di procedure “passo passo”, di scegliere fra varie attività e opzioni di personalizzazione del robot e dei percorsi e così via. È possibile, grazie ad un editor, realizzare ulteriori percorsi utilizzando immagini o disegni precedentemente realizzati con un semplice software disponibile nello stesso Sistema Operativo (ad esempio Microsoft Paint), favorendo in tal modo anche un approccio mirato al computer.

È facilmente intuibile come le attività proposte dal software possano essere trasferite in seno ad attività manipolative e di gruppo, attraverso la realizzazione di “tappetini”, cartelloni, situazioni simulate e giochi di ruolo: è un discorso, come precedentemente affermato, affascinante quanto meritorio di ulteriore trattazione relativa alle strategie di intervento, discorso che in questa sede non ci è consentito affrontare.

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Figura 5Il software “Focus on Bee Bot”

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13. Il Pro-Bot

Non ci si lasci ingannare dall’aspetto “giocattolaio” di questo dispositivo. Sotto la sua livrea di piccola automobile, il Pro-Bot (Figure 6 e 7) nasconde un’anima informatica davvero interessante e di tutto rispetto.

Con il Bee Bot, questo dispositivo ha in comune solo il suffisso del nome. Ci troviamo di fronte ad una macchina programmabile di sicuro i n t e r e s s e p e r a l c u n e s u e ca ra t te r i s t i che , che rendono manipolabile il robot virtuale di matrice papertiana protagonista di LOGO, il migliore e a mio avviso i n t r a m o n t a b i l e a m b i e n t e d i programmazione espressamente concepito per scopi educativi e didattici.

Oltre a replicare le possibilità di programmazione offerte dal suo fratellino minore, il Bee-Bot, Il Pro-Bot rivela numerosi altri spunti e opzioni, grazie alla sua dotazione di bordo. Il device dispone infatti di un display LCD che consente la visualizzazione delle istruzioni impartite e replica la sintassi propria del linguaggio LOGO. Mette inoltre a disposizione del programmatore comandi più complessi, come il comando RPT (in LOGO corrisponde al comando “Ripeti”), mediante il quale si possono realizzare procedure iterative e nidificate in grado di far disegnare al robot poligoni regolari e irregolari (a tal proposito è dotato di un apposito alloggiamento utile ad ospitare un pennarello con cui esso, procedendo nei suoi movimenti e rotazioni, descriva su un foglio il percorso tracciato).

Il pro-Bot è inoltre dotato di ben quattro sensori: due di contatto (anteriore e posteriore), un sensore di luce e uno di suono, t u t t i p r o g r a m m a b i l i dall’operatore.

Inutile sottolineare che il Pro-Bot non è adatto ad essere utilizzato prima degli otto – nove anni, e che si propone senza soluzione di continuità con i l Bee-Bot e relat ivo so f tware , in t roducendo i l

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!Figura 6Il Pro-Bot

!Figura 7

Il Pro-Bot in azione

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bambino in un ambito di programmazione più complesso, ricco di situazioni stimolanti a livello di analisi situazionale e Problem Solvling e stimolando lo sviluppo di competenze di indubbio valore trasversale rispetto alle diverse situazioni cognitive e di apprendimento. Nonostante questo, il Pro-Bot, così come peraltro lo stesso Bee-Bot, non sono dispositivi di larga diffusione, coerentemente peraltro con la stessa Robotica impiegata in contesti metacognitivi. Ci si augura, col tempo, che la Scuola modifichi tale atteggiamento a favore di un’informatica maggiormente significativa, rispetto a quella diffusa, incentrata sull’uso del computer.

14. Lo Scribbler

Con lo Scribbler (Figura 8), illustrato nella figura che segue, chiudiamo la nostra veloce panoramica sugli Apparati e Ambienti Mediatori in grado di supportare percorsi di Informatica Metacognitiva sin dalla Scuola dell’Infanzia: una metodologia d’approccio indubbiamente attuale e che guarda all’Informatica non più come acquisizione di buone prassi produttive basate sull’impiego di applicativi, restituendole il valore di “Scienza del pensiero”.

Prodotto anche questa volta da un’azienda statunitense, la Parallax, lo Scribbler, letteralmente “Scarabocchiatore”, è un robot programmabile per mezzo di un apposito software, questa volta non residente nella macchina, del tutto sprovvista di una interfaccia per comunicare con l’esterno (ad esempio un display). Niente paura: l’azienda produttrice mette a disposizione il software gratuitamente per quanti intendessero scaricarlo. Ovviamente, le due componenti sono interdipendenti, anche se lo Scribbler può comunque operare secondo una procedura autonoma, intrigante ma non suggestiva quanto la possibilità di programmarlo su un computer, scaricando poi il programma realizzato nella memoria del robot per vederlo all’opera.

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Figura 8Lo Scribbler

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La macchina porta a bordo una ricca dotazione, composta da ruote indipendenti (come sul Bee- Bot e sul Big Track, lo ricordate?), da un alloggiamento per il pennarello tracciante e da un robusto “cervello elettronico”. Ne completano la dotazione tre sensori di luce, due emettitori ad infrarossi accompagnati da un rilevatore di colori, apparati che gli consentono di interagire con l’ambiente. La comunicazione con il computer è assicurata dalla presenza di una porta seriale: ignoro se negli ultimi modelli è stata sostituita con una porta USB.

Quanto al software (Figura 9), è un programma molto ricco, basato sull’impiego di icone:

Per il suo tramite, l’operatore progetta una procedura complessa, costituita da movimenti e rilevamenti ambientali, può inserirvi cicli, richiamare altre procedure e così via. Un gioco “da duri” che, dopo le prime, iniziali quanto comprensibili incertezze, è in grado di coinvolgere Allievi e Docenti in un’attività di indubbio valore educativo. Il software è plurilingue, quindi anche in italiano.

Insieme al suo software, lo Scribbler può essere impiegato in attività laboratoriali sin dalla Scuola Primaria. Personalmente, lo vedo come risorsa corroborata dall’impiego preliminare degli altri due dispositivi precedentemente descritti (il Bee Bot e il Pro-Bot), ma non posso escluderne l’impiego anche in assenza di esperienze pregresse. Certo, sarà dura…

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Figura 9Il software di programmazione dello Scribbler

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15. I software correlati

Una menzione a parte meritano i software che, pur non riferiti alle varie tipologie di hardware descritte e comunque disponibili nel panorama della “Robotica educativa (il virgolettato è d’obbligo in quanto trattasi di una definizione utile ad indicare questa tipologia di risorse; personalmente preferisco parlare di “Apparati mediatori”, non attribuendo a quella definizione un valore esaustivo e univoco rispetto all’argomento trattato in queste pagine)”, costituiscono veri e propri “Ambienti” in grado di suggerire attività diverse, tali da sollecitare forme di analisi e attenzione alle varie fasi di realizzazione di una procedura, per semplice o complessa che sia.

Dell’impiego di questi software molto si discute e si è discusso, soprattutto in merito alla loro efficacia e significatività educativa.

Possiamo dividerli sostanzialmente in due categorie: i software a interfaccia grafica e testuale. I primi risultano particolarmente diffusi, di facile impiego e di libera distribuzione. Questi software sono caratterizzati dalla presenza di icone che ne facilitano l’impiego, grazie alla possibilità di disporre di funzioni intuitive come il “drag and drop”. In pratica, l’operatore si trova di fronte ad una serie di “tessere” simili a quelle di un puzzle, ciascuna corrispondente ad una determinata funzione di un algoritmo. È il caso, peraltro, dello stesso software Scribbler, precedentemente descritto, comune però ad altri software come STARLOGO Robomind e lo stesso “Focus on Bee Bot”.

Se però in quest’ultimo l’interfaccia intuitiva diventa indispensabile, in considerazione della giovanissima età dei suoi fruitori, gli altri software sono frutto di una precisa scelta, quindi meritano un cenno a parte.

L’interfaccia grafica sicuramente favorisce, e di molto, la comprensione della struttura di un algoritmo; di contro, il fatto che l’operatore si limiti a spostare sullo schermo le tessere di un puzzle verificandone semplicemente la congruità con i movimenti e le funzioni da attribuire ad un robot virtuale, di certo non agevola la riflessione e quello che in ambito educativo si definisce “senso critico”, ovvero la capacità di analizzare e valutare l’efficacia di un processo, oltre a quella di applicare regole di tipo sintattico afferenti un linguaggio. Ciò non significa che si intenda attribuire a questi software una scala di valori commisurati alla loro efficacia educativa; semplicemente, se ne sottolineano limiti e vantaggi, affinché il Lettore possa orientarsi nelle sue scelte in forma consapevole e coerente con le sue necessità e obiettivi.

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16. Il Robomind

Questo software (Figura 10) può essere definito la sintesi concettuale e operativa dei principi suesposti. Sviluppato in collaborazione con l’Università di Amsterdam, è un programma liberamente scaricabile e molto utile per introdurre il Soggetto in un ambiente di programmazione finalizzato a guidare i movimenti di un robot in un ambiente simulato.

Il software rende disponibili diverse opzioni: grazie all’operatore, il piccolo robot può muoversi avanti e indietro, disegnare strisce bianche o nere nello spazio operativo, ruotare verso destra o sinistra di 90 gradi. È persino in grado di afferrare e rilasciare oggetti, di guardarsi intorno e “prendere decisioni” sul da farsi al verificarsi o meno di determinate condizioni ambientali (ad esempio in presenza di ostacoli – vedi figura 11).

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Figura 10Il software Robomind

Figura 11L’ambiente Robomind

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Come è possibile intuire dalle immagini, l’ambiente Robomind integra la visuale grafica dello spazio in cui il robot si muove con una finestra in cui è possibile visualizzare le stringhe alfanumeriche corrispondenti a ciascuna istruzione impartita. Da qui, l’operatore può intervenire “criticamente” per operare modifiche procedurali o correzioni laddove decida di programmare il robot intervenendo direttamente sulla sintassi dei comandi da impartire.

Oltre alla modalità di programmazione, il software dispone anche della modalità “step by step”: soprattutto nella fase iniziale, l’operatore può muovere il robot impartendo comandi singoli, in modo da verificare come questo risponda alle sue sollecitazioni passo dopo passo (vedi Figura 12).

Il limite evidenziato dagli utilizzatori di questo software è costituito dalla scarsità dei comandi utilizzabili, pochi per la verità se si pensa al corredo di tipo grafico e iconico. In realtà, il Robomind è un software completo, che non indulge molto ad una programmazione intuitiva, sollecitando l’operatore a migrare ben presto verso un ambiente di programmazione vero e proprio, costituito da stringhe alfanumeriche. In tal modo si agevola sapientemente il passaggio ad un linguaggio di programmazione vero e proprio: il LOGO.

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Figura 12Il pannello comandi del Robomind

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17. LOGO, Ali per la mente

È questo il titolo di una pubblicazione non proprio recente, autore lo stesso Seymour Papert, che accompagnava il lettore alla scoperta dell’ambiente LOGO e delle sue molteplici potenzialità educative. Denigrato da molti, da molti elogiato, il LOGO da molti anni sembra relegato alla preistoria dell’informatica, per la semplicità grafica e l’essenzialità che lo contraddistingue (ci si riferisce, naturalmente, alla versione papertiana). Eppure, così come il DOS, Sistema Operativo alfanumerico croce e delizia dei “vecchi” utenti del PC, a detta di molti oramai superato e obsoleto, costituisce in realtà la struttura portante degli attuali Sistemi Operativi a interfaccia grafica brandizzati Microsoft e targati Windows, così il LOGO è presente in tutti i software didattici riferibili all’ambiente robotico, non ultimo proprio il Robomind di cui abbiamo ampiamente dissertato.

Ma che cos’è?

Molti sapranno sicuramente rispondere a questa domanda; a quanti, fra coloro che leggono questo contributo, non avessero avuto occasione di “incrociarlo” in precedenti esperienze, risponderò con una semplice affermazione: LOGO è l’essenza della Robotica applicata ai processi di apprendimento, ma è anche il migliore approccio ai linguaggi di programmazione.

Basato sul linguaggio LISP, di antica memoria, LOGO vanta numerosi Fan, e non solo nel mondo della Scuola. Nasce nella mente di Papert in ossequio all’idea che non debbano essere i computer a governare i Bambini: semmai il contrario (e, badate, si era nel 1974: mai un’espressione di tanti anni fa potrebbe risultare più attuale).

La sua interfaccia grafica è molto semplice, come si può notare dall’immagine che segue:

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Figura 13L’ambiente LOGO: da notare la semplicità

dell’interfaccia grafica

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Nella parte superiore, una finestra bianca sormontata da una barra menu; al centro, un piccolo triangolo: è il nostro robot, con il vertice superiore che indica la direzione in avanti. Sotto a quello che potremmo definire come “Ambiente di lavoro”, una finestra più piccola, utile a listare i comandi impartiti e ad elaborarli (nella piccola finestra inferiore) sotto forma di lettere e numeri. Non mancano alcuni pulsanti funzionali ad eseguire pause, reimpostare il programma, resettare la finestra comandi e così via.

Tutto qui. Ma è proprio in questa essenzialità che consiste la vera efficacia del LOGO. L’operatore, meglio se parliamo di un Allievo in età compresa fra dieci e tredici anni. Il programma riconduce l’azione alla correttezza sintattica delle istruzioni impartite, immediatamente eseguibili oppure inseribili in procedure anche complesse: in una parola, fa riflettere, e lo fa senza compromessi.

18. I campi di intervento

Al di là della sua efficacia intrinseca come ambiente di programmazione, LOGO ha altre caratteristiche, che gli consentono di interferire con alcune fra le discipline argomento consueto di insegnamento, conferendo loro un valore aggiunto in termini di interesse e affettività da parte dell’Allievo. Tipico è il campo della geometria, quella, per intenderci, solitamente insegnata per formule e teoremi, che attraverso LOGO non sono più e non tanto oggetto di semplice memorizzazione quanto di “costruzione” concettuale, una costruzione in linea con la teoria di riferimento (il costruzionismo di Papert, per l’appunto) di impatto educativo molto più efficace.

Un esempio valga per tutti, osservando l’immagine che segue (Figura 14):

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Figura 14Il LOGO in azione

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Nella stessa, è stato realizzato un semplice quadrato con un lato di 130 pixel (si badi bene, non centimetri). La figura è stata tracciata per mezzo di una procedura “passo passo” che ha impartito alla “Tartaruga” due semplici istruzioni, ripetute quattro volte, e cioè:

AVANTI 130 DESTRA 90

Indubbiamente, il fatto che la figura realizzata sia riconducibile al concetto di “Quadrato” non è una conoscenza alla portata della macchina: LOGO si è limitato ad eseguire le istruzioni ricevute, una volta verificata la loro correttezza sintattica.

Supponiamo che neanche l’operatore sappia che la figura disegnata sia un quadrato: per lui è semplicemente una “forma” realizzata con quattro lati uguali (AVANTI 130) e quattro rotazioni uguali (90 gradi cadauna). Per quanto ne sa, potrebbe chiamarsi anche “mattonella”.

Proviamo a costruirne un’altra di minori dimensioni, sfruttando però la stessa regola: quattro linee uguali e quattro rotazioni uguali (Figura 15:

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Figura 14LOGO disegna quadrati concentrici

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Volendo, possiamo continuare, senza mai cancellare la figura disegnata in precedenza. Otterremo così una serie di figure della stessa forma, tutte originate dallo stesso punto, e che si differenziano fra loro soltanto per la lunghezza in pixel attribuita con il comando “AVANTI”.

Sarà facile, a questo punto, far scaturire la regola dalla stessa esperienza condotta, e chiamare per convenzione la figura realizzata in più dimensioni con il termine “Quadrato”.Se provassimo a chiedere a questo punto al nostro Allievo cosa sia un quadrato, egli non potrà fare a meno di rispondere che è una figura “con quattro lati uguali e quattro rotazioni (angoli) uguali.

Lascio al Lettore ogni ulteriore considerazione. Gli esempi riportabili sono infiniti, e patrimonio comune di quanti, sia pure in passato, hanno avviato esperienze didattiche con LOGO. Qui lo spazio è però tiranno, e ci costringe a fermarci.

19. Conclusioni

Lo spazio che ci ospita, così come si presume l’indulgenza di quanti ci hanno seguito sin qui, sono alla fine, e Scuola ci inducono a trarre le nostre conclusioni.

Quella che in molti definiscono con l’espressione “Robotica Educativa (a mio avviso riduttiva rispetto alla vera essenza delle strategie descritte, vicina più ad un’ottica disciplinare che contestuale)” potrebbe rappresentare una nuova frontiera metodologica, nuova quanto radicata nel tempo, in considerazione della sua matrice papertiana (e non solo). Possiamo in realtà affermare che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio “ritorno al futuro”, in grado di influenzare e comunque interferire a 360° con le varie modalità che caratterizzano, a più livelli, l’intervento educativo.

Da più parti assistiamo al proliferare di esperienze in tal senso, diverse fra loro ma tutte riconducibili ad una matrice comune: la teoria costruzionista di Papert, il pensiero di Feuerstein (per quanto attiene il ruolo del “soggetto mediatore”) e, non ultimo, proprio quel linguaggio, il LOGO, dai più dimenticato e relegato al ruolo di “linguaggio fuori moda”. Tutte esperienze che meritano, da parte della Scuola e di quanti vi operano, la massima attenzione. Credo però che la stessa attenzione debba essere destinata all’argomento trattato da parte di chi si occupa di Informatica e, soprattutto, di approccio informatico a carattere educativo.

L’informatica non è Office. L’Informatica è una disciplina che, attraverso l’analisi della struttura di un’intelligenza artificiale, ci induce a riflettere sul suo funzionamento, generando abitudini mentali spendibili per “imparare a imparare”, obiettivo ultimo della Scuola. Quello che auspichiamo in queste pagine è il confronto fra i vari approcci all’Informatica Metacognitiva e la costante attenzione degli Informatici a questo delicato settore, al fine di avviare efficaci sinergie destinate ad un Futuro che oggi ci guarda con gli occhi sbarrati e ansiosi di apprendere: il Bambino.

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Biografia

Giuseppe Albano è Docente di Matematica e Informatica nelle Scuole del Primo Ciclo dell'istruzione dal 1973 al 2009, anno in cui lascia tale ruolo per dedicarsi alla ricerca e alla sperimentazione in campo educativo. Dal 1985, in concomitanza con l'avvio del Piano Nazionale di Formazione e Aggiornamento degli Insegnanti sulla scorta dei Nuovi Programmi per la Scuola Primaria (DP 104 del 12 febbraio 1985), è coinvolto in attività di formazione con l'IRRSAE di Puglia e Sardegna, attività che lo vede impegnato in numerose iniziative di formazione nelle Regioni citate; in tale periodo, perfeziona le proprie competenze nell'ambito dei criteri di programmazione dell'intervento educativo. Sin dal 1978 avvia le sue prime esperienze nell'impiego di Robot e Ambienti di programmazione, definiti poi dallo stesso come "Apparati e Ambienti mediatori" in materia di Informatica Metacognitiva, sviluppando percorsi che si rivelano efficaci per la sua attività di Docente e nell'ambito di interventi dedicati ad Allievi di Scuole primarie in zone ad alto rischio di dispersione scolastica. Nel 1992 fonda, insieme ad un gruppo di Colleghi, l'Associazione "TeleScuola" ed avvia le prime esperienze nazionali per la costituzione di una rete telematica fra le Scuole utilizzando la rete ITAPAC, riscuotendo ampi consensi da parte delle istituzioni coinvolte.

Attualmente, presta la propria consulenza in seno ad AICA per le azioni di certificazione nelle Regioni obiettivo Convergenza (Puglia, Calabria, Campania e Sicilia) ed è promotore di diverse iniziative per lo sviluppo, il consolidamento e la certificazione delle competenze digitali in Docenti e Allievi della Fascia Prescolare, Primaria e secondaria di I Grado; è altresì autore e promotore, in concorso con AICA, di iniziative progettuali e di certificazione destinate alle suddette istituzioni Scolastiche.

email: [email protected]

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