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STORIA DELLA FILOSOFIA PRINCIPALI FIGURE E CORRENTI DEL PENSIERO OCCIDENTALE PAOLO REBAUDO

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Page 1: Rebaudo Storia Della Filosofia

STORIA DELLA FILOSOFIA

PRINCIPALI FIGURE E CORRENTI

DEL PENSIERO OCCIDENTALE

PAOLO REBAUDO

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Storia della filosofia Paolo Rebaudo ________________________________________________________________________________________________________

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INDICE

Capitolo 1 Origini e concetto della filosofia 3

Capitolo 2 I filosofi naturalisti 9

Capitolo 3 La sofistica e Socrate 30

Capitolo 4 Platone 44

Capitolo 5 Aristotele 66

Capitolo 6 La filosofia in età ellenistica 85

Capitolo 7 La filosofia medioevale 103

Capitolo 8 La filosofia rinascimentale 129

Capitolo 9 La rivoluzione scientifica 146

Capitolo 10 Razionalismo ed empirismo 185

Capitolo 11 L‘illuminismo 218

Capitolo 12 Kant 229

Capitolo 13 Romanticismo e idealismo 244

Capitolo 14 Schopenhauer 278

Capitolo 15 Kierkegaard 291

Capitolo 16 Feuerbach e Marx 298

Capitolo 17 Il positivismo 322

Capitolo 18 Nietzsche 336

Capitolo 19 Freud 356

Capitolo 20 Husserl e la fenomenologia 364

Capitolo 21 L‘esistenzialismo e Heidegger 384

Capitolo 22 Gadamer 403

Capitolo 23 Il neopositivismo 412

Capitolo 24 Popper e le nuove epistemologie 417

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CAPITOLO 1

Origini e concetto della filosofia

Civiltà greca e filosofia

La filosofia occidentale nasce per opera dei Greci che

elaborano per primi un metodo di indagine razionale

sull'origine e sulla natura dell'universo. Il pensiero e la

discussione prendono il posto della fede, della rivelazione

e della poesia. Il nuovo metodo di indagine si diffonde

presto nelle colonie greche del Mediterraneo, in madre

patria e in Magna Grecia. La filosofia è nata in Grecia e i

greci sono stati gli iniziatori del pensiero occidentale in

quanto essi risultano gli autori dei primi testi scritti di

filosofia della civiltà europea. Se la sapienza orientale è di

tipo religioso e tradizionalistico, poiché è privilegio di una

casta sacerdotale ed è ancorata ad una tradizione ritenuta

sacra ed immodificabile, la sapienza greca si presenta

come una ricerca razionale che nasce da un atto

fondamentale di libertà di fronte alla tradizione, al

costume e alle credenze. I fattori che possono aver

permesso la nascita della filosofia sono da individuare in

alcune caratteristiche della società greca intorno al VI

secolo a.C.: la posizione geografica di ponte fra Europa e

Asia, una religione che non pone ostacoli allo sviluppo

della riflessione, una struttura politica che garantisce un

certo margine di libertà ai cittadini, un commercio in

costante sviluppo e che richiedeva lo sviluppo di una

riflessione e un‘esigenza di spiegazione dei fenomeni

secondo una visione naturalistica presente nei miti di

Omero e di Esiodo.

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Entrando un po‘ di più nel dettaglio, occorre dire che le

civiltà pregreche sono quasi tutte monarchie, con potenti

caste sacerdotali e guerriere che detengono il potere e

hanno un carattere autoritario e tradizionalista, tendenti a

conservare la loro cultura. In Grecia la situazione appare

invece diversa. Innanzitutto, fin dai tempi omerici, si sono

avuti governi e repubbliche di tipo aristocratico. In

secondo luogo, al posto di uno stato accentratore si è

costituita una variopinta e frazionata costellazione di città-

stato. Infine, le aristocrazie dominanti non sono affatto

assimilabili alle caste guerriere o sacerdotali dell‘Oriente,

poiché quella greca è una civiltà in cui i sacerdoti,

nonostante l‗importanza della religione, hanno poco

potere. Lo sviluppo della polis greca conduce verso nuove

forme di direzione dello Stato, le prime democrazie della

storia del mondo. Ma la discussione fra le varie opinioni

presuppone una mentalità che non si accontenta più del

delle sue forme culturali tradizionali. In un ambiente

socio-politico del genere la filosofia ha modo di emergere,

contribuendo essa stessa ad un ulteriore sviluppo e

laicizzazione della cultura. Questo spiega anche perché la

filosofia greca sia nata prima nelle colonie e solo

successivamente nella madrepatria. In un primo tempo,

solo le colonie ioniche dell‘Asia Minore, presentano

condizioni economiche, sociali e politiche atte a favorire il

sorgere di una cultura e di una mentalità più elastica,

propizia la diffusione della filosofia. Infatti nella Ionia

troviamo quella dinamica circolazione di merci, idee ed

esperienze, e quelle libere istituzioni che concorrono a

determinare quel tipo di società aperta, stimolante per la

razionalità filosofica.

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La mitologia, la religione dei Misteri e la poesia

L‘arte e la religione greca erano già, in parte, riflessioni

generali sull‘uomo e la realtà. Nelle cosmologie mitiche,

nelle dottrine religiose dei Misteri e nella poesia si

possono rintracciare i primordi del pensiero filosofico. Il

più antico documento della cosmologia mitica presso i

Greci è la Teogonia di Esiodo nella quale certo

confluirono antiche tradizioni. Di natura filosofica appare

qui il problema dello stato originario dal quale le cose

sono uscite e della forza che le ha prodotte. Ma se il

problema è filosofico, la risposta rimane mitica. Il caos, la

terra, l‘amore, ecc. sono personificati in entità mitiche.

Un‘ulteriore affermazione dell‘esigenza filosofica si nota

nella religione dei Misteri diffusasi in Grecia a cominciare

dal VI secolo a.C. e soprattutto nell‘orfismo. L‘orfismo

era dedicato al culto di Dioniso e la rivelazione era

attribuita ad Orfeo che era disceso nell‘Ade. Lo scopo dei

riti che la comunità celebrava era quello di purificare

l‘anima dell‘iniziato per sottrarla alla trasmigrazione nel

corpo di altri esseri viventi.

Ma il clima nel quale poté nascere e fiorire la filosofia

greca fu preparato dalla poesia. Il concetto di una legge

unitaria del mondo umano si trova per la prima volta in

Omero. L‘Odissea è tutta dominata dalla fede in una legge

di giustizia, di cui gli dèi sono custodi e garanti, legge che

determina nelle vicende umane un ordine provvidenziale,

per il quale il giusto trionfa e l‘ingiusto viene punito. Da

Esiodo questa legge viene personificata in Dike, figlia di

Zeus, che vigila affinché siano puniti gli uomini che

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commettono ingiustizia. Solone afferma con grande

energia l‘infallibilità della punizione che colpisce Siro,

colui che infrange la norma di giustizia, sulla quale è

fondata la vita associata: anche dice quando il colpevole si

sottrae alla punizione, questa colpisce infallibilmente i

suoi discendenti. Pertanto la legge di giustizia è anche

norma di misura. Eschilo è infine il profeta religioso di

questa legge universale di giustizia, della quale la sua

tragedia vuole esprimere il trionfo. Prima, dunque, che la

filosofia scoprisse l‘unità della legge al di sotto della

molteplicità dispersa dei fenomeni naturali, la poesia greca

ha scoperto l‘unità della legge al di sotto delle vicende

apparentemente disordinate della vita umana associata.

Il concetto di filosofia

Pitagora avrebbe usato per primo la parola filosofia in un

significato il specifico. Alla saggezza si erano ispirati i

Sette Savi, che però erano ancora chiamati sofisti

(sapienti), come sofista era chiamato Pitagora. Più tardi, la

parola filosofia verrà ad assumere due significati

fondamentali. Il primo e più generale è quello della ricerca

autonoma o razionale in qualsiasi campo; in questo senso

tutte le scienze fanno parte della filosofia. Il secondo

significato, più specifico, indica una particolare ricerca,

che ha come oggetto di studio ciò che in qualche modo è

fondamentale o basilare, sia in relazione alla realtà (= la

metafisica come dottrina delle cause ultime o supreme

delle cose), sia in relazione alla conoscenza (= la

gnoseologia e la logica come studio dell‘origine o della

validità ultima delle nozioni e dei ragionamenti), sia in

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relazione al comportamento (= l‘etica e la politica come

studio dei motivi e degli scopi ultimi dell‘azione

individuale e sociale) ecc. In sintesi, la filosofia, presso i

Greci, assunse il carattere di una ricerca radicale sui

fondamenti dell‘essere, del conoscere e dell‘agire e fu

perciò considerata la regina del sapere.

Nella Metafisica di Aristotele vengono indicate almeno

tre caratteri tipici che distinguono la filosofia da altri tipi

di conoscenze come le scienze particolari, l'arte e la

religione: 1) totalità: l'oggetto o contenuto della filosofia è

l'intero, la totalità delle cose, tutta quanta la realtà - per

cui si ha la ricerca del primo principio di tutte le cose.

Conoscere tutte le cose non significa conoscere tutte le

singole cose, ma conoscere un universale in cui rientrano

tutte le cose particolari da esso unificate, un principio o

più principi da cui tutte le cose derivano. Fu questo il

tentativo dei fisici, trovare quella realtà naturale che resta

sempre, da cui tutto ha origine.; 2) razionalità: il metodo di

ricerca è il logos, la spiegazione puramente razionale, - per

cui si ha la ricerca delle cause; il metodo distingue la

filosofia dall'arte e dalla religione;3) ricerca disinteressata:

lo scopo della ricerca filosofica è la verità, conoscere e

contemplare la verità. La filosofia ha un carattere

esclusivamente teoretico, ossia mira a conoscere la verità

per se stessa, prescindendo dalle sue utilizzazioni,pratiche;

è "disinteressato amore del vero".

Le scuole filosofiche

Fin dall‘inizio la ricerca filosofica fu in Grecia una ricerca

associata. Gli scolari si riunivano a vivere una vita comune

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e vivevano tra loro in comunanza di pensiero e di costumi,

in uno scambio continuo di dubbi, di difficoltà e di

ricerche. Quasi tutte le grandi personalità della filosofia

greca sono i fondatori di una scuola, di un centro di

ricerche. La ricerca filosofica non chiudeva, secondo i

Greci, l‘individuo in se stesso; esigeva anzi una

concordanza di sforzi, una comunicazione incessante tra

gli uomini che ne facevano lo scopo fondamentale della

vita e determinava quindi una solidarietà salda ed effettiva

tra coloro che vi si dedicavano.

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CAPITOLO 2

I filosofi naturalisti

La scuola di Mileto

Nella storiografia tradizionale il termine presocratici

indica i filosofi, per lo più anteriori a Socrate, che si sono

principalmente occupati del problema della natura. I

filosofi naturalisti (o presocratici, o meglio, presofisti) non

costituiscono un insieme compatto di filosofi, ma si

distinguono in numerose scuole e tendenze: Gli Ionici di

Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene. I Pitagorici:

Pitagora e seguaci. Gli Eracitei: Eraclito e seguaci. Gli

Eleati: Parmenide e seguaci. I Fisici posteriori:

Empedocle, Anassagora e Democrito. Geograficamente

operano, in un primo tempo, nelle colonie greche della

Ionia (scuola di Mileto ed Eraclito) oppure nella Magna

Grecia (Pitagorici ed Eleati).

La civiltà ionica

Nel VI secolo a.C. si sviluppò nella Ionia, che si trova

nella parte meridiana dell‘Asia Minore, una fiorente

civiltà, che ebbe i suoi centri più importanti in Mileto,

Efeso, Colofone, Clazomene, Samo e Chio. In queste città

una classe intraprendente di mercanti, desiderosa di

sbocchi commerciali e di materie prime, aveva costruito

una flotta mercantile, il cui spazio di manovra si estendeva

dal Mar Nero all‘Egitto, dal Caucaso alla Francia

meridionale, dalla Sicilia alla Spagna. La pressione

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demografica aveva favorito l‘emigrazione in altre terre;

colonie ioniche erano sorte in Sicilia, nella Magna Grecia

(Elea e Crotone) e sulle coste del Mar Nero. Il rapido

sviluppo di forme politiche democratiche, il rigoglio delle

tecniche, i contatti con le civiltà del vicino Oriente, sono

tutti fattori che contribuiscono all‘elaborazione di una

nuova cultura, impegnata a liberarsi dalle credenze mitiche

e religiose, e volta ad un‘osservazione più attenta e

razionale dei fenomeni naturali. Da ciò l‘emergere di una

figura di intellettuale che è contemporaneamente filosofo,

scienziato e tecnico.

La ricerca dell‘arché

Il pensiero dei primi filosofi si incentra soprattutto sul

problema della realtà primaria. Di fronte allo spettacolo

multiforme del mondo, costituito da una molteplicità di

cose in continuo mutamento, gli Ionici si convincono che,

al di sotto di tutto, esiste una realtà unica ed eterna, di cui

ciò che esiste è solo temporanea manifestazione. Essi

denominano tale sostanza arché (principio), intendendo,

con questo concetto, la materia da cui tutte le cose

derivano e la forza o legge che spiega la loro nascita e

morte. Da ciò l‘ilozoismo e il panteismo di questi primi

filosofi: ilozoismo (dal greco materia vivente) in quanto

essi ritengono che la materia primordiale sia fornita di una

forza intrinseca che la fa muovere; panteismo (dal greco

tutto è Dio) poiché tendono ad identificare il principio

eterno del mondo con la divinità.

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L‘iniziatore della scuola ionica è Talete, che visse tra la

fine del VII secolo e la prima metà del VI, e fu uomo

politico, astronomo, matematico e fisico, oltre che

filosofo. Come astronomo predisse una eclisse solare.

Come matematico trovò vari teoremi di geometria e come

fisico scoprì le proprietà del magnete. La sua fama di

saggio è testimoniata dall‘aneddoto riferito da Platone,

secondo cui osservando il cielo, cadde in un pozzo,

suscitando il riso di una servetta. Non pare che abbia

lasciato scritti filosofici e dobbiamo ad Aristotele la

conoscenza della sua dottrina. Talete dice che il principio

l‘acqua, perciò anche sosteneva che la terra sta sopra

l‘acqua; prendeva forse argomento dal fatto che il

nutrimento d‘ogni cosa è umido e persino il caldo si

genera e vive nell‘umido; ora ciò da cui tutto si genera è il

principio di tutto. Aristotele osserva che questa credenza è

antichissima; Omero ha cantato che Oceano e Teti sono

principi della generazione.

Concittadino e contemporaneo di Talete, Anassimandro

nacque nel 610-609. Fu anch‘egli uomo politico ed

astronomo. È il primo autore di scritti filosofici in Grecia e

la sua opera in prosa Intorno alla natura segna una tappa

notevole nella speculazione cosmologica. Per primo egli

chiamò la sostanza originaria col nome di arché; e

riconobbe tale principio non nell‘acqua nell‘aria o in altro

particolare elemento, ma in un principio infinito o

indeterminato (ápeiron) dal quale tutte le cose hanno

origine e nel quale tutte le cose si dissolvono. L'ápeiron

("senza perimetro") è tradotto comunemente con infinito,

indeterminato, indefinito. Questo stato originario non si

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identifica con un elemento fisico, è l'inizio e la fine di

tutto. Uno stato in cui acqua, fuoco, terra e aria si

mescolano in una sola cosa. Questo principio infinito

abbraccia e governa ogni cosa; per suo conto è immortale,

quindi divino. Anassimandro si è anche posto il problema

del processo attraverso il quale le cose derivano dalla

sostanza primordiale. Tale processo è la separazione: la

sostanza infinita è animata da un eterno movimento, in

virtù del quale si separano da essa i contrari, caldo e

freddo, secco ed umido, ecc. Per mezzo di questa

separazione si generano i mondi infiniti, che si succedono

secondo un ciclo eterno. Per ogni mondo, il tempo della

nascita, della durata e della fine è segnato. Tutti gli esseri

devono, secondo l‘ordine del tempo, pagare gli uni agli

altri il fio della loro ingiustizia Evidentemente, questa

separazione è la rottura dell‘unità, che è propria

dell‘infinito; è il subentrare della diversità, quindi del

contrasto, là dove erano l‘omogeneità e l‘armonia. Con la

separazione dunque si determina la condizione propria

degli esseri finiti: molteplici, diversi e contrastanti fra loro,

perciò inevitabilmente destinati a scontare con la morte la

loro stessa nascita e a ritornare all‘unità.

Anassimene, più giovane di Anassimandro e forse suo

discepolo, visse fra il 546-545 e il 528-525 a.C. Come

Talete, egli riconosce come principio una materia

determinata, che è l‘aria; ma a tale materia attribuisce i

caratteri del principio di Anassimandro: l‘infinità e il

movimento incessante. Egli vedeva nell‘aria anche la forza

che anima il mondo. Anassimene ci dice anche il modo in

cui l‘aria determina la trasformazione delle cose: questo

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modo è il doppio processo della rarefazione e della

condensazione: rarefacendosi, l‘aria diventa fuoco;

condensandosi diventa vento, poi nuvola e, condensandosi

ancora, acqua, terra e quindi pietra.

I Pitagorici

Pitagora nacque a Samo, probabilmente nel 571-570,

venne in Italia nel 532-531 e morì nel 497-496. A Crotone

fondò una scuola che fu anche un‘associazione religiosa e

politica e si diffuse ben presto in tutte le città greche

dell‘Italia meridionale, assumendo molte volte il potere

politico ed esercitandolo in senso aristocratico. La sola

dottrina filosofica che gli si può con certezza attribuire è

quella della metempsicosi, cioè della trasmigrazione

dell‘anima, dopo la morte, in corpi di animali o di altri

uomini. Pitagora considerava il corpo come una prigione

dell‘anima e la vita corporea come una punizione. La

filosofia è la via per liberare l‘anima dal corpo, via che

esige la sapienza da un lato e dall‘altro i riti purificatori,

che la setta praticava. La scienza viene così ad assumere

per i Pitagorici il valore di un mezzo per purificare l‘anima

e condurla alla salvezza e alla liberazione.

Ai Pitagorici si deve la creazione della matematica come

scienza. Anche se è vera la tradizione che Pitagora abbia

desunto l‘ispirazione delle sue dottrine matematiche dagli

Egiziani e da altri popoli orientali, presso i quali si sarebbe

intrattenuto durante i suoi viaggi, egli non poteva

apprendere da questi popoli se non la conoscenza delle

semplici operazioni geometriche. I Pitagorici invece

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cominciarono a trattare la matematica (che deve ad essi il

suo nome) come una vera e propria scienza, elaborando

concettualmente i suoi termini fondamentali (quantità,

punto, linea, superficie, angolo, corpo) e facendo

astrazione da tutte le applicazioni pratiche. Essi inoltre

stabilirono quel carattere rigoroso della dimostrazione

matematica, che fu poi la norma della matematica greca e

ha costituito, da allora in poi, l‘ideale di ogni disciplina

che si voglia organizzare scientificamente. La filosofia dei

Pitagorici era un riflesso della loro matematica. La tesi

fondamentale di questa filosofia è che il numero è il

principio delle cose. Invece dell‘acqua, dell‘aria o di altri

elementi materiali, i Pitagorici riconobbero il numero

come l‘elemento di cui sono costituite le cose. Il numero

era considerato dai Pitagorici come un insieme di unità e

l‘unità era considerata identica al punto geometrico. Il

numero 10, considerato come il numero perfetto, era

rappresentato come un triangolo che ha il quattro per lato e

costituiva la sacra figura della tetraktis. Aritmetica e

geometria venivano così fuse, un numero era nello stesso

tempo una figura geometrica; e una figura geometrica era

un numero. Ma la figura geometrica è una disposizione, un

ordinamento di punti nello spaio: il numero esprime la

misura di questo ordinamento. Il concetto che è alla base

del principio pitagorico che le cose sono numeri è,

dunque, quello di un ordine misurabile. Affermare, come

facevano i Pitagorici, che le cose sono costituite di numeri

e che quindi tutto il mondo è fatto di numeri, significa che

la vera natura del mondo, come delle singole cose,

consiste in un ordinamento geometrico esprimibile in

numeri (misurabile). Infatti, mediante il numero è

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possibile spiegare moltissimi fenomeni naturali. In effetti

qualunque cosa è riconducibile ad una struttura

quantitativa e quindi misurabile. E qui è veramente la

grande importanza dei Pitagorici, che per primi hanno

ricondotto la natura all‘ordine misurabile, oggettivo. Il

numero si divide in dispari e pari: questa opposizione si

riflette in tutte le cose, quindi anche nel mondo. Il dispari

è, nella sua essenza, un‘entità limitata, ovvero terminata e

compiuta. Il pari è ne un‘entità illimitata, ossia non

compiuta e non terminata. Il pitagorismo è quindi una

filosofia dualistica poiché intende spiegare la realtà sulla

base di una contrapposizione di principio fra limite e

illimitato, fra pari e dispari. A queste opposizioni i

Pitagorici ne aggiunsero altre, nelle quali l‘ordine, il bene

e la perfezione stanno sempre dalla parte del limite e del

dispari, mentre il disordine, il male e l‘imperfezione

stanno sempre dalla parte del pari e dell‘illimitato.

Abbiamo così dieci opposizioni fondamentali: 1) limite,

illimitato; 2) o dispari, pari; 3) unità, molteplicità; 4)

destra, sinistra; 5) maschio, femmina; 6) quiete, ai

movimento; 7) retta, curva; 8) luce, tenebra; 9) bene, male;

10) quadrato, rettangolo.

La fisica

In astronomia, i Pitagorici sostennero per primi la sfericità

della terra e dei corpi celesti in genere. A ciò essi furono

condotti dalla credenza che la sfera è la più perfetta tra le

figure solide, perché, avendo tutti i suoi punti equidistanti

dal centro, è l‘immagine stessa dell‘armonia. Ma essi

ebbero anche altre geniali intuizioni che li fanno

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riconoscere come i più antichi precursori di Copernico. Il

pitagorico Filolao sostenne che la terra stessa e tutti gli

altri corpi celesti si muovono intorno a un fuoco centrale,

altare dell‘universo, che ordina e plasma la materia

illimitata circostante, dando origine al mondo. Egli ritenne

pure che intorno al Fuoco centrale si muovono, da

occidente a oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle

fisse, che è il più lontano dal centro, e poi, a distanza

sempre minore, i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte,

Mercurio, Venere), il sole (che come una grande lente

raccoglie i raggi del fuoco centrale e li riflette intorno), la

luna, la terra e l‘antiterra, il pianeta ipotetico che Filolao

ammise per completare il sacro numero di dieci.

I Pitagorici utilizzavano la matematica anche per

l‘interpretazione dell‘uomo. Essi consideravano l‘anima

umana come armonia: essa risulterebbe dalla

composizione armonica degli elementi che compongono il

corpo, così come l‘armonia musicale risulta dagli elementi

che compongono lo strumento musicale.

Eraclito

Di Eraclito, che visse ad Efeso, tra il VI e il V secolo,

sappiamo pochissimo. Scrisse un‘opera in prosa, Intorno

alla natura, costituita da aforismi che per la loro

enigmaticità spiegano l‘appellativo di oscuro con cui

Eraclito è stato soprannominato dalla tradizione. Alla base

del pensiero di Eraclito vi è la contrapposizione tra la

filosofia, da lui identificata con la verità, e la comune

mentalità degli uomini, da lui ritenuta luogo di errore.

Eraclito è passato alla tradizione come il filosofo dei

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divenire, in quanto concepisce il mondo come un flusso

perenne, in cui ―tutto scorre‖ (panta réi), analogamente

alla corrente di un fiume le cui acque non sono mai le

stesse: non è possibile discendere due volte nello stesso

fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello

stesso stato. Ogni cosa è soggetta al tempo e alla

trasformazione, ed anche ciò che sembra statico e fermo in

realtà è dinamico. Questa concezione della realtà come

fluire si concretizza nella tesi secondo cui l‘arché delle

cose è il Fuoco, elemento mobile e distruttore per

eccellenza, che ben simboleggia la visione eraclitea del

cosmo come energia in perpetua trasformazione, in cui

tutto ciò che esiste proviene dal Fuoco e ritorna al Fuoco,

secondo il duplice processo della ―via in giù‖ (il fuoco,

condensandosi, diventa acqua e poi terra) e della ―via in

su‖ (la terra, rarefacendosi, si fa acqua e poi fuoco).

La legge dei contrari

La parte più originale del pensiero eracliteo è la teoria

dell‘unità dei contrari. I molti, dice Eraclito, ritengono che

un opposto possa esistere senza l‘altro (ad esempio il bene

senza il male). Questa credenza è un‘illusione, poiché la

legge segreta del mondo risiede proprio nella stretta

connessione dei contrari, che lottano fra di loro. Ciò che a

prima vista può sembrare disordine e irrazionalità, cioè la

lotta delle cose fra di loro, manifesta invece, ad uno

sguardo più profondo, una sua interiore razionalità (lògos),

consistente nel fatto che un opposto non può esistere

indipendentemente dall‘altro. Eraclito individua l‘arché

originario nel Fuoco o nel Lògos, intendendo con il primo

concetto il principio fisico che costituisce le cose e con il

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secondo la legge universale che le governa. La scoperta

dell‘unità degli opposti porta Eraclito a ritenere che

l‘armonia del mondo non risieda nella conciliazione dei

contrari, ma nel mantenimento del conflitto. La vita è lotta

ed opposizione e la sua armonia risiede proprio in questo

fatto, senza di cui non ci sarebbe l‘essere. Questa visione

cosmologica sfocia nell‘identificazione panteistica del

Tutto con Dio, inteso come Unità di tutti i contrari. In un

celebre frammento Eraclito scrive: ―la divinità è giorno-

notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame‖. Questo

Dio-Tutto, che comprende in sé ogni cosa, costituisce una

realtà increata che esiste da sempre e per sempre.

La scuola di Elea

L‘Eleatismo, che fiorisce nelle colonie greche dell‘Italia

meridionale, pretende dì giungere ad un Essere unico,

eterno e immutabile, di fronte a cui il nostro mondo è solo

apparenza ingannatrice. Gli Eleati sostengono infatti che le

cose non sono come i sensi e l‘esperienza le manifestano,

ma come la ragione le pensa secondo una logica rigorosa.

Tradizionalmente, l‘iniziatore dell‘Eleatismo è ritenuto

Senofane di Colofone. Il punto di partenza di Senofane è

una critica risoluta dell‘antropomorfismo religioso, qual è

proprio delle credenze comuni dei Greci e quale si ritrova

anche in Omero ed Esiodo. Gli uomini credono che gli dèi

hanno avuto nascita e hanno voce e corpo simile al loro.

Perciò gli Etiopi fanno i loro dèi camusi e neri, i Traci

dicono che hanno occhi azzurri e capelli rossi; e anche i

buoi, i cavalli e i leoni, se potessero, immaginerebbero la

divinità a loro somiglianza. In realtà, c‘è una sola divinità

che non somiglia agli uomini né per il corpo né per il

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pensiero. Quest‘unica divinità si identifica con l‘universo,

è un dio-tutto, e ha l‘attributo dell‘eternità: non nasce e

non muore, poiché se nascesse, ciò significherebbe che

prima non era; ma ciò che non è, neppure può nascere.

Parmenide

Il fondatore della scuola eleatica è Parmenide di Elea,

colonia greca situata sul costa della Campania a sud di

Paestum. Visse in un periodo di tempo compreso fra 550 e

il 450. Espose il suo pensiero in un‘opera in versi che fu

poi titolata Intorno alla natura. Il poema può essere diviso

in quattro parti. La prima consiste in un proemio nel quale

il filosofo descrive un suo viaggio all‘interno del territorio

della città di Elea, che si svolge su di un carro trainato da

cavalle e si conclude con l‘incontro con una dea. Nella

seconda parte la dea descrive quali sono i limiti e le

possibilità della conoscenza razionale e, in particolare,

distingue fra conoscenze sicuramente vere, sicuramente

false e solo probabili. Nella terza parte la dea descrive

dettagliatamente le conoscenze assolutamente vere e certe

cui può giungere la conoscenza razionale. Nella quarta

parte la dea descrive le conoscenze intorno ai singoli enti

della natura che la ragione deve considerare solamente

probabili, ma non sicuramente vere. Secondo Parmenide

di fronte all‘uomo si aprono sostanzialmente due vie: il

sentiero della verità, basato sulla ragione, che ci porta a

conoscere l‘Essere vero, e il sentiero dell‘opinione, basato

sui sensi, che ci porta a conoscere l‘Essere apparente.

Parmenide, fondandosi sui principi d‘identità e di non-

contraddizione, sostiene che la strada della ragione ci dice

una cosa: l‘essere è e non può non essere, mentre il non

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essere non è e non può essere. Con questa tesi Parmenide

intende affermare che solo l‘essere esiste, mentre il non

essere, per definizione, non esiste e non può venir pensato.

Il non essere risulta impensabile ed inesprimibile: è

necessario il dire e il pensare che l‘essere sia: l‘essere è; il

nulla non è; la stessa cosa è pensare ed essere. Da questa

premessa, mediante una logica rigorosa, Parmenide ricava

una serie di attributi basilari che, a suo parere,

caratterizzano l‘essere autentico. Partendo dal presupposto

che bisogna rifiutare tutto ciò che comporta il non essere.

Parmenide sostiene che l‘essere è ingenerato e imperituro,

perché se nascesse e perisse implicherebbe in qualche

modo il non-essere (in quanto nascendo verrebbe nulla e

morendo si dissolverebbe nel nulla). Di conseguenza,

l‘essere è eterno, poiché fosse nel tempo implicherebbe il

non essere del passato (che è ciò che non è più) non essere

del futuro (che è ciò che non è ancora). L‘essere vero è

immutabile ed immobile, perché se muta si muovesse

implicherebbe di nuovo il non-essere, in quanto si

troverebbe in una serie di stati in cui prima non era.

L‘essere è unico ed omogeneo, perché se fosse molteplice

o in sé differenziato implicherebbe degli intervalli di non-

essere. Infine, l‘essere è finito, poiché, secondo la

mentalità greca di Parmenide, la finitudine è sinonimo di

perfezione.

Il mondo dell‘apparenza e dell‘opinione

Come deve essere inteso il mondo in cui viviamo, cioè

quella zona della realtà che i sensi ci testimoniano e che

presenta degli attributi diametralmente opposti a quelli

dell‘essere vero, essendo molteplice, generato, perituro,

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temporale, mutevole? Parmenide, conseguentemente

rispetto alle premesse del suo pensiero, risponde che esso,

in quanto implica il non essere, risulta pura apparenza o

illusione. Nella seconda parte del suo poema, dedicata

all‘opinione, come la prima era dedicata alla verità,

Parmenide si proponeva di fornire una teoria verosimile

del mondo dell‘esperienza e dell‘apparenza.

Zenone di Elea

Fu scolaro di Parmenide. Gli avversari di Parmenide

affermavano che, se la realtà è una, come Parmenide

ritiene, ci si trova imbrogliati in molte e ridicole

contraddizioni. Zenone risponde che se si ammette che la

realtà è molteplice e mutevole, si incontrano

contraddizioni anche maggiori. Zenone perciò vuole

ridurre all‘assurdo le dottrine che ammettono la

molteplicità e il mutamento e così confermare

indirettamente le tesi di Parmenide. Il metodo di cui

Zenone si serve è quello della dialettica: la quale consiste

nell‘ammettere in via d‘ipotesi l‘affermazione

dell‘avversario per ricavarne conseguenze che la

confutano. Tale è il procedimento di Zenone che ammette

ipoteticamente la molteplicità e il mutamento per

dimostrarne l‘assurdità.

Gli argomenti contro la pluralità

Alcuni degli argomenti di Zenone sono contro la pluralità

delle cose, altri contro il movimento. Uno degli argomenti

contro la pluralità è il seguente. Se le cose sono molte, il

loro numero è, contemporaneamente, finito e infinito:

finito, perché esse non possono essere né più né meno di

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quante sono; infinito, perché tra due cose ce ne sarà

sempre una terza e tra questa e le altre due ce ne saranno

altre ancora; e così via all‘infinito. Ammettere dunque che

le cose sono molte significa chiudersi in una

contraddizione.

Gli argomenti contro la realtà del movimento

Il primo è quello cosiddetto dello stadio. Non si può

arrivare all‘estremità dello stadio, giacché bisognerebbe

arrivare prima alla metà di esso e prima ancora alla metà

di questa metà e così via all‘infinito. Ma non è possibile

percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio. Il

secondo argomento è quello dell‘Achille. Se una tartaruga

ha un passo di vantaggio, non sarà mai raggiunta dal pié

veloce Achille. Difatti, prima di raggiungerla, dovrà

raggiungere la posizione occupata precedentemente dalla

tartaruga, che si sarà spostata di un intervallo, sia pure

piccolissimo, di spazio; così la distanza tra Achille e la

tartaruga non si ridurrà mai a zero. Il terzo argomento è

quello della freccia. La freccia che appare in movimento è

in immobile: difatti essa occuperà ad ogni istante soltanto

uno spazio determinato, rari alla sua lunghezza; e poiché il

tempo in cui essa si muove è fatto di molteplici istanti, per

ognuno di questi istanti, e per tutti, la freccia sarà

immobile. Il quarto argomento, più complesso, è quello

delle masse nello stadio. Esso afferma che in uno stadio un

punto mobile va ad una certa velocità, e simultaneamente

al doppio di essa, a seconda che sia rapportato ad un punto

immobile oppure ad un punto che si muove in senso

contrario alla stessa velocità, generando in tal modo

l‘assurdo logico che la metà del tempo è uguale al doppio.

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I fisici pluralisti

I filosofi tornano ad interessarsi del problema della natura.

Tuttavia, anche per essi, Parmenide non è passato invano.

Anzi la loro filosofia rappresenta un primo tentativo di

sintesi fra l‘Eraclitismo e l‘Eleatismo. Da Eraclito e dalla

scuola ionica essi accettano l‘idea del divenire incessante

delle cose. Da Parmenide accolgono invece il concetto

dell‘eternità ed immutabilità dell‘essere. Ma come

conciliare le opposte affermazioni del divenire delle cose e

dell‘eternità ed immutabilità di fondo della natura? Questi

filosofi risolvono genialmente il problema distinguendo tra

composti (mutevoli) ed elementi (immutabili). Essi

ritengono, infatti, che le cose del mondo siano costituite di

elementi eterni, ad esempio gli atomi, che unendosi tra di

loro danno origine a ciò che noi chiamiamo nascita e

disunendosi provocano ciò che noi chiamiamo morte. In

tal modo essi finiscono per giungere al principio secondo

cui, in natura, nulla si crea e nulla si distrugge veramente,

ma tutto si trasforma soltanto. Tali filosofi vengono anche

detti fisici pluralisti, in quanto ritengono che i principi

della natura siano molteplici (ad esempio le radici di

Empedocle, i semi di Anassagora e gli atomi di

Democrito).

Empedocle

Empedocle di Agrigento nacque verso il 492. Di lui ci

sono rimasti frammenti più abbondanti che di qualsiasi

altro filosofo presocratico, appartenenti a due poemi, Sulla

natura e Purificazioni: il primo è di carattere cosmologico,

il secondo è di carattere teologico. Come Parmenide,

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Empedocle ritiene che l‘essere non possa nascere né

perire; ma a differenza di Parmenide vuole spiegare

l‘apparenza della nascita e della morte e la spiega

ricorrendo al combinarsi e dividersi degli elementi che

compongono la cosa. La nascita e la morte consistono nel

mescolarsi e nel dissolversi di alcuni elementi originari,

sempre uguali a se stessi, indistruttibili, immutabili ed

eterni. Questi elementi, che Empedocle chiama radici di

tutte le cose, sono quattro: acqua, aria, terra e fuoco.

Empedocle recupera in tal modo la fisica degli Ionici, ma

attribuisce alle radici i caratteri dell‘essere parmenideo,

che viene diviso in più entità originarie. Tutte le cose sono

quindi dei composti in cui sono sempre presenti tutti e

quattro gli elementi, ma in differente misura. Mescolanza

e dissoluzione presuppongono il movimento. Il

movimento è dato da due forze cosmiche opposte, una di

attrazione e l‘altra di repulsione: Philìa (Amore, Amicizia)

e Néikos (Contesa, Odio). C‘è una fase in cui l‘Amore

domina completamente ed è lo Sfero nel quale tutti gli

elementi sono unificati e legati nella più completa

armonia. Ma in questa fase non c‘è né il sole né la terra né

il mare, perché non c‘è altro che un Tutto uniforme, una

divinità che gode della sua solitudine. L‘azione della

Contesa rompe questa uniti e comincia ad introdurre la

separazione degli elementi. Ma ad un certo punto, essa

determina la formazione delle cose quali sono nel nostro

mondo, il quale è il prodotto dell‘azione combinata delle

due forze e sta a metà strada tra il regno dell‘Amore e

quello dell‘Odio. Continuando l‘Odio ad agire, le cose

stesse si dissolvono e si ha il regno del caos: il puro

dominio dell‘Odio. Ma, allora, spetta di nuovo all‘Amore

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il ricominciare la riunificazione degli elementi: a metà

strada si avrà di nuovo il mondo attuale, mescolato d‘odio

e d‘amore e finalmente si ritornerà allo Sfero, dal quale

ricomincerà un nuovo ciclo.

Anassagora

Anassagora ammette il principio di Parmenide che nulla

nasce e nulla perisce; ma l‘interpreta nel senso che nascere

significa riunirsi e perire significa separarsi. Gli elementi

che si separano e si uniscono sono i ―semi‖, particelle

piccolissime e invisibili di materia. Queste particelle sono

di qualità diverse: ci sono semi di oro, di pietra, di carne,

di ossa ecc. Esse sono chiamate semi perché, come dal

seme si genera la pianta, così da quelle particelle si

generano tutte le cose corporee. Da Aristotele furono dette

omeomerie, cioè parti simili, perché hanno gli stessi

caratteri del tutto che entrano a costituire. Dai semi

Anassagora distingue la forza che li fa muovere e li

ordina. Questa forza è una intelligenza divina (Nous) che

unisce i semi originariamente confusi e determina così

l‘ordine nel mondo. L‘intelligenza, secondo Anassagora,

ha prodotto, nel caos primordiale dei semi, un movimento

turbinoso che per la sua rapidità ha fatto dividere le

sostanze secondo l‘opposizione del caldo e del freddo,

della luce e dell‘oscurità. Lo stesso movimento turbinoso

ha fatto staccare, dalla terra, masse che si sono infiammate

e, divenute così luminose, hanno formato gli astri e lo

stesso sole. Gli animali e l‘uomo si sono formati dai semi

provenienti dall‘aria, la quale, come tutte le altre cose,

comprende tutti i semi possibili. Platone e Aristotele

notarono come Anassagora, nelle sue spiegazioni, ricorra

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il meno possibile al principio intelligente e solo quando gli

difetta la spiegazione naturalistica. Va sottolineato

comunque come in Anassagora sia apparsa per la prima

volta la teoria di una Mente ordinatrice e di

un‘Intelligenza che sta alla base del mondo.

Democrito e l‘atomismo

Democrito, cronologicamente parlando, è un post-

socratico, in quanto risulta contemporanèo non solo di

Socrate, ma anche dei suoi primi discepoli, come Platone.

Fondatore dell‘atomismo fu Leucippo di Mileto, che

sembra abbia scritto una grande cosmologia. In assenza di

informazioni precise, il suo pensiero non viene distinto da

quello del discepolo Democrito, il quale nacque ad Abdera

probabilmente intorno al 460-459 a.C.

La distinzione eleatica fra apparenza e realtà rivive in tutta

la sua forza anche nell‘atomismo. Democrito, sulla scia di

Parmenide, e in parte di Eraclito, ritiene che l‘occhio del

filosofo, spingendosi oltre la mutevole e variopinta scena

del mondo, debba cercare di raggiungere la realtà

autentica delle cose, conscio che la verità dimora nel

profondo. Come già in Parmenide, questa convinzione si

traduce in un‘antitesi fra la conoscenza sensibile, detta

oscura, e la conoscenza razionale detta genuina. Infatti,

mentre i sensi si limitano a vagare alla superficie delle

cose, la conoscenza intellettuale riesce a cogliere l‘essere

vero del mondo: gli atomi, il vuoto e il loro movimento.

Gli atomisti identificano l‘essere con il pieno e il non-

essere con il vuoto. Il pieno è la materia, il vuoto è lo

spazio in cui essa si muove, la materia è a sua volta

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costituita da un insieme di atomi, cioè di particelle

indecomponibili (secondo l‘etimologia stessa di a-torno,

che in greco significa non-divisibile). Tale concetto è il

frutto di una deduzione razionale, che discende da una

riflessione sulla problematica della divisibilità all‘infinito

sollevata da Zenone. Contro quest‘ultimo, gli atomisti

affermano che la divisibilità vale solo in campo logico, ma

non in quello reale, in quanto non è assolutamente

possibile pensare di dividere all‘infinito la realtà materiale,

perché altrimenti a furia di dividere la materia, la realtà si

dissolverebbe nel nulla e quindi dalla materia si

passerebbe alla non-materia, Ma se al fondo della natura vi

fosse il nulla, non si capirebbe come da tale niente possa

derivare la realtà concreta e materiale dei corpi,

esattamente come dalla somma di tanti zeri possa derivare

un numero qualsiasi. Di conseguenza, secondo Democrito,

se si vuole spiegare razionalmente ciò che appare, si è

obbligati ad ammettere che esistano delle particelle

minime della materia, non ulteriormente divisibili.

Le proprietà degli atomi

Democrito assegna agli atomi gli attributi dell‘essere di

Parmenide: sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni.

Tra di loro non vi sono differenze qualitative, perché son

fatti tutti della medesima stoffa materiale. Essi si

distinguono solo per le note quantitative della forma

geometrica e della grandezza. Gli atomi determinano la

nascita e la morte delle cose con la reciproca unione e

separazione. Essi sono, atomi secondo il paragone di

Aristotele, simili alle lettere dell‘alfabeto, che differiscono

tra loro per la forma e danno luogo a parole e a discorsi

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diversi disponendosi e combinandosi diversamente. Tutte

le qualità dei corpi dipendono o dalla figura degli atomi o

dall‘ordine e dalla combinazione di essi. Gli atomi sono

immersi in uno spazio vuoto, che viene anch‘esso dedotto

per via razionale. Infatti, se c‘è il movimento, sostiene

Democrito, ci deve per forza essere il vuoto. Poiché gli

atomi sono infiniti ed infinite sono le loro possibilità di

combinazione, Democrito ritiene che vi siano infiniti

mondi che perpetuamente nascono e muoiono. Esisteranno

mondi senz‘acqua, e quindi privi di esseri viventi oppure

mondi con più soli e con più lune, ma anche mondi

analoghi al nostro.

Il materialismo e il meccanicismo

La filosofia atomistica si presenta così come una compiuta

concezione materialistica e meccanicistica. Materialistica,

perché l‘essere si risolve integralmente negli atomi ossia

in entità materiali; meccanicistica, perché nell‘universo

non è rinvenibile nessun fine, nessuna disegno intelligente,

ma tutto viene spiegato col semplice movimento degli

atomi. In questo senso Dante dirà che «Democrito il

mondo a caso pone». Tuttavia, che il mondo non sia il

prodotto di una Intelligenza divina non significa affatto

che esso non sia governato da leggi necessarie, al

contrario: il cosmo rimane un meccanismo ordinato, in cui

ogni evento è il prodotto di una ferrea catena di cause e

tutto ciò che accade è rigidamente determinato.

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CAPITOLO 3

La sofistica e Socrate

I sofisti

Anticamente il termine sophistés (= sapiente) alludeva ad

un uomo esperto, conoscitore di tecniche particolari e di

una vasta cultura generale. Con questo nome si indicavano

ad esempio i Sette Savi, Pitagora e quanti altri si

segnalassero per una qualsiasi attività teorica o pratica.

Sono detti specificamente ―sofisti‖ quei sapienti di

professione che si spostavano di città in città nel V e IV

secolo per tenere lezioni soprattutto di retorica, di

grammatica e teoria del linguaggio, di diritto, di politica e

di morale. Tant‘è vero che Senofonte, ad esempio, bollò i

sofisti come prostituti della cultura. E Platone e Aristotele

li giudicarono infatti falsi sapienti, interessati al successo e

ai soldi più che alla verità. Oggi l‘aggettivo ―sofistico‖ ha

perso il significato filosofico originario e, nel linguaggio

comune, è sinonimo di ―artificioso‖. La critica

contemporanea tende ad una rivalutazione globale della

sofistica e della sua importanza storica e filosofica.

L‘ambiente storico-politico

I sofisti hanno operato una vera e propria ―rivoluzione

filosofica‖, spostando l‘asse della speculazione dalla

natura all‘uomo. Invece di ricercare il ―principio‖ del

cosmo, i sofisti si concentrano sulla politica, le leggi, la

religione, la lingua, l‘educazione, ecc., divenendo in tal

modo filosofi dell‘uomo e della città. Storicamente i dati

più importanti di questo periodo sono la crisi

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dell‘aristocrazia, l‘accresciuta potenza della borghesia

cittadina, l‘allargarsi dei traffici e dei commerci, il

raffinarsi delle tecniche e l‘avvento della democrazia.

Tutto ciò comporta l‘affermarsi di nuovi parametri di

giudizio e un‘accresciuta consapevolezza, da parte

dell‘uomo greco, delle sue prerogative.

Democrazia e insegnamento sofistico

La democrazia è lo spazio operativo entro cui si è mossa

storicamente la corrente dei Sofisti. Infatti, vivere

attivamente in democrazia significa partecipare ad

assemblee, prendervi la parola, far valere con efficace

discorso la propria opinione. A questa necessità vengono

incontro i Sofisti, i quali si ritengono sapienti proprio nel

senso antico del termine: cioè nel senso di rendere gli

uomini abili nelle loro faccende, adatti a vivere insieme,

capaci di avere la meglio nelle competizioni civili.

Sapienza che essi si propongono di insegnare, dietro

pagamento, al ceto dirigente. Per questo motivo, la loro

lezione si limitava a discipline formali, quali la retorica o

la grammatica, oppure a nozioni varie e brillanti quali

potevano essere utili alla carriera di un avvocato o di un

uomo politico.

Caratteristiche della Sofistica

La Sofistica è stata definita come una sorta di Illuminismo

greco. Illuminismo è il movimento culturale che si è

verificato in Europa nel XVIII secolo, avendo come sua

insegna l‘uso libero della ragione in tutti i campi. Un

carattere analogo presenta la Sofistica e la cultura ateniese

dell‘epoca. I miti e le credenze della tradizione vengono

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esplicitamente criticati e sostituiti con nozioni razionali o

che almeno si credono tali. I sofisti, per primi, hanno

elaborato il concetto occidentale di cultura (paidéia),

intesa come la formazione globale di un individuo

nell‘ambito di un popolo o di un contesto sociale. Con essi

il problema educativo balza infatti in primo piano, poiché

si ritiene che la virtù non dipenda dai natali, ma dal sapere,

il quale è insegnabile. Infine, i sofisti si fecero portatori di

istanze panelleniche e cosmopolitiche, che contribuirono

ad un allargamento della mentalità greca ed antica in

genere, per lo più particolaristica e nazionalistica.

Protagora

Il primo e più importante esponente della Sofistica fu

Protagora, che nacque ad Abdera intorno al 490 a.C. Fra le

opere di sicura attribuzione ricordiamo Ragionamenti

demolitori e Le Antilogie.

La dottrina dell‘uomo-misura

La tesi fondamentale di Protagora è espressa dalla

formula: ―L‘uomo è misura di tutte le cose, delle cose che

sono in quanto sono, delle cose che non sono quanto non

sono‖. Alla lettera, questa espressione vuol dire che

l‘uomo è il metro, cioè il soggetto di giudizio, della realtà

o irrealtà delle cose e del loro modo d‘essere e significato.

Sul preciso senso filosofico della tesi esistono però varie

interpretazioni, a seconda del valore che si attribuisce alle

nozioni di uomo e di cose. Una prima interpretazione,

intende per uomo l‘individuo singolo e per cose gli oggetti

percepiti attraverso i sensi. In altre parole, la tesi di

Protagora alluderebbe al fatto che le cose appaiono

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diversamente a seconda degli individui e dei loro stati

fisici e psichici, per cui tante teste e tante situazioni, tante

misure: ad esempio un cibo appare dolce o amaro a

seconda delle persone. Una seconda interpretazione

attribuisce alla parola uomo un significato universale

(―umanità, natura umana‖) e alla parola ‗cose il significato

più vasto di ―realtà in generale‖. Da questo punto di vista,

la tesi di Protagora vorrebbe dire che gli individui

giudicano la realtà tramite parametri comuni tipici della

specie razionale cui appartengono, cioè dell‘umanità. Per

una terza interpretazione l‘uomo sarebbe invece la

comunità o civiltà cui l‘individuo appartiene e le cose

sarebbero soprattutto i valori o gli ideali che ne stanno alla

base. In altre parole, Protagora intenderebbe dire che

ognuno valuta le cose secondo la ―mentalità‖ del gruppo

sociale cui appartiene. La posizione di Protagora è una

forma di umanismo (in quanto ciò che si afferma o si nega

intorno alla realtà presuppone sempre l‘uomo come

criterio di valutazione), di fenomenismo (in quanto noi

non abbiamo mai a che fare con la realtà in se stessa, ma

con il ―fenomeno‖, ossia con la realtà quale ―appare‖ a

noi), di relativismo conoscitivo e morale (in quanto non

esiste una verità ―assoluta‖, ma ogni verità, ideale o

modello di comportamento, è ―relativa‖ a chi giudica

nell‘ambito di una certa situazione).

Il relativismo culturale

Uno scritto anonimo, Ragionamenti doppi che si propone

di dimostrare che le stesse cose possono essere buone o

cattive, belle o brutte, giuste o ingiuste, viene presentato

dal suo autore come summa dell‘insegnamento sofistico.

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Ad esempio la morte per chi muore è un male, ma per

gl‘impresari di pompe funebri e per i becchini è un bene.

Che l‘agricoltura dia abbondante raccolto, è un bene per

gli agricoltori, ma per i commercianti è male ecc. La

seconda parte dello scritto è particolarmente interessante

perché contiene l‘esposizione di quello che oggi si chiama

il relativismo culturale, ossia della disparità dei valori che

presiedono alle diverse civiltà umane. Ecco alcuni esempi:

Presso i Macedoni si ritiene bello che le fanciulle prima di

sposarsi amino e si congiungano con un uomo. e dopo le

nozze, brutto; presso i Greci, è brutta l‘una e l‘altra cosa.

Considerazioni di questo genere non sono isolate nel

mondo greco e ricorrono frequentemente nell‘ambiente

sofistico. Ippia negava che la proibizione dell‘incesto

fosse legge naturale dal momento che presso alcuni popoli

è trasgredita. L‘opposizione tra natura e legge, propria di

Ippia e di altri Sofisti, era una conseguenza della

concezione relativistica che i Sofisti avevano dei valori

che presiedono alle diverse civiltà umane.

L‘utile come criterio di scelta

Questo relativismo conoscitivo e morale poteva condurre

alla tesi della equivalenza ideale delle opinioni, cioè alla

dottrina secondo cui, in teoria, tutto è vero‘ (come sembra

dicesse Protagora). Ma Protagora credeva, nonostante

tutto, in un principio di scelta. In quanto principio di

scelta, l‘utile — inteso come il bene del singolo e della

comunità — diviene, per Protagora, lo strumento di

verifica delle teorie stesse. In tal modo, alla concezione

oggettivistica ed assolutistica della verità (= il vero è

qualcosa di già dato e scoperto una volta per sempre, che

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si impone a tutti allo stesso modo), Protagora sostituisce

una concezione umanistico-storicistica di essa (= la verità

è l‘umanamente verificato come giovevole, ossia ciò che

si è dimostrato storicamente e socialmente utile

all‘individuo, alla comunità e alla specie).

Gorgia

L‘altra grande figura della Sofistica, Gorgia di Lentini,

presenta una dottrina più negativa circa le possibilità

conoscitive e pratiche dell‘uomo. Tra le sue opere

ricordiamo Sul non essere o sulla natura e l’Encomio di

Elena. Nel primo scritto egli stabilisce le sue tre tesi

fondamentali: 1. Nulla c‘è. 2. Se anche qualcosa c‘è, non è

conoscibile dall‘uomo. 3. Se anche è conoscibile, è

incomunicabile agli altri.

Questo scritto è stato tradizionalmente interpretato alla

stregua di un radicale nichilismo filosofico. Oggi è

possibile considerarlo diversamente. Innanzitutto, quando

Gorgia sostiene che ―nulla esiste‖ egli non intende far

sparire la realtà testimoniata dai nostri sensi, ma la

possibilità di una sua concettualizzazione filosofica. In

altri termini, più che il mondo concreto che ci sta dinanzi,

Gorgia, con il suo paradosso, intende probabilmente

negare la pensabilità logica ed ontologica dell‘essere in

generale e, in particolare, di quella struttura metafisica (la

Natura, il Principio) di cui i vari pensatori erano andati

alla ricerca. Gorgia intende appunto chiarire (la tesi) che

tale struttura non risulta filosoficamente asseribile, a meno

di cadere nei sopraelencati non-sensi concettuali; oppure

che se anche esistesse, noi non la potremmo conoscere, in

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quanto, per conoscerla, dovremmo presupporre che la

nostra mente sia una fotografia esatta della realtà. Ma ciò

non accade. Infatti, se pensiamo spesso l‘inesistente, vuol

dire che il pensiero non rispecchia necessariamente la

realtà o che la realtà non si rispecchia necessariamente nel

pensiero. In tal modo, Gorgia colpisce al cuore

l‘equazione eleatica pensiero-essere, introducendo una

frattura radicale fra la mente e le cose. Analogamente, la

terza tesi sostiene che se anche la realtà fosse conoscibile

non sarebbe spiegabile con parole, poiché il linguaggio è

altra cosa dalla realtà e non possiede un‘adeguata capacità

rivelativa. Queste tesi di Gorgia acquistano ulteriore

densità speculativa se riferite a quella Realtà assoluta che

va sotto il nome di Dio. Infatti, un‘entità del genere, o Non

c‘è (1a tesi), o è Inconoscibile (2a tesi), o è Inesprimibile

(3a tesi). Il risultato conclusi‘vo della sua dottrina è

dunque la distruzione di ogni possibile metafisica,

cosmologia o teologia e la sfiducia completa nelle

possibilità conoscitive della nostra mente, soprattutto

quando, andando oltre l‘esperienza, pretende di accedere a

qualche Assoluto metafisico. In tal modo con Gorgia

troviamo la prima, esasperata messa in discussione

occidentale della metafisica e l‘anticipazione di schemi di

pensiero che vanno dagli empiristi a Kant e a gran parte

del pensiero contemporaneo. Ora, se nulla è vero, cioè

dimostrabile come tale, vuoi dire, per Gorgia, che ―tutto è

falso. Mentre in Protagora abbiamo ancora un criterio di

verità, ossia l‘utile, in Gorgia non troviamo più nessun

criterio. L‘unica cosa che conta — in assenza di ogni

verità— è la potenza del Linguaggio, inteso come forza

che permette il dominio degli stati d‘animo, in quanto

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―riesce a calmare la paura e ad eliminare il dolore, a

suscitare la gioia e ad aumentare la pietà‖. Da ciò

l‘importanza attribuita da Gorgia alla retorica.

Un altro aspetto importante del pensiero gorgiano, che la

critica contemporanea ha debitamente messo in luce, è la

concezione tragica del reale. Di fronte al sostanziale

razionalismo e ottimismo dei filosofi precedenti che

vedono la vita e l‘essere come una vicenda dominata dal

logos, cioè dalla ragione, Gorgia sembra ritenere che

l‘esistenza sia qualcosa di fondamentalmente irrazionale e

misterioso. Per Gorgia le azioni degli uomini non sono

rette dalla logica e dalla verità, ma dalle circostanze, dalla

menzogna, dalle passioni.

Socrate (470/399)

Socrate rinunciò a scrivere e il fatto che Socrate non abbia

scritto nulla genera tuttavia delle grosse difficoltà per la

ricostruzione del suo pensiero. Infatti le testimonianze

indirette che possediamo sono parecchie e non sempre

coerenti fra di loro. Le fonti principali sono quelle di

Aristofane, Policrate, Senofonte, i socratici minori,

Platone e Aristotele. La testimonianza di Aristofane,

l‘unica che risale a Socrate ancora vivente. è contenuta

nella commedia Le Nuvole. In essa Aristofane, concentra

in Socrate il tipo dell‘intellettuale, accomunandolo ai

naturalisti e ai Sofisti e presentandolo come un

chiacchierone perdigiorno con la testa fra le nuvole. Nella

Accusa contro Socrate del 393, poco tempo dopo la sua

morte, Policrate taccia il filosofo di aver disprezzato le

procedure della democrazia e di essere stato il cattivo

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demone di certi aristocratici ateniesi più oltranzisti.

Senofonte, che scrive le sue opere molto tempo dopo la

morte del filosofo, ci presenta un Socrate per lo più

moralista e predicatore. Platone nei suoi dialoghi, ci offre

invece la più suggestiva ed amorosa presentazione del

maestro, da cui è scaturita l‘immagine ―tradizionale di

Socrate. Aristotele schematizza Socrate come ―lo

scopritore del concetto.

La posizione storica di Socrate

Socrate è legato alla Sofistica da una rete complessa di

rapporti, che sono fondamentalmente i seguenti: 1)

l‘attenzione per l‘uomo e il disinteresse per le indagini

sulla natura; 2) la mentalità razionalistica,

anticonformistica ed antitradizionalistica, portata a mettere

tutto in discussione e a non accettare nulla se non

attraverso il vaglio critico e la discussione; 3) la tendenza

alla dialettica e al paradosso. Ciò che lo allontana dai

Sofisti è invece: 1) il rifiuto di ridurre la filosofia a

retorica; 2) il tentativo di andare oltre lo sterile relativismo

conoscitivo e morale in cui si era avviluppata la sofistica.

La filosofia come ricerca sull‘uomo

Sembra quasi certo che Socrate, in un primo periodo della

sua vita, abbia seguito con interesse le ricerche degli

ultimi naturalisti, in particolare di quelli della scuola di

Anassagora. Tuttavia, deluso da tali indagini, si convinse

ben presto, anche sotto evidenti suggestioni sofistiche, che

alla mente umana sfuggono inevitabilmente i perché ultimi

delle cose e che ad essa non è dato di conoscere con

certezza l‘Essere e i principi del mondo. Perciò,

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abbandonati gli studi cosmologici, Socrate cominciò ad

intendere la filosofia come un‘indagine in cui l‘uomo, Per

questo, Socrate fece suo il motto dell‘oracolo delfico

Conosci te stesso, vedendo in esso la motivazione ultima

del filosofare e la missione stessa del filosofo. E poiché,

secondo Socrate, non sì è uomini se non fra uomini, in

quanto ciò che ci costituisce come tali è proprio il rapporto

con gli altri, la sua filosofia affronta e discute le questioni

relative alla propria umanità. E in questo colloquio

incessante, in questa ricerca senza fine, Socrate ha posto il

valore stesso dell‘esistenza, convinto, come si dice nella

platonica Apologia di Socrate, che una vita senza esame

non è degna di essere vissuta.

I momenti del dialogo socratico

Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo

filosofico è la coscienza della propria ignoranza. Quando

ebbe la risposta dell‘oracolo di Delfi, che lo proclamava il

più sapiente fra gli uomini, interpretò il responso divino

come se avesse voluto dire che sapiente è soltanto chi sa di

non- sapere. Sostenere che vero sapiente unicamente chi

sa di non sapere è anche un modo polemico per dire che

filosofo è soltanto colui che ha compreso che intorno alle

cause e alle strutture del Tutto non si può dire nulla con

sicurezza. Questa importante rilevazione non equivale

tuttavia ad una interpretazione di Socrate in chiave

scettica. Agnostico verso le questioni cosmologiche ed

ontologiche, Socrate non lo è altrettanto sui problemi

etico-esistenziali. per cui, se riferita all‘uomo, la formula

socratica assume il significato di una denuncia verso i

sofisti. Essa non esclude la possibilità di una ricerca

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sull‘uomo, ma la incoraggia, costituendosi come sua

condizione preliminare, poiché solo chi sa di non sapere

cerca di sapere, mentre chi si crede già in possesso della

verità non sente il bisogno interiore di cercarla.

L‘ironia

L‘ironia è il metodo usato da Socrate per svelare all‘uomo

la sua ignoranza e per gettarlo nel dubbio, impegnandolo

nella ricerca. Facendo ironicamente finta di non sapere,

Socrate chiede al suo interlocutore, per lo più illustre e

celebrato maestro di qualche arte, di renderlo edotto circa

il settore di cui egli è competente.

La maieutica

Socrate non vuole comunicare dall‘esterno una propria

dottrina, ma soltanto stimolare l‘ascoltatore a ricercarne

dall‘interno una sua propria. Da ciò la celebre maieutica o

arte di far partorire di cui parla Platone, dicendo che

Socrate aveva ereditato da sua madre la professione di

ostetrico. Come costei, essendo levatrice, aiutava le donne

a partorire i bambini, cosi Socrate, ostetrico di anime,

aiuta gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista

sulle cose.

Socrate e le definizioni

Nella struttura circolare del dialogo socratico, fatto di

domande, risposte la molla dell‘intero processo sta nella

domanda ―che cos‘è?‖, ossia la richiesta di una definizione

precisa di ciò di cui si sta parlando. Egli parlava sempre di

cose umane esaminando che cosa è santità, che cosa

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empietà, che cosa bellezza, che cosa turpitudine, che cosa

giustizia, che cosa ingiustizia, che cosa saggezza, che cosa

pazzia, che cosa Stato, che cosa politica, che cosa

governo, che cosa uomo di governo, e simile cose.

All‘interrogativo che ―cos‘è la virtù?‖ l‘interlocutore

risponde dì solito mediante un catalogo di casi virtuosi:

virtuoso è chi onora le leggi, virtuoso è chi rispetta i

genitori, ecc. Ma Socrate non si accontenta di questa

sterile elencazione, perché a lui non interessano esempi di

virtù, ma la definizione della virtù in se stessa. Ai lunghi

discorsi ammaliatori dei Sofisti (macrologie), Socrate

contrappone dunque i discorsi brevi (brachilogie), fatti di

battute corte e veloci, volte ad obbligare l‘avversario a

risposte precise. La domanda ―che cos‘è?‖ ha un duplice

scopo: uno negativo, mirato a escludere le risposte

acritiche; l‘altro positivo, teso a condurre l‘interlocutore

verso una definizione soddisfacente dell‘argomento

trattato.

La morale di Socrate

La tesi-chiave della morale di Socrate è la virtù come

ricerca e scienza. Per virtù (areté) i Greci intendevano, in

generale, il modo di essere ottimale di qualcosa (ad

esempio la virtù del ghepardo è la velocità). Socrate, che

in questo si colloca in scia dei Sofisti, sostiene, che la virtù

non è un dono gratuito, ma una faticosa conquista, in

quanto l‘esser-uomini è il frutto di un arte.

La virtù come scienza

Socrate ritiene che la virtù, intesa come arte del ben

comportarsi, è sempre una forma di sapere, ossia un fatto

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intellettuale. Dal punto di vista socratico, per essere

uomini nel modo migliore è indispensabile riflettere,

cercare e ragionare (razionalismo morale). Intesa come

sapere razionale, la virtù socratica, può essere insegnata e

comunicata a tutti e deve costituire un patrimonio di ogni

uomo. Infatti, secondo Socrate, non basta che ciascuno

sappia il proprio mestiere e sia esperto in una delle

tecniche particolari, ma bisogna che ciascuno impari bene

anche il mestiere di vivere, ossia la scienza del bene e del

male. Solo il virtuoso, che segue i dettami della ragione, è

felice, mentre il non-virtuoso, non ragionando a

sufficienza sulla vita, si abbandona ad istinti, che alla

lunga lo rendono infelice.

I paradossi dell‘etica socratica

Dalla teoria della virtù come scienza Socrate deriva i

paradossi secondo cui nessuno pecca volontariamente e

chi fa il male, lo fa per ignoranza del bene. Socrate vuol

dire che nessuno fa il male volontariamente in quanto

nessuno lo compie scientemente, ossia sapendo veramente

di farlo, poiché chi opera il male è semplicemente un

individuo che ignora quale sia il vero, bene. Infatti chi

agisce fa sempre ciò che per lui è bene. Di conseguenza,

se scambia ad esempio un vizio per un bene, ciò è dovuto

alla sua ignoranza, che non sa cogliere, al di là di

un‘apparenza momentanea di piacere, la futura realtà di

patimento. Un altro paradosso del socratismo, almeno nei

confronti della mentalità greca contemporanea, è la

massima secondo cui è meglio subire il male che

commetterlo.

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La religione di Socrate

Socrate, come appare dai Dialoghi platonici, considera il

filosofare come una missione e un compito che gli sono

stati affidati dalla divinità. Egli parla di un dèmone che lo

consiglia in tutti i momenti decisivi della vita, invitandolo

a non fare certe cose. Questo dèmone è stato letto come la

voce della coscienza, il comando morale che risuona nella

persona. Ma esso è probabilmente un concetto religioso,

non semplicemente morale. Certamente Socrate va oltre le

credenze religiose antropomorfiche dei Greci, che già

Senofane aveva criticato. Egli prestava agli dèi della

religione popolare un ossequio formale perché ciò

rientrava negli obblighi di cittadino. Dopo la condanna,

egli dichiara ai giudici di essere certo che per l‘uomo

onesto non vi è male né nella vita né nella morte e che la

sua causa è nelle mani degli dèi. La divinità è dunque la

custode del destino degli uomini, il presidio dei valori

morali. Questa fu senza dubbio l‘essenza della religiosità

di Socrate, una religiosità la quale non posa su credenze,

ma anima la sua ricerca filosofica.

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CAPITOLO 4

Platone

Della produzione platonica ci sono state tramandate

un'Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere; le opere

sono state ordinate convenzionalmente in nove tetralogie

dal grammatico Trasillo, vissuto al tempo dell'imperatore

Tiberio.

1. Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone.

2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico.

3. Parmenide, Filebo, Convito, Fedro.

4. Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti.

5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside.

6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone.

7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno.

8. Citofonte, Repubblica, Timeo, Crizia.

9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.

Platone tenne anche dei corsi intitolati Intorno al Bene che

non volle mettere per iscritto, lasciandoli alla sola

comunicazione orale. In queste cosiddette ―dottrine non

scritte‖ egli sviluppava una metafisica a sfondo pitagorico

fondata sui concetti di Uno e di Diade.

Rapporti con Socrate

La fedeltà all‘insegnamento e alla persona di Socrate è il

carattere dominante dell‘intera attività filosofica di

Platone. Certamente, non tutte le dottrine filosofiche di

Platone possono essere attribuite a Socrate. Ma la ricerca

platonica tende a configurarsi come uno sforzo di

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interpretazione della personalità filosofica di Socrate. La

stessa forma dell‘attività letteraria di Platone, il dialogo, è

un atto di fedeltà al silenzio letterario di Socrate. Per cui,

la stessa convinzione che ha trattenuto Socrate dallo

scrivere ha spinto Platone ad adottare e a mantenere la

forma dialogica nei suoi scritti. Il dialogo è il solo mezzo

per esprimere e comunicare agli altri la vita della ricerca

filosofica. Esso riproduce l‘andamento stesso della ricerca

che procede lentamente e faticosamente di tappa in tappa;

e soprattutto ne riproduce il carattere di socialità, per il

quale essa rende solidali gli sforzi degli individui che la

coltivano.

Mito e filosofia

Accanto alla forma dialogica, una delle caratteristiche

dell‘opera platonica è l‘uso dei miti, ossia di racconti

fantastici attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine

filosofiche. Il mito è uno strumento di cui si serve il

filosofo per comunicare in maniera intuitiva le proprie

dottrine, ma è anche un mezzo di cui si serve il filosofo

per poter parlare di realtà profonde e ultimative. Il mito è

qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca

filosofica, permettendole, di formulare una teoria

verosimile che, come tale, non è né una semplice favola né

un‘argomentazione pienamente dimostrativa, bensì

qualcosa che pur essendo indimostrabile si può

ragionevolmente ritenere vero.

Primo periodo: la difesa di Socrate e la polemica contro i

Sofisti

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La prima parte dell‘attività filosofica di Platone è

finalizzata all‘illustrazione e alla difesa dell‘insegnamento

di Socrate e alla polemica contro i Sofisti. L‘Apologia è

sostanzialmente l‘esaltazione della vita consacrata alla

ricerca filosofica. Socrate dichiara ai giudici che egli non

tralascerà mai il compito che gli è stato affidato dalla

divinità: l‘esame di se stesso e degli altri per rintracciare la

via del sapere e della virtù. Già nella presentazione che

Platone fa di Socrate nell‘Apologia è evidente che egli

vede incarnata nella figura del maestro quella filosofia

come ricerca alla quale egli stesso doveva dedicare l‘intera

esistenza. L‘accettazione serena che Socrate fa del destino

cui è condannato è l‘ultima prova della serietà del suo

insegnamento. Un numeroso gruppo di dialoghi spiega i

tre principali insegnamenti di Socrate: 1) la virtù è una

sola e si identifica con la scienza; 2) solo come scienza, la

virtù è insegnabile; 3) nella scienza consiste la felicità

dell‘uomo. Nel Protagora, Socrate critica il protagonista

che si dice maestro di virtù, mostrando che la virtù di cui

parla Protagora non è scienza, ma un semplice insieme di

abilità acquisite accidentalmente per esperienza. Nel

Gorgia Platone attacca l‘arte che era la principale

creazione. dei sofisti e la polemica contro base del loro

insegnamento, la retorica. La retorica voleva essere una

tecnica della persuasione alla quale riuscisse

completamente indifferente la tesi da difendere o

l‘argomento trattato. Al concetto di quest‘arte Platone

oppone che ogni arte o scienza riesce veramente

persuasiva solo intorno all‘oggetto che le è proprio. La

retorica non ha un oggetto proprio: consente di parlare di

tutto, ma non riesce a persuadere se non quelli che hanno

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una conoscenza inadeguata e sommaria delle cose di cui

tratta e cioè gli ignoranti. Essa non è dunque un‘arte ma

soltanto una pratica adulatoria.

Secondo periodo: la dottrina delle idee

Nei dialoghi del primo periodo, Platone ha per lo più

illustrato e difeso teorie che erano proprie di Socrate. Con

l‘elaborazione della teoria delle idee, il filosofo va

esplicitamente al di là delle dottrine che Socrate aveva

insegnato. La teoria delle idee nasce con

l‘approfondimento platonico del concetto di scienza

(epistéme, sophia). In antitesi ai Sofisti, ma procedendo

oltre lo stesso Socrate, Platone ritiene che la scienza abbia

i caratteri della stabilità e dell‘immutabilità, e quindi della

perfezione. Ma essendo convinto che il pensiero rifletta

l‘essere, ossia che la mente sia uno specchio o una

riproduzione di ciò che esiste (= realismo gnoseologico),

Platone si chiede quale sia l‘oggetto proprio della scienza.

Ovviamente, non possono costituire oggetto della scienza

le cose del mondo, apprese dai sensi, che sono mutevoli ed

imperfette, e quindi oggetto solo di quella corrispondente

forma di conoscenza mutevole ed imperfetta (opinione,

dòxa). Per Platone l‘idea indica un‘entità perfetta e

autonoma, esistente per proprio conto. Il fatto che le idee

presentino caratteristiche strutturali diverse dalle cose, non

esclude in loro stretto rapporto con gli oggetti. Per il

filosofo le cose sono infatti copie o imitazioni imperfette

delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esiste una

pluralità di cose più o meno belle o giuste, ma nel mondo

delle idee esiste la Bellezza e la Giustizia. L‘idea platonica

è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici

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e imperfette di questo mondo. In Platone esistono due

gradi di conoscenza, che sono l‘opinione e la scienza (=

dualismo gnoseologico), cui fanno riscontro due tipi

d‘essere distinti, che sono le cose e le idee (= dualismo

ontologico). Da quanto si è detto, emerge pure come la

filosofia platonica, la quale si pone alla confluenza di

diverse tradizioni filosofiche, rappresenti una sorta di

integrazione sintetica dell‘eraclitismo ed eleatismo. Da

Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro

mondo è il regno della mutevolezza, mentre da Parmenide

trae il concetto secondo cui l‘Essere autentico è

immutabile. L‘idea platonica presenta infatti taluni

caratteri essenziali dell‘Essere parmenideo: Platone nel

Fedro dice ad esempio che essa è ―semplice e imperitura‖.

I tipi di Idee

Nella maturità del pensiero platonico compaiono due tipi

fondamentali di idee: 1) le idee-valori, corrispondenti ai

supremi principi etici, estetici e politici. Tali sono, la

Bellezza, la Giustizia ecc., che formano appunto ciò che

denominiamo ideali o valori; 2) le idee-matematiche,

corrispondenti alle entità. dell‘aritmetica e della

geometria. Infatti, secondo Platone, vi sono idee anche del

pensiero matematico (ad esempio l‘uguaglianza; numeri, il

circolo ecc.), poiché nella realtà non troviamo mai

l‘uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il

matematico, ma solo copie approssimative ed imperfette di

essi. Insieme a questi due tipi di idee, Platone scrive

talvolta anche di idee di cose naturali (ad esempio

l‘Umanità) o di cose artificiali (ad esempio il letto). Solo

negli ultimi dialoghi Platone tenderà a lasciar cadere la

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precedente nozione matematico-etica di idea, a favore di

una nozione logico-ontologica propensa a far

corrispondere, ad ogni realtà, la sua specifica ―forma‖. In

tal modo, l‘idea platonica finirà per essere la forma di

qualsiasi gruppo o classe di cose che vengono designate

con un medesimo nome e che possono essere fatte oggetto

di scienza. Le idee non costituiscono affatto una pluralità

disorganizzata. Esse costituiscono infatti una trama di

essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, con le

idee-valori in cima e l‘idea del Bene al vertice. Tale idea è

stata talora assimilata a Dio. Nei testi risulta assente l‘idea

di un Dio creatore. Infatti, pur essendo al di là dell‘essere,

cioè delle idee, e pur superandole tutte per valore e

potenza‘, il Bene non crea le idee, che sono tutte eterne,

ma si limita a comunicare loro la perfezione. In linea

generale, possiamo dire sin d‘ora che nell‘universo

metafisico di Platone non esiste un Dio personale, ma

solamente il ―divino‖. Platone usa infatti il termine

impersonale ―divino‖ per designare una molteplicità di

cose diverse: divine sono le idee, divina è l‘idea del bene,

divina è l‘anima, divine sono le stelle e gli astri ecc.

Rapporti idee-cose

Le idee, sotto un punto di vista, sono i criteri di giudizio

delle cose, in quanto noi, per giudicare circa gli oggetti,

non possiamo fare a meno di riferirci ad esse. Ad esempio,

diciamo che due cose sono uguali sulla base dell‘idea di

Uguaglianza, oppure diciamo che due azioni sono giuste

sulla base dell‘idea di Giustizia e così via. In questo senso,

possiamo dire che le idee sono la condizione per la quale

gli oggetti possono essere pensati e causa delle cose,

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poiché gli individui sono in quanto imitano o partecipano,

delle essenze. Ad esempio, le realtà che diciamo belle

sono tali in quanto imitano o partecipano della Bellezza,

che rappresenta dunque la causa per cui esse vengono

ritenute belle. Tuttavia, il rapporto idee-cose non è stato

bene definito dal Platone della maturità, in quanto egli, pur

parlando di mimesi(= le cose imitano le idee), di metessi

(partecipazione delle idee), e di parousìa (= presenza delle

idee alle cose), è rimasto incerto sulla questione.

Come e dove esistono le idee

Le idee sono senz‘altro ―trascendenti‖, in quanto esistono

oltre la mente ed oltre le cose. La critica tradizionale,

prendendo alla lettera l‘espressione platonica di

iperuranio, ha considerato il mondo platonico delle idee

come qualcosa di analogo al Paradiso cristiano. A questa

lettura si è contrapposta quella di alcuni neokantiani del

nostro secolo, che hanno considerato le idee platoniche

non come delle cose, bensì come dei modelli di

classificazione delle cose, ossia come dei criteri mentali

con cui pensiamo gli oggetti. In conclusione, stando ai

Dialoghi ciò che si può affermare con un buon margine di

sicurezza è che le idee, comunque intese, costituiscono

una zona d‘essere diversa dalle cose.

La conoscenza

Secondo Platone le idee non possono derivare dai sensi,

poiché questi ci testimoniano solo un mondo di cose

materiali ed imperfette. Le idee sono esclusivamente

1‘oggetto di una visione mentale. Sulla base della

credenza orfica nella metempsicosi Platone spiega che noi

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abbiamo il concetto delle forme ideali perché la nostra

anima, prima di calarsi nel presente corpo, è vissuta,

disincarnata, nel mondo delle idee, dove, fra una vita e

l‘altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle

cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l‘anima

conserva un ricordo sopito di ciò che ha veduto. Grazie

all‘esperienza delle cose, che fungono da stimolo per la

memoria, l‘anima ricorda ciò che ha visto nell‘Iperuranio.

In questo senso, dice Platone, conoscere è ricordare, in

quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e

basta uno sforzo per tirarle fuori, tanto più che esse, come

le cose, sono legate fra loro da una sorta di parentela, per

cui basta rammentarcene una per farci tornare alla mente

tutte le altre. La gnoseologia di Platone rappresenta

dunque una forma di innatismo, in quanto ritiene che la

conoscenza non derivi dall‘esperienza sensibile bensì da

metri di giudizi preesistenti e connaturati con il nostro

intelletto. Una prova di questa teoria, secondo Platone,

risiede nel fatto che anche un ignorante, opportunamente

interrogato, può rispondere con esattezza intorno a cose di

cui non ha mai inteso discorrere. Celebre l‘esempio del

Menone, in cui troviamo il caso dello schiavo, che, pur

essendo a digiuno di geometria, viene aiutato da Socrate a

ricordare gli elementi di fondo di essa, riuscendo così a

intuire il teorema del quadrato doppio. La maieutica, che

in Socrate alludeva soltanto al fatto che la verità è una

conquista che viene nostra interiore, in Platone subisce

una evidente radicalizzazione metafisica, venendo a

coincidere con la teoria stessa della reminiscenza, cioè con

la tesi secondo cui portiamo dentro di noi una verità

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prenatale, che è il frutto di una precedente contemplazione

delle idee.

Reminiscenza, verità ed eristica

Agli occhi di Platone, la teoria della reminiscenza

rappresenta la definitiva vittoria sul principio sofistico

secondo cui non è possibile, all‘uomo, indagare né ciò che

sa, né ciò che non sa, giacché sarebbe inutile indagare ciò

che si sa e impossibile indagare ciò che non si sa. A questo

discorso il filosofo contrappone invece la tesi per cui

apprendere non significa partire da zero, bensì ricordare

ciò che si era obliato. L‘uomo non possiede già, tutt‘intera,

la verità (altrimenti non la cercherebbe) e neanche la

ignora completamente (perché in tal caso neppure

inizierebbe a cercare), ma la porta in sé a titolo di

―ricordo‖, ovvero sotto forma di un patrimonio che egli è

impegnato ad esplicitare all‘infinito.

L‘immortalità dell‘anima. Il mito d Er

La reminiscenza implica l‘immortalità dell‘anima, che

infatti diviene oggetto di uno dei dialoghi più ricchi di

―pathos‖ umano e religioso: il Fedone. A parte

l‘argomento appena esaminato della reminiscenza, in

quest‘opera Platone elenca altre prove dell‘immortalità

dell‘anima. Una prima, detta dei contrari, afferma che

come in natura ogni cosa si genera dal suo contrario (il

freddo dal caldo, il sonno dalla veglia ecc.), così la morte

si genera dalla vita e la vita si genera dalla morte, nel

senso che l‘anima rivive dopo la morte del corpo. Una

seconda, della somiglianza, sostiene che l‘anima, essendo

simile alle idee, che sono eterne, sarà anch‘essa tale. Una

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terza, della vitalità, argomenta che l‘anima, in quanto

soffio vitale, è vita e partecipa dell‘idea di vita, onde non

può accogliere in sé l‘opposta idea, l‘idea della morte.

Sempre nel Fedone troviamo la nota dottrina platonica

della filosofia come preparazione alla morte. Infatti, se

filosofare significa morire nei sensi, per poter cogliere

meglio le idee, la vita del filosofo risulta tutta una

preparazione alla morte, cioè al momento in cui l‘anima,

finalmente libera dai ceppi del corpo, potrà unirsi

direttamente alle idee, beandosi della loro totale

contemplazione. La teoria dell‘immortalità dell‘anima,

oltre che per spiegare perché l‘uomo possegga in se stesso

la conoscenza delle idee, serve anche, a Platone, per

chiarire il problema del destino. Platone ritiene infatti che

la nostra sorte attuale dipenda da una scelta

precedentemente compiuta nel mondo delle idee. Questa

tesi viene illustrata con il mito di Er, con cui si chiude la

Repubblica: Er, morto in battaglia e risuscitato dopo

dodici giorni, ha potuto raccontare agli uomini la sorte che

li attende dopo la morte. La parte centrale del suo racconto

è quella che riguarda la scelta del destino alla quale le

anime sono invitate nel momento della loro

reincarnazione. La parca Làchesi, che bandisce la scelta,

ne afferma la libertà: ―La virtù è libera a tutti: ognuno ne

parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia.

Ognuno è responsabile del proprio destino, la divinità non

ne è responsabile‖. Ogni anima sceglie quindi il modello

di vita che incarnerà prossimamente: tutto sta a compiere

una scelta giudiziosa e a non lasciarsi abbagliare

dall‘apparenza brillante di certe vite che celano il peccato

e l‘infelicità. Ma la scelta è guidata il più delle volte dalle

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esperienze che l‘anima ha raccolto nella sua vita anteriore.

Ulisse, che i lunghi travagli hanno spogliato di ogni

ambizione, sceglie la vita più modesta ed oscura, che era

stata trascurata da tutte le altre anime. Quindi nel

momento decisivo l‘uomo sceglie il suo destino sulla base

di quello che ha voluto essere ed è stato in vita.

Superamento del relativismo

Se la teoria delle idee costituisce il cuore della filosofia

platonica, l‘opposizione al relativismo sofistico costituisce

il cuore della dottrina delle idee. Per Platone il relativismo

sofistico tende ad identificarsi con una filosofia negatrice

di ogni stabile punto di vista sulle cose e di ogni certezza

teorica e pratica. La dottrina delle idee diviene lo

strumento che restaura una forma di assolutismo, perché

permette a Platone di sostenere l‘esistenza di forme ideali

che, esistendo per proprio conto e indipendentemente

dall‘arbitrio degli individui, hanno una validità oggettiva

ed universale. In tal modo, l‘umanismo sofistico e

socratico, che poneva nell‘uomo e non fuori dell‘uomo la

fonte dei giudizi e il criterio del conoscere e dell‘agire,

risulta messo da parte e sostituito da una concezione per

cui è di nuovo qualcosa di extraumano, le ―idee‖, a

regolare l‘uomo. Infatti, nel platonismo non è più l‘uomo a

misurare la verità, come voleva Protagora, ma è la verità

(= le idee) a misurare l‘uomo e a fornirgli le regole del

pensare e del vivere. Per cui la conoscenza torna ad avere

un valore assoluto e cessa di essere relativa all‘uomo e al

soggetto giudicante. Esempio tipico di ciò è, per Platone,

la matematica, che parla un linguaggio che vale per tutti e

in tutte le circostanze. Ma il superamento platonico del

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relativismo conoscitivo e morale rivela il suo significato

più importante nella politica. Con la dottrina delle idee

Platone volle offrire agli uomini uno strumento che

consentisse loro di uscire dal caos delle opinioni e che li

traesse fuori dalle lotte e dalle violenze in cui la

molteplicità dei punti di vista li aveva fatti inevitabilmente

cadere. L‘assolutismo della teoria delle idee rappresenta,

dunque, in Platone, il principale strumento contro il

relativismo politico e l‘anarchia sociale.

Secondo periodo: la dottrina dell‘amore e dell‘anima

Il sapere stabilisce tra l‘uomo e le idee un rapporto che

non è puramente intellettuale, perché impegna la totalità

dell‘uomo quindi anche la volontà. Questo rapporto è

definito da Platone come amore (eros). Il Convito

considera prevalentemente l‘oggetto dell‘amore, cioè la

bellezza, e mira a determinare di essa i gradi gerarchici. Il

Fedro considera invece prevalentemente l‘amore nella sua

oggettività, come aspirazione verso la bellezza ed

elevazione progressiva dell‘anima al mondo delle idee, al

quale la bellezza appartiene. I discorsi che gli interlocutori

del Convito pronunciano un dopo l‘altro in lode di eros

esprimono i caratteri accessori dell‘amore, caratteri che la

dottrina proposta da Socrate unifica e giustifica. Pausania

distingue dall‘eros volgare, che si rivolge ai corpi, l‘eros

celeste, che si rivolge alle anime. Il medico Erissimaco

vede nell‘amore una forza cosmica che determina le

proporzioni e l‘armonia di tutti i fenomeni così nell‘uomo

come nella natura. L‘amore è dunque desiderio di

bellezza; e la bellezza si desidera perché è il bene che

rende felice. L‘uomo che è mortale tende a generare nella

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bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione.

La bellezza è il fine, l‘oggetto dell‘amore. Ma la bellezza

ha gradi diversi ai quali l‘uomo può sollevarsi solo

successivamente attraverso un lento cammino. In primo

luogo, è la bellezza di un bel corpo quella che attrae ed

avvince l‘uomo. Poi egli si accorge che la bellezza è

uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare

tutta la bellezza corporea. Ma al di sopra di essa c‘è la

bellezza dell‘anima; al di sopra ancora, la bellezza delle

istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze.

Infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna,

superiore alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa,

fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia.

Lo Stato ideale

Tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei

dialoghi precedenti si trovano riassunti nella massima

opera di Platone, la Repubblica, che li ordina e li connette

intorno al motivo centrale di una comunità ideale, nella

quale il singolo, trovi la sua perfetta formazione. Il

progetto di una tale comunità è fondato sul principio che

costituisce la direttiva di tutta la filosofia platonica. Se i

filosofi non governano le città o se i re o governanti non

coltiveranno davvero la filosofia, è impossibile che

cessino i mali delle città. La Repubblica è esplicitamente

diretta alla determinazione della natura della giustizia.

Nessuna comunità umana può sussistere senza la giustizia.

All‘istanza sofistica che vorrebbe ridurla al diritto del più

forte, Platone oppone che. neppure una banda di briganti o

di ladri potrebbe venire a capo di nulla, se i suoi

componenti violassero le norme della giustizia l‘uno a

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danno degli altri. La giustizia è condizione fondamentale

della nascita e della vita dello Stato. Lo Stato deve essere

costituito da tre classi: quella dei governanti, quella dei

guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un‘altra

qualsiasi attività (agricoltori, artigiani, commercianti ecc.).

La saggezza appartiene alla prima di queste classi. Il

coraggio appartiene alla classe dei guerrieri. La

temperanza, come accordo tra governanti e governati su

chi deve comandare lo Stato, è virtù comune a tutte le

classi. Ma la giustizia comprende tutte tre queste virtù:

essa si realizza quando ciascun cittadino attende al suo

compito proprio ed ha ciò che gli spetta. Ma essa

garantisce altresì l‘unità e l‘efficienza dell‘individuo.

Nell‘anima individuale Platone distingue, come nello

Stato, tre parti: la parte razionale, che è quella per cui

l‘anima ragiona e domina gli impulsi; la parte

concupiscibile, che è il principio di tutti gli impulsi

corporei; e la parte irascibile, che è l‘ausiliario del

principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la

ragione ritiene giusto. Anche nell‘uomo singolo la

giustizia si avrà quando ogni parte dell‘anima farà soltanto

la propria funzione. Lo Stato è giusto quando ogni

individuo attende solo al compito che gli è proprio; ma

l‘individuo che attende solo al compito proprio è esso

stesso giusto. La giustizia non è solo l‘unità dello Stato in

se stesso e dell‘individuo in se stesso; è, nello stesso

tempo, l‘unità dello Stato e quindi l‘accordo dell‘individuo

con la comunità.

La divisione in classi sociali

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Lo Stato deve per forza essere diviso in classi poiché in

uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere

esercitati da individui diversi. Ci sono gli individui

prevalentemente razionali (portati quindi alla sapienza e al

governo), gli individui prevalentemente impulsivi (portati

ad essere guerrieri) e gli individui prevalentemente

soggetti al corpo ed ai suoi desideri (portati al lavoro

manuale). Per Platone la divisione degli individui in

classi-funzioni non dipende quindi da un fatto ereditario,

cioè dall‘essere nati in una certa classe, ma da un fatto

antropologico e psicologico, ossia da come si è come

uomini. Tutto ciò trova un‘esemplificazione nel celebre

mito delle stirpi, ossia in quell‘antica leggenda fenicia

secondo cui. alcuni nascono con una natura ―aurea‖, altri

con una natura ―argentea‘, altri con una natura ―ferrea o

bronzea‖.

Il comunismo platonico

Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata,

Platone suggerisce l‘eliminazione della proprietà privata e

la comunanza dei beni per le classi superiori. I custodi

dovranno avere case piccole e cibo semplice, vivendo

come in un accampamento e mangiando insieme; non

avranno alcun compenso, se non i mezzi per vivere, L‘oro

e l‘argento saranno proibiti, in quanto lo scopo della città è

il bene di tutti: ―Il nostro scopo nel fondare lo Stato, scrive

Platone, non è di rendere felice un unico tipo di cittadini,

ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua

totalità... Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte

di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità

di tutti‖. Sia la ricchezza sia la povertà sono nocive, per

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cui nella città ideale non dovrà esistere nessuna delle due.

Questo non implica tuttavia un‘organizzazione

comunistica dell‘intera società, in quanto la terza classe

non viene esclusa dalla proprietà privata dei mezzi di

produzione, Analogamente, la classe al potere non avrà

famiglia. Estendendo il comunismo economico a quello

sessuale, Platone ritiene che i governanti debbano avere in

comune anche le donne.

Le degenerazioni

Platone sa che uno Stato del genere non esiste in alcun

luogo sulla terra, ma che si tratta solo di un modello

ideale. Tre sono le degenerazioni dello Stato e tre le

corrispondenti degenerazioni del singolo. La prima la

timocrazia, governo fondato sull‘onore, che nasce quando

i governanti si appropriano di terre e di case; ad esso

corrisponde l‘uomo timocratico, ambizioso e amante del

comando e degli onori, ma diffidente verso i sapienti. La

seconda forma è l‘oligarchia, governo fondato sul censo,

in cui comandano i ricchi; ad esso corrisponde l‘uomo

avido di ricchezze, parsimonioso e laborioso. La terza

forma è la democrazia, nella quale i cittadini sono liberi e

ad ognuno è lecito di fare quello che vuole; ad essa

corrisponde l‘uomo democratico che non è parsimonioso

come l‘oligarchico, ma tende ad abbandonarsi a desideri

smodati. Infine la più bassa di tutte le forme di governo è

la tirannide, che spesso nasce dall‘eccessiva libertà della

democrazia. È la forma più spregevole perché il tiranno,

per guardarsi dall‘odio dei cittadini, deve circondarsi degli

individui peggiori. L‘uomo tirannico è schiavo delle sue

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passioni alle quali si abbandona disordinatamente ed è il

più infelice degli uomini.

I gradi della conoscenza e l‘educazione

Filosofo è colui che ama la conoscenza nella sua totalità

Ma che cos‘è la conoscenza? Platone, esplicitando il

proprio concetto del sapere come fotografia dell‘oggetto

afferma che ciò che assolutamente è, è assolutamente

conoscibile, ciò che in nessun modo è, in nessun modo è

conoscibile. Perciò all‘essere, e quindi alle idee,

corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-

essere, l‘ignoranza; e al divenire, che sta in mezzo tra

l‘essere ed il non essere, corrisponde l‘opinione, che è a

metà strada tra a conoscenza e l‘ignoranza. In particolare,

Platone paragona la conoscenza ad una linea che viene

divisa in due segmenti (conoscenza sensibile e conoscenza

razionale), i quali vengono a loro volta divisi in altri due

segmenti (immaginazione e credenza da un lato, ragione

scientifica ed intelligenza filosofica dall‘altro). Abbiamo

così quattro gradi del sapere cui corrispondono quattro

gradi della realtà. La conoscenza sensibile (dòxa,

opinione) rispecchia il nostro mondo mutevole e si divide

in ―immaginazione‖ che ha per oggetto le ombre o le

immagini degli oggetti e ―credenza‖, che ha come oggetto

le cose sensibili nei loro rapporti scambievoli (ovvero la

percezione chiara degli oggetti). La conoscenza razionale

o scientifica (epistéme, che rispecchia il mondo

immutabile delle idee), comprende la ragione

―matematica‖ che ha per oggetto le idee matematiche e

l‘intelligenza ―filosofica‖, che ha per oggetto le idee.

Nonostante esalti la matematica al punto da far scrivere

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sulla porta dell‘Accademia ―non entri chi non è

matematico‖, Platone pensa che le discipline scientifico-

matematiche rimangano legate al mondo sensibile, in

quanto le loro nozioni primitive sono attinte od intravviste

proprio attraverso le cose sensibili (punto, linea, …).

Platone enumera nella Repubblica cinque discipline

matematiche fondamentali: l‘aritmetica cioè l‘arte del

calcolo; la geometria come scienza degli enti immutabili;

l‘astronomia come scienza del movimento più ordinato e

perfetto, quello dei cieli; la musica come scienza

dell‘armonia. Queste discipline matematiche costituiscono

la propedeutica della filosofia: esse preparano il filosofo

alla scienza suprema, che è la dialettica, la scienza delle

idee. Platone descrive in modo molto minuzioso

l‘educazione dei giovani. Dapprima i futuri filosofi-

reggitori studieranno musica e ginnastica, poi le discipline

propedeutiche. Tra i trenta e trentacinque anni i migliori si

cimenteranno con la filosofia o dialettica. Fra i

trentacinque ed i cinquanta coloro che saranno stati in

grado di seguire bene il corso di filosofia dovranno fare il

tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. Solo a

cinquant‘anni, superato con esito favorevole tutte queste

prove, gli ottimi potranno diventare governanti.

Il racconto della caverna

La teoria della conoscenza e dell‘educazione trova

un‘esemplificazione allegorica nel racconto della caverna,

che rappresenta uno dei miti più noti di Platone.

Immaginiamo vi siano schiavi incatenati in una caverna

sotterranea e costretti a guardare solo davanti a sé. Sul

fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che

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sporgono al di sopra di un muricciolo alle spalle dei

prigionieri e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il

muro si muovono, senza essere visti, i portatori delle

statuette, e più in là brilla un fuoco che rende possibile il

proiettarsi delle immagini sul fondo. I prigionieri

scambiano quelle ombre per la sola realtà esistente. Ma se

uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene, voltandosi si

accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le

ombre, sono la realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire

all‘apertura della caverna scoprirebbe, con ulteriore

stupore, che la vera realtà non sono nemmeno le statuette,

poiché queste ultime sono a loro volta imitazione di cose

reali, nutrite e rese visibili dall‘astro solare. Dapprima,

abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli

oggetti e cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in

un secondo tempo li scruterà direttamente. Ma, ancora

incapace di volgere gli occhi verso il sole, guarderà le

costellazioni e il firmamento durante la notte. Dopo un po‘

sarà finalmente in grado di fissare il sole di giorno e di

ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Se lo

schiavo, per far partecipi i suoi antichi compagni di

schiavitù di ciò che ha visto, tornasse nella caverna, i suoi

occhi sarebbero offuscati dall‘oscurità e non saprebbero

più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso dai

compagni. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di

scioglierli e di portarli fuori della caverna, lo

ucciderebbero. La simbologia filosofica di questo mito è

ricchissima. La caverna oscura = il nostro mondo; gli

schiavi incatenati = gli uomini; le ombre delle statue =

l‘immagine superficiale delle cose; le statuette = le cose

del mondo sensibile; il fuoco = il principio fisico con cui i

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primi filosofi spiegarono le cose; la liberazione dello

schiavo = l‘azione della conoscenza e della filosofia; il

mondo fuori della caverna = le idee; lo schiavo che ritorna

nella caverna = il dovere del filosofo di far partecipi gli

altri delle proprie conoscenze; lo schiavo deriso = la sorte

dell‘uomo di pensiero di venir scambiato per pazzo da

coloro che sono attaccati ai pregiudizi; l‘uccisione del

filosofo = la sorte toccata a Socrate.

In questo mito si trova gran parte di Platone. In esso c‘è

innanzitutto il dualismo gnoseologico od ontologico

sotteso alla teoria delle idee; c‘è poi il senso religioso che

spinge Platone a riguardare il nostro mondo come ad un

regno delle tenebre contrapposto al regno della luce

rappresentato dalle idee. Ma soprattutto c‘è il concetto

della finalità politica della filosofia, ossia l‘idea di

un‘utilizzazione di tutte le conoscenze che il filosofo ha

potuto acquistare per la fondazione di una comunità giusta

e felice. Secondo Platone, infatti, fa parte dell‘educazione

del filosofo il ritorno alla caverna, che consiste nella

riconsiderazione e nella rivalutazione del mondo umano

alla luce di ciò caverna come che si è visto al di fuori di

questo mondo. Soltanto col ritorno nella caverna, soltanto

cimentandosi nel mondo umano, l‘uomo avrà compiuto la

sua educazione e sarà veramente filosofo.

Nella Repubblica si trova anche la celebre digressione

platonica sull‘arte, che si conclude con la sua messa al

bando dall‘educazione dei filosofi. Platone condanna

l‘arte, e la esclude dal curriculum dei futuri reggitori dello

Stato, perché ritiene che l‘arte sia sostanzialmente

imitazione di una imitazione, tre gradi lontana dal vero, in

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quanto essa si limita a riprodurre l‘immagine di cose e di

eventi naturali, che sono a loro volta riproduzione delle

idee.

L‘ultimo Platone

Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme

costituiscono la terza fase del pensiero platonico, abbiamo

un ulteriore approfondimento delle teorie del filosofo, che

rivedendo le proprie dottrine perviene ad esiti in parte

nuovi I problemi cruciali che si impongono al vecchio

Platone nascono in parte dall‘esigenza di mitigare il rigido

dualismo fra il mondo immutabile delle idee ed il mondo

mutevole delle cose. A questo scopo Platone elabora la

cosiddetta teoria dei ―generi sommi‖, cioè degli attributi

fondamentali delle idee, che per il filosofo sono cinque:

l‘essere, l‘identico, il diverso, la quiete e il movimento.

Innanzitutto ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel

genere dell‘essere. In secondo luogo, ogni idea è identica a

se stessa e quindi rientra nel genere dell‘ identico. Essere

ed essere identico sono dunque due generi differenti e non

coincidenti fra loro. Infatti tutte le idee, pur esistendo, non

per questo sono identiche, altrimenti si avrebbe la fusione

di tutte quante le idee in un‘unica idea. Se ogni idea è

identica a sé, ma distinta dalle altre, significa che essa è

diversa da loro, per cui ogni dea rientra anche nel genere

del diverso. Qui siamo al vero e proprio parmenicidio

platonico. L‘errore di fondo di Parmenide, secondo

Platone, è stato quello di confondere i1 diverso con il

nulla. Infatti, quando discorriamo della molteplicità delle

cose col termine ―non‖, sostenendo ad esempio che A non

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è B, non intendiamo il niente assoluto, ma soltanto che è

diverso dall‘essere, ossia un niente relativo.

Il mito del Demiurgo

Nel Timeo viene approfondito il problema cosmologico

dell‘origine e della formazione dell‘Universo. Platone

introduce la figura del Demiurgo, un Dio che è causa del

mondo sensibile e proprio per questo è a conoscenza della

struttura stessa del mondo delle idee. Il Demiurgo è

l'intelligenza che progetta il mondo. Ma per plasmare il

mondo, al Demiurgo occorre una materia che si lasci

plasmare. In questo, Platone vede la necessità di separare

l'intelligenza creatrice dalla creazione della stessa materia.

Il Demiurgo non può far altro che intervenire sulla materia

madre, ovvero una materia informe, eterna, non

corruttibile e plasmabile, da sempre presente nell'universo.

La materia madre è il principio femminile del cosmo, ciò

che si lascia fecondare dall'azione creatrice del Demiurgo,

Platone la chiama anche ―chora‖ (=spazio) o Madre del

Mondo.

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CAPITOLO 5

Aristotele

Il problema degli scritti

Le opere che ci sono pervenute comprendono solo gli

scritti che Aristotele compose per le necessità del suo

insegnamento. Oltre a questi scritti che sono stati chiamati

esoterici, segreti, ma che in realtà sono soltanto gli appunti

per l‘insegnamento, Aristotele compose altri scritti in

forma dialogica, che egli stesso chiamò essoterici, cioè

destinati al pubblico, e si serviva di miti e di altri

ornamenti vivaci e appariva altrettanto eloquente quanto è

scarno e severo negli scritti scolastici. Gli scritti esoterici

cominciarono a essere conosciuti soltanto quando furono

pubblicati da Andronico di Rodi.

Scritti essoterici (per il pubblico) Nei suoi dialoghi

Aristotele non solo riprese la forma letteraria del maestro

ma anche gli argomenti e qualche volta i titoli delle opere

di lui. Il dialogo Sulla filosofia segna il primo distacco di

Aristotele dal platonismo. C‘è una prima critica delle idee

platoniche:

Le opere acroamatiche (per l‘insegnamento)

1. Opere di Logica: denominati Organon (―strumento‖),

poiché forniscono i mezzi mediante i quali è possibile

ottenere una conoscenza certa: Categorie, Interpretazione,

Analitici primi (sul sillogismo), Analitici secondi (sulla

dimostrazione), Topici (sulla dialettica) e Confutazioni

sofistiche (lo studio dei metodi contraffatti del confutare).

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2. Opere di fisica Fisica: (fenomeni della natura e la loro

interpretazione), Il cielo (astronomia e cosmologia),

Nascita e morte, Meteorologia, Storia degli animali,

Generazione degli animali (genetica), Parti degli animali

(anatomia e fisiologia), Locomozione degli animali,

L'anima, Il senso, La memoria.

3. Metafisica: Riguardano l'essere, la trattazione del

motore immobile, o causa prima (nell'edizione di

Andronico furono raccolti sotto il titolo di Metafisica,

poiché erano collocati dopo, in greco méta, la Fisica)

4. Opere morali, politiche, di poetica e di retorica: Etica

nicomachea, Grande etica, Politica, Poetica, Retorica

Distacco da Platone

Platone crede nella finalità politica della conoscenza.

Aristotele fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza

disinteressata. Diversa è anche la concezione della

struttura del sapere e della realtà. Platone guarda il mondo

secondo un‘ottica verticale e gerarchica, che distingue tra

realtà vere e realtà apparenti (e fra conoscenze superiori e

conoscenze inferiori). Soprattutto negli ultimi scritti

Aristotele tende a guardare il mondo secondo un‘ottica

orizzontale, che considera tutte le realtà e tutte le scienze

su di un piano di pari dignità.

L‘enciclopedia delle scienze

Aristotele ritiene che la filosofia, intesa come metafisica,

si differenzi dalle altre scienze perché essa, anziché

prendere in considerazione i vari aspetti dell‘essere, si

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interroga sull‘essere o sulla realtà in generale. La filosofia

diviene la scienza prima, ossia studia l‘oggetto comune a

tutte le scienze (l‘essere). Aristotele classifica le scienze in

rapporto all'ente di cui si occupano.

1. Le scienze poietiche (arti e tecniche), che riguardano un

particolare aspetto dell'ente (la medicina studia l'ente in

quanto ―corpo‖, l'astronomia l'ente in quanto ―oggetto

celeste‖, la biologia l'ente in quanto ―organismo vivente);

2. Le scienze pratiche, l'etica e politica che riguardano

l'ambito umano e la vita sociale;

3. Le scienze teoretiche, che riguardano il necessario, non

si occupano di analizzare gli aspetti particolari degli enti

ma ne individuano le cause necessarie. Esse sono la fisica,

la matematica e metafisica.

La metafisica

Il termine ―metafisica‖ non è aristotelico. Con esso la

tradizione ha indicato quella parte della filosofia che

indaga le cause ultime del reale, che vanno al di là delle

apparenze immediate dei sensi o del campo di studio della

fisica. Aristotele usava il termine ‗filosofia prima‘. Il

termine risale ad Andronico di Rodi, che nel I secolo

dell‘era cristiana, ordinando i testi aristotelici, mise ―dopo

i libri di fisica‖, le opere di filosofia prima. Nella sua

opera Aristotele dà quattro definizioni di metafisica: a) la

metafisica studia le cause e i principi primi; b) la

metafisica studia l‘essere in quanto essere; c) la metafisica

studia la sostanza; d) la metafisica ―studia Dio e la

sostanza immobile‖. Di questi quattro significati, quello su

cui ha insistito maggiormente Aristotele è il secondo.

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Sostenere che la metafisica studia l‘essere in quanto essere

equivale a dire che essa non ha per oggetto una realtà

particolare, bensì la realtà in generale, cioè l‘aspetto

fondamentale e comune a tutta la realtà.

I significati dell‘essere e la sostanza

La metafisica è dunque ―lo studio dell‘essere‖. Ma

l‘essere, osserva subito Aristotele, ha una molteplicità di

aspetti e di significati. Fra tutti i possibili ed innumerevoli

modi di darsi dell‘essere, Aristotele, ha cercato di mettere

in luce quelli basilari o supremi, raccogliendoli in una

apposita tavola: a) l‘essere come accidente; b) l‘essere

come categorie (o essere per sé); c) l‘essere come vero; ci)

l‘essere come atto e potenza. Per categorie Aristotele

intende le caratteristiche fondamentali dell‘essere. Esse

sono: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione,

l‘agire, il patire, il dove (il luogo), il quando (il tempo). A

queste otto Aristotele ne aggiunge altre due, che sono

l‘avere e il giacere, ossia lo stato e l‘essere in una certa

situazione. Se dal punto di vista ontologico le categorie

sono i generi supremi dell‘essere, dal punto di vista logico

sono i vari modi con cui l‘essere si predica: quando

diciamo, ad esempio, che questo individuo è un uomo

(sostanza), che è bello o brutto (qualità), alto o basso, che

sta facendo o subendo qualcosa (agire e patire) ecc. Di

tutte le categorie la più importante è la sostanza, poiché

tutte le altre, la presuppongono. Infatti la qualità è sempre

qualità di qualche cosa, la quantità sempre la quantità di

qualche cosa ecc.

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Il principio di non-contraddizione e la sostanza

Le varie scienze procedono per astrazione, cioè

eliminando le cose da tutti i caratteri che sono diversi da

quelli che esse prendono in considerazione. Il matematico

riduce le cose alla quantità, cioè al numero. Il fisico astrae

da tutte le qualità che non si riducono al movimento,

poiché egli intende considerare solo l‘essere in

movimento. Allo stesso modo deve procedere la filosofia,

la quale deve ridurre tutti i molteplici significati della

parola essere ad un significato unico e fondamentale,

giacché deve considerare l‘essere, non come quantità né

come movimento, o in altro aspetto qualsiasi, ma proprio e

solo in quanto essere. Per far questo, essa ha bisogno di un

principio o assioma fondamentale, che è il principio di

non-contraddizione. Aristotele esprime questo principio in

due modi: 1) È impossibile che la stessa cosa insieme

inerisca. e non inerisca alla medesima cosa e secondo il

medesimo rispetto; 2) È impossibile che la stessa cosa sia

e insieme non sia. La prima formula esprime

l‘impossibilità logica di affermare e negare nello stesso

tempo uno stesso predicato intorno ad uno stesso soggetto.

La seconda formula esprime l‘impossibilità ontologica che

un determinato essere sia, e insieme non sia, quello che è.

Ogni essere ha una natura determinata che è impossibile

negare di esso è che è necessaria, non potendo essere

diversa da così com‘è. Aristotele chiama appunto sostanza

la natura necessaria di un essere qualsiasi. In questo senso,

la sostanza è l‘equivalente ontologico del principio logico

di non-contraddizione. Qualunque via si imbocchi, alla

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fine si è dunque costretti a riconoscere che la sostanza è

l‘essere dell‘essere.

La sostanza

Per sostanza Aristotele intende l‘individuo concreto che

funge da soggetto reale di proprietà e da soggetto logico di

predicati. Sostanza è ad esempio questo uomo, cui io

riferisco delle proprietà o qualità (bruno, biondo, alto ecc.)

e che assumo come soggetto grammaticale e logico dei

predicati che lo caratterizzano. Ognuna di queste sostanze

forma un sinolo, un‘unione di due elementi: la forma e la

materia. Per forma Aristotele non intende l‘aspetto esterno

di una cosa, ma la sua natura propria, ossia la struttura che

la rende quella che è. Ad esempio, negli esseri viventi la

forma è la specie cui essi appartengono (l‘umanità). Per

materia Aristotele intende il materiale recettivo che la

compone (ad es. il bronzo di cui è fatta la sfera), La forma

è l‘elemento attivo del sinolo, che struttura la materia,

mentre la materia è l‘elemento passivo e determinato, che

viene strutturato dalla forma. Dalla sostanza si deve

dunque distinguere l‘accidente (un altro dei significati

basilari dell‘essere), che in senso forte e

caratteristicamente aristotelico designa le qualità che una

cosa può avere o non avere, senza per questo cessare di

essere quella determinata sostanza (ad es Socrate non può

cessare di essere uomo, mentre può essere, a seconda dei

vari momenti della vita, pallido colorito, allegro o

malinconico).

Le quattro cause

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La teoria della sostanza è strettamente connessa alla

dottrina delle quattro cause. Aristotele enumera infatti

quattro tipi di cause: causa materiale, formale, efficiente e

finale. La causa materiale è la materia, ossia ciò di cui una

cosa è fatta e che rimane nella cosa: per esempio il bronzo

a causa della statua. La causa formale è la forma o il

modello di una cosa: per esempio la natura razionale è la

causa formale dell‘uomo. La causa efficiente è ciò che dà

inizio al mutamento o alla quiete, per esempio il padre è la

causa del figlio. La causa finale è lo scopo cui una cosa

tende: per esempio il divenire adulto è il fine del bambino.

La critica alle idee platoniche

Le idee platoniche sono nient‘altro che la natura o

l‘essenza necessaria di una cosa, cioè la loro forma.

Tuttavia essendo le idee fuori delle cose o separate da

esse, non si capisce bene in che senso possano essere

causa delle cose stesse. Tant‘è vero che i concetti platonici

di partecipazione o imitazione sono soltanto metafore

poetiche che non risolvono il problema. Il principio delle

cose non può che risiedere nelle cose stesse, ossia nella

loro forma interiore. Aristotele pone dunque le forme

intese come strutture immanenti degli individui ad

esempio l‘umanità non è un‘idea esistente nell‘iperuranio,

ma semplicemente la specie biologica immanente negli

individui che denominiamo uomini. A questa critica la più

importante e decisiva, quella che segna il definitivo

distacco del discepolo dal maestro, Aristotele fa seguire

altre obiezioni minori.

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72

Il divenire

La dottrina delle quattro cause è connessa al problema del

divenire, che ai tempi di Aristotele continuava ad essere

una delle questioni più controverse tra i filosofi. Che il

divenire esista è un fatto. Parmenide aveva dichiarato che

il divenire è qualcosa di logicamente impensabile, poiché

implicherebbe un passaggio dall‘essere al non essere,

comportando quindi l‘esistenza del nulla. Aristotele ritiene

invece che il divenire non implichi un passaggio dal non-

essere all‘essere, e viceversa, ma semplicemente un

passaggio da un certo tipo di essere ad un altro certo tipo

di essere. Aristotele elabora i concetti di potenza e atto.

Per potenza si intende la possibilità, da parte della materia,

di assumere una determinata forma. Per atto si intende la

realizzazione di tale capacità. Ad esempio, il pulcino è la

gallina in potenza. La potenza sta dunque alla materia

come l‘atto sta alla forma. Infatti la materia, per

definizione, è la possibilità di assumere forme diverse,

mentre la forma, per definizione è la realtà in atto di tali

possibilità. Il punto di partenza del divenire è quindi la

materia prima come privazione, o pura potenza, di una

certa forma, mentre il punto di arrivo è la realizzazione

(atto) di tale forma. Forma e materia, atto e potenza danno

ragione del divenire. Accanto a queste, il movimento

presuppone le altre due cause: la causa efficiente, che dà

inizio al divenire, e la causa finale, che è il fine del

divenire. Ora, se tutti i movimenti che avvengono in

natura vanno da una materia ad una forma. Spesso ciò che

è forma, cioè punto di arrivo di un movimento, diventa

materia, ossia punto di partenza di un movimento

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ulteriore. Perciò una stessa cosa può essere considerata

materia (potenza) o forma (atto) dal punto di vista del

movimento che ad essa mette capo (ad esempio, il pulcino

è potenza rispetto alla gallina ma atto rispetto all‘uovo).

La concezione aristotelica di Dio

Dei quattro significati sopraccitati di metafisica rimangono

da chiarire gli altri due, quello per cui la metafisica è la

scienza delle cause ultime e quello per cui essa è la

scienza di Dio. La metafisica come teologia indaga

l‘essere più alto: Dio. Nella Metafisica Aristotele fornisce

una prova dell‘esistenza di Dio che diverrà celebre. Essa è

tratta dalla teoria generale del movimento in generale, e

quindi comprendente ogni tipo dì movimento, da quello

dei corpi nello spazio a quello della generazione e della

corruzione. Tutto ciò che è in moto è necessario sia mosso

da altro. Quest‘altro poi, se è a sua volta in moto, è

necessario sia mosso da altro ancora. In questo processo di

rimandi, non è possibile risalire all‘infinito, poiché

altrimenti resterebbe inspiegato il movimento iniziale dalla

cui constatazione si è partiti. Per cui, essendo necessario

fermarsi e non andare all‘infinito, ci deve per forza essere

un principio assolutamente ―primo‖ e immobile‖, causa

iniziale di ogni movimento possibile. Aristotele identifica

il ―motore immobile‖ richiesto dal movimento con Dio,

riferendogli una serie di attributi strettamente connessi tra

di loro. Innanzitutto Dio è atto puro. ossia atto senza

potenza, poiché dire potenza è dire possibilità di

movimento, Dio, essendo immobile, non può essere

soggetto al divenire. Come tale, esso non può contenere in

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sé alcuna materia, dato che la materia sta alla potenza

come la forma sta all‘atto. Quindi Dio sarà pura forma o

sostanza incorporea. Inoltre, poiché Aristotele ritiene che

l‘universo e il movimento siano eterni, egli considera Dio,

causa di tali movimenti, come realtà eterna. Secondo

Aristotele esso non muove come causa efficiente, cioè

comunicando un impulso, ma come causa finale, cioè

come oggetto d‘amore, allo stesso modo in cui l‘oggetto

amato, pur rimanendo immobile, muove l‘amante verso di

sé. In altri termini, Dio è una Perfezione che, pur

rimanendo impassibile, esercita, come tale, una forza

calamitante. Dio che è Atto puro. A questa perfezione

massima deve appartenere il genere di vita più alto, quella

dell‘intelligenza. Ma che cosa pensa Dio? Non può che

pensare la perfezione stessa, ossia se medesimo. Dio sarà

dunque pensiero di pensiero.

La logica o analitica

Nella classificazione aristotelica delle scienze non trova

posto la logica, poiché essa ha per oggetto il metodo

comune dì tutte le scienze, cioè il procedimento

dimostrativo, di cui esse si avvalgono. Il termine Organon

(strumento) non è aristotelico, ma fu adoperato per la

prima volta da Alessandro di Afrodisia per designare la

logica e, in seguito per designare l‘insieme degli scritti

aristotelici relativi a tale argomento. L‘Organon

aristotelico tratta di oggetti che vanno dal semplice al

complesso e si articola sostanzialmente in una logica del

concetto, in una logica della proposizione e in una logica

del ragionamento (trattata soprattutto negli Analitici primi

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e negli Analitici secondi). Nei Topici Aristotele si

sofferma invece sul sillogismo dialettico e nelle

Confutazioni sofistiche sulle argomentazioni sofistiche.

I concetti

Secondo Aristotele i concetti, possono venir disposti entro

una scala di maggiore o minore universalità e classificati

mediante un rapporto di genere e specie. Ogni concetto di

un determinato settore è infatti specie (il contenuto) di un

concetto più universale e genere (il contenente) di un

concetto meno universale. Ad esempio, il concetto

geometrico di quadrilatero è specie rispetto a quello di

poligono e genere rispetto a quello di quadrato. La scala

complessiva dei concetti, percorsa dall‘alto in basso offre

quindi un progressivo aumento di comprensione ed una

progressiva diminuzione di estensione, sino a giungere al

concetto di una specie che non ha sotto dì sé altre specie

(specie infima) e che presenta quindi la massima

comprensibilità e la minima estensione. Tale è l‘individuo

o sostanza prima, che Aristotele distingue dalle sostanze

seconde. Percorsa dal basso in alto la piramide dei concetti

offre invece un graduale aumento di estensione ed una

graduale diminuzione di comprensione, sino ad arrivare a

dei generi sommi che hanno il massimo di estensione. Tali

sono le dieci categorie.

Le proposizioni

Le frasi che costituiscono asserzioni sono le proposizioni,

che costituiscono l‘espressione verbale dei giudizi, cioè

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degli atti mentali con cui uniamo o disuniamo determinati

concetti nella forma soggetto-predicato. Aristotele

distingue le proposizioni in vari tipi. Innanzitutto per

quanto concerne la qualità le proposizioni si distinguono

in affermative o negative, a seconda che attribuiscano

qualcosa a qualcosa o separino qualcosa da qualcosa. Per

quanto concerne la quantità le proposizioni possono essere

universali (quando il soggetto è universale: ad es. ―tutti gli

uomini‖) o particolari (quando il soggetto si riferisce ad

una classe particolare: ad es. ―alcuni uomini‖). A queste

due proposizioni, che sono quelle su cui si basa

specificamente la sillogistica aristotelica, si possono

aggiungere le proposizioni singolari (quando il soggetto è

un ente singolo).

Il sillogismo

Aristotele, negli Analitici primi, spiega le forme del

ragionamento. Quando formuliamo proposizioni, noi non

ragioniamo ancora. Noi ragioniamo, invece quando

passiamo da giudizi, da proposizioni a proposizioni che

abbiano determinati nessi, e che siano, in certo qual modo,

le une cause di altre, le une antecedenti, le altre

conseguenti. Il sillogismo è precisamente un

ragionamento, ovvero un discorso in cui poste certe

premesse segue necessariamente una conclusione. Il

sillogismo-tipo risulta composto di tre proposizioni, due

delle quali (la premessa maggiore e la premessa minore)

fungono da antecedenti e la terza (la conclusione) da

conseguente. Inoltre, nel sillogismo si hanno tre termini o

elementi: il maggiore, che ha l‘estensione maggiore e

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compare come predicato nella prima premessa; il minore,

che ha l‘estensione minore e compare come soggetto nella

seconda premessa; il medio, che ha estensione media e si

trova in entrambe le premesse, una volta come soggetto e

l‘altra come predicato. Il termine maggiore ed il termine

minore compaiono pure nella conclusione, ove si

presentano uniti fra di loro nelle vesti di soggetto (il

minore) e di predicato (il maggiore). L‘elemento grazie a

cui avviene l‘unione è il termine medio‖, che funge

appunto da cerniera o elemento connettivo fra gli altri due

e quindi da perno o leva dell‘intero sillogismo. Ciò accade

perché il termine medio (animale) da un lato risulta

incluso nel termine maggiore (mortale) e dall‘altro include

in sé il termine minore (uomo). Di conseguenza, la

caratteristica espressa dal termine maggiore (la mortalità),

appartenendo al termine medio, apparterrà per forza anche

al termine minore. In base alla posizione occupata dal

termine medio, Aristotele distingue varie figure di

sillogismo.

Il problema delle premesse

Gli Analitici primi studiano la struttura formale del

sillogismo, cioè la coerenza interna dei suoi passaggi.

Aristotele è ben consapevole del fatto che la validità di un

sillogismo non si identifica con la sua verità, in quanto un

sillogismo, pur essendo logicamente corretto, può partire

da premesse false (ovvero non corrispondenti alla realtà) e

quindi condurre a conclusioni false. Ad es. il sillogismo

ogni animale è immortale, ogni uomo è animale, ogni

uomo è immortale, pur essendo formalmente valido, in

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quanto rispetta appieno la forma del sillogismo di prima

figura (B è A, C è B, C è A), è però materialmente falso,

perché sono false la premessa maggiore e la conclusione.

La dialettica

I Topici sono dedicati allo studio della dialettica, che si

occupa dei ragionamenti adoperati nell‘oratoria politica,

che Aristotele studia nella Retorica. A differenza di

Platone che vedeva nella dialettica la scienza più alta,

Aristotele vede nella dialettica soltanto un ragionamento

che non arriva a concludere necessariamente. Aristotele si

è anche preoccupato di classificare e confutare i

ragionamenti eristici dei Sofisti. Per ragionamento eristico

si intende quello le cui premesse non sono né necessari

come quelle della scienza, né probabili come quelle della

dialettica, ma solo apparentemente probabili.

La fisica

Le sostanze immobili o intelligenze motrici dei cieli

costituiscono l‘oggetto della teologia. Le sostanze in

movimento che sono percepibili coi sensi, costituiscono

l‘oggetto della fisica. La fisica è, secondo Aristotele, la

seconda scienza teoretica, ché viene subito dopo la

filosofia prima o metafisica. L‘oggetto della fisica è

l‘essere in movimento. Aristotele indica quattro tipi

fondamentali di movimento: 1) il movimento sostanziale,

cioè la generazione e la corruzione; 2) il movimento

qualitativo, mutamento o l‘alterazione; 3) il movimento

quantitativo, cioè l‘aumento e la diminuzione 4) il

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movimento locale, cioè il movimento propriamente detto.

Quest‘ultimo è il movimento fondamentale a cui tutti gli

altri si riducono. Dunque soltanto il movimento locale è il

movimento fondamentale che consente di distinguere e di

classificare le varie sostanze fisiche. Il movimento locale

può essere: 1) Movimento circolare (intorno al centro del

mondo). 2) Movimento dal centro del mondo verso l‘alto

3) Movimento dall‘alto verso il centro del mondo.

I luoghi naturali

I movimenti dall‘alto in basso e dal basso in alto sono

propri dei quattro elementi terrestri: acqua, aria, terra e

fuoco. Per spiegare il movimento di questi elementi,

Aristotele stabilisce la teoria dei luoghi naturali. Ognuno

di questi elementi ha nell‘universo un suo luogo naturale.

Se una parte di essi viene allontanata dal suo luogo

naturale (il che non può avvenire che con un moto

violento, cioè contrario alla situazione naturale

dell‘elemento) essa tende a ritornarvi con un moto

naturale. I luoghi naturali dei quattro elementi sono

determinati dal loro rispettivo peso. Al centro del mondo

c‘è l‘elemento più pesante, la terra; intorno alla terra ci

sono le sfere degli altri elementi nell‘ordine del loro peso

decrescente: acqua, aria e fuoco. Il fuoco costituisce la

sfera estrema dell‘universo sublunare; al di sopra c‘è la

prima sfera eterea o celeste, quella della luna. Aristotele

era portato a questa teoria da esperienze assai semplici: la

pietra immersa nell‘acqua affonda, cioè tende a situarsi al

di sotto dell‘acqua; una bolla d‘aria rotta nell‘acqua sale

alla superficie dell‘acqua Dunque l‘aria tende a disporsi al

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di sopra dell‘acqua; il fuoco fiammeggia sempre verso

l‘alto, cioè tende a congiungersi alla sua sfera che è al di

sopra dell‘aria.

Perfezione e finitezza dell‘universo

L‘universo fisico, che comprende i cieli formati dall‘etere

e il mondo sublunare formato dai quattro elementi, è,

secondo Aristotele, perfetto, unico, finito ed eterno. Egli

invoca la teoria pitagorica sulla perfezione del numero 3

ed afferma che il mondo, possedendo tutte e tre le

dimensioni possibili (altezza, larghezza e profondità), e'

perfetto perché non manca di nulla. Ma se il mondo è

perfetto, esso è anche finito. Infinito significa incompiuto.

Etica e politica

I metodi rigorosi della logica si applicano nel loro senso

più pieno al contesto delle scienze teoretiche, ma quando

si passa al mondo umano le cose si complicano, dato che

in tale ambito non si ha una certezza dimostrativa.

Aristotele propone di separare la sophia dalla phrònsis,

una forma di sapere pratico, che si occupa delle cose

contingenti e variabili. La phrònèsis fornisce una guida

razionale all‘azione umana, pur non giungendo a una

conoscenza certa: copre il campo del ragionevole,

piuttosto che quello del razionalmente dimostrato. Essa

non va confusa con la virtù: quest‘ultima individua i fini,

mentre alla phronesis compete la ricerca dei mezzi. Per

quanto riguarda il contenuto delle dottrine etiche di

Aristotele, la sua Etica Nicomachea individua il fine

dell‘agire umano nella felicità, la quale però non risiede né

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nei piaceri sensibili (che l‘uomo ha in comune con gli

animali) né nella ricchezza (concepita come un mezzo e

non un fine in sé). Felicità significa dedicarsi a ciò cui

siamo destinati: far bene il proprio compito, il che per

l‘uomo equivale all‘esercizio dell‘ intelligenza. La vita

felice è dunque la vita intellettiva, anche se ciò non

esclude che si possa godere dei piaceri sensibili, o si

debbano disprezzare le ricchezze. Sulla base della

contrapposizione tra intelligenza e sensibilità, Aristotele

introduce la distinzione tra virtù dianoetiche ed etiche. Le

prime riguardano l‘esercizio del pensiero razionale, le

seconde il rapporto tra intelligenza e sensibilità. Esempi di

virtù dianoetiche sono la saggezza, l‘intelligenza, la

sapienza (che unisce le due precedenti ed è la più alta delle

virtù); esempi di virtù etiche sono la giustizia, il coraggio,

la temperanza, la liberalità. Il comportamento virtuoso è

quello basato sulla ricerca del giusto mezzo tra

atteggiamenti opposti (per es. il coraggio è il giusto mezzo

rispetto alla viltà e alla temerarietà). Nella politica,

Aristotele non ritiene utile teorizzare a priori sulla forma

dello Stato e dedica molta attenzione ai dati della

tradizione e della storia (con l‘aiuto dei discepoli raccoglie

e studia le costituzioni di 158 Stati, grandi e piccoli). Egli

distingue le forme di governo in democrazia, aristocrazia e

monarchia. A parte le degenerazioni di ciascuna

(rispettivamente in demagogia, oligarchia e tirannia), non

è possibile decidere in astratto quale è la migliore, ma

occorre sempre che chi governa miri al bene dei governati.

Aristotele propende personalmente per una forma mista di

governo, che prevede tanto l‘azione democratica dei

cittadini quanto l‘autorità del monarca.

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Poetica e retorica

Se Platone aveva condannato l‘arte, definendola

imitazione di un‘imitazione, Aristotele adotta un

atteggiamento più moderato e nella Poetica delinea una

visione positiva dell‘arte. Dopo aver notato che la poesia

―è più filosofica della storia‖, in quanto racconta le

vicende umane con un ordine razionale, anche quando

questo è all‘origine apparentemente assente, egli sviluppa

la teoria della catarsi. La catarsi è la purificazione delle

passioni per gli spettatori. Essi assistono alla tragedia e

provano pietà (per l‘eroe) e timore (al pensiero che

potrebbe capitar loro una sorte simile); ma una volta

sciolta la vicenda tragica, i fatti trovano sempre una

spiegazione razionale: per cui vengono meno la pietà e il

terrore. La tragedia ha quindi valore conoscitivo e conduce

a una migliore comprensione del mondo umano. Anche

nel caso della retorica Aristotele si contrappone a Platone,

sottolineandone soprattutto il valore sociale.

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CAPITOLO 6

Le scuole dell‘età ellenistica

La scienza alessandrina

La formazione dei regni ellenistici, seguita alla morte di

Alessandro Magno, comportò la fine dell‘influenza

politica delle poleis greche e ne seguì anche una profonda

trasformazione della cultura. Fiorirono le scienze

particolari e cadde invece in declino la filosofia. Di qui il

carattere delle scuole filosofiche dell‘ellenismo,

indifferenti all‘impegno politico-sociale e interessate

invece al problema della felicità individuale e della

saggezza pratica. Se Atene rimase il centro del dibattito

filosofico, lo sviluppo delle scienze particolari fiorì invece

nelle grandi capitali ellenistiche, come Alessandria

d‘Egitto, che in ogni modo tentarono di ostacolare il

primato culturale dei Tolomei d‘Egitto. Ma Alessandria

rimase per secoli il modello della nuova cultura ellenistica

della quale fu espressione tipica il Museo (dal nome degli

antichi cenacoli pitagorici), il più grandioso centro

culturale del mondo antico, dotato di una biblioteca di

oltre 700.000 volumi, di grandi sale di lettura e di

dibattito, di un osservatorio astronomico, di un orto

botanico, di un giardino zoologico, di sale anatomiche per

la dissezione dei cadaveri, e così via.

Gli scienziati alessandrini

Uno dei principali campi di studio che fiorì ad Alessandria

fu la filologia. I filologi alessandrini curarono le prime

edizioni critiche delle opere greche di letteratura e di

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scienza e sebbene gran parte del loro prezioso lavoro sia

andata perduta, noi dobbiamo a esso le basi essenziali e

indispensabili per la comprensione della lingua e della

cultura greca. Grande sviluppo ebbero anche gli studi di

medicina. I medici alessandrini raccolsero il Corpus

hyppocraticum, cioè un insieme di scritti con i quali, a

partire dal V secolo a.C., si era sviluppata in Grecia una

medicina scientifica, distinta dalle pratiche magico-

religiose tradizionali. Protagonista principale di questa

rivoluzione scientifica era stato Ippocrate, il più grande

medico del mondo antico. Ancora più grande fu il

contributo degli scienziati alessandrini alla matematica e

all‘astronomia. Per la matematica abbiamo l‘opera

scientifica forse più universale di tutti i tempi: gli Elementi

di geometria di Euclide e nell‘astronomia Aristarco

divenne celebre per aver formulato l‘ipotesi eliocentrica,

ipotesi che doveva esser ripresa in età moderna da

Copernico. Nello stesso campo di studi Ipparco catalogò e

divise a seconda dello splendore circa 850 stelle fisse;

formulò la teoria della precessione degli equinozi e la

teoria degli epicicli, preparando, con le sue straordinarie

osservazioni, la grande sintesi tolemaica. L‘opera di

Tolomeo è, invece, la summa dell‘astronomia antica,

basata sull‘ipotesi del geocentrismo. Il sistema

astronomico tolemaico ricostruisce l‘universo e il moto dei

corpi celesti in nove orbite o cieli che circondano la terra.

Tale sistema dominò indiscusso fino all‘età moderna. Ad

Alessandria si formò il siracusano Archimede, che fece

scoperte in matematica, in geometria, in fisica (come il

peso specifico dei corpi e l‘equilibrio dei piani), ma fu

anche l‘unico scienziato antico a intuire le possibilità

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tecnico-applicative della scienza, e in particolare della

matematica. Intuizione che doveva attendere l‘età

moderna e l‘opera di Galilei per trovare adeguato

sviluppo. Infine Eratostene diede contributi importanti alla

matematica ma fu come geografo che il suo nome diventò

importante: sostenne la sfericità della terra; disegnò una

mappa del mondo e calcolò il diametro della terra,

ottenendo un risultato di soli cento chilometri inferiore alla

cifra reale.

La scuola stoica

II fondatore della scuola stoica fu Zenone di Cizio, nato

nel 336 a.C. e morto nel 264-263. Ad Atene fondò la sua

scuola del ―portico dipinto‖, dal quale i suoi discepoli

trassero il nome di Stoici. Morì suicida, come molti altri

maestri che gli successero. Dei suoi numerosi scritti

restano solo frammenti. Fondamentale l‘apporto del

successore, Crisippo di Tarso, considerato il secondo

fondatore dello stoicismo, scrittore fecondo. Lo seguirono

Zenone di Tarso e Diogene detto il Babilonese. Diogene

andò nel 156 a Roma, con un‘ambasceria di cui faceva

parte anche l‘accademico Carneade. Nonostante l‘interesse

suscitato fra i giovani, i filosofi furono espulsi dalla città

per volontà di Catone, che considerava potenzialmente

eversivo il carattere ―critico‖ della speculazione filosofica.

Gli Stoici pongono come fine della ricerca non la scienza,

ma la felicità per mezzo della virtù. La scienza stessa è

virtù e, dunque, anche la filosofia è virtù. La filosofia si

propone di raggiungere la sapienza, ma, per conseguire

tale obiettivo, occorre esercitare la virtù. Le virtù più

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generali sono tre: la razionale, la naturale, la morale,

dunque, anche la filosofia si divide in tre parti: la logica, la

fisica, l‘etica.

La logica: il criterio di verità e la teoria del significato.

Col termine logica gli Stoici intendono la dottrina che ha

per oggetto i logoi o discorsi. Come scienza dei discorsi, la

logica è retorica; come scienza dei discorsi divisi per

domanda e risposta, la logica è dialettica. Più precisamente

la dialettica è definita come la scienza di ciò che è vero e

di ciò che è falso e di ciò che non è né vero né falso. A sua

volta, la dialettica si divide in due parti, a seconda che

tratti delle parole o delle cose: quella che tratta delle

parole è la grammatica, quella che ha per oggetto le

nozioni significate è la logica in senso proprio. Di

conseguenza, la logica degli Stoici si divide

sostanzialmente in due grandi sezioni: una che si occupa

del problema della conoscenza e dei concetti e l‘altra che

si occupa dei meccanismi e delle forme del ragionamento.

Gli Stoici si preoccupano in primo luogo di trovare il

criterio della verità. Gli Stoici ritennero che tutta la

conoscenza umana derivasse dai sensi e paragonano

l‘anima ad una carta bianca (tabula rasa) sulla quale

vengono a registrarsi le rappresentazioni sensibili. Altre

conoscenze universali si formano artificialmente in virtù

del ragionamento e costituiscono la scienza. Fra le varie

dottrine della logica stoica, quella che ha avuto forse la

maggiore importanza in tutta la tradizione filosofica è la

dottrina del significato. Tale dottrina costituisce

un‘alternativa alla teoria dell‘essenza di Aristotele. Per

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Aristotele il concetto è l‘essenza delle cose. Per gli stoici il

concetto è un segno che significa le cose. Per esempio il

concetto uomo come animale ragionevole è per Aristotele

l‘essenza o la sostanza dell‘uomo. Per gli Stoici è un

segno che si riferisce a più cose, cioè a quel gruppo di

cose che per l‘appunto chiamiamo uomini. In ogni segno

bisogna distinguere tre aspetti: 1) la cosa che significa,

cioè la parola, per esempio Dione; 2) il significato, cioè

l‘immagine o la rappresentazione mentale che c‘è o si

forma in noi quando utilizziamo la parola Dione; 3) la

cosa che è significata, cioè l‘oggetto reale, Dione in

persona. Di questi tre elementi, due sono corporei, la

parola e l‘oggetto reale; uno è incorporeo, cioè il

significato. Nella logica medievale e moderna la coppia

significato-cosa (rappresentazione e oggetto rappresentato)

è stata designata con altri nomi come significato-

supposizione; connotazione-denotazione; comprensione-

estensione; senso-significato, ecc. Con tutte queste coppie

di termini, si intendono sempre le stesse cose: da un lato il

concetto o la rappresentazione dell‘oggetto, dall‘altro

l‘oggetto reale; per esempio da un lato la rappresentazione

uomo, pensato, ad esempio, come animale ragionevole;

dall‘altro, l‘oggetto cui questa rappresentazione

corrisponde, cioè gli uomini reali.

La teoria dei ragionamenti anapodittici

Un‘altra sezione tipica della logica stoica è quella dei

cosiddetti ragionamenti anapodittici. Secondo gli Stoici un

significato è compiuto se può essere espresso in una frase,

per esempio: Socrate scrive. La parola scrive non ha

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invece significato compiuto perché lascia senza risposta la

domanda ―chi?‖. Un significato compiuto si identifica

pertanto con l‘enunciato, ossia con una proposizione

linguistica di senso compiuto che può essere vera o falsa.

Più proposizioni legate danno un ragionamento. Per gli

Stoici il ragionamento per eccellenza non è il sillogismo

dimostrativo di Aristotele, ma il ragionamento

anapodittico, un tipo di ragionamento (cui sono riportabili

tutti gli altri tipi di ragionamento) nel quale risulta

immediatamente evidente non solo la premessa, ma anche

la conclusione. Gli Stoici enumeravano cinque figure di

base di ragionamenti anapodittici, che esprimevano con gli

esempi seguenti: 1) Se è giorno c‘è luce. Ma è giorno.

Dunque c‘è luce; 2) Se è giorno c‘è luce. Ma non c‘è luce.

Dunque non è giorno; 3) Non può essere insieme giorno e

notte. Ma è giorno. Dunque non è notte; 4) O è giorno o è

notte. Ma è giorno. Dunque non è notte; 5) O è giorno o è

notte. Ma non è notte. Dunque è giorno.

Tra le varie forme di ragionamento, gli stoici presero in

considerazione anche una serie di discorsi insolubili

(paradossi, antinomie, dilemmi). I più famosi,

ampiamente diffusi, erano quelli di origine megarica

(tradizionalmente attribuiti ad Ebulide). Tra i più celebri,

quello del Mentitore (Epimenide, cretese, diceva che tutti i

cretesi erano bugiardi. Ma allora: diceva il vero o il falso,

Epimenide? Situazione paradossale perché se diceva il

vero, in quanto cretese, asserendo che tutti i cretesi erano

bugiardi, quindi diceva il falso. Se diceva il falso, non

mentiva, come cretese, quindi diceva il vero). Più

elaborato è il dilemma del coccodrillo (un coccodrillo,

rapito un bimbo, promise alla madre di renderglielo, a

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patto che essa avesse indovinato la sua intenzione di

restituirlo. Avendo la madre risposto che il coccodrillo

non l‘avrebbe restituito, il predone cadde in un terribile

dilemma. Infatti, non restituendolo, avrebbe reso vera la

risposta della madre, e quindi avrebbe dovuto, in base al

patto, procedere alla consegna del bimbo. Viceversa,

restituendolo, avrebbe reso falsa la risposta della madre, e

quindi, in base al patto, non avrebbe dovuto consegnare il

bambino. In entrambi i casi, il coccodrillo si sarebbe

trovato in una paralizzante contraddizione con se stesso).

Sia che questi siano palesi sofismi sia autentiche

antinomie, queste questioni hanno finito per contribuire al

progresso delle ricerche logiche, in quanto obbligarono gli

studiosi ad escogitare appositi schemi di risoluzione.

La fisica

Il concetto fondamentale della fisica stoica è quello di un

ordine immutabile, perfetto e necessario che governa e

sorregge tutte le cose. Quest‘ordine è identificato dagli

Stoici con Dio stesso, per cui la loro dottrina è un rigoroso

panteismo. Alle quattro cause aristoteliche gli Stoici

sostituiscono due principi. Il principio passivo è la

materia; il principio attivo è la ragione, cioè Dio che

agendo sulla e il principio materia produce gli esseri

singoli. La materia è inerte, e se ne starebbe oziosa se

nessuno la muovesse. La Ragione divina forma la materia

e ne produce le determinazioni. La sostanza da cui ogni

cosa nasce è la materia, il principio passivo; la forza da cui

ogni cosa è fatta è la causa o Dio, il principio attivo. Ma la

distinzione tra principio attivo e principio passivo non

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coincide, secondo gli Stoici, con la distinzione tra

l‘incorporeo e il corporeo. Entrambi i principi, sono corpo

e nient‘altro che corpo: giacché solo il corpo esiste. Tra le

cose incorporee non c‘è neppure Dio. Dio stesso, come

ragione e causa di tutto, è corpo: più precisamente è fuoco.

Non però il fuoco di cui l‘uomo si serve, che distrugge

ogni cosa; è piuttosto un soffio caldo pneuma e vitale che

tutto conserva, alimenta, accresce e sostiene. Esso è

chiamato la ragione seminale del mondo perché contiene

in sé le ragioni seminali secondo le quali tutte le cose si

generano. La vita del mondo ha un suo ciclo. Quando,

dopo un lungo periodo di tempo, gli astri tornano allo

stesso segno e nella stessa posizione in cui erano al

principio, accade una conflagrazione e la distruzione di

tutti gli esseri; e si riforma lo stesso ordine cosmico, e di

nuovo tornano a verificarsi gli avvenimenti del ciclo

precedente, senza alcuna modificazione. E questo ciclo si

ripete eternamente. Il destino è l‘ordine del mondo. Ogni

fatto segue ad un altro ed è necessariamente determinato

da esso come dalla sua causa; e ad ogni fatto ne segue un

altro che esso determina come causa.

L‘etica

Alla base dell‘etica stoica vi è l‘idea secondo cui ogni

essere tende ad attuare o conservare se stesso in armonia

con l‘ordine perfetto del mondo. L‘etica degli Stoici è

sostanzialmente una teoria dell‘uso pratico della ragione,

cioè dell‘uso della ragione al fine di stabilire l‘accordo tra

la natura e l‘uomo. Pare che Zenone abbia adottato la

formula del ―vivere secondo natura‖. E indubbiamente

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questa è la massima fondamentale dell‘etica stoica. Per

tutti gli Stoici, la natura è l‘ordine razionale, perfetto e

necessario che è il destino o Dio stesso; l‘azione che si

prospetta conforme all‘ordine razionale è il dovere: l‘etica

stoica è quindi fondamentalmente un‘etica del dovere e la

nozione del dovere, diventa per la prima volta la nozione

fondamentale dell‘etica. Difatti né l‘etica platonica né

l‘etica aristotelica fanno riferimento all‘ordine razionale

del tutto, assumendo a loro fondamento la prima la

nozione di giustizia, la seconda quella di felicità. Delle

azioni compiute per istinto alcune sono doverose, altre

contrarie al dovere, altre né doverose né contrarie al

dovere. Doverose sono quelle che la ragione consiglia di

compiere, come onorare i genitori, i fratelli, la patria e

andar d‘accordo con gli amici. Contro il dovere sono

quelle che la ragione consiglia di non fare. Né doverose né

contrarie al dovere sono quelle che la ragione né consiglia

né vieta, come sollevare una pagliuzza, tenere una penna

ecc. Questa prevalenza della nozione del dovere conduce

gli Stoici fino alla giustificazione del suicidio. Quando

infatti le condizioni che sono contrarie all‘adempimento

del dovere prevalgono su quelle favorevoli, il sapiente ha

il dovere di abbandonare la vita, e molti dei maestri dello

Stoa seguirono questo precetto. Fa parte integrante

dell‘etica stoica la negazione totale dell‘emozione

(pathos). Essa infatti non ha alcuna funzione

nell‘economia generale del cosmo che provveduto in

modo perfetto alla conservazione e al bene degli esseri

viventi. Le emozioni invece non sono provocate da

situazioni naturali: sono opinioni o giudizi dettati da

leggerezza. Gli Stoici distinguevano quattro emozioni

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fondamentali alle quali riducevano tutte le altre: due aventi

origine da beni presunti: la brama dei beni e la letizia dei

beni presenti; due aventi origine da mali presunti: il timore

dei mali e l‘afflizione dei mali presenti. Le emozioni sono

vere e proprie malattie che colpiscono lo stolto ma di cui il

sapiente è immune. La condizione del sapiente è quindi

l‘indifferenza ad ogni emozione, l‘apatia.

La legge naturale e il cosmopolitismo

La legge che si ispira alla ragione divina è la legge

naturale della comunità umana: una legge superiore a

quelle riconosciute dai diversi popoli della terra. Questi

concetti costituirono e costituiscono la base della teoria del

diritto naturale che per molti secoli è stato a fondamento di

ogni dottrina del diritto. L‘uomo che si conforma alla

legge è cittadino del mondo (cosmopolita) e dirige le

azioni secondo il volere della natura conforme al quale

tutto il mondo si governa. Perciò il sapiente non appartiene

a questa o a quella nazione ma alla città universale in cui

tutti gli uomini sono concittadini e nella quale non

esistono liberi e schiavi ma tutti sono liberi.

L‘Epicureismo

Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo. A 18 anni, Epicuro si

recò ad Atene, fondando una scuola che aveva sede nel

―giardino‖. Epicuro vede nella filosofia la via per

raggiungere la felicità, intesa come liberazione dalle

passioni. Il valore della filosofia è quindi strumentale: il

fine è la felicità. ―Se non fossimo turbati dal pensiero delle

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cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei

dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza

della natura‖. La filosofia indica all‘uomo un quadruplice

farmaco:

1. Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando

che essi non si occupano delle faccende umane.

2. Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando

che essa non è nulla per l‘uomo: quando ci siamo noi la

morte non c‘è, quando c‘è la morte non ci siamo noi.

3. Dimostrare la facile raggiungibilità del piacere stesso.

4. Spiegare la brevità e la provvisorietà del dolore.

Epicuro distinse tre parti della filosofia: la canonica, la

fisica e l‘etica.

La canonica

Epicuro chiamò canonica la logica o teoria della

conoscenza, in quanto la considerò diretta a dare il criterio

della verità e quindi una regola o canone della verità per

orientare l‘uomo verso la felicità. Il criterio della verità è

costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle

emozioni. La sensazione è prodotta nell‘uomo dal flusso

degli atomi che si staccano dalla superficie delle cose

(secondo la teoria di Democrito). Questo flusso produce

immagini che sono in tutto simili alle cose da cui sono

prodotte. Da queste immagini derivano le sensazioni; dalle

sensazioni derivano le rappresentazioni fantastiche che

risultano dalla combinazione di due immagini diverse

(come, per esempio, la rappresentazione del centauro

deriva dall‘unione dell‘immagine dell‘uomo con quella del

cavallo. Dalle sensazioni ripetute e conservate nella

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memoria derivano i concetti. La sensazione è sempre vera

ed evidente ed è dunque il criterio della verità. Ma poiché

anche i concetti o anticipazioni derivano da sensazioni,

anch‘essi sono veri e costituiscono insieme alla sensazione

il criterio della verità. Infine il terzo criterio di verità è

l‘emozione, cioè il piacere o il dolore, che costituisce la

norma per la condotta pratica.

La fisica

La fisica di Epicuro ha lo scopo di escludere dalla

spiegazione del mondo ogni causa soprannaturale e di

liberare così gli uomini dal timore di dipendere da forze

sconosciute. Per raggiungere questo scopo la fisica deve

essere: 1) materialistica, cioè escludere la presenza nel

mondo di ogni anima o principio spirituale; 2)

meccanicistica, cioè avvalersi nelle sue spiegazioni

unicamente del movimento dei corpi escludendo qualsiasi

finalismo. Epicuro afferma che tutto ciò che esiste è corpo

perché solo il corpo può agire o subire un‘azione. Solo il

vuoto è incorporeo, ma il vuoto ha l‘unica funzione di

permettere ai corpi di muoversi attraverso se stesso.

Epicuro perciò ammette con Democrito che nulla viene dal

nulla e che ogni corpo è composto di corpuscoli

indivisibili (atomi) che si muovono nel vuoto. Nel vuoto

infinito, gli atomi si muovono eternamente urtandosi e

combinandosi tra loro. Le loro forme sono diverse; ma il

loro numero, per quanto indeterminabile, non è infinito. Il

loro movimento non ubbidisce ad alcun disegno

provvidenziale, ad alcun ordine finalistico. Gli Epicurei

escludono esplicitamente la provvidenza stoica e la critica

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a tale provvidenza costituisce uno dei temi preferiti della

loro polemica. Epicuro ammette però l‘esistenza delle

divinità. E l‘ammette in virtù del suo stesso empirismo:

perché gli uomini hanno l‘immagine della divinità; e

quest‘immagine, come ogni altra, non può essere stata in

loro prodotta che da flussi di atomi emanati dalle divinità

stesse. Gli dèi hanno la forma umana, che è la più perfetta

e quindi la sola degna di esseri razionali. Essi

intrattengono abitano gli spazi vuoti tra mondo e mondo.

Ma non si curano né del mondo né degli uomini. L‘anima

è, secondo Epicuro, composta di particelle corporee, più

sottili, che sono diffuse in tutto il corpo come un soffio.

Con la morte gli atomi dell‘anima si separano ed ogni

possibilità di sensazione cessa: la morte è privazione di

sensazioni.

L‘etica

L‘etica epicurea pone nella felicità il fine dell‘esistenza.

La felicità consiste nel piacere: ―il piacere è il principio e

il fine della vita beata‖, dice Epicuro. Il piacere è infatti il

criterio della scelta e dell‘avversione: si tende al piacere, si

sfugge il dolore. Ma vi sono due tipi di piaceri: il piacere

stabile, che consiste nella privazione del dolore, e il

piacere dinamico, che consiste nella gioia. La felicità

consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, nel non

soffrire e nel non agitarsi ed è quindi definita come

atarassia (assenza di turbamento) e aponia (assenza di

dolore). Questo carattere negativo del piacere impone la

scelta e la limitazione dei bisogni. Epicuro distingue i

bisogni naturali e quelli vani; dei bisogni naturali alcuni

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sono necessari (ad es. mangiare), altri no (ad es. il

mangiare troppo). Solo i desideri naturali e necessari

vanno appagati, gli altri vanno abbandonati e rimossi.

Bisogna rinunciare ai piaceri da cui deriva un dolore

maggiore e sopportare anche a lungo i dolori da cui deriva

un piacere maggiore. Ad ogni desiderio bisogna porre la

domanda: che avverrà, se esso viene appagato? Che cosa

avverrà se non viene appagato? Soltanto il calcolo dei

piaceri può far sì che l‘uomo basti a se stesso e non diventi

schiavo dei bisogni. La dottrina di Epicuro non si può

quindi confondere con un volgare edonismo. Inoltre il

culto dell‘amicizia fu caratteristico della teoria e della

condotta pratica degli Epicurei. ―Di tutte le cose che la

saggezza ci offre per la felicità della vita, la più grande è

di gran lunga l‘amicizia‖ (Massime capitali). L‘amicizia

nasce dall‘utile, ma essa è un bene per sé. L‘atteggiamento

dell‘epicureo verso gli uomini in generale è nella

massima: ―È non solo più bello ma anche più piacevole

fare il bene anziché riceverlo‖. Quanto alla vita politica,

Epicuro riconosceva i vantaggi che essa procura agli

uomini, tenendoli obbligati a leggi che impediscono loro

di danneggiarsi a vicenda. Ma consigliava al saggio di

rimanere estraneo alla vita politica.

Lo scetticismo

Contrariamente alle altre filosofie, impegnate nella ricerca

del vero e nella costruzione di un determinato sistema

metafisico sull‘universo, lo scetticismo dichiara che

l‘uomo non può accedere alla verità ultima delle cose e

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che la più alta forma di saggezza consiste proprio nel

riconoscere questo fatto, inequivocabilmente dimostrato,

secondo gli Scettici, dalla molteplicità delle filosofie in

lotta fra di loro. Gli scettici, di fronte alla varietà

sconcertante delle visioni del mondo presenti fra gli

uomini, concludono che l‘unico modo per raggiungere la

tranquillità della mente, è riconoscere come ugualmente

fallaci tutte le dottrine. Il termine scetticismo deriva da

sképsis, che indica indagine, ricerca, dubbio. Infatti,

secondo gli scettici, la quiete dello spirito non si raggiunge

accettando una qualche dottrina metafisica, ma rifiutando

ogni dottrina. Parte integrante del mondo ellenistico e

della sua concezione della filosofia come terapia mentale

ed esistenziale, lo scetticismo, analogamente alle altre

scuole, subordina l‘indagine speculativa ad un fine pratico:

l‘ottenimento della pace interiore generato dalla critica

consapevolezza delle chiacchiere dei dogmatici. Di

conseguenza, lo scetticismo si dedica prevalentemente alla

distruzione delle altre dottrine filosofiche, specialmente di

quelle contemporanee: lo stoicismo e l‘epicureismo.

Pirrone e Timone

Secondo Pirrone non ci sono cose vere o false, belle o

brutte, buone o cattive per natura e assolutamente, ma

soltanto per convenzione e relativamente. Sono le

abitudini degli uomini, i loro costumi e le loro decisioni a

rendere buona o cattiva, vera o falsa, una cosa. Al di fuori

di tali credenze e convenzioni, sempre mutevoli, non è

possibile nessun giudizio, giacché la realtà in sé, per

l‘uomo, risulta inafferrabile, per cui l‘unico atteggiamento

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legittimo, come diranno più tardi altri scettici, rimane la

sospensione di ogni giudizio (epoché). Secondo Pirrone

solo lo scetticismo procura l‘atarassia, cioè

l‘imperturbabile serenità della mente. Infatti il sapiente.

messosi il cuore in pace, per aver compreso che al mondo

non esiste la verità con la lettera maiuscola, poiché sulla

natura profonda delle cose non si può dire nulla con

certezza, guarda con superiorità le dispute dei metafisici,

che continuano a battersi, con ―guerre di parole‖, circa

questioni su cui non è possibile decidere. Questo raffinato

distacco intellettuale dalle verità e dai dogmi dei più non

impedisce affatto che lo scettico pirroniano, nella pratica,

possa vivere come tutti gli altri, facendo più o meno

esattamente le stesse cose: accudire alle proprie faccende,

riposarsi, svagarsi ecc. Timone affermava che l‘uomo per

essere felice dovrebbe conoscere tre cose: 1) quale sia la

natura delle cose; 2) quale atteggiamento bisogna

assumere rispetto ad esse; 3) quali conseguenze

risulteranno da questo atteggiamento. Ma è impossibile

conoscere queste tre cose e perciò l‘unico atteggiamento

possibile è quello dell‘afasia.

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CAPITOLO 7

La filosofia medioevale

Il Cristianesimo nel mondo occidentale determinò un

nuovo indirizzo filosofia. Ogni religione implica un

insieme di credenze, che consistono nell‘accettazione di

una rivelazione. La religione è l‘adesione a verità che

l‘uomo accetta in virtù di una testimonianza superiore. Ai

Farisei che gli dicevano: ―Tu testimoni di te stesso, quindi

la tua testimonianza non è valida, Gesù rispose: Io non

sono solo, ma siamo io e Colui che mi ha mandato‖ (S.

Giov., VIII, 13, 16), fondando così il valore del suo

insegnamento sulla testimonianza del Padre. Ma

riconosciuta la verità nel suo valore assoluto, quale viene

rivelata da una potestà trascendente, si determina

immediatamente l‘esigenza di avvicinarsi ad essa e di

comprenderla nel suo significato autentico, vivere

veramente con essa e di essa. A questa esigenza solo la

ricerca filosofica può soddisfare. Dalla religione cristiana

è nata così la filosofia cristiana. Gli strumenti per questo

compito la filosofia cristiana li trovò in parte nella

Filosofia greca. Ma la Chiesa stessa, nelle sue assise

solenni (Concili) definisce le dottrine che esprimono il

significato fondamentale della rivelazione (dogmi). Da ciò

deriva il carattere proprio della filosofia cristiana, nella

quale la ricerca individuale trova segnati anticipatamente i

suoi limiti. Essa non è, come la filosofia greca, ricerca

completamente autonoma che deve muovere in primo

luogo a fissare i termini e il significato del suo problema; i

termini e la natura del problema le sono già dati. Ciò non

diminuisce il suo significato vitale: attraverso la ricerca

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filosofica il messaggio cristiano, nell‘immutabilità del suo

significato fondamentale, ha rinnovato e conservato

attraverso i secoli la forza e l‘efficacia del suo magistero

spirituale.

Caratteri della Patristica

Quando il Cristianesimo, per difendersi dagli attacchi

polemici e dalle persecuzioni dovette organizzarsi in un

sistema di dottrine, si presentò come l‘espressione

compiuta e definitiva della verità che la filosofia greca

aveva cercata, ma solo imperfettamente e parzialmente

raggiunta. Una volta postosi sul terreno della filosofia, il

Cristianesimo tenne ad affermare la propria continuità con

filosofia greca ed a porsi come l‘ultima e più compiuta

manifestazione di essa. Giustificò questa continuità con

l‘unità della ragione (Logos), che Dio ha creata identica in

tutti gli uomini di tutti i tempi e alla quale la rivelazione

cristiana ha dato l‘ultimo fondamento; e con ciò affermò

implicitamente l‘unità della filosofia e della religione. Era

naturale, da questo punto di vista, che si tentasse da un

lato dì interpretare il cristianesimo mediante concetti

desunti dalla filosofia greca, dall‘altro di ricondurre il

significato di quest‘ultima allo stesso Cristianesimo. Il

periodo di questa elaborazione dottrinale è la Patristica. E

Padri della chiesa sono gli scrittori cristiani dell‘antichità,

che hanno contribuito all‘elaborazione dottrinale del

Cristianesimo e la cui opera è stata accettata e fatta propria

dalla Chiesa.

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AGOSTINO d‘Ippona (354-430)

Ragione e fede

Nei Soliloqui, Agostino così dichiarava lo scopo della sua

ricerca: Io desidero conoscere Dio e l‘anima (Deum et

animam scire cupio). Ma Dio e l‘anima non richiedono per

Agostino due indagini parallele o diverse. Cercare l‘anima

significa cercare Dio, nella commossa persuasione che

―Tu, o Dio, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto,

finché non trovi riposo in te‖. Ora, in quello sforzo verso

Dio ragione e fede sono strettamente unite e in grado di

collaborare e di rafforzarsi a vicenda. Infatti, la teoria

agostiniana dei rapporti fra ragione e fede è sintetizzata

nella duplice formula crede ut intelligas (credi per capire)

e intellige ut credas (capisci per credere). Agostino intende

dire che per capire, ossia per far filosofia in modo corretto

e trovare la verità, è indispensabile credere, cioè possedere

la fede, la quale è simile alla luce che ci indica il cammino

da seguire. Viceversa, per avere una salda fede è

indispensabile comprendere ed esercitare l‘intelletto, cioè

filosofare. Di conseguenza, per Agostino ragione e fede,

essendo strettamente congiunte, si configurano come facce

diverse di quella medesima realtà esistenziale che è il

rapporto dell‘uomo con Dio. L‘oggetto della ricerca

agostiniana non è il cosmo, ma l‘uomo o l‘io, ossia la,

persona nella sua singolarità irripetibile e nella sua

apertura a Dio (da ciò il carattere marcatamente

esistenziale delle Confessioni).

La confutazione dello scetticismo e la teoria

dell‘illuminazione: dal dubbio alla Verità

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Contro lo scetticismo, Agostino sostiene che non è

possibile dubitare e ingannarsi su tutto, perché la nostra

esistenza, ad esempio, è indubitabile, in quanto se anche

dubitiamo e ci inganniamo su di essa, dobbiamo per forza

esistere: ―Se m‘inganno vuoi dire che sono. Non si può

ingannare chi non esiste: se dunque m‘inganno, per ciò

stesso io sono. Poiché dunque esisto, dal momento che

m‘inganno, come posso ingannarmi a credere che esisto,

quando è certo che io esisto dal momento che m‘inganno?

Poiché dunque, anche nell‘ipotesi che mi inganni, esisterei

pur ingannandomi, non mi inganno certamente nel

conoscere che esisto. In altri termini, il dubbio

presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell‘uomo

con la verità. Tuttavia, pur essendo nella verità, l‘uomo

non è, lui stesso, la verità. Infatti l‘uomo è ricercatore

della verità, è imperfetto e mutevole, mentre la vera Verità

è immutabile e perfetta e possiede totalmente se

medesima: ―Confessa di non essere tu ciò che è la verità,

poiché essa non cerca se stessa. Di conseguenza, la Verità

non può essere che Dio. L‘uomo non è la Verità, ma solo

colui che ne accoglie una parte come dono. La cosiddetta

teoria dell‘illuminazione‖ di Agostino sostiene infatti che

l‘uomo, non essendo e non possedendo di per sé la verità,

la riceve da Dio, il quale simile ad una vivida luce,

illumina la nostra mente, permettendole di apprendere.

Questa dottrina agostiniana, nonostante la forte valenza

religiosa, ha come presupposto filosofico ben preciso,

senza il quale non la si intenderebbe adeguatamente: la

teoria platonica della conoscenza. Analogamente a

P1atone, Agostino ritiene infatti ch e Platone nell‘uomo

esistano delle verità o dei criteri di giudizio (ad es. la

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Giustizia, il Bene ecc.), che non possono derivare dalla

mutevole percezione dei sensi e dall‘esperienza. Tuttavia,

mentre Platone, con la teoria della reminiscenza, faceva

derivare tali verità dal mondo delle idee, Agostino, con la

teoria dell‘illuminazione li fa cristianamente provenire da

Dio. Infatti se la ragione è superiore alle cose di cui

giudica, la legge in base alla quale essa giudica è superiore

alla ragione, poiché viene da quella Legge o Ragione

suprema che è Dio.

Dio come Essere, Vita e Amore

La verità è Dio: questo è il principio fondamentale della

teologia agostiniana. Proprio in quanto l‘uomo ricerca Dio

nell‘interiorità della sua coscienza, Dio è per lui Essere e

Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. Dio si

rivela come trascendenza all‘uomo che incessantemente e

amorosamente lo cerca nella profondità del suo io: ciò

vuoi dire che Egli non è essere se non in quanto è insieme

manifestazione di sé come tale, cioè Verità, che non è

trascendenza, se non in quanto è insieme rivelazione, che

non è Padre se non in quanto è insieme Figlio, Logos o

Verbo che muove incontro all‘uomo per trarlo a sé. Le due

prime persone della Trinità si manifestano all‘uomo nella

ricerca; e così l‘altra, lo Spirito Santo, che è l‘amore.

La struttura trinitaria dell‘uomo

La possibilità di cercare Dio e di amarlo è radicata nella

stessa natura dell‘uomo. Se fossimo animali, potremmo

amare soltanto la vita carnale e gli oggetti sensibili. Se

fossimo alberi, non potremmo amare nulla di ciò che ha

movimento e sensibilità. Ma siamo uomini, creati ad

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immagine del nostro creatore che è la vera Eternità,

l‘eterna Verità, l‘eterno e vero Amore; abbiamo dunque la

possibilità di ritornare a lui. Questa possibilità di ritornare

a Dio e inscritta nella natura stessa dell‘uomo, che

presenta una struttura trinitaria la quale è a immagine di

Dio. Infatti l‘uomo è, conosce e ama proprio come Dio è

Essere (il Padre), Intelligenza (il Figlio) e Amore (lo

Spirito Santo) In altri termini ancora, l‘uomo è composto

di tre facoltà, che riproducono tre aspetti di Dio. La prima

è la memoria, la seconda è l‘intelligenza, la terza è la

volontà o l‘amore.

Il problema della creazione e del tempo

In quanto è Essere, Dio è il fondamento di tutto ciò che è;

è dunque il creatore di tutto. E difatti la mutevolezza del

mondo che ci sta intorno dimostra che esso è l‘essere: ha

dovuto dunque essere creato dal nulla. Dio ha creato tutto

attraverso la. Parola, ma la parola di cui parla il racconto

della Genesi non è la parola sensibile, ma il Logos o Figlio

d che è coeterno con lui. Il Logos o Figlio ha in sé le idee,

cioè le forme o le idee delle cose, che sono eterne come

eterno è egli stesso. Queste forme o idee non costituiscono

dunque, come voleva Platone, un mondo intelligibile, ma

l‘eterna ed immutabile ragione attraverso la quale Dio ha

creato il mondo. Le idee divine sono da Agostino

avvicinate alle ragioni seminali di cui parlavano gli Stoici.

L‘ordine del mondo, che dipende dalla divisione delle

cose in generi e specie, è garantito appunto dalle ragioni

seminali, che, implicite nella mente divina, determinano,

nell‘atto della creazione, la divisione e l‘ordinamento delle

cose singole. ―Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo

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e la terra? In realtà, Dio è 1‘autore non solo di ciò che

esiste nel tempo, ma del tempo stesso. Prima della

creazione non c‘era tempo: non c‘era dunque un ―prima‖ e

non ha senso domandarsi che cosa Dio facesse ―allora‖.

L‘eternità è al disopra di ogni tempo: in Dio nulla è

passato e nulla è futuro perché il suo essere è immutabile e

l‘immutabilità è un presente eterno in cui nulla trapassa.

Ma, che cosa è il tempo? Certamente, la realtà del tempo

non è nulla di permanente. Il passato è tale perché non è

più, il futuro è tale perché non è ancora; e se il presente

fosse sempre presente e non trapassasse continuamente nel

passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Nonostante

questa fuggevolezza del tempo, noi, però, riusciamo a

misurarlo e parliamo di un tempo breve o lungo. L‘anima

è la misura del tempo. Non si può certo misurare il passato

che non è più, o il futuro che non è ancora; ma noi

conserviamo la memoria del passato e siamo in attesa del

futuro. Il futuro non c‘è ancora, ma c‘è nell‘anima l‘attesa

delle cose future; il passato non c‘è più, ma c‘è nell‘anima

la memoria delle cose passate. Il presente è privo di durata

e in un istante trapassa, ma dura nell‘anima l‘attenzione

alle cose presenti. Il tempo trova nell‘anima la sua realtà:

nel distendersi (distensio) della vita interiore dell‘uomo

attraverso l‘attenzione, la memoria e l‘aspettazione. Partito

alla ricerca della realtà oggettiva del tempo, Agostino

giunge invece a chiarirne la soggettività.

Il problema del male

Agostino è uno dei filosofi occidentali che hanno vissuto

con maggior tormento il problema del male. Agostino

aveva abbracciato, in un primo tempo, la soluzione

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professata dal principe persiano Mani (III sec. d.C.), che

ammetteva nel mondo due Principi, uno del Bene e l‘altro

del Male, in lotta eterna fra di loro. In un secondo tempo

S. Agostino aveva abbandonato il manicheismo,

ritenendolo filosoficamente insostenibile, poiché esso

presupponendo uno scontro cosmico della divinità del

Bene con quella del Male, metteva in forse il concetto di

incorruttibilità di Dio. S. Agostino, trovando inconciliabili

la realtà del male e la bontà perfetta di Dio, si risolve a

negare la realtà sostanziale del negativo, utilizzando lo

schema neoplatonico secondo cui il male è una forma di

non-essere del bene. Poiché Dio ha creato tutte le cose

sostiene S. Agostino — tutto ciò che è, in è, è bene. Per

cui essere e bene coincidono. Se essere = bene, in quanto

ogni sottrazione di essere è nel contempo una sottrazione

di bene e viceversa, il, male, metafisicamente parlando,

non ha una sua propria realtà, cioè un essere sostanziale

autonomo, in quanto esso è sempre male di qualcosa, cioè

l‘accidente di un soggetto che di per sé è bene.‘‘il male di

cui cercavo l‘origine — scrive S. Agostino — non è —

sostanza, perché, se fosse una sostanza, sarebbe un bene. E

invero o sarebbe una sostanza incorruttibile e perciò

senz‘altro un bene grande, o una sostanza corruttibile e

perciò un bene, ché, altrimenti, non potrebbe andar

soggetto a corruzione. Perciò vidi come Tu facesti buone

tutte le cose (Confessioni, VII, 12).

I mali fisici e morali

La negazione della realtà metafisica del male, ovvero della

sua autonoma consistenza, non toglie però che nel mondo

esista una somma verificabile di mali fisici e morali.

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Infatti quella privazione di bene la si può incontrare sia

nell‘ordine delle realtà naturali sia nell‘ordine delle azioni

umane. Per quanto riguarda le supposte imperfezioni

derivanti dal fatto che alcune cose di per sé buone

sembrano non accordarsi con altre — S. Agostino afferma

che esse non sono veramente tali, se pensate dal punto di

vista dell‘ordine universale. S. Agostino sostiene infatti

che i cosiddetti mali di natura: a) o derivano dalla struttura

gerarchica dell‘universo, che per la sua completezza

richiede non solo gli esseri superiori, ma anche quelli

inferiori; b) o fungono da elementi necessari dell‘armonia

cosmica, così come le ombre, in un quadro, sono

indispensabili per dar risalto alle -luci o -come i silenzi e

le dissonanze sono indispensabili per una sinfonia. In tutti

questi casi il male, come tale, non esiste, poiché è

semplicemente il momento o la funzione di una totalità

che di per sé è bene. A loro volta, i mali fisici che

affliggono l‘uomo, come le malattie, le sofferenze, la

morte, sono un effetto del peccato originale e

nell‘economia della salvezza hanno un significato

positivo. Per quanto riguarda il male morale, esso risiede

nel peccato, che consiste, come si è visto, nella deficienza

della volontà che rinunzia a Dio e si attacca a ciò che è

inferiore. In conclusione, per S. Agostino il male non

esiste, poiché esso è parte di un ordine cosmico che

globalmente considerato è bene oppure è dovuto all‘uomo.

La polemica contro il pelagianesimo

Una decisiva polemica agostiniana è quella contro il

pe1agianesimo. La polemica che ha avuto la maggiore

portata nella formulazioni della dottrina agostiniana,

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conducendo Agostino a fissare con straordinaria energia e

chiarezza il suo pensiero sul problema del libero arbitrio e

della grazia. Il punto di vista di Pelagio consisteva

essenzialmente nel negare che la colpa di Adamo avesse

indebolito radicalmente la libertà originaria dell‘uomo

quindi la sua capacità di fare il bene. Il peccato di Adamo

è solo un esempio cattivo che pesa bensì sulle nostre

capacità e rende ad esse più difficile il compito di operare

bene, ma non lo rende impossibile e soprattutto non toglie

ad esse la possibilità di reagire e decidersi per il meglio.

Per Pelagio l‘uomo, sia prima del peccato di Adamo sia

dopo, è naturalmente capace di operare virtuosamente

senza bisogno del soccorso straordinario della grazia. Ma

questa dottrina conduceva a ritenere inutile l‘opera

redentrice del Cristo. Agostino reagisce energicamente,

affermando che con Adamo ha peccato tutta l‘umanità e

che quindi il genere umano è una massa dannata, nessun

membro della quale può essere sottratto alla dovuta

punizione, se non dalla misericordia e dalla grazia di Dio.

Libertà, grazia e predestinazione

La dottrina agostiniana della grazia dà luogo ad una serie

di complessi interrogativi,che hanno diviso gli studiosi e

che esploderanno, in tutta la loro forza dirompente, con la

Riforma protestante. Innanzitutto, la grazia, in relazione

alla salvezza, è un fattore determinante o solo

concomitante? Di fronte a questo problema non ci sono,

evidentemente, che due soluzioni possibili, e due sono in

realtà le dottrine tipiche della grazia: 1) la grazia è

determinante, cioè è Dio stesso che, conferendola o non

conferendola, determina gli abiti o le disposizioni che

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renderanno l‘uomo giusto e lo porteranno alla salvezza; 2)

la grazia non è determinante nel senso che la sua

concessione da parte di Dio, pur essendo condizione

necessaria della salvezza, non determina la salvezza

stessa, che esige il concorso o la cooperazione dell‘uomo.

Ora l‘ambiguità della posizione agostiniana consiste nel

fatto che in essa ci sono degli appigli per entrambe le

soluzioni. Inoltre, posto che la grazia divina sia

indispensabile, sorge la domanda: la grazia è concessa a

tutti indistintamente o solo ad alcuni? Anche in questo

caso, Agostino oscilla tra due esigenze opposte: da un lato

quella che consiste nell‘ammettere che Dio concede a tutti

la grazia sufficiente alla salvezza, pur lasciando a tutti la

possibilità di perdersi; dall‘altro quella che consiste

nell‘esaltare la potenza della grazia quale dono gratuito

concesso solo ad alcune anime. Tant‘è vero che talora

Agostino parla di una grazia che non viene distribuita a

tutti, ma solo agli ―eletti‖ che Dio ha ―predestinati‖ alla

salvezza. Egli è indotto a ciò dall‘osservazione di alcuni

fatti della vita spirituale: ad es., i bambini che muoiono

senza battesimo, oppure il destino di quei milioni di

individui che sono stati esclusi dalla Chiesa (―fuori della

quale non c‘è salvezza‖) e ai quali non è neppure giunta

notizia del nome di Cristo. Possiamo quindi affermare che

in Agostino non esiste una teoria univoca sulla salvezza.

In Agostino c‘è piuttosto un ambiguo oscillare fra sistemi

concettuali opposti, e talora contraddittori, con una

oggettiva prevalenza, nella fase antipelagiana, di uno

schema teorico propenso ad affidare a Dio, più che

all‘uomo o alla cooperazione uomo- Dio, l‘impresa della

salvezza. Ed è proprio su questo punto che la Chiesa si

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sforzerà di ―mitigare il dettato di Agostino, al fine di

salvaguardare quello che, soprattutto in antitesi alla

Riforma, ha finito per imporsi come uno dei principi vitali

e irrinunciabili del cattolicesimo: ossia la teoria della

cooperazione uomo-Dio. Teoria fondata sulla persuasione

per cui se la grazia è la condizione che rende fruttuoso il

libero arbitrio, quest‘ultimo è la condizione in virtù della

quale la grazia è davvero un dono e non una costrizione o

una necessità.

La città di Dio

Il sacco di Roma perpetrato nel 410 dai Goti di Alarico

aveva ridato attualità alla vecchia tesi che la sicurezza e la

forza dell‘impero romano fossero legati al paganesimo, e

che il cristianesimo rappresentasse, per esso, un elemento

di debolezza e dissolvimento. Contro questa tesi e contro

la paura, da parte dei cristiani, di essere sommersi dalla

catastrofe storica, Agostino compose, tra il 413 e il 426, il

suo capolavoro: La città di Dio. In quest‘opera egli

afferma che la vita dell‘uomo singolo è dominata

dall‘alternativa fondamentale: vivere secondo la carne o

vivere secondo lo spirito. La stessa alterativa domina la

storia dell‘umanità. Questa è costituita dalla lotta di due

città o regni: il regno la città terrena della carne e il regno

dello spirito, la città terrena o città del diavolo, che è la

società e la città celeste degli empi, e la città celeste o città

di Dio che è la comunità dei giusti. Queste due città non si

dividono mai nettamente il loro campo d‘azione nella

storia. Nessun periodo della storia, nessuna istituzione è

dominata esclusivamente dall‘una o dall‘altra delle due

città. Nessun contrassegno esteriore distingue le due città e

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sono mescolate insieme sin dall‘inizio della storia umana e

lo saranno sino alla fine. Solo interrogando se stesso

ognuno potrà scorgere a quale delle due città appartenga.

Sulla base del suo schema teologico, Agostino, in

corrispondenza dei sei giorni della creazione, distingue sei

epoche. La prima va da Adamo al diluvio universale, la

seconda da Noè ad Abramo, la terza da Abramo a Davide,

la quarta da Davide fino alla cattività babilonese, la quinta

da quest‘ultima fino alla nascita di Cristo, la sesta da

Cristo fino al suo ritorno alla fine del mondo.

Le origini della Scolastica

La parola scolastica designa la filosofia cristiana del

Medioevo. I1 nome scholasticus nei primi secoli del

Medioevo l‘insegnante delle arti liberali, cioè di quelle

discipline che costituivano il trivio (grammatica, logica o

dialettica, e retorica) e il quadrivio della (geometria,

aritmetica, astronomia e musica). In seguito si chiamò

scholasticus anche il docente di filosofia o di teologia, il

cui titolo ufficiale era magister in theologia e che teneva le

sue lezioni dapprima nella scuola del chiostro, poi

nell‘università (studium generale). Poiché le forme

fondamentali dell‘insegnamento erano due, la lectio, che

consisteva nel commento di un testo, e la disputatio, che

consisteva nell‘esame di un problema fatto con la

considerazione di tutti gli argomenti che si possono

addurre pro e contra, l‘attività letteraria degli Scolastici

assunse prevalentemente la forma di Commentari (alla

Bibbia, alla logica di Aristotele e in seguito alle Sentenze

di Pietro Lombardo e alle altre opere di Aristotele) o di

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raccolte di questioni. La connessione della Scolastica con

la funzione dell‘insegnamento non è un fatto

semplicemente accidentale ed estrinseco, ma fa parte della

natura stessa della Scolastica. Ogni filosofia è determinata

nella sua natura dal problema che costituisce il centro

della sua ricerca; ed il problema della Scolastica era quello

di portare l‘uomo alla comprensione della verità rivelata.

Ora questo era un problema di scuola, cioè di educazione:

il problema della formazione dei chierici. La coincidenza

tipica e totale del problemi speculativo e del problema

educativo giustifica pienamente il nome della filosofi,

medievale e ne spiega i tratti fondamentali. In primo

luogo, la Scolastica non è, come filosofia greca, una

ricerca autonoma che affermi la propria indipendenza

critica di fronte ad ogni tradizione. La tradizione religiosa

è, per essa, il fondamento della ricerca. La verità è stata

rivelata all‘uomo attraverso le Sacre Scritture. Per l‘uomo,

si tratta soltanto di accedere a questa verità, di

comprenderla, per quanto è possibile, mediante i poteri

naturali e con l‘aiuto della grazia divina, e di farla propria

per assumerla a fondamento della propria vita religiosa.

Ma anche in questo compito, che è quello della ricerca

filosofica, l‘uomo non può e non deve essere affidato alle

sole sue forze. Di qui l‘uso costante delle auctoritates.

Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto biblico,

una sentenza di un Padre della Chiesa. Il suo scopo è

quello di intendere la già data nella rivelazione, non quella

di trovare la verità.

Il problema della scolastica

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Il problema del rapporto ragione e fede non è un problema

puramente speculativo. È soprattutto il problema della

parte che può e deve avere l‘iniziativa razionale dell‘uomo

nella ricerca della verità e nella direzione della vita singola

e associata. Perciò è anche il problema della libertà che

l‘uomo può rivendicare per sé e delle limitazioni che tale

libertà deve incontrare nelle gerarchie che governano il

mondo. E infine il problema dei nuovi campi indagine (la

natura, la società) che si aprono all‘uomo a misura che egli

rivendica per ì sua ragione una maggiore autonomia. Se è

inteso nei termini che si sono esposti, il problema

scolastico può essere agevolmente adoperato per rendersi

conto della continuità della varietà, delle concordanze e

delle polemiche del pensiero medievale. Esso consente di

rendersi conto che l‘ortodossia e l‘eterodossia religiose

fanno parte ugualmente di questo pensiero come ne fanno

parte le speculazioni politiche e i sopravvissuti o risorgenti

interessi per la natura per la scienza; e che le tendenze

ereticali, le ribellioni filosofiche o teologiche o politiche

che lo hanno sempre, seppure in varia misura,

caratterizzato, ne costituiscono aspetti storici fondamentali

allo stesso titolo delle grandi sintesi dottrinali in cui

l‘inizia:iva razionale dell‘uomo e le esigenze della fede e

della gerarchia ecclesiastica sembrano aver trovato un

riuscito compromesso. Ciò che questo concetto del

problema esclude è il tentativo di considerare la Scolastica

stessa nel suo insieme come una sintesi dottrinale

omogenea in cui si siano unificati e fusi i contributi

individuali.

Anselmo d‘Aosta (1033-1109)

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Il contrasto esasperato tra fede e ragione non ebbe molta

fortuna nella filosofia medioevale, che preferì attenersi

costantemente al principio della loro possibile armonia. La

maggiore figura di questo periodo, S. Anselmo, pur

insistendo sulla superiorità indiscutibile della fede, non

ritiene possibile un contrasto tra essa e la ragione. Nato ad

Aosta nel 1033, Anselmo fu abate del monastero di Bec,

poi dal 1093 sino al 1109, anno della morte, arcivescovo

di Canterbury. Le sue opere principali sono: il Monologion

o Soliloquio; il Proslogion o discorso rivolto ad altri; e un

gruppo di quattro dialoghi su argomenti teologici vari. Per

Anselmo non si può intendere nulla se non si ha fede; ma

occorre confermare e dimostrare la fede con motivi

razionali (credo ut intelligam, credo per capire).

Gli argomenti sull‘esistenza di Dio

La verità fondamentale della religione, l‘esistenza di Dio,

è secondo Anselmo una pura verità di ragione: la ragione

può dimostrarla con le sole sue forze. Nel Monologion

Anselmo la dimostra con l‘argomento dei gradi. Vi sono

molte cose buone nel mondo, ma tutte sono buone più o

meno, non assolutamente; presuppongono dunque un bene

assoluto che sia la loro misura e dal quale esse traggano il

grado di bontà che posseggono; e questo Bene assoluto è

Dio. Lo stesso ragionamento si può fare per ogni valore o

perfezione esistente nel mondo ed anche per l‘essere delle

cose, che sono tutte, più o meno, e presuppongono

l‘Essere unico e sommo.

Il Proslogion ricorre a un‘argomentazione (prova

ontologica) che muove dal semplice concetto di Dio per

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giungere a dimostrare l‘esistenza di Dio. L‘argomento è

diretto contro chi nega risolutamente tale esistenza, come

fa lo sciocco del XIII Salmo: che disse in cuor suo: Dio

non c‘è. Evidentemente, anche chi nega l‘esistenza di Dio

deve avere il concetto di Dio, giacché è impossibile negare

la realtà di qualcosa che non si pensa neppure. Ora il

concetto di Dio è il concetto di un essere ―di non si può

pensare nulla di maggiore‖ (quo maius cogitari nequit).

Ma ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non

può esistere nel solo intelletto. Se fosse nel solo intelletto,

si potrebbe pensare che esistesse anche in realtà e cioè che

fosse maggiore; ma in tal caso ciò di cui non si può

pensare nulla di maggiore sarebbe anche ciò di cui si può

pensare qualcosa di maggiore. È impossibile dunque che

ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista nel

solo intelletto e non nella realtà. L‘argomento si fonda su

due punti: 1) ciò che esiste in realtà è maggiore, cioè più

perfetto, di ciò che esiste solo nell‘intelletto; 2) negare che

ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista in

realtà, significa contraddirsi perché significa ammettere

nello stesso tempo che si può pensarlo maggiore, cioè

esistente in realtà. L‘argomento ontologico nella storia del

pensiero L‘argomento ontologico dell‘esistenza di Dio è

stato rifiutato dalla maggioranza dei filosofi, anche se non

è mancato un nutrito drappello di pensatori, talora illustri,

che li hanno difeso ed accettato. Già un contemporaneo di

Anselmo, il monaco Gaunilone, nel suo Libro a difesa

dell‘insipiente, oppose sostanzialmente che, anche

ammesso che si abbia il concetto di Dio come di un essere

perfettissimo, da questo concetto non può dedursi

l‘esistenza di Dio, più che non possa dedursi dal concetto

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di un‘isola perfettissima la realtà di quest‘isola. Anselmo

replicò col Libro apologetico, dicendo sostanzialmente che

il discorso di Gaunilone non regge, perché l‘idea delle

isole non coincide ancora con l‘idea della perfezione

assoluta, che risiede unicamente nell‘idea di Dio. In realtà,

nella sua risposta, S. Anselmo ―svicola‖ di fatto il

problema non rendendosi conto che l‘obiezione sollevata

da Gaunilone è molto più profonda. Infatti Gaunilone ha

voluto dire che un conto è il piano del pensiero e delle

possibilità logiche e un conto è il piano della realtà

effettiva, per cui dalla possibilità concettuale

dell‘esistenza di Dio non deriva, per ciò stesso, la sua

realtà. Grandi filosofi come S. Tommaso e Kant svolgono

fondamentalmente le intuizioni Gaunilone, rifiutando

l‘argomento ontologico. Nel Medioevo essa è stata

accettata da parecchi dottori (Alberto Magno, Bonaventura

ecc.). Nel mondo moderno è stata accolta da Cartesio,

Spinoza e Leibniz e, dopo Kant, da Hegel.

Tommaso d'Aquino (1225-1274)

Opere principali: De ente et essentia, Summa contra

Gentiles; Summa theologiae.

Ragione e fede

Il sistema tomistico ha la sua base nella determinazione

rigorosa del rapporto tra la ragione e la rivelazione.

All‘uomo, che ha come suo fine ultimo Dio, il quale

eccede la comprensione della ragione, non basta la sola

ricerca filosofica fondata sulla ragione. Ma la rivelazione

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non annulla né rende inutile la ragione: la grazia non

elimina la natura, ma la perfeziona. La ragione non può

dimostrare ciò che è di pertinenza della fede, altrimenti la

fede stessa perderebbe ogni merito, ma può servire alla

fede in tre modi: 1) dimostrando i preamboli della fede,

cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla

fede stessa. Non si può credere a ciò che Dio ha rivelato,

se non si sa che Dio c‘è. La ragione naturale dimostra che

Dio esiste, che è uno e che ha quegli attributi che possono

essere ricavati dalla considerazione delle cose da lui

create; 2) la filosofia può essere adoperata a chiarire

mediante similitudini le verità della fede; 3) può

controbattere le obiezioni che si fanno alla fede

dimostrando che sono false.

La metafisica

Ente, essenza ed esistenza (o ―atto d‘essere‖)

Il pensiero di Tommaso si configura come una filosofia

dell‘essere che si colloca nell‘ambito di una tradizione di

pensiero che va dai Greci agli arabi. Nell‘opuscolo

giovanile L‘ente e l‘essenza tale Tommaso si propone di

mettere a fuoco alcuni termini venuti di moda in quel

periodo (specialmente in seguito alla traduzione della

Metafisica di Avicenna). Termini che rischiavano di essere

usati in significati diversi e forieri di equivoci. Tali erano

ad es. i concetti di ente ed essenza. Ente (ens) ed essenza

(essentia), afferma Tommaso rifacendosi ad Avicenna,

sono le prime cose che l‘intelletto concepisce (Proemio).

L‘ente può essere reale o logico. Nel primo caso, l‘ente è

ciò che è presente nella realtà e che si divide nelle dieci

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categorie enumerate da Aristotele. Nel secondo caso,

l‘ente è tutto ciò che viene espresso, tramite la copula, in

una proposizione affermativa anche se questa non pone

alcunché nella realtà, ossia senza che alla proposizione

debba necessariamente corrispondere qualcosa di reale,

come quando diciamo ad es. che la cecità è nell‘occhio

(dove risulta chiaro che non esiste la cecità, ma solo degli

occhi non-vedenti). Lasciando da parte il significato logico

del termine ente, Tommaso si sofferma sull‘ente reale, a

proposito del quale soltanto ha senso parlare di essenza.

L‘essentia è ciò che una cosa è, ovvero la sua quidditas (=

ciò che risponde alla domanda ―quid est?‖, ―che cos‘è?‖).

L‘essenza, che Tommaso chiama anche natura, comprende

non solo la forma, ma anche la materia delle cose

composte, giacché comprende tutto ciò che espresso nella

definizione della cosa. Per es., l‘essenza dell‘uomo, che è

definito animale ragionevole, comprende non solo la

―ragionevolezza‖ (forma), ma anche ―l‘animalità‖

(materia). Dall‘essenza così intesa si distingue l‘essere

(esse) o l‘atto d‘essere (actus essendi), ovvero l‘esistenza.

Infatti, puntualizza Tommaso, noi possiamo ad es.

comprendere ―che cosa è l‘uomo o la fenice, e tuttavia non

sapere se esistano in natura. Sostanze come l‘uomo e la

fenice risultano perciò composte di essenza e di esistenza,

che, pur essendo tra di loro inseparabili, risultano

realmente distinte l‘una dall‘altra. Negli esseri finiti,

essenza ed esistenza stanno fra di loro in un rapporto di

potenza ed atto, in quanto l‘esistenza rappresenta l‘atto

(actus essendi) grazie a cui le essenze che hanno l‘essere

solo in potenza, di fatto esistono. Ora, ogni realtà in cui si

distinguano l‘essenza e l‘esistenza, ossia ogni realtà che ha

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l‘essere ma non è l‘essere (tale è appunto la condizione

degli esseri finiti e contingenti) deve per forza aver

ricevuto l‘essere da altro, e precisamente da un essere che,

non derivando la propria esistenza da altro, è, esso stesso,

l‘Essere (tale è la condizione del l‘esser infinito e

necessario, cioè di Dio). Nella sostanza divina l‘essenza è

la medesima esistenza. Dio è perciò necessario ed eterno,

ovvero esistente per definizione da sempre; 2) nelle

sostanze finite l‘esistenza è aggiunta dall‘esterno ed il loro

essere è quindi creato e contingente. In quest‘ultima

condizione si trovano non solo gli uomini e le cose del

mondo, ma anche gli angeli. Infatti, secondo Tommaso, in

quelle sostanze che sono pura forma senza materia (come

le intelligenze angeliche) manca evidentemente la

composizione di materia e forma, ma non quella di

essenza ed esistenza. Per cui, anche il loro essere risulta il

frutto di una creazione divina.

Partecipazione e analogia

Dire che gli esseri finiti sono stati creati da Dio equivale a

dire che essi hanno la loro esistenza per partecipazione.

Con questo termine, Tommaso intende l‘atto con cui le

creature, grazie a Dio, prendono partecipazione parte

all‘essere: allo stesso modo che quanto è infocato e non è

fuoco, è infuocato per partecipazione, così ciò che ha

l‘essere e non è l‘essere, è ente per partecipazione. La

dottrina della partecipazione implica che il termine essere,

riferito alle creature, abbia un significato non di identità

ma solo di somiglianza. E questo il principio

dell‘analogicità dell‘essere che Tommaso desume da

Aristotele. Aristotele aveva distinto bensì vari significati

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dell‘essere, ma solo rispetto alle varie categorie e li aveva

poi tutti riportati all‘unico significato fondamentale che è

quello della sostanza (ousia). Egli perciò non distingueva

né poteva distinguere tra l‘essere di Dio e l‘essere delle

altre cose; per esempio, Dio e la mente sono sostanze

proprio nello stesso senso. Tommaso, invece, in virtù della

distinzione reale tra essenza ed esistenza, deve distinguere

l‘essere delle creature, separabili dall‘essenza e quindi

creato, e l‘essere di Dio, identico con l‘essenza e quindi

necessario. Questi due significati dell‘essere non sono

univoci, cioè identici, e neppure equivoci, cioè

semplicemente diversi; sono analoghi, cioè simili, ma di

proporzioni diverse.

L‘essere come perfezione e i trascendentali

La concezione dell‘essere costituisce anche il presupposto

della dottrina dei trascendentali. Mentre le categorie sono

gli aspetti che distinguono l‘essere in diversi generi

(qualità. quantità ecc.), i trascendentali sono invece quei

caratteri che, trascendendo le stesse categorie, qualificano

l‘essere in quanto tale e competono, per ciò stesso, ad ogni

ente. Tommaso enumera cinque proprietà trascendentali:

res, unum, aliquid, verum. bonum. Poiché res non

significa se non l‘essere preso assolutamente e aliquid

implica l‘unum, i trascendentali si riducono a tre: unum,

verum, bonum. Dire che ogni ente è uno significa che ogni

ente è indiviso in sé e distinto da qualsiasi altro. Ad

esempio, un mucchio di sassi in tanto può dirsi una realtà,

un ente, in quanto ha una certa indivisione in sé (è un

mucchio, i sassi son dunque riuniti) e una certa

distinzione. Dire che ogni ente è vero significa che esso

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corrisponde all‘Intelletto divino che lo ha creato (o

progettato) e risulta quindi intrinsecamente intelligibile e

razionale (verità ontologica), cioè in grado di farsi cogliere

da un‘intelligenza e di configurarsi come fondamento

dell‘adeguatezza del pensiero (verità logica). A sua volta,

dire che ogni ente è buono significa che esso corrisponde

ad una ben precisa volontà o progetto divino e costituisce,

in quanto tale, una perfezione appetibile o desiderabile

anche dall‘uomo: ogni ente, in quanto ente, è in atto, e in

qualche modo perfetto. L‘essere, secondo Tommaso,

presenta quindi un indubbio primato metafisico rispetto al

vero e al bene. Tant‘è che la verità e la bontà di un ente

risultano proporzionali al grado di essere che esso

possiede (sino ad arrivare al caso di Dio, che è somma

Verità e sommo Bene in quanto sommo Essere). Ciò non

toglie, tuttavia, che il vero e il bene siano così inseparabili

dall‘essere da convertirsi con l‘essere. Da questa teoria dei

trascendentali‘, che scorge ovunque perfezione, verità e

bene, scaturisce quindi una delle più radicali forme di

ottimismo metafisico della storia.

Le cinque ―vie‖

Sebbene la filosofia dell‘essere di Tommaso sia tutta una

dimostrazione dell‘esistenza di Dio, egli raccoglie ed

articola le sue prove (chiamate ―vie‖) in cinque argomenti

di fondo. Secondo Tommaso, se Dio è primo nell‘ordine

dell‘essere, non lo è nell‘ordine delle conoscenze umane,

che cominciano dai sensi. Una dimostrazione

dell‘esistenza di Dio è dunque necessaria; ed essa deve

muovere da ciò che è prima per noi, cioè dagli effetti

sensibili ed essere a posteriori. Tommaso respinge perciò,

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esplicitamente, la prova ontologica di Anselmo: anche se

si intende Dio come ―ciò di cui non si può pensare nulla di

maggiore‖ non ne segue che egli sia in realtà (in rerum

natura) e non solo nell‘intelletto. Le vie torniste, già

esposte nella Somma contro i Gentili, trovano la loro

formulazione classica nella Somma teologica.

La prima via è la prova cosmologica, desunta dalla Fisica

e dalla Metafisica di Aristotele. Essa parte dal principio

che ―tutto ciò che si muove è mosso da altro‖. Ora se ciò

da cui è mosso a sua volta si muove, bisogna che

anch‘esso sia mosso da un‘altra cosa; e questa da un‘altra.

Ma non è possibile procedere all‘infinito; altrimenti non ci

sarebbe un primo motore e neppure gli altri

muoverebbero, come, per esempio, il bastone non muove

se non è mosso dalla mano. Dunque, è necessario giungere

a un primo motore che non sia mosso da null‘altro; e per

esso tutti intendono Dio.

La seconda via è la prova causale. Nell‘ordine delle cause

efficienti non si può risalire all‘infinito, altrimenti non vi

sarebbe una prima causa e quindi neppure una causa

ultima e cause intermedie: vi deve essere dunque una

causa efficiente prima, che è Dio.

La terza via è desunta dal rapporto tra possibile e

necessario. Le cose possibili esistono solo in virtù delle

cose necessarie: ma queste hanno la causa della loro

necessità o in sé o in altro. Quelle che hanno la causa in

altro rinviano a quest‘altro, e poiché non è possibile

procedere all‘infinito, bisogna risalire a qualcosa che sia

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necessario di per sé e sia causa della necessità di ciò che è

necessario per altro; e questo è Dio.

La quarta via è quella dei gradi. Si trova nelle cose il meno

e il più del vero, del bene e di tutte le altre perfezioni: vi

sarà dunque anche il grado massimo ditali perfezioni e

sarà esso la causa dei gradi minori, come il fuoco, che è

massimamente caldo, è la causa di tutte le cose calde. Ora

la causa dell‘essere e della bontà e di ogni perfezione è

Dio.

La quinta via è quella che si desume dal governo delle

cose. Le cose naturali, prive di intelligenza, appaiono

tuttavia dirette a un fine e questo non potrebbe essere se

non fossero governate da un Essere dotato di intelligenza,

come la saetta non può essere diretta al bersaglio se non

dall‘arciere. Vi è dunque un Essere intelligente dal quale

tutte le cose naturali sono ordinate a un fine; e questo

Essere è Dio.

Le cinque vie pervengono all‘affermazione di Dio come

Motore immobile, Causa prima, Essere necessario,

Perfezione somma e Intelligenza ordinatrice. Procedendo

su questa strada, la ragione può arrivare a scoprire anche

altri attributi, sia per via negativa che per via positiva. La

via negativa consiste nel negare di Dio tutte le

imperfezioni e via positiva delle creature, giungendo in tal

modo all‘idea della semplicità, unità, spiritualità ecc. di

Dio. La via positiva consiste nel conoscere Dio dalle

perfezioni che egli comunica alle creature; le quali

perfezioni si ritrovano in Dio in grado ben più eminente

che nelle creature. In concreto, la via positiva si articola

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nella via causalitatis nella via eminentiae. La prima

consiste nel derivare dall‘effetto, cioè dal mondo. qualche

informazione circa la causa che lo ha prodotto. La seconda

consiste nel liberare l‘attributo in questione dai limiti che

esso possiede nelle creature e nel pensarlo al superlativo.

Ora, poiché tali attributi sono affermati da Dio in modo

eminente, essi non sono predicati di Dio e delle creature in

modo univoco. D‘altra parte, poiché ogni perfezione

mondana ha un rapporto di partecipazione e di

somiglianza con Dio, essi non sono neppure predicati in

modo puramente equivoco, cioè ponendo, sotto lo stesso

nome, realtà completamente differenti. Imboccando una

terza strada fra l‘univocità assoluta e l‘equivocità pura,

Tommaso sostiene invece che fra gli attributi delle

creature e quelli di Dio esiste analogia, ossia parziale

somiglianza e parziale dissomiglianza. La teoria di

Tommaso cerca quindi di dar ragione sia della

conoscibilità di Dio, sia del carattere approssimativo ed

imperfetto di tale conoscenza chiaro-scura: si sa qualcosa

di Dio, altrimenti non se ne parlerebbe, neppure per

negarlo: ma il nostro sapere di lui è un non-sapere: Dio è il

Deus absconditus, come ci è nascosta la struttura profonda

delle cose, che pure è la loro essenza.

CAPITOLO 8

La filosofia rinascimentale

La filosofia rinascimentale si estende lungo tutto il

Quattrocento e il Cinquecento ed è dominata dalla disputa

fra platonici e aristotelici. I platonici hanno un interesse di

tipo religioso, mentre gli aristotelici hanno un interesse di

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tipo naturalistico e ritengono che la filosofia di Aristotele

sia la più adatta per studiare il mondo naturale. Il centro

della scuola platonica è Firenze mentre quello della scuola

aristotelica è l‘università di Padova. Inoltre, il centro degli

studi platonici è un‘accademia, centro ideale per studiare

l‘inquietudine del Rinascimento, mentre la sede degli studi

aristotelici è l‘università, cioè la sede deputata alla ricerca

sistematica.

Pietro Pomponazzi

Nasce a Mantova nel 1462, studia a Padova e lì insegna.

Quando l‘università viene chiusa in seguito alla sconfitta

di Venezia, va a Bologna ad insegnare e lì muore suicida

nel 1524. In particolare nel De immortalitate anime

sostiene dottrine in aperto contrasto con la chiesa cattolica

ma si difende con la dottrina della doppia verità. La tesi

fondamentale sostenuta da Pomponazzi è l‘identificazione

dell‘ordine naturale con un ordine immutabile e necessario

tale che non può essere diverso da com‘è. La filosofia di

Aristotele è quella che meglio garantisce la presenza di

quest‘ordine immutabile e necessario che è la condizione

per ogni studio della natura in quanto se noi studiamo

qualcosa che muta la nostra conoscenza sarà sempre

un'opinione e non sarà mai una scienza. In una delle sue

opere fondamentali, il De Incantationibus, egli esamina

miracoli, magie e avvenimenti che sembrano sospendere

l‘ordine naturale. Ritiene che tutti questi avvenimenti,

apparentemente miracolosi e magici, appartengono

all‘ordine naturale come ogni avvenimento della natura;

solo si verificano raramente e gli uomini non ne hanno

memoria e ritengono che siano delle sospensioni delle

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leggi di natura. Il concetto di cui si serve è quello del

determinismo astrologico: ogni avvenimento naturale

avviene per via gerarchica e cioè Dio non agisce

direttamente sulle cose del mondo ma attraverso gli astri.

Una volta che egli ha causato il moto celeste, siccome la

volontà di Dio è immutabile e necessaria, tutto dipende poi

dal movimento astrale e non può esistere sospensione della

legge di natura. Al determinismo astrologico non

appartengono solo le leggi che fanno muovere e vivere le

cose animate o inanimate ma anche la storia dell‘uomo e

quindi anche la religione. Infatti ogni religione al suo

inizio è caratterizzata da avvenimenti che gli uomini

ritengono miracolosi ma poi inizia a discendere fino a

quando scompare. Questo lo porta alla tesi del De

immortalitate anime dove dimostra come l‘anima sia

mortale. Infatti se ogni cosa nasce, vive e muore, nulla può

sfuggire a quest‘ordine, compresa l‘anima dell‘uomo. Se

scompaiono i corpi scompare anche l‘anima perché non ha

più ragione d‘essere. Non solo non è necessario che

l‘anima sia immortale dal punto di vista conoscitivo, ma

neanche un‘esigenza morale determina la sua immortalità

poiché non è assolutamente necessario che ci sia un

premio o un castigo dopo la morte in quanto la virtù è

premio a se stessa. Se poi viene anche premiata, questo

fatto è accidentale, non essenziale. Così come il peccato è

castigo di per se e se viene punito, è solo un fatto

accidentale. L‘essenza della virtù sta nella virtù stessa, non

nell‘avere un premio mentre l‘essenza del peccato sta nel

peccato stesso, non nell‘essere punito. Neanche dal punto

di vista morale è necessario ammettere l‘immortalità

dell‘anima.

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127

Platonismo rinascimentale

Una delle correnti fondamentali della filosofia

rinascimentale è il Platonismo. Il ritorno a Platone è

motivato dal fatto che si ritiene che il filosofare platonico,

non essendo chiuso in un sistema, sia molto più moderno

di quello aristotelico e quindi più idoneo alla sensibilità

rinascimentale che intende la filosofia come una ricerca,

un muoversi verso una verità che non è data. Inoltre si

ritiene che la filosofia platonica sia quella che

maggiormente si presta a intendere anche la sensibilità

religiosa cristiana in quanto si reputa che Platone sia il

filosofo che si è avvicinato maggiormente allo spirito del

cristianesimo. Durante il Rinascimento si viene a

conoscenza di quasi tutti i dialoghi di Platone. Il maggior

sostenitore della superiorità della filosofia di Platone è

Gemisto Pletone mentre il maggior sostenitore della di

Aristotele è Giorgio Trapesunzio. Esiste un tentativo di

conciliazione tra queste due posizioni operato dal

cardinale Bessarione. In realtà il motivo del conflitto

ideologico deriva da una diversità di interessi: per i

platonici è un interesse di tipo religioso, mentre per gli

aristotelici è un interesse di tipo naturalistico cioè vedono

nella filosofia di Aristotele la condizione fondamentale per

un approccio allo studio della natura.

Nicola Cusano

Nicolas Krebs è il maggior rappresentante della filosofia

platonica in età rinascimentale. La sua opera più

importante è il De docta ignorantia la quale tratta

l‘argomento della conoscenza. Egli ritiene che la

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conoscenza dell‘uomo si modelli sulla conoscenza

matematica. Nell‘ambito della conoscenza noi conosciamo

ciò che è ignoto solo se esso ha una proporzionalità con

ciò che è già noto. Quindi la conoscenza si basa

sull‘omogeneità tra noto ed ignoto come in matematica:

tanto più le verità sono vicine a ciò che già conosciamo,

tanto più facilmente le conosciamo. Di fronte a ciò che

non è assolutamente omogeneo a quanto conosciamo noi

non possiamo che proclamare la nostra ignoranza, la quale

sarà però una ―dotta ignoranza‖ in quanto ne siamo

consapevoli. Qui Cusano si riallaccia alla tradizione

pitagorica ê la nostra conoscenza si muove nel finito. Ciò

che non è omogeneo all‘oggetto della nostra conoscenza è

l‘infinito che sfugge al nostro sapere. Esso sta alla

finitudine della nostra conoscenza come la circonferenza

ai poligoni inscritti e circoscritti. All‘uomo sfugge quindi

la verità assoluta, egli conosce solo le verità relative che

possono essere aumentate ma che non coincideranno mai

con l‘assoluto. Questo però ci dice che l‘infinito è aldilà

delle norme che regolano la nostra conoscenza e il

principio logico su cui si fonda la nostra conoscenza è

quello di non-contraddizione. Quindi l‘infinito sfugge al

principio di non-contraddizione. Di conseguenza l‘infinito,

cioè Dio è coincidenza degli opposti, quindi in Dio ci sono

quegli opposti che assolutamente nel mondo umano non

possono coincidere. Cusano spiega tutto questo ancora con

un principio matematico. Questa separazione però non

implica un‘inaccessibilità perché dopo aver separato

l‘essere dal mondo lo si ritrova nel mondo con un

riferimento al Parmenide. Di fronte a Dio l‘unico

atteggiamento possibile è la congettura cioè il riconoscere

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che è altro da noi. Una delle sue opere si intitola Non

aliud. Questa gli permette di dare una spiegazione del

rapporto tra Dio e il mondo che lo porta poi a presupporre

delle tesi di tipo astronomico che lo avvicinano a quelle

sostenute nell‘ambito della rivoluzione scientifica. Cusano

usa i termini di complicatio ed esplicatio. Dio è la

complicazione del molteplice nell‘Uno cioè il mondo che

si piega fino a ridursi all‘unità in Dio ma

contemporaneamente Dio è l‘esplicarsi dell‘unicità nella

molteplicità del mondo. Questo permette una conoscenza

del divino che è pura congettura e che comunque si fonda

sulla soggettività umana. Cusano dice che noi vediamo

Dio così come noi siamo. Il Neoplatonismo viene qui

usato per spiegare la realtà partendo dalla soggettività

umana. Se Dio è complicatio ed esplicatio è ovunque

quindi non esiste nell‘Universo una differenza di qualità

perché Dio è ovunque e l‘universo è infinito come Dio ma

è un infinito costrutto in quanto si esplica nella pluralità.

Marsilio Ficino

Il Neoplatonismo in Italia si afferma soprattutto a Firenze

dove nasce un vero e proprio centro di studi neoplatonici

grazie alla collaborazione tra Cosimo il Vecchio e

Marsilio Ficino. Marsilio si occupa della filologia

platonica ed è anche un traduttore dei suoi dialoghi. E‘

convinto che la teologia e la filosofia siano strettamente

congiunte fra loro. La separazione tra le due fa si che la

teologia diventi superstizione e la filosofia malvagità.

Ritiene che la filosofia platonica sia il pensiero in cui

meglio si uniscono ambedue. Si tratta di platonismo

filtrato. Distingue la realtà in gradi: corpo, qualità, anima,

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Angelo, Dio. L‘anima occupa il gradino centrale cioè essa

è parimenti distante dal corpo quanto da Dio. La sua

centralità fa si che essa abbia una funzione fondamentale

per determinare l‘armonia del mondo. Essa può scegliere

se degradarsi fino al corpo o innalzarsi fino a Dio. In

questo modo costituisce tutta la realtà. L‘anima è copula

mundi. Senza l‘anima non sarebbe possibile comprendere

il rapporto tra quelli che sono gli estremi della realtà in

quanto essa è l‘essenza media, appartiene ad ambo i

mondi. Questa sua funzione fondamentale determina

quelle che sono le connotazioni dell‘anima. Essa è infinita

ed eterna perché spiega la ragion d‘essere del cosmo.

Infatti è la misura del tempo ma siccome lo strumento di

misurazione non può che essere pari a ciò che misura,

allora è infinita ed eterna. E‘ libera di scegliere se

scendere o salire. Dio ha creato l‘uomo attraverso un atto

d‘amore quindi il cosmo è bello e quindi l‘anima nel

mondo, attraverso la bellezza, può tornare a Dio. Siamo di

fronte ad una concezione neoplatonica della realtà con

un‘ispirazione umana non religiosa in quanto fa

dell‘anima l‘essenza media perché essa è l‘unica che può

apprezzare la bellezza del cosmo, quindi tutto il cosmo è

in funzione dell‘anima e quindi dell‘uomo, il quale è

l‘unico che può giudicare il bello.

Rinascimento e naturalismo

Nel Rinascimento lo studio del mondo naturale non appare

più all‘uomo come un‘inutile distrazione dalla

meditazione interiore. L‘uomo è diventato consapevole

che il suo destino deve realizzarsi appunto nel mondo: egli

si è radicato nel mondo ed è deciso a conquistarlo. La

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ricerca naturale gli appare quindi indispensabile. La

magia, la filosofia naturale ed infine la scienza sono le fasi

attraverso le quali la ricerca naturale del Rinascimento si

sviluppa e raggiunge la sua maturità. La magia si fonda su

due presupposti: 1) il mondo della natura è animato, cioè

mosso da forze che sono intrinsecamente simili all‘uomo;

2) è possibile all‘uomo assoggettare a sé queste forze con

lusinghe e incantesimi, al modo in cui si avvince a sé, con

trattamento opportuno, un essere animato. I maghi furono

numerosi ed ebbero successi e favori in tutti i paesi

d‘Europa. Il più delle volte praticarono la medicina

promettendo guarigioni miracolose. Essi si vantavano di

poter asservire le più nascoste forze della natura, di

manipolarle a loro piacimento. Uno dei più famosi fu lo

svizzero Paracelso, che curava le malattie con la quinta

essenza di certi corpi, cioè con certi estratti che avrebbero

dovuto contenere il potere attivo e curativo di metalli e di

piante. Medico fu anche Gerolamo Cardano, un altro

mago. vissuto tra stravaganze di ogni sorta, al quale però

spetta un posto importante nella storia delle matematiche

di quest‘epoca. La magia rinascimentale non è tutta fatta

di superstizioni e di vecchi filosofemi rimessi a nuovo.

Soprattutto nel campo della matematica essa ha dato i suoi

migliori frutti. Essa ha inoltre praticato e diffuso il metodo

dell‘esperimento, sia pure complicandolo con presupposti

animistici che portavano spesso ad affermazioni

fantastiche, a pregiudizi e a credenze contrarie allo spirito

critico della scienza, quale si doveva organizzare e si

veniva organizzando per opera di menti più rigorose.

Telesio

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Vicina alla magia e spesso intrecciata con essa, è la

filosofia della natura del Rinascimento, che conta i nomi

di Telesio, di Bruno e Campanella.

Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel 1509 e si

addottorò a Padova nel 1535. Pubblicava nel 1565 i primi

due libri dell‘opera La natura secondo i propri principi e

tre anni prima della morte l‘opera intera in 9 libri.

Telesio considera la natura come un mondo a sé, che si

regge su principi propri e può essere spiegato solo in base

a questi principi, escludendo ogni forza metafisica. Come

sensibilità., l‘uomo è infatti esso stesso natura: perciò ciò

che la natura stessa rivela‖ e ciò che i sensi testimoniano

s( n( la stessa e medesima cosa. La sensibilità non è altro

che l‘autorivelazione della natura nell‘uomo. Queste

affermazioni di Telesio hanno grande importanza per lo

sviluppo ulteriore dell‘indagine naturalista. Telesio ritiene

che la natura debba essere spiegata mediante le due forze

principali che agiscono in essa, il caldo e il freddo: il caldo

ha sede nel sole, dilata le cose e le rende leggere e adatte

al movimento: il freddo ha sede nella terra, condensa le

cose, le rende pesanti e quindi immobili. Il caldo e il

freddo, come forze corporee, hanno bisogno di una massa

corporea che possa subire l‘azione dell‘uno e dell‘altro:

questa massa, provvista di inerzia, è il terzo principio

naturale. Conseguentemente Telesio ritiene che soltanto il

sole e la terra siano elementi originari: non sono tali

invece l‘acqua e l‘aria che risultano dalla composizione

dei due primi. La sua fisica si mantiene sul piano

qualitativo, Tuttavia egli avverte l‘esigenza di un‘analisi

quantitativa, necessaria per determinare la quantità di

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133

calore sufficiente a produrre i singoli effetti naturali. Pur

dichiarando di non poter per suo conto soddisfare questa

esigenza, per la limitatezza del tempo che ha potuto

dedicare allo studio della natura, egli afferma che solo

questa analisi quantitativa può rendere gli uomini non solo

sapienti, ma potenti, cioè può dare ad essi il controllo delle

forze naturali. Contro Aristotele, Telesio svolge una critica

minuta che investe tutti i punti della fisica peripatetica. La

fisica di Telesio ha conservato il presupposto

fondamentale della magia. l‘animazione della natura, che

dovrà essere eliminato dalla vera e propria considerazione

scientifica del mondo naturale. Tuttavia Telesio ha

affermato l‘oggettività del mondo naturale in un modo che

ha aperto la strada all‘indagine scientifica. Sotto questo

aspetto il suo vero continuatore può dirsi Galilei. Bruno e

Campanella ritornano invece alla metafisica e alla magia.

Giordano Bruno (1548-1600)

Giordano Bruno nacque a Nola nel 1548 ed entrò

nell‘ordine domenicano. Venuto in urto con l‘ambiente

ecclesiastico, andò in giro per l‘Europa. Per invito del

patrizio veneziano Mocenigo, dalla Germania si recò a

Venezia; ma qui dal Mocenigo stesso fu denunciato

all‘Inquisizione e arrestato: Bruno si sottomise all‘abiura.

Ma, trasferito all‘Inquisizione di Roma, rimase in carcere

sette anni rispondendo, ai ripetuti inviti a ritrattare le sue

dottrine, di non aver nulla da ritrattare. Veniva perciò

condannato e il 17 febbraio 1600 arso vivo in Campo dei

Fiori. Gli scritti principali di Bruno sono i dialoghi italiani

e i poemi latini. Dei dialoghi italiani alcuni espongono la

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filosofia naturale (La cena delle ceneri, Della causa,

principio et uno, De l’infinito universo e mondi); altri sono

di carattere morale (Lo spaccio della bestia trionfante,

Cabala del cavallo Pegaseo, Degli eroici furori). I poemi

latini sono tre: De minimo, De monade, De immenso et

innumerabilibus.

La religione della natura

La religiosità del Bruno è una religione dell‘infinito.

Bruno vuole abolire ogni limite dell‘universo e proiettare

nell‘infinito l‘anima, il movimento, la vita. Quanto alle

vere e proprie religioni positive e allo stesso cristianesimo,

Bruno ne ammette l‘utilità per il governo dei rozzi, ma le

considera come ignoranza e superstizione. Egli porta la

sua indagine esclusivamente sul mondo naturale e si rifiuta

ad ogni speculazione teologica. A Dio non si può risalire

partendo dagli effetti naturali, come non si può conoscere

uno scultore dalle sue statue. Perciò Bruno considera Dio

solo in quanto è il principio immanente della natura. In

questo senso, Dio è causa e principio del mondo. Ma sia

come causa sia come principio delle cose naturali Dio non

si distingue dalla natura: La natura o è Dio o è la virtù

divina che si manifesta nelle cose. Come principio Dio è

l‘intelletto universale, cioè la prima facoltà dell‘anima del

inondo. Il mondo è un tutto animato e Dio è l‘artefice

interno che anima e forma tutte le cose. C‘è un‘unica

materia del mondo e c‘è un‘unica forma. cioè un unico

principio animatore: materia e forma insieme costituiscono

la Natura o Dio. Ma come unità di materia e forma. Dio è

il Tutto, l‘Universo, l‘Essere nella sua totalità: l‘attributo

fondamentale è l‘infinità. Del mondo si può dire che il

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centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo. A

difendere e ad esaltare liricamente l‘infinità del mondo

sono dedicati la Cena delle ceneri, il De l’infinito universo

e mondi e il De immenso. La difesa che Bruno fa del

sistema di Copernico è mossa appunto dalla possibilità che

questo sistema gli offre di intendere e di affermare

l‘infinità del mondo. Bruno è in realtà indifferente ai

vantaggi scientifici dell‘ipotesi copernicana ed è assai

dubbio che ne abbia veramente inteso l‘impostazione

geometrica. Alla predilezione di Bruno per l‘infinito si

deve il suo disprezzo per Aristotele che aveva negato la

realtà all‘infinito e aveva affermato la finitezza del mondo,

scorgendo nell‘infinito incompiutezza, assenza di

determinazioni e quindi disordine. Nel De immenso egli

controbatte la tesi aristotelica, affermando che non è

perfetto ciò che è completo e chiuso, ma ciò che

comprende innumerevoli mondi e quindi ogni genere, ogni

specie, ogni misura, ogni ordine e ogni potere. Ma la vera

infinità secondo Bruno non è quella spaziale propria della

massa corporea dell‘universo, ma quella di Dio, che è tutto

n tutto il mondo e tutto in ciascuna parte di esso.

L‘infinito e l‘uomo

Il più alto grado della conoscenza umana è, secondo

Bruno, l‘unione intima con la natura nella sua sostanziale

unità. Questo è il significato del mito di Atteone esposto

negli Eroici furori. Atteone che giunse a contemplare

Diana ignuda e fu trasformato in cervo, diventando caccia

da cacciatore che era, è il simbolo dell‘anima umana che,

andando in cerca della natura e giunta finalmente a

vederla, diventa essa stessa natura. Il termine più alto della

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speculazione filosofica è la visione della natura nella sua

unità. Quest‘identificarsi dell‘uomo con la natura è il

termine ultimo non soltanto della conoscenza, ma anche

dell‘azione. In Dio necessità e libertà si identificano: egli

non può volere in ogni caso che l‘ottimo e quindi non

conosce l‘indecisione e la scelta. Se la libertà umana fosse

perfetta, sarebbe come quella di Dio: coinciderebbe con la

necessità della natura.

Le tesi cosmologiche rivoluzionarie di Bruno

Bruno giunge ad una nuova visione dell‘universo, che non

deriva osservazioni astronomiche o calcoli matematici, in

cui il filosofo fu poco competente, bensì da una intuizione

di fondo del suo pensiero circa l‘infinità. L‘idea è la

seguente: se la terra è un pianeta che gira attorno al sole, le

stelle che si vedono nelle notti serene e che gli antichi

vedevano attaccate all‘ultima parete del mondo, non

potrebbero essere tutte immobili soli circondati dai

rispettivi pianeti? Per cui l‘universo, anziché essere

composto da un sistema unico, il nostro, non potrebbe

ospitare in sé un numero il1imitato di stelle-soli? Di fronte

a questi interrogativi Bruno, pur ammettendo che ―non è

chi l‘abbia mai osservato‖, conclude razionalmente che

―sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che

similmente circuiscono quei soli, come veggiamo questi

sette circuire questo sole a noi vicino‖. Le tesi

cosmologiche rivoluzionarie presenti in Bruno, sono:

1) Abbattimento delle mura esterne dell‘universo;

2) Pluralità dei mondi e loro abitabilità;

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3) Identità di struttura fra cielo e terra:

4) Geometrizzazione dello spazio cosmico:

5) Infinità dell‘universo

La prima tesi implica la distruzione dell‘idea secolare dei

confini del mondo, cui lo stesso Copernico era rimasto

fedele, parlando dell‘ultima sfera mundi. In realtà, per

Bruno le muraglie celesti non esistono, perché l‘universo è

aperto in ogni direzione e le supposte stelle fisse si trovano

disperse in uno spazio senza limite. La seconda tesi,

implica la moltiplicazione all‘infinito dei corpi che

―corrono‘ per il cielo, ossia il concetto di una pluralità

illimitata di sistemi solari, che Bruno ritiene popolati da

creature viventi, senzienti e razionali: abitati i pianeti del

nostro mondo, abitate le costellazioni più lontane, abitati

gli ―abissi‖ più remoti dello spazio.

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138

CAPITOLO 9

La rivoluzione scientifica

La Rivoluzione scientifica è il periodo culturale che va

dalla pubblicazione del capolavoro di Copernico, Le

rivoluzioni dei corpi celesti (1543), all‘opera di Newton, i

Principi matematici della filosofia naturale (1687). A

caratterizzare questo nuovo periodo culturale sono nuove

teorie e nuovi esperimenti, metodi, strumenti, ma

soprattutto una nuova immagine della scienza e dello

scienziato. Nell‘ambito del pensiero scientifico, per la

prima volta diviene preminente il principio della

matematizzazione della natura e l‘attenzione all‘aspetto

quantitativo della realtà. Le grandi scoperte scientifiche

disegnano i confini di un mondo nuovo rispetto a quello

medioevale e rinascimentale. Le teorie di Copernico,

Keplero e Galileo, che mettono in crisi la fisica aristotelica

e avviano l‘elaborazione del nuovo sistema della natura

che sarà poi edificato nella grande sintesi di Newton, sono

solo alcuni esempi delle innovazioni culturali apportate

dalla nuova scienza. A esse possiamo aggiungere la

scoperta della circolazione del sangue operata da Harwey

e gli studi sul magnetismo di Gilbert. le ricerche di

chimica, di biologia, che avviano una nuova era per queste

discipline. Le grandi istituzioni scientifiche che sorgono in

questo periodo (come la Royal Society in Inghilterra)

rappresentano un chiaro segnale di questo mutato clima

intellettuale, mentre le questioni metodologiche e

metafisiche proposte da pensatori come Bacone e Cartesio

mostrano l‘esigenza avvertita dalla filosofia di offrire una

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nuova interpretazione del problema della conoscenza e

della realtà alla luce della nuova aria culturale.

La rivoluzione astronomica

Il modello dell‘astronomia aristotelico-tolemaica che

Copernico sovverte, sosteneva: il mondo celeste era

perfetto e incorruttibile, quello terrestre imperfetto e

corruttibile; i corpi celesti erano infissi entro sfere e si

muovevano con moto circolare; la Terra era immobile e

collocata al centro del cosmo; l‘universo era finito; la

scienza astronomica si fondava su un impianto qualitativo

e non quantitativo. Con Copernico gran parte di questi

capisaldi dell‘astronomia vengono a cadere, così come

verrà a cadere, soprattutto con Keplero, quell‘impianto

qualitativo della fisica, sostituito da un nuovo modello

matematico. Per la verità, la concezione eliocentrica non

era nuova, essendo stata sostenuta nell‘antichità, ad

esempio da Aristarco di Samo. D‘altra parte, il sistema

elaborato da Aristotele, Eudosso e Tolomeo, pur essendo

in grado di spiegare molti dei fenomeni celesti noti

nell‘antichità e nel Medioevo, aveva lasciato irrisolti

numerosi problemi, in particolare quelli legati alle diverse

traiettorie delle stelle e dei pianeti. Le stelle si muovevano

come se fossero infisse su un‘immensa sfera ruotante; i

pianeti, invece, sembravano avere traiettorie irregolari

(Marte, ad esempio, si avvicinava alla Terra, poi

rallentava, invertiva la direzione e si allontanava). Si cercò

di spiegare queste traiettorie attraverso un complicatissimo

sistema di circonferenze (gli epicicli, il cui centro si

muoveva a sua volta su un‘altra orbita circolare (il

deferente), rispetto alla quale la Terra risultava

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leggermente eccentrica, cioè spostata rispetto al centro

geometrico, I dati osservativi raccolti nel corso dei secoli,

avevano costretto astronomi e matematici a complicare

ulteriormente il modello tolemaico, aggiungendo sfere ed

epicicli.

Copernico (1473-1543) descrive il suo sistema nell‘opera

De revolutionibus orbium caelestium. Al centro

dell‘universo sta immobile il Sole, attorno al Sole ruotano

i pianeti; la Terra è uno di questi ed essa gira anche su se

stessa, dando origine al moto apparente, attorno ad essa,

del Sole, dei pianeti, delle stelle. La Luna ruota attorno

alla Terra; infine, lontano dal Sole e dai pianeti stanno

fisse le stelle. Per Copernico dunque l‘universo era ancora

sferico, unico e chiuso dal cielo delle stelle fisse; egli

accettava inoltre il principio della perfezione dei moti

circolari uniformi delle sfere cristalline, pensate ancora

come entità reali e incorruttibili.

Tykho Brahe (1546-1601) Attraverso un grande lavoro di

osservazione mette in evidenza alcuni limiti dell‘impianto

aristotelico-tolemaico, ancora presenti nel sistema

copernicano. Descrivendo, ad esempio, l‘orbita di una

grande cometa, l‘astronomo stabilisce che essa interseca

quella dei pianeti, eliminando così la possibilità che

esistano delle sfere cristalline. La cometa osservata

possiede, inoltre, un‘orbita ovale: ciò esclude, quindi, la

circolarità dei moti celesti. Per superare queste difficoltà,

Brahe elabora un modello astronomico che si colloca in

una posizione intermedia fra quelli di Tolomeo e di

Copernico: la Terra è al centro dell‘universo, soggetta al

solo movimento rotatorio e non alla rivoluzione annua:il

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141

Sole le ruota intorno e gli altri pianeti ruotano intorno al

Sole. La soluzione presenta il duplice vantaggio di

soddisfare le autorità religiose (mantenendo la centralità

della Terra) e gli scienziati (sostenendo il moto dei

pianeti).

Keplero (1571-1630), pur accettando il sistema

eliocentrico, è consapevole delle difficoltà e dei limiti

riscontrabili nel modello copernicano. Dalla sua

ispirazione platonica e pitagorica Keplero deriva

l‘esigenza di formulare leggi rigorose capaci di dare

ragione del funzionamento del cosmo e di evidenziarne la

struttura essenzialmente matematica. Giunge così alla

elaborazione di tre leggi: 1. le orbite dei pianeti sono

ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi; 2. nel moto di

ogni pianeta il raggio vettore descrive aree uguali in tempi

uguali; 3. i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti

sono proporzionali ai cubi della loro distanza media dal

Sole. Con l‘introduzione delle orbite ellittiche Keplero

riesce a prevedere la posizione dei pianeti e a far

coincidere le previsioni con le osservazioni. Con la

seconda legge egli stabilisce che, essendo le orbite

ellittiche e non circolari, la velocità di un pianeta non può

essere uniforme, ma è maggiore quando esso è più vicino

al Sole (si trova cioè nel perielio) e minore quando è più

lontano.

La rivoluzione scientifica

Dalla rivoluzione scientifica in genere e dalla metodologia

galileiana in particolare emerge: 1) la concezione della

natura come ordine oggettivo e causalmente strutturato di

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142

relazioni governate da leggi; 2) la concezione della scienza

come sapere sperimentale, matematico e valido

intersoggettivamente, che ha come scopo la conoscenza

progressiva del mondo e il suo dominio a vantaggio

dell‘uomo (da qui lo sviluppo della tecnica e della

tecnologia). La natura è un ordine oggettivo perché non si

riferisce a fini umani. Solo escludendo il punto di vista

antropologico dalla natura risulta possibile studiare

oggettivamente la realtà. La natura è un ordine causale,

intendendo per causalità un rapporto costante ed univoco

fra due o più fatti, dei quali dato l‘uno è dato anche l‘altro.

L‘unico tipo di causa ammessa è quella efficiente: alla

scienza non interessa il perché finale o lo scopo dei fatti,

ma solo le loro cause efficienti cioè le forze che li

producono. La natura è un insieme di relazioni perché il

ricercatore indaga le relazioni causali riconoscibili che

legano i fatti. I fatti sono governati da leggi, che

rappresentano i modi necessari o i principi invarianti (i

codici) con cui pera la natura. La scienza è un sapere

sperimentale perché si fonda sull‘osservazione dei fatti e

le sue ipotesi vengono giustificate su base empirica e non

puramente teorica o razionale. L‘esperienza di cui parla la

scienza è una costruzione complessa, su basi matematiche,

che mette capo all‘esperimento, ad una procedura

appositamente costruita per la verifica delle ipotesi. La

scienza è un sapere matematico che si fonda sul calcolo e

sulla misura: la quantificazione è una delle condizioni

imprescindibili dello studio della natura. La scienza è un

sapere intersoggettivo perché i suoi procedimenti vogliono

essere pubblici, cioè accessibili a tutti, e le sue scoperte

pretendono di essere valide, ossia controllabili, da

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Storia della filosofia Paolo Rebaudo ________________________________________________________________________________________________________

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chiunque. In tal senso essa vuole distinguersi dalla magia e

dalle scienze occulte che considerano la conoscenza un

patrimonio di una cerchia ristretta di individui. La scienza

ha come fine la conoscenza oggettiva del mondo e delle

sue leggi. Conoscere le leggi naturali vuol dire poter

controllare e dirigere a nostro vantaggio la natura. In tal

modo si profila quella alleanza tra tecnici e scienziati che

porta al superamento dell‘abisso tra scienza pura e le sue

applicazioni pratiche. D‘ora in poi la scienza apparirà

come il prototipo del sapere rigoroso e universale. Sul

piano pratico, la scienza apparirà come socialmente utile,

capace di migliorare le condizioni dell‘uomo. L‘idea della

scienza come sapere vero ed utile sarà alla base,

nell‘Illuminismo, della lotta contro l‘ignoranza, la

superstizione e le ingiustizie sociali.

Galileo Galilei

Autonomia della scienza e rifiuto del principio di autorità

Il primo risultato storicamente decisivo dell‘opera di

Galileo è la difesa dell‘autonomia della scienza, cioè la

salvaguardia dell‘indipendenza del nuovo sapere da ogni

ingerenza esterna. Da ciò la sua lotta, che riguardò

sostanzialmente due fronti: l‘autorità religiosa,

personificata dalla Chiesa, e l‘autorità culturale,

personificata dagli aristotelici.

La polemica contro la Chiesa

La Controriforma aveva stabilito che ogni forma di sapere

dovesse essere in armonia con la Sacra Scrittura, nella

precisa interpretazione che ne aveva fornito la Chiesa

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cattolica. Il cardinal Bellarmino, sosteneva che il negare

certi dati di fatto delle Scritture, pur non intaccando i

fondamenti della fede, invalidasse la verità della Bibbia,

che essendo scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo,

non poteva che essere vera in tutte le sue affermazioni.

Galileo, scienziato e uomo di fede, pensa invece che una

posizione del genere avrebbe ostacolato il libero sviluppo

del sapere e danneggiato la religione stessa, che

rimanendo ancorata a tesi dichiarate false dal progresso

scientifico, avrebbe inevitabilmente finito per squalificarsi

dinanzi agli occhi dei credenti. Di conseguenza, nelle

cosiddette lettere copernicane (una inviata a don

Benedetto Castelli, due a monsignor Dini e una a madama

Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana) Galileo

affronta il problema dei rapporti fra scienza e fede. La

natura (oggetto della scienza) e la Bibbia (base della

religione) derivano entrambe da Dio. Come tali, esse non

possono contraddirsi fra di loro. Eventuali contrasti fra

verità scientifica e religiosa sono quindi soltanto apparenti

e vanno risolti rivedendo l‘interpretazione della Bibbia,

dato che le Scritture hanno dovuto accomodarsi alle

capacità dei popoli rozzi ed usare quindi un linguaggio

antropomorfico e popolare, mentre la Natura e le sue leggi

seguono un corso inesorabile ed immutabile, senza doversi

piegare alle esigenze umane; la Bibbia non contiene

principi che riguardano le leggi di natura, ma verità che

riguardano il destino ultimo dell‘uomo, premendo ad essa

d‘insegnarci ―come si vadia, e non come vadia il cielo‖

(Lettera a Madama Cristina). In conclusione, se la Bibbia

è arbitra nel campo etico-religioso, la scienza è arbitra nel

campo naturale, in relazione alle quali non è la scienza che

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145

deve adattarsi alla Bibbia, ma l‘interpretazione della

Bibbia che deve adattarsi alla scienza.

La polemica contro gli aristotelici

Indipendente dall‘autorità religiosa della Bibbia, la scienza

deve esserlo altrettanto nei confronti di quella culturale di

Aristotele e del passato. Galileo mostra grande stima per

lui e per gli altri scienziati antichi, ritenendoli uomini

amanti della verità e della ricerca. Il suo disprezzo

colpisce piuttosto gli aristotelici contemporanei, che

anziché osservare direttamente la natura e conformare ad

essa le loro opinioni, si limitano a consultare i testi delle

biblioteche, vivendo in un astratto mondo di carta, con la

convinzione che il mondo sta come scrisse Aristotile e non

come vuole la natura. Ma se il filosofo greco tornasse al

mondo, sostiene Galileo, egli riconoscerebbe lui come suo

genuino discepolo e si mostrerebbe certo disposto a

cambiare le proprie idee, in armonia con le nuove

scoperte. Invece gli aristotelici continuano ad offrire il

triste spettacolo di un dogmatismo antiscientifico che

ostacola l‘avanzamento del sapere. Emblematico, a questo

proposito, il racconto di uno dei personaggi del Dialogo,

che avendo potuto osservare insieme ad altri, in casa di un

medico, che in un cadavere umano i nervi partono dal

cervello e non dal cuore, secondo quanto scrive Aristotele,

ebbe occasione di sentir fare da un uomo ch‘egli

conosceva per filosofo peripatetico un discorso di questo

tipo: Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta

e sensata, che quando il testo d‘Aristotele non fusse in

contrario, che apertamente dice i nervi nascer dal cuore,

bisognerebbe per forza confessarla per vera.

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146

Il metodo della scienza

Un altro risultato storicamente decisivo dell‘opera di

Galileo, padre della scienza moderna, è l‘elaborazione del

metodo della fisica, anche se, in Galileo, non vi è una

teoria sistematica del metodo, ma piuttosto una serie di

applicazioni concrete nei campi dalla fisica e

dell‘astronomia. Tuttavia Galileo tende ad articolare il

lavoro della scienza in due parti fondamentali: il momento

risolutivo o analitico e quello compositivo o sintetico. Il

primo consiste nel risolvere un fenomeno complesso nei

suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili,

formulando un‘ipotesi matematica sulla legge da cui

dipende. Il secondo momento risiede nella verifica e

nell‘esperimento, attraverso cui si tenta di comporre o

riprodurre artificialmente il fenomeno, in modo tale che se

l‘ipotesi supera la prova, risultando quindi verificata, essa

venga accettata e formulata in termini di legge.

Sensate esperienze e necessarie dimostrazioni

Nella lettera a Cristina di Lorena Galileo scrive: ―pare che

quello degli effetti naturali che a sensata esperienza ci

pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci

concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in

dubbio‖. Questo passo è altamente significativo, poiché in

esso Galileo ha messo il cuore stesso del suo metodo e la

strada effettivamente seguita nelle sue scoperte. Con

l‘espressione ―sensate esperienze‖ (esperienze dei sensi),

con primario riferimento alla vista, Galileo ha voluto

evidenziare il momento osservativo della scienza,

fondamentale in talune scoperte (come quelle relative ai

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147

corpi celesti). Infatti, in certi casi, la scienza galileiana,

attraverso un‘attenta ricognizione dei fatti e dei casi

particolari induce, sulla base dell‘osservazione, una legge

generale (ad esempio quella relativa alle fasi di Venere). È

questo il momento più noto del metodo scientifico,

denominato appunto sperimentale. Con l‘espressione

―necessarie dimostrazioni‖ Galileo ha voluto evidenziare il

momento teorico o deduttivo della scienza, fondamentale

in altre scoperte (ad esempio quella sul principio d‘inerzia

o sulla caduta dei gravi). Le necessarie dimostrazioni, o

matematiche dimostrazioni, sono i ragionamenti logici.

condotti su base matematica, attraverso cui il ricercatore,

partendo da una intuizione di base e procedendo per una

―supposizione‖ formula in teoria le sue ipotesi,

riservandosi di verificarle nella pratica. Tipica, in questo

senso, è la via seguita da Galileo nell‘intuizione teorica del

principio di inerzia. Immaginiamo — scrive Galileo —

una superficie ―piana, pulitissima come uno specchio e di

materia dura come l‘acciaio, e che fusse non parallela

all‘orizzonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa

voi poneste una palla perfettamente sferica e di materia

grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo‖. Anche

senza fare l‘esperimento concreto, argomenta Galileo.

sappiamo che si muoverà lungo la superficie. E se

ipotizziamo mentalmente che sia tolta anche l‘azione

frenante dell‘aria e di altri possibili ―impedimenti esterni

―, come pensiamo si comporterà? Ovviamente ‗ella

continuerebbe a muoversi all‘infinito, se tanto durasse la

inclinazione del piano e con movimento accelerato

continuamente; ché tale è la natura dei mobili gravi, che

acquistano forza muovendosi, che quanto maggior fusse la

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declività, maggior sarebbe la velocità‖. Sostituendo poi la

superficie inclinata con una orizzontale, si potrà anche

dedurre che la medesima palla ―perfettissimamente

rotonda‖, se fosse spinta sul medesimo piano

continuerebbe indefinitamente il suo moto, ammesso che

lo spazio ―fosse interminato‖ e che non intervenisse una

forza esterna ‘a variarne o arrestarne il moto. Procedendo

teoricamente e giustificando tramite un esperimento

―ideale‖ una propria intuizione, Galileo è quindi pervenuto

ad una basilare scoperta fisica,

Induzione e deduzione

La compresenza, nella visione metodologica di Galileo,

delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni

ha fatto sì che Galileo sia stato presentato talora come un

sostanziale ―induttivista‖, cioè come un ricercatore che

dall‘osservazione instancabile dei fatti naturali perviene a

scoprire le leggi che regolano i fenomeni; oppure, al

contrario, come un convinto deduttivista‖, più fiducioso

nelle capacità della ragione che in quelle

dell‘osservazione. Galileo non è solo, o prevalentemente,

induttivista, né solo, o prevalentemente, deduttivista,

poiché è tutte e due le cose insieme. Innanzitutto le sensate

esperienze presuppongono sempre un riferimento alle

necessarie dimostrazioni, in quanto vengono rielaborate in

un contesto matematico-razionale e quindi spogliate dei

loro caratteri qualitativi e ridotte alla loro struttura

puramente quantitativa. In secondo luogo esse, sin

dall‘inizio, sono ‗cariche di teoria‘, in quanto illuminate da

un‘ipotesi che le sceglie e le seleziona, fungendo, nei loro

confronti, da freccia indicatrice e setaccio discriminatore,

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Galileo scoprì ignoti fenomeni astronomici basandosi sul

senso della vista, potenziata dal telescopio, ma la

decisione stessa di studiare i cieli e di puntare il

cannocchiale su determinati fenomeni deriva dalla iniziale

accettazione dell‘ipotesi copernicana.

Presupposti filosofici del metodo

Galileo, pur non essendo un filosofo e pur non avendo mai

proceduto ad una fondazione sistematica del proprio

metodo, si è ispirato, in concreto, ad alcune idee generali,

di tipo filosofico, attinte dalla tradizione o da dottrine

contemporanee, ma originalmente rielaborate ed

atteggiate. La fiducia galileiana nella matematica, ad

esempio, richiama la dottrina platonico-pitagorica della

struttura matematica del cosmo: ―La filosofia è scritta in

questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto

innanzi agli occhi (io dico l‘Universo), ma non si può

intendere se prima non s‘impara a intender la lingua, e

conoscer i caratteri ne‘ quali è scritto. Egli è scritto in

lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed

altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile

a intenderne umanamente parola; senza questi è un

aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto‖.

La credenza nella validità del rapporto causale e delle

leggi generali scoperte dalla scienza, basate sul principio

che a cause simili corrispondano necessariamente effetti

simili, viene suggerita e avvalorata dalla persuasione

dell‘uniformità dell‘ordine naturale.

La fiducia nella verità assoluta della scienza viene

confortata mediante la teoria secondo cui la conoscenza

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umana, pur differendo da quella divina per il modo di

apprendere e per l‘estensione di nozioni possedute, risulta

simile per il grado di certezza. Infatti, mentre Dio conosce

intuitivamente, cioè in modo immediato, la verità, l‘uomo

la conquista progressivamente attraverso il ragionamento

discorsivo. Inoltre Dio conosce tutte le infinite vendi,

mentre l‘uomo solo alcune di esse. Tuttavia, per quanto

riguarda le dimostrazioni matematiche, la della certezza è

identica (in quanto, ad esempio, 2 + 2 = 4 sia per noi che

per Dio). Non c‘è una conoscenza dell‘assoluto, ma ci

sono bensì conoscenze assolutamente certe.

F. Bacone (1561-1620)

Francis Bacon, italianizzato in Francesco Bacone (Londra,

1561–1626) è stato oltre che un filosofo anche uomo

politico.

Il profeta della tecnica

Se Galilei ha chiarito il metodo della ricerca scientifica,

Bacone ha concepito la scienza essenzialmente diretta a

realizzare il dominio dell‘uomo sulla natura. Dunque può

dirsi il filosofo e il profeta della tecnica, poiché voleva

rendere la scienza attiva e operante al servizio dell‘uomo,

al servizio di una tecnica che doveva dare all‘uomo il

dominio di ogni parte del mondo naturale. Quando nella

Nuova Atlantide, ricorrendo al pretesto della descrizione di

un‘isola sconosciuta, immagina una società ideale, pensa a

un paradiso della tecnica dove vengono realizzate le più

grandi invenzioni. E difatti in questo scritto (rimasto

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incompiuto) l‘isola della Nuova Atlantide è descritta come

un enorme laboratorio sperimentale, nel quale gli abitanti

cercano di conoscere tutte le forze nascoste della natura

per estendere i confini dell‘impero umano ad ogni cosa

possibile. I numi tutelari dell‘isola sono i grandi inventori

di tutti i paesi; e le sacre reliquie sono gli esemplari di

tutte le più rare e grandi invenzioni. Bacone ha dedicato la

sua maggiore attività al progetto di un‘enciclopedia delle

scienze che doveva rinnovare completamente la ricerca

scientifica. Il piano grandioso di questa enciclopedia ci è

dato nello scritto Sulla dignità e sull’accrescimento delle

scienze pubblicato nel 1623 e comprende: le scienze che si

fondano sulla memoria; quelle che si fondano sulla

fantasia; e quelle che si fondano sulla ragione. Di tutte

queste scienze egli avrebbe dovuto dare le direttive nella

sua Instauratio magna. Di questo vasto progetto Bacone

ha realizzato adeguatamente soltanto il Nuovo Organo.

La nuova logica della scienza

Il Nuovo Organo è una logica del procedimento tecnico-

scientifico che viene polemicamente contrapposta alla

logica aristotelica, ritenuta adatta soltanto alle dispute

verbali. Con la vecchia logica si espugna l‘avversario, con

la nuova si espugna la natura. Questa espugnazione della

natura è il compito fondamentale della scienza. La scienza

è posta così interamente al servizio dell‘uomo; e l‘uomo,

ministro e interprete della natura, tanto opera e intende,

quanto dell‘ordine della natura ha osservato o con

l‘esperienza o con la riflessione. La scienza e la potenza

umana coincidono: l‘ignoranza della causa rende

impossibile conseguire l‘effetto. Non si vince la natura se

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non obbedendole. Ma i sensi soltanto non bastano a fornire

una guida sicura, solo gli esperimenti forniscono responsi

certi. L‘esperimento rappresenta per Bacone ―il connubio

della mente e dell‘universo‖, dal quale egli si attende una

prole numerosa di invenzioni e gli strumenti atti a domare

e a mitigare almeno in parte la necessità. e le miserie degli

uomini. Ma l‘unione tra la mente e l‘universo non si può

celebrare finché la mente rimane irretita in errori e

pregiudizi che le impediscano di interpretare la natura.

Bacone oppone l‘interpretazione della natura

all‘anticipazione della natura. L‘anticipazione della natura

prescinde dall‘esperimento e passa immediatamente dalle

cose particolari sensibili ad assiomi generali.

L‘interpretazione della natura utilizza un metodo graduale

che va dai sensi e dalle cose particolari agli assiomi. Il

primo libro del Novum Organum è diretto a purificare

l‘intelletto da una serie di pregiudizi (idòla) e stabilisce

una triplice critica: critica delle filosofie e critica della

ragione umana naturale, rispettivamente dirette ad

eliminare i pregiudizi che si sono radicati nella mente

umana o attraverso dottrine filosofiche attraverso

dimostrazioni desunte da principi errati o per la natura

stessa dell‘intelletto umano. Le anticipazioni che si

radicano nella stessa natura umana sono quelle che Bacone

chiama idòla tribus e idòla specus: gli idòla tribus sono

comuni a tutti gli uomini, gli idola specus sono propri di

ciascun individuo. L‘intelletto umano è portato a supporre

nella natura un‘armonia molto maggiore di quella che c‘è.

Inoltre è impaziente, vuol procedere sempre al di là di ciò

che gli è dato, e pretende che la natura si adatti alle sue

esigenze, respingendo così di essa ciò che non gli

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conviene. Tutte queste disposizioni naturali sono fonti di

idòla tribus; e la principale fonte di tali idòla è poi

l‘insufficienza dei sensi ai quali sfuggono tutte le forze

nascoste della natura. Gli idòla specus invece dipendono

dall‘educazione, dalle abitudini e dai casi fortuiti in cui

ciascuno viene a trovarsi. E così in generale ogni uomo ha

le sue propensioni per gli antichi o per i moderni, per il

vecchio o per il nuovo, per ciò che è semplice o per ciò

che è complesso, per le somiglianze o per le differenze; e

tutte queste propensioni sono fonti di idòla specus, quasi

che ogni uomo avesse nel suo interno una spelonca o

caverna (= specus) che rifrange e distorce il lume della

natura. Oltre queste due specie naturali di idoli, ci sono

quelli avventizi o provenienti dal di fuori: idòla fori e idòla

theatri. Gli idoli della piazza derivano dal linguaggio. Gli

uomini credono d‘imporre la loro ragione alle parole: ma

accade anche che le parole nascondano errori. Gli idoli che

derivano dalle parole sono di due specie: o sono nomi di

cose che non esistono o sono nomi di cose che esistono ma

confusi e male determinati. Della prima specie sono i nomi

di fortuna, primo mobile, elemento del fuoco, e simili che

hanno origine da false teorie. Alla seconda specie

appartengono, per esempio. la parola umido, che indica

cose diversissime, le parole che indicano qualità come

grave, leggero, poroso, denso ecc. Tali sono gli idòla fori,

così detti perché generati da quelle convenzioni umane che

sono rese necessarie dai rapporti tra uomo e uomo.

L‘ultimo genere di pregiudizi è quello degli idòla theatri

che derivano dalle dottrine filosofiche del passato o da

dimostrazioni errate. Bacone li chiama così perché

paragona i sistemi filosofici del passato a favole, che sono

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come mondi fittizi o scene di teatro. Le dottrine

filosofiche, e quindi gli idola theatri, sono moltissime e

Bacone non se ne propone la confutazione particolare. Fra

le cause che impediscono agli uomini di liberarsi dagli

idoli e di procedere nella conoscenza effettiva della natura,

Bacone pone in primo luogo la sudditanza nei confronti

della sapienza antica. Al contrario, dovremmo aspettarci

dall‘età nostra molte più verità che dagli antichi tempi,

perché essa è stata arricchita nel corso del tempo da

infiniti esperimenti ed osservazioni. La verità, scrive

Bacone, è figlia del tempo non dell‘autorità.

Il metodo induttivo

La ricerca scientifica non si fonda né soltanto sui sensi né

soltanto sull‘intelletto. Se l‘intelletto per suo conto non

produce che nozioni arbitrarie e infeconde e se i sensi

dall‘altro lato non danno che indicazioni inconcludenti, la

scienza non potrà costituirsi come conoscenza vera e

feconda di risultati se non in quanto imporr. all‘esperienza

sensibile la disciplina dell‘intelletto e all‘intelletto la

disciplina dell‘esperienza sensibile. Il procedimento che

realizza questa esigenza è, secondo Bacone, quello

dell‘induzione. Bacone si preoccupa di distinguere

nettamente la sua induzione da quella aristotelica.

L‘induzione aristotelica, cioè l‘induzione puramente

logica che non morde sulla realtà, è un‘induzione per

semplice numerazione dei casi particolari. Invece

l‘induzione che è utile all‘invenzione e alla dimostrazione

delle scienze e delle arti si fonda sulla scelta e

sull‘eliminazione dei casi particolari: scelta ed

eliminazione ripetute successivamente più volte sotto il

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controllo dell‘esperimento, fino a giungere alla

determinazione della vera legge del fenomeno. Questa

induzione procede quindi senza salti e per gradi: risale

cioè gradualmente dai fatti particolari a principi più

generali e solo da ultimo giunge agli assiomi

generalissimi. A questo fine servono le tavole, che sono

coordinazioni delle istanze, cioè dei particolari aspetti di

un fatto. Le tavole di presenza saranno la raccolta dei casi

nei quali un determinato fenomeno (ad es. il calore) si

presenta ugualmente benché in circostanze diverse (ad es,

le fiamme, i raggi solari, i fulmini). Le tavole di assenza

raccolgono i casi in cui lo stesso fenomeno non si

presenta, pur verificandosi condizioni e circostanze vicine

o simili a quelle notate nelle tavole di presenza (ad es. la

luce della luna. delle stelle). Le tavole dei gradi o

comparative sono quelle che raccolgono i casi in cui il

fenomeno si presenta nei suoi gradi decrescenti. Sulla

scorta delle precedenti tavole si possono poi formare delle

tavole esclusive che escludono il verificarsi del fenomeno,

Le tavole approntano l‘intero materiale della ricerca e

consentono di formulare una prima ipotesi (vindemiatio

prima) intorno alla natura del fenomeno studiato.

Quest‘ipotesi è un‘ipotesi di lavoro, che guida l‘ulteriore

sviluppo della ricerca. L‘induzione in successivi

esperimenti che Bacone chiama istanze prerogative. Di tali

istanze egli enumera molte specie. Quella decisiva è

l‘istanza crucis cui nome Bacone deriva dalle croci che

sono erette nei bivi per indicare la ne delle vie. Il valore di

questa istanza consiste in questo, che, quando si è in ‗Sulla

causa del fenomeno studiato per i suoi rapporti con molti

altri fenomeni, cruciale dimostra la sua connessione

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necessaria con uno dei fenomeni; e perciò consente di

riconoscere la causa vera del fenomeno. Per quanto

concerne il calore, dopo aver escluso che la causa di esso

sia la quella lunare, ad es., è fredda) o la tenuità (ad es.

sono caldi non soltanto i corpi come l‘aria, ma anche

quelli densi, come l‘oro), si può ipotizzare che la causa del

risieda nel movimento delle parti minime di un corpo.

Movimento che si verifica quando il caldo è presente,

manca quando è assente, aumenta o diminuisce a seconda

della maggiore o minore intensità. Se questa ipotesi supera

l‘istanza cruciale si può ritenere giusta

La teoria delle forme e i limiti del metodo baconiano

L‘intero processo dell‘induzione tende, secondo Bacone, a

stabilire la causa delle cose naturali. E questa causa è la

forma. Egli accetta la distinzione aristotelica delle quattro

cause: materiale, formale, efficiente e finale. Ma elimina

subito la causa finale come quella che nuoce alla scienza

più che giovarle. Delle altre cause aristoteliche Bacone

ritiene che l‘efficiente e la materiale siano superficiali ed

inutili per la scienza vera. Rimane la forma, che Bacone ha

la pretesa di intendere in modo molto diverso da

Aristotele. E che cosa egli intenda veramente per forma è

il più difficile problema della critica baconiana. Per

intendere il significato della forma è necessaria

un‘osservazione preliminare. Bacone distingue in ogni

fenomeno naturale due aspetti diversi: 1° lo schematismo

latente, cioè la struttura o l‘ordine intrinseco dei corpi

considerati staticamente; 2° il processo latente, cioè il

movimento intrinseco dei corpi stessi, che li porta alla

realizzazione della forma.

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Bacone ha esercitato una scarsa influenza sugli sviluppi

teorici della scienza, la. quale è stata interamente dominata

dalle intuizioni metodologiche di Leonardo, Keplero e

Galilei, ma ha pressoché ignorato lo sperimentalismo

baconiano. E in realtà lo sperimentalismo scientifico non

poteva essere innestato sull‘aristotelismo; e la teoria

dell‘induzione baconiana doveva fallire in questo

tentativo. Lo sperimentalismo scientifico aveva gi trovato

la sua logica e con essa la sua capacità di sistemazione,

Questa logica era, come si è visto, la matematica. È

significativo come nell‘induzione baconiana non trovi

posto la matematica. Bacone si preoccupò bensì di situare

la matematica nella sua enciclopedia delle scienze,

aggregandola talvolta alla metafisica, talvolta alla fisica;

ma non riconobbe alla matematica stessa nessuna funzione

efficace nella ricerca scientifica, ed affermò anzi

esplicitamente che essa è al termine della filosofia

naturale, ma non la deve generare né procreare‘. Anzi

nello stesso luogo ritiene che la matematica sia causa di

corruzione della filosofia naturale; e altrove dice che

l‘astronomia è stata annoverata tra le matematiche non

senza scapito della sua dignità. La grandezza di Bacone

consiste piuttosto nell‘aver riconosciuto la stretta

connessione tra la scienza e la potenza umana.

Isaac Newton (1643-1727)

Già Copernico aveva riconosciuto la gravità come una

forza che attrae tra loro i corpi celesti. Huygens aveva dato

la formula della forza centrifuga e aveva formulato la

prima teoria ondulatoria della luce. L‘italiano Giovanni

Alfonso Borelli aveva già osservato nel 1666 che, per

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mantenere i pianeti nelle loro orbite, deve corrispondere

alla forza centrifuga un‘altra forza, centripeta o attrattiva.

Nel 1682 il francese Picard, in una seduta della Royal

Society di Londra, fornì l‘esatta misura del raggio della

Terra. Newton fece i suoi calcoli e trovò allora la

conferma definitiva della sua legge. Solo dopo questa

conferma egli si decise a comunicare al mondo la sua

scoperta, dapprima con le Proposizioni sul moto (1684) e

poi nel suo capolavoro, i Principi matematici della

filosofia naturale (1687). La sua legge della gravitazione

universale sostiene che i corpi si attraggono

proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione

inversa del quadrato delle distanze. La teoria della

gravitazione di Newton si fonda sulle leggi di Keplero ma

essa permette di correggere quelle leggi stesse: vi sarà

infatti attrazione non solo tra il Sole e i pianeti e tra pianeti

e satelliti, ma anche tra i pianeti stessi. Newton poté così

riconoscere che la Terra non descrive intorno al sole

un‘ellisse, ma una curva più complicata, una ellisse

perturbata dalla azione degli altri pianeti che le sono

intorno. La dottrina di Newton non riesce tuttavia a

spiegare il fatto che il pianeta abbia una velocità iniziale.

Da dove gli deriva questa velocità? Newton ammette qui

come causa l‘atto creativo di Dio, che avrebbe comunicato

ai corpi celesti l‘impulso iniziale. Nel campo della

dinamica, Newton ha distinto la massa dal peso: la massa

è la quantità di materia che non cambia mai, mentre il peso

è una forza che varia a seconda della luogo dove il corpo

si trova. Per primo, Newton ha enunciato inoltre il

principio secondo cui ad ogni azione segue una reazione

uguale e contraria. Ha così stabilito i tre principi

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fondamentali della dinamica: il principio di inerzia; quello

della proporzionalità tra la forza e l‘accelerazione; quello

di azione e reazione. Alla meccanica di Newton è

fondamentale il principio del moto assoluto, che suppone a

sua volta quello di uno spazio e di un tempo assoluti.

Infine, per quanto riguarda la luce, egli sostenne la teoria

corpuscolare della luce (si ricordi che tali concetti saranno

messi in crisi solo con la teoria della relatività di Einstein).

L‘ideale di Newton è quello di una scienza puramente

descrittiva (hypotheses non fingo, non invento ipotesi).

Egli afferma che vi sono quattro regole del metodo

scientifico: 1) si devono ammettere solo quelle cause che

sono necessarie per spiegare i fenomeni, poiché la natura

non fa nulla invano; 2) effetti dello stesso genere devono

sempre essere attribuiti alla stessa causa; 3) le qualità che

appartengono ai corpi di cui si può fare esperienza

possono essere considerate come appartenenti a tutti i

corpi in generale: è il principio della induzione scientifica;

4) le proposizioni raggiunte mediante induzioni devono

essere considerate vere fino al momento in cui altri

fenomeni le confermino interamente.

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160

CAPITOLO 10

Razionalismo ed empirismo

Il razionalismo

E‘ una corrente filosofica basata sulla tesi che la ragione

umana può in principio essere la fonte di ogni conoscenza,

ovvero attingere ad essa attraverso l'esperienza razionale

dei propri strumenti di indagine e comprensione. Trasse

origine dal pensiero di Cartesio e si diffuse nel corso del

XVII e XVIII secolo in Europa, mentre in Gran Bretagna

si affermava l'empirismo, secondo il quale tutte le idee

sorgono in noi attraverso l'esperienza e dunque la

conoscenza ha origini essenzialmente empiriche. La

distinzione tra le due correnti è tuttavia una ricostruzione

successiva, ed inoltre non è così netta, visto che i più

importanti filosofi razionalisti concordavano

sull'importanza della scienza empirica. Il razionalismo in

particolare considera la ragione umana innata e

indipendente dall'esperienza, immutabile ed identica in

ogni essere umano, ma tanto da essere così alla portata

dell'individuo capace di riconoscere in sé le proprie

facoltà. In genere i filosofi razionalisti sostenevano che,

partendo da principi fondamentali, individuabili

intuitivamente, come gli assiomi della geometria, si possa

arrivare tramite un processo deduttivo a tutto il resto della

conoscenza.

I filosofi che espressero con maggior chiarezza questo

pensiero furono Spinoza e Leibniz, i cui tentativi di

risolvere i problemi epistemologici e metafisici posti da

Cartesio, condussero allo sviluppo del razionalismo.

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Entrambi pensavano che in principio tutta la conoscenza,

compresa la conoscenza scientifica, potesse essere

raggiunta mediante il solo uso della ragione, sebbene

accettassero in pratica questo non fosse concretamente

possibile per gli esseri umani, ad eccezione che in campi

specifici come la matematica. Cartesio fu d'altro canto più

vicino a Platone, pensando che solamente la conoscenza

delle verità eterne, che comprendeva le verità della

matematica e le basi epistemologiche e metafisiche delle

altre scienze, potesse essere raggiunta dalla sola ragione.

Le altre conoscenze richiedevano invece l'esperienza del

mondo, aiutata dal metodo scientifico. Sarebbe

probabilmente corretto dunque affermare che Cartesio sia

stato razionalista riguardo alla metafisica ed empirista

riguardo ai campi del sapere scientifico.

L'Empirismo

L'Empirismo è la corrente che si sviluppa tra Seicento e

Settecento in ambito anglosassone, che si caratterizza con

la teoria della ragione vista come un insieme di poteri

limitati dall'esperienza intendendo quest'ultima, come

fonte e origine del processo conoscitivo e come criterio di

verità o strumento di certificazione delle tesi dell'intelletto,

che risultano adeguate e certe solo se passibili di controllo

empirico. Se il primo punto del pensiero di questo

movimento filosofico definisce la negazione di ogni

conoscenza o principio innato (Locke), il secondo aspetto

può definirsi sicuramente il più determinante

dell'empirismo moderno, espresso compiutamente

soprattutto da Hume. David Hume vuole costruire una

scienza della natura umana, a partire da una concezione

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empirista della conoscenza. Egli distingue le percezioni in

due classi: le impressioni, percezioni vivide, forti,

immediate, e le idee, percezioni illanguidite e meno

chiare. Le impressioni costituiscono il confine invalicabile

della conoscenza. Le idee sono collegate mediante un

principio di associazione, basato sulla somiglianza, sulla

contiguità nel tempo e nello spazio e sulla causalità. Non

esistono idee generali, ma solo idee particolari: vi è, però,

la possibilità che, con l‘impiego di un nome comune,

vengano designate idee particolari fra loro simili. La

relazione causale tra i fenomeni si basa sulla supposizione

che ciò che abbiamo finora sperimentato si verificherà

anche in futuro. Ma la previsione e l‘attesa di un evento in

virtù del nesso causale non sono giustificabili in base alla

sola esperienza: solo l‘abitudine ci induce a supporre il

futuro conforme al passato. Quindi, il postulato

dell‘uniformità della natura ha il proprio fondamento non

sulla ragione e nemmeno sull‘esperienza, ma su una

funzione psichica non razionale. Hanno carattere di

oggettività e di certezza solo le conoscenze della

matematica, che consistono in relazioni tra idee,

indipendenti dall‘esperienza.

R. Descartes (1596-1650)

René Descartes, italianizzato in Renato Cartesio (La Haye

en Touraine, 1596 – Stoccolma, 1650) è ritenuto fondatore

della filosofia e della matematica moderna. Cartesio estese

la concezione razionalistica di una conoscenza ispirata alla

precisione e certezza delle scienze matematiche.

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Opere principali: Il mondo o Trattato sulla luce (1629-

1633); Diottrica, Meteore e Geometria (1637); Discorso

sul metodo (1637); Meditazioni metafisiche (1641); I

principi della filosofia (1644); Le passioni dell'anima

(1649).

Il metodo: la necessità di una revisione critica del sapere

Il metodo deve essere un criterio unico e semplice di

orientamento che serva all‘uomo. Questa idea viene

formulata da Cartesio nelle Regulae ad directionem

ingenii. Nel formulare le regole del metodo, Cartesio si

avvale soprattutto delle matematiche. ―Quelle lunghe

catene di ragionamenti, semplici e facili, di cui i geometri

si servono per giungere alle loro più difficili

dimostrazioni, mi dettero motivo a supporre che tutte le

cose di cui l‘uomo può avere conoscenza si seguono nello

stesso modo‖. Le scienze matematiche sono dunque già

pervenute in possesso del metodo. Ora si tratta di prendere

questo metodo, di astrarlo dalle matematiche e di

formulano in generale. per poterlo applicare a tutte le altre

branche del sapere. Si tratta anche di giustificare il metodo

stesso e la possibilità della sua universale applicazione,

riportandolo al suo fondamento ultimo, cioè all‘uomo

come soggetto o ragione. Cartesio doveva dunque: 1)

formulare le regole del metodo tenendo soprattutto

presente il procedimento matematico; 2) fondare con una

ricerca metafisica il valore assoluto di questo metodo; 3)

dimostrare la fecondità del metodo nelle varie branche del

sapere. Nel Discorso la formulazione più semplice delle

regole del metodo. Esse sono quattro: 1) Non accogliere

mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con

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evidenza. Questa era per Cartesio la regola fondamentale:

l‘evidenza, l‘intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti

del pensiero e l‘esclusione di ogni elemento sul quale il

dubbio fosse possibile. 2) Dividere ciascuna delle

difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti per

meglio risolverla. È la regola dell‘analisi per la quale un

problema viene risolto nelle parti più semplici. 3)

Condurre i miei pensieri ordinatamente, cominciando

dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per

risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle

conoscenze più complesse: supponendo che vi sia un

ordine anche tra gli oggetti che non precedono

naturalmente gli uni agli altri. È la regola della sintesi, per

la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più

complesse gradatamente. 4) Fare in ogni caso

enumerazioni così complete e revisioni così generali da

essere sicuro di non omettere nulla. L‘enumerazione offre

così il controllo delle due precedenti. Queste regole non

hanno in se stesse la loro giustificazione. Il fatto che la

matematica se ne serva con successo non costituisce una

giustificazione. Cartesio deve quindi proporsi di

giustificarle risalendo alla loro radice: l‘uomo come

soggetto pensante o ragione.

Cogito ergo sum

Bisogna sospendere l‘assenso ad ogni conoscenza

comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare

almeno provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il

dubbio è possibile. Se, persistendo in questo

atteggiamento di critica radicale, si giunge a un principio

sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà

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essere ritenuto derto e tale da poter servire di fondamento

a tutte le altre conoscenze. In questo principio si troverà la

giustificazione del metodo (dubbio metodico). Si può

dubitare delle conoscenze sensibili sia perché i sensi

qualche volta ci ingannano e quindi possono ingannarci

sempre, sia perché si hanno nei sogni conoscenze simili a

quelle che sì hanno nella veglia senza che si possa trovare

un sicuro criterio di distinzione fra le une e le altre.

Nemmeno le conoscenze matematiche (due più tre fanno

sempre cinque, sia che si dorma sia che si vegli) si

sottraggono al dubbio perché anche la loro certezza può

essere illusoria. S può sempre supporre che l‘uomo sia

stato creato da un genio o da una potenza maligna che si

sia proposta di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed

evidente ciò che è falso ed assurdo. In tal modo, il dubbio

si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale

(dubbio iperbolico). Ma proprio nel carattere radicale di

questo dubbio si presenta il principio di una prima

certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere

ingannato; ma per ingannarmi io debbo esistere. La

proposizione io esisto è dunque la sola assolutamente ver.

Tuttavia posso dire per certo soltanto: io non esisto se non

come una cosa che dubita, cioè che pensa. Le cose

pensate, immaginate, sentite ecc. possono non essere reali;

ma è reale certamente il mio pensare, sentire ecc. La

proposizione io esisto equivale dunque a quest‘altra io

sono un soggetto pensante. La mia esistenza di soggetto

pensante è certa come non lo è l‘esistenza di nessuna delle

cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco

(per esempio un pezzo di cera) non esista; ma è

impossibile che non esista io che penso di percepire

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166

quell‘oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello

stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata

ogni altra conoscenza.

Dio come giustificazione metafisica delle certezze

Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della

mia esistenza come pensante. Non sono invece sicuro se

alle mie idee corrispondono realtà effettive fuori di me.

Queste idee esistono nel mio spirito; ma esistono pure le

cose corrispondenti fuori di me? Per rispondere a questa

domanda Cartesio divide tutte le idee in tre categorie:

quelle che mi sembrano essere innate; quelle che mi

sembrano venute dal di fuori avventizie (idee di cose

naturali) e quelle formate o trovate da me stesso (fittizie),

le idee delle cose chimeriche o inventate. Per quel che

riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose

naturali, esse non contengono nulla di così perfetto che

non possa essere stato prodotto da me. Per quel che

riguarda l‘idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna,

onnisciente, onnipotente e creatrice, è difficile supporre

che possa averla creata io stesso. Difatti io sono privo

delle perfezioni che quell‘idea rappresenta; e la causa di

un‘idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta

è quella che l‘idea stessa rappresenta. La causa dell‘idea di

una sostanza infinita non posso essere io, che sono una

sostanza finita; questa causa deve essere una sostanza

infinita la quale, pertanto, deve essere ammessa come

esistente (prima prova dell‘esistenza di Dio). Cartesio

riprende anche la tradizionale prova ontologica. Non è

possibile concepire Dio come Essere perfetto senza

ammettere la sua esistenza, perché l‘esistenza è una delle

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167

sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un

triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti,

così non si può concepire un essere perfetto che non esista.

Una volta riconosciuta l‘esistenza di Dio, il criterio

dell‘evidenza trova la sua ultima garanzia. Dio, essendo

perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio. che ho

ricevuta da lui, non può essere tale da indurmi in errore, se

viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed

evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce. Ma

com‘è allora possibile l‘errore? Esso dipende, secondo

Cartesio, dal concorso di due cause, cioè dall‘intelletto e

dalla volontà, L‘intelletto umano è limitato La volontà

umana invece è libera e quindi assai più estesa

dell‘intelletto. L‘errore non ci sarebbe mai, se io dessi il

mio giudizio solo intorno a ciò che l‘intelletto mi fa

concepire con sufficiente chiarezza. Ma poiché la mia

volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e

indurmi a pronunciarmi su ciò che non è evidente

abbastanza, nasce la possibilità dell‘errore. L‘errore

dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha

dato all‘uomo e si può evitare soltanto attenendosi alle

regole del metodo e in primo luogo a quella dell‘evidenza.

L‘evidenza, fondata sull‘esistenza di Dio, consente di

eliminare il dubbio che è stato avanzato in principio sulla

realtà delle cose corporee. Io ho l‘idea di cose corporee

che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi.

Dualismo e meccanicismo

Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l‘io, si

deve ammettere, come si è visto, una sostanza corporea,

divisibile in parti, quindi estesa. Tale sostanza estesa non

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possiede però tutte le qualità che noi percepiamo di essa.

Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei e che

in realtà risale a Democrito. La grandezza, la figura, il

movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte

le determinazioni quantitative) sono certamente qualità

reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l‘odore,

il suono ecc, non esistono come tali nella realtà corporea e

corrispondono in questa realtà a qualcosa che noi non

conosciamo. Cartesio ha spezzato la realtà in due zone

distinte ed eterogenee: la res cogitans, inestesa, da un lato;

la res extensa, spaziale, inconsapevole e meccanicamente

determinata dall‘altro (= dualismo cartesiano). Ma dopo

aver diviso, Cartesio si trova di fronte al difficile problema

di spiegare il rapporto scambievole fra queste due

sostanze, rendendo intelligibile, per ciò che riguarda

l‘uomo, la relazione fra anima e corpo. Cartesio pensa di

risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale

(epifisi), concepita come la sola parte del cervello che, non

essendo doppia, può unificare le sensazioni che vengono

dagli organi di senso, che sono tutti doppi. La fisica

cartesiana, sulla base della rigorosa separazione tra res

cogitans e res extensa, poté eliminare tutti residui

finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici

che ancora infestavano la fisica agli inizi del ‗600.

Leibniz (1646-1716)

La dottrina di Lebniz si sforza di conciliare il

meccanicismo con il finalismo, la nuova scienza della

natura con i principi della metafisica. Le sue opere

principali sono De arte combinatoria, Discorso di

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metafisica, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Saggi di

teodicea e la Monadologia.

L‘ordine contingente del mondo

Il pensiero principale è questo: esiste un ordine. non

geometricamente determinato e quindi necessario, ma

spontaneamente organizzato e quindi libero. Si può dire

che il lavoro di Leibniz sia consistito nel ricercare

quest‘ordine in tutti i campi dello scibile. Per Leibniz

―nulla accade nel mondo che sia assolutamente

irregolare‖. Se qualcuno traccia una linea continua, ora

retta ora circolare, ora dall‘altra natura, è possibile trovare

una nozione o regola o equazione comune a tutti i punti di

questa linea, in virtù della quale i mutamenti stessi della

linea risultano spiegati... Così si può dire che in qualunque

modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato

sempre regolare e fornito di un ordine generale. Leibniz

presenta Dio come colui che ha scelto tra i vari ordini

possibili dell‘universo il migliore o più perfetto. La ricerca

di un‘arte combinatoria capace di stabilire l‘ordine del

sapere nel tentativo — che costituisce il nucleo più

decisivo del suo pensiero — di conciliare meccanicismo e

finalismo, scienza e metafisica. L‘esigenza dell'ordine

universale fondato sulla libertà e sul rispetto della pluralità

sta anche alla base degli ideali della pace politica e della

riconciliazione fra le chiese. L‘appello a un ordine libero e

intelligente di origine divina sta anche alla base della

distinzione fra piano filosofico (che spiega la realtà nei

suoi aspetti finalistici) e piano scientifico (che spiega la

natura nei suoi aspetti di tipo matematico e

meccanicistico).

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Verità di ragione e verità di fatto

Leibniz vuole giustificare la possibilità di un ordine

contingente. Primo aspetto di questa giustificazione è la

dimostrazione che ordine non significa necessità. La

necessità è al suo posto nel mondo della logica, non nel

mondo della realtà. Un ordine reale non è mai necessario.

Le verità di ragione sono necessarie (ad es. la proposizione

il triangolo ha tre lati) ma non riguardano la realtà. Esse

sono ―identiche‖ (nel senso che fanno che ripetere la

medesima cosa senza dire nulla di nuovo) e risultano

fondate sui principi di identità e non-contraddizione. Tutte

le verità fondate su questi principi sono necessarie ma non

dicono nulla circa la realtà esistente di fatto. Esse non

possono derivare dall‘esperienza sono quindi innate. Le

idee innate non sono chiare e distinte ma confuse; sono

piccole percezioni. L'esperienza rende attuali, cioè

pienamente chiare e distinte, quelle idee che prima erano

semplici possibilità. Ma le idee innate non potrebbero

derivare dall‘esperienza perché hanno una necessità

assoluta che le conoscenze empiriche non hanno. Le verità

di ragione delineano il mondo della pura possibilità, che è

assai più vasto ed esteso di quello della realtà.

Le verità di fatto invece sono contingenti e concernono la

realtà effettiva. Esse delimitano il dominio ristretto di

quella realtà nel campo molto più esteso del possibile.

Sono fondate invece sui principio di ragion sufficiente.

Questo principio significa che nulla si verifica senza una

ragion sufficiente, cioè senza che sia possibile, a colui che

conosca sufficientemente le cose, di dare una ragione che

basti a spiegare perché è così e non altrimenti. È il

principio proprio di quell‘ordine che Leibniz, come si è

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accennato, si è costantemente sforzato di trovare in tutti gli

aspetti dell‘universo: un ordine che non escluda, ma

includa la scelta libera. Per esempio se si chiede perché tra

tutti i mondi possibili questo solo è reale, bisognerà

trovare la ragion sufficiente della sua realtà, cioè della sua

scelta da parte di Dio. E questa ragion sufficiente sarà che

esso è il migliore di tutti i mondi possibili e che Dio nella

sua perfezione doveva fare questa scelta. Il doveva qui non

implica una necessità assoluta ma l‘atto della volontà di

Dio che ha liberamente scelto in conformità della sua

natura perfetta.

La sostanza individuale

Il principio di ragion sufficiente conduce Leibniz a

formulare il concetto centrale della sua metafisica, quello

di sostanza individuale. Una verità di ragione è quella

nella quale il soggetto e il predicato sono identici onde non

si può negare il predicato al soggetto senza contraddirsi.

Invece, nella verità di fatto, il predicato non è identico al

soggetto, tanto che può essere anche negato da esso. Il

soggetto deve però contenere la ragion sufficiente del suo

predicato. Un soggetto di questo genere è ciò che Leibniz

chiama sostanza individuale. La sua caratteristica è di

avere una nozione così compiuta da essere sufficiente a

comprendere e a farne dedurre tutti i predicati dal

soggetto. Per esempio, la nozione di Alessandro Magno

include la ragion sufficiente di tutti i predicati che si

possono dire di lui con verità, per esempio che egli vinse

Dario, fino a conoscere a priori se egli è morto di morte

naturale o di veleno. L‘uomo, che non ha mai una nozione

compiuta della sostanza individuale, è costretto a

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desumere dall‘esperienza o dalla storia gli attributi che le

si riferiscono. Ma Dio, la cui conoscenza è perfetta. è in

grado di scorgere nella nozione di ogni sostanza la ragione

sufficiente di tutti i suoi predicati.

Fisica e metafisica: la forza

La natura non costituisce un‘eccezione al carattere non

necessario dell‘ordine universale. Invece di vedere

nell‘estensione e nel movimento, che erano gli elementi

della fisica cartesiana, gli elementi originari del mondo

fisico, vide l‘elemento originario nella forza. Ciò accadde

quando si convinse che il principio affermato da Cartesio

della immutabilità della quantità di movimento era falso e

che bisognava sostituirlo col principio della conservazione

della forza o azione motrice. Ciò che rimane costante nei

corpi che si trovano in un sistema chiuso non è la quantità

di movimento ma la quantità di azione motrice forza viva

(l‘energia cinetica) la quale è pari al prodotto della massa

per il quadrato della velocità. Il concetto di forza serve a

Leibniz per oltrepassare il meccanicismo nella spiegazione

dei fenomeni naturali. Leibniz ammette che nella natura

tutto avviene meccanicamente e cioè che tutto si possa

spiegare in essa con le nozioni di figura e di movimento.

Ma nello stesso tempo ritiene che i principi stessi della

meccanica e le leggi del movimento nascano da qualcosa

di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che

dalla geometria. La forza è appunto questo superiore

principio metafisico che fonda le leggi stesse della fisica.

L‘ultimo risultato della fisica di Leibniz è la risoluzione

della realtà fisica in una realtà incorporea. L‘elemento

costitutivo della natura, riconosciuto nella forza, gli si

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rivela di natura spirituale. Il dualismo cartesiano di

sostanza estesa e di sostanza pensante viene negato

giacché nell‘universo non esiste veramente né estensione

né corporeità: tutto è spirito e vita perché tutto è forza.

Le caratteristiche della monade

L‘acquisizione del concetto di monade segna per Leibniz

la possibilità di estendere al mondo fisico il suo concetto

dell‘ordine contingente e di unificare perciò il mondo

fisico e il mondo spirituale in un ordine universale libero.

La monade è un atomo spirituale, una sostanza semplice e

quindi priva di estensione e indivisibile. Come tale, non si

può disgregare ed è eterna: soltanto Dio può crearla o

annullarla. Ogni monade è diversa dall‘altra: non vi sono

in natura due esseri perfettamente uguali. Leibniz insiste

su questo principio che egli chiama della identità degli

indiscernibili. Due cose non possono differire solo

localmente, ma c‘è sempre fra di esse una differenza

interna. Due cubi uguali esistono solo in matematica, non

in realtà. In quanto sostanze semplici e immateriali, le

monadi non possono influenzarsi a vicenda, ma sussistono

come altrettanti mondi chiusi, privi di finestre attraverso

cui qualcosa possa uscire o entrare. Di conseguenza, le

altre monadi sono presenti alla singola monade soltanto in

maniera ideale, cioè sotto forma di rappresentazione al

punto che ogni monade si configura come uno specchio

vivente dell‘universo, sia pure da uno specifico e

particolare punto di vista. Ma dire che la monade è un

centro attivo di rappresentazioni significa dire che essa è

costituita a somiglianza della nostra anima e consta di

quelle due attività fondamentali che sono la percezione e

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l‘appetizione (cioè il suo tendere da una percezione

all‘altra). Attribuire a tutte le monadi la capacità della

percezione può apparire paradossale solo a chi confonda la

vita rappresentativa con la vita cosciente, ossia il percepire

con la consapevolezza d percepire. Consapevolezza che

Leibniz denomina appercezione. e che riferisce soltanto a

quelle monadi più elevate che sono le anime in senso

stretto. C‘è una differenza fondamentale tra Dio (che è

anch‘egli una monade) e le monadi create, in quanto

queste rappresentano il mondo soltanto da un determinato

punto di vista, mentre Dio lo rappresenta da tutti i possibili

punti di vista. Le percezioni delle monadi create sono in

qualche misura confuse, simili a quelle che si hanno

quando si cade in uno deliquio o di sonno. Le monadi pure

e semplici sono quelle che posseggono soltanto percezioni

confuse mentre le monadi fornite di memoria sono quelle

che costituiscono le anime degli animali e tornite di

ragione costituiscono gli spiriti umani. Ma anche la

materia è costituita di monadi. Essa non è veramente né

sostanza corporea né sostanza spirituale ma piuttosto un

aggregato di sostanze spirituali e per questo è

infinitamente divisibile.

I rapporti tra monadi e l‘armonia prestabilita

Sul problema del rapporto tra l‘anima e il corpo Leibniz

distingue tre possibili soluzioni. Se si paragonano l‘anima

e il corpo a due orologi, il primo modo di spiegare il loro

accordo è quello di ammettere l‘influenza reciproca

dell‘uno sull‘altro; questa la dottrina della filosofia

volgare, che urta contro l‘incomunicabilità delle monadi e

l‘impossibilità di ammettere un influsso tra due sostanze

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che seguono nelle loro azioni leggi eterogenee. La seconda

maniera di spiegare l‘accordo è quella che Leibniz chiama

dell‘assistenza, e che è propria del sistema delle cause

occasionali: due orologi anche cattivi possono essere

tenuti in armonia da un abile operaio che provveda ad essi

in ogni istante. Questo sistema ha, secondo Leibniz, il

torto di introdurre un Deus ex machina in un fatto naturale

e ordinario. Non resta allora che la terza maniera, cioè di

supporre che i due orologi sono stati costruiti con tanta

arte e perfezione da essere sempre d‘accordo per il futuro.

Questa è la dottrina dell‘armonia prestabilita sostenuta da

Leibniz. Per essa l‘anima e il corpo seguono ognuno le

proprie leggi; ma l‘accordo è stato stabilito

preventivamente da Dio nell‘atto di stabilire queste leggi.

Il corpo seguendo le leggi meccaniche e l‘anima seguendo

la propria interna spontaneità sono ad ogni istante in

armonia, e questa armonia è stata prestabilita da Dio

all‘atto della creazione.

Dio e i problemi della teodicea

Concludendosi nel sistema dell‘armonia prestabilita, la

filosofia di Leibniz diventa speculazione teologica. E in

tale speculazione Leibniz accoglie i temi tradizionali della

teologia, a cominciare dalle prove dell‘esistenza di Dio,

che egli elabora.

B. Spinoza

Baruch Spinoza (1632–1677), filosofo olandese,

esponente del razionalismo del XVII secolo, precursore

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dell'Illuminismo, fu noto, in vita, per il Trattato teologico-

politico che difendeva ad oltranza la libertà di pensiero da

ogni ingerenza religiosa e statale. La sua più celebre opera

filosofica fu l'Ethica more geometrico demonstrata (Etica

dimostrata con metodo geometrico), pubblicata postuma

nel 1677, dove il suo pensiero è esposto nel modo

sistematico. Spinoza elabora un sistema del tutto

alternativo alle tradizioni religiose monoteistiche e alle

filosofie che hanno cercato di armonizzare la rivelazione

cristiana con la ragione. Nell‘Ethica propone, infatti, un

concetto di Dio inteso come assoluto, immanente

all‘universo e alle leggi necessarie e eterne che lo

costituiscono. Deus sive Natura: le due realtà, non sono

separate, ma si identificano.

Il rifiuto del dualismo cartesiano fra pensiero e estensione

è il cuore del pensiero di Spinoza. Se con la parola

sostanza si vuol designare ciò che è reale, allora né il

pensiero, né estensione sono propriamente sostanze. La

sostanza ha in se stessa il suo fondamento, è auto

sussistente e ha in sé la propria essenza. Questi requisiti

non appartengono né alla res cogitans, né alla res extensa

,che non sono dunque sostanze, ma aspetti, attributi della

sostanza. La quale poi non può che esser unica (due o più

sostanze, avendo i medesimi requisiti, non sarebbero altro

che una medesima sostanza, non essendo fra loro in alcun

modo distinte) e deve coincidere perciò con l‘essere

infinito di Dio. È Dio dunque l‘unica sostanza, l‘unica

realtà vera. Solo Dio è infatti causa sui ed è

necessariamente causa infinita. A questa infinità della

causa corrisponderanno di conseguenza effetti infiniti. La

sostanza cioè potrà concepirsi in infinite maniere, sotto

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infiniti attributi. Due di essi (a noi è impossibile

concepirne di più) sono appunto il pensiero e l‘estensione.

Superamento del dualismo cartesiano

L‘analisi della sostanza e degli attributi è condotta da

Spinoza secondo il modello dimostrativo della geometria

di Euclide (sicché l‘Ethica procede mediante definizioni,

assiomi, dimostrazioni, ecc.). Riconducendo il pensiero e

l‘estensione alla sostanza come attributi di quest‘ultima,

Spinoza supera il problema dell‘occasionalismo: non è

necessario immaginare occasionali interventi divini atti ad

accordare le due supposte sostanze (materia e spirito); se

pensiero ed estensione sono attributi di Dio, aspetti di

un‘unica sostanza, essi sono già accordati in partenza.

Identici, dice Spinoza, sono l‘ordine e la connessione delle

cose e l‘ordine e la connessione dei pensieri. Ciò che noi

ci rappresentiamo ha una corrispondenza parallela con ciò

che accade sul piano delle realtà materiali. Questi

accadimenti del pensiero e dell‘estensione Spinoza li

chiama modi. I modi sono particolarizzazioni degli

attributi (una singola idea o pensiero è un modo

dell‘attributo pensiero; un singolo corpo è un modo

dell‘attributo estensione). I modi dunque accadono

nell‘attributo, e l‘attributo accade a sua volta nella

sostanza. La sostanza stessa, Dio, non è altro che l‘ordine

e la connessione geometrica che si manifesta negli attributi

e nei modi.

Il panteismo

II concetto spinoziano di Dio differisce totalmente sia

dalla tradizione cristiana, sia da quella ebraica. Dio non è

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persona, ma l‘impersonale ordine geometrico che regge

l‘universo; Dio e l‗universo si identificano (Deus sive

natura). Se guardiamo la natura dal punto di vista

dell‘infinità della sua essenza, ci solleviamo al concetto

della natura naturans; se guardiamo l‘infinità delle sue

manifestazioni, consideriamo la natura naturata. Ma

entrambe queste facce, poi, in Dio coincidono; insieme,

esse costituiscono l‘ordine necessario del tutto, di tutto ciò

che è. L‘idea di un Dio creatore, che agisce secondo certi

fini e facendo uso di certi mezzi, non è altro, per Spinoza,

che un indebito travestimento antropomorfico del divino.

Dio non ha fini da raggiungere (il che contrasterebbe con

la perfezione della sua natura); Dio non ha bisogno di

scegliere tra necessità e libertà (in lui questi aspetti

coincidono, poiché la necessità geometrico-razionale

dell‘universo è l‘espressione della stessa infinita essenza

divina). Infine, non hanno senso, dal punto di vista di Dio

le umane valutazioni di bene e male, giusto e ingiusto:

ogni cosa è come deve essere, per la sua appartenenza alla

necessaria armonia della sostanza. Tale armonia non

abbisogna della volontà umana per attuarsi e non coincide

certo con quelli che sono i bisogni psicologici degli

uomini. Spinoza condanna dunque tutte le religioni,

considerandole superstizione o pregiudizio.

Il pensiero politico

Prima della costituzione dello Stato, vige il diritto del più

forte, ma, in questo stato, nessuno può vivere

tranquillamente e sicuro di mantenere ciò che ha. In

ragione di ciò, vengono stabilite per patto determinate

regole comuni di condotta e ciascuno rinuncia al proprio

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diritto in favore di un terzo, cui è attribuito un potere

assoluto. Se però colui che ha ricevuto il potere politico

limita eccessivamente e senza motivo la libertà dei

cittadini, egli agirà contro la finalità per cui gli è stato

conferito il potere, sarà legittima l‘opposizione da parte

dei cittadini stessi. Peraltro, uno Stato intollerante rispetto

ad ogni critica si espone facilmente al pericolo

dell‘insurrezione da parte dei sudditi e la libertà

d‘espressione è il maggiore deterrente contro

l‘insurrezione. Il benessere dei sudditi e la libertà

d‘espressione sono perciò lo strumento migliore di cui un

governante può servirsi per mantenersi al governo.

T. Hobbes (1588-1679)

La filosofia di Hobbes è legata a presupposti materialistici,

mentre quella di Cartesio è legata a una metafisica

spiritualistica. La sua opera principale è Il Leviatano che

fu pubblicato nel 1651. Nella trilogia costituita da Il

cittadino, da Il corpo e da L’uomo, espose ordinatamente

il suo sistema in tutte le sue parti.

La filosofia di Hobbes ha come scopo di porre i

fondamenti di una comunità pacifica, che egli crede

possibile soltanto sulla base del potere assoluto dello stato.

Hobbes vuoi costruire una filosofia puramente razionale,

che escluda ogni rivelazione soprannaturale, l‘autorità dei

libri e degli autori antichi e prenda la sua ispirazione

esclusivamente dai mondo della natura.

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Hobbes ha voluto costruire la sua politica sul fondamento

di principi necessari ed ha concepito questa scienza per

analogia alla geometria ossia come fondata su pochi

principi, dai quali l‘intera costruzione viene

necessariamente dedotta. Due sono i postulati certissimi

della natura umana dai quali discende l‘intera scienza

politica: 1) la tendenza naturale per la quale ognuno

pretende di godere da solo dei beni comuni; 2) la ragione

naturale per la quale ognuno rifugge dalla morte violenta

come dal peggiore dei mali naturali. Il primo punto

esclude che l‘uomo sia, come voleva Aristotele, per natura

un ―animale politico‖. Hobbes non nega che gli uomini

abbiano bisogno gli uni degli altri (i bambini hanno

bisogno dell‘aiuto altrui per vivere, gli adulti per vivere

bene): ma nega che gli uomini abbiano per natura un

istinto che li porti alla concordia reciproca. Ciò che

Hobbes nega è l‘esistenza di un amore naturale dell‘uomo

verso il suo simile, ―ogni associazione spontanea nasce o

dal bisogno reciproco o dall‘ambizione, mai dall‘amore o

dalla benevolenza verso gli altri‖. Pertanto all‘origine

delle società è solo il timore reciproco. La causa di questo

timore è, in primo luogo, l‘uguaglianza di natura fra gli

uomini per la quale tutti desiderano la stessa cosa, l‘uso

esclusivo dei beni comuni. In secondo luogo, è la volontà

naturale di danneggiarsi a vicenda o anche l‘antagonismo

che deriva dal contrasto delle opinioni e dall‘insufficienza

del bene. Il diritto di tutti su tutto comporta che lo stato di

natura sia uno stato di guerra incessante di tutti contro

tutti. In questo stato, non c‘è nulla di giusto: la nozione del

diritto e del torto, della giustizia e dell‘ingiustizia, nasce

dove c‘è una legge e la legge nasce dove c‘è un potere

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comune: dove non c‘è né legge né potere manca la

possibilità della distinzione tra il giusto e l‘ingiusto.

Ognuno ha diritto su tutto, compresa la vita degli altri.

Questo diritto non ha ovviamente nulla a che fare con la

legge di natura: la quale consiste piuttosto

nell‘eliminazione o almeno nella radicale limitazione di

esso, è un istinto naturale insopprimibile giacché ciascuno

è portato a desiderare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò

che per lui è male e soprattutto a fuggire il maggiore di

tutti i mali naturali che è la morte.

La ragione calcolatrice

Questa condizione di guerra universale non può tuttavia

realizzarsi in modo totale, perché coinciderebbe

ovviamente con la distruzione totale del genere. La

ragione umana è la capacità di prevedere, mediante un

calcolo accorto, ai bisogni e alle esigenze dell‘uomo. È la

ragione naturale quindi che suggerisce all‘uomo la norma

del vivere civile, proibendo a ciascun uomo di fare ciò che

reca la distruzione della vita o gli toglie i mezzi di evitarla

e di omettere ciò che serve a conservarla meglio. Le

norme fondamentali della legge naturale sono dirette a

sottrarre l‘uomo al gioco autodistruttivo degli istinti e a

imporgli una disciplina che gli procuri una sicurezza

almeno relativa. Di conseguenza, la prima norma è:

Cercare la pace in quanto si ha la speranza di ottenerla; e,

quando non si può ottenerla, cercare e usare tutti gli ausili

e i vantaggi della guerra. Da questa legge fondamentale

derivano le altre: l‘uomo deve rinunciare al suo diritto su

tutto e accontentarsi di avere tanta libertà rispetto agli altri

quanta egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé.

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Questa seconda legge non è che lo stesso precetto

evangelico: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse

fatto a te. Essa significa l‘abbandono o il trasferimento del

diritto illimitato su tutto e perciò consente di uscire dallo

stato di natura, cioè dalla guerra continua di tutti contro

tutti, e implica che gli uomini stringano tra loro patti con i

quali appunto rinuncino al loro diritto originario o lo

trasferiscano a persone determinate. Ma ovviamente i patti

per essere tali devono essere mantenuti: Dunque la terza

legge naturale è per l‘appunto che bisogna o, stare ai patti,

cioè osservare la parola data. Da queste leggi seguono

tutte le altre, che Hobbes condensa in una minuziosa

casistica.

Lo Stato e l‘assolutismo

L‘atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di

natura allo stato civile è quello compiuto in conformità

della seconda legge naturale: la stipulazione di un

contratto con il quale gli uomini rinunziano al diritto

illimitato dello stato di natura e lo trasferiscono ad altri.

Questo trasferimento è indispensabile affinché il contratto

possa costituire una stabile difesa per tutti. Solo se ciascun

uomo sottomette la sua volontà a un unico uomo o a una

sola assemblea e si obbliga a non fare resistenza

all‘individuo o all‘assemblea cui si è sottomesso, si ha una

stabile difesa della pace e dei patti di reciprocità in cui

essa consiste. Quando questo trasferimento è effettuato, si

ha lo Stato o società civile, detto anche persona civile

perché, includendo la volontà di tutti, si può considerare

una sola persona. Colui che rappresenta questa persona

(che può essere individuo o assemblea) è il sovrano ed ha

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potere sovrano; ogni altro è suddito. Questa è l‘origine di

quel grande Leviatano o di quel Dio mortale al quale,

dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché,

per l‘autorità conferitagli da ogni singolo uomo della

comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col

terrore, la volontà di tutti in vista della pace interna e

dell‘aiuto scambievole contro i nemici esterni. La teoria

hobbesiana dello Stato è tipica dell‘assolutismo politico ed

è caratterizzata dai seguenti punti:

1. La irreversibilità del patto fondamentale. Una volta

costituito lo Stato, i cittadini non possono dissolverlo

negando ad esso il suo consenso: il diritto dello Stato

difatti nasce dai patti dei sudditi fra loro, non da un patto

tra i sudditi e lo Stato, che potrebbe essere revocato da

parte dei primi.

2. Il potere sovrano è indivisibile nel senso che non può

essere distribuito tra poteri diversi che si limitino a

vicenda. Secondo Hobbes, questa divisione non

garantirebbe neppure la libertà dei cittadini: perché se i

poteri divisi agissero d‘accordo, questa libertà, ne

soffrirebbe e, se fossero discordi, s‘arriverebbe presto alla

guerra civile.

3. Appartiene allo Stato, e non ai cittadini, il giudizio sul

bene e sul male. La regola che consente di distinguere tra

bene e male, tra giusto e ingiusto ecc., è data dalla legge

civile e non può essere affidata all‘arbitrio dei cittadini.

4. Fa parte della sovranità la prerogativa di esigere

obbedienza anche per ordini ritenuti ingiusti o

peccaminosi;

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5. La stessa sovranità esige che si escluda il tirannicidio.

Ma il tratto più caratteristico dell‘assolutismo di Hobbes è

la sua negazione che lo Stato (o il sovrano) sia comunque

soggetto alle leggi dello Stato: tesi che egli difende con

l‘argomento che lo Stato non si può obbligare né verso i

cittadini, il cui obbligo è unilaterale e irreversibile, né

verso se stesso, perché nessuno si può obbligare se non

verso un altro. Tutto questo però non significa che la

teoria politica di Hobbes non ponga alcun limite all‘azione

dello Stato. Neppure lo Stato può comandare ad un uomo

di uccidere o ferire se stesso o una persona cara o di non

difendersi o di non prendere cibo o altra cosa necessaria

alla vita; né può comandargli di confessare un delitto,

nessuno può essere costretto ad accusare se stesso.

L‘empirismo anglosassone

Locke è il fondatore dell‘empirismo anglosassone. Sul

piano storico l‘empirismo si innesta sulla tradizione del

pensiero (da Ruggero Bacone a Ockham a Francesco

Bacone) e rappresenta un punto di incontro di essa con il

cartesianesimo (da cui desume concetti e terminologia) e

con rivoluzione scientifica (da cui deriva l‘appello

all‘esperienza ed una nuova metodo del sapere).

Filosoficamente parlando, nei confronti del razionalismo,

l‘empirismo risulta caratterizzato dalla teoria della ragione

come un insieme di poteri limitati dall‘esperienza, intesa,

quest‘ultima come fonte ed origine del processo

conoscitivo e come criterio di verità o strumento di

certificazione delle tesi dell‘intelletto, che o valide solo se

suscettibili di controllo empirico.

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Locke (1632-1704)

Per Locke la ragione non possiede nessuno di quei

caratteri che Cartesio le aveva attribuito. Non è unica o

uguale in tutti gli uomini perché essi ne partecipano in

misura diversa. Non è infallibile perché spesso le idee di

cui dispone sono in numero troppo limitato o non si

lasciano concatenare tra loro nella forma dei ragionamenti.

Inoltre la ragione non può ricavare da sé le idee: deve

ricavarle dall‘esperienza che ha sempre limiti e condizioni.

L‘opera di Locke è diretta a estendere il campo della sua

azione a tutto ciò che interessa l‘uomo, quindi alla morale,

alla politica e alla religione. Con il Saggio sull’intelletto

umano è nata a prima indagine critica della filosofia

moderna, la prima indagine cioè diretta a stabilire le

effettive possibilità e i limiti della conoscenza. Questi

limiti sono propri dell‘uomo perché sono propri della sua

ragione, la quale è limitata dall‘esperienza. È l‘esperienza

che fornisce alla ragione il materiale che essa adopera. Le

idee semplici sono gli elementi di ogni sapere umano. La

ragione può bensì ordinare questo materiale a suo modo,

formando idee complesse e ragionamenti; ma anche in

questa sua attività deve essere controllata dall‘esperienza

perché altrimenti le sue costruzioni sono arbitrarie o

fantastiche.

La passività della mente

Locke desume da Cartesio il punto di partenza della sua

indagine, l‘oggetto della nostra conoscenza è l‘idea.

Pensare e avere idee sono la stessa cosa. E qui Locke

introduce la prima fondamentale limitazione: le idee

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derivano esclusivamente dall‘esperienza, cioè sono il

frutto non di una spontaneità creatrice dell‘intelletto

umano, ma piuttosto della sua passività di fronte alla

realtà. E poiché la realtà, o è realtà esterna (le cose

naturali) o è realtà interna (lo spirito), così le idee possono

derivare dall‘una o dall‘altra di queste realtà e si

chiameranno idee di sensazione se derivano dal senso

esterno, idee di riflessione se derivano dal senso interno.

Sono idee di sensazione, o più semplicemente sensazioni,

per esempio, il giallo, il caldo, il duro, l‘amaro ecc, e in

generale tutte le qualità che attribuiamo alle cose. Sono

idee di riflessione la percezione, il pensiero, il dubbio, il

ragionamento, la conoscenza e in generale tutte le idee che

si riferiscono ad operazioni del nostro spirito. Locke

critica le idee innate sostanzialmente con un unico

argomento. Le idee non ci sono quando non sono pensate;

giacché, per l‘idea, esistere significa essere pensata. Le

idee innate dovrebbero esistere in tutti gli uomini, quindi

anche nei bambini, negli idioti e nei selvaggi; ma poiché

da queste persone non sono pensate, esse non esistono in

loro, perciò non possono considerarsi innate. Si dice che i

bambini giungono alla coscienza di esse nell‘età della

ragione; ma nell‘età della ragione si giunge anche a

conoscenze che non sono ritenute innate: nulla vieta

dunque che si possa giungere anche a quelle che si

ritengono tali. Locke adduce come esempi di principi

pretesi innati i principi logici di identità e contraddizione e

ripete la stessa critica per i principi morali. Se tutta la

nostra conoscenza risulta di idee e se le idee derivano

dall‘esperienza, l‘analisi della nostra capacità conoscitiva

dovrà in primo luogo fornire una classificazione di tutte le

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idee che l‘esperienza ci fornisce. L‘esperienza ci fornisce

soltanto idee semplici; le idee complesse sono prodotte dal

nostro spirito mediante la riunione di varie idee semplici.

Difatti quando l‘intelletto è stato provvisto, dalla

sensazione e dalla riflessione, di idee semplici, esso ha la

capacità di ripropone, riunirle in modi infinitamente vari.

La conoscenza umana è la costruzione che risulta da

questa capacità di combinazione che è propria

dell‘intelletto. Ma nessun intelletto può inventare o creare

una idea semplice nuova, cioè non derivante

dall‘esperienza, o distruggere qualcuna di quelle che

l‘esperienza fornisce.

Le idee

Nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente

passivo: diventa attivo nel riunire e organizzare in vario

modo le idee semplici. Questa attività dello spirito può dar

luogo a idee complesse o a idee generali. Le idee

complesse, per quanto infinite di numero, si lasciano

ricondurre a tre categorie fondamentali: modi, sostanze e

relazioni. I modi sono quelle idee non considerate

sussistenti di per sé, ma solo come manifestazioni di una

sostanza, per esempio triangolo, gratitudine, delitto ecc.

Sostanze sono le idee complesse che vengono considerate

come esistenti di per se stesse: per esempio uomo,

piombo, pecora ecc. L‘attività dello spirito si manifesta,

anche, nella formazione di idee generali. Tali idee non

indicano nessuna realtà ma sono soltanto segni delle cose

particolari. Alle idee generali non corrisponde quindi una

realtà generale o universale, ma soltanto un certo rapporto

di somiglianza tra le cose particolari, che sono le sole

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esistenti. Non c‘è una realtà universale uomo; il nome,

l‘idea generale di uomo sono segni di quegli esseri, ai

quali, dati i loro comuni caratteri, noi appunto riferiamo il

termine uomo. Formatasi l‘idea generale di uomo,

mediante l‘osservazione delle somiglianze che sussistono

fra gli uomini, il nostro intelletto attribuisce alla specie

uomo tutti gli individui somiglianti. La specie uomo è

quindi soltanto un segno, cioè una parola adoperata nei

discorsi in luogo di un gruppo di cose particolari.

La conoscenza

L‘esperienza fornisce il materiale della conoscenza, ma

non è la conoscenza stessa. Questa ha sempre a che fare

con idee, ma non si riduce alle idee perché consiste nella

percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra

di loro. Come tale, la conoscenza può essere di due specie

diverse. È conoscenza intuitiva quando l‘accordo o il

disaccordo di due idee è visto immediatamente e in virtù

di queste idee stesse, senza l‘intervento di altre idee. Così

si percepisce immediatamente che il bianco non è nero,

che tre sono più di due ecc. Questa conoscenza è la più

chiara e la più certa che l‘uomo possa raggiungere ed è

quindi il fondamento della certezza e dell‘evidenza di ogni

altra conoscenza. La conoscenza è invece dimostrativa

quando l‘accordo o il disaccordo tra due idee non è

percepito immediatamente ma viene reso evidente

mediante l‘uso di idee intermedie che si chiamano prove.

La conoscenza dimostrativa consiste evidentemente in una

catena di conoscenze intuitive. Accanto a queste due

specie di conoscenze, ce n‘è un‘altra ed è la conoscenza

delle cose esistenti al di fuori delle idee. Ora ci sono tre

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ordini di realtà: l‘io, Dio e le cose e ci sono tre modi

diversi di giungere alla certezza di queste tre realtà. Noi

abbiamo la conoscenza dell‘esistenza del nostro io

attraverso l‘intuizione, dell‘esistenza di Dio attraverso la

dimostrazione, e dell‘esistenza delle cose attraverso la

sensazione. Per ciò che riguarda l‘esistenza dell‘io, Locke

si avvale del procedimento cartesiano. Io penso. ragiono,

dubito e con ciò intuisco la mia propria esistenza e non

posso dubitare di essa. Per ciò che riguarda l‘esistenza di

Dio, Locke rielabora la prova causale della tradizione. Il

nulla, egli dice, non può produrre nulla: se qualcosa c‘è,

vuol dire che è stata prodotta da un‘altra cosa. e non

potendosi risalire all‘infinito, si deve ammettere un essere

eterno che ha prodotto ogni cosa. Questo essere eterno,

potentissimo ed intelligentissimo, è Dio. Quanto

all‘esistenza delle cose, l‘uomo non ha altro mezzo di

conoscerla tranne che la sensazione e precisamente la

sensazione attuale. Non c‘è nessun rapporto necessario tra

l‘idea e la cosa a cui essa si riferisce: l‘idea potrebbe

esserci anche se non ci fosse la cosa come ci può essere

un‘immagine o un dipinto senza che esista o sia mai

esistita la persona o la cosa che l‘immagine o il dipinto

rappresenta. Ma il fatto che noi riceviamo attualmente

l‘idea dall‘esterno ci fa conoscere che qualcosa esiste in

questo momento fuori di noi e produce in noi l‘idea. Nel

momento in cui noi riceviamo una sensazione, siamo certi

che esiste la cosa che la produce in noi: e questa certezza

basta, secondo Locke, a garantire la realtà della cosa

esterna. Quando l‘oggetto non è più testimoniato dai sensi,

la certezza della sua esistenza sparisce ed è sostituita da

una semplice probabilità.

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Il diritto naturale

Nell‘ambito politico e religioso Locke ci ha lasciato

contributi fondamentali. Le opere da lui pubblicate,

l‘Epistola sulla tolleranza, i Due trattati sul governo

civile, la Ragionevolezza del cristianesimo sono scritti che

assicurano a Locke in questo campo un posto altrettanto

importante di quello che il Saggio gli assicura nel campo

più strettamente filosofico. Queste opere fanno di Locke

uno dei primi e più efficaci difensori delle libertà dei

cittadini, della tolleranza religiosa e della libertà delle

chiese. Esiste, secondo Locke, una legge di natura che è la

ragione stessa in quanto ha per oggetto i rapporti tra gli

uomini e che prescrive la reciprocità perfetta di tali

rapporti. Locke, come Hobbes, connette strettamente

questa regola di reciprocità con quella dell‘uguaglianza

originaria degli uomini; ma, a differenza di Hobbes ritiene

che questa regola limiti il diritto naturale di ciascuno col

pari diritto degli altri. Lo stato di natura è governato dalla

legge di natura, che collega tutti: e la ragione, la quale è

questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano

consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti,

nessuno deve danneggiare l‘altro nella vita, nella salute,

nella libertà e nella proprietà. Nello stato di natura, cioè

anteriormente alla costituzione di un potere politico, essa è

la sola legge valida Dunque la libertà degli uomini in

questo stato consiste nel non sottostare ad alcuna volontà o

autorità altrui ma nel rispettare soltanto la norma naturale.

Neanche in questo stato quindi la libertà consiste per

ciascuno nel vivere come gli piace. Il diritto naturale

dell‘uomo è limitato alla propria persona ed è quindi

diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Questo diritto

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implica indubbiamente anche quello di punire l‘offensore

e di essere l‘esecutore della legge di natura; ma neppure

questo secondo diritto implica l‘uso di una forza assoluta o

arbitraria. ma solo quella reazione che la ragione indica

come proporzionata alla trasgressione.

Stato e libertà

Lo stato di natura non è perciò necessariamente, come

voleva Hobbes, uno stato di guerra; ma può diventare uno

stato di guerra quando una o più persone ricorrono alla

forza per ottenere ciò che la norma naturale vieterebbe di

ottenere, cioè un controllo sulla libertà, sulla vita e sui

beni degli altri. Proprio per evitare questo stato di guerra,

gli uomini si pongono in società e abbandonano lo stato di

natura: perché un potere cui si possa fare appello per

ottenere soccorso esclude la permanenza indefinita nello

stato di guerra. Ma la costituzione di un potere civile non

toglie agli uomini i diritti di cui godevano nello stato di

natura tranne quello di farsi giustizia da sé giacché, anzi,

la giustificazione del potere civile consiste nella sua

efficacia a garantire agli uomini, pacificamente, questi

diritti. Se la libertà naturale consiste per l‘uomo

nell‘essere limitato soltanto dalla legge di natura, la libertà

dell‘uomo nella società consiste nel non sottostare ad altro

potere legislativo che a quello stabilito per consenso.

Pertanto la legge di natura esclude che il contratto che dà

origine a una comunità civile formi un potere assoluto o

illimitato. L‘uomo, che non possiede alcun potere sulla

propria vita, non può, con un contratto, rendersi schiavo di

un altro e porre se stesso sotto un potere assoluto che

disponga della vita di lui come gli piace. Soltanto il

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consenso di coloro che partecipano ad una comunità

stabilisce il diritto di questa comunità sui suoi membri; ma

questo consenso, come è un atto di libertà, cioè di scelta.

così è diretto a mantenere o garantire questa libertà stessa

e non può convalidare l‘assoggettamento dell‘uomo

all‘incostante, incerta e arbitraria volontà di un altro uomo.

Tolleranza e religione

L‘Epistola sulla tolleranza è uno dei più solidi monumenti

elevati alla libertà di coscienza. Compito dello Stato è

conservare e promuovere soltanto i beni civili (la vita, la

libertà, l‘integrità del corpo, il possesso delle cose

esterne). Questo compito dello Stato stabilisce i limiti

della sovranità; e la salvezza dell‘anima è chiaramente al

di fuori di questi limiti. L‘unico strumento infatti di cui il

magistrato civile dispone è la costrizione; ma la

costrizione è incapace di condurre alla salvezza perché

nessuno può essere salvato suo malgrado. Dall‘altro lato,

nè i cittadini né la Chiesa stessa possono chiedere

l‘intervento del magistrato in materia religiosa. La Chiesa,

dice Locke, è una libera società di uomini che si

riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente

Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per

ottenere la salvezza dell‘anima. Come società libera, la

Chiesa non fa nulla né può far nulla che concerna la

proprietà dei beni civili,né può far ricorso alla forza per

alcun motivo, dal momento che la forza è riservata

magistrato civile. Certamente, la Chiesa ha il diritto di

espellere coloro le cui credenze ritiene incompatibili con i

propri principi. Ma la scomunica non deve in alcun modo

trasformarsi in una diminuzione dei diritti civili del

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condannato. Per quanto neppure nell‘Epistola la tolleranza

trovi un riconoscimento radicale perché Locke ritiene che

―coloro che negano l‘esistenza di Dio non possono essere

tollerati in alcun modo‖ lo scritto di Locke rappresenta

tutt‘oggi la migliore giustificazione che la storia della

filosofia ci abbia data della libertà di coscienza.

D. Hume (1711-1776)

L‘opera principale di Hume è il Trattato sulla natura

umana, sebbene nella Ricerca sull’intelletto umano e nella

Ricerca sui principi della morale egli abbia riesposto in

modo assai più rapido e chiaro i capisaldi essenziali di

quell‘opera.

Alla base del filosofare di Hume vi è l‘ambizioso progetto

di costruire una scienza della natura umana su base

sperimentale, analoga a quella teorizzata da Bacone per

quanto riguarda la natura fisica. Hume è persuaso che la

natura umana costituisca la capitale del regno del sapere e

che quindi risulti ancor più basilare ed urgente delle altre

scienze. La tendenza empiristica ed anti-metafìsica che sta

a monte del procedimento di Hume è riassunta dalla

celebre immagine di gettare nel fuoco i libri di teologia e

metafisica! Questa scelta empiristica finirà per mettere

capo ad una forma di scetticismo nel quale le pretese

conoscitive della natura umana risultano fortemente

limitate. Da ciò la funzione storicamente provocatoria

esercitata dalla filosofia di Hume, a cui Kant riconoscer il

merito di averlo svegliato ‗dal sonno dogmatico‘.

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Impressioni e idee

Nella sua analisi della conoscenza umana Hume divide le

percezioni della mente in due classi, che sì distinguono fra

loro per il grado diverso di forza e di vivacità. con cui

colpiscono lo spirito. Le percezioni che penetrano con

maggior forza ed evidenza nella coscienza si chiamano

impressioni; e sono tutte le sensazioni, passioni ed

emozioni, nell‘atto in cui vediamo o sentiamo, amiamo o

odiamo, desideriamo o vogliamo. Le immagini illanguidite

di queste impressioni si chiamano idee o pensieri. La

differenza tra impressione e idea è. per esempio, quella tra

il dolore di un calore eccessivo e l‘immagine di questo

dolore nella memoria. Ogni idea deriva dalla

corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri

di cui non si sia avuta precedentemente l‘impressione.

L‘uomo può senza dubbio comporre le idee fra loro nei

modi più arbitrari e fantastici ma non fari mai realmente

un passo al di là di se stesso. Hume si tiene rigidamente

fedele a questo principio fondamentale. Locke, pur dopo

aver ammesso che l‘unico oggetto della conoscenza

umana è l‘idea, aveva riconosciuto, al di là dell‘idea, la

realtà dell‘io, di Dio e delle cose. Berkeley, pur negando la

materia, aveva ammesso la realtà degli spiriti finiti e dello

spirito infinito di Dio, realtà entrambe irriducibili alle idee.

Hume solo risolve totalmente l‘intera realtà nel molteplice

delle idee attuali (delle impressioni sensibili e delle loro

copie) e nulla ammette al di là di esse. Per spiegare la

realtà del mondo e dell‘io, egli non ha a sua disposizione

se non le impressioni, le idee e i loro rapporti. La

conclusione scettica è inevitabile. Hume accetta e fa sua la

negazione dell‘idea astratta, già operata da Berkeley. Non

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esistono idee astratte, cioè idee che non abbiano caratteri

particolari e singoli (un triangolo che non sia né equilatero

né isoscele né scaleno; un uomo che non sia questo o

quell‘uomo ecc.); esistono solo idee particolari assunte

come segni di altre idee particolari ad esse simili. Ma per

spiegare la funzione del segno, cioè la possibilità di

un‘idea di richiamare altre idee simili, Hume ricorre al

principio dell‘abitudine. Quando abbiamo scoperto una

certa somiglianza tra idee che per altri aspetti sono diverse

(per esempio, tra le idee di diversi uomini e di diversi

triangoli), noi adoperiamo un unico nome (uomo o

triangolo) per indicarle. Si forma così in noi l‘abitudine di

considerare in qualche modo unite fra loro le idee

designate da un unico nome; Dunque il nome stesso

risveglierà in noi, non una sola di quelle idee, ma

l‘abitudine che abbiamo di considerarle assieme. La

funzione puramente logica del segno concettuale diventa

in Hume un fatto psicologico, un‘abitudine.

Il principio di associazione

La facoltà di stabilire relazioni fra idee è detta, da Hume,

immaginazione. Sebbene tale facoltà operi liberamente,

essa non risulta completamente affidata al caso, poiché

anche nei sogni e nelle fantasticherie più sfrenate e

vagabonde troviamo che viene sempre mantenuta una

connessione tra le diverse idee che si succedono l‘una

all‘altra. Questa connessione è garantita da una forza che

rappresenta, per la mente, ciò che la forza di gravità

rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di

associazione delle idee, che Hume descrive come una

dolce forza che comunemente s‘impone, facendo che la

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Storia della filosofia Paolo Rebaudo ________________________________________________________________________________________________________

196

mente venga trasportata da un‘idea all‘altra. Questa forza

di attrazione opera secondo tre criteri fondamentali: la

somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la

causalità. Un ritratto, per esempio, conduce naturalmente i

nostri pensieri al suo originale (somiglianza): il ricordo

dell‘appartamento di una casa porta a discorrere degli altri

appartamenti della stessa casa (contiguità); una ferita fa

pensare subito al dolore che ne deriva (causa ed effetto).

Hume ritiene che l‘associazione stia alla base delle ―idee

complesse‖. Fra queste idee le più importanti sono quelle

di spazio e di tempo, di causa ed effetto, di sostanza

(corporea o spirituale). A tali idee noi attribuiamo

consistenza ed oggettività. Hume si propone di mostrare

come ad esse non corrisponda alcuna impressione. Lo

spazio e il tempo non sono delle impressioni, ma delle

nostre maniere di sentire le impressioni e altrettanto

destituite di oggettività sono le idee di causa-effetto e di

sostanza materiale e spirituale.

Proposizioni di relazione fra idee e di relazione fra fatti

Come Leibniz aveva distinto fra verità di ragione e verità

di fatto, Hume distingue fra proposizioni che concernono

relazioni fra idee (come le proposizioni matematiche) e le

proposizioni che concernono fatti (come le proposizioni

delle scienze naturali). Le prime, precisa Hume, si

possono scoprire ―per mezzo della sola operazione del

pensiero, indipendentemente da ciò che è realmente

esistente in una qualsiasi parte dell‘universo‖. Si tratta

infatti di proposizioni che noi costruiamo basandoci

semplicemente sul principio di non-contraddizione. Ad

esempio, posta la definizione di triangolo, ricaviamo per

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via puramente razionale che ―il quadrato dell‘ipotenusa è

uguale al quadrato di due lati‖. Invece, le proposizioni che

concernono dati o materie di fatto‖ non sono fondate sul

principio di non contraddizione, bensì sull‘esperienza,

giacché il contrario di un fatto è sempre possibile ed ―ogni

cosa che è, può non essere‖. Infatti, argomenta Hume con

una celebre immagine, la proposizione il sole domani non

si leverà è una proposizione non meno intelligibile né più

contraddittoria dell‘altra il sole domani si leverà.

La critica del principio di causa

Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si

fondano sulla relazione di causa ed effetto. Se si chiede ad

una persona perché creda a un fatto qualsiasi, per esempio,

che un suo amico è in campagna o altrove, egli addurrà un

altro fatto, per esempio che ha ricevuto da lui una lettera o

che ha precedentemente conosciuto la sua intenzione. La

tesi fondamentale di Hume è che la relazione tra causa ed

effetto non può essere mai conosciuta a priori, ma soltanto

per esperienza. Nessuno, messo di fronte a un oggetto che

per lui sia nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i

suoi effetti prima di averli sperimentati e soltanto

ragionando su di essi, ―Adamo, anche se le sue facoltà

razionali siano supposte dal principio perfette, non

avrebbe mai potuto inferire dalla fluidità e trasparenza

dell‘acqua che essa poteva soffocarlo o dalla luce e dal

calore del fuoco che esso poteva consumano. Causa ed

effetto sono due fatti diversi, ognuno dei quali non ha

nulla in sé che richiami necessariamente l‘altro. Quando

vediamo una palla di biliardo che corre diritto verso

l‘altra, anche supponendo che nasca per caso in noi il

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pensiero del movimento della seconda palla come risultato

del loro incontro, potremmo benissimo concepire altre

possibilità differenti: per esempio, che le due palle

rimangano entrambe ferme o che la prima ritorni indietro

diritto o scappi da uno dei lati. Queste possibilità non

possono essere escluse perché non sono contraddittorie.

L‘esperienza ci dice che una sola si verifica e che l‘urto

della prima palla mette in movimento la seconda; ma

l‘esperienza non ci illumina se non intorno ai fatti che

abbiamo sperimentato nel passato e non ci dice nulla circa

i fatti futuri. Poiché anche dopo che l‘esperienza è stata

fatta, la connessione tra la causa e l‘effetto rimane

arbitraria, questa connessione non potrebbe essere assunta

come fondamento in nessuna previsione. Che il corso della

natura possa cambiare è ipotesi che non implica nessuna

contraddizione e che perciò rimane sempre possibile. Né

la continua conferma che l‘esperienza fa nella maggior

parte dei casi delle connessioni causali muta la questione:

perché questa esperienza riguarda sempre il passato, mai il

futuro. Se ci fosse qualche sospetto che il corso della

natura potesse cambiare e che il passato non servisse di

regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e

non potrebbe dare origine a nessuna conclusione. È

impossibile quindi che argomenti tratti dall‘esperienza

possano dimostrare la rassomiglianza del passato con il

futuro: tutti questi argomenti sono fondati sulla

supposizione di quella rassomiglianza. Queste

considerazioni di Hume escludono che il legame tra causa

ed effetto possa essere dimostrato oggettivamente

necessario, cioè assolutamente valido. L‘uomo tuttavia lo

crede necessario e fonda su di esso l‘intero corso della sua

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vita. La sua necessità è quindi puramente soggettiva e va

cercata in un principio della natura umana. Questo

principio è l‘abitudine (o costume). La ripetizione di un

atto qualsiasi produce una disposizione a rinnovare lo

stesso atto senza che intervenga il ragionamento: questa

disposizione è l‘abitudine. Quando abbiamo visto più volte

congiunti due fatti od oggetti, per esempio, la fiamma e il

calore, il peso e la solidità, siamo portati dall‘abitudine ad

aspettarci l‘uno quando l‘altro si mostra. Senza l‘abitudine

noi saremmo interamente ignoranti di ogni questione di

fatto, fuori di quelle che ci sono immediatamente presenti

alla memoria o ai sensi. Ma l‘abitudine spiega la

congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la loro

connessione necessaria. Spiega perché noi crediamo alla

necessità dei legami causali, non giustifica questa

necessità.. E veramente questa necessità è ingiustificabile.

La credenza nel mondo esterno e nell‘identità dell‘io

Ogni credenza in realtà o fatti, in quanto è il risultato di

un‘abitudine, è un sentimento o un istinto, non un atto di

ragione. Tutta la conoscenza della realtà è così priva di

necessità razionale e rientra nel dominio della probabilità,

non della conoscenza scientifica. Hume non intende

annullare la differenza che c‘è tra la finzione e la

credenza. La credenza è un sentimento naturale, che non

soggiace ai poteri dell‘intelletto. Se essa dipendesse

dall‘intelletto o dalla ragione, poiché questo potere ha

autorità su tutte le idee, potrebbe riuscire a farci credere

qualsiasi cosa gli piaccia; noi possiamo, nel nostro

concetto, congiungere la testa di un uomo con il corpo di

un cavallo ma non è in nostro potere credere che un tale

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animale esiste realmente. La credenza è quindi dovuta alla

maggiore vivacità. delle impressioni rispetto alle idee. Ma

gli uomini credono abitualmente nell‘esistenza di un

mondo esterno. Hume comincia col distinguere la

credenza nell‘esistenza continua delle cose, che è propria

di tutti gli uomini e anche degli animali; e la credenza

nell‘esistenza esterna delle cose stesse, la quale ultima

suppone la distinzione pseudofilosofica delle cose dalle

impressioni sensibili. Dalla coerenza e dalla costanza di

certe impressioni, l‘uomo è tratto a immaginare che

esistano cose dotate di un‘esistenza continua e ininterrotta

e quindi tali che esisterebbero anche se ogni creatura

umana fosse assente o annientata. In altri termini la stessa

coerenza e costanza di certi gruppi di impressioni ci fa

dimenticare o trascurare che le nostre impressioni sono

sempre interrotte e discontinue e ce le fa considerare come

oggetti persistenti e stabili. Questa credenza che

appartiene alla parte non filosofica del genere umano è

però presto distrutta dalla riflessione filosofica la quale

insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto

l‘immagine e la percezione dell‘oggetto e che i sensi sono

soltanto le porte attraverso le quali queste immagini

entrano, senza che ci sia mai un rapporto immediato tra

l‘immagine stessa e l‘oggetto. La tavola che vediamo

sembra impiccolirsi quando noi ce ne allontaniamo. ma la

tavola reale, che esiste indipendentemente da noi, non

subisce alterazioni; perciò alla nostra mente era presente

soltanto l‘immagine di essa. La riflessione filosofica

conduce così a distinguere le percezioni, soggettive,

mutevoli e interrotte, dalle cose oggettive, esternamente e

continuamente esistenti. In verità la sola realtà di cui

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siamo certi è costituita dalle percezioni; le sole inferenze

che possiamo fare sono quelle fondate sul rapporto tra

causa ed effetto, che si verifica anch‘esso solo tra le

percezioni. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed

esterna ad esse non si può affermare né sulla base delle

impressioni dei sensi né sulla base del rapporto causale. La

realtà esterna è dunque ingiustificabile ma l‘istinto a

credere in essa è ineliminabile. È vero che neppure il

dubbio filosofico intorno a tale realtà si può sradicare, ma

la vita ci distoglie da questo dubbio e ci riaffida alla

credenza istintiva. Una spiegazione analoga trova, nelle

analisi di Hume, la credenza nell‘unità e nell‘identità

dell‘io. Infatti, secondo Hume, noi non abbiamo

esperienza o impressione del nostro io, ma solo dei nostri

stati d‘animo successivi, che fanno apparizione nella

nostra coscienza come in una specie di teatro, In altri

termini, ciò che noi sperimentiamo come io è soltanto,

rigorosamente parlando, un fascio di impressioni che si

susseguono nel tempo. Ancora una volta, la credenza e la

filosofia, l‘istinto e la ragione appaiono in contrasto fra di

loro.

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202

CAPITOLO 11

L'illuminismo

L‘illuminismo è un movimento di idee caratterizzato,

anzitutto, dalla certezza del primato della ragione e dalla

fede nel progresso dell‘umanità. A tali caratteri si

aggiungono una più forte idea dell‘autonomia della cultura

rispetto alla religione, una viva tensione riformatrice e una

visione cosmopolitica e pacifica della società umana,

ispirata all‘idea dell‘universalità della ragione.

L‘Enciclopedia descrive un nuovo ordine del sapere, nel

quale, accanto alle scienze e alle ―arti belle‖, vi sono le

tecniche, che vedono così riconosciuta la loro pari dignità

culturale. Gli intellettuali dell‘illuminismo sono

fortemente impegnati nella diffusione e promozione delle

loro idee in ogni campo culturale, in ogni settore e classe

della società. La critica illuministica investe valori

consolidati e ogni settore della vita sociale, del costume,

delle istituzioni. Pur essendo, in larga maggioranza,

convinti dell‘esistenza di Dio (e fautori del Deismo, cioè

di una fede razionale), gli esponenti dell‘illuminismo

attaccano le religioni storiche, il loro dogmatismo, la loro

intolleranza e il ruolo conservatore che esse hanno assunto

nella vita politica e socia le Criticano, inoltre, le pretese

totalizzanti, lo ―spirito di sistema‖ delle filosofie del

Seicento. Sono fautori del paradigma newtoniano di

razionalità e scienza, basato sul rifiuto di ipotesi

aprioristiche, non fondate sull‘analisi dell‘esperienza e

non suscettibili di verifiche sperimentali. Pur essendo

duramente critici verso la tradizione, gli Illuministi sono

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portatori di una filosofia della storia, ispirata all‘idea di

progresso dell‘umanità. E saranno essi stessi promotori di

una storiografia ispirata a moderne esigenze di

scientificità, consapevolezza metodologica, apertura alla

dimensione socio-economica e di costume dei processi

storici e alla vita delle popolazioni extra-europee. Inoltre,

promuoveranno l‘avvio di nuove scienze sociali, come

l‘etnologia e l‘antropologia e, soprattutto, l‘economia

politica. Quest‘ultima, con i Fisiocratici in Francia e Adam

Smith in Inghilterra, si oppone alle teorie mercantiliste e

sostiene il libero mercato, individuando nella sfera della

produzione (e non in quella della distribuzione) la fonte

del profitto. Viene affermato, inoltre, il valore morale e

sociale dell‘arte, la sua funzione positiva nell‘opera di

rischiaramento condotta dalla ragione. Si discute del gusto

estetico e, con Kant, si punta a una fondazione

dell‘estetica come campo autonomo di riflessione teorica.

Montesquieu descrive i rapporti fra i diversi sistemi di

norme e i rispettivi contesti storici e le differenze che

esistono fra le tre fondamentali costituzioni, repubblicana,

monarchica e dispotica. Soprattutto, pone a cardine dello

Stato la divisione dei poteri, cioè l‘attuazione di un regime

di autonomia reciproca fra i poteri esecutivo, legislativo e

giudiziario. Beccaria afferma che le leggi devono garantire

―la massima felicità divisa nel maggior numero‖. La pena

di morte non è un diritto della comunità, ma solo ―una

guerra della nazione con un cittadino‖. Voltaire sostiene

l‘orientamento empiristico della scienza newtoniana.

Afferma il fondamento morale della religione e la

necessità della tolleranza irride all‘ottimismo leibniziano,

ma ritiene che, grazie agli sforzi dell‘uomo, la condizione

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umana possa un giorno migliorare. Identifica il bene con

ciò che utile alla società. Condillac afferma il carattere

acquisito empirico e non innato, delle funzioni mentali,

descrivendo, con l‘esempio della statua, come quelle

funzioni si attivino gradualmente anche attraverso la

sollecitazione di un unico organo sensoriale. Diderot

considera la sensibilità come un insieme coordinato e

unitario, critica il modello meccanicistico e descrive la

natura come dotata di interne capacità di evoluzione. Più

apertamente materialistiche sono le posizioni di La

Mettrie, di Helvétius e d‘Holbach.

Jean Jacques Rousseau (1712-1778)

Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza

tra gli uomini (1754) Economia politica (1755) La Nuova

Eloisa (1761) - Il contratto sociale (1762) - Emilio o

dell'educazione (1762)

Anti-illuminismo e illuminismo

Un posto a parte nell‘Illuminismo ha Rousseau.

L‘Illuminismo non aveva fatto della ragione la sola realtà

umana; aveva riconosciuto i limiti di essa nonché il valore

dei bisogni, degli istinti e delle passioni. Aveva tuttavia

posto nella ragione la vera natura dell‘uomo: cioè l‘ordine

normativo al quale la vita umana va ricondotta la guida

nella molteplicità dei suoi elementi costitutivi. Rousseau

sembra infrangere su questo punto l‘ideale illuministico.

La natura umana non è ragione; è istinto, sentimento. La

ragione stessa devia se non assume come sua guida

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l‘istinto naturale L‘Illuminismo vuoi riportare l‘istinto alla

ragione, Rousseau la ragione all‘istinto. Ma il risultato

finale è lo stesso.

Lo stato di natura e la critica della civiltà

Il motivo dominante dell‘opera di Rousseau è il contrasto

tra l‘uomo naturale e l‘uomo artificiale. Tutto è bene, egli

dice al principio dell‘Emilio, quando esce dalle mani

dell‘Autore delle cose; tutto degenera fra le mani

dell‘uomo. Di questa degenerazione, Rousseau fa

un‘analisi amara e spietata. I beni che l‘umanità crede di

avere acquistati, i tesori del sapere, dell‘arte, della vita

raffinata non hanno contribuito alla felicità e alla virtù

dell‘uomo, ma lo hanno allontanato dalla sua origine ed

estraniato dalla sua natura. Le scienze e le arti devono la

loro nascita ai nostri vizi e hanno contribuito a rinforzarli.

L‘astronomia è nata dalla superstizione; l‘eloquenza

dall‘ambizione, dall‘odio, dall‘adulazione, dalla

menzogna; la geometria dall‘avarizia; la fisica da una vana

curiosità; tutte, e la morale stessa, dall‘orgoglio umano.

Esse hanno inoltre contribuito a stabilire l‘ineguaglianza

fra gli uomini. Ineguaglianza dalla quale nascono tutti i

mali sociali. L‘egoismo, il bisogno di dominio governano i

rapporti fra gli uomini, Dunque la stessa vita sociale si

regge sui vizi più che sulle virtù. Tuttavia questa

situazione in cui l‘uomo si trova non è, come riteneva

Pascal, costitutiva di lui né dovuta al peccato originale. I

casi accidentali che hanno perfezionato la ragione e

rovinato la natura umana originaria sono, secondo

Rousseau, la nascita della proprietà in primo luogo, poi

l‘istituzione della magistratura, infine il mutamento del

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potere legittimo in potere arbitrario; alla prima si deve lo

stato di ricco e di povero, alla seconda quello di potente e

di debole e al terzo quello di padrone e di schiavo, che è

l‘ultimo grado dell‘ineguaglianza. E evidente che l‘uomo

può risalire dallo stato in cui si trova verso lo stato

originario. difatti la decadenza è dovuta a cause

accidentali ed estranee sulle quali la volontà umana può

agire. Perciò Rousseau intende il progresso come un

ritorno alle origini, cioè alla natura; e si ferma a delineare

con compiacenza le meta e il termine ideale di questo

ritorno: la condizione naturale dell‘uomo. Ma egli non

intende questa condizione come uno stato di fatto. Essa è

uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito,

che probabilmente non esisterà mai, ma di cui è necessario

tuttavia aver nozioni giuste per ben giudicare del nostro

stato presente. Lo stato di natura è dunque soltanto una

norma di giudizio, un criterio direttivo per sottrarre

l‘uomo al disordine della sua condizione presente e

riportarlo all‘ordine e alla giustizia. La Nuova Eloisa, il

Contratto sociale e l‘Emilio sono le opere nelle quali

Rousseau stabilisce le condizioni per le quali la famiglia,

la società e l‘individuo possono ritornare alla loro

condizione naturale, uscendo dalla degenerazione

artificiale in cui sono caduti.

Il ritorno alla natura (famiglia e politica). Il Contratto

sociale

La Nouvelle Héloise, che narra la vicenda di due giovani

amanti contrastati nel loro amore dalla volontà dei parenti

e dalle convenienze sociali, è l‘affermazione della santità

del vincolo familiare fondato sulla libera scelta degli istinti

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naturali. Così Rousseau fa parlare un personaggio (Milord

Edouard) che difende la giovane coppia: Il legame

coniugale non è forse il più libero come il più sacro degli

impegni? Sì, tutte le leggi che lo mortificano sono

ingiuste, tutti i padri che osano formarlo o romperlo sono

tiranni. Questo casto nodo della natura non è sottomesso

né al potere sovrano né all‘autorità paterna, ma alla sola

autorità del Padre comune che sa comandare i cuori e che,

ordinando loro di unirsi, li può costringere ad amarsi...

Che il rango sia regolato dal merito e l‘unione dei cuori

dalla loro scelta, ecco il vero ordine sociale; coloro che lo

regolano con la nascita o con le ricchezze sono i veri

perturbatori di quest‘ordine e sono essi che vanno

condannati o puniti (Il, lett. 2a). Per il vincolo coniugale il

ritorno alla natura significa quindi la libertà della scelta

guidata dall‘istinto. Il Contratto Sociale vuol essere per la

società politica ciò che la Nuova Eloisa è per la famiglia:

il riconoscimento delle condizioni per le quali la comunità

può ridursi alla natura, cioè a una forma di fondamentale

giustizia. L‘opera è difatti la delineazione di una comunità

etico-politica nella quale ciascun individuo non obbedisce

ad una volontà estranea, ma ad una volontà generale che

egli riconosce per propria e quindi in ultima analisi a se

stesso. L‘ordine sociale non è un ordine naturale: nasce

tuttavia per una necessità naturale quando gli individui

non sono più in grado di vincere le forze che si oppongono

alla loro conservazione: a questo punto il genere umano

perirebbe se non mutasse la sua maniera di vivere. Il

problema che allora si pone è il seguente: ‗Trovare una

forma d‘associazione che difenda e protegga con tutta la

forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e

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per la quale ciascuno, unendosi con tutti, non obbedisca

tuttavia che a se stesso e rimanga così libero come prima‘.

Questo problema è risolto dal patto che è alla base della

società politica. La clausola fondamentale di questo patto

è l‘alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi

diritti, a tutta la comunità. In cambio della sua persona

privata, ciascun contraente riceve la nuova qualità di

membro o parte indivisibile del tutto; e si genera così un

corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti

voti ha l‘assemblea, corpo che ha la sua unità, il suo io

comune, la sua vita e la sua volontà. Col passaggio dallo

stato di natura allo stato civile, l‘uomo sostituisce nella sua

condotta la giustizia all‘istinto e dà alle sue azioni la

moralità di cui prima mancavano. Il passaggio dallo stato

di natura allo stato civile non è dunque una decadenza

dell‘uomo, se lo stato civile è la continuazione e il

perfezionamento dello stato di natura. E tutta l‘opera di

Rousseau è dedicata a illustrare le condizioni per le quali

esso sia e si mantenga tale. La volontà propria del corpo

sociale o sovrano è la volontà generale, che non è la

somma delle volontà particolari, ma la volontà che tende

sempre all‘utilità generale e che quindi non può sbagliare.

Di questa volontà sono emanazioni le leggi, che sono gli

atti della volontà generale; e non sono quindi gli ordini di

un uomo o di più uomini, ma le condizioni per la

realizzazione del bene pubblico. Intermediario tra i sudditi

e il corpo politico sovrano è il governo, a cui è dovuta

l‘esecuzione delle leggi e il mantenimento della libertà

civile e politica. I governi tendono a degenerare

opponendosi alla sovranità. del corpo politico con una loro

volontà particolare che si oppone alla volontà generale.

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Ma i depositari del potere esecutivo non hanno nessuna

autorità legittima verso il popolo che è il vero sovrano. Un

patto sociale stabilito a tali condizioni garantisce, secondo

Rousseau, la libertà dei cittadini perché garantisce che

ciascuno dei suoi membri non obbedisca che a se stesso.

Difatti la volontà generale non è che la volontà diretta

all‘interesse di tutti, e obbedendo alla volontà generale

l‘individuo non subisce alcuna diminuzione o limitazione.

Perciò da un lato Rousseau distingue la volontà generale

dalle decisioni che in linea di fatto il popolo prende e

perfino dalla volontà di tutti; dall‘altro esige la completa

subordinazione dell‘individuo alla volontà generale perché

fuori della volontà generale egli non può avere che

interessi o moventi particolari e quindi ingiusti. La natura

dell‘uomo è libertà; ma la comunità politica non può

garantire all‘individuo la libertà dell‘istinto disordinato.

ma solo quella di un istinto disciplinato e moralizzato

dalla ragione, il che appunto accade con la coincidenza

della volontà singola con la volontà generale. Assunta la

necessità di una vita associata, il ritorno alla natura di

questa vita associata è apparso a Rousseau come l‘ordine e

la disciplina razionale dell‘istinto spontaneo.

Democrazia e totalitarismo

In Rousseau rimane un‘ambiguità di fondo, la quale fa si

che da un lato egli sia potuto sembrare un teorico della

democrazia e della libertà, per l‘esplicita affermazione

secondo cui la sovranità risiede nel popolo e per l‘idea di

una comunità di cittadini liberi ed eguali, e dall‘altro lato

sia potuto apparire come il fautore di una forma di

governo totalitaria, per la celebrazione della volontà

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generale. Secondo questa interpretazione, Rousseau

finirebbe per porsi come il profeta e ideologo dei moderni

totalitarismi di massa, quali saranno incarnati dal nazismo

di Hitler e dal comunismo di Stalin.

L‘educazione secondo natura

L‘Emilio è un‘opera pedagogica. All‘educazione

tradizionale che opprime con una soprastruttura artificiale

la natura originaria, bisogna sostituire un‘educazione che

si proponga come unico fine la conservazione e il

rafforzamento di tale natura. L‘Emilio è la storia di un

fanciullo educato appunto a questo fine, rispetto al quale,

l‘opera dell‘educatore deve essere, almeno in un primo

tempo, negativa: non deve insegnare la virtù e la verità ma

salvaguardare il cuore dal vizio e la mente dall‘errore.

L‘azione dell‘educatore deve essere unicamente diretta a

far sì che lo sviluppo fisico e spirituale del fanciullo

avvenga in modo del tutto spontaneo, che ogni sua nuova

acquisizione sia una creazione che nulla venga

dall‘esterno, ma tutto dall‘interno, cioè dal sentimento

dell‘educando.

La religione naturale

La religione naturale esposta nella Professione di fede del

Vicario Savoiardo. pur facendo appello all‘istinto e al

sentimento naturale, s‘indirizza soprattutto alla ragione, la

quale sola può illuminare e chiarire ciò che l‘istinto e il

sentimento oscuramente testimoniano, Il canone di cui si

serve il Vicario Savoiardo è difatti quello d‘interrogare il

lume interiore nell‘analizzare le diverse opinioni e di dare

l‘assenso soltanto a quelle verosimili. Il lume interiore,

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che è la coscienza o sentimento naturale, non è qui che la

ragione, come equilibrio o armonia delle passioni e degli

interessi spontanei dell‘anima, Il primo dogma della

religione naturale è l‘esistenza di Dio, ricavata dalla

necessità di ammettere una causa del movimento che

anima la materia e di spiegare l‘ordine e la finalità

dell‘universo. Il secondo dogma è la spiritualità, l‘attività

e la libertà dell‘anima. Nel Contratto sociale Rousseau

precisa che lo Stato non può obbligare a credere agli

articoli di fede, ma può bandire chiunque non li creda, non

come empio ma come insocievole. Gli articoli di questo

credo civile sono gli stessi della religione naturale con in

più la santità del contratto sociale e delle leggi e con

l‘aggiunta di un dogma negativo, l‘intolleranza. Si può

notare il contrasto tra l‘assoluta libertà religiosa che

sembra il presupposto dell‘Emilio e l‘obbligatorietà del

credo civile nel Contratto sociale.

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CAPITOLO 12

I. KANT

Konigsberg (1724 – 1804. Si distingue un periodo pre-

critico (ossia precedente allapubblicazione della prima

edizione della Critica della ragion pura, avvenuta nel 1781

– laseconda edizione è del 1787) e il periodo critico,

caratterizzato dalle sue tre opere principali: laCritica della

ragion pura, la Critica della ragion pratica (1788) e la

Critica del giudizio (1790). Al periodo critico

appartengono anche: Prolegomeni ad ogni futura

metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783);

Fondazione della metafisica dei costumi (1785); Principi

metafisici della scienza della natura (1786); La religione

nei limiti della semplice ragione (1793); La metafisica dei

costumi (1797); Antropologia dal punto di vista

pragmatico (1798) e scritti minori.

Il criticismo come filosofia del limite

Il pensiero di Kant è detto criticismo perché,

contrapponendosi al dogmatismo, fa della critica lo

strumento della filosofia. Si definisce così perché è una

critica (dal greco kríno, ―giudico‖) della ragione, operata

dalla ragione stessa, ―un tribunale, che la garantisca nelle

sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno

fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue

eterne ed immutabili leggi‖. ―Criticare‖, nel linguaggio di

Kant, significa dunque interrogarsi sul fondamento di

determinate esperienze chiarendone le possibilità (= le

condizioni che ne permettono l‘esistenza), la validità

(legittimità o non-legittimità che le caratterizzano) e i

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limiti. Kant si propone di rinunciare ad ogni evasione dai

limiti dell‘uomo e, come egli stesso riconosce, deve questa

rinuncia a Hume, che ha rotto il suo ―sonno dogmatico‖. Il

kantismo si inserisce infatti nello specifico orizzonte

storico del pensiero moderno e risulta definito da quelle

coordinate di base che sono la rivoluzione scientifica da

un lato e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali

dall‘altro. Da questo punto di vista, il kantismo può essere

considerato come la prosecuzione di quell‘indirizzo critico

che l‘empirismo inglese aveva iniziato, riconoscendo e

segnando i limiti della ragione e del mondo umano, e che

l‘illuminismo aveva difeso e propagandato nel Settecento.

Tuttavia, il kantismo si distingue dall‘empirismo non solo

per il rifiuto dei suoi esiti scettici, ma anche per il suo

spingere più a fondo l‘analisi critica, cioè per un metodo

di filosofare che, più che soffermarsi sulla descrizione dei

meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali, ecc., si sforza

di fissarne le condizioni e i limiti di validità

La Critica della Ragion Pura

La Critica della ragion pura è un‗analisi critica dei

fondamenti del sapere. Ai tempi di Kant l‘universo del

sapere si articolava in scienza e metafisica, il suo

capolavoro prende la forma di un‘indagine valutativa circa

queste due attività conoscitive. Agli occhi del filosofo la

scienza e la metafisica si presentavano in modo diverso.

Infatti, la prima, grazie ai successi conseguiti da Galileo e

da Newton, appariva come un sapere fondato. Tuttavia,

poiché il pensiero scettico di Hume aveva minato alla base

non solo i fondamenti ultimi della metafisica, ma anche

quelli della scienza, si profilava, secondo Kant, la

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necessità di un riesame globale della struttura e della

validità della conoscenza che fosse in grado di rispondere

in modo esauriente alla domanda sulla scientificità di

questi due campi del sapere. Da ciò le quattro domande di

base: Come è possibile la matematica pura? Com‘è

possibile la fisica pura? Com‘è possibile la metafisica in

quanto disposizione naturale? Come è possibile la

metafisica come scienza? Mentre nel caso della

matematica e della fisica semplicemente di giustificare

una situazione di fatto, chiarendo le condizioni rendono

possibili, nel caso della metafisica si tratta di scoprire se

esistano le condizioni di porsi come scienza.

I giudizi sintetici a priori

Kant è convinto che la conoscenza umana e in particolare

la scienza offra il tipico esempio di principi assoluti, a di

verità universali e necessarie, che valgono ovunque e

sempre allo stesso modo. Tali sono ad es. le proposizioni:

―Tutto ciò che accade ha una causa, i fenomeni in generale

cadono nel tempo e stanno necessariamente fra di loro

apporti di tempo‖. Kant denomina principi di questo tipo

―giudizi sintetici a priori, giudizi poiché consistono

nell‘aggiungere un predicato ad un soggetto; sintetici

perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto

ad esso; a priori ché essendo universali e necessari non

possono derivare dall‘esperienza. Dal punto di vista di

Kant, i giudizi fondamentali della scienza non sono quindi

né giudizi analitici a priori né giudizi sintetici a posteriori.

I primi sono giudizi che gono enunciati a priori, senza

bisogno di ricorrere all‘esperienza, in quanto in essi

predicato non fa che esplicitare, con un processo di analisi

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basato sul principio di non contraddizione, quanto è gi.

implicitamente contenuto nel soggetto: ad esempio ―i

corpi o estesi. Di conseguenza tali giudizi, pur essendo

universali e necessari (= a priori) o infecondi, perché non

ampliano il nostro preesistente patrimonio conoscitivo I

secondi sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di

nuovo rispetto al soggetto, sintetizzandosi a quest‘ultimo

in virtù dell‘esperienza, ovvero a posteriori: ad esempio i

corpi sono pesanti. Questi giudizi, pur essendo fecondi (=

sintetici) sono privi di universalità e necessità perché

poggiano esclusivamente sull‘esperienza. Invece i principi

della scienza — i cosiddetti giudizi sintetici a priori —

risultano sintetici, ossia fecondi, e a priori, ossia universali

e necessari. Pur essendo formulata in modo logico, questa

teoria kantiana dei giudizi sottintende un confronto con le

scuole filosofiche precedenti. I giudizi analitici a priori

richiamano infatti la concezione razionalistica della

scienza. I giudizi sintetici a posteriori richiamano invece

l‘interpretazione empiristica della scienza.

La rivoluzione copernicana

Dopo aver messo in luce che il sapere poggia su giudizi

sintetici a priori, Kant si trova di fronte al problema di

spiegare la provenienza di questi ultimi. Se non derivano

dall‗esperienza, da dove deriveranno i giudizi sintetici a

priori Per materia della conoscenza si intende la

molteplicità caotica e mutevole delle pressioni sensibili

che provengono dall‘esperienza (= elemento empirico o a

posteriori. Per forma si intende l‘insieme delle modalità,

fisse attraverso cui la mente umana ordina, secondo

determinati rapporti, tali impressioni (= elemento

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razionale o a priori). Kant ritiene infatti che la mente filtri

attivamente i dati empirici attraverso forme innate che

risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali,

queste forme sono a priori rispetto all‘esperienza e sono

fornite di validità universale e necessaria, in quanto tutti le

possiedono e le applicano allo stesso modo. Per chiarire la

teoria delle forme a priori di Kant gli studiosi sono ricorsi

all‘esempio che le paragona a delle specie di lenti colorate,

o di occhiali permanenti, attraverso cui guardiamo la

realtà. Ma se in noi esistono determinate forme a priori

universali e necessarie (lo spazio ed il tempo e le 12

categorie) attraverso cui incapsuliamo i dati della realtà,

resta spiegato perché si possano formulare dei giudizi

sintetici a priori intorno ad essa senza timore i essere

smentiti dall‘esperienza. Un esempio: se sapessimo di

portare sempre delle lenti azzurre, potremmo dire, con

tutta sicurezza, che il mondo, anche in futuro, per noi

continuerà ad essere azzurro. Analogamente, noi possiamo

asserire con certezza che ogni evento, anche in futuro,

dipenderà da cause o sarà nello spazio e nel tempo, in

quanto non possiamo percepire le cose se non attraverso la

causalità e mediante lo spazio ed il tempo. In conclusione,

―noi tanto conosciamo a priori delle cose quanto noi stessi

poniamo in esse‖. Questa nuova impostazione del

problema della conoscenza è la ‗rivoluzione copernicana‘

che Kant ritiene di aver operato in filosofia. Come

Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i

rapporti fra la terra e il sole, così Kant, per spiegare la

scienza, ribalta i rapporti fra soggetto ed oggetto,

affermando che non è la mente che si modella

passivamente sulla realtà bensì la realtà che si adegua alle

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forme a priori attraverso cui la percepiamo. Questo

comporta, inoltre, la distinzione kantiana tra fenomeno e

cosa in sé. Il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite

le forme a priori che sono proprie della nostra struttura

conoscitiva. Il fenomeno non è un‘apparenza illusoria,

poiché è un oggetto, ed un oggetto reale, ma reale soltanto

nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sé è la

realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme

a priori mediante cui la conosciamo.

Le facoltà della conoscenza e le partizioni della Critica

Kant articola la conoscenza in tre facoltà principali: Ogni

nostra conoscenza viene dai sensi, da qui va all‘intelletto,

per finire nella ragione. La sensibilità è la facoltà con cui

gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e

tramite le forme a priori di spazio e tempo. L‘intelletto è la

facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i

concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso

cui, procedendo oltre l‘esperienza, cerchiamo di spiegare

la realtà mediante le tre idee di anima, mondo e Dio. Su

questa tripartizione della facoltà conoscitiva in generale è

sostanzialmente basata anche la divisione della Critica

della ragion pura. Questa si biforca in due tronconi

principali: la dottrina degli elementi, che si propone di

scorre, isolandoli, quegli elementi formali della

conoscenza che Kant chiama puri o a priori: e la dottrina

del metodo, che consiste nel determinare il metodo della

conoscenza medesima. La dottrina degli elementi, che è la

parte più estesa della Critica, si ramifica a sua volta in

Estetica trascendentale e Logica trascendentale. L‘Estetica

trascendentale (intesa nel senso greco di dottrina della

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sensibilità) studia la sensibilità e le sue forme - spazio e di

tempo, mostrando come su di essa si fondi la matematica.

La Logica trascendentale si sdoppia a sua volta in

Analitica trascendentale, che studia l‘intelletto - le sue

forme a priori — le 12 categorie — mostrando come su di

esse si fondi la fisica.. La Dialettica trascendentale, che

studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo, Dio,

mostrando come su di esse si fondi la metafisica. La

matematica si fonda sulle forme a priori della sensibilità,

la fisica sulle forme a priori dell‘intelletto, la metafisica

sulle idee della ragione . Trascendentale non significa

qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, bensì qualcosa

che certo la precede (a priori) ma non è determinato a

nulla più che a render possibile la conoscenza

nell‘esperienza‘. Chiamo trascendentale ogni conoscenza

che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del

nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui

questo deve essere possibile a priori.

L‘estetica trascendentale

La teoria dello spazio e del tempo

Nell‘Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a

priori. Kant considera la sensibilità recettiva perché essa

non genera i propri contenuti. Tuttavia la sensibilità non è

soltanto recettiva, ma anche attiva, in quanto organizza il

materiale delle sensazioni (= le intuizioni empiriche

tramite lo spazio ed il tempo che costituiscono le forme a

priori (= le intuizioni pure) della sensibilità.

Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè quella

rappresentazione a priori necessaria, che sta a fondamento

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di tutte le intuizioni esterne e del disporsi delle cose l‘una

accanto all‘altra. Il tempo è la forma del sen interno, cioè

quella rappresentazione a priori che sta a fondamento dei

nostri stati terni e del loro disporsi l‘uno dopo l‘altro.

ovvero secondo un ordine di successione. Tuttavia, poiché

è unicamente attraverso il senso interno che ci giungono i

dati senso esterno, il tempo si configura anche,

indirettamente come la maniera universale attraverso la

quale percepiamo tutti gli oggetti.

La matematica

Kant vede nella geometria e nell‘aritmetica delle scienze

sintetiche a priori per eccellenza. Sintetiche, in quanto

ampliano le nostre conoscenze mediante costruzioni

mentali che vanno oltre il già noto. Ad esempio, la

proposizione 7 + 5 = 12, è sintetica in quanto il risultato

12 viene aggiunto tramite l‘operazione del sommare e non

può quindi esser ricavato per via puramente analitica (ciò

risulta evidente se si prendono in esame cifre più alte).

Inoltre, le matematiche sono a priori in quanto i teoremi

geometrici ed aritmetici valgono indipendentemente

dall‘esperienza. Qual è, allora, il punto di appoggio delle

costruzioni sintetiche a priori delle matematiche? Kant

non ha dubbi che esso risieda nelle intuizioni di spazio e di

tempo. Infatti la geometria è la scienza che dimostra

sinteticamente a priori le proprietà. delle figure mediante

l‘intuizione pura di spazio, stabilendo ad esempio, senza

ricorrere all‘esperienza del mondo esterno, che fra le

infinite linee che uniscono due punti la più breve è la retta,

che due parallele non chiudono uno spazio, che in una

circonferenza il raggio è minore del diametro ecc.

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Analogamente, l‘aritmetica è la scienza che determina

sinteticamente a priori la proprietà delle serie numeriche,

basandosi sull‘intuizione pura di tempo e di successione,

senza la quale lo stesso concetto di numero non sarebbe

mai sorto. In quanto a priori, la matematica è anche

universale e necessaria, immutabilmente valida per tutte le

menti pensanti.

L‘analitica trascendentale

La seconda parte della Dottrina degli elementi è la Logica

trascendentale, cioè un tipo di logica che presenta una

fisionomia originale rispetto a quella della tradizione e che

ha come specifico oggetto di indagine l‘origine,

l‘estensione e la validità oggettiva delle conoscenze a

priori che sono proprie dell‘intelletto (studiato

nell‘Analitica trascendentale e della ragione (studiata nella

Dialettica trascendentale).Sensibilità e intelletto precisa

Kant in un passo famoso sono entrambi indispensabili alla

conoscenza, poiché ―senza sensibilità, nessun oggetto ci

verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe

pensato‖. Nella Analitica dei concetti, che è la prima parte

dell‘Analitica trascendentale, Kant sostiene che le

intuizioni sono delle affezioni (qualcosa di passivo),

mentre i concetti sono delle funzioni, ovvero delle

operazioni attive, che consistono nell‘ordinare o

nell‘unificare diverse rappresentazioni sotto una

rappresentazione comune. Ad es. quello di corpo è un

concetto in quanto sotto di esso si trovano raccolte altre

rappresentazioni (v. quella di metallo). Ora, i concetti

possono essere empirici, cioè costruiti con materiali

ricavati dall‘esperienza, o puri, cioè contenuti a priori

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nell‘intelletto. I concetti puri si identificano con le

categorie (nel senso aristotelico del termine), cioè con quei

concetti basilari della mente che rappresentano le supreme

funzioni dell‘intelletto. E poiché ciascun concetto è ―il

predicato dì un giudizio possibile‖, le categorie coincidono

con i predicati primi, cioè con quelle grandi caselle entro

cui rientrano tutti i predicati possibili. Tuttavia, a

differenza delle categorie aristoteliche, che hanno un

valore ontologico e gnoseologico al tempo stesso, essendo

simultaneamente forme dell‘essere e del pensiero e quindi

leges entis et mentis. le categorie kantiane hanno una

portata esclusivamente gnoseologica, in quanto

rappresentano dei modi di funzionamento dell‘intelletto (e

quindi solo leges mentis) che non valgono per la cosa in

sé, ma solo per il fènomeno. Stabilita la nozione di

categoria, si tratta di redigerne una tavola completa. Kant.

che rimprovera Aristotele di aver rinvenuto le categorie in

modo casuale, ossia senza valersi di un principio sistemati,

comune, formula il suo inventano sulla base del seguente

schema: poiché pensare è giudicare, ci saranno tante

categorie quante sono le forme di giudizio. E poiché la

logica generale, secondo Kant, raggruppa i giudizi

secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità,

egli fa corrispondere a ogni tipo di giudizio un tipo di

categoria

La deduzione trascendentale

Formulata la tavola delle categorie, Kant si trova di fronte

al problema della giustificazione della loro validità.

Problema che egli denomina ―deduzione trascendentale‘.

Kant usa il termine ―deduzione‘ non in senso logico-

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matematico, bensì in quello giuridico. Analogamente, la

deduzione‖ delle categorie non consiste nella semplice

prova che esse sono adoperate. :n linea di fatto, nella

conoscenza scientifica; ma nella giustificazione che

quest‘uso è legittimo. Il problema della deduzione suona

perciò in questo modo: perché le categorie, pur essendo

forme soggettive le/la nostra mente, pretendono di valere

anche per li oggetti, ossia per la natura che non è

l‘intelletto a creare? Detto altrimenti, che cosa ci

garantisce, di diritto, che la natura obbedirà alle categorie.

manifestandosi, nell‘esperienza, secondo le nostre maniere

di pensarla? Nei confronti delle forme della sensibilità,

cioè per lo spazio e per l tempo, tale problema non si

affaccia. Infatti, un oggetto non può apparire all‘uomo,

cioè essere percepito da lui, se non attraverso queste

forme. Invece, per quanto concerne le categorie, non è per

nulla evidente che gli oggetti debbano sottostare ad esse.

In altri termini, dire che la realtà obbedisce, oltre che alle

forme delle nostre intuizioni, anche ai nostri pensieri, è un

paradosso che esige una giustificazione adeguata.

Didatticamente ridotto all‘osso, il ragionamento kantiano

consiste quindi nel mostrare che: a) poiché tutti i pensieri

presuppongono l‘io penso e b)poiché ―l‘io penso pensa

tramite le categorie, ne segue c) che tutti gli oggetti

pensati presuppongono le categorie. Il che equivale a dire

che la natura (fenomenica) obbedisce necessariamente alle

forme (a priori) del nostro intelletto. L‘io penso si

configura dunque come ―il principio supremo della

conoscenza umana. ossia come ciò cui deve sottostare

ogni realtà per poter entrare nel campo dell‘esperienza e

per divenire un oggetto-per-noi. Nello stesso tempo, esso

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rappresenta ciò che rende possibile l‘oggettività (=

l‘universalità e la necessità) del sapere. Infatti, senza 1‘io

penso e le categorie tramite cui esso opera, saremmo

chiusi nel cerchio della soggettività individuale e

potremmo stabilire soltanto delle connessioni particolari e

contingenti. Kant insiste inequivocabilmente sul carattere

formale dell‘io penso, il quale si limita semplicemente ad

ordinare una realtà che gli preesiste e senza di cui la sua

stessa conoscenza non avrebbe senso.

Gli schemi trascendentali

Se nell‘analitica dei concetti Kant si è occupato delle

categorie, nell‘analitica dei principi indaga il modo in cui

esse si possono applicare ai fenomeni. Ciò avviene

innanzitutto con la dottrina dello schematismo che mostra

come ciò possa avvenire in concreto. Se la sensibilità e

l‘intelletto sono due facoltà eterogenee, quale sarà

l‘elemento mediatore per cui l‘intelletto possa applicare i

propri concetti a priori alle intuizioni? Kant risolve il

problema affermando che l‘intelletto, non potendo agire

direttamente sugli oggetti della sensibilità, agisce

indirettamente su di essi tramite il tempo, che è medium

universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti. In

altre parole. se il tempo condiziona gli oggetti, l‘intelletto,

condizionando il tempo, condizionerà gli oggetti. Gli

schemi trascendentali sono la prefigurazione intuitiva (=

temporale) delle categorie, ovvero le regole attraverso cui

l‘intelletto condiziona il tempo in conformità ai propri

concetti a priori. In altri termini, potremmo dire che gli

schemi trascendentali sono le categorie calate nel tempo,

ovvero le categorie tradotte in linguaggio temporale. Per

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quanto concerne le categorie di relazione, lo schema della

categoria di sostanza è la permanenza nel tempo; lo

schema della categoria di causa-effetto è la successione

nel tempo; lo schema dell‘azione reciproca è la

simultaneità nel tempo. E così via per le altre categorie.

Il concetto di noumeno

L‘originalità di Kant, che anziché cercare negli oggetti la

garanzia ultima della conoscenza, la scopre nella mente

stessa dell‘uomo, fondando le istanze dell‘oggettività nel

cuore stesso della soggettività, appare in tutta la sua forza

ed evidenza. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non

può estendersi al di là dell‘esperienza, in quanto una

conoscenza che non si riferisca ad un‘ esperienza possibile

non è conoscenza, ma un vuoto pensiero. Questo principio

implica che le categorie abbiano il loro unico uso possibile

in quello empirico, per il quale vengono riferite solo ai

fenomeni, ossia agli oggetti di un‘esperienza determinata.

La delimitazione della conoscenza al fenomeno comporta

un esplicito rimando alla nozione di cosa in sé che, pur

essendo inconoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la

gnoseologia. Infatti Kant non ha mai pensato di ridurre la

realtà al fenomeno, in quanto egli afferma che se c‘è un

per-noi, deve per forza esserci un in-sé. In questo senso, la

cosa in sé costituisce il presupposto o il postulato

immanente del discorso gnoseologico di Kant, il quale, nel

momento stesso in cui afferma che l‘essere si dà a noi

attraverso delle forme a priori, è costretto a distinguere

immediatamente tra fenomeno e cosa in sé. Kant ritiene

che l‘ambito della conoscenza umana è rigorosamente

limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé, che egli

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denomina con il termine greco noumeno (= la realtà

pensabile, l‘intelligibile puro), non può essere oggetto di

un‘esperienza possibile. In senso positivo. il noumeno è

―l‘oggetto di un intuizione non sensibile‖, cioè di una

conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa e che,

invece, potrebbe essere propria di un ipotetico intelletto

divino dotato di una intuizione intellettuale delle cose. In

senso negativo, il noumeno è invece il concetto di una

cosa in sé come di una X che non può mai entrare in

rapporto conoscitivo con noi ed essere quindi oggetto della

nostra intuizione sensibile‖. In questo senso, che è l‘unico

in cui possiamo legittimamente adoperare tale nozione, la

cosa in sé, più che essere una realtà, è per noi un concetto,

e precisamente un concetto-limite che serve ad arginare le

nostre pretese conoscitive.

La dialettica trascendentale

La genesi della metafisica e delle tre idee

Nell‘Estetica e nell‘Analitica Kant ha portato a termine

solo la prima parte del suo programma: la dimostrazione

di come sia possibile il sapere scientifico, Nella Dialettica

egli affronta la seconda parte di esso: il problema se la

metafisica possa anch‘essa costituirsi come scienza. Già il

termine dialettica — assunto a significare la ―logica della

parvenza‖,— lascia intuire la risposta negativa di Kant a

tal proposito. Riconnettendosi al significato peggiorativo

del termine, per ―Dialettica trascendentale‖ Kant intende

lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della ragione..

La metafisica è come la colomba, che, presa dall‘ebbrezza

del volo, immaginasse di poter volare anche senza l‘aria,

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non rendendosi conto che quest‘ultima, pur essendo un

limite al suo volo, ne è anche la condizione immanente,

senza di cui essa precipiterebbe a terra. Kant ritiene che

questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla

innata tendenza all‘ incondizionato e alla totalità.

Spiegazione che fa leva sulle tre idee trascendentali che

sono proprie della ragione. Infatti, quest‘ultima è portata

ad unificare i dati del senso interno mediante l‘idea di

anima, che è l‘idea della totalità assoluta dei fenomeni

interni, ad unificare i dati del senso esterno mediante

l‘idea di mondo, che è l‘idea della totalità assoluta dei

fenomeni esterni; infine, ad unificare i dati interni ed

esterni mediante l‘idea di Dio, inteso come totalità di tutte

le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste. L‘errore

della metafisica consiste nel trasformare queste tre

esigenze (mentali) di unificazione dell‘esperienza in

altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a

che fare con la cosa in sé, ma solo con la realtà non

oltrepassabile del fenomeno. Per questo, i metafisici,

secondo Kant, sono simili a quei già citati navigatori degli

oceani burrascosi, che, non contenti della loro isola (cioè

della terraferma del fenomeno e della scienza) vogliono

spingersi in alto mare con l‘irrealizzabile speranza di

trovare nuovi insediamenti. La Dialettica trascendentale

vuoi appunto essere lo studio critico e la denuncia delle

peripezie e dei naufragi della metafisica, cioè delle

avventure e dei fallimenti del pensiero quando procede

oltre gli orizzonti dell‘esperienza possibile, guidato da un‘

illusione strutturale così forte, che non cessa neppure

quando si rende conto he essa è tale, proprio come

l‘astronomo, ad esempio, non può impedire che la Luna

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gli appaia più grande al suo levarsi, pur sapendo che ciò

non è vero nella realtà, Per dimostrare l‘infondatezza della

metafisica, Kant prende in considerazione le tre pretese

scienze che da sempre ne costituiscono l‘ossatura: la

psicologia razionale, che studia l‘anima, la cosmologia

razionale, che indaga sul mondo, la teologia razionale o

naturale, che specula su Dio.

Critica della psicologia, della cosmologia e della teologia

razionali

Kant ritiene che la psicologia razionale o metafisica sia

fondata su di un paralogisma cioè su di un ragionamento

errato, che consiste nell‘applicare la categoria di sostanza

all‘io penso, trasformandolo in una ‗realtà permanente‖

chiamata ―anima‖. In realtà, osserva Kant, l‘io penso non è

un oggetto empirico, ma soltanto un‘unità formale e per di

più sconosciuta, a cui non possiamo quindi applicare

alcuna categoria. Anche la cosmologia razionale, che

pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la

totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata, a

fallire, Infatti, poiché la totalità dell‘esperienza non è mai

un‘esperienza, in quanto noi possiamo sperimentare

questo o quel fenomeno, ma non la serie completa dei

fenomeni, l‘idea di mondo cade, per definizione, al di

fuori di ogni esperienza possibile. Tant‘è vero che quando

i metafisici, dimentichi di ciò, pretendono di fare un

discorso intorno al mondo nella sua totalità, cadono

inevitabilmente nei reticolati logici delle cosiddette

antinomie, veri conflitti della ragione con se stessa, che si

concretizzano in coppie di affermazioni opposte, dove

l‘una (la tesi) afferma e l‘altra (l‘antitesi) nega, ma tra le

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quali, in assenza di un‘esperienza corrispondente, non è

possibile decidere.

Anche la teologia razionale. che si occupa del più arduo

problema della metafisica, cioè della questione di Dio,

risulta priva di valore conoscitivo. Dio, secondo Kant,

rappresenta l‘ideale della ragion pura, cioè quel supremo

modello personificato di ogni realtà perfezione che i

filosofi hanno designato con il nome di Ens realissimum,

concependolo come l‘Essere da cui derivano e dipendono

tutti gli esseri. La tradizione ha elaborato tutta una serie di

prove dell‘esistenza di Dio, che Kant raggruppa in tre

classi: prova ontologica, cosmologica e fisico-teologica. a)

La prova ontologica, che risale a S. Anselmo, ma che Kant

assume nella forma cartesiana, pretende di ricavare

l‘esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio come

essere perfettissimo, affermando che, in quanto tale, Egli

non può mancare dell‘attributo dell‘esistenza.

Distinguendo criticamente fra piano mentale e piano reale.

Kant obbietta che non risulta possibile ―saltare‖ dal piano

della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in

quanto l‘esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo

per via empirica, e non gi dedurre per via puramente

intellettiva. Kant sostiene infatti che ―l‘esistenza non è un

predicato‖, intendendo dire che l‘esistenza non è una

proprietà logica, ma un fatto d‘esperienza. Tant‘è vero che

quando si è ben descritta la natura di una realtà qualsiasi in

tutti i suoi caratteri, ci si può ancora chiedere se esista o

meno. Per cui, scrive Kant, la differenza tra cento talleri

reali e cento talleri pensati non sta nel concetto, ma nel

fatto che gli uni esistono e gli altri no. b) La prova

cosmologica, si basa sulla distinzione fra contingente e

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necessario, affermando che ―se qualcosa esiste, deve

anche esistere un essere assolutamente necessario; poiché

io stesso, almeno, esisto, deve quindi esistere un essere

assolutamente necessario‖. Secondo Kant, il primo limite

di questo argomento consiste in un uso illegittimo del

principio di causa, in quanto esso, partendo

dall‘esperienza della catena degli enti causati

(contingenti), pretende di innalzarsi, oltre l‘esperienza, ad

un primo anello incausato e Necessario. Ma il principio di

causa è una regola con cui connettiamo i fenomeni tra di

loro e che quindi non può affatto servire a connettere i

fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico. c) La prova

fisico-teologica fa leva sull‘ordine, sulla finalità del

mondo per innalzarsi ad una Mente ordinatrice.

identificata con un Dio creatore, perfetto ed infinito. Essa,

rileva Kant, è la più antica, la più chiara e la più adatta alla

comune ragione. Anche questa prova, secondo Kant,

risulta internamente minata da una sene di forzature

logiche e dall‘utilizzazione mascherata dell‘argomento

ontologico. Questa parte dall‘esperienza dell‘ordine del

mondo e giunge subito all‘ idea di una causa ordinante

trascendente, dimenticando che l‘ordine della Natura

potrebbe essere una conseguenza della leggi immanenti

alla Natura.

La funzione regolativa

Le idee della ragion pura, anche se non possono avere un

uso costitutivo perché non servono a conoscere alcun

oggetto possibile, possono avere, per Kant, un uso

regolativo. Infatti ogni idea è, per la ragione, una regola

che la spinge a dare al suo campo d‘indagine, che è

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l‘esperienza, non solo la massima estensione, ma anche la

massima unità sistematica. Così l‘idea psicologica spinge

a cercare i legami fra tutti i fenomeni del senso interno e a

rintracciare in essi una sempre maggiore unità proprio

come se fossero manifestazioni di un‘unica sostanza

semplice. L‘idea cosmologica spinge a passare

incessantemente da un fenomeno naturale all‘altro,

dall‘effetto alla causa e alla causa di questa causa e via

all‘infinito, proprio come se la totalità dei fenomeni

costituisse un unico mondo. L‘idea teologica infine addita

all‘intera esperienza un ideale di perfetta organizzazione

sistematica, che essa non raggiunger mai, ma che

perseguir sempre, proprio come se tutto dipendesse da un

unico creatore. Le idee, cessando di valere

dogmaticamente come realtà, varranno in questo caso

problematicamente, come condizioni che impegnano

l‘uomo nella ricerca naturale.

La Critica della Ragion pratica

La ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma

anche l‘azione. Accanto alla ragione teoretica abbiamo

quindi una ragione pratica. Il motivo che sta alla base della

Critica della ragion pratica è la persuasione che esista,

scolpita nell‘uomo, una legge morale a priori valida per

tutti e per sempre. Kant considera questo punto ―un fatto‖.

Essendo indipendente dagli impulsi del momento, la legge

risu1terà anche, per definizione, universale e necessaria,

ossia mutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e

luogo. L‘equazione moralità = incondizionatezza = libertà

= universalità e necessità rappresenta quindi il fulcro

dell‘analisi etica di Kant. La morale implica la

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bidimensionalità umana di ragione e sensibilità. Se l‘uomo

fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità ed

impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché

l‘individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se

l‘uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe

ugualmente di senso, in quanto l‘individuo sarebbe sempre

in una situazione di perfetta adeguazione alla legge.

Invece la bidimensionalità dell‘essere umano fa sì che per

Kant l‘agire morale prenda la forma severa del dovere e si

concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli

impulsi egoistici. Kant distingue i principi che regolano la

nostra volontà in massime e imperativi. La massima è una

prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida

esclusivamente per l‘individuo che la fa propria (ad es.

può essere una massima quella di vendicarsi di ogni offesa

subita o di alzarsi presto al mattino per fare ginnastica).

L‘imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia

che vale per chiunque. Gli imperativi si dividono a loro

volta in imperativi ipotetici e in imperativo categorico. Gli

imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di

determinati fini ed hanno la forma del se... devi (ad es.: se

vuoi conseguire buoni risultati scolastici, devi impegnarti

in modo costante). L‘imperativo categorico ordina invece

il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da

qualsiasi scopo, e non ha la forma del se,.. devi, ma del

―devi‖ puro. Ora, essendo la morale strutturalmente

incondizionata, cioè indipendente dagli impulsi sensibili e

dalle mutevoli circostanze, risulta evidente che essa non

potrà risiedere negli imperativi ipotetici, che sono, per

definizione, condizionati e variabili. Infatti, solo

l‘imperativo categorico, in quanto in-condizionato, ha i

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connotati della legge, ovvero di un comando che vale in

modo perentorio per tutte le persone e per tutte le

circostanze. In conclusione, solo l‘imperativo categorico,

che ordina un tu devi assoluto, e quindi universale e

necessario, ha in se stesso i contrassegni della moralità.

Posto che la legge etica assuma la forma di un imperativo

categorico, che cosa comanda quest‘ultimo? Kant risponde

che esso, in quanto incondizionato consiste nell‘elevare a

legge l‘esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è

dire universalità, esso si concretizza nella prescrizione di

agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò

la formula-base dell‘imperativo categorico: ―Agisci in

modo che la massima della tua volontà possa sempre

valere nello stesso tempo come principio di una

legislazione universale‖. L‘imperativo categorico è quel

comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e

che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo

se la sua massima appare universalizzabile. Ad esempio,

chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché

qualora venisse universalizzata la massima dell‘inganno i

rapporti umani diventerebbero impossibili. Nella

Fondazione della metafisica dei costumi troviamo anche

una seconda ed una terza formula.

La formalità della legge

Un‘altra caratteristica strutturale dell‘etica kantiana è la

formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa

dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo.

Anche ciò discende dalla riconosciuta incondizionatezza

della norma etica. Infatti, se quest‘ultima non fosse

formale, bensì ―materiale e prescrivesse quindi dei

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233

contenuti concreti, sarebbe ―vincolata ad essi, perdendo

inevitabilmente in termini di universalità, non potendo,

qualsiasi contenuto o precetto particolare, possedere

l‘universale portata della legge. Questo significa che

l‘imperativo etico non può risiedere in una casistica o

manualistica concreta di precetti, ma soltanto in una legge

formale, la quale afferma semplicemente: quando agisci

tieni presente gli altri e rispetta la dignità umana che è in

te e nel prossimo. Ovviamente secondo Kant, sta poi ad

ognuno di noi tradurre in concreto, nell‘ambito delle varie

situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della

legge. Il cuore della moralità kantiana risiede nel dovere-

per-il dovere, ossia nello sforzo di attuare la legge della

ragione solo per ossequio ad essa, e non sotto la spinta di

inclinazioni o in vista di risultati.

L‘autonomia e la rivoluzione copernicana morale

Le varie determinazioni della legge etica convergono in

quella dell‘autonomia, che tutte le implica e riassume. Il

senso profondo dell‘etica kantiana, e della sua sorta di

―rivoluzione copernicana morale‖, consiste infatti

nell‘aver posto nell‗uomo e nella sua ragione il

fondamento dell‗etica, al fine di salvaguardarne la piena

libertà e purezza. Se la libertà, presa in senso negativo,

risiede nell‘indipendenza della volontà dalle inclinazioni,

in senso positivo si identifica con la sua capacità di

autodeterminarsi, ossia nella prerogativa autolegislatrice

della volontà, la quale fa sì che l‘umanità sia norma a se

stessa. Di conseguenza, Kant polemizza aspramente contro

tutte le morali eterononie. cioè contro tutti quei sistemi che

pongono il fondamento del dovere in forze esterne

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all‘uomo o alla sua ragione. facendo scaturire la morale,

anziché dalla pura forma‘ dell‘imperativo categorico, da

principi ‗materiali‖.

I postulati pratici

La felicità non può mai erigersi a motivo del dovere,

perché in tal caso metterebbe in forse l‘incondizionatezza

della legge etica e quindi la sua categoricità, formalità,

purezza ed autonomia. Tuttavia la virtù, pur essendo il

‗bene supremo‘, non è ancora, secondo Kant, quel sommo

bene cui tende irresistibilmente la nostra natura, che

consiste nell‘unione di virtù e felicità. Ma in questo

mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, in quanto

lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono

due azioni distinte e per lo più opposte. L‘unico modo per

uscire da tale antinomia, è di ―postulare‖ un mondo

dell‘aldilà in cui possa realizzarsi l‘equazione virtù-

felicità. Kant trae il termine ―postulato‖ dal linguaggio

della matematica classica. In quest‘ultima, mentre si

dicono assiomi le verità fornite di auto-evidenza, si

chiamano postulati quei principi che, pur essendo

indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili

determinate entità o verità geometriche. Analogamente, i

postulati di Kant sono quelle proposizioni non dimostrabili

che ineriscono alla legge morale come condizione della

sua stessa esistenza, ovvero quelle esigenze della morale

che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della

morale stessa, ma che di per se stesse non possono venir

dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l‘immortalità

dell‘anima e l‘esistenza di Dio. Accanto ai due postulati

―religiosi‖ dell‘immortalità dell‘anima e dell‘esistenza di

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Dio, Kant pone un altro postulato: la libertà. Quest‘ultima

è infatti la condizione stessa dell‘etica, che nel momento

stesso in cui prescrive il dovere presuppone anche che si

possa agire o meno in conformità di esso e che quindi si

sia sostanzialmente liberi, ―Devi. dunque puoi‖, afferma

Kant, se c‘è la morale deve, per forza, esserci la libertà. I

postulati kantiani non possono affatto valere come

conoscenze. Se i postulati fossero delle verità dimostrate,

la morale scivolerebbe immediatamente verso

l‘eteronomia e sarebbe nuovamente la religione (o la

metafisica) a fondare la morale, con tutti gli inconvenienti

gi esaminati. Rovesciando il modo tradizionale di

intendere il rapporto tra morale e religione, Kant sostiene

che non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì

la morale, sia pur sotto forma di postulati, a fondare le

verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta

all‘inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente

alla fine, come suo possibile completamento.

La critica del giudizio

Dalla Critica della ragion pura emergeva una visione

della realtà. in termini meccanicistici, in quanto la natura,

dal punto di vista fenomenico, appariva come una struttura

causale e necessaria, entro la quale non trovava posto la

libertà umana. Dalla Critica della ragion pratica affiorava

invece una visione della realtà in termini indeterministici e

finalistici, in quanto si postulava, come condizione della

morale, la libertà dell‘uomo e l‘esistenza di Dio. Da ciò

l‘abisso fra due mondi tanto diversi. La Critica del

Giudizio si domanda se non vi siano vie per superare

questo ―abisso‖, questa ―spaccatura‖. Le vie per arrivare a

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questa persuasione non sono evidenze scientifiche, ma la

bellezza e l‘ordine della natura che sono oggetto della

Critica del Giudizio. Vi sono due tipi di giudizio: Giudizio

determinante – E‘ il giudizio scientifico (sintetico a priori)

studiato dalla Critica della ragion pura e Giudizio

riflettente – L'accordo tra il mondo della necessità naturale

e quello della libertà Kant lo trova in quello che chiama

―giudizio riflettente‖, col quale il soggetto ―riflette‖ (come

uno specchio) dall'interno all'esterno, attribuisce agli

oggetti esterni una finalità che come tale appartiene solo al

soggetto (i critici denominano questo spostamento come

rivoluzione copernicana estetica), alla sua interiorità. Il

giudizio riflettente quindi serve a stabilire un ponte tra il

mondo naturale (necessità) e il mondo della libertà

(rivelato dalla volontà morale).Il principio guida a-priori è

l‘ipotesi della finalità della natura. Vi sono due modi per

scoprire il ―finalismo‖ nella natura: il giudizio estetico

(Kant utilizza ora il termine estetico nel suo significato

comune) e il giudizio finalistico.

Nel giudizio estetico noi vediamo immediatamente la

finalità della natura (es. di fronte a un bel paesaggio). Il

giudizio estetico ha una pretesa di universalità, di

oggettività e si può specificare attraverso tre definizioni:

Bello è l‘oggetto di un piacere disinteressato; Bello è ciò

che piace universalmente; Bello è una ―finalità senza

scopo‖ (espressione volutamente contraddittoria per

significare che l‘armonia che percepiamo in un oggetto

bello non rientra in schemi concettuali precisi). Kant

introduce anche il concetto di Sublime, che è ―ciò che è

assolutamente grande al di là di ogni comparazione‖;

Sublime matematico (immensamente grande) e sublime

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dinamico (forze immensamente grandi). Essi riguardano

ciò che è ―informe‖, cioè illimitato (diametro terrestre, la

via lattea, le galassie ecc.). Il sublime è in un certo modo

presentito quando, di fronte a certi spettacoli naturali che

superano il potere della nostra immaginazione, proiettiamo

su quest‘ultimi quella grandezza assoluta che è propria del

sovrasensibile.

Nel giudizio teleologico non vediamo immediatamente la

finalità, ma la pensiamo attraverso il concetto di fine (es.

riflettendo su uno scheletro capiamo che è stato prodotto

per sorreggere l‘animale). Cosa sia in sé la natura non lo

sappiamo, perché la conosciamo solo fenomenicamente;

tuttavia non possiamo fare a meno di considerarla come

finalizzata: ―per la particolare struttura della mia facoltà

conoscitiva io non posso giudicare della possibilità di

quelle cose (naturali) e della loro produzione se non

pensando ad una causa che agisce intenzionalmente‖. Non

possiamo fare a meno di scorgere nella natura anche cause

finali (sebbene possiamo solo conoscere le cause

meccaniche). Tuttavia ―Non c‘è nessuna ragione umana

che possa sperare di comprendere secondo cause

meccaniche la produzione sia pure di un filetto d‘erba‖. La

considerazione teleologica ha un uso regolativo e risponde

a un bisogno della natura umana.

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CAPITOLO 13

Romanticismo e idealismo

Il Romanticismo è un vasto movimento letterario, artistico

e culturale che si sviluppò tra la fine del'700 e gli inizi

dell'800, prima in Germania e poi nel resto dell‘Europa.

Pur essendo un movimento molto eterogeneo, si

caratterizza per alcuni aspetti comuni di fondo:

1. Il senso dell‘infinito: in tutto il romanticismo vi è una

tensione ad andare oltre qualsiasi limite materiale e

spirituale, verso l'assoluto o l'infinito. I romantici si

differenziano per il diverso modo di intendere l‘Infinito e

di concepirne i rapporti con il finito (l‘uomo, la natura,

ecc.). Il modello dominante è quello panteistico, secondo

il quale il finito è la realizzazione vivente dell‘Infinito. Un

secondo modello, che afferma invece la distinzione tra

finito e Infinito, è una forma di trascendentismo e di

teismo, che ammette la trascendenza dell‘Infinito rispetto

al finito.

2. L'esaltazione del sentimento e dell‘arte: contro il

razionalismo dell'illuminismo, il romanticismo propone la

riscoperta del sentimento. Nel romanticismo viene rifiutata

ogni visione ottimistica di derivazione illuminista (rifiuto

del progresso e della scienza). Dai poeti e dagli artisti,

l‘organo più funzionale per rapportarsi alla vita e per

penetrare nell‘essenza più riposta dell‘universo viene

rintracciato nel sentimento, che è la principale eredità che

il Romanticismo riceve dallo Sturm und Drang. Il pensiero

è soltanto un sogno del sentimento (Novalis). Goethe nel

Faust scrive: Quando in cotesto sentire ti senti veramente

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felice, chiamalo pure allora come vuoi: chiamalo felicità,

cuore, amore, Dio. Per questo io non ho nome alcuno.

Sentimento è tutto. La parola è soltanto suono e fumo.

L‘esaltazione del sentimento procede parallelamente al

culto dell‘arte: la poesia, ma soprattutto la musica, sono

gli organi capaci di raggiungere intuitivamente l‘Infinito.

l'arte come suprema forma di conoscenza e disciplina

intellettuale, vista come espressione massima della

spiritualità immanente al mondo

3. La concezione spiritualistica e antimeccanicistica della

natura, per cui il mondo naturale è l'espressione di una

divinità immanente. Da Galileo in poi, la Natura era stata

prevalentemente considerata come sistema di materia in

movimento retto da un insieme di leggi meccaniche, senza

ulteriori finalità. Riprendendo dall‘altro la visione antico-

rinascimentale della natura, i romantici giungono ad una

filosofia della natura organicistica (la natura è una totalità

organizzata nella quale le parti vivono solo in funzione del

tutto), vitalista (la natura è una forza dinamica, vivente,

animata), finalistica (la natura è un processo in vista

secondo determinati scopi, immanenti o trascendenti),

spiritualistica (la natura è anch‘essa spirituale o uno spirito

in divenire) e dialettica (la natura è organizzata secondo

coppie di forze opposte, formate da un polo positivo ed

uno negativo, e costituenti delle unità dinamiche). La

scoperta della pila voltaica e i progressi del chimismo e

del magnetismo parvero, ad un certo punto, confermare

talune intuizioni romantiche, come ad esempio quelle

relative alla ―dialettica‖ dei fenomeni naturali.

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4. La riscoperta della fede: la riscoperta del sentimento

religioso in grado di cogliere gli aspetti più trascendenti e

mistici della vita, in risposta all'antireligiosità

dell'illuminismo;

5. La rivalutazione della storia: la rivalutazione, ad

esempio, del periodo medievale, in contrapposizione

all'antistoricismo illuminista che aveva svalutato il

medioevo definendolo il periodo buio dell'umanità;

Storicamente viene indicato come movimento ispiratore

del Romanticismo lo Sturm und Drang ("tempesta ed

impeto"), che prese il nome da un dramma di Klinger del

1776. La filosofia della fede si può considerare nel suo

complesso come l‘espressione filosofica del movimento

letterario dello Sturm und Drang. La ragione contro cui

questa filosofia polemizza è la ragione finita, cioè la

ragione di cui Kant aveva individuato i limiti; alla quale

contrappone la fede come organo capace di cogliere ciò

che ad essa è inaccessibile. Allo Sturm und Drang

parteciparono Schiller e Goethe. Il poeta Friedrich Schiller

vede nell‘arte il principio che armonizza insieme la natura

e lo spirito. Johann Wolfgang Goethe fa della natura stessa

il tema ispiratore di ogni riflessione. Per Goethe, la natura

e Dio sono strettamente congiunti e fanno tutt‘uno. La

natura non è che l‘abito vivente della divinità.

L‘idealismo

L‘idealismo è l‘espressione filosofica del romanticismo.

Per idealismo tedesco Tutto è Spirito e la Natura esiste

non come realtà a sé stante, ma come momento dialettico

necessario della vita dello Spirito. Questa idea viene

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espressa magistralmente nel racconto di Novalis I

discepoli di Sais, dove si dice che: Accadde ad uno di

alzare il velo della dea di Sais, Ma cosa vide? Egli vide —

meraviglia delle meraviglie — se stesso. Secondo

l‘interpretazione idealistica, la dea velata sarebbe il

simbolo del mistero dell‘universo; quell‘uno che giunge a

scoprirla è il filosofo idealista, che dopo una lunga ricerca

si rende conto che la chiave di spiegazione di ciò che

esiste, vanamente cercata dai filosofi fuori dell‘uomo, ad

esempio in un Dio trascendente o nella Natura, si trova

invece nell‘uomo stesso, ovvero nello Spirito, Ma se

l‘uomo è la ragion d‘essere e lo scopo dell‘universo, che

sono gli attributi fondamentali che la filosofia occidentale

ha riferito alla divinità, vuol dire che egli coincide con

l‘Assoluto e con l‘Infinito, cioè con Dio stesso, A questo

punto risultano evidenti anche i rapporti che uniscono e

dividono l‘idealismo dalla tradizione ebraico-cristiana. Gli

idealisti pensano anch‘essi, da un lato, che l‘uomo sia il re

del creato tuttavia l‘idealismo tedesco, laicizzando il

biblico Dio creò i cieli e la terra per l‘uomo‖, conclude che

l‘uomo stesso è Dio. Tant‘è vero che la figura classica di

un Dio trascendente e staticamente perfetto, per il primo

Fichte, è solo una ‗ciarla scolastica o una chimera‘, in

quanto presupporrebbe l‘esistenza di un positivo senza il

negativo. Invece, per gli idealisti, l‘unico Dio possibile è

lo Spirito dialetticamente inteso, ovvero il soggetto che si

costituisce tramite l‘oggetto. la libertà che opera attraverso

l‘ostacolo, l‘io che si sviluppa attraverso il non-io. Con

l‘idealismo ci troviamo di fronte, per la prima volta nella

storia del pensiero, ad una forma di panteismo

spiritualistico (Dio è lo Spirito operante nel Mondo)

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Linee fondamentali dell‘idealismo tedesco

Si definiscono genericamente idealiste quelle visioni del

mondo che ritengono che la realtà ―vera‖ non sia quella

materiale ma sia quella spirituale (Platonismo e

Cristianesimo). In senso specifico Idealismo è la corrente

filosofica tedesca (Fichte, Schelling e Hegel) che giunge a

dire che tutto è Spirito. L'idealismo tedesco nasce a

seguito della negazione dell'esistenza della cosa in sé.

Questo era un concetto fondamentale del pensiero di Kant,

il quale aveva sostenuto che il mondo, così come noi lo

vediamo e descriviamo, dipende anche dalla particolare

struttura della nostra sensibilità e del nostro intelletto, in

definitiva del nostro pensiero. Questo è il mondo dei

fenomeni, che quindi per definizione sono non ciò che è in

sé (cosa in sé), ma ciò che a noi appare. Per gli idealisti la

cosa in sé è un concetto insostenibile, dato che non si può

ammetterne l'esistenza, nel momento in cui se ne dichiara

l'inconoscibilità. Ma, una volta tolta la cosa in sé, tutta la

realtà si risolve nel pensato. Il pensiero non è più qualche

cosa di rappresentativo di una realtà che sta al di fuori, ma

è l'essere stesso. Al di là del contenuto del pensiero non c'è

nulla. Naturalmente il pensiero non è quello dell'individuo,

ma dell'umanità tutta intera; non di un soggetto singolo,

ma dello spirito.

Entro questo quadro, l‘idealismo di Fichte è detto

soggettivo, perché considera il fondamento di tutto un

Soggetto o Io, che crea la natura, ed etico, perché impone

ad ogni individuo il dovere di tendere verso la libertà.

L'idealismo di Schelling è detto oggettivo, perché

considera il fondamento come identità di Io e Natura, ed

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estetico, perché l'Assoluto può essere colto solo tramite

l'intuizione estetica. L'idealismo di Hegel è detto assoluto,

perché costituisce un superamento dei primi due grazie

alla completa realizzazione del finito.

Aspetti comuni dell‘idealismo sono: 1. l‘identificazione

della realtà con lo Spirito; 2. l‘idea di Dio come processo

continuo di auto-realizzazione; 3. la tesi che l‘infinito vive

nel finito.

Se tutto è Spirito il concetto di Natura viene rivisto

completamente alla luce del nuovo concetto di dialettica

degli opposti: nella realtà non esiste mai un positivo (tesi)

senza un negativo (antitesi), un Soggetto senza un

Oggetto, un Io senza un Non-Io. Lo Spirito ―crea‖ la

Natura come suo opposto e la Natura esiste solo per lo

Spirito, in funzione dello Spirito, come la scena

dell‘attività dello Spirito. La natura esiste solo come polo

dialettico negativo, necessario per la vita dello Spirito.

Ecco il senso delle righe di Novalis. Il mistero

dell‘universo (simbolizzato dalla dea velata) è risolto dal

filosofo idealista che dopo aver inutilmente cercato la

risposta fuori dell‘uomo (la Natura, Dio trascendente ecc.),

finalmente la trova nell‘Uomo stesso, nello Spirito. Ma se

l‘Uomo (lo Spirito) è il senso del tutto, allora l‘Uomo

coincide con il Tutto, con l‘Infinito, con Dio. L‘uomo è

Dio stesso. Mentre tutte le filosofie naturalistiche e

materialistiche avevano concepito la Natura come causa

dello Spirito (nel senso che l‘Uomo è un prodotto della

Natura), l‘idealismo rovescia questa convinzione

sostenendo che è lo Spirito (l‘Uomo) ad essere causa della

natura. Con l‘idealismo tedesco si ha la prima

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formulazione nella storia della filosofia di una forma di

panteismo spiritualistico (Dio è lo Spirito che opera nel

Mondo, è l‘Uomo), che si distingue nettamente dal

panteismo naturalistico (Dio è la natura) e dal

Trascendentismo (Dio ebraico-cristiano trascendente la

natura).

J. Fichte (1762-1814)

Kant aveva riconosciuto nell‘io-penso il principio supremo

di tutta la conoscenza. Schulze, Maimon e Beck hanno

dichiarata chimerica la stessa cosa in sé in quanto esterna

alla coscienza e indipendente da essa. Maimon e Beck

avevano quindi giù tentato di attribuire all‘attività

soggettiva la produzione del materiale sensibile e di

risolvere nell‘io l‘intero mondo della conoscenza, Fichte

trae per la prima volta le conseguenze da queste premesse.

Se l‘io è l‘unico principio, non solo formale ma anche

materiale del conoscere, se alla sua attività è dovuto non

solo il pensiero della realtà oggettiva, ma questa realtà

stessa nel suo contenuto materiale, è evidente che l‘io è

non solo finito, ma infinito. Tale è il punto di partenza di

Fichte. Il quale è il filosofo dell‘infìnità dell‘Io, della sua

assoluta attività, quindi della sua assoluta libertà. La

deduzione di Fichte mette capo ad un principio assoluto,

che pone o crea il soggetto e l‘oggetto fenomenici in virtù

di un‘attività creatrice, cioè di un‗intuizione intellettuale.

La Dottrina della scienza ha lo scopo di dedurre da questo

principio l‘intero mondo del sapere; e di dedurlo

necessariamente, in modo da dare il sistema unico e

compiuto di esso. Non deduce tuttavia il principio stesso

della deduzione, che è l‘Io, e il problema in cui urta è

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appunto quello che verte sulla natura dell‘Io. Le

successive elaborazioni della Dottrina della scienza si

differenziano sostanzialmente nel rapporto che

stabiliscono tra l‘infinito e l‘uomo.

La Dottrina della scienza e i suoi tre principi.

L‘ambizione di Fichte è di costruire un sistema grazie al

quale la filosofia, cessando di essere semplice ricerca del

sapere (secondo l‘etimologia greca del termine), divenga

finalmente un sapere assoluto e perfetto. Infatti il concetto

della Dottrina della scienza è quello di una scienza della

scienza, cioè di un sapere che metta in luce il principio su

cui si fonda la validità di ogni scienza e che a sua volta si

fondi, quanto alla sua validità, sullo stesso principio. I1

principio della dottrina della scienza è l‘lo o

l‘Autocoscienza. Noi possiamo dire che qualcosa esiste,

afferma il filosofo, solo rapportandolo alla nostra

coscienza, ossia facendone un essere-per-noi, A sua volta

la coscienza è tale solo in quanto è coscienza di se

medesima, ovvero autocoscienza. In sintesi: l‘essere per

noi (l‘oggetto) è possibile soltanto sotto la condizione

della coscienza (del soggetto) e questa soltanto sotto la

condizione dell‘autocoscienza. La coscienza è il

fondamento dell‗essere, l‘autocoscienza è il fondamento

della coscienza. La Dottrina della scienza è il tentativo

sistematico di dedurre dal principio dell‘autocoscienza la

vita teoretica e pratica dell‘uomo. Fichte comincia in essa

con lo stabilire i tre principi di questa deduzione. 1. l‘Io

pone se stesso; 2. L‘Io oppone a sé un non—io, ossia il

mondo, in cui si trova anche il nostro io finito, pensa a se

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stesso come contrapposto agli oggetti (non-io). 3. L‘lo

oppone nell‘Io all‘io divisibile un non-io divisibile

Il primo principio è ricavato da una riflessione sulla legge

d‘identità (per cui A = A), che la filosofia tradizionale

aveva considerato come base universale del sapere. In

realtà, osserva Fichte, tale legge non rappresenta il primo

principio della scienza, poiché essa implica un principio

ulteriore che è l‘Io. Infatti, tale legge presuppone che se A

è dato, deve essere formalmente uguale a se stesso (A = A;

es. il triangolo è triangolo). In tal modo essa assume

ipoteticamente la presenza cii A. Ora, l‘esistenza iniziale

cli A dipende dall‘Io che la pone, poiché senza l‘identità

dell‘lo (Io = Io) l‘identità logica (A = A) non si giustifica.

In altri termini, il rapporto d‘identità è posto dall‘lo,

perché è l‘Io che giudica cli esso. Ma l‘Io non può porre

quel rapporto, se non pone se stesso. L‘esistenza dell‘lo ha

dunque la stessa necessità del rapporto logico A = A, in

quanto l‘Io non può affermare nulla senza affermare in

primo luogo la propria esistenza. Di conseguenza, il

principio supremo del sapere non è quello d‘identità, che è

posto dall‘lo, ma l‘Io stesso. Questi, a sua volta, non è

posto da altri, ma si pone da sé, Infatti la caratteristica

dell‘Io consiste nell‘auto-creazione, Tale auto-creazione

coincide con l‘intuizione intellettuale che l‘Io ha di se

stesso. Il primo principio della Dottrina della scienza

stabilisce quindi che ―l‘lo pone se stesso‖, chiarendo come

il concetto di Io in generale si identifichi con quello di

un‘attività auto-creatrice ed infinita, Il secondo stabilisce

che ―l‘Io pone il non-io‖, ovvero che l‘Io non solo pone se

stesso, ma oppone anche a se stesso qualcosa che, in

quanto gli è opposto, è un non-io (oggetto, mondo,

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natura). Tale non-io è tuttavia posto dall‘Io ed è quindi

nell‘lo. Infatti, che senso avrebbe un Io senza un non-io,

cioè un soggetto senza oggetto, un‘attività senza un

ostacolo, un positivo senza un negativo? Il terzo principio

mostra come l‘Io, avendo posto il non-io, si trovi ad essere

limitato da esso, esattamente come quest‘ultimo risulta

limitato dall‘Io, In altri termini, con il terzo principio

perveniamo alla situazione concreta del mondo, nella

quale abbiamo una molteplicità di io finiti che hanno di

fronte a sé una molteplicità di oggetti a loro volta finiti. E

poiché Fichte usa l‘aggettivo divisibile per denominare il

molteplice e il finito, egli esprime il principio in questione

con la seguente formula: ―L‘lo oppone nell‘Io all‘io

divisibile un non-io divisibile‖. Questi tre principi

delineano l‘intera teoria di Fichte, perché stabiliscono: a)

l‘esistenza di un Io infinito, attività assolutamente libera e

creatrice b) l‘esistenza di un io finito (perché limitato dal

non-io), cioè di un soggetto empirico (l‘uomo come

intelligenza o ragione); c) la realtà di un non-io, cioè

dell‘oggetto (mondo o natura), che si oppone all‘io finito,

ma è ricompreso nell‘Io infinito, dal quale è posto. Nello

stesso tempo essi sono la sintesi della deduzione

idealistica del mondo, ossia di quella spiegazione della

realtà alla luce dell‘Io, che contrapponendosi all‘antica

metafisica dell‘essere (oggetto) giunge ad una nuova

metafisica dello spirito (Soggetto). I tre principi non vanno

interpretati in modo cronologico, bensì logico, in quanto

Fichte, con essi, non intende dire che prima esista l‘Io

infinito, poi l‘io che pone il non-io ed infine l‘io finito, ma

semplicemente che esiste un Io che, per poter essere tale,

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deve presupporre di fronte a sé il non-io, trovandosi in tal

modo ad esistere concretamente sotto forma di io finito.

Friedrich Schelling (1755-1854)

Lo sviluppo del pensiero di Schelling risulta estremamente

complesso e oggetto di discussioni critiche. In generale gli

studiosi tendono a distinguere alcuni momenti del suo

filosofare:

1) Il momento fichtiano 2) la fase della filosofia della

natura 3) il periodo dell‘idealismo trascendentale 4) lo

stadio della filosofia dell‘identità 5) il periodo teosofico 6)

la fase della filosofia positiva e della filosofia della

religione.

L‘assoluto come indifferenza di Spirito e Natura

Il principio che aveva assicurato il successo della filosofia

di Fichte è quello dell‘infinito: infinita attività che spiega

ad un tempo l‘Io e il non-io, lo spirito e la natura. L‘Io di

Fichte è il principio dell‘infinità soggettiva, Schelling

vuole unire le due infinità nel concetto di un Assoluto che

non è riducibile né al soggetto né all‘oggetto, perché

dev‘essere il fondamento dell‘uno e dell‘altro. Ben presto

egli si accorge che una pura attività soggettiva (l‘Io di

Fichte) non potrebbe spiegare la nascita del mondo

naturale, e che un principio puramente oggettivo (la

Sostanza spinoziana) non potrebbe spiegare l‘origine

dell‘intelligenza e dell‘io, Il principio supremo deve essere

quindi un Assoluto o Dio che sia insieme soggetto e

oggetto, ragione e natura; cioè che sia l‘unità, l‘identità o

l‘indifferenza di entrambi. La natura, secondo Schelling,

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ha vita, razionalità, e quindi valore, in se stessa. Deve

avere in sé un principio autonomo che la spieghi in tutti i

suoi aspetti. E questo principio deve essere identico a

quello che spiega il mondo della ragione e dell‘io, quindi

la storia. Il principio unico deve essere insieme soggetto e

oggetto, attività razionale e attività inconsapevole, idealità

e realtà. Tale è l‘Assoluto. Il riconoscimento del valore

autonomo della natura e la tesi dell‘Assoluto come identità

o indifferenza di natura e spirito conducono Schelling ad

ammettere due possibili direzioni della ricerca filosofica:

l‘una, la filosofia della natura, diretta a mostrare come la

natura si risolva nello spirito, l‘altra, la filosofia

trascendentale, diretta a mostrare come lo spirito si risolva

nella natura.

La filosofia della natura

La filosofia della natura di Schelling è una costruzione

tipicamente romantica e si oppone ai due tradizionali

modelli interpretativi della natura: quello meccanicistico-

scientifico e quello finalistico-teologico. Il primo,

parlando in termini di materia, movimento e causa si trova

in difficoltà, come aveva già notato Kant, a spiegare gli

organismi viventi. Il secondo, ricorrendo alla magia di un

Dio che agisce dall‘esterno sul mondo, finisce per

compromettere l‘autonomia dei processi naturali. A questi

due modelli Schelling contrappone il proprio organicismo

finalistico e immanentistico, ossia uno schema secondo

cui: 1) ogni parte ha senso solo in relazione al tutto e alle

altre parti (= organicismo); 2) l‘universo non si riduce ad

una miracolosa collisione di atomi, poiché al di là del

meccanismo delle sue forze si manifesta una finalità

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superiore (oggettiva e reale) che, tuttavia, non deriva da un

intervento esterno, ma è interno alla Natura stessa

(finalismo immanentistico). La Natura è un ―organismo

che organizza se stesso‖ e l‘idea di uno Spirito o di una

entità spirituale inconscia immanente nella Natura. Una

forza che Schelling, rifacendosi agli antichi, denomina

anche con il termine di ―Anima del mondo‖, precisando

che la natura è un Tutto vivente, ovvero un immenso

Organismo in cui ogni cosa, compresa la sfera inorganica,

risulta dotata di vita. La Natura si polarizza in due principi

di base: l‘attrazione e la repulsione. Le tre manifestazioni

universali della Natura, nelle quali si concretizza la

polarità attrazione-repulsione, sono il magnetismo,

l‘elettricità e il chimismo. La prima potenza è

rappresentata dal mondo inorganico; la seconda dalla luce,

in cui la Natura si fa visibile a se stessa, la terza dal mondo

organico, nel quale. con la sensibilità, abbiamo il l‘inizio

aurorale dell‘autocoscienza. Nel complesso la natura,

appare come la ―preistoria dello spirito‖ che, attraverso un

lungo processo, giunge all‘uomo.

Fisica speculativa e pensiero scientifico

La filosofia della natura di Schelling è una fisica

speculativa. Un merito di questa concezione è di aver

mostrato i limiti del meccanicismo tradizionale e di aver

posto l‘esigenza di studiare la natura, in particolare il

mondo organico, con schemi più appropriati. Un altro

pregio è di aver contribuito a preparare una mentalità

evoluzionistica in senso lato. Infine è bene ricordare che

l‘idea di una finalità immanente della natura, ossia

l‘originale concetto di un fine inconscio interno ai

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fenomeni naturali, continua a suscitare l‘interesse di quei

filosofi e di quegli scienziati che, pur rifiutando l‘ottica

meccanistica, non accettano, per questo, il finalismo

teologico tradizionale (ossia la nozione di un Dio-Artefice

e Programmatore del mondo).

La teoria dell‘arte

Nella filosofia teoretica e pratica Spirito e Natura, Conscio

e Inconscio, nonostante la loro puntuale corrispondenza,

continuano a configurarsi come due poli distinti, separati

da una divaricazione originaria, che è quella fra soggetto

ed oggetto. Secondo Schelling, l‘unica maniera per

risolvere questo nodo è di rintracciare un‘attività nella

quale si armonizzino completamente spirito e natura, il

produrre inconscio e quello conscio. Schelling ritiene che

l‘arte si configuri come l‘organo di rivelazione

dell‘Assoluto nei suoi caratteri di infinità, consapevolezza

e inconsapevolezza al tempo stesso. Infatti, nella creazione

estetica l‘artista risulta in preda ad una forza

inconsapevole, che lo ispira e lo entusiasma, facendo sì

che la sua opera si presenti come sintesi di un momento

inconscio (l‘ispirazione) e di un momento conscio e

meditato (l‘esecuzione cosciente). L‘intero fenomeno

dell‘arte rappresenta quindi la miglior chiave per intendere

la struttura dell‘Assoluto come sintesi differenziata di

natura e spirito. L‘esaltazione romantica dell‘arte trova

quindi in Schelling la sua più significativa forma

filosofica.

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G. W. F. Hegel (1770-1831)

Gli scritti giovanili rimasero inediti e sono quasi tutti di

natura teologica: La positività della religione cristiana; Lo

spirito del cristianesimo e il suo destino. La prima grande

opera di Hegel è la Fenomenologia dello spirito (1807)

nella cui prefazione (1806) egli dichiarava il suo distacco

dalla dottrina di Schelling. A Norimberga Hegel pubblicò

la Scienza della logica, le cui due parti apparvero

rispettivamente nel 1812 e nel 1816. A Heidelberg

l‘Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio

(1817) che è la più compiuta formulazione del sistema di

Hegel. A Berlino Hegel pubblicava i Lineamenti di

filosofia del diritto (1821). Dopo la sua morte gli scolari

raccolsero, ordinarono e pubblicarono i suoi corsi dì

Berlino.

Già negli scritti giovanili Hegel critica la cultura

illuministica, la quale separa, secondo Hegel, aspetti e

momenti della realtà concettualmente uniti. Nella

Positività della religione cristiana Hegel confronta la

civiltà moderna con la polis greca, evidenziando come

oggi la società sia separata e frammentaria. Questo è

dovuto alle diverse forme di religiosità: nella Grecia

arcaica la divinità era inserita nella vita dell‘uomo mentre

nella religione cristiana Dio è trascendente all‘uomo

stesso. Ne Lo spirito del cristianesimo Hegel corregge la

sua posizione e il cristianesimo non è più inteso come

opposizione tra Dio e uomo ma come unione realizzata

concretamente nella figura di Gesù, incarnazione di Dio.

Nel periodo di Jena l‘esigenza di riconciliazione si sposta

dal piano religioso a quello filosofico. Hegel critica in

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particolare le filosofie di Kant (la cui filosofia lascia

irrisolto il contrasto fra soggetto e oggetto) e di Fichte

(l‘Io assoluto mantiene l‘opposizione tra sé e l‘infinità

delle rappresentazioni). Con la Fenomenologia dello

spirito, Hegel attacca Schelling nella cui filosofia

l‘assoluto è inteso come unità totale ed inscindibile tra

oggetto e soggetto. Hegel paragona tale concetto al buio

della notte.

Le tesi di fondo del sistema

Per poter seguire lo svolgimento del pensiero di Hegel

risulta indispensabile aver chiare, sin dall‘inizio, le tesi di

fondo del suo idealismo: 1) la risoluzione del finito

nell‘infinito; 2) l‘identità fra ragione e realtà; 3) la

funzione giustificatrice della filosofia.

1. Con la prima tesi Hegel intende dire che la realtà non è

un insieme di sostanze autonome, ma un organismo

unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione.

Tale organismo coincide con l‘Assoluto e con l‘infinito,

mentre i vari enti del mondo, essendo manifestazioni di

esso, coincidono con il finito. Di conseguenza, il finito,

come tale, non esiste. perché ciò che noi chiamiamo finito

è nient‘altro che un‘espressione parziale dell‘infinito.

Infatti, la parte non può esistere se non in connessione con

il Tutto. L‘hegelismo si configura quindi come una forma

di monismo panteistico, cioè come una teoria che vede nel

mondo (= il finito) la manifestazione o la realizzazione di

Dio infinito. Mentre per Spinoza l‘Assoluto è una sostanza

statica che coincide con la Natura, per Hegel si identifica

invece con un Soggetto spirituale in divenire, di cui tutto

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ciò che esiste è momento o tappa. Dire che la realtà non è

―Sostanza‖, ma ―Soggetto‖, significa dire, secondo Hegel,

che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un

processo di auto-produzione che soltanto alla fine, cioè

con l‘uomo (lo Spirito) e le sue attività più alte (arte,

religione e filosofia), giunge a rivelarsi per quello che è

veramente: il vero è l‘intero. Ma l‘intero è soltanto

l‘essenza che si completa mediante il suo sviluppo.

Dell‘Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente

Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità.

2. Il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della

realtà viene denominato da Hegel con il termine Idea o

Ragione, intendendo con queste espressioni l‘identità di

pensiero ed essere, o meglio, di ragione e realtà. Da ciò il

noto aforisma in cui si riassume il senso stesso

dell‘hegelismo: ― Ciò che è razionale è reale; e ciò che è

reale è razionale‘.Con la prima parte della formula, Hegel

intende dire che la razionalità non è pura idealità,

astrazione, schema, ma la forma stessa di ciò che esiste.

Viceversa, con la seconda parte della formula, Hegel

intende affermare che la realtà non è una materia caotica,

ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l‘idea o la

Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella

natura e in modo consapevole nell‘uomo. Per cui, con il

suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità

che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la

necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione.

Tale identità implica‘anche l‘identità fra essere e dover—

essere, in quanto ciò che è risulta anche ciò che

razionalmente deve essere. Il mondo, in quanto è, e così

com‘è, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e

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realtà razionale — che si manifesta attraverso una serie di

momenti necessari che non possono essere diversi da

come sono. Infatti. da qualsiasi punto di vista guardiamo il

mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una rete di

connessioni necessarie e di ―passaggi obbligati‖ che

costituiscono l‘articolazione vivente dell‘unica Idea o

Ragione.

3. Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel

prendere atto della realtà e nel comprenderne le strutture

razionali che la costituiscono: Comprendere ciò che è, è il

compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. La

filosofia arriva sempre troppo tardi; giacché sopraggiunge

quando la realtà ha compiuto il suo processo di

formazione. Essa, afferma Hegel, è come la nottola di

Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, cioè

quando la realtà è già belle fatta. La filosofia deve dunque

mantenersi in pace con la realtà‖ e rinunciare alla pretesa

assurda di determinarla. Questi chiarimenti delineano il

tratto essenziale della filosofia e della personalità di

Hegel. L‘autentico compito che Hegel ha inteso attribuire

alla filosofia è la giustificazione razionale della realtà.

Idea, Natura e Spirito: le partizioni della filosofia

Hegel ritiene che il farsi dinamico dell‘Assoluto passi

attraverso i tre momenti dell‘Idea in sé e per sé (tesi),

dell‘Idea fuori di sé (antitesi) e dell‘Idea che ritorna in sé‘

(sintesi). Tant‘è vero che il disegno complessivo

dell‘Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade

dialettica. L‘Idea in sé e per sé o Idea pura è l‘Idea

considerata in se stessa, a prescindere dalla sua concreta

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realizzazione nel mondo. Da questo angolo prospettico.

l‘Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è

assimilabile a Dio ―prima della creazione della natura e di

uno spirito finito‖, ovvero, in termini meno equivocanti

(visto che l‘Assoluto hegeliano è un infinito immanente.

che non crea il mondo, ma è il mondo) al programma o

all‘ossatura logico-razionale della realtà. L‘Idea fuori di sé

o Idea ―nel suo esser altro è la Natura, cioè l‘alienazione

dell‘Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. L‘Idea

che ritorna in sé è lo Spirito, cioè l‘Idea che dopo essersi

fatta natura torna presso di sé‖ nell‘uomo. Ovviamente,

questa triade non è da intendersi in senso cronologico,

come se prima ci fosse l‘Idea in sé e per sé, poi la Natura e

infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti ciò che

concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il

quale ha come sua coeterna condizione la Natura

(l‘antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma

logico rappresentato dall‘Idea pura (la tesi). A questi tre

momenti strutturali dell‘Assoluto Hegel fa corrispondere

le tre sezioni in cui divide il sapere filosofico: 1) la logica,

2) la filosofia della natura, 3) la filosofia dello spirito.

La dialettica

L‘Assoluto, per Hegel, è divenire. La legge che regola tale

divenire è la dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la

legge (ontologica) di sviluppo della realtà e la legge

(logica) di comprensione della realtà. Hegel distingue tre

momenti o aspetti del pensiero: 1) l‘astratto o intellettuale;

2) il dialettico o negativo-razionale; 3) lo speculativo o

positivo-razionale. Il momento intellettuale è quello per

cui il pensiero si ferma alle definizioni rigide della realtà,

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limitandosi a considerarne nelle loro differenze reciproche

e secondo il principio di identità e di non-contraddizione

(secondo cui ogni cosa è se stessa ed è assolutamente

diversa dalle altre). Il momento dialettico consiste nel

relazionare le determinazioni della realtà con altre

determinazioni. Il momento speculativo consiste invece

nel cogliere l‘unità delle determinazioni opposte, ossia nel

rendersi conto che tali determinazioni sono aspetti

unilaterali di una realtà più alta che li ricomprende o

sintetizza entrambi

Globalmente considerata, la dialettica consiste quindi: 1)

nell‘affermazione o posizione di un concetto astratto e

limitato‖, la tesi; 2) nella negazione di questo concetto

come qualcosa di limitato o di finito e nel passaggio ad un

concetto opposto, l‘antitesi; 3) nell‘unificazione della

precedente affermazione e negazione in una sintesi

positiva comprensiva di entrambe. La sintesi che si

configura come una ri-affermazione potenziata

dell‘affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la

negazione della negazione intermedia (antitesi).

Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine

Aufhebung il quale esprime l‘idea di un superamento che

è, al tempo stesso, un togliere (l‘opposizione fra tesi ed

antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell‘antitesi

e del loro conflitto). Ogni sintesi diviene, a propria volta,

tesi di un‘altra antitesi, cui succede un‘ulteriore sintesi e

così via, sino al compimento del processo globale

dell‘Assoluto

La dialettica illustra il principio della risoluzione del finito

nell‘infinito. Infatti essa ci mostra come ogni finito, ogni

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parte di realtà, non possa esistere in se stesso, ma solo in

un contesto di rapporti. Poiché il tutto di cui parla Hegel,

ovvero l‘Idea, è una entità dinamica, la dialettica esprime

appunto il processo mediante cui le varie parti o

determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si

fluidificano e diventano momenti di un‘Idea unica ed

infinita.

La Fenomenologia dello Spirito

Il principio della risoluzione del finito nell‘infinito, o

dell‘identità di razionale e reale, è stato illustrato da Hegel

in due forme diverse. Dapprima Hegel si è fermato a

illustrare la via che per giungere fino ad esso ha dovuto

percorrere la coscienza umana. In secondo luogo, Hegel ha

illustrato quel principio quale appare in atto in tutte le

determinazioni fondamentali della realtà. La prima

illustrazione è quella che Hegel ha dato nella

Fenomenologia dello spirito: la seconda è quella che ha

dato nella Enciclopedia delle scienze filosofiche e nelle

opere che approfondiscono le singole parti di essa

(Scienza della logica, Filosofia dell‘arte, Filosofia della

religione, Filosofia del diritto, Filosofia della storia). Le

vicende dello spirito nella prima opera sono le vicende del

principio hegeliano dell‘infinito nelle sue prime

apparizioni, nel suo progressivo affermarsi e svilupparsi

attraverso una serie di figure esprimenti i settori più

disparati della vita umana (la conoscenza, la società. la

religione, la politica ecc.). La coscienza cresce seguendo

un percorso: le tappe intermedie di tale percorso (figure)

sono delle manifestazioni del sapere assoluto (la

fenomenologia è infatti la scienza delle manifestazioni).

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L‘opera è divisa in sei sezioni: Coscienza, Autocoscienza,

Ragione, Spirito, Religione e Sapere assoluto. E‘ la storia

della coscienza, che attraverso una serie di contrasti, esce

dalla sua individualità, raggiunge l‘universalità e si

riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione.

Perciò l‘intero ciclo della fenomenologia si può vedere

riassunto in una delle sue figure particolari che non per

nulla è diventata la più popolare: quella della coscienza

infelice. La prima parte della Fenomenologia si divide in

tre momenti: Coscienza (tesi). Autocoscienza (antitesi) e

Ragione (sintesi).

Coscienza

La prima tappa che la coscienza percorre verso il sapere

assoluto è detta certezza sensibile. Con tale espressione si

indica quella certezza che deriva dagli oggetti sensibili,

ovvero la credenza per cui la verità sta nell‘oggetto dei

sensi. Successivamente la coscienza arriva alla percezione:

questa rappresenta la negazione della certezza sensibile, in

quanto sposta la verità dall‘oggetto all‘atto della

percezione, compiuto dal soggetto. L‘ultima figura della

coscienza è detta intelletto: è in tale figura che si completa

lo spostamento dall‘oggetto al soggetto: ora la verità è

nell‘Io conoscente.

Autocoscienza

Con la sezione dell‘autocoscienza, che contiene le figure

più celebri, il centro dell‘attenzione si sposta dall‘oggetto

al soggetto, ovvero all‘attività concreta dell‘io, considerato

nei suoi rapporto con gli altri. Di conseguenza, tale

sezione non si muove più in un ambito astrattamente

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gnoseologico, ma riguarda anche la società, la storia della

filosofia e la religione. L‘autocoscienza postula la

presenza di altre autocoscienze in grado di darle la

certezza di essere tale. Ma il riconoscimento non può che

passare attraverso un momento di lotta e di sfida, ossia

attraverso il conflitto fra le autocoscienze. Tale conflitto,

nel quale ogni autocoscienza. pur di affermare la propria

indipendenza, deve essere pronta a tutto. anche a rischiare

la vita, non si conclude con la morte delle autocoscienze

contendenti (poiché in tal caso sarebbe annullata l‘intera

dialettica del riconoscimento) ma con il subordinarsi

dell‘una all‘altra nel rapporto servo-signore. Il signore è

colui che, per affermare la propria indipendenza, ha messo

valorosamente a repentaglio la propria vita, sino alla

vittoria, mentre il servo è colui che, ad un certo punto, ha

preferito la perdita della propria indipendenza, cioè la

schiavitù, pur di avere salva la vita. Tuttavia, argomenta

Hegel con una penetrante analisi dialettica, la dinamica del

rapporto servo-signore (che corrisponde al tipo di società

del mondo antico) porta ad una paradossale inversione di

ruoli, ossia ad una situazione per cui il signore diviene

servo del servo e il servo signore del signore. Infatti, il

signore, che inizialmente appariva indipendente, nella

misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro

altrui, finisce per rendersi dipendente dal servo. Invece

quest‘ultimo, che inizialmente appariva dipendente, nella

misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il

signore riceve il proprio sostentamento, finisce per

rendersi indipendente. La figura hegeliana del servo-

signore, è stata apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali

hanno visto in essa un‘intuizione dell‘importanza del

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lavoro e della configurazione dialettica della storia, nella

quale, grazie all‘esperienza della sottomissione, si

generano le condizioni per la liberazione.

Stoicismo e scetticismo

Il raggiungimento dell‘indipendenza dell‘io nei confronti

delle cose, trova la sua manifestazione filosofica nello

stoicismo, ossia in un tipo di visione del mondo che

celebra l‘autosufficienza e la libertà del saggio nei

confronti di ciò che lo circonda. Ma nello stoicismo

l‘autocoscienza, la quale pretende di svincolarsi dai

condizionamenti della realtà (passioni, ricchezze ecc.),

ritenendo di essere libera sul trono o in catene‖, raggiunge

soltanto una astratta libertà interiore, giacché quei

condizionamenti permangono e la realtà esterna non e

fatto negata. Chi pretende di mettere completamente tra

parentesi quel mondo esterno da cui lo stoico si sente

indipendente (e che lascia invece sussistere) è lo

scetticismo, ossia un tipo di visione del mondo che

sospende l‘assenso su tutto ciò che è comunemente

ritenuto per vero e reale (di conseguenza, lo scetticismo è

per sé, ossia in modo consapevole, ciò che lo stoicismo è

in sé, ossia in modo inconsapevole; esattamente come lo

stoicismo è per sé ciò che la servitù è in sé). Tuttavia lo

scetticismo dà luogo ad una situazione contraddittoria ed

insostenibile. Hegel non fa che usare, contro lo

scetticismo, l‘argomento tradizionale: quello secondo cui

lo scettico si auto-contraddice poiché da un lato dichiara

che tutto è vano e non-vero, mentre dall‘altro pretende di

dire qualcosa di reale e di vero.

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La coscienza infelice

La scissione, presente nello scetticismo, fra una coscienza

immutabile ed una mutevole diviene esplicita nella figura

della coscienza infelice ed assume la forma di una

separazione radicale fra l‘uomo e Dio. E‘ questa la

situazione propria dell‘ebraismo, nel quale l‘essenza,

l‘Assoluto, la realtà vera è sentita come lontana dalla

coscienza ed assume le sembianze di un Dio trascendente

padrone assoluto della vita e della morte, ovvero di un

Signore inaccessibile di fronte a cui l‘uomo si trova in uno

stato di dipendenza (la coscienza infelice ebraica

rappresenta la traduzione, in chiave religiosa. della

situazione sociale espressa dal rapporto servo-signore).

Nel secondo momento assume la figura di un Dio

incarnato. E questa la situazione propria del cristianesimo

medioevale, il quale, anziché considerare Dio come un

Padre o un Giudice lontano, lo prospetta sotto forma di

una realtà effettuale. Tuttavia, come Dio incarnato, vissuto

in uno specifico ed irripetibile periodo storico, risulta pur

sempre, per i posteri, inevitabilmente lontano: ―accade

necessariamente ch‘esso sia dileguato nel tempo e nello

spazio, e che sia stato lungi e senz‘altro lungi rimanga‖. Di

conseguenza, con il cristianesimo, la coscienza continua

ad essere ―infelice‖ e Dio continua a configurarsi come un

―irraggiungibile al di là che sfugge‖. anzi, che è ―già

sfuggito nell‘atto in cui si tenta d‘affermarlo‖. Tale

vicenda prosegue e si esaspera con la mortificazione di sé,

in cui si ha la più completa negazione dell‘io a favore di

Dio. Infatti, con l‘ascetismo e le sue pratiche di

umiliazione della carne, ci troviamo di fronte ad una

personalità tanto misera quanto infelice e ―limitata a sé e

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al suo fare meschino‖, ovvero come aggiunge

caratteristicamente Hegel, ad una personalità ―che non

riesce se non a covare se stessa. Ma il punto più basso

toccato dal singolo (il quale cerca un estremo punto di

contatto fra sé e l‘immutabile nella figura mediatrice della

Chiesa) è destinato a trapassare dialetticamente nel punto

più alto allorquando la coscienza, nel suo vano sforzo di

unificarsi con Dio, si rende conto di essere, lei stessa, Dio,

ovvero l‘Universale o il Soggetto assoluto. Ciò non

avviene nel Medioevo, ma nel Rinascimento e nell‘età

moderna.

La ragione

Come Soggetto assoluto l‘autocoscienza è diventata

Ragione ed ha assunto in sé ogni realtà. Mentre nei

momenti anteriori la realtà del mondo le appariva come

alcunché di diverso e di opposto (come la negazione di

sé), ora invece può sopportarla: perché sa che nessuna

realtà è niente di diverso da essa. La ragione, dice Hegel, è

la certezza di essere ogni realtà. La ragione si rivolge da

principio al mondo della natura. È questa la fase del

naturalismo del Rinascimento e dell‘empirismo. Qui la

coscienza crede, bensì, di cercare l‘essenza delle cose, ma

in realtà non cerca che se stessa; e quella credenza deriva

dal non aver fatto ancora della ragione l‘oggetto della

propria ricerca. Si determina così l‘osservazione della

natura che, partendo dalla semplice descrizione, si

approfondisce con la ricerca della legge e con

l‘esperimento; e che si trasferisce poi nel dominio del

mondo organico, per passare infine a quello stesso della

coscienza con la psicologia. Seguono le tre figure della

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ragione attiva, la prima è quella in cui l‘individuo, deluso

dalla scienza e dalla ricerca naturalistica, si getta nella vita

e va alla ricerca del proprio godimento. Ma nella ricerca

del piacere l‘autocoscienza incontra la necessità del

destino, che, incurante delle sue personali esigenze di

felicità, lo travolge inesorabilmente. ―Egli prendeva la

vita, ma con ciò afferrava piuttosto la morte‖.

L‘autocoscienza cerca allora di opporsi al corso ostile del

mondo appellandosi alla ―legge del cuore‖ (il filone

sentimentale che va da Rousseau ai romantici). Nasce in

tal modo la seconda figura della ragione attiva, che Hegel

denomina ―la legge del cuore e il delirio della

presunzione‘, nella quale l‘individuo, dopo aver cercato di

individuare e di abbattere i responsabilità dei mali nel

mondo (preti fanatici, despoti corrotti), entra in conflitto

con altri presunti portatori dei vero progetto di

miglioramento della realtà: ‗La coscienza che propone la

legge del suo cuore avverte dunque la resistenza da parte

di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto

singole del cuore loro. Nasce in tal modo la terza figura

della ragione attiva, che Hegel chiama ―La virtù e il corso

del mondo‖. Ma il contrasto tra la virtù, che è il bene

astrattamente vagheggiato dall‘individuo nella sua

speranza di invertire l‘invertito corso del mondo e la

concreta realtà non può che concludersi con la sconfitta

del ‗cavaliere della virtù‘ e dei suoi donchisciotteschi

propositi di moralizzazione dell‘esistente (Robespierre).

Seguono ulteriori figure.

Lo spirito, la religione, il sapere assoluto

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265

La seconda parte della Fenomenologia comprende tre

sezioni (lo spirito, la religione e il sapere assoluto), che

anticipano il contenuto della filosofia dello spirito.

La logica

In quanto scienza dell‘idea pura, la logica — alla quale

Hegel ha dedicato la seconda delle sue opere

fondamentali, la Scienza della logica (1812-1816), che ha

poi ricapitolato nella prima parte della Enciclopedia —

prende in considerazione la struttura programmatica o

l‘impalcatura originaria del mondo. Tale impalcatura si

specifica in un organismo dinamico di concetti, i quali, in

virtù dell‘equazione fra pensiero ed essere, costituiscono

altrettanti aspetti della realtà. La logica si divide in tre

parti, che corrispondono ai tre momenti dello sviluppo

dell'idea. a) La logica dell'essere, che prende in esame i

concetti più astratti, primo dei quali è il concetto di puro

essere indeterminato, principio di tutto. "II puro essere,"

dice Hegel, "costituisce il cominciamento", esso "preso

nella sua immediatezza, è il nulla". Il cominciamento è

dunque l'unità di essere e nulla, e questa unità è il concetto

di divenire, col quale si ha la prima sintesi, il superamento

della prima opposizione. Dalla contraddizione esistente

nella prima triade dialettica vengono dedotte le categorie

dell'intuizione sensibile: qualità, quantità, misura. b) La

logica dell'essenza, che prende in esame concetti più

concreti, perché nel movimento dialettico l'essenza si

esprime e si manifesta completamente nell'esistenza. Da

questa vengono dedotte le categorie dell'intelletto, cioè

della scienza: forma e materia, legge e fenomeno, causalità

e azione reciproca. c) La logica del concetto, che prende in

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esame la realtà come "sviluppo vivente" di se stessa. Da

questa vengono dedotte le categorie della concezione

idealistica: concetti, giudizi, sillogismi.

La filosofia della natura

Il testo fondamentale della filosofia della Natura di Hegel

è la seconda parte dell‘Enciclopedia. L'idea, quando si

aliena da se stessa, si dispiega nell'esteriorità, dando

origine alla natura, che è, appunto, "l'idea nella forma

dell'essere altro" La filosofia della natura costituisce, nel

sistema hegeliano, la fondamentale mediazione nel

movimento dialettico che ha la sua sintesi nella filosofia

dello spirito. Solo questa può a cogliere lo sviluppo

organico della natura e a trarne una "considerazione

concettuale", mentre la scienza empirica non riesce ad

andare oltre la classificazione. Tuttavia, anche la filosofia

della natura non è priva di limiti, a causa delle

accidentalità che la natura stessa presenta. Infatti la natura

non mostra, nella sua esistenza, alcuna libertà, solo

necessità ed accidentalità, e perciò deve essere divinizzata.

Il mondo della natura viene dedotto in tre gradi: la

meccanica, dedicata all'esteriorità come tale (occupandosi

dello spazio, del tempo e della loro sintesi, il luogo,

culminante nella gravità); la fisica, dedicata alla materia

individualizzata (occupandosi della luce, del peso

specifico, del calore, ecc.); l'organica, dedicata

all'individualità soggettiva (occupandosi della natura

geologica, di quella vegetale e di quella animale).

La filosofia dello spirito

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La filosofia dello Spirito, che Hegel definisce la

conoscenza ―più alta e difficile‘ è lo studio dell‘Idea che,

dopo essersi estraniata da sé, sparisce come natura, cioè

come esteriorità e spazialità. per farsi soggettività e libertà.

Lo sviluppo dello Spirito avviene attraverso tre momenti

principali: lo spirito soggettivo (che è lo spirito individuale

nell‘insieme delle sue facoltà), lo spirito oggettivo (che è

lo spirito sovra-individuale o sociale), lo spirito assoluto

(che è lo spirito il quale sa e conosce se stesso nelle forme

dell‘arte, della religione e della filosofia). Anche lo Spirito

procede per gradi, ma diversamente da quanto accade

nella Natura, nella quale i gradi sussistono l‘uno accanto

all‘altro (come ad es. il mondo vegetale e quello animale),

nello Spirito ciascun grado è compreso e risolto nel grado

superiore, il quale, a sua volta, è già presente nel grado

inferiore.

Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, considerato

nel suo lento e progressivo emergere dalla natura,

attraverso un processo che va dalle forme più elementari

di vita psichica alle più elevate attività conoscitive e

pratiche. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in

tre parti; antropologia, fenomenologia e psicologia.

Nella sfera dello spirito oggettivo, in cui lo Spirito si

manifesta in istituzioni sociali concrete, ovvero in

quell‘insieme di determinazioni sovra-individuali che

Hegel raccoglie sotto il concetto di diritto in senso lato. I

momenti dello spirito oggettivo — che è la sezione

storicamente più importante del pensiero hegeliano —

sono tre: il diritto astratto, la moralità e l‘eticità. Il diritto

astratto— che coincide con il diritto privato e con una

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parte di quello penale — riguarda l‘esistenza esterna della

libertà delle persone, concepite come puri soggetti astratti

di diritto, indipendentemente dai caratteri specifici e dalle

condizioni concrete che diversificano i vari individui fra

loro. La persona trova il suo primo compimento in una

cosa esterna, che diventa sua proprietà (definita come

sfera esterna del libero volere). La proprietà diviene però

effettivamente tale soltanto in virtù del reciproco

riconoscimento fra le persone, ossia tramite l‘istituto

giuridico del contratto. Ovviamente, l‘esistenza del diritto

rende possibile l‘esistenza del suo contrario, cioè la

comparsa del torto (o dell‘illecito), che nel suo aspetto più

grave è il delitto. Ma la colpa richiede una sanzione o una

pena, che si configura, dialetticamente, come un ripristino

del diritto violato. La pena, intesa come una ri-

affermazione potenziata del diritto, ovvero come una

negazione del delitto, il quale è a sua volta una negazione

del diritto, appare quindi come una necessità oggettiva del

nostro razionale e giuridico vivere insieme. Tuttavia,

perché la pena sia efficacemente punitiva e formativa

occorre che essa sia riconosciuta interiormente dal

colpevole. Ma questa esigenza, oltrepassando l‘ambito del

diritto, che concerne l‘esteriorità legale, richiama la sfera

della moralità, della volontà soggettiva, la quale si

manifesta nell‘azione, Quest‘ultima ha una portata morale

solo in quanto sgorga da un proponimento (infatti il

soggetto riconosce come sue soltanto le azioni che

rispondono ad un suo deliberato e responsabile proposito.

In quanto procede da un essere ―pensante, il proponimento

prende la forma dell‘intenzione. Il dominio della moralità

è caratterizzato dalla separazione tra la soggettività, che

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deve realizzare il bene, e il bene che deve essere

realizzato, Bene che assume inevitabilmente l‘aspetto di

un dover-essere, ovvero, come scrive Hegel, di un essere

assoluto, che tuttavia insieme non è. Da ciò la

contraddizione tra essere e dover-essere, che è tipica della

morale, soprattutto di quella kantiana, che Hegel critica

per la sua formalità ed astrattezza, cioè per la sua

mancanza di contenuti concreti. La separazione fra la

soggettività ed il bene, che è tipica della moralità, viene

annullata e risolta nell‘eticità, nella quale il bene si è

attuato concretamente ed è divenuto esistente. Infatti,

mentre la moralità è la volontà soggettiva, cioè interiore e

privata, del bene, l‘eticità è la moralità sociale, ovvero la

realizzazione del bene in quelle forme istituzionali che

sono la famiglia, la società civile e lo Stato.

Il primo momento dell‘eticità è la famiglia, nella quale il

rapporto naturale dei sessi assume la forma di un‘unità

spirituale fondata sull‘amore e sulla fiducia. La famiglia si

articola nel matrimonio, nel patrimonio e nell‘educazione

dei figli. Ma una volta cresciuti e divenuti personalità

autonome, i figli escono dalla famiglia originaria per dare

origine a nuove famiglie, aventi, ognuna, interessi propri.

In tal modo si passa al secondo momento dello spirito

oggettivo.

Con la formazione di nuovi nuclei familiari si ha la società

civile. La società civile non si riduce alla sola base

economica, in quanto il sistema economico moderno

presuppone, secondo Hegel, una serie di meccanismi

giuridici che fanno parte integrante della vita sociale. La

società civile si articola in tre momenti: il sistema dei

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270

bisogni, l‘amministrazione della giustizia, la polizia e le

corporazioni. L‘idea di porre, fra l‘individuo e lo Stato,

quella sorta di terzo termine che è la società civile è stata

ritenuta una delle maggiori intuizioni di Hegel. Infatti tale

idea sarà largamente utilizzata dagli studiosi di problemi

economici e sociali e troverà in Marx un originale

interprete.

Lo Stato rappresenta il momento culminante dell‘eticità,

ossia la ri-affermazione dell‘unità della famiglia (tesi) al di

là della dispersione della società civile (antitesi). Lo Stato,

che è una sorta di famiglia in grande, nella quale l‘ethos di

un popolo esprime se stesso, sta infatti alla società civile

come l‘universale (= la ricerca del bene comune) sta al

particolare (= la ricerca dell‘utile privato): ―Lo Stato è la

sostanza etica consapevole di sé. … la riunione del

principio della famiglia e della società civile‖. Questa

concezione etica dello Stato, visto come incarnazione

suprema della moralità, sociale e del bene comune, si

differenzia nettamente dalla teoria liberale dello Stato

(Locke) come strumento volto a garantire la sicurezza e i

diritti degli individui. Lo Stato di Hegel si differenzia pure

dal modello democratico (Rousseau), ovvero dalla

concezione secondo cui la sovranità risiederebbe nel

popolo. La critica hegeliana ai modelli liberale e

democratico si fonda sull‘idea secondo cui non sono gli

individui a fondare lo Stato, ma lo Stato a fondare gli

individui, sia dal punto di vista cronologico (in quanto lo

Stato è prima degli individui, che già nascono nell‘ambito

di esso), sia dal punto di vista assiologico (in quanto lo

Stato è superiore agli individui, come il tutto e superiore

alle parti che lo compongono). La monarchia

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271

costituzionale rappresenta il modello statale più alto,

anche perché riunisce organicamente in sé le forme

classiche di governo: monarchia, aristocrazia e

democrazia.

La filosofia della storia

Hegel non nega che la storia possa apparire, da un certo

punto di vista, un tessuto di fatti contingenti, insignificanti

e mutevoli e quindi priva di ogni piano razionale. Ma tale

può apparire soltanto dal punto di vista dell‘intelletto

finito, cioè dell‘individuo che non sa elevarsi al punto

vista puramente speculativo della ragione assoluta. In

realtà ―il grande contenuto della storia del mondo è

razionale, e razionale deve essere‖. Il fine della storia del

mondo è che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è

veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone

un mondo esistente, manifesti oggettivamente se stesso.

Questo spirito che si manifesta e realizza nella realtà

storica, è lo spirito del mondo che s‘incarna negli spiriti

dei popoli che si succedono nelle epoche della storia. I

mezzi della storia del mondo sono gli individui con le loro

passioni. Ma le passioni sono semplici mezzi che

conducono nella storia a fini diversi da quelli a cui esse

esplicitamente mirano. Così il progresso trova i suoi

strumenti negli eroi o individui della storia del mondo.

Soltanto a tali individui Hegel riconosce il diritto di

avverare la condizione di cose presenti e di lavorare per

l‘avvenire. Il segno del loro destino eccezionale è il

successo: resistere ad essi è impresa vana.

Apparentemente tali individui (Alessandro, Cesare,

Napoleone) non fanno che seguire la propria passione e la

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propria ambizione; ma si tratta, dice Hegel, di un‘astuzia

della Ragione che si serve degli individui e delle loro

passioni come di mezzi per attuare i suoi fini, L‘individuo

a un certo punto perisce o è condotto a rovina dal suo

stesso successo: l‘idea universale, che l‘aveva suscitato, ha

già raggiunto il suo fine. Rispetto a tale fine, individui o

popoli sono soltanto mezzi. Il disegno provvidenziale della

storia si rivela nella vittoria che di volta in volta consegue

il popolo che ha concepito il più alto concetto dello spirito.

Se il fine ultimo della storia del mondo è la realizzazione

della libertà dello spirito, lo Stato è l‘ambito nel quale si

realizza questa libertà. La storia del mondo è, da questo

punto di vista, la successione di forme statali che

costituiscono momenti di un divenire assoluto. I tre

momenti di essa, il mondo orientale, il mondo greco-

romano, il mondo germanico, sono i tre momenti della

realizzazione della libertà dello spirito del mondo. Nel

mondo orientale uno solo è libero; nel mondo greco-

romano alcuni sono liberi; nel mondo cristiano-germanico

tutti gli uomini sanno di essere liberi. Infatti la monarchia

moderna, abolendo i privilegi dei nobili e pareggiando i

diritti dei cittadini, fa libero l‘uomo in quanto uomo.

Lo spirito assoluto

Lo spirito assoluto è il momento in cui l‘Idea giunge alla

piena coscienza della propria infinità o assolutezza (cioè

del fatto che tutto è Spirito e che non vi è nulla al di fuori

dello Spirito). Tale auto-sapersi assoluto dell‘Assoluto non

è qualcosa di immediato, ma il risultato di un processo

dialettico rappresentato dall‘arte, dalla religione e dalla

filosofia. Queste attività si differenziano soltanto per la

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forma nella quale ciascuna di esse presenta lo stesso

contenuto, che è Dio. L‘arte conosce l‘assoluto nella

forma dell‘intuizione sensibile, la religione nella forma

della rappresentazione, la filosofia nella forma del puro

concetto.

L‘arte

La storia dell‘arte si compone di tre momenti

fondamentali: l‘arte simbolica, quella classica e e quella

romantica. Nell‘arte simbolica (antico Egitto) vi è

l‘incapacità tecnica di esprimere i concetti che dunque

sono rappresentati da puri simboli (es. graffiti). Nell‘arte

classica (Grecia) vi è invece un perfetto equilibrio tra

forma e contenuto. Nell‘arte romantica (età

contemporanea) vi è una netta superiorità tecnica rispetto

al contenuto sensibile. Ne consegue la ―morte dell‘arte‖.

La religione

La religione è la seconda forma dello spirito assoluto,

quella in cui l‘assoluto si manifesta nella forma della

rappresentazione. Si ha così la rappresentazione degli

attributi divini singolarmente presi, delle relazioni tra Dio

e il mondo nella creazione. della relazione tra Dio e la

storia del mondo nella provvidenza ecc. Tutte queste

rappresentazioni vengono unite in modo puramente

esteriore, Dunque si giunge a riconoscere l‘inconcepibilità

dell‘essenza divina che le unifica. In altri termini, la

religione non è in grado di pensare Dio dialetticamente e

finisce per arenarsi di fronte ad un presunto mistero

dell‘Assoluto. Lo sviluppo della religione è lo sviluppo

dell‘idea di Dio nella coscienza umana. Nel primo stadio

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di questo sviluppo troviamo la religione naturale in cui

Dio appare ancora come ―sepolto‖ nella natura. Le forme

più basse di religione naturale sono la stregoneria ed il

feticismo delle tribù primitive dell‘Asia e dell‘Africa. Le

forme più alte di religione naturale sono quelle in cui Dio

appare come la potenza che sta nei fenomeni. Tali sono le

religioni panteistiche dell‘estremo Oriente (cinese.

indiana, buddistica). Nel secondo stadio troviamo le

religioni della libertà, cioè le religioni che già preludono

alla visione di Dio come spirito libero, ma che si muovono

ancora in un orizzonte naturalistico (come accade nella

religione persiana, siriaca ed egiziana). Nel terzo stadio ci

sono le religioni dell‘individualità (giudaica, greca,

romana) in cui Dio appare in forma spirituale (o in

sembianze umane). Nel quarto stadio troviamo la religione

assoluta, cioè la religione cristiana, in cui Dio appare

come puro spirito. Sebbene il cristianesimo sia la religione

più alta e la più vicina, con i suoi dogmi, alle verità della

filosofia (Cristo, Uomo-Dio, esprime ad es. l‘identità di

finito e infinito; la Trinità di Padre, Figlio e Spirito Santo

la triade dialettica di Idea, Natura e Spirito), essa presenta

pur sempre il limite di cogliere Dio nella forma inadeguata

della rappresentazione, anziché in quella adeguata del

concetto.

Filosofia e storia della filosofia

Nella filosofia, che è l‘ultimo momento dello spirito

assoluto, l‘Idea giunge alla piena e concettuale coscienza

di se medesima. Hegel ritiene che la filosofia, al pari della

realtà, sia una formazione storica, ossia una totalità

processuale che si è sviluppata attraverso una serie di

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gradi. In altre parole, la filosofia è nient‘altro che l‘intera

storia della filosofia giunta finalmente a compimento con

Hegel. Di conseguenza. i vari sistemi filosofici che si sono

succeduti nel tempo non devono essere considerati come

un insieme disordinato ed accidentale, in quanto ognuno di

essi costituisce una tappa necessaria del farsi della Verità,

che supera quello che precede ed è superato da quello che

segue. La filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme un

risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di

tutte. L‘ultima filosofia è quella di Hegel.

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CAPITOLO 14

A. Schopenhauer

Opere principali:

Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente.

Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata nel

dicembre del 1818, ma con la data dell'anno successivo.

Parerga e paralipomena, 1851

Radici culturali del sistema

Schopenhauer si pone come punto di incontro (o di

scontro) di esperienze filosofiche eterogenee: Platone,

Kant, l‘illuminismo, il Romanticismo, l‘idealismo e la

sapienza indiana. Di Platone lo attrae soprattutto la teoria

delle idee, intese come forme eterne sottratte alla finitezza

del nostro mondo. Da Kant, che egli considera come il

filosofo più grande e più originale della storia del

pensiero, deriva l‘impostazione soggettivistica della sua

gnoseologia. Dell‘Illuminismo lo interessano il filone

materialistico e quello dell‘ideologia, da cui eredita la

tendenza a considerare la vita psichica e sensoriale in

termini di fisiologia del sistema nervoso. inoltre da

Voltaire desume lo spirito ironico e brillante e la tendenza

demistificatrice nei confronti delle credenze tramandate.

Dal Romanticismo Schopenhauer trae alcuni temi di fondo

del suo pensiero, come ad esempio l‘irrazionalismo, la

grande importanza attribuita all‘arte e alla musica, e,

soprattutto, il tema dell‘infinito, cioè la tesi della presenza.

nel mondo, di un Principio assoluto di cui le varie realtà

sono manifestazioni transeunti. Altro motivo

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indubbiamente romantico è quello del dolore. Tuttavia

mentre il Romanticismo, sul piano filosofico, mostra una

tendenza globalmente ottimistica, che si concretizza in un

tentativo di riscattare il negativo tramite il positivo (Dio,

lo Spirito, la storia, il progresso ecc.), Schopenhauer

appare decisamente orientato verso il pessimismo, di cui è

uno dei maggiori teorici. L‘idealismo, soprattutto nella

versione hegeliana, è il vero bersaglio polemico.

Schopenhauer è stato invece un ammiratore della sapienza

orientale ed un ‗profeta‘ del suo successo in Occidente.

Il mondo come rappresentazione

Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la

distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Ma per

Schopenhauer il fenomeno è solo parvenza illusione,

sogno, ovvero ciò che nell‘antica sapienza indiana è detto

velo di Maya; mentre il noumeno è una realtà che si

nasconde dietro l‘ingannevole trama del fenomeno, e che

il filosofo ha il compito di scoprire. Fin da principio,

Schopenhauer riconduce quindi il concetto di fenomeno ad

un significato estraneo allo spirito del kantismo, che

appare vicino, almeno in parte, alla filosofia indiana e

buddistica. Tant‘è vero che egli crede di poter esprimere

l‘essenza del kantismo con la tesi, che apre il suo

capolavoro, secondo cui il mondo è la mia

rappresentazione‖. Per Schopenhauer questo è un

principio simile agli assiomi di Euclide: ognuno ne

riconosce la verità appena lo intende ed è uno dei grandi

risultati della filosofia moderna, a partire da Cartesio. La

rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la

cui distinzione costituisce la forma generale della

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conoscenza: da un lato c‘è il soggetto rappresentante,

dall‘altro c‘è l‘oggetto rappresentato, Soggetto e oggetto

esistono soltanto all‘interno della rappresentazione, come

due lati di essa, e nessuno dei due precede o può sussistere

indipendentemente dall‘altro. Di conseguenza. non ci può

essere soggetto senza oggetto. Il materialismo è falso

perché nega il soggetto riducendolo all‘oggetto o alla

materia. L‘idealismo è parimenti errato poiché compie il

tentativo opposto e altrettanto impossibile di negare

l‘oggetto riducendolo al soggetto. Sulle orme del

criticismo, anche Schopenhauer ritiene che la nostra

mente, o più esattamente il nostro sistema nervoso e

cerebrale (1), risultino corredati di una serie di forme a

priori, la scoperta delle quali è un capitale merito di Kant,

un immenso merito. Tuttavia, a differenza di Kant,

Schopenhauer ammette solo tre forme a priori: spazio,

tempo e causalità. Quest‘ultima è l‘unica categoria, in

quanto tutte le altre sono riconducibili ad essa e poiché la

realtà stessa dell‘oggetto si risolve completamente nella

sua azione causale su altri oggetti. La causalità assume

forme diverse a seconda degli ambiti in cui opera,

manifestandosi come necessità fisica, logica, matematica e

morale, ovvero come principio del divenire (che regola i

rapporti fra gli oggetti naturali), del conoscere (che regola

i rapporti fra premesse e conseguenze). dell‘essere (che

regola i rapporti spazio-temporali e le connessioni

matematiche) e dell‘agire (che regola le connessioni fra

un‘azione e i suoi motivi). Andando alla ricerca di

precedenti illustri di questa intuizione, Schopenhauer cita i

filosofi Veda che considerano l‘esistenza comune come

una sorta di illusione ottica, ma anche Platone, Pindaro e

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Sofocle. Ma al di là del sogno esiste la realtà vera, sulla

quale l‘uomo, non può fare a meno di interrogarsi. Infatti,

sostiene Schopenhauer, l‘uomo è un ―animale metafisico‖,

che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a

stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi

sull‘essenza della vita. Ciò avviene proporzionalmente alla

sua intelligenza: nessun essere, eccetto l‘uomo, si stupisce

della propria esistenza: per tutti gli animali essa è una cosa

che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso

La via d‘accesso alla cosa-in-sé

Schopenhauer ritiene di aver individuato quella via

d‘accesso al noumeno che Kant aveva precluso. Ma se la

nostra mente è chiusa nell‘orizzonte della

rappresentazione, com‘è possibile ―lacerare‖ il velo di

Maya? Se noi fossimo soltanto conoscenza o una testa

senza corpo, argomenta Schopenhauer non potremmo mai

uscire dalla rappresentazione puramente esteriore di noi e

delle cose. Ma poiché siamo dati a noi medesimi non solo

come rappresentazione, ma anche come corpo, non ci

limitiamo a vederci dal di fuori, bensì ci viviamo anche

dal di dentro, godendo e soffrendo. Ed è proprio questa

esperienza di base, simile ad un raggio di sole che penetra

oltre la nuvola, che permette all‘uomo di squarciare il velo

del fenomeno e di afferrare la cosa in sé. Infatti,

ripiegandoci su noi stessi, ci rendiamo conto che l‘essenza

profonda del nostro io, o meglio, la cosa in sé del nostro

essere globalmente considerato, è la ―volontà di vivere‖,

cioè un impulso prepotente e irresistibile che ci spinge ad

esistere e ad agire. Più che intelletto o conoscenza, noi

siamo vita e volontà di vivere, e il nostro stesso corpo non

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è che la manifestazione esteriore dell‘insieme delle nostre

brame interiori: l‘apparato digerente non è che l‘aspetto

fenomenico della volontà di nutrirsi, l‘apparato sessuale

non è che l‘aspetto oggettivato della volontà di accoppiarsi

e di riprodursi, e così via. E l‘intero mondo fenomenico

non e altro che la maniera attraverso cui la volontà si

manifesta o si rende visibile a se stessa nella

rappresentazione spazio-temporale. Da ciò il titolo del

capolavoro di Schopenhauer: Il mondo come volontà e

rappresentazione. Fondandosi sul principio di analogia,

Schopenhauer afferma che la volontà di vivere non è

soltanto la radice noumenica dell‘uomo, ma anche

l‘essenza segreta di tutte le cose, ossia la cosa in sé

dell‘universo, finalmente svelata.

Essendo al di là del fenomeno, la Volontà presenta

caratteri contrapposti a quelli del mondo della

rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme proprie di

quest‘ultimo: lo spazio, il tempo e la causalità. La Volontà

primordiale è inconscia, poiché la consapevolezza e

l‘intelletto costituiscono soltanto delle sue possibili

manifestazioni secondarie. Il termine Volontà, preso in

senso metafisico, non si identifica con quello di volontà

cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di

impulso (e in questo senso si comprende perché

Schopenhauer attribuisca la volontà anche alla materia

inorganica e ai vegetali). La Volontà non è qui più di

quanto non sia là, più oggi di quanto non sia stata ieri o

sarà domani, Essa, dice Schopenhauer, è in una quercia

come in un milione di querce. Essendo oltre la forma del

tempo, la Volontà è anche eterna e indistruttibile, ossia un

Principio senza inizio né fine. La Volontà primordiale non

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ha una meta oltre se stessa: la vita vuole la vita, la volontà

vuole la volontà, ed ogni motivazione o scopo cade entro

l‘orizzonte del vivere e del volere. Miliardi di esseri

(vegetali, animali, umani) non vivono che per vivere e

continuare a vivere. È questa. secondo Schopenhauer,

l‘unica crudele verità sul mondo. Il mondo delle realtà

naturali si struttura a propria volta attraverso una serie di

gradi disposti in ordine ascendente. Il grado più basso

dell‘oggettivazione della Volontà è costituito dalle forze

generali della natura. I gradi superiori sono le piante e gli

animali e il vertice della piramide è rappresentato

dall‘uomo, nel quale la Volontà diviene pienamente

consapevole.

Il pessimismo

Se l‘essere è la manifestazione di una Volontà infinita,

questo comporta, secondo Schopenhauer, che la vita è

dolore per essenza. Infatti volere significa desiderare, e

desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione, per la

mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere. Il

desiderio risulta quindi, per definizione, assenza, vuoto,

indigenza: ossia dolore. E poiché nell‘uomo la Volontà è

più cosciente, egli risulta il più bisognoso e mancante

degli esseri, e destinato a non trovare mai un appagamento

verace e definitivo: Ogni volere scaturisce da bisogno,

ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine

l‘appagamento; tuttavia per un desiderio che venga

appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre

la brama dura a lungo, le esigenze vanno all‘infinito;

l‘appagamento è breve. Anzi, la stessa soddisfazione

finale è solo apparente: il desiderio appagato dì tosto

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luogo a u desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto,

questo un errore non conosciuto ancora. Per di più, ciò che

gli uomini chiamano godimento (fisico) e gioia (psichica)

è nient‘altro. come avevano già. sostenuto Pietro Verri e

Giacomo Leopardi, che una cessazione di dolore, ossia lo

scarico da uno stato preesistente di tensione, che ne

rappresenta la condizione indispensabile. Infatti,

argomenta Schopenhauer, perché ci sia piacere bisogna

per forza che vi sia uno stato precedente di tensione o di

dolore (ad esempio il godimento del bere presuppone la

sofferenza della sete). La stessa cosa non vale tuttavia per

il dolore, che non può affatto essere ridotto, con un puro

gioco dialettico di parole, a cessazione di piacere. Detto

negli incisivi termini figurati di una battuta dei Parerga e

paralipomena: Non v‘è rosa senza spine, ma vi sono

parecchie spine senza rose! Di conseguenza, mentre il

dolore, identificandosi con il desiderio, che è la struttura

stessa della vita, è un dato primario e permanente, il

piacere è solo una funzione derivata del dolore, che vive

unicamente a spese di esso. Accanto al dolore, che è una

realtà durevole, e al piacere, che è qualcosa di

momentaneo, Schopenhauer pone, come terza situazione

esistenziale di base, la noia, la quale subentra quando vien

meno l‘aculeo del desiderio oppure il frastuono delle

attività. Di conseguenza, conclude Schopenhauer. la vita

umana è come un pendolo che oscilla fra il dolore e la

noia, passando attraverso l‘intervallo, per di più illusorio,

del piacere e della gioia. Tracce della lettura di Verri da

parte di Schopenhauer emergono anche confrontando testi

delle due opere. Schopenhauer cita invece Leopardi,

manifestando grande considerazione per ―l‘italiano.‘ che

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saputo rappresentare in maniera profonda il dolore.

Sembra invece che Leopardi non abbia avuto modo di

conoscere il pensatore tedesco. Schopenhauer perviene ad

una delle più radicali forme di pessimismo di tutta la storia

del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel inondo,

ma il Principio stesso da cui esso dipende.

Le vie di liberazione dal dolore: l‘arte, l‘etica, l‘ascesi

Schopenhauer fa proprie le sentenze pessimistiche dei

saggi dell‘Oriente (―esistere è soffrire‖), di Platone (―è

meglio non essere nati piuttosto che vivere‘), di Calderòn

de la Barca (―il delitto maggiore per l‘uomo è di essere

nato‖), nonché di certa tradizione biblico-cristiana e

afferma che l‘esistenza, in virtù del dolore che la

costituisce, risulta tal cosa che si impara poco per volta a

non volerla. Si potrebbe pensare che il sistema di

Schopenhauer finisca in una ―filosofia del suicidio

universale‖. Ma Schopenhauer condanna il suicidio per

due motivi di fondo: 1) perché suicidio, lungi dall‘essere

negazione della volontà, è invece un atto di forte

affermazione della volontà stessa in quanto il suicida

anziché negare veramente la volontà egli nega piuttosto la

vita; 2) perché il suicidio sopprime unicamente

l‘individuo, ossia una manifestazione fenomenica della

Volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur

morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile al

sole che, appena tramontato da un lato, risorge dall‘altro.

Di conseguenza, secondo Schopenhauer, la vera risposta al

dolore del mondo non consiste nell‘eliminazione, tramite

il suicidio, di una vita o più vite, ma nella liberazione dalla

stessa Volontà di vivere. Ma com‘è possibile, per l‘uomo,

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spezzare le catene della Volontà se quest‘ultima

costituisce la sua essenza e la struttura metafisica

dell‘universo? Schopenhauer indica tre possibili vie di

liberazione dal dolore: l‘arte, la morale e l‘ascesi.

L‘arte è libera e disinteressata e si rivolge alle idee, ossia

alle forme pure o ai modelli eterni delle cose. Per questa

sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne,

l‘arte sottrae l‘individuo alla catena infinita dei bisogni e

dei desideri quotidiani, con un appagamento immobile e

compiuto. Di conseguenza l‘arte, secondo Schopenhauer

risulta catartica per essenza, in quanto l‘uomo, grazie ad

essa, contempla la vita, elevandosi al di sopra della

volontà, del dolore e del tempo. Fra le arti spicca la

tragedia che è la rappresentazione del dramma della vita.

Posto a sé occupa invece la musica. Infatti essa non

riproduce mimeticamente le idee, come le altre arti, ma si

pone come immediata rivelazione della volontà a se stessa.

Ma la funzione liberatrice dell‘arte è pur sempre

temporanea e parziale ed ha i caratteri,di un gioco

effimero o di un breve incantesimo. Di conseguenza essa

non è una via per uscire dalla vita, ma solo un conforto

alla vita stessa. La via della redenzione presuppone quindi

altri sentieri.

A differenza della contemplazione estetica, che è un

estraniarsi trasognato dalla realtà, la morale implica un

impegno nel mondo a favore del prossimo. Infatti l‘etica è

un tentativo di superare l‘egoismo e di vincere quella lotta

incessante degli individui fra di loro, che costituisce

l‘ingiustizia e che rappresenta una delle maggiori fonti di

dolore. Contro Kant, sostiene che l‘etica non sgorga da un

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imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un

sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre

le sofferenze degli altri. La morale si concretizza in due

virtù cardinali: la giustizia e la carità. La giustizia, che è

un primo freno all‘egoismo, ha un carattere negativo,

poiché consiste nel non fare il male e nell‘essere disposti a

riconoscere agli altri ciò che siamo pronti a riconoscere a

noi stessi. La carità si identifica invece con la volontà

positiva e attiva di fare del bene al prossimo.

Diversamente dall‘eros, che essendo egoistico e

interessato, è un falso amore, l‘agàpe, essendo

disinteressato, è vero amore: ogni puro e sincero amore è

pietà. Ai suoi massimi livelli la pietà consiste nel far

propria la sofferenza di tutti gli esseri passati e presenti e

nell‘assumere su di sé il dolore cosmico. Sebbene la

morale della pietà implichi una vittoria sull‘egoismo, essa

rimane pur sempre all‘interno della vita e presuppone un

qualche attaccamento ad essa. Ma Schopenhauer, non

pago di approfondire l‘esperienza della pietà, o di

formulare eventuali tecniche per tradurla efficacemente in

atto, si propone il traguardo di una liberazione totale non

solo dall‘egoismo e dall‘ingiustizia, ma dalla stessa

volontà di vivere.

Questa liberazione è l‘ascesi, che nasce dall‘orrore

dell‘uomo per l‘essere di cui è manifestazione il suo

proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo

e l‘essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore, è

l‘esperienza per la quale l‘individuo, cessando di volere la

vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio

desiderio di esistere, di godere e di volere: Il primo passo

dell‘ascesi è la castità perfetta, che libera dalla prima e

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fondamentale manifestazione della volontà di vivere:

l‘impulso alla generazione e alla propagazione della

specie. La rinuncia .i piaceri, l‘umiltà, il digiuno, la

povertà, il sacrificio che sono le altre manifestazioni

tipiche dell‘ascetismo, tendono tutte al medesimo scopo,

che è quello di sciogliere la volontà di vivere dalle proprie

catene. La soppressione della volontà di vivere, di cui

l‘ascesi rappresenta la tecnica, è l‘unico vero atto di libertà

che sia possibile all‘uomo. Infatti l‘individuo, come

fenomeno, è in anello della catena causale ed è

necessariamente determinato dal suo carattere. Ma quando

egli riconosce la volontà come cosa in sé, si sottrae alla

determinazione dei motivi che agiscono su di lui come

fenomeno. Quando succede ciò, l‘uomo diviene libero, si

rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano di

grazia. Tuttavia, mentre nei mistici del Cristianesimo

l‘ascesi si conclude con l‘estasi, che è lo stato di unione

con Dio, nel misticismo ateo di Schopenhauer il cammino

nella salvezza mette capo al nirvana buddista, che è

l‘esperienza del nulla. Un nulla che secondo quanto

insegnano i testi e i maestri dell‘Oriente non è il niente,

bensì un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del

mondo stesso. Se il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue

sofferenze e i suoi rumori, e un nulla, il nirvana, per

l‘asceta schopenhaueriano, è un tutto, cioè un oceano di

pace o ano spazio luminoso di serenità, in cui si dissolve la

nozione stessa di io e di soggetto. Secondo un punto di

vista largamente diffuso tra i critici, la teoria orientalistica

dell‘ascesi costituisce la parte più debole e contraddittoria

del sistema schopenhaueriano.

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CAPITOLO 15

S. Kierkegaard

Filosofo danese (1813 – 1855), ha scritto: Sul concetto

dell‘ironia (1841), Aut - Aut (1843), Timore e tremore

(1843), La ripresa (1843), Briciole di filosofia (1844), Il

concetto dell‘angoscia (1844),Stadi sul cammino della vita

(1845)

Kierkegaard è un precursore dell'esistenzialismo, la

corrente filosofica che ha dominato in Europa, nella prima

metà del '900. In particolare il suo pensiero è stato

rivalutato subito dopo la prima guerra mondiale, quando

non si poteva più credere in alcuna filosofia sistematica

che spiegasse, con fiducia nel progresso, il senso della

vita. A lui si richiama la filosofia esistenziale tedesca di

Heidegger e Jaspers e l‘esistenzialismo francese Marcel,

Lavelle, Le Senne, Camus, Gide. In Italia suoi seguaci

sono stati Abbagnano e Paci, Cantoni, Pareyson e molti

altri ancora. Si deve però sottolineare che l'esistenzialismo

francese, tedesco e italiano non ha tenuto in particolare

considerazione la problematica religiosa di Kierkegaard;

dal suo pensiero ha piuttosto tratto quei concetti generali

validi per ogni uomo, come "possibilità", "scelta",

"paradosso", "angoscia", "disperazione", "singolo.

La critica ad Hegel

"Nella specie animale vale sempre il principio: il singolo è

inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica,

appunto perché ogni singolo è creato ad immagine di Dio,

che il Singolo è più alto del genere". L‘esistenza

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corrisponde alla realtà individuale, al Singolo; e non

coincide mai con il concetto: un uomo singolo, concreto,

determinato non ha certo un‘esistenza puramente

concettuale. Invece la filosofia hegeliana pare solo

interessata ai concetti: essa non si preoccupa di

quell‘esistente concreto che siamo io o tu. Il sistema

hegeliano ha inoltre la pretesa di spiegare tutto e di

dimostrare la necessità di ogni evento. Ma l‘esistenza non

può essere chiusa in un sistema.

Gli stadi della vita

L‘esistenza è il regno della libertà: l‘uomo è ciò che

sceglie di essere, è quello che diventa. Ci sono tre

alternative fondamentali nella vita umana: lo stadio

estetico, quello etico e quello religioso. Tra uno stadio e

l‘altro vi è un salto e un abisso; ognuno di essi rappresenta

un‘alternativa che esclude l‘altra. Nello stadio estetico

l‘esteta è colui che vuole vivere nell‘attimo, cercando do

coglierne la pienezza. Egli intende fare della sua vita

un‘opera d‘arte, da cui sia bandita la noia, la tristezza, la

monotonia. "Godi la vita e vivi il tuo desiderio", dice

l‘estetica, che trova il suo modello nella figura del Don

Giovanni, il quale sa porre il suo godimento nella

limitazione e nell‘intensità dell‘appagamento. In questo

stadio però non è possibile, secondo Kierkegaard, né scelta

autentica né libertà: infatti l‘esteta lascia alle circostanze

decidere per lui. Inoltre l‘ultimo sbocco della vita estetica

è la disperazione. Essa sorge dall‘aver voluto basare la vita

solo su se stesso e non sugli altri e su Dio. "Chiunque vive

esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia; anzi,

forse più di ogni altro è disperato colui che non sente in sé

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nessuna disperazione". Ma se la radice della disperazione

sta nel volersi accettare dalle mani di Dio, allora è chiaro

che l‘esistenza autentica è quella disponibile all‘amore di

Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma

soltanto a Dio.

Vi è poi la vita etica: essa implica una stabilità e una

continuità che la vita estetica, come incessante ricerca

della varietà, esclude da sé. Nella vita etica, l‘uomo si

sottopone ad una forma, si adegua all‘universale e rinuncia

ad essere l‘eccezione. La vita etica è raffigurata dalla

figura del marito e dall‘elogio del matrimonio. E‘ l‘uomo

che sceglie se stesso, che in questa scelta afferma la

continuità della sua vita, l‘impegno e non la fuga dalle

responsabilità; in una parola, accetta la ripetizione. Essa è

la possibilità di riconfermare il passato, accettando ogni

volta e in modo nuovo di amare la stessa donna, di avere

gli stessi amici, di esprimersi nella stessa professione. La

ripetizione indica la serietà della vita, è il coraggio etico

della vita. Come uomo etico, il marito ha il dovere di

conformarsi alla legge morale che è universale, ma nello

stesso tempo egli rischia di perdere nella anonimità e nella

folla la sua personalità e la sua autonomia. Inoltre nello

stadio etico ci si imbatte nella contraddizione del

pentimento. Infatti, se l‘uomo sceglie se stesso fino in

fondo, trova, secondo Kierkegaard, la propria origine, cioè

Dio, nel senso che c‘è in noi un‘ansia di infinito che non si

lascia racchiudere nei limiti di marito e lavoratore. Ma

poiché di fronte alla maestà divina l‘unico sentimento che

l‘uomo può provare è quello della propria inadeguatezza

morale, cioè della propria colpevolezza, l‘esito finale della

vita etica è appunto il pentimento. L‘uomo etico viene così

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messo di fronte al peccato, il quale però non è più una

categoria etica bensì religiosa. Col pentimento dunque si

esce dalla sfera dell‘etica per entrare in quella della

religione, il che richiede il salto della fede.

La vita religiosa, la fede, va al di là dello stesso ideale

etico della vita. Il simbolo della fede è visto da

Kierkegaard nella figura di Abramo, che accetta il rischio

della prova impostagli da Dio, accetta il rischio di porsi di

fronte a Dio, come un singolo di fronte all‘Altissmo. La

fede va al di là della stessa morale perché Dio ordina ad

Abramo di sacrificargli il figlio, quindi di commettere un

omicidio. Come poter accettare una simile prova? Ma la

fede consiste proprio in quel rischio, nell‘accettazione del

paradosso e della prova. L‘atto di fede implica una rottura

recisa con la razionalità ed esige il passaggio, il salto, ad

una sfera che è incommensurabile con la ragione naturale.

L‘oggetto della fede urta contro la ragione che pretende di

spiegare e di esaurire tutto e non ammette nulla sopra di

sé: per essa, che non vuole credere, l‘oggetto della fede è

un assurdo. Per il credente, che ammette la trascendenza

ed è convinto che a Dio nulla è impossibile, esso è un

paradosso. Il paradosso nella verità religiosa dipende dal

fatto che essa è la verità così come lo è per Dio. Qui si

usano una misura ed un criterio sovraumani, e rispetto a

questo una sola situazione è possibile: quella della fede.

Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a

credere, e non per una evidenza logica. Kierkegaard

esprime questo con la formula: "Comprendere che non si

può né si deve comprendere". Lo scandalo è per

Kierkegaard il momento cruciale nella prova della fede, il

punto di resistenza e perciò il segno della trascendenza

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della verità cristiana di fronte alla ragione. Lo scandalo

indica il soccombere della ragione perché è il rifiuto di

"comprendere di non comprendere", giacché la ragione

vuole solo comprendere. Per Kierkegaard l‘origine dello

scandalo nasce dal fatto che l‘uomo non si pone come

"singolo davanti a Dio", e cioè non accetta la misura di

Dio. Quando ci poniamo davanti a Dio non c‘è più spazio

per finzioni, ma la scoperta che "c‘è un‘infinita abissale

differenza qualitativa tra Dio e l‘uomo", e cioè che l‘uomo

non può assolutamente nulla, che è Dio a dare tutto. Ma

oltre a questo si tratta, nel Cristianesimo, di ammettere che

Dio stesso si è messo in rapporto con l‘uomo, che Dio è

entrato nel tempo, che l‘Eterno si è incarnato in un uomo,

di accettare lo ―scandalo‖ di credere che un uomo singolo

sia Dio, che Gesù sia Dio. Ora, la fede in Cristo è proprio

superamento dello scandalo ed accettazione del paradosso

che è l‘uomo-Dio; è accettazione del fatto che la Chiesa

sia militante e non trionfante. E questo può essere fatto

solo con una scelta di fede. La scelta di fede, quindi

l‘accettazione del paradosso e il superamento dello

scandalo, può portare all‘angoscia. L‘angoscia è la

coscienza della nostra terribile libertà: tutto ci è possibile,

quindi possiamo anche perderci, andare in contro al

disvalore, al nulla. L‘angoscia è il puro sentimento del

possibile; è il senso di quello che può accadere e che può

essere molto più terribile della realtà. L‘angoscia

caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è

angosciato dalla possibilità del pentimento; chi è libero dal

peccato, vive nell‘angoscia di ricadervi. Se l‘angoscia è

tipica dell‘uomo nel suo rapportarsi col mondo, la

disperazione è propria dell‘uomo nel suo rapporto con se

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stesso. Il credente però possiede il "contravveleno" sicuro

contro la disperazione: è la fede, il credere che a Dio tutto

è possibile. La fede è l‘eliminazione della disperazione,

per cui l‘uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo

essere se stesso, non si illude della sua autosufficienza ma

riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce

alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio. Ma porta

l‘uomo al di là della semplice razionalità: essa è, come

sappiamo, paradosso e scandalo.

La verità

Ma la verità cristiana non è per Kierkegaard una verità da

dimostrare, quanto piuttosto una verità da testimoniare.

Kierkegaard afferma, a questo proposito, che "la

soggettività, l‘interiorità è la verità" intendendo non certo

che la verità è soggettiva o relativa, ma che la verità è tale

quando è scelta e vissuta in prima persona, quando è una

"verità per me", per la quale io possa vivere e anche

morire. Esistere vuol dire rapportarsi alla verità che è

Cristo, vuol dire scegliere di vivere la fede, testimoniando

con la propria vita l‘importanza della verità in cui si crede,

contro ogni speculazione astratta, che non mette in

questione il singolo.

La critica al cristianesimo mondano

Nella cristianità si è purtroppo dimenticato cosa vuol dire

essere cristiani. Si è dimenticato che la fede esige il salto

supremo, cioè l‘accettazione dell‘uomo-Dio; si è

dimenticato che la fede in Cristo è superamento dello

scandalo e accettazione della croce, che è perciò

l‘accettazione del modello (Gesù), sofferente. Kierkegaard

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vede in Lutero il primo responsabile della

mondanizzazione del Cristianesimo. Il protestantesimo,

abolendo ad esempio il celibato e l‘ascesi, ha abolito il

Cristianesimo del Nuovo Testamento e lo ha tradito

trasformandosi in una sorta di comodo paganesimo.

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CAPITOLO 16

Feuerbach e Marx

Ludwig Feuerbach (1804– 1872)

E‘ stato un filosofo tedesco tra i più influenti critici della

religione ed esponente della sinistra hegeliana.

L'essenza del cristianesimo (1841) Principi della filosofia

dell'avvenire (1844) L'essenza della religione (1845)

Il rovesciamento dei rapporti di predicazione soggetto-

oggetto

E‘ il metodo caratteristico usato da Feuerbach nella sua

battaglia contro la mentalità idealistico-religiosa. Metodo

che consiste nel ri-capovolgere ciò che l‘idealismo ha

capovolto, ossia nel riconoscere di nuovo ciò che è

realmente soggetto (= il concreto) e ciò che è realmente

predicato (= l‘astratto). Ad es. non è la natura a fungere da

predicato o attributo dello spirito (idealismo), ma lo spirito

a fungere da predicato o attributo della natura

(naturalismo).

Dio secondo Feuerbach, è nient‘altro che l‘essenza

oggettivata del soggetto, cioè la proiezione illusoria di

qualità umane: ―Tutte le qualificazioni dell‘essere divino

sono... qualificazioni dell‘essere umano‖ (L‘essenza del

cristianesimo). Circa l‘origine dell‘idea di Dio Feuerbach

si è variamente espresso. Talora ne ha individuato la

genesi nella distinzione fra individuo e specie; talora nel

sentimento di dipendenza che l‘uomo prova nei confronti

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della Natura. In ogni caso, la religione ha una chiara

matrice antropologica

Antropologia capovolta

È il modo con cui Feuerbach concepisce la religione,

intesa come ―la prima, ma indiretta autocoscienza

dell‘uomo‖. Infatti, puntualizza il filosofo come l‘uomo

pensa, quali sono i suoi principi, tale è il suo dio. Tu

conosci l‘uomo dal suo Dio, e, reciprocamente, Dio

dall‘uomo. Da ciò la possibilità di una riduzione, in chiave

antropologica, di tutti i dogmi della teologia.

Alienazione

Quello di alienazione è un termine, presente in Hegel e

ripreso da Marx, che indica l‘elemento patologico

dell‘esperienza religiosa descritta da Feuerbach, ovvero

quello stato per cui l‘uomo, scindendosi, proietta fuori di

sé una Potenza superiore (Dio) e alla quale si sottomette.

―L‘uomo — questo è il mistero della religione — proietta

il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo

essere metamorfosato in soggetto, in persona; egli pensa,

ma come oggetto del pensiero di un altro essere, e questo

essere è Dio‖. L‘alienazione è collegata al fatto che quanto

più l‘uomo pone in Dio, tanto più toglie a se stesso: ―Nella

religione l‘uomo opera una frattura nel proprio essere,

scinde sé da se stesso, ponendo di fronte a sé Dio come un

essere antitetico. Nulla è Dio di ciò che è l‘uomo, nulla è

l‘uomo di ciò che è Dio. Dio è l‘essere infinito, l‘uomo

l‘essere finito; Dio perfetto, l‘uomo imperfetto; Dio

eterno, l‘uomo perituro; Dio onnipotente, l‘uomo

impotente; Dio santo, l‘uomo peccatore. Dio e l‘uomo

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sono due estremi: Dio il polo positivo, assomma in sé tutto

ciò che è reale, l‘uomo il polo negativo, tutto ciò che è

nullo‖. La presa di coscienza del fenomeno

dell‘alienazione, in quanto stato di ―scissione‖ interiore e

di ―dipendenza‖, genera, per Feuerbach, la necessità

dell‘ateismo, come riappropriazione, da parte dell‘uomo,

della propria essenza alienata. L‘ateismo di Feuerbach non

ha solo un significato negativo, poiché si presenta anche,

in positivo, come proposta di una nuova divinità: l‘Uomo.

All‘ateismo Feuerbach finisce quindi per sostituire una

forma di antropoteismo. La filosofia dell‘avvenire è la

nuova filosofia in antitesi alla vecchia filosofia

teologizzante. Filosofia che si identifica sostanzialmente

con una forma di umanismo naturalistico. Umanismo,

perché fa dell‘uomo l‘oggetto e lo scopo del discorso

filosofico; naturalistico perché fa della Natura la realtà

ontologica primaria da cui tutto dipende, compreso l‘uomo

e i suoi bisogni: ―La nuova filosofia fa dell‘antropologia la

scienza universale‖.

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Karl MARX (1818-1883)

Marx nasce a Treviri, da famiglia di origine ebraica.

Studiò a Bonn e poi a Berlino e nel 1841 si laureò in

filosofia. Dedicatosi alla carriera giornalistica, fu redattore

della Gazzetta Renana ma in seguito alla censura e in

conseguenza delle sue idee rivoluzionarie si vide costretto

a trasferirsi a Parigi. Qui conobbe Engels, Proudhon, e

Bakunin, ovvero anarchici e precursori di quel più vasto e

organico movimento politico che fu il socialismo (e quindi

il comunismo).Nel 1848, assieme ad Engels, pubblica a

Bruxelles il Manifesto del partito comunista. Espulso

anche da Bruxelles si trasferì definitivamente a Londra,

dove per mantenere la famiglia si vide costretto ad

accettare gli aiuti economici del compagno Engels. Nel

1864 fondò la Prima Internazionale dei lavoratori, a

conferma del suo attivo impegno politico in favore degli

operai e delle classi meno abbienti. Nel 1867 viene

stampato il primo libro del Capitale, la sua più celebre e

monumentale opera, pubblicata interamente in tre volumi

(1885 il secondo, 1894 il terzo). Morì a Londra nel 1883.

Opere principali: Differenza tra le filosofie della natura di

Democrito e di Epicuro (sua tesi di laurea, 1841); Tesi su

Feuerbach (1845); La sacra famiglia (1845); L'ideologia

tedesca (1846); Miseria della filosofia (1847); Manifesto

del partito comunista (1848); Critica dell'economia

politica (1859); Il Capitale (1867-1894).

In Marx confluiscono diverse posizioni precedenti: la

filosofia hegeliana, le modifiche di Feuerbach alla stessa,

le analisi degli economisti classici (Smith e Ricardo),

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quelle dei socialisti utopistici. Il concetto di filosofia come

attività puramente teoretica viene criticata: ―i filosofi

hanno finora solo interpretato il mondo, si tratta ora di

cambiarlo‖.

Caratteristiche del marxismo

Il primo contrassegno del pensiero di Marx è la il suo

porsi come analisi globale della società e della storia. Un

secondo contrassegno del marxismo è il suo legame con la

prassi, ovvero la tendenza a fornire un‘interpretazione

dell‘uomo e del suo mondo che sia anche impegno di

trasformazione rivoluzionaria.

Le influenze culturali che stanno alla base del marxismo

sono essenzialmente tre: la filosofia classica tedesca da

Hegel a Feuerbach; l‘economia politica borghese da Smith

a Ricardo; il pensiero socialista da Saint-Simon ad Owen.

Queste tre esperienze intellettuali, che fungono da

coordinate teoriche della genesi del marxismo, vengono

ripensate da Marx alla luce di una sintesi creativa che

procede criticamente oltre i loro risultati, mettendo capo

ad una nuova visione dei mondo.

La critica del misticismo logico di Hegel

Il rapporto Hegel-Marx risulta assai complesso e oggetto

di divergenti interpretazioni critiche. Il primo testo in cui

Marx si misura con il maestro è la Critica della filosofia

hegeliana del diritto pubblico (1843). Lo scritto è

fìlosofico-politico al tempo stesso: il primo momento

colpisce al cuore il metodo di Hegel, cioè il suo modo

stesso di filosofare. Secondo Marx lo stratagemma di

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Hegel consiste nel fare delle realtà empiriche delle

manifestazioni necessarie dello Spirito. Questo significa

che invece di limitarsi a constatare, ad esempio, che in

certi ordinamenti storici esiste la monarchia, Hegel

afferma che lo Stato presuppone per forza una sovranità, la

quale si incarna necessariamente nel monarca, che è la

sovranità statale personificata. Inoltre, poiché ciò che è

necessario, per Hegel, è anche razionale, egli deduce la

piena ―logicità‖ della monarchia. identificandola con la

razionalità politica in atto. Marx definisce questo

procedimento misticismo logico, poiché in virtù di esso le

istituzioni, anziché comparire per ciò che di fatto sono,

finiscono per essere allegorie. o personificazioni di una

realtà spirituale che se ne sta occultamente dietro di essi.

Al metodo mistico di Hegel, Marx, ispirandosi alle

feuerbachiane Tesi provvisorie per la riforma della

filosofia (1843), oppone polemicamente il metodo

trasformativo, che consiste nel ri-capovolgere ciò che

l‘idealismo ha capovolto. ossia nel riconoscere di nuovo

ciò che è veramente soggetto e veramente predicato. Oltre

che essere fallace sul piano filosofico, il metodo mistico‖

di Hegel è anche conservatore sul piano politico, poiché

porta a canonizzare‖ o a ――santificare‖― la realtà esistente,

ossia a razionalizzare‖― i dati di fatto, trasformandoli in

manifestazioni razionali e necessarie dello Spirito. La

demistificazione‖ dell‘hegelismo non toglie che Marx

riconosca ad esso dei meriti notevoli, che si assommano

nella sua visuale dialettica‖―, ossia nella concezione

generale della realtà come totalità storico-processuale,

costituita di elementi concatenati fra di loro e mossa dalle

opposizioni.

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La critica della civiltà moderna e del liberalismo

Alla base della teoria di Marx e della sua adesione al

comunismo, vi è una critica globale della civiltà moderna

e dello Stato liberale, che rappresenta uno dei nuclei

teorici più importanti del marxismo. Il punto di partenza

del discorso di Marx è la convinzione, mutuata da Hegel,

che la categoria del moderno si identifichi con quella della

――scissione‖―, che prende corpo innanzitutto, nella frattura

fra società civile e Stato. Mentre nella polis greca

l‘individuo si trovava in un‘‖―unità sostanziale‖― con la

comunità di cui faceva parte, e non conosceva antitesi fra

ego pubblico ed ego privato, fra sfera individuale e sfera

sociale, fra società e Stato, nel mondo moderno l‘uomo è

costretto a vivere come due vite: una ――in terra‖― come

borghese‖―, cioè nell‘ambito dell‘egoismo e degli interessi

particolari della società civile. e l‘altra ――in cielo‖― come

――cittadino‖―, ovvero nella sfera superiore dello Stato e

dell‘interesse comune. Marx scorge i tratti essenziali della

civiltà moderna nell‘individualismo e nell‘atomismo, ossia

nella ―separazione‖ del singolo dal tessuto comunitario. E

siccome lo Stato post-rivoluzionario legalizza questa

situazione, riconoscendo, quali ―diritti dell‘uomo‖, la

libertà individuale (che nella Costituzione del ‗93 viene

intesa come l‘esercizio di tutto ciò che non nuoce ad altri)

e la proprietà privata, esso non è altro che la proiezione

politica di una società strutturalmente a-sociale. Marx,

denunciando tutto ciò come ―mistificazione‖, ritiene che

l‘unico modo per realizzare tale modello di comunità

solidale sia l‘eliminazione delle diseguaglianze reali fra gli

uomini, ed in particolare del principio stesso di ogni

diseguaglianza: la proprietà privata. Ma come tradurre

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concretamente in atto questa vera democrazia, che

coincide con il comunismo stesso? Mentre nella Critica

del 1843 lo strumento cui ricorre Marx è il ―suffragio

universale‖, negli Annali franco-tedeschi e nei Manoscritti

economico-filosofici del 1844, l‘arma cui egli fa appello è

la rivoluzione sociale.

La critica dell‘economia borghese e l‘alienazione

I Manoscritti economico-filosofici, composti a Parigi nel

1844, segnano il primo decisivo approccio di Marx

all‘economia politica e rappresentano l‘applicazione, in

sede economica. degli schemi critico-dialettici applicati

precedentemente al campo politico. Nei confronti

dell‘economia borghese l‘atteggiamento di Marx è

duplice, poiché da un lato egli la considera come

un‘espressione teorica della società capitalistica, e quindi

come una valida anatomia di essa, e dall‘altro le muove

l‘accusa di fornire un‘immagine globalmente mistifìcata,

falsa, del mondo borghese. Ciò è dovuto principalmente,

secondo Marx, alla sua incapacità di pensare in modo

dialettico e storico. Infatti, essa considera il sistema

capitalistico come un sistema naturale e immutabile e non

come uno dei tanti possibili sistemi economici. Inoltre

l‘economia politica non scorge la struttura contraddittoria

del proprio oggetto, ossia la conflittualità che caratterizza

il sistema capitalistico e che si incarna soprattutto

nell‘opposizione reale fra capitale e lavoro, fra borghesia e

proletariato. Nei Manoscritti tale contraddizione viene

espressa mediante il concetto di alienazione. Questo

concetto è ripreso dalla filosofia tedesca precedente. Marx

si rifà soprattutto a Feuerbach, da cui accetta la struttura

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formale del meccanismo dell‘alienazione, intesa appunto

come una condizione patologica di autoestraniazione.

Tuttavia, a differenza di Feuerbach, per il quale

l‘alienazione è ancora un fatto prevalentemente

coscienziale, derivante da un‘errata interpretazione di sé,

in Marx essa diviene un fatto reale, di natura socio-

economica, in quanto si identifica con la condizione

storica del salariato nell‘ambito della società capitalistica.

L‘alienazione dell‘operaio viene descritta da Marx sotto

quattro aspetti fondamentali, strettamente connessi fra di

loro: a) Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della

sua attività, in quanto egli, in virtù della sua forza-lavoro,

produce un oggetto (il capitale), che non gli appartiene e

che si costituisce come una potenza dominatrice nei suoi

confronti. b) Il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa

attività, la quale prende la forma di un lavoro forzato o

costrittivo, in cui egli è strumento di fini estranei (il

profitto del capitalista), con la grave conseguenza che

l‘uomo si sente ―bestia‖ quando dovrebbe sentirsi

veramente uomo, cioè nel lavoro sociale, e si sente uomo

quando fa la bestia. cioè si ―stordisce‖ nel mangiare, nel

bere e nel procreare. c) Il lavoratore è alienato rispetto al

suo stesso Wesen, ossia alla sua essenza o ―genere‖. Infatti

la prerogativa dell‘uomo nei confronti dell‘animale è il

lavoro libero, creativo e universale (in quanto egli sa

produrre secondo la misura di ogni specie‖), mentre nella

società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato,

ripetitivo e unilaterale. d) Il lavoratore è alienato rispetto

al prossimo. perché ―l‘altro‖, per lui, è soprattutto il

capitalista, ossia un individuo che lo tratta come un mezzo

e lo espropria del frutto della sua fatica, facendo sì che il

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303

suo rapporto con lui, e con l‘umanità in genere, sia per

forza conflittuale. La causa del meccanismo globale

dell‘alienazione risiede dunque nella proprietà privata dei

mezzi di produzione, in virtù della quale il possessore

della fabbrica (= il capitalista) può utilizzare il lavoro di

una certa categoria di individui (= i salariati) per

accrescere la propria ricchezza, secondo una dinamica che

Marx, nel capitale, descriver in termini di ―sfruttamento‖ e

logica del profitto.

Il distacco da Feuerbach

Analogamente ad Hegel, anche Feuerbach ha giocato, nel

pensiero del giovane Marx, un ruolo di primo piano.

Infatti nei Manoscritti del 1844 Marx afferma che

Feuerbach è il solo che si trovi in un rapporto critico, con

la dialettica hegeliana, ed abbia fatto in questo campo

delle autentiche scoperte‖. Ma nelle Tesi su Feuerbach e

nella Ideologia tedesca, il contributo di Feuerbach viene

ridimensionato. Pur avendo sottolineato la naturalità

dell‘uomo (e questo è il passo in avanti rispetto ad Hegel),

Feuerbach (e questo è il passo indietro rispetto a lui) ha

perso di vista la sua storicità, non rendendosi debitamente

conto che l‘uomo. più che natura è società, e quindi storia,

in quanto l‘essere umano non è un‘astrazione immanente

all‘individuo singolo bensì l‘insieme dei rapporti sociali

(VI tesi). Contro Feuerbach, Marx sostiene che l‘individuo

è reso tale dalla società storica in cui egli vive, per cui non

esiste l‘Uomo in astratto, ma l‘uomo prodotto di una

determinata società e di uno specifico mondo storico. In

tal modo, Marx corregge Hegel con Feuerbach e

Feuerbach con Hegel, poiché, contro l‘uno, può difendere

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la naturalità vivente dell‘uomo, e, contro l‘altro, la sua

socialità e storicità. Marx è andato elaborando la sua nota

teoria della religione come oppio dei popoli, ossia come il

prodotto di un‘umanità alienata e sofferente per causa

delle ingiustizie sociali, che cerca illusoriamente

nell‘aldilà ciò che le è negato di fatto nell‘aldiquà. Se la

religione è il frutto malato di una società malata, l‘unico

modo per sradicarla è quello di distruggere le strutture

sociali che la producono. La disalienazione religiosa ha

dunque, come suo presupposto, la disalienazione

economica, ossia l‘abbattimento della società di classe. ―I

filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi;

si tratta di mutarlo‖ (XI tesi).

La concezione materialistica della storia

La critica a Feuerbach segna il passaggio di Marx

dall‘umanismo al materialismo storico. Nell‘Ideologia

tedesca Marx e Engels spiegano che la storia non è un

evento spirituale, ma un processo materiale fondato sul

rapporto bisogno-soddisfacimento: vivere implica prima di

tutto il mangiare e bere, l‘abitazione, il vestire e altro

ancora.

Struttura e sovrastruttura

Nell‘ambito della storia, bisogna distinguere due elementi

di fondo: le forze produttive e i rapporti di produzione. Per

forze produttive Marx intende tutti gli elementi necessari

al processo di produzione, ossia: 1) gli uomini che

producono (= la forza-lavoro); 2) i mezzi (terra, macchine

ecc.) che utilizzano per produrre = i mezzi di produzione);

3) le conoscenze tecniche e scientifiche di cui si servono

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per organizzare la loro produzione. Per rapporti di

produzione Marx intende i rapporti che si instaurano fra

gli uomini nel corso della produzione e che giuridicamente

consistono in rapporti di proprietà. Forze produttive e

rapporti di produzione costituiscono, nella loro globalità, il

modo di produzione di un certo periodo. L‘insieme dei

rapporti di produzione costituisce la struttura, ossia la base

economica della società, mentre i rapporti giuridici, le

forze politiche, le dottrine etiche, artistiche, religiose e

filosofiche sono le espressioni più o meno dirette dei

rapporti che definiscono la struttura di una certa società

storica. Di conseguenza, non sono le leggi, lo Stato, le

forze politiche, le religioni, le filosofie ecc. che

determinano la struttura economica della società (=

idealismo storico), ma è la struttura economica che

determina le leggi, le religioni, le filosofie ecc. (=

materialismo storico).

La dialettica della storia

Forze produttive e rapporti di produzione sono la chiave di

lettura della statica della società, ma si configurano anche

come lo strumento interpretativo della sua dinamica,

poiché si identificano con la legge stessa della storia. Marx

ritiene infatti che ad un determinato grado di sviluppo

delle forze produttive tendano a corrispondere determinati

rapporti di produzione e di proprietà (ad esempio. rapporti

di produzione di tipo feudale corrispondono a forze

produttive di tipo agricolo). Ora, poiché le forze

produttive, in connessione con il progresso tecnico, si

sviluppano più rapidamente dei rapporti di produzione,

che esprimendo delle relazioni di proprietà tendono a

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306

rimanere statici, ne segue periodicamente una situazione di

frizione o di contraddizione dialettica fra i due elementi,

che genera un‘epoca di rivoluzione sociale. Infatti le

nuove forze produttive sono sempre incarnate da una

classe in ascesa, mentre i vecchi rapporti di proprietà sono

sempre incarnati da una classe dominante al tramonto. Di

conseguenza, risulta inevitabile lo scontro fra di esse, che

si gioca non solo a livello sociale, ma anche politico e

culturale. Alla fine finisce quasi sempre per trionfare la

classe che risulta espressione delle nuove forze produttive,

che in tal modo riesce ad imporre la propria maniera di

produrre e di distribuire la ricchezza, nonché la sua

specifica visione del mondo, poiché ‗le idee della classe

dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la

classe che è la potenza materiale dominante è in pari

tempo la sua potenza spirituale dominante‖. Questo

modello teorico, secondo Marx, trova la sua tipica

esemplificazione nella Francia del Settecento, dove, ad un

certo punto, vi fu uno scontro aperto fra la borghesia

(espressione delle nuove forze produttive di tipo

capitalistico) e l‘aristocrazia (espressione dei vecchi

rapporti di proprietà agrario-feudali). Vinse alla fine la

borghesia, che riuscì ad imporre i suoi rapporti di proprietà

e la sua visione del mondo. Analogamente, nel capitalismo

moderno si sta delineando una contraddizione fra forze

produttive e sociali e rapporti di produzione privatistici.

Infatti la fabbrica moderna, pur essendo proprietà di un

capitalista, produce soltanto grazie al lavoro collettivo di

operai, tecnici, impiegati, dirigenti ecc, Ma se sociale è la

produzione della ricchezza, sociale deve essere, secondo

Marx, la distribuzione di essa. Ma questo significa che il

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307

capitalismo porta in sé. come esigenza dialettica, il

socialismo. Infatti Marx afferma che il capitalismo pone le

basi del socialismo, in quanto genera, per la prima volta

nella storia, le condizioni oggettive favorevoli ad una

rivoluzione comunista mondiale. La legge della

corrispondenza‖ e della contraddizione‖ tra forze

produttive e rapporti di produzione permette dunque a

Marx di delineare un quadro generale della storia passata e

presente. Marx distingue quattro epoche‘ della formazione

economica della società: quella asiatica (fondata su forme

comunitarie di proprietà), quella antica di tipo

schiavistico, quella feudale e quella borghese. Tuttavia,

poiché sia Marx che Engels accennano talora ad una

comunità primitiva‖ di stampo comunista (sia intesa alla

stregua di un tipo generale di cui la società asiatica

sarebbe un sottotipo, sia intesa come tipo distinto e a sé

stante) si può dire che le grandi formazioni economico-

sociali siano la comunità primitiva, la società asiatica, la

società antica, la società feudale, la società borghese e la

futura società socialista. Sebbene queste epoche non

costituiscano, a rigore, delle tappe necessarie, in quanto

molte società hanno saltato l‘una o l‘altra fase, è indubbio

che esse costituiscano altrettanti gradini di una sequenza

che procede dall‘inferiore al superiore. Altrettanto

indubbio è che la storia, secondo i classici del marxismo,

proceda dal comunismo primitivo al comunismo futuro,

attraverso il momento intermedio della società di classe, la

quale si basa sulla divisione del lavoro e sulla proprietà

privata. Parimenti indubbio è che questo diagramma

storico dello sviluppo della civiltà poggi sulla tesi-

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convinzione del socialismo come sbocco inevitabile della

dialettica storica.

Il Manifesto

Il Manifesto del partito comunista (1848), nel quale Marx

si propone di esporre gli scopi e i metodi dell‘azione

rivoluzionaria, rappresenta una stringata somma della

concezione marxista del mondo. I punti salienti sono: 1)

l‘analisi della funzione storica della borghesia; 2) il

concetto della storia come ―lotta di classe‖ ed il rapporto

fra proletari e comunisti; 3) la critica dei socialismi non-

scientifici. A differenza delle classi che hanno dominato

nel passato, che tendevano alla conservazione statica dei

modi di produzione, la borghesia, secondo Marx, non può

esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di

produzione e tutto l‘insieme dei rapporti sociali. Di

conseguenza, la borghesia appare una classe dinamica, che

ha dissolto non solo le vecchie condizioni di vita, ma

anche idee e credenze tradizionali. Ma il proletariato,

classe oppressa della società borghese, non può fare a

meno di mettere in opera una dura lotta di classe, volta al

superamento del capitalismo e delle sue forme istituzionali

e ideologiche. Il concetto della storia come lotta di classe è

uno dei più significativi del Manifesto. ―La storia di ogni

società, esistita fino a questo momento, è storia di lotte di

classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della

gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve,

oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco

contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente

ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una

trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la

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comune rovina delle classi in lotta. Conformemente alle

sue analisi del capitalismo come fatto mondiale, Marx

insiste inoltre sull‘internazionalismo della lotta proletaria e

termina il Manifesto con il noto slogan rivoluzionario:

―Proletari di tutti i Paesi, unitevi!‖.

La critica dei falsi socialismi

Una delle sezioni più importanti del Manifesto è costituita

dalla critica di Marx ai socialismi precedenti. Marx

raggruppa e divide la letteratura socialista e comunista in

tre tendenze di fondo: il socialismo reazionario, il

socialismo conservatore o ―borghese‖ e il socialismo e

comunismo critico-utopistici. In generale a questi tipi di

socialismo ―utopistico‖ Marx contrappone invece il

proprio socialismo ―scientifico‖, basato su un‘analisi

critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo e

sull‘individuazione del proletariato come forza

rivoluzionaria destinata ad abbattere il sistema borghese.

Il Capitale

Il Capitale si propone di mettere in luce i meccanismi

strutturali della società borghese, al fine di ―svelare la

legge economica del movimento della società moderna‖. Il

fatto che Il Capitale rechi, come sottotitolo, Critica

dell’economia politica, rivela l‘esplicita contrapposizione

di Marx all‘economia classica. Marx si differenzia dai

grandi teorici dell‘economia classica soprattutto per il suo

metodo storicistico-dialettico. Marx è convinto che non

esistano leggi universali dell‘economia e che ogni

formazione sociale abbia caratteri e leggi storiche

specifiche (le leggi che valgono per il feudalesimo, ad

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310

esempio, non valgono per il capitalismo). In secondo

luogo, Marx è convinto che la società borghese porti in se

stessa delle contraddizioni strutturali che ne minano la

solidità, ponendo le basi oggettive della sua fine. In terzo

luogo, Marx è persuaso che l‘economia debba far uso

dello schema dialettico della totalità organica, studiando il

capitalismo come una struttura i cui elementi risultano

strettamente connessi. Un‘altra caratteristica del metodo di

Marx è di studiare il capitalismo distinguendone gli

elementi di fondo ed astraendo da quelli secondari, al fine

di metterne in luce le caratteristiche strutturali e le

tendenze di sviluppo, per poi formulare, su di esso, alcune

previsioni.

Merce, lavoro, plusvalore

Secondo Marx, la caratteristica specifica del modo

capitalistico di produzione, rispetto alle società precedenti,

è di essere produzione generalizzata di merci. Innanzitutto,

una merce deve possedere un valore d‘uso, in quanto deve

poter servire a qualcosa, ossia essere utile, poiché nessuno

acquista qualcosa che non venga incontro a determinati

bisogni, sia che questi ‗provengano dallo stomaco o dalla

fantasia‘. In secondo luogo, una merce, per essere

veramente tale, deve possedere un valore di scambio, che

ne garantisca la possibilità di essere scambiata con altre

merci. Il valore di scambio di una merce discende dalla

quantità di lavoro socialmente necessaria per produrla. Più

lavoro è necessario per produrre una determinata merce e

più essa vale. Secondo Marx il valore non si identifica con

il prezzo, perché su quest‘ultimo influiscono altri fattori,

per esempio l‘abbondanza o la scarsezza di una merce.

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Secondo Marx la caratteristica peculiare del capitalismo è

il fatto che in esso la produzione non risulta finalizzata al

consumo, bensì all‘accumulazione di denaro. Di

conseguenza, il ciclo capitalistico non è quello semplice,

prevalente nelle società pre-borghesi e descrivibile con la

formula schematica M.D.M. (merce-denaro-merce), che

descrive il processo per cui una certa quantità di merce

viene trasformata in denaro ed una certa quantità di denaro

viene ri-trasformata in merce (ad esempio il contadino che

vende del grano per comperarsi un vestito). Il ciclo

capitalistico è piuttosto quello descrivibile con la formula

schematica D.M.D‘ (denaro- merce-più denaro). Infatti

nella società borghese abbiamo un soggetto (= il

capitalista) che investe del denaro in una merce, per

ottenere, alla fine, più denaro. Da dove deriva questo plus-

valore? Marx ritiene che l‘origine del plus-valore non

debba essere cercata a livello di scambio delle merci, bensì

a livello della produzione capitalistica delle medesime.

Nel sistema capitalistico il capitalista compera una ―merce

particolare‖, l‘operaio, che ha come caratteristica quella di

produrre valore. Infatti il capitalista compera la sua forza-

lavoro, pagandola come una qualsiasi merce, ovvero

secondo un valore corrispondente a quello dei mezzi che

gli sono necessari per vivere, ossia al salario. Tuttavia

l‘operaio, ed è questa la fonte del plusvalore, produce un

valore maggiore di quello che gli è corrisposto col salario.

Il plus-valore discende quindi dal plus-lavoro dell‘operaio,

e si identifica con l‘insieme del valore da lui gratuitamente

offerto al capitalista. Con questa teoria Marx ha voluto

fornire una spiegazione scientifica dello sfruttamento

capitalista, che si identifica quindi con la possibilità, da

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parte dell‘imprenditore, di utilizzare la forza lavoro altrui

a proprio vantaggio. Ciò avviene in quanto il capitalista

dispone dei mezzi di produzione, mentre il lavoratore

dispone unicamente della propria energia lavorativa ed è

costretto, per vivere, a ‗vendersi‘ sul mercato, in vista del

salario. Dal plus-valore deriva il profitto. Plus-valore e

profitto, per Marx, non sono tuttavia la medesima cosa,

come talora impropriamente si afferma, in quanto il

profitto, pur presupponendo il plus-valore, non coincide

totalmente con esso.

Contraddizioni del capitalismo

Poiché il capitalismo si regge sul ciclo D.M.D‘., il suo fine

strutturale immanente è la maggior quantità possibile di

plus-valore. Ciò fa sì che il capitalismo insegua tutte le vie

possibili per raggiungere tale scopo, caratterizzandosi

come un tipo di società retto dalla logica del profitto

privato, anziché dalla logica dell‘interesse collettivo.

Delineando un‘analisi del capitalismo a sfondo tragico,

Marx descrive le varie strade imboccate da esso in vista

del proprio auto-accrescimento, mostrando come tale

sistema generi una serie di contraddizioni e difficoltà, che

ne minano la sopravvivenza, preparandone la morte futura.

Analizziamo alcune tappe significative cli questo

processo. In un primo momento il capitale cerca di

accrescere il plus-valore aumentando la giornata lavorativa

(poniamo sino a quindici ore). Ma questa dilatazione

d‘orario, pur generando maggior plus-lavoro, e quindi

maggior plus-valore, presenta dei limiti invalicabili,

poiché oltre un certo numero di ore la forza-lavoro

dell‘operaio cessa di essere produttiva. Di conseguenza,

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più che attraverso il prolungamento della giornata

lavorativa (che Marx chiama plus-valore assoluto), il

capitalismo punta alla riduzione della parte di giornata

lavorativa necessaria ad integrare il salario (che Marx

chiama plus-valore relativo). Infatti se l‘operaio, anziché

impiegare sei ore per guadagnare il proprio salario ne

impiega quattro, risulta evidente che il plus-valore

intascato dal capitalista è più grande. Ovviamente, tutto

ciò si può ottenere solo mediante una maggior produttività

del lavoro. Da ciò discende la necessità strutturale, per il

capitalismo, di introdurre in continuazione nuovi e più

efficienti metodi e strumenti di lavoro. Storicamente

questo processo di produzione del plus-valore relativo

passa attraverso tre fasi successive: a) la cooperazione

semplice; b) la manifattura c) la grande industria. La

grande svolta del modo capitalistico di produzione è la

nascita dell‘industria meccanizzata, che introduce, nel

ciclo lavorativo, la macchina, capace di aumentare

enormemente la quantità di merce prodotta nello stesso

tempo con lo stesso numero di operai, e quindi di erogare

maggior plus-valore relativo. Le macchine permettono

anche un maggiore plus-valore assoluto, allungando la

giornata lavorativa. Ma proprio l‘aumento di produttività

conseguito con l‘uso delle macchine genera, accanto alla

conflittualità operaia, il fenomeno delle crisi cicliche di

sovrapproduzione proprie del capitalismo. Mentre nei

secoli precedenti le crisi erano generate dalla scarsità di

beni, nel capitalismo, paradossalmente, sono provocate da

una sovrabbondanza di merci. Questo è dovuto al fatto che

il capitalismo (ai tempi in cui Marx scrive) risulta

caratterizzato dal fenomeno dell‘anarchia della

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produzione, la quale fa sì che i capitalisti si precipitino alla

cieca nei settori dove il profitto è più alto. Tutto ciò genera

la crisi, che ha come effetti concomitanti sia la distruzione

capitalistica dei beni (spesso proprio quelli di cui

avrebbero più bisogno le classi povere: caffè, ecc.) sia la

disoccupazione, che va ad accrescere il cosiddetto esercito

industriale di riserva. La necessità, per il capitalismo, di un

continuo rinnovamento tecnologico, genera anche un altro

inconveniente strutturale: la caduta tendenziale del saggio

di profitto. Con questa espressione Marx intende quella

legge per cui, accrescendosi smisuratamente il capitale

costante (costituito dalle macchine e dalle materie prime)

rispetto al capitale variabile, ossia aumentando ciò che egli

denomina la composizione organica del capitale‘,

diminuisce per forza il saggio di profitto. Per comprendere

adeguatamente questa legge, cui Marx attribuisce una

grande importanza, bisogna tener presente che: 1) il plus-

valore non è generato dalle macchine di per sé, ma dal

lavoro vivo, che viene pagato con il capitale variabile; 2) il

saggio di plus-valore è dato dal rapporto fra il plusvalore

stesso e il capitale variabile; 3) il saggio di profitto è dato

dal rapporto fra il plusvalore da un lato e il capitale

costante ed il capitale variabile dall‘altro. Ora, se v

(capitale variabile) resta stabile, resta stabile anche p (= il

plus-valore); ma se nel frattempo c (= capitale costante) è

accresciuto, risulta ovvio che il saggio di profitto è

diminuito. La legge della caduta tendenziale del saggio di

profitto equivale quindi ad una legge dei rendimenti

decrescenti, demotivante ‘ rispetto agli investimenti

capitalistici. Sebbene Marx abbia elencato talune cause

antagonistiche che possono attenuare o rallentare

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l‘efficacia della legge in questione, come ad esempio

l‘acquisto di materie prime all‘estero, ad un prezzo minore

di quello richiesto in patria, con la conseguente

diminuzione del capitale costante, egli ha considerato la

legge della caduta tendenziale del saggio di profitto come

il vero tallone d‘Achille‖ del sistema capitalistico, legge

che, dal suo punto di vista, può essere eventualmente

ritardata nei suoi effetti, ma non distrutta nei suoi esiti

catastrofici per la società borghese. Marx ha una visione

sostanzialmente dualistica della società di classe, in quanto

ritiene che in ogni momento della storia le classi

fondamentali siano due. Questa dottrina, portata ad

attribuire minore importanza alle classi medie, riflette

compiutamente, a giudizio di Marx, la situazione stessa

del capitalismo industriale avanzato, nel quale. in seguito

al fenomeno della concorrenza e delle crisi, da un lato

abbiamo una progressiva espropriazione di molti

capitalisti da parte di pochi‖. avente come effetto ―la

diminuzione costante dei magnati del capitale, e dall‘altro

abbiamo una massa sempre più grande di salariati,

occupati e disoccupati. In altre parole. Marx tende a

prospettare la situazione finale del capitalismo in termini

dualistico—dialettici: da un lato una minoranza

industriale, dall‘altro una maggioranza proletaria sfruttata.

La rivoluzione e la dittatura del proletariato

Le contraddizioni della società borghese rappresentano la

base oggettiva della rivoluzione del proletariato, il quale,

impadronendosi del potere politico, dà avvio alla

trasformazione globale della vecchia società. attuando il

passaggio dal capitalismo al comunismo. Di conseguenza,

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316

il proletariato, nella prospettiva di Marx. appare investito

di una specifica missione storica. La rivoluzione

comunista non abolisce soltanto un tipo particolare di

proprietà, di divisione del lavoro e di dominio di classe,

ma cancella ogni forma di proprietà, di divisione del

lavoro e di classe, dando origine ad un‘epoca nuova nella

storia del mondo. Lo strumento tecnico della

trasformazione rivoluzionaria è la socializzazione dei

mezzi di produzione e di scambio. Nella Critica del

programma di Gotha, Marx scrive che tra la società

capitalistica e la società comunista vi è un periodo politico

di transizione, il cui Stato non può essere altro che la

dittatura rivoluzionaria del proletariato. Anche la nozione

di dittatura del proletariato discende coerentemente da

tutto l‘impianto concettuale del marxismo e dalla sua

filosofia dello Stato. Infatti se quest‘ultimo, nel

capitalismo, esprime il ―dispotismo‖ di classe della

borghesia, ne consegue che il proletariato, se vuole

davvero costruire il comunismo, non può fare a meno di

instaurare una sua dittatura che, a differenza delle altre

dittature storicamente esistite, che sono sempre state

dittature di una minoranza di oppressori su di una

maggioranza di oppressi, appare invece come una dittatura

della maggioranza degli oppressi su di una minoranza di

(ex-)oppressori, destinata a scomparire. La dittatura del

proletariato si configura dunque, per Marx, come la misura

politica fondamentale per la transizione dal capitalismo al

comunismo. Secondo Marx la dittatura del proletariato è

solo una misura storica di transizione (sia pure a lungo

termine), che mira tuttavia al superamento di se medesima

e di ogni forma di Stato.

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317

Le fasi della futura società comunista

Marx distingue fra un comunismo rozzo ed un comunismo

superiore. Nel primo tipo di comunismo la proprietà

privata è soltanto trasformata in proprietà di tutti. In

questo stadio immaturo di comunismo, la proprietà,

anziché venir totalmente soppressa, viene dunque

universalizzata o nazionalizzata. Il comunismo, inteso

come effettiva soppressione della proprietà privata, appare

come quella situazione in cui l‘uomo, superato

completamente l‘orizzonte dell‘avere, cessa di intrattenere

con il mondo rapporti di puro possesso e consumo. Nella

Critica del programma di Gotha, Marx spostando l‘analisi

sul piano socio-politico, distingue invece due fasi della

società futura. Nella prima fase si ha la socializzazione dei

mezzi di produzione e di scambio e quindi la società stessa

è l‘unico datore di lavoro e tutti sono salariati. In essa ogni

produttore riceve una quantità di beni equivalente al

lavoro prestato. Il principio di uguaglianza che regge

questo stadio comunista consiste dunque nel misurare con

una misura eguale il lavoro erogato. Tuttavia, questo

‗uguale diritto‘ si rivela ancora di tipo borghese, in quanto

non tiene conto delle differenze individuali. L‘uguaglianza

ancora imperfetta di questa prima fase della società

comunista richiede una ―superiore‖ forma di uguaglianza e

di comunismo, che tenga conto dei bisogni e non solo

delle capacità degli individui. Ognuno secondo le sue

capacità e a ognuno secondo i suoi bisogni.

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318

CAPITOLO 17

Il Positivismo

Il Positivismo è una corrente filosofica che si sviluppa

nella seconda metà del XIX secolo, caratterizzata da

un'esaltazione della scienza, considerata l'unica fonte

legittima della conoscenza. Questo movimento di

pensiero, che nasce in Francia e si estende poi a livello

europeo e mondiale, trae il suo nome dalla esaltazione

della positività della scienza e dalla concretezza e

oggettività dei fatti da essa studiati, in contrapposizione

alle astrattezze e alle fantasticherie delle religioni e delle

concezioni metafisiche in genere. Da questo punto di vista,

tale movimento filosofico appare strettamente legato ai

notevoli successi ottenuti dalle scienze esatte nei diversi

campi di applicazione (chimica, meccanica, elettrologia,

ottica e biologia). Nello stesso tempo non va sottovalutata

l'influenza del processo di organizzazione scientifica e

tecnica della società, dei sistemi di produzione, sulla

maturazione delle nuove idee, le quali daranno, a loro

volta, un impulso notevole a tale processo. Pur

comprendendo pensatori che si diversificano tra loro sia

per formazione intellettuale, che per temi affrontati e

soluzioni specifiche, il positivismo può essere sintetizzato

nei seguenti aspetti distintivi: La scienza è la sola forma di

conoscenza possibile e il metodo della scienza è l'unico

valido: pertanto il ricorso a cause o principi che non siano

riconducibili al metodo della scienza non fa progredire il

cammino della conoscenza, ma va considerato una

pericolosa ricaduta nella metafisica. Il metodo della

scienza, essendo l'unico valido, va esteso a tutti i campi

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d'indagine, compresi quelli che riguardano l'uomo e i

fenomeni sociali. Il progresso della scienza rappresenta la

base del progresso umano e lo strumento per una

riorganizzazione complessiva della vita sociale, capace di

trovare adeguate soluzioni ai numerosi problemi di ordine

politico e sociale posti dalla Restaurazione e dalla

rivoluzione industriale. La filosofia, non avendo oggetti

suoi propri, o campi privilegiati di indagine sottratti alla

scienza, tende a coincidere con la totalità del sapere

positivo o, più in particolare, con l'enunciazione dei

principi comuni alle varie scienze. La funzione peculiare

della filosofia consiste quindi nel riunire e nel coordinare i

risultati delle singole scienze, in modo da realizzare una

conoscenza unificata e generale. In ciò, il positivismo si

contrappone alla convinzione, tipicamente romantica, che

la filosofia debba essere separata dalla scienza in quanto

disciplina contraddistinta da problemi e metodi del tutto

diversi.

RAPPORTI CON L'ILLUMINISMO

Per certi aspetti, il positivismo è una ripresa

dell‘illuminismo all'interno di una nuova situazione

storico-sociale, caratterizzata dalla rivoluzione industriale

e dallo sviluppo della scienza e della tecnica. I principali

elementi di affinità tra positivismo e illuminismo, possono

essere riassunti nei seguenti tre punti: 1) fiducia nella

ragione e nel sapere, concepiti come strumenti di

progresso al servizio dell'uomo e del miglioramento

sociale; 2) esaltazione della scienza a scapito della

metafisica e di ogni altro tipo di sapere non verificabile; 3)

visione tendenzialmente laica ed immanentistica della vita.

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D'altro canto, positivismo e illuminismo presentano anche

alcune differenze di rilievo: 1) Sebbene i bersagli polemici

del positivismo siano in parte identici a quelli

dell'illuminismo (cioè la tradizione metafisica e religiosa,

come pure il parassitismo dell'aristocrazia agraria,

considerato un ostacolo al progresso), gli atteggiamenti

politici sono differenti. Mentre l'illuminismo si configura

come riformismo di carattere rivoluzionario (posto in atto

dalla Rivoluzione francese), il positivismo si presente

come un riformismo anti-rivoluzionario, che pur lottando

contro la vecchia tradizione politica e culturale, è

fondamentalmente contrario alle nuove forme

rivoluzionarie rappresentate dal proletariato e dalle

dottrine socialiste. 2) Diversità del modo di rapportarsi

alla scienza e alla filosofia: rispetto alla prima, gli

illuministi vedono nel sapere sperimentale un mezzo per

dissolvere le antiche credenze della metafisica e della

religione, mentre nei positivisti, il richiamo alla scienza

tende a una riedificazione di certezze assolute,

esplicitamente presentate come la forma "moderna" e

"positiva" delle antiche religioni e metafisiche. Riguardo

alla filosofia, mentre gli illuministi sono interessati

soprattutto a una fondazione gnoseologica e critica della

scienza (che sfocerà nella concezione di Kant), i

positivisti, dando per scontata la validità del pensiero

scientifico, ritengono che il compito della filosofia sia

quello di ordinare e di unificare le diverse scienze. Il

positivismo, colto nel suo nucleo storico-filosofico più

decisivo, presenta anche caratteristiche che lo accomunano

al romanticismo. La più importante di tali caratteristiche è

l'idealizzazione della scienza, che si traduce in una

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esaltazione del sapere positivo, assunto a unica verità ed

unica guida della vita umana, in tutti i campi. Come i

romantici e gli idealisti tendevano a caricare la poesia o la

filosofia di significati assoluti, così i positivisti tendono ad

attribuire alla scienza una portata assoluta, con

atteggiamenti analoghi alla fede religiosa.

In Francia, il maggiore rappresentante del positivismo fu

Auguste Comte. Successivamente il positivismo si diffuse

anche in Inghilterra, soprattutto per merito di John Stuart

Mill, impegnato a sottrarre la scienza morale alle sue

incertezze per stabilire invece per essa un insieme di

regole ben definite. Di non minor statura fu lo scienziato

naturalista Charles Darwin, ma una certa importanza ebbe

anche Herbert Spencer. In Italia seguaci del positivismo

furono Carlo Cattaneo e Roberto Ardigò.

Auguste Comte (1798-1857)

La legge dei tre stadi e la classificazione delle scienze

Comte elabora la legge dei tre stadi, che dichiara di aver

ricavato da considerazioni storiche oltre che

dall‘osservazione dello sviluppo organico dell‘uomo,

ciascuna branca della conoscenza umana passa

successivamente per tre stadi teorici differenti: lo stadio

teologico o fittizio, lo stadio metafisico od astratto, lo

stadio scientifico o positivo. Il primo è il punto di partenza

necessario dell‘intelligenza umana; il terzo il suo stadio

fisso e definitivo; il secondo è unicamente destinato a

servire di transizione. Nello stadio teologico, lo spirito

umano, dirigendo essenzialmente le sue ricerche verso la

natura intima degli esseri e le cause prime e finali, cioè

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322

verso le conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni

come prodotti dall‘azione diretta e continua di agenti

soprannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento

arbitrario spiega tutte le anomalie appartenenti

dell‘universo. Nello stadio metafisico, che è solo una

modificazione del primo, gli agenti soprannaturali sono

sostituiti da forze astratte (si pensi ad es. alle essenze)

inerenti ai diversi enti del mondo e concepite capaci di

generare da sé tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione

consisterebbe quindi nell‘assegnare a ciascuno l‘entità

corrispondente, Infine, nello stadio positivo, lo spirito

umano, riconoscendo l‘impossibilità di raggiungere

nozioni assolute, rinuncia a cercare l‘origine e il destino

dell‘universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni e

si applica unicamente a scoprire, mediante l‘uso ben

combinato del ragionamento e dell‘osservazione, le loro

leggi effettive: cioè le loro relazioni invariabili di

successione e di somiglianza. Comte (che parla del

Medioevo come di un‘età teologica e del mondo moderno

sino alla Rivoluzione francese come di un‘età metafisica o

di crisi) fa corrispondere, ad ogni stadio, una specifica

organizzazione politica e sociale (monarchia teocratica e

militare; sovranità popolare; organizzazione scientifica

della società industriale). Questa legge dei tre stadi sembra

a Comte immediatamente evidente di per se stessa. Essa

inoltre è appoggiata dall‘esperienza personale. Chi di noi

non ricorda, contemplando la sua propria storia, che è

stato successivamente, rispetto alle nozioni più importanti,

teologo nella sua infanzia, metafisico nella sua giovinezza

e fisico nella sua virilità?‘. Ora, sebbene varie branche

della conoscenza umana siano entrate nella fase positiva,

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la totalità della cultura intellettuale umana, e quindi

dell‘organizzazione sociale che su di essa si fonda, non

sono state ancora permeate dallo spirito positivo. In primo

luogo, Comte nota che accanto alla fisica celeste, alla

fisica terrestre, meccanica e chimica, e alla fisica organica,

vegetale e animale, manca una fisica sociale, cioè lo studio

positivo dei fenomeni sociali. In secondo luogo. la

mancata penetrazione dello spirito positivo nella totalità

della cultura intellettuale produce uno stadio di anarchia

intellettuale e quindi la crisi politica e morale della società

contemporanea. È evidente che se una delle tre filosofie

possibili, la teologia, la metafisica e la positiva, ottenesse

in realtà una preponderanza universale completa, ci

sarebbe un ordine sociale determinato. Ma siccome le tre

filosofie opposte continuano a coesistere, ne risulta una

situazione incompatibile con un‘effettiva organizzazione

sociale. Comte si propone perciò il compito di portare a

termine l‘opera iniziata da Bacone, Cartesio e Galilei e di

costruire il sistema delle idee generali che deve

definitivamente prevalere nella specie umana, ponendo

termine così alla crisi rivoluzionaria che tormenta i popoli

civilizzati. Tale sistema di idee generali o filosofia

positiva presuppone però che sia determinato il compito

particolare di ciascuna scienza e l‘ordine complessivo di

tutte le scienze: presuppone un‘enciclopedia delle scienze

che muovendo da una classificazione sistematica fornisca

il prospetto generale di tutte le conoscenze scientifiche.

Comte comincia con l‘escludere dalla sua considerazione

le conoscenze applicate della tecnica e delle arti,

limitandosi alle conoscenze speculative; e anche di queste

considera solo quelle generali ed astratte, escludendo

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quelle particolari e concrete. Posto ciò, egli cerca di

determinare una scala enciclopedica delle scienze che

corrisponda alla storia delle scienze stesse. Le scienze si

possono classificare considerando in primo luogo il loro

grado di semplicità o, ciò che è lo stesso, il grado di

generalità dei fenomeni che costituiscono il loro oggetto. I

fenomeni più semplici sono infatti anche i più generali; ed

i fenomeni semplici e generali sono anche quelli più

facilmente osservabili. Perciò, graduando le scienze

secondo l‘ordine della complessità crescente e della

semplicità decrescente, si viene a riprodurre, nella

gerarchia così formata, l‘ordine di successione con cui le

scienze sono entrate nella fase positiva. Seguendo questo

criterio si possono in primo luogo distinguere i fenomeni

dei corpi bruti e i fenomeni dei corpi organizzati come

oggetti di due gruppi principali di scienze. I fenomeni dei

corpi organizzati sono evidentemente più complicati e più

particolari degli altri; dipendono dai precedenti che a loro

volta non ne dipendono. Di qui la necessità di studiare i

fenomeni fisiologici dopo quelli dei corpi inorganici. La

fisica si trova dunque divisa in fisica organica e fisica

inorganica. A sua volta la fisica inorganica, secondo lo

stesso criterio della semplicità e della generalità, sarà

dapprima fisica celeste (o astronomia sia geometrica, sia

meccanica) e poi fisica terrestre che a sua volta sarà fisica

propriamente detta e chimica. Una divisione analoga sarà

fatta per la fisica organica. Tutti gli esseri viventi

presentano due ordini di fenomeni distinti, quelli relativi

all‘individuo e quelli relativi alla specie: ci sarà dunque

una fisica organica o fisiologica e una fisica sociale che è

fondata su di essa. L‘enciclopedia delle scienze sarà

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dunque costituita da cinque scienze fondamentali:

astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. L‘ordine

logico delle scienze coincide con l‘ordine storico del loro

sviluppo e con l‘ordine pedagogico del loro

apprendimento. Di questa gerarchia non fanno parte, come

si vede, né la matematica, né la logica, né la psicologia. La

matematica è stata esclusa non perché non sia una scienza,

ma perché costituisce la base di tutte le altre scienze.

L‘enciclopedia può venir articolata secondo l‘ordine

seguente: 1) matematica: 2) astronomia; 3) fisica; 4)

chimica; 5) biologia: 6) sociologia. La logica è stata

esclusa poiché Comte ritiene che essa si identifichi con il

metodo concreto impiegato da ogni specifica branca del

sapere. Infine, la psicologia deve la sua esclusione

dall‘enciclopedia al fatto che non è una scienza e non è

suscettibile di diventarlo. La cosiddetta osservazione

interiore che si è destinata allo studio dei fenomeni

intellettuali è impossibile. I fenomeni intellettuali non

possono essere osservati nell‘atto stesso in cui si

verificano. L‘individuo pensante non può dividersi in due,

di cui l‘uno ragioni, mentre l‘altro lo guardi ragionare.

L‘organo osservato e l‘organo osservatore essendo in

questo caso identici, come potrebbe l‘osservazione aver

luogo? Ciò che vi è di scientifico nella psicologia, da un

lato è riconducibile all‘esame fisiologico del cervello (cioè

alla biologia) e dall‘altro all‘esame del suo

comportamento sociale (cioè alla sociologia).

La sociologia

La scienza alla quale tutte le scienze sono subordinate è la

sociologia. Compito di questa scienza è quello di percepire

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nettamente il sistema generale delle operazioni successive,

filosofiche e politiche, che devono liberare la società dalla

sua fatale tendenza alla dissoluzione imminente e condurla

direttamente ad una nuova organizzazione, più progressiva

e più salda di quella che riposava sulla filosofia teologica‘.

A questo scopo la sociologia deve costituirsi nella stessa

forma delle altre discipline positive e concepire i fenomeni

sociali come soggetti a leggi naturali che ne rendano

possibile la previsione sia pure nei limiti compatibili con

la loro complessità superiore. La sociologia, o fisica

sociale, è divisa da Comte in statica, che studia l‘ordine

che unisce le varie parti del sistema sociale, e in dinamica

che studia i fattori di cambiamento e di progresso. Poiché

il perfezionamento effettivo risulta soprattutto dallo

sviluppo spontaneo dell‘umanità, come potrebbe esso non

essere essenzialmente, a ciascun‘epoca, ciò che poteva

essere secondo l‘insieme della situazione?‖. Comte

afferma che senza questa compiutezza di ciascun‘epoca

della storia in se stessa, la storia sarebbe incomprensibile.

E non esita neppure a ripristinare nella storia il concetto di

causa finale. Gli eventi della storia sono necessari nel

duplice significato del termine: nel senso che in essa è

inevitabile ciò che si manifesta dapprima come

indispensabile, e reciprocamente.

Lo scopo dell‘indagine scientifica è la formulazione delle

leggi perché la legge permette la previsione: e la

previsione dirige e guida l‘azione dell‘uomo sulla natura.

―Scienza, previsione, azione tale è la formula

semplicissima che esprime in modo esatto la relazione

generale tra la scienza e l‘arte, prendendo questi due

termini nella loro accezione totale‖. L‘osservazione dei

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327

fatti e la formulazione di leggi esauriscono il compito

della scienza. L‘opera di Comte risulta esplicitamente

diretta a favorire l‘avvento di una società nuova che egli

chiamò sociocrazia. cioè un regime fondato sulla

sociologia, corrispondente alla teocrazia fondata sulla

teologia.

La religione della scienza

Il Sistema di politica positiva è diretto esplicitamente a

trasformare la filosofia positiva in una religione positiva.

Esso tende cioè a fondare l‘unità dogmatica, culturale e

pratica dell‘umanità. Il concetto fondamentale è quello

dell‘Umanità, che deve prendere il posto di quello di Dio.

L‘Umanità è il Grande Essere come l‘insieme degli esseri

passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a

perfezionare l‘ordine universale. Il concetto dell‘umanità

non è un concetto biologico (per quanto sia anche

biologico), ma un concetto storico, fondato

sull‘identificazione romantica di tradizione e storicità.

Comte delinea, con minuziosi particolari, anche il culto

positivistico dell‘umanità. Stabilisce un calendario

positivista in cui i mesi e i giorni sono dedicati alle

maggiori figure della religione, dell‘arte, della politica e

della scienza. Propone perfino un nuovo segno, che

dovrebbe sostituire il segno della croce dei cristiani.

Il positivismo evoluzionistico

L‘altro indirizzo del Positivismo è quello evoluzionistico.

Questo indirizzo consiste nell‘assumere il concetto

d‘evoluzione come il fondamento di una teoria generale

della realtà naturale e nello scorgere nell‘evoluzione stessa

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la manifestazione di una realtà, soprannaturale o

metafisica, infinita ed ignota. Il punto di partenza di

questo indirizzo, cioè il concetto di evoluzione, è desunto

dalla dottrina del trasformismo biologico, quale è stata

elaborata da Lamarck e Darwin. Se il principio romantico

dell‘infinito che si rivela o realizza nel finito è la categoria

tacitamente presupposta dalla filosofia positivistica

dell‘evoluzione, la teoria biologica della trasformazione

della specie è il suo punto di partenza di fatto.

Charles Darwin (1809 - 1882)

Dopo un viaggio per mare durato cinque anni. si dedicò a

raccogliere e a riordinare il materiale per la sua grande

opera L’origine della specie. Il merito di Darwin consiste

nell‘aver dato una compiuta e sistematica teoria scientifica

del trasformismo biologico fondandola su un numero

enorme di osservazioni. La teoria di Darwin si fonda su

due ordini di fatti: 1° l‘esistenza di piccole variazioni

organiche che si verificano negli esseri viventi lungo il

corso del tempo e sotto l‘influenza delle condizioni

ambientali, variazioni che sono vantaggiose agli individui

che le presentano: 2° la lotta per‘ la vita che si verifica

necessariamente tra gli individui viventi per la tendenza di

ogni specie a moltiplicarsi secondo una progressione

geometrica. Quest‘ultimo presupposto è desunto dalla

dottrina di Malthus. L‘accumularsi delle piccole variazioni

e la loro conservazione per mezzo producono la variazione

degli organismi animali che, nei suoi termini estremi, è il

passaggio da una specie ad un‘altra. Ciò che l‘uomo fa per

le piante e gli animali domestici producendo gradualmente

le varietà di essi che sono più utili ai suoi bisogni, la

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natura può ben farlo su scala immensamente più vasta.

Dalla teoria segue che, tra le varie specie, han dovuto

esistere innumerevoli varietà intermedie che collegano

strettamente tutte le specie di uno stesso gruppo: ma la

selezione naturale ha sterminato queste forme intermedie

di cui tuttavia si possono trovare le tracce nei residui

fossili. Darwin crede di aver stabilito l‘inevitabile

progresso biologico allo stesso modo che il romanticismo

idealistico e socialistico credeva all‘inevitabile progresso

spirituale. L‘altra opera fondamentale di Darwin, La

discendenza dell‘uomo, tende in primo luogo a stabilire

che non esiste alcuna differenza fondamentale fra l‘uomo

e i mammiferi più elevati per ciò che riguarda le loro

facoltà mentali‘, La sola differenza tra l‘intelligenza e il

linguaggio dell‘uomo e quelli degli altri animali è una

differenza di grado che si spiega con la legge della

selezione naturale ed anche, in parte, con la scelta sessuale

alla quale Darwin attribuisce, per l‘evoluzione dell‘uomo,

importanza assai maggiore che per l‘evoluzione degli

animali. Darwin non crede che il riconoscimento della

discendenza dell‘uomo da organismi inferiori diminuisca

in qualche modo la dignità umana. Chi, egli dice, abbia

veduto un selvaggio nella sua terra nativa non sentirà

molta vergogna se sarò obbligato a riconoscere che il

sangue di qualche creatura più umile gli scorre nelle vene.

In quanto a me, vorrei tanto essere disceso da quell‘eroica

scimmietta che affrontò il suo terribile nemico per salvare

la vita al suo custode o da quel vecchio babbuino che

sceso dal monte strappò trionfante il suo giovane

compagno a una muta attonita di cani, quanto da un

selvaggio che si compiace di torturare i suoi nemici, offre

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sacrifici di sangue, pratica l‘infanticidio senza rimorsi,

tratta le sue mogli come schiave, non conosce che cosa sia

la decenza ed è dominato da grossolane superstizioni‖.

Herbert Spencer ( 1820 – 1903 )

Spencer è il più importante rappresentante del positivismo

evoluzionistico sviluppando la teoria darwiniana sulla

totalità del reale, per Spencer secondo un processo

graduale avviene un‘evoluzione pre-organica, organica e

superorganica, si tratta quindi di un meccanismo

biologico. Le opere più importanti di Spencer sono: ―

Statica sociale ―, ― Principi di psicologia ―, ― Principi

primi ―.

Spencer a differenza di una certa corrente del positivismo

ammette la conciliabilità della scienza e della religione, in

quanto la scienza si deve occupare dell‘ ambito del

conoscibile, la religione dell‘inconoscibile. Si tratta di una

divisione fondamentale, la scienza offre una spiegazione

sul piano fenomenico, del ―come―, la religione da un lato

evidenzia i limiti della conoscenza umana, dall‘ altro svela

il mistero profondo della realtà. La religione di cui parla

Spencer è una teologia negativa; non definisce

l‘inconoscibile ma si limita attraverso un processo

negativo a dire cosa dietro la conoscenza scientifica non

stia. Scienza e religione hanno ambiti diversi: non

possiamo conoscere la realtà così come essa è al di là del

suo manifestarsi fenomenico, lo scienziato quindi può solo

indagare il conoscibile, lasciando ad una religione

negativa l‘ analisi sull‘Inconoscibile. La filosofia diviene

la scienza più importante, ma perde una sua autonomia

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concettuale; la sua funzione è quella di esplicare le leggi

generali ed universali della realtà nel processo evolutivo,

leggi generali da cui dipendono quelle delle singole

scienze, che arrivano ad intuizioni frammentarie. Le

scienze analizzano aspetti particolari della realtà, aspetti

che una volta analizzati vanno coordinati in una visione d‘

insieme, tale compito deve essere svolto dalla filosofia,

che assurge ad un ruolo di sintesi. Tre sono i principi a cui

pervengono le scienze: a) Indistruttibilità della materia, b)

continuità del movimento, c) persistenza della forza. Tali

principi vengono rielaborati magistralmente dalla filosofia,

che costruisce un unico principio evoluzionistico, fondato

su un processo triadico: a) passaggio dall‘ incoerente al

coerente ( progressiva concentrazione), b) passaggio dall‘

omogeneo all‘ eterogeneo, dall‘ uniforme al multiforme

(progressiva differenziazione), c) passaggio dall‘

indefinito al definito (progressiva determinazione ). La

legge dell‘ evoluzionismo regola l‘ intera realtà dal mondo

inorganico fino al mondo superorganico, dal Sistema

Solare al mondo umano; Spencer formulando tale teoria

non si accorge che sussiste una differenza evidente tra il

mondo inorganico e quello umano, in quest‘ ultimo

intervengono fattori come la cultura e la coscienza intesa

come consapevolezza del proprio sviluppo. Spencer dirà

nei Principi primi che l‘ evoluzione è una integrazione di

materia accompagnata da dispersione di moto, durante la

quale la materia passa da un‘omogeneità incoerente,

indefinita, a una eterogeneità coerente, definita, mentre il

moto subisce una trasformazione parallela.

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CAPITOLO 18

Friedrich NIETZSCHE

Opere principali: La nascita della tragedia in Grecia

(1872); Considerazioni inattuali (1876); Umano, troppo

umano (1878); Aurora (1882); La gaia scienza (1882);

Così parlò Zarathustra (1883); Aldilà del bene e del male

(1886); Sulla genealogia della morale (1887); Il caso

Wagner (1888); Il crepuscolo degli idoli (1888);

L'Anticristo (1888); Ecce homo (1888).

Il pensiero di Nietzsche è complesso e non sempre di

facile lettura. L'uso di metafore, simboli e aforismi rende

possibile una molteplicità di interpretazioni e di punti di

vista sull‘opera del filosofo tedesco e costituisce altresì il

segno della fecondità intellettuale del suo pensiero che,

ancora oggi, stimola la riflessione sull‘esistenza, i valori e

la verità. Paul Ricoeur ha annoverato Nietzsche (insieme a

Marx e a Freud) tra i ―filosofi del sospetto‖, poiché ha

ingenerato il dubbio nelle certezze condivise della

maggior parte degli uomini.

LA SCRITTURA

Nei primi scritti , "La nascita della tragedia" e le

"Considerazioni inattuali", Nietzsche é ancora legato alla

forma accademica del saggio, ma, al tempo stesso, egli già

cerca di evitare il tono impersonale e distaccato di questa

forma letteraria, rivolgendosi direttamente ai suoi lettori.

"In tutte le opere che ho scritto, io ho messo dentro anima

e corpo:non so che cosa siano problemi puramente

intellettuali". A partire da "Umano, troppo umano" prende

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corpo la forma dell' aforisma, ossia della definizione

breve: "L'aforisma, la sentenza, sono le forme dell'eternità;

la mia ambizione è dire in dieci frasi quello che chiunque

altro dice in un libro, quello che chiunque altro non dice in

un libro." L'aforisma é paragonato da Nietzsche alle figure

in rilievo, che, essendo incomplete, richiedono

all'osservatore di completare "col pensiero ciò che si

staglia davanti". un libro composto di aforismi richiede,

dunque, un tipo diverso di lettura: una lettura discontinua,

per lascia tempo alla riflessione e all'interpretazione, ad

una pratica che i moderni hanno disimparato e che

Nietzsche chiama ruminare. Con "Così parlò Zarathustra"

il modello stilistico é fornito dalla scrittura in versetti,

propria dei Vangeli, una sorta di poesia in prosa, più

conforme al tono rivelativo, intriso di simboli, e alieno da

sviluppi troppo argomentativi. Esso si adatta

maggiormente al senso della propria missione, che segna

l'inizio di una nuova epoca storica, dopo il tramonto del

cristianesimo, e della morale occidentale. Uno stile che

scava, scalza di sottoterra i pregiudizi e i valori dominanti

nel proprio tempo. "I miei scritti sono stati chiamati una

scuola di sospetto e ancor più di disprezzo; per fortuna

però anche di coraggio, anzi di temerarietà".

FASI

L‘opera di Nietzsche viene convenzionalmente suddivisa

in alcune fasi, che non vanno intese alla stregua di

scansioni rigide, ma come tappe transitorie di un pensiero

in divenire.

a) Gli scritti giovanili del periodo wagneriano-

schopenhaueriano (1872-1876), che come, prendono La

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nascita della tragedia (1872), le quattro Considerazioni

inattuali (1873-1876)

b) Gli scritti intermedi del periodo ―illuministico‖ o

―genealogico‖ (1878-1882), che comprendono Umano,

troppo umano (1878-1880), Aurora (1881). La gaia

scienza (1882)

c) Gli scritti del meriggio o di ―Zarathustra‖ (1883-1885),

che comprendono Così parlò la Zarathustra e frammenti

d) Gli scritti del tramonto o degli ultimi anni (1886-1889).

che comprendono Al di là del bene e del male (1886),

Genealogia della morale (1887), Il caso Wagner,

Crepuscolo degli idoli, L‗Anticristo, Ecce homo,

Nietzsche contra Wagner (tutti del 1888).

Il primo periodo: Apollineo e Dionisisaco

La prima fase del pensiero di Nietzsche è caratterizzata

dagli studi filologici e dalla passione per il mondo greco,

dall'influenza di Schopenhauer e dall'ammirazione per

l'opera di Wagner: La nascita della tragedia riunisce tali

influssi per generare una nuova visione della civiltà greca.

Il motivo centrale di La nascita della tragedia è la

distinzione fra ―apollineo‖ e dionisiaco‘. Con questa

coppia di opposti (che si concretizza in altre sotto-coppie,

come forma-caos, stasi-divenire, finito-infinito, sogno-

ebbrezza, luce-oscurità, serenità-inquietudine) Nietzsche

intende, innanzitutto, i due impulsi di base dello spirito e

dell‘arte greca. L‘apollineo (Apollo è il dio greco

dell'armonia, in esso vengono identificati la proporzione e

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la bellezza) che scaturisce da un impulso alla forma e da

un atteggiamento di fuga di fronte al divenire, si esprime

nelle forme limpide e armoniche della scultura e della

poesia epica. Il dionisiaco (Dioniso è il dio greco -il

corrispettivo greco del dio romano Bacco- che incarna

tutto ciò che vi è di istintivo, caotico e irrazionale nella

vita) che scaturisce dalla forza vitale e dalla partecipazione

al divenire, si esprime nell‘esaltazione creatrice della

musica. In contrasto con la filologia dominante e con

l‘immagine neoclassica dell‘Ellade come mondo

dell‘equilibrio (dell‘apollineo), Nietzsche insiste sul

carattere originariamente dionisiaco della grecità, portata a

scorgere ovunque il dramma della vita e della morte. La

tragedia greca univa questi due aspetti: quello apollineo,

espresso dalle arti figurative e dal logos, e quello

dionisiaco, espresso dalle musica, simbolo della vitalità. I

due momenti dello spirito si uniscono perfettamente nella

tragedia di Eschilo ma già Euripide tende a eliminare dalla

tragedia l'elemento dionisiaco, col predominio della

razionalità. Socrate comunque è il principale responsabile

della decadenza della cultura occidentale. Con Socrate si

impone l'ideale della ragione e della scienza, in contrasto

con la vita. Socrate e Platone sono "gli strumenti della

dissoluzione greca, gli pseudogreci, gli antigreci". Socrate

fu ostile alla vita, volendo dominare e soffocare l'istintività

spontanea in nome della ragione. La decadenza della

tragedia funge quindi da spia rivelatrice della decadenza

della civiltà occidentale nel suo complesso. Da

Schopenhauer Nietzsche deriva la tesi del carattere

doloroso dell‘essere, ma ne respinge la tematica

dell‘ascesi. Infatti, alla noluntas schopenhaueriana egli

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contrappone un atteggiamento di entusiastica accettazione

dell‘essere nella globalità dei suoi aspetti. La vita è dolore,

lotta, distruzione. crudeltà, incertezza, errore. Essa non ha

ordine, né scopo, il caso la domina e i valori umani non

trovano in essa garanzie precostituite. Due atteggiamenti

sono allora possibili di fronte a essa. Il primo è quello

della rinuncia e della fuga. che mette capo all‘ascetismo. E

l‘atteggiamento che Schopenhauer derivò dalla sua

diagnosi ed è l‘atteggiamento proprio della morale

cristiana e della spiritualità comune. Il secondo è quello

dell‘accettazione della vita così com‘è ed è

l‘atteggiamento che mette capo all‘esaltazione della vita e

al superamento dell‘uomo. Nietzsche vuole essere un

discepolo di Dioniso, poiché nell‘antica figura greca egli

vede il simbolo del suo ―Sì totale al mondo". Questa

esaltazione della tragedia, che si accompagna a una

concezione della civiltà come processo di decadenza

dovuto al progressivo imporsi dello spirito antitragico, di

tipo socratico-platonico, sfocia nell‘ideale di una rinascita

della cultura tragica, incentrata sull‘arte, in particolare

sulla musica. di cui Nietzsche scorge un‘incarnazione

emblematica in Wagner (a cui è dedicato il capolavoro

giovanile). Fra il 1873 e il 1876 Nietzsche scrive le quattro

Considerazioni inattuali, in cui l‘auspicata rinascita della

cultura tragica, più che in un progetto alternativo di civiltà,

si traduce in un‘opera di critica della cultura

contemporanea. Strauss, Feuerbach e Comte sono filistei.

Nietzsche combatte la saturazione di storia e l‘idolatria del

fatto (i fatti ―sono stupidi‖; solo le teorie che li

interpretano possono essere intelligenti).

Periodo illuministico. Il metodo genealogico

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Nietzsche aveva dedicato a Wagner la Nascita della

tragedia. Intanto, però, si distacca sia da Wagner che da

Schopenhauer, come testimoniato da opere quali Umano,

troppo umano , Aurora e La gaia scienza. Schopenhauer è

―null‘altro che l‘erede della tradizione cristiana‖; il suo è

―il pessimismo dei rinunciatari, dei falliti e dei vinti‖. E

Wagner non è affatto lo strumento della rigenerazione

della musica; Nietzsche ne Il caso Wagner scrive Wagner

è una malattia: ―est une névrose‖. Umano, troppo umano

segna l‘inizio di un periodo ―illuministico‖ di Nietzsche

che coincide con l‘avvento della scrittura aforistica. La

scienza (intesa come procedimento critico) diventa la

guida: metafisica, religione e arte vengono sottoposte a

giudizio e smascherate come menzogne. Nietzsche dedica

la prima edizione di Umano, troppo umano a Voltaire.

Nietzsche è illuminista, si intende, non perché creda

nell'ingenua fiducia settecentesca nella ragione e nel

progresso, ma perché impegnato in un‘opera di critica

della cultura tramite la ragione e la scienza. Per scienza

Nietzsche non intende l‘insieme delle scienze particolari,

bensì un metodo di pensiero in grado di emancipare gli

uomini dagli errori che gravano sulle loro menti. Metodo

che Nietzsche finisce per identificare con un procedimento

critico di tipo storico e genealogico. Critico perché eleva il

sospetto a regola di indagine. Storico o genealogico poiché

ritiene che non esistano realtà statiche o immutabili, ma

che ogni cosa sia l‘esito di un processo da ricostruire.

Questo metodo storico-genealogico assume la forma

concreta di una chimica delle idee impegnata a far

scaturire un atteggiamento dal suo opposto (la verità dalla

menzogna, l‘altruismo dall‘egoismo ecc.) e a mettere a

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nudo le origini umane, troppo umane, dei cosiddetti valori

sovrumani.

LA MORTE di DIO (Gott ist tot)

Per Nìetzsche Dio è 1) il simbolo di ogni visione dualistica

che ponga il senso dell‘essere al di là dell‘essere, ovvero

in un altro mondo contrapposto a questo mondo; 2) la

personificazione delle certezze ultime dell‘umanità, ossia

di tutte le credenze metafisiche e religiose elaborate

attraverso i millenni per dare un ordine rassicurante alla

vita. Il primo punto è connesso alla convinzione

nietzscheana secondo cui Dio e l‘oltre-mondo abbiano

storicamente rappresentato una fuga dalla vita e una

rivolta contro questo mondo. In Dio è dichiarata inimicizia

alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula

di ogni calunnia dell‘aldiquà. di ogni menzogna

dell‘aldilà. Il secondo punto discende dalla maniera

nietzscheana di concepire la metafisica. Secondo questo

filosofo, l‘immagine di un cosmo ordinato e benefico è

soltanto una costruzione della nostra mente, ai fini di

sopportare la durezza dell‘esistenza: C‘è un solo mondo ed

è falso, crudele. contraddittorio. corruttore, senza senso...

Un mondo così fatto è il vero mondo... Noi abbiamo

bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa

―verità‖, cioè per vivere 1...) La metafisica, la morale, la

religione, la scienza (...l vengono prese in considerazione

solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si

crede nella vita. Di fronte a una realtà che risulta

contraddittoria, crudele e non-provvidenziale, gli uomini

hanno dovuto convincere se stessi che il mondo è qualcosa

di logico e di provvidenziale. Le metafisiche e le religioni

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risultano decorazioni della realtà e bugie di sopravvivenza.

Essendo la più antica delle bugie vitali (la nostra più lunga

menzogna), Dio si configura come la quintessenza di tutte

le credenze escogitate attraverso i tempi per poter

fronteggiare il volto caotico dell‘esistenza. Per Nietzsche è

la realtà stessa, cioè l‘essenza caotica del mondo, a

confutare l‘idea di Dio ed è superflua ogni ulteriore

contro-dimostrazione della non esistenza di Dio. Di

conseguenza, più che la dimostrazione del carattere a-

finalistico, a-razionale e quindi a-teo dell‘universo, a

Nietzsche premono ormai: 1) l‘annuncio dell‘evento in

corso della morte di Dio: 2) la riflessione sulle

conseguenze prodotte da questo fatto decisivo della storia

umana. In La gaia scienza. in uno dei passi più

significativi della sua opera Nietzsche drammatizza il

messaggio della morte di Dio con il noto racconto

dell‘uomo folle: ‖Avete sentito di quel folle uomo che

accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al

mercato e si mise a gridare incessantemente: ‗Cerco Dio!

Cerco Dio!‖. E poiché proprio là si trovavano raccolti

molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi

risa‖. Come il platonico mito della caverna, anche questo

passo contiene una ricca simbologia filosofica. L‘uomo

folle = il filosofo-profeta; le risa ironiche degli uomini del

mercato = l‘ateismo ottimistico e superficiale dei filosofi

dell‘Ottocento ecc. La tesi della morte di Dio non viene

argomentata secondo le modalità della metafisica

tradizionale, ma semplicemente affermata ―per istinto‖.

L‘ateismo di Nietzsche vuol essere così radicale, che egli

non contesta soltanto Dio, ma anche ogni suo ipotetico

surrogato, ben conscio che gli uomini, abbattute le antiche

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divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre. E nelle

pagine finali di Cosi parlò Zarathustra, Nietzsche

racconta di uomini che si mettono ad adorare un asino, con

grande ira del filosofo-profeta, il quale constata come il

passaggio dall‘uomo all‘oltreuomo sia lento e difficile.

L‘asino è simbolo di ogni sostituto idolatrico di Dio e

allude alle varie forme dell‘ateismo positivo

dell‘Ottocento, nelle quali il vecchio Dio per opera di una

serie di pallidi ateisti, anticristi si trova sostituito da

altrettanti supplenti (lo Stato, l‘Umanità, la scienza), che

vengono a riempire il vuoto lasciato dalle precedenti

strutture metafisiche; ―Dopo che Buddha fu morto, si

continuò per secoli ad additare la sua ombra in una

caverna — un‘immensa orribile ombra. Dio è morto; ma

stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora

per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E

noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!‖ (La gaia

scienza).

Così parlò Zarathustra (1883-1885) apre la terza la

decisiva fase del filosofare nietzscheano. è una sorta di

poema in prosa. Il tono profetico che lo caratterizza e il

profluvio di immagini e di parabole in cui si articola lo

rendono, di difficile lettura e interpretazione. Una fase che

comincia là ove si era conclusa la filosofia del mattino,

ossia con la consapevolezza che con l‘eliminazione del

―mondo vero è tolto di mezzo anche il mondo ―apparente‖,

cioè ogni scissione dualistica della realtà. Dopo la ―morte

di Dio‖ si aprono due possibilità; l‘ultimo uomo e il

superuomo; ―‗L‘opposto del superuomo è l‘ultimo uomo;

li ho creati insieme‖. Zarathustra insegna il superuomo

mostrando l‘abiezione dell‘ultimo uomo. Zarathustra non

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è il superuomo, ma soltanto il suo profeta: io sono un

messaggero del fulmine e il fulmine si chiama superuomo.

Perché Nietzsche ha eletto la figura arcaica di Zarathustra

a portavoce delle proprie idee? Essendo stato il primo ad

aver tradotto la morale in termini metafisici, sarebbe stato

anche il primo ad essersi accorto dell‘errore della morale:

"Zarathustra ha creato questo errore fatale, la morale: di

conseguenza egli deve essere anche il primo a riconoscere

quell‘errore". A trent‘anni (l‘età in cui Gesù di Nazareth

comincia il suo insegnamento) Zarathustra ―si ritira ancora

per dieci anni in montagna. nella solitudine, e giunto così

vicino all‘essenza di tutte le cose, comincia il suo

―tramonto‖, la sua discesa tra gli uomini, per portar loro

l‘insegnamento, che prima annuncia sul mercato e poi ai

singoli. Ma ancora gli orecchi non sono svegli e aperti al

suo messaggio: egli ritorna e tiene ai suoi seguaci la

seconda serie di parabole. ma esita ad annunciare il suo il

pensiero più profondo, il pensiero dell‘Eterno Ritorno

dell‘Uguale. La quarta parte mostra il tentativo di vita

degli uomini superiori, proprio di quelli che rappresentano

il ―resto di Dio‖, degli idealisti, ai quali il cielo ideale è

sprofondato e ora provano il grande terribile vuoto. Ma il

pensatore supera anche questi uomini superiori. Dal punto

di vista concettuale, i temi di base dello Zarathustra sono

sostanzialmente tre: il superuomo, la volontà di potenza e

l‘eterno ritorno.

Il superuomo (Uebermensch)

La morte di Dio coincide con l‘atto di nascita del

superuomo. Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la

realtà e di prendere atto del crollo degli assoluti è ormai

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maturo, secondo Nietzsche, per varcare l‘abisso che divide

l‘uomo dall‘oltre-uomo. Il superuomo ha dietro di sé,

come condizione necessaria del suo essere, la morte di Dio

e la vertigine da essa provocata, ma ha davanti a sé, a

titolo di conquista, il ‗mare aperto‘ delle possibilità

connesse a una libera progettazione della propria esistenza

al di là di ogni struttura metafisica data; ‗Noi filosofi e

―spiriti liberi‖ alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci

sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il

nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di

presentimento, d‘attesa, — finalmente l‘orizzonte torna ad

apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, —

finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre

navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio

dell‘uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare,

il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è

ancora mai stato un mare così ―aperto‖. In linea generale,

possiamo dire che il superuomo è un concetto filosofico di

cui si serve Nietzsche per esprimere il progetto di un tipo

di uomo qualificato da una serie di caratteristiche che

coincidono con i temi di fondo del suo pensiero. Il

superuomo è colui che è in grado di accettare la

dimensione tragica e dionisiaca dell‘esistenza; di

―reggere‖ la morte di Dio e la perdita delle certezze

assolute; di far propria la prospettiva dell‘eterno ritorno; di

emanciparsi dalla morale e dal cristianesimo ; di porsi

come volontà di potenza; di procedere oltre il nichilismo ;

di affermarsi come attività interpretante e prospettica ecc.

In quanto tale, il superuomo non può che stare nel futuro.

Il superuomo nietzscheano, che non va confuso con un

esteta di tipo dannunziano o con un‘entità biologica di tipo

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darwiniano, ma un uomo diverso da quello che

conosciamo. Nietzsche presenta il superuomo come il

senso della terra: ―Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli

alla terra e non credete a quelli che vi parlano di

sovraterrene speranze‖. L‘uomo è terra ed è nato per

vivere sulla terra. L‘anima, che dovrebbe essere il soggetto

di un‘ipotetica esistenza ultraterrena, è insussistente:

l‘uomo è sostanzialmente corpo. ―Anima non è altro che

una parola per indicare qualcosa del corpo‖.

L‘eterno ritorno

La formulazione più completa della teoria dell‘eterno

ritorno la troviamo in Così parlò Zarathustra. nel discorso

su La visione e l’enigma, in cui Nietzsche parla della

―visione del più solitario tra gli uomini‖. Zarathustra narra

di una salita su di un impervio sentiero di montagna (=

simbolo del faticoso innalzarsi del pensiero), durante la

quale egli, con il nano che lo segue, si trova di fronte a una

porta carraia, su cui è scritta la parola ―attimo‖ (il

presente) e dinanzi alla quale si uniscono due sentieri che

―nessuno ha mai percorso sino alla fine‖, in quanto si

perdono nell‘eternità: il primo porta all‘indietro (= il

passato) e l‘altro porta in avanti ( il futuro). Zarathustra

chiede al nano se le due vie sono destinate a contraddirsi

in eterno oppure no. Alla risposta un po‘ affrettata del

nano, che allude alla circolarità del tempo (―Tutte le cose

diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è

ricurva, il tempo stesso è un circolo‖), Zarathustra espone

un abbozzo di teoria dell‘eterno ritorno: ‗non dobbiamo

tutti esserci stati un‘altra volta?‖, ―non dobbiamo ritornare

in eterno?‘. A questo punto abbiamo una trasformazione di

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scena, una sorta di visione nella visione, entro la quale.

sullo sfondo di un desolato paesaggio lunare Zarathustra

vede: un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso,

stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava

dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido

raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre

dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e — lì

si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il

serpente. tirava e tirava — invano! non riusciva a

strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì

dalla bocca: ―Mordi! Mordi! Staccagli il capo‘...‖. Il

pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido;

e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente —:

e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo — un

trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima

al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!‖. Tuttavia, la

scena centrale del pastore che trasformandosi in creatura

luminosa e ―ridente‖, al fatto che l‘uomo può trasformarsi

in creatura superiore e ridente (= il superuomo), solo se

supera la ripugnanza soffocante del pensiero dell‘eterno

ritorno ( il serpente, circolo). mediante una decisione

coraggiosa nei suoi confronti (= il morso del serpente). La

teoria de «l'eterno ritorno dell'uguale», significa che per

l'essere non si può più ritenere che il tempo abbia una

direzione lineare, che comporti una struttura articolata in

passato, presente e futuro come momenti irripetibili,

secondo la visione «storica» che si è imposta nella

tradizione giudaico-cristiana. Dopo più di duemila anni.

Nietzsche torna dunque a recuperare una visione pre-

cristiana del mondo presente nella Grecia presocratica e

nelle civiltà indiane, la quale presuppone una visione

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ciclica del tempo in opposizione a quella rettilinea di tipo

cristiano-moderno: Tutto va, tutto torna eternamente ruota

la ruota dell‘essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire,

eternamente corre l‘anno dell‘essere. Tutto crolla, tutto

viene di nuovo connesso; eternamente l‘essere si

costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto

torna fedele a se stesso rimane l‘anello dell‘essere. Questa

dottrina, che a tutta prima sembrerebbe la semplice ripresa

di un antico mito, costituisce in realtà il punto più

controverso dell‘intera filosofia nietzscheana. Mettersi

nell‘ottica dell‘eterno ritorno vuol dire rifiutare una

concezione lineare del tempo. Disporsi a vivere la vita, e

ogni attimo di essa. Il tipo di uomo capace di decidere

l‘eterno ritorno, e quindi di vivere come se tutto dovesse

ritornare è un oltreuomo in grado di vivere la vita come un

gioco creativo.

L‘ultimo Nietzsche

Nell‘ultima fase, Nietzsche si propone di distruggere

definitivamente le credenze dominanti, per far posto

all‘avvento di un nuovo pensiero, finalizzato alla

creazione dell‘oltreuomo. Il tema dell‘accettazione della

vita, centrale in tutto il percorso intellettuale di Nietzsche,

si traduce in una forte polemica contro la morale e il

cristianesimo, considerati come le tipiche forme di

coscienza e di azione attraverso cui l‘uomo è giunto a

porsi contro la vita stessa. Secondo Nietzsche la morale è

sempre stata considerata come un fatto. Di conseguenza, il

primo passo da compiere nei confronti della morale è di

mettere in discussione la morale stessa: abbiamo bisogno

di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una

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buona volta in questione il valore stesso di questi valori,

Proprio in vista di ciò, Nietzsche intraprende un‘analisi

genealogica della morale, al fine di scoprirne la genesi

psicologica. Nell‘ambito di questo viaggio alle sorgenti

dei comportamenti etici, il filosofo è guidato da una

convinzione che esprime con una frase famosa: dove voi

vedete cose ideali. io vedo cose umane, ahi troppo umane.

Egli ritiene infatti che i pretesi valori trascendenti della

morale e la morale stessa siano solo una proiezione di

determinate tendenze umane, che il filosofo, in virtù della

psicologia, signora delle scienze, ha il compito di svelare

nei loro meccanismi segreti. Innanzitutto la cosiddetta

―voce della coscienza‖, da cui procederebbe la morale.

secondo Nietzsche, è nient‘altro che la presenza, in noi,

delle autorità sociali da cui siamo stati educati. Per cui,

anziché essere ―la voce di Dio nel petto dell‘uomo‖, la

coscienza risulta piuttosto ―la voce di alcuni uomini

nell‘uomo‖, In altre parole, la moralità è ―l‘istinto del

gregge nel singolo‖, ovvero il suo assoggettamento a

determinate direttive fissate dalla società. In un primo

momento, soprattutto nel mondo classico, la morale

espressione di un‘aristocrazia cavalleresca, risulta

improntata ai valori vitali della salute, della fierezza, della

gioia (= la morale dei signori), in un secondo momento

(ebraismo e cristianesimo), la morale appare improntata ai

valori del disinteresse del sacrificio di sé ecc. (= la morale

de schiavi) La civiltà occidentale abbia imboccato la

strada della malattia e della decadenza, perché la morale

dei signori originariamente comprendeva in sé non solo

l‘etica dei guerrieri, ma anche quella dei sacerdoti. Il

guerriero (virtù del corpo), il sacerdote invece tende a

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perseguire le virtù dello spirito. Per sentimento di

inferiorità, il sacerdote non può fare a meno di provare un

certo risentimento verso i guerrieri, ovvero una segreta

invidia e un desiderio di rivalsa nei loro confronti. Non

potendo dominare la casta dei guerrieri sul loro stesso

terreno, la casta sacerdotale cerca quindi di affermare se

medesima elaborando una tavola di valori antitetica a

quella dei cavalieri. In tal modo, al corpo viene anteposto

lo ―spirito‖, all‘‖orgoglio‖. l‘umiltà‖, alla sessualità.‖ la

castità‖― e così via. Questo rovesciamento di valori è

rappresentato soprattutto dagli ebrei, nei quali Nietzsche

vede il ―popolo sacerdotale‖ per eccellenza, che ha

capovolto i valori del mondo antico e poi dal cristianesimo

storico dell‘Occidente, nel quale Nietzsche vede il simbolo

della vita che si mette contro la vita. Ma proprio perché ha

inibito gli impulsi primari dell‘esistenza il cristianesimo

ha prodotto un tipo d‘uomo preso da continui sensi di

colpa. L‘uomo cristiano, nel suo risentimento, nasconde

un‘aggressività rabbiosa contro la vita e uno spirito di

vendetta contro il prossimo. Questo spiega perché dalla

religione dell‘amore sia potuta scaturire una casta

sacerdotale, spesso crudele, che lungo i secoli non ha

esitato a bagnarsi del sangue altrui. Da ciò la sua proposta

di una radicale trasvalutazione dei valori: ―la mia verità è

tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la

menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia

formula per l‘atto con cui l‘umanità prende la decisione

suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e

genio‖. In rapporto a questa trasvalutazione. Nietzsche si

sente investito di una missione epocale. finalizzata a porre

le basi di un nuovo tipo di civiltà. Da ciò la figura del

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filosofo come legislatore e costruttore di storia. Gli operai

della filosofia, come Kant e Hegel, non sono i veri filosofi.

I veri filosofi sono dominatori e legislatori. Essi dicono

―così deve essere! e stabiliscono la meta dell‘uomo,

utilizzando i lavori preparatori di tutti gli operai scientifici

della filosofia e di tutti i dominatori del passato: Il loro

conoscere è creare, il loro creare è una legislazione‖.

Volontà di potenza

Nietzsche identifica la volontà di potenza con ―l‘intima

essenza dell‘essere‖:‗volete un nome per questo mondo?

Una soluzione per i suoi enigmi? Una luce anche per voi ?

Questo mondo è la volontà di potenza — e nient‘altro! E

anche voi stessi siete questa volontà di potenza — e

nient‘altro!‖- La volontà di potenza si identifica con la vita

stessa, intesa come forza espansiva e autosuperantesi:

―Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche

trovato la volontà di potenza. La molla fondamentale della

vita non sono gli impulsi autoconservativi o la ricerca del

piacere, ma la spinta all‘autoaffermazione‖. L‘espressione

più alta della volontà di potenza si trova nel superuomo,

perché la sua essenza consiste nel continuo superamento di

sé. Ma se l‘essenza della vita è il potenziamento della vita

e se tale potenziamento si identifica con la creazione che

la vita fa di se stessa, ne segue che l‘arte, intesa nel senso

ampio di forza creatrice, non è soltanto una forma della

vita, ma la sua forma suprema. Zarathustra afferma il

carattere creativo della volontà rispetto al tempo, grazie

alla quale il macigno del ―così fu‖ si scioglie nel ―così

volli‖ che fosse pronunciato dal superuomo: ‗Ogni ―così

fu‖ è un frammento, un enigma, una casualità orrida fin

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che la volontà che crea non dica anche: ―ma così volli che

fosse!‖. Questa redenzione del tempo fa tutt‘uno con

l‘accettazione della sua essenza eternamente ritornante

(amor fati! formula di matrice stoica che in Nietzsche non

ha un significato passivo, bensì attivo, in quanto il

superuomo non subisce, ma istituisce l‘eterno ritorno). La

volontà di potenza di cui parla Nietzsche non ha solo

queste valenze teoriche — che sono certamente le più

decisive sul piano filosofico. Essa ne contiene anche altre,

ben più ―crude‖ (e storicamente funeste). Sono le valenze

connesse al concetto della volontà di potenza come

sopraffazione e dominio. Valenze che si trovano non solo

nei frammenti postumi, ma anche nelle opere edite da

Nietzsche.

Il nichilismo

Il problema del nichilismo costituisce uno dei motivi più

attuali della riflessione di Nietzsche. In una prima

accezione, Nietzsche intende per nichilismo ―la volontà

del nulla‖, ovvero ogni atteggiamento di fuga e di disgusto

nei confronti del mondo concreto. Atteggiamento che vede

incarnato soprattutto nel platonismo e nel cristianesimo. In

una seconda accezione, connessa alla precedente ma più

caratterizzante. Nietzsche adopera il termine nichilismo la

specifica situazione dell‘uomo moderno e contemporaneo,

che, non credendo più nei ―valori supremi‖ (Dio. la verità,

il bene ecc.) e in un senso o in uno ―scopo metafisico‖

delle cose, finisce per avvertire, di fronte all‘essere, lo

sgomento del ‗vuoto‖ e del ‗nulla‘. Nietzsche allora

presenta se stesso come ―il primo perfetto nichilista

d‘Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il

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nichilismo stesso — che lo ha dietro di sé, sotto di sé,

fuori di sé‘- L‘equivoco del nichilismo moderno, come

mostra il suo meccanismo -genealogico-. risiede dunque

nel fatto che esso identifica la mancanza di fini e strutture

metafisiche ‗razionali‖ e ―provvidenziali‘ con la mancanza

di senso tout-court. In altre parole, l‘equivoco del

nichilismo consiste nel dire che il mondo, non avendo

quella serie di significati ―forti‖ che i metafisici gli

attribuivano (unità. verità assoluta ecc.), non ha nessun

senso: ‗Risultato: il credere nelle categorie di ragione è la

causa del nichilismo — abbiamo misurato il valore del

mondo in base a categorie che si riferiscono a un mondo

puramente fittizio. Questo mostra come Nietzsche, pur

essendo anch‘egli nichilista radicale lo sia in modo tale da

superare il nichilismo stesso. Infatti, poiché patologica è la

conclusione che non c‗è nessun senso, il nichilismo appare

a Nietzsche soltanto uno stadio intermedio, ovvero un No

alla vita che prepara il grande Sì ad essa, attraverso

l‘esercizio della volontà di potenza. Nel nichilismo

incompleto rimane ancora operante una fede; per

rovesciare il mondo dei valori si deve ancora credere in

qualcosa, in un ideale, si ha ancora un ―bisogno di verità‖.

Come forme di nichilismo incompleto Nietzsche nomina:

a) in ambito politico il nazionalismo, il socialismo e

l‘anarchismo; b) in ambito scientifico lo storicismo e il

positivismo; c) in ambito artistico il naturalismo e

l‘estetismo francese‖.Il nichilismo completo è il

nichilismo vero e proprio. Tale nichilismo può essere

segno di debolezza o di forza. Nel primo caso, cioè come

sinonimo di declino e regresso della potenza dello spirito,

si ha il nichilismo passivo, che si limita a prendere atto del

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declino dei valori e a crogiolarsi nel nulla o in una serie di

narcotici posticci. Nel secondo caso, cioè come sinonimo

della cresciuta potenza dello spirito, si ha il nichilismo

attivo, che si esercita come ―forza violenta di distruzione‘.

Nietzsche chiama estrema la forma di nichilismo attivo

che distrugge ogni residua credenza in qualche verità in sé

di tipo metafisico: ―Che non ci sia una verità; che non ci

sia una costituzione assoluta delle cose, una ―cosa in sé‖,

ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo‖

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CAPITOLO 19

Sigmund Freud

Sigmund Freud nasce nel 1856 a Freiberg, in Moravia, da

genitori ebrei. Fondatore della Psicoanalisi, una scienza

che ha rivoluzionato i metodi di cura delle malattie

mentali e ha disegnato una nuova immagine dell‘uomo,

della sessualità e della civiltà.

Opere principali

Studi sull‘isteria (1892-95), con Breuer; L‘interpretazione

dei sogni (1899) (è la prima opera in cui viene

compiutamente formulata la teoria psicoanalitica),

Psicopatologia della vita quotidiana (1901); Totem e tabù

(1913); Introduzione alla psicoanalisi (1915-17); Al di là

del principio di piacere (1920); L‘io e l‘es (1922);

L‘avvenire di un‘illusione(1927); Il disagio della civiltà

(1929).

La medicina ufficiale ottocentesca si muoveva in un

orizzonte teorico di tipo materialistico. Essa tendeva infatti

a interpretare tutti i disturbi della personalità in chiave

somatica. L‘isteria aveva attirato l‘attenzione di un gruppo

di medici. Charcot era giunto a usare l‘ipnosi come

metodo terapeutico, Breuer utilizzava l‘ipnosi non come

strumento di inibizione dei sintomi, ma come mezzo per

richiamare alla memoria avvenimenti penosi dimenticati.

Nel caso di Anna O., un‘isterica gravemente ammalata,

curata da Breuer, fra gli altri sintomi (paralisi motorie,

turbe della vista e dell‘udito, tosse nervosa, anoressia,

afasia ecc.) vi era pure una caratteristica idrofobia acuta

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(paura di bere). Mediante l‘ipnosi, Breuer aveva scoperto

che la paziente, avendo scorto da bambina il cane della

governante bere in un bicchiere, aveva provato un forte

senso di repulsione. Pur avendo rimosso quell‘episodio, la

paziente manifestava sintomi idrofobici, che erano spariti

soltanto quando Breuer, in virtù dell‘ipnosi, li aveva

portati alla coscienza. Breuer e Freud mettono a punto il

cosiddetto metodo catartico, consistente appunto nel

tentativo di provocare una ―scarica emotiva‖ capace di

―liberare‖ il malato dai suoi disturbi. Freud arriva alla

scoperta che la causa delle psiconevrosi è da ricercarsi in

un conflitto tra forze psichiche inconsce, ossia operanti al

di là della sfera di consapevolezza del soggetto, i cui

sintomi risultano quindi psicogeni (non organici). La

scoperta dell‘inconscio segna l‘atto di nascita della

psicoanalisi. che si configura infatti come psicologia del

profondo.

Inconscio e vie d‘accesso

Prima di Freud si riteneva comunemente che la ―psiche‖ si

identificasse con la coscienza. Il medico viennese afferma

invece che la maggior parte della vita mentale si svolge

fuori della coscienza e che l‘inconscio costituisce la realtà

abissale primaria di cui il conscio (come la punta di un

iceberg) è solo la manifestazione visibile. L‘inconscio

viene eletto a punto di vista privilegiato da cui osservare

l‘uomo. Freud divide l‘inconscio in due zone. La prima

comprende l‘insieme dei ricordi che pur essendo

momentaneamente inconsci, possono, in virtù di uno

sforzo dell‘attenzione, divenire consci. Tale è il

―preconscio‖. La seconda zona comprende quegli elementi

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psichici stabilmente inconsci che sono mantenuti tali da

una forza specifica — la ―rimozione‖ — che può venir

superata solo in virtù di tecniche apposite. Freud pensò di

usare l‘ipnosi per superare le ―resistenze‖ che ne sbarrano

l‘accesso alla coscienza . Ma la scarsa efficacia di

quest‘ultima lo indusse presto ad elaborare un nuovo

metodo: quello delle associazioni libere. Mettere il

paziente in grado di abbandonarsi al corso dei propri

pensieri, produce delle catene associative con il materiale

rimosso che si vuole portare alla luce. Questo metodo, pur

avendo la capacità di aggirare più facilmente le censure

presenta tuttavia, nella concretezza dell‘analisi, notevoli

difficoltà. Scoperto quel nuovo continente scientifico che è

l‘inconscio, Freud si propose di decodificarne i messaggi

tramite lo studio di quelle sue manifestazioni privilegiate

che sono i sogni, gli atti mancati e i sintomi nevrotici.

La teoria della psiche

Rifiutando la concezione intellettualistica dell‘Io come

semplice Io cosciente, Freud afferma che la psiche è

un‘unità complessa costituita da diversi metaforici luoghi

(topoi) psichici. La prima topica psicologica viene

elaborata da Freud nell‘interpretazione dei sogni e

distingue tre sistemi: il conscio, il preconscio e

l‘inconscio. La seconda topica viene elaborata da Freud a

partire dal 1920 e distingue tre istanze: l‘Es, l‘Io e il

Super-io. L‘Es (termine tedesco che indica il pronome

neutro della terza persona singolare) è il polo pulsionale

della personalità, la matrice originaria della nostra psiche.

L‘Es non conosce né il bene, né il male, né la moralità ma

obbedisce unicamente al principio del piacere. Esso esiste

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inoltre al di là delle forze spazio-temporali codificate da

Kant (in quanto le pulsioni rimosse vivono in una sfera

senza luogo e senza tempo) e ignora le leggi della logica.

Il Super-io è ciò che comunemente si chiama coscienza

morale, ovvero l‘insieme delle proibizioni che sono state

imposte all‘uomo nei primi anni di vita e che poi lo

accompagnano sempre, anche in forma inconsapevole: Il

Super-io è il successore e rappresentante dei genitori. L‘Io

è la parte organizzata della personalità, è l‘istanza che si

trova a dover equilibrare. Nell‘individuo normale l‘Io

riesce abbastanza bene a padroneggiare la situazione. E

fornisce, agendo sulla realtà, parziali soddisfazioni all‘Es,

senza violare in forma clamorosa gli imperativi e le

proibizioni che provengono dal Super-io. Ma se da un lato

le esigenze dell‘Es sono eccessive, o se il Super-io è

troppo debole, o invece troppo rigoroso, allora queste

soluzioni pacifiche non sono più possibili.

I sogni, gli atti mancati e i sintomi nevrotici.

Nell‘Interpretazione dei sogni Freud vede nei fenomeni

onirici la via regia che porta alla conoscenza

dell‘inconscio nella vita psichica. Egli ritiene infatti che i

sogni siano ―l‘appagamento (camuffato) di un desiderio

(rimosso)‖. Per motivare questa tesi Freud distingue,

all‘interno dei sogni, un contenuto manifesto (la scena

onirica) e un contenuto latente (l‘insieme delle tendenze

che danno luogo alla scena onirica). Il contenuto

manifesto dei sogni è nient‘altro che la forma elaborata e

travestita — sotto effetto della censura — in cui si

presentano i desideri latenti. Ma se ogni sogno è la

realizzazione di un desiderio, l‘interpretazione

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psicoanalitica dei sogni consiste nel ripercorrere a ritroso

il processo di traslazione del contenuto latente in quello

manifesto. Nella Psicopatologia della vita quotidiana

Freud prende in esame quei contrattempi della vita di tutti

i giorni (lapsus. errori, dimenticanze, incidenti banali ecc.)

che prima di lui si era soliti attribuire al caso. Applicando

il principio del determinismo psichico — secondo cui,

nella nostra mente, nulla avviene per caso, ma ogni evento

è il prodotto necessario di determinate cause — Freud

scopre invece come anche tali fenomeni abbiano un ben

preciso significato. Questo schema risulta facilmente

applicabile ai casi di lapsus linguae, tuttavia, secondo la

psicoanalisi, esso vale per qualsiasi incidente (ad es. noi

tendiamo a dimenticare determinati nomi, o a smarrire

determinati oggetti, per il fatto che a essi sono associati

sentimenti spiacevoli). Per i sintomi nevrotici, Freud fa un

discorso analogo, sostenendo che il sintomo, come il

sogno manifesto, rappresenta il punto di incontro fra una o

più tendenze rimosse e quelle forze della personalità che si

oppongono all‘ingresso ditali credenze nel sistema

conscio. E poiché Freud scoprì ben presto che gli impulsi

rimossi che stanno alla base dei sintomi psiconevrotici

sono sempre di natura sessuale, egli fu portato a porre la

sessualità al centro della propria attenzione.

La teoria della sessualità

Prima di Freud la sessualità era sostanzialmente

identificata con la genitalità, ossia con il congiungimento

con un individuo di sesso opposto, ai fini della

procreazione. Di conseguenza, secondo questo schema la

sessualità dovrebbe mancare nell‘infanzia, subentrare

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intorno all‘epoca della pubertà.. Ora, se tutto ciò fosse

vero, resterebbero inspiegate tutte le tendenze

psicosessuali differenti dal coito. Ad es. resterebbero

inspiegate la sessualità infantile la sublimazione (cioè il

trasferimento di una carica originariamente sessuale sopra

oggetti non-sessuali, come il lavoro, l‘arte, la scienza ecc.)

e le perversioni. Di conseguenza, Freud fu condotto ad

ampliare il concetto di sessualità, sino a vedervi

un‘energia suscettibile di dirigersi verso le mete più

diverse e in grado di investire gli oggetti più disparati.

Energia che Freud denominò libido e che pensò alla

stregua di un flusso migratorio localizzato di volta in

volta, in corrispondenza dello sviluppo fisico, su alcune

parti del corpo, dette zone erogene (generatrici di piacere

erotico). Parallelamente a questa rifondazione del concetto

di sessualità, Freud elaborò un‘originale dottrina della

sessualità infantile. Respingendo la mistificante immagine

del bambino come sorta di angioletto asessuato Freud

giunse a definire il piccolo uomo come un essere perverso

polimorfo, ossia come un individuo capace di perseguire il

piacere indipendentemente da scopi riproduttivi e

mediante i più svariati organi corporei. In particolare.

Freud sostiene che lo sviluppo psicosessuale del soggetto

avviene attraverso tre fasi, ognuna delle quali appare

caratterizzata da una specifica zona erogena: fase orale,

anale e genitale. 1) La fase orale, che caratterizza i primi

mesi di vita e che dura sino a un anno e mezzo circa, ha

come zona erogena la bocca e risulta connessa a quella

che, in questo periodo, costituisce la principale attività del

bambino: il poppare.2) La fase anale, che va da un anno e

mezzo circa a tre anni, ha come zona erogena l‘ano ed è

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collegata alle funzioni escrementizie, che per il bambino

sono oggetto di particolare interesse e piacere.3) La fase

fallica, che inizia alla fine del terzo anno, ha come fattore

erogeno la zona genitale. La fase genitale in senso stretto,

che segue a quella fallica dopo un periodo di latenza (che

va dal declino della sessualità infantile — quarto o sesto

anno — sino all‘inizio della pubertà) è caratterizzata

dall‘organizzazione delle pulsioni sessuali sotto il primato

delle zone genitali. La teoria del complesso di Edipo. In

generale, il complesso edipico — che prende il nome dalla

mitica vicenda del personaggio greco, destinato dal Fato a

uccidere il padre e a sposare la madre — consiste in un

attaccamento ―libidico‖ verso il genitore di sesso opposto

e in un atteggiamento ambivalente (con componenti

positive affettuosità e tendenza alla identificazione, e

componenti negative di ostilità verso il genitore di egual

sesso Tale complesso si sviluppa fra i tre cinque anni,

ossia durante la fase fallica, e, a seconda della sua

risoluzione o meno. determina la futura strutturazione

della personalità.

Religione e Civiltà

Nell‘ultimo periodo della sua vita Freud si è espresso in

modo originale sui temi della religione e della civiltà

(Totem e tabù, L‘avvenire di un ‗illusione, Il disagio della

civiltà, Mosè e il monoteismo). Per quanto riguarda le

―rappresentazioni religiose‖, Freud ritiene che esse siano

―illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti,

più pressanti dell‘umanità‖. A sua volta, l‘amato e temuto

Padre celeste (Dio) non sarebbe altro che la proiezione

psichica dei rapporti ambivalenti con il padre terreno. Per

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la civiltà, Freud afferma che essa implica un costo in

termini libidici, essendo costretta a ―deviare‖ la ricerca del

piacere in prestazioni sociali e lavorative. Inoltre la civiltà,

proseguendo l‘opera paterna, dà origine a un Super-io

collettivo, incarnato da una serie di norme e divieti: Il

Super-io della civiltà, come quello individuale, affaccia

severe esigenze ideali, il mancato conformarsi alle quali

viene punito con l‘angoscia morale‖ (Il disagio della

civiltà). L‘antropologia dell‘ultimo Freud, che presenta

punti di contatto con quella di Schopenhauer, vuol essere

decisamente ―realistica‖ e ―pessimistica‖. La sofferenza è

componente strutturale della vita, che ci costringe a patire

nel corpo e nella psiche, a decadere e a morire. L‘uomo è

una creatura tra le cui doti istintive è da annoverare un

forte quoziente di aggressività. Di conseguenza, lo stato

civile è un male minore rispetto a un‘umanità-senza-

società, che potesse dar sfogo a tutti i suoi desideri. Infatti,

in una situazione del genere, non solo l‘uomo non sarebbe

felice, ma diventerebbe ancor più pericoloso per il

prossimo. Negli ultimi scritti Freud ha diviso le pulsioni in

due specie, quelle che tendono a conservare e a unire, e

sono quindi erotiche o genericamente sessuali: e quelle

che invece tendono a distruggere e a uccidere, e sono

quindi aggressive o distruttive. Nella lotta tra Eros e

Thanatos Freud ha visto l‘intera storia del genere umano.

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CAPITOLO 20

E. Husserl e la Fenomenologia

La Fenomenologia

Filosofia dell'aritmetica (1891)L'idea della fenomenologia

(1907) Ricerche logiche (1900-1901) La filosofia come

scienza rigorosa (1911), Idee per una fenomenologia pura

e per una filosofia fenomenologica (1913-1928), Logica

formale e trascendentale (1929), Meditazioni cartesiane

(1931), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia

trascendentale (1935-1937)

Nell‘opera di Husserl. la filosofia come indagine

fenomenologica si presenta coi seguenti caratteri:

1) È scienza teoretica (contemplativa) e rigorosa, ―fornita

di fondamenti assoluti‖.

2) È scienza intuitiva perché mira a cogliere essenze che si

danno alla ragione in modo analogo a quello in cui le cose

si danno alla percezione sensibile.

3) È scienza non-oggettiva, perciò completamente diversa

dalle altre scienze particolari che sono scienze di fatti o di

realtà (fisiche o psichiche) mentre essa prescinde da ogni

fatto o realtà e si rivolge alle essenze.

4) È scienza delle origini e dei primi principi perché la

coscienza contiene il senso di tutti i modi possibili in cui

le cose possono essere date o costituite.

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5) È scienza della soggettività perché l‘analisi della

coscienza mette capo all‘io come soggetto o polo

unificante di tutte le intenzionalità costitutive.

6) È scienza impersonale perché i suoi collaboratori non

hanno bisogno di saggezza ma di doti teoretiche.

Bolzano e Brentano

La fenomenologia di Husserl nasce in polemica contro

l‘impostazione empiristica o psicologistica della logica e

in generale della teoria della conoscenza. Bolzano (1781-

1848): le verità in sé sono delle proposizioni valide anche

al di fuori del fatto di essere riconosciute, pensate o

espresse a parole. Si noti che "oggettivo", per Bolzano,

non significa "vero perché esperibile da diversi soggetti",

bensì vero perché anteriore, e comunque indipendente,

dall'esperibilità di qualsiasi soggetto. Bolzano, pertanto, ha

avuto il merito - di contro a Kant - di riconoscere la

dimensione oggettiva degli oggetti della logica e di

mettere in chiaro che, indipendentemente dalle condizioni

soggettive del nostro conoscere , esiste una realtà

ontologica del pensiero e, quindi, la possibilità di una

fondazione logico-formale della scienza stessa. L‘altro

presupposto fondamentale della fenomenologia,

l‘intenzionalità della coscienza, deriva da Brentano. La

tesi fondamentale di Brentano è il carattere intenzionale

della coscienza o dell‘esperienza in generale. Intentio è

termine scolastico, e fu usato per indicare il concetto in

quanto si riferisce a qualcosa di altro da sé e sta in luogo

di esso. Secondo Brentano, l‘intenzionalità è il carattere

specifico dei fenomeni psichici in quanto si riferiscono

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tutti a un oggetto immanente. L‘oggetto dell‘atto

intenzionale è immanente in quanto cade nell‘ambito

dell‘atto stesso, cioè nell‘ambito della stessa esperienza

psichica.

Il metodo fenomenologico

Nelle Lezioni sull‘Idea di fenomenologia (1907) Husserl

raggiunge una caratterizzazione più precisa della natura

dell‘indagine sulla essenza dei modi di conoscenza.

Quest‘indagine viene distinta nettamente dalla psicologia,

alla quale viene riconosciuto il carattere di scienza

naturale. La psicologia considera gli eventi psichici come

appartenenti a certe coscienze d‘uomini o d‘animali e

perciò attribuisce agli eventi psichici il carattere di fatti

naturali che avvengono nel tempo. La psicologia non può

dunque cogliere l‘essenza della coscienza e dei modi in

cui alla coscienza stessa sono dati i suoi oggetti reali o

possibili. A differenza della psicologia, la fenomenologia

pura non è una scienza di fatti ma di essenze (è una

scienza eidetica) e i fenomeni di cui essa si occupa non

sono reali ma irreali. Per raggiungere il piano della

fenomenologia è quindi indispensabile un mutamento

radicale di atteggiamento, che consiste nel sospendere

l‘affermazione della realtà e nell‘assumere l‘atteggiamento

dello spettatore, interessato solo a cogliere l‘essenza degli

atti con cui la coscienza si rapporta alla realtà. Questo

mutamento di atteggiamento è l‘epoché fenomenologica.

L‘epoché degli antichi Scettici era la sospensione totale

del giudizio. Il dubbio cartesiano è anch‘esso la

sospensione totale di tutta la conoscenza. L‘epoché

fenomenologica è soltanto la sospensione di

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quell‘affermazione di realtà che è implicita in tutti gli

atteggiamenti naturali e in tutte le scienze naturali.

Sospendendo l‘affermazione della realtà del mondo, il

mondo stesso diventa un puro fenomeno di coscienza ma

non si annulla. L‘attenzione del ricercatore si sposta dal

mondo ai fenomeni con cui esso si presenta nella

coscienza. In questo senso la coscienza costituisce il

residuo fenomenologico, vale a dire ciò che rimane dopo

l‘epoché, il suo essere non viene toccato dalla messa in

parentesi del mondo e diventa così il campo specifico

della ricerca fenomenologica. L‘atteggiamento

fenomenologico così descritto ha dunque due condizioni

fondamentali: la riduzione eidetica che sostituisce alla

considerazione dei fatti o delle cose naturali l‘intuizione

delle essenze e l‘epoché che sospende o mette in parentesi

la tesi dell‘esistenza del mondo in generale.

L‘INTENZIONALITA‘ E L‘IO

Poiché la coscienza è sempre coscienza di qualcosa (ogni

cogito ha il suo cogitatum), l‘analisi della coscienza è

analisi dei modi in cui questi oggetti si danno alla

coscienza. Gli atti della coscienza costituiscono

l‘intenzionalità della coscienza. Intenzione è termine

scolastico col quale s‘intendeva il riferimento di una

rappresentazione, di un concetto o di un atto di volontà

(per il quale ultimo il termine è passato anche nell‘uso

comune), all‘oggetto rappresentato o pensato o voluto. Per

Husserl l‘intenzionalità costituisce la natura stessa della

coscienza. La coscienza è intenzionalità nel senso che ogni

sua manifestazione (pensiero, fantasia, emozione ecc), si

riferisce a qualche cosa di diverso da sé, a un oggetto

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pensato, fantasticato, sentito, voluto ecc. Come

intenzionalità, la coscienza non è che l‘atto di trascendere

se stessa e di mettersi in rapporto con un oggetto.

L‘oggetto è precisamente un oggetto, cioè una realtà

trascendente che si annuncia e si presenta alla coscienza

attraverso i fenomeni soggettivi della percezione. Nei

fenomeni soggettivi (o esperienze vissute) bisogna

distinguere la direzione verso l‘oggetto (il percepire, il

ricordare, l‘immaginare) che è detta da Husserl noesis, e

l‘oggetto considerato dalla riflessione nei suoi vari modi di

esser dato (il percepito, il ricordato, l‘immaginato) che è

detto da Husserl noema. Il noema è l‘elemento oggettivo

dell‘esperienza vissuta, ma non è l‘oggetto stesso, che è la

cosa. L‘oggetto della percezione per es. è l‘albero, ma il

noema di questa percezione è il complesso dei predicati e

dei modi d‘essere nell‘esperienza soggettiva: l‘albero

verde, illuminato, non illuminato, percepito, ricordato ecc.

La prima conseguenza di questo punto di vista è la

differenza radicale tra il modo d‘essere della coscienza e il

modo d‘essere della cosa. La cosa si dà alla coscienza

attraverso i fenomeni soggettivi (del percepire, ricordare

ecc.); la coscienza si dà invece a se stessa direttamente,

senza alcun intermediario. La percezione della coscienza è

una percezione immanente, di fronte alla percezione

trascendente dell‘oggetto esterno. Apparire ed essere non

coincidono per l‘oggetto esterno, ma coincidono per la

coscienza. Un‘esperienza vissuta non può non esistere,

invece l‘esperienza di un oggetto non garantisce l'esistenza

dell‘oggetto. Per oggetto non devono intendersi soltanto le

cose o gli oggetti materiali. Vi sono oggetti ideali che

hanno un‘esistenza diversa da quella degli oggetti

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materiali ma che si comportano allo stesso modo nei

confronti della coscienza. Tra gli oggetti ideali vi sono le

essenze, cioè i concetti universali di tutte le cose reali,

materiali o spirituali che siano. Queste essenze sono date

alla coscienza, sono intuite da essa; e tale intuizione è

detta da Husserl intuizione eidetica (eidos = essenza).

L‘intuizione delle essenze

La coscienza non è mai vuota, si dirige sempre verso

qualcosa: e questo ―qualcosa‖, questo suo ―oggetto‖

percepito, ricordato, immaginato, ecc. (secondo le

operazioni che essa compie) ne costituisce il significato.

Un significato che — al di là dei particolari contenuti in

ogni intuizione sensibile — viene a configurarsi come

qualcosa di stabile, di permanente: un‘essenza‖, una

―forma‖. Sì tratta di un ‗oggetto‖ ideale, simile alla

―forma‖ descritta da Platone ma che, a differenza di

questa, non e da intendere come realtà in se, trascendente,

e neppure come ―cosa in sè‖ (in senso kantiano), poiché

essa è pur sempre immanente alla coscienza. La coscienza

svolge un‘attività di tipo intuitivo che ha come oggetto le

essenze ideali: si tratta di una vera e propria intuizione

delle essenze, ed è per questo che si parla d intuizione

eidetica (da eidos, idea). L‘intuizione eidetica è concreta,

poiché presuppone sempre l‘esperienza, ma guarda

all‘universale o all‘essenza. L‘intuizione della mente,

all‘interno di una realtà percepita, coglie un contenuto

universale, che appartiene a tutte le realtà di quel

determini nato tipo: ad esempio, di una data realtà avente

un determinato colore rosso (―questo ora‖, come può

essere questa porta) la ragione coglie intuitivamente la

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qualità universale del rosso (il rosso, che si accompagna

altre esperienze come ―la porta‖, ―la casa‖ in generale). In

quanto atto empirico, la percezione di questo rosso è

contingente, cioè destinata a scomparire non appena mi

rivolgo ad altro (oppure chiudo gli occhi): ma essa rinvia

ad un noema, ad una essenza ideale, che costituisce il

significato autentico, universale. di quelle realtà particolari

e, come tale, differisce da esse. L‘aspetto caratterizzante

dell‘intuizione eidetica e l‘evidenza razionale con cui

l‘oggetto si presenta alla coscienza. La filosofia, dunque,

si costituisce come scienza rigorosa proprio perché non

riguarda i fatti, ma le essenze. E proprio in relazione a tali

essenze, Husserl apre una prospettiva di ricerca che verrà

seguita da molti suoi allievi in direzioni diverse —

orientata alle cosiddette ontologie regionali cioè ad ambiti

della realtà che vengono a configurarsi come vere e

proprie ―regioni dell‘essere‖. Tali sono, ad esempio,

l‖animalita‖, ‗―umanità‖, la ―società‖, il ―sacro‖: si tratta

di essenze generali, ciascuna delle quali comprende

insiemi di essenze che le specificano e le determinano.

Ogni regione dovrebbe, inoltre, essere oggetto di una

scienza filosofica speciale, tale da permetterne una

ricognizione approfondita ed esauriente. Così, ad esempio,

Max Scheler sviluppa un‘analisi fenomenologica dei

―valori materiali‖ che sono alla base dell‘etica, mentre

Edith Stein conduce un‘analisi sulla dimensione religiosa

dell‘esistenza.

Nelle opere posteriori a partire dalle Meditazioni

cartesiane il metodo della riduzione fenomenologica è

applicato da Husserl alla costituzione dell‘io e ai suoi

rapporti con gli altri. La riduzione fenomenologica mette

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immediatamente in luce un io trascendentale che non ha

niente a che fare con l‘io empirico e naturale dell‘uomo.

Difatti l‘io empirico e naturale è già parte del mondo, e di

fronte a lui esiste già il mondo come esistono gli altri io.

Soltanto l‘io trascendentale si può proporre il problema

della costituzione dell‘io empirico, del mondo in cui esso

vive e degli altri io. Considerare la struttura dell‘io

trascendentale significa cercare la possibilità di tutto ciò

che nell‘io trova origine, in quanto possibilità dell‘io: la

natura, la cultura, il mondo in generale. Con ciò l‘io

trascendentale diventa, in qualche modo, tutta la realtà,

giacché in esso è racchiusa la possibilità di tutto ciò che

esiste. Il pensiero di Husserl in tal modo sembra passare

da una forma di realismo (dottrina dell‘intenzionalità) a un

radicale idealismo per il quale nulla c‘è fuori della

coscienza trascendentale. Ma su questo punto i testi del

filosofo sono piuttosto oscuri e quindi oggetto di

controversie critiche. Innegabile è comunque una certa

tendenza idealistica impressa dall‘ultimo Husserl alla

fenomenologia.

La crisi delle scienze europee

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia

trascendentale è l‘ultima opera di Husserl. Nella Crisi

Husserl denuncia la decadenza che la cultura europea ha

subito per il prevalere del punto di vista oggettivistico

proprio delle scienze naturali. Infatti il mondo della

scienza è un mondo simbolico, costruito secondo

parametri fisico-matematici. Un mondo, insomma, che

cela ciò che Husserl chiama mondo della vita

(Lebenswelt), ossia la dimensione del vissuto e del

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concreto. Questo carattere della scienza, evidente sin dalla

fondazione galileiana della fisica, si è andato sempre più

realizzando nel mondo contemporaneo. In realtà, sostiene

Husserl, la scienza è una realizzazione dello spirito

umano, che presuppone il mondo intuitivo e pre-riflessivo

della vita. Lo stesso scienziato, è. prima di tutto, uomo fra

gli uomini. Di conseguenza, la crisi delle scienze europee

di cui parla Husserl non consiste tanto in una crisi della

loro scientificità, ossia della loro capacità di conoscere con

successo il mondo, quanto nell‘aver perso i contatti con la

dimensione dei bisogni, delle emozioni. degli scopi,

dimenticando che l‘origine, il significato e il fine di tutte

le attività umane è l‘uomo stesso: questa scienza non ha

niente da dirci. La mera scienza dei fatti non ha nulla da

dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi

soggetto. Il mondo della vita, che per un pregiudizio

secolare è rimasto ai margini della riflessione occidentale,

rappresenta quindi il mondo al quale la scienza deve

ritornare, dopo esserne necessariamente partita. Occorre

un ritorno all‘uomo concreto, alle operazioni reali del

soggetto vivente. Non è un rifiuto della tecnica o delle

scienze particolari, ma esige che le tecniche e le scienze

non perdano il fine delle loro operazioni, inventate

dall‘uomo per l‘uomo. I filosofi, in questa prospettiva,

diventano allora funzionari dell‘umanità.

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369

CAPITOLO 21

L‘esistenzialismo e Heidegger

L‘esistenzialismo, oltre che essere una filosofia in senso

stretto, è un clima‘ culturale che ha caratterizzato il

periodo compreso fra i due conflitti mondiali e che ha di

trovato la sua maggiore espressione nel periodo bellico e

postbellico. L‘esistenzialismo risulta definito da una

accentuata sensibilità nei confronti della finitudine umana

e dei dati che la caratterizzano, ossia da ciò che Jaspers

chiama situazioni limite la nascita, la lotta, la sofferenza, il

passare del tempo, la morte ecc. Aspetti che l‘esperienza

drammatica della guerra, con tutto il suo e lascito di orrori

e di distruzioni, ha contribuito a rendere ancora più

evidenti. Parallelamente alla delusione storica nei

confronti della guerra, sulla sensibilità esistenzialista ha

influito la delusione culturale nei confronti degli ideali e

delle correnti di pensiero di tipo ottocentesco. Per questi

motivi, l‘esistenzialismo si è collegato, sin dall‘inizio, con

certe manifestazioni letterarie in cui era più vivo il senso

della problematicità della vita umana (Dostoevskij e

Kafka). Dopo la seconda guerra mondiale la cosiddetta

letteratura esistenzialistica, e in primo luogo l‘opera

letteraria di Sartre, costituisce l‘anello di congiunzione tra

la situazione di quel momento e le forme concettuali

dell‘esistenzialismo, che erano state elaborate in data

anteriore. Infatti questa letteratura si è fermata soprattutto

a descrivere le situazioni umane che recano in sé più

fortemente impressa la traccia della problematicità

radicale dell‘uomo; e perciò ha sottolineato le vicende

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370

meno rispettabili e più tristi, peccaminose o dolorose,

nonché l‘incertezza delle intraprese, sia buone che cattive,

e l‘ambiguità del bene stesso che talora mette capo al suo

contrario. L'esistenzialismo, ricollegandosi a Kierkegaard,

prende le distanze da tutte quelle filosofie ottocentesche e

novecentesche che: 1) misconoscono la finitudine

esistenziale, identificando l‘uomo con l‘Assoluto; 2)

risolvono la singolarità dell‘individuo in un processo

impersonale e totalizzante (lo Spirito, la dialettica della

storia) ove il problema del singolo in quanto tale cessa di

avere importanza; 3) mettono in ombra la rilevanza delle

situazioni-limite dell‘esistenza (nascita, morte,

solitudine...) e degli stati d‘animo che le accompagnano

(angoscia, paura, speranza ecc.); 4) negano la scelta,

ritenendo l‘esistenza un fatto deterministico.

Le figure principali dell‘esistenzialismo, o che hanno

oggettivamente contribuito al diffondersi delle

problematiche esistenzialistiche, sono Heidegger, Jaspers,

Sartre e Marcel. In Italia l‘esistenzialismo ha trovato i suoi

esponenti di spicco in Abbagnano, Paci e Pareyson.

Per molto tempo (dal 1930 al 1945 e oltre) Heidegger è

stato considerato come ―la maggior figura

dell‘esistenzialismo contemporaneo. In seguito, con la

pubblicazione degli inediti degli anni Trenta e dei nuovi

scritti che lo state studioso andava elaborando nello spirito

della svolta, è apparso evidente che il problema centrale di

Heidegger, coerentemente con il programma Ontologico.

di Essere e tempo, non era quello dell‘esistenza‖. bensì

quello dell‘essere. Tuttavia Essere e tempo è un‘analitica

esistenziale, sia pure condotta in vista dell‘elaborazione

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del problema dell‘essere e il protagonista di Essere e

tempo non è l‘essere (che rimane sullo sfondo) bensì

l‘esistenza, che campeggia in tutta la sua specificità e

rilevanza;

Martin HEIDEGGER (1889-1976)

Le opere di Heidegger sono in corso di pubblicazione in

lingua originale con un‘edizione critica completa, che al

momento prevede centodue volumi. La pubblicazione di

Essere e tempo è uno spartiacque importantissimo:

Heidegger ne interrompe infatti la redazione e dà inizio ad

una ―svolta‖ decisiva per la sua filosofia. Intanto Essere e

tempo diventa un libro-chiave per lo sviluppo del

movimento esistenzialista. Nel 1929 escono la prolusione

Che cos‘è la metafisica. Kant e il problema della

metafisica e L‘essenza del fondamento, dove Heidegger

avvia a una ricerca sulla metafisica che occupa buona

parte degli scritti prodotti fra gli anni Trenta e Quaranta.

La revisione della storia della metafisica occidentale

prosegue quindi con L’essenza della verità del 1930,

l’Introduzione alla metafisica del 1935, Hoelderlin e

l’essenza della poesia del 1937, La dottrina di Platone

sulla verità del 1942. Anche lo scritto su Nietzsche (1961),

che riunisce le ricerche e i corsi universitari che Heidegger

tenne su questo autore tra il 1936 e il 1946, indica il

problema dell‘essere come ―l‘unica intima cosa comune in

questione nella filosofia occidentale‖ e indaga il modo in

cui Nietzsche si è posto rispetto ad esso. Nel frattempo le

interpretazioni esistenzialiste di Heidegger incalzano: la

Lettera sull’umanismo (1947) serve al filosofo a ribadire

la centralità dell‘Essere nella propria filosofia, a discapito

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372

di qualsiasi lettura di essa in chiave esistenzialista. Gli

anni Cinquanta vedono molti interventi di Heidegger sul

problema della tecnica e molti contributi sull‘arte. La

sempre maggiore attenzione di Heidegger verso il tema del

linguaggio trova in In cammino verso il linguaggio (1959)

una piena espressione.

ESSERE E TEMPO E L‘ESSER-CI

Essere e tempo (1927) è una ricerca sulla questione

ontologica fondamentale, ovvero sul problema del senso

dell‘essere in generale. Heidegger affronta qui tale

problema ―interrogando‖ l‘ente che si fa la domanda sul

senso dell‘essere: questi è l‘uomo, definito come esser-ci,

ente che si ―apre‖ all‘essere. Poiché in ogni domanda si

possono distinguere tre cose: 1° ciò che si domanda; 2° ciò

a cui si domanda o che è interrogato; 3° ciò che si trova

domandando, nella domanda Che cosa è l‘essere? ciò che

si domanda è l‘essere stesso, ciò che si trova è il senso

dell‗essere, ma ciò che si interroga non può essere che un

ente giacché l‘essere è sempre proprio di un ente. Stando

ciò, il primo problema dell‘ontologia è quello di

determinare qual è l'ente che deve essere interrogato, cioè

al quale la domanda sull‘essere è specificamente rivolta.

Ora, questa stessa domanda, con tutto ciò che essa implica

(intendere, comprendere ecc.), è il modo d‘essere di un

ente determinato che è l‘uomo, che perciò possiede un

primato ontologico sugli altri enti in quanto su lui deve

cadere la scelta dell‘interrogato. Questo esistente che noi

stessi sempre siamo, dice Heidegger. e che, fra l‘altro, ha

quella possibilità d‘essere che consiste nel porre il

problema, lo designiamo con il termine Esserci (Dasein).

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In sintesi, nel problema dell‘essere abbiamo un cercato (=

l‘essere), un ricercato (= il senso dell‘essere) e un

interrogato (= l‘uomo o l‘Esserci). L‘analisi del modo

d‘essere dell‘Esserci è dunque essenziale e preliminare per

l‘ontologia, giacché solo interrogando l‘Esserci si può

cercare che cos‘è l‘essere e trovarne il senso. Ma il modo

d‘essere dell‘Esserci è l‘esistenza: l‘analisi di questo modo

d‘essere sarà quindi un‘analitica esistenziale e tale

analitica sarà l‘unica strada per giungere alla

determinazione di quel senso dell‘essere che è il termine

finale dell‘ontologia. In questo modo Heidegger si

propone di individuare la differenza ontologica fra l‘ente e

l‘essere, quindi fra quegli enti che sono ―semplici

presenze‖ utilizzabili (le cose) e quegli enti, gli esseri

umani, che si caratterizzano come ―apertura all‘essere‖,

cioè domanda sull‘essere e su1 suo senso. Il modo

d‘essere caratteristico dell‘esserci è l‘esistenza, intesa

come possibilità di rapportarsi in qualche modo all‘essere.

Heidegger sviluppa quindi nella prima parte del suo scritto

due sezioni fondamentali, dedicate rispettivamente allo

studio dell‘esserci nel suo essere e all‘indagine del senso

dell‘essere.

L‘analitica esistenziale e l‘essere nel mondo Questa prima

parte dell‘indagine viene descritta come ―analitica

esistenziale‖ in base alla distinzione fra la riflessione

―esistenziale‖, che si rivolge all‘ente ponendo la questione

del suo essere, e indagine esistentiva relativa solo all‘ente.

Tale contrapposizione corrisponde, nel linguaggio di

Heidegger, anche a quella fra ―ontologico‖ e ―ontico‖.

Esistenziali sono i ―caratteri d‘essere‖ dell‘esserci come

possibilità, al contrario delle categorie, semplici

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determinazioni dell‘ente. Per Heidegger proprio

dell‘esistenza è l‘essere-nel-mondo, il fatto che l‘uomo è

sempre situato in un orizzonte di relazioni che segna il

campo delle sue possibilità. In questo orizzonte esiste

anzitutto un rapporto con la totalità delle cose come

―utilizzabili‖. Ciò significa che l‘uomo conosce le cose

attraverso la propria intenzionalità, come strumenti per la

realizzazione del proprio progetto di vita. L‘uomo può

così ―prendersi cura‖ delle cose che gli occorrono, mentre

l‘essere di queste ultime corrisponde alla loro utilizzabilità

per lui. Allo stesso tempo l‘uomo si rapporta anche con la

totalità dei significati, rispetto alla quale può attuare un

processo di comprensione. La comprensione è l‘apertura

originaria alla significatività delle cose, da cui può

discendere l‘‖interpretazione‖ come articolazione dei

significati nella comprensione, momento in cui si mette in

evidenza ―qualcosa come qualcosa‖. Visto nel suo

concreto e quotidiano esistere, l‘uomo è in primo luogo un

essere-nel-mondo ossia un prendersi cura delle cose che

gli occorrono: mutarle, manipolarle, ripararle, costruirle

ecc. Poiché per l‘Esserci trovarsi nel mondo significa

prendersi cura delle cose, l‘essere di queste ultime, in

relazione all‘uomo, coincide dunque con il loro poter

essere utilizzate. In altre parole, l‘uomo è nel mondo in

modo tale da progettare il mondo stesso secondo un piano

globale di utilizzabilità, volto a subordinare le cose ai suoi

bisogni e ai suoi scopi. L‘uomo, innanzitutto e per lo più,

non è nel mondo secondo la modalità della conoscenza,

ma secondo la modalità del commercio, ovvero della

manipolazione degli enti. Analogamente, le cose non sono,

innanzitutto e per lo più, oggetti di studio, ma strumenti di

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azione. Tant‘è vero che la semplice-presenza è solo un

modo di essere derivato rispetto alla utilizzabilità, che si

manifesta quando all‘atteggiamento del commercio

subentra quello della contemplazione. Tale prendersi cura

ha le caratteristiche della trascendenza e del progetto.

Infatti, l‘Esserci, trascendendo la realtà di fatto come sì

presenta a prima vista, costituisce (= progetta) la realtà

secondo una totalità di significati facenti capo a lui stesso,

ossia come un insieme di strumenti utilizzabili (la casa per

abitare, il sentiero per camminare, la stella per orientarsi

nella navigazione e così via). Poiché per l‘Esserci trovarsi

nel mondo significa prendersi cura delle cose, l‘essere di

queste ultime, in relazione all‘uomo, coincide dunque con

il loro poter essere utilizzate. In altre parole, l‘uomo è nel

mondo in modo tale da progettare il mondo stesso secondo

un piano globale di utilizzabilità, volto a subordinare le

cose ai suoi bisogni e ai suoi scopi. L‘uomo, innanzitutto e

per lo più, non è nel mondo secondo la modalità della

conoscenza, ma secondo la modalità del commercio,

ovvero della manipolazione degli enti. Analogamente, le

cose non sono, innanzitutto e per lo più, oggetti di studio,

ma strumenti di azione.

Il rapporto con gli altri Come l‘esistenza è sempre un

essere nel mondo, così è anche un essere fra gli altri. Ciò

accade perché la sostanza dell‘uomo non è ‗lo spirito

come sintesi di anima e corpo a partire dal quale si debba

giungere all‘essere delle cose e degli altri, ma è

l‘esistenza, che è fin da principio apertura verso il mondo

e verso gli altri. Come il rapporto tra l‘uomo e le cose è un

prendersi cura delle cose, così il rapporto tra l‘uomo e gli

altri è un aver cura degli altri. L‘essere nel mondo implica

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il rapporto con gli altri. Tale rapporto si esprime attraverso

l‘aver cura, nella forma di semplice ―essere insieme‖ o di

autentico ―consistere‖. Questa duplice possibilità affonda

nel fatto che l‘uomo ―è gettato‖ nel mondo, incontra il

mondo senza averlo scelto, il che può produrre l‘oblio

della verità dell‘essere e la dispersione dell‘uomo nel

mondo dell‘impersonalità collettiva, del ―si dice‖ e ―si fa‖

senza precise motivazioni e giustificazioni. Questa

esistenza inautentica si esprime quindi nella chiacchiera,

nell‘equivoco (per cui si parla senza sapere esattamente di

cosa), nella curiosità come ricerca costante e superficiale

della novità. Il linguaggio, che è per sua natura lo

svelamento dell‘essere, ciò in cui l‘essere stesso si esprime

e prende corpo, diventa nell‘esistenza anonima chiacchiera

inconsistente. Si fonda esclusivamente sul si dice‖ e

obbedisce all‘assioma: ―la cosa sta così perché così si

dice‘. Un‘esistenza così vuota cerca naturalmente di

riempirsi e perciò è protesa verso il nuovo: la curiosità è

quindi l‘altro suo carattere dominante: curiosità non per

l‘essere delle cose ma per la loro apparenza visibile, che

perciò reca con sé l'equivoco. L‘equivoco è il terzo

contrassegno dell‘esistenza anonima che, in preda alle

chiacchiere e alla curiosità, finisce per non sapere neppure

di che si parla.

LA CURA Queste determinazioni non implicano, nel

pensiero di Heidegger, una condanna dell‘esistenza

anonima, giacché l‘analisi esistenziale non pronuncia

giudizì di valore. Essa si limita a riconoscere che

l‘esistenza anonima fa parte della struttura esistenziale

dell‘uomo ed è un suo costitutivo poter essere. Alla base

di questo poter essere c‘è quella che Heidegger chiama la

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deiezione, cioè la caduta dell‘essere dell‘uomo al livello

delle cose del mondo. La totalità di queste determinazioni

dell‘essere dell‘uomo viene compresa nell‘unica

determinazione della Cura. La Cura (nel senso latino del

termine) è la struttura fondamentale dell‘esistenza.

―Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma

all'uomo, la Cura lo possieda finché esso viva‖, ripete

Heidegger con il poeta latino Igino, cui attribuisce

un‘intuizione pre-filosofica della struttura profonda

dell‘esistenza. Si è visto che essere nel mondo significa

per l‘uomo ‗prendersi cura delle cose‖ e aver cura degli

altri‘. L‘esistenza è in primo luogo un essere possibile,

cioè un progettarsi in avanti; ma questo progettarsi in

avanti non fa che cadere all‘indietro, su ciò che già

l‘esistenza è di fatto. Tale è la struttura circolare e perciò

conclusa e compiuta della Cura, in quanto costituisce

l‘essere stesso dell‘uomo.

Esistenza autentica e la morte.

L‘uscita da questa circolarità della cura come modo

d‘essere caratteristico dell‘esistenza inautentica si colloca

nell‘attività di comprensione che l‘uomo può attuare a

partire da se stesso anziché dal mondo, attività che si

collega al senso generale dell‘essere e che è affrontata da

Heidegger nella seconda sezione di Essere e tempo. Qui

egli afferma che la comprensione autentica si fonda su un

riesame della possibilità come modo d‘essere dell‘uomo.

Heidegger sottolinea a questo riguardo anzitutto la natura

incerta o negativa della possibilità, la consapevolezza

umana della morte come possibilità più autentica che

nullifica tutte le altre. La morte, chiarisce Heidegger, non

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è per l‘uomo un termine finale, la conclusione, la fine

della sua esistenza; non è neppure un fatto perché in

quanto tale non è mai la propria morte. Essa è come fine

dell‘Esserci, la possibilità dell‘Esserci più propria,

incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e

insuperabile. La consapevolezza della morte, possibilità

propria, certa, incondizionata, insormontabile dell‘uomo

può essere fuggita nell‘esistenza inautentica, oppure

accettata con la ―decisione anticipatrice‖ di chi sceglie di

essere-per-la-morte, di attuare la comprensione

dell‘impossibilità dell‘esistenza. Ciò si caratterizza

nell‘angoscia come sentimento della possibilità, rottura coi

pregiudizi e apertura al nulla. L‘esistenza quotidiana

anonima è una fuga di fronte alla morte. L‘individuo la

considera come un caso fra i tanti della vita di ogni giorno,

nasconde il suo carattere di possibilità immanente, la sua

natura incondìzìonata e insormontabìle, e cerca di

dìmenticarla, di non pensarci nelle cure quotidiane del

vivere. La decisione anticipatrice progetta invece

l‘esistenza autentica come un essere-per-la-morte. Tale

essere-per-la-morte non è affatto un tentativo di realizzarla

(suicidio). Poiché la morte, esistenzialmente parlando e

una possibilità essa non puo venire intesa e realizzata che

come pura minaccia sospesa sull‘uomo. Non è neppure

un‘attesa, perché anche l‘attesa non mira che alla

realizzazione, e la realizzazione nega la possibilità come

tale. Essere-per-la-morte significa procedere al di là delle

illusioni del Si, cioè dell‘esistenza anonima, e, tramite un

atto di libertà, accettare la possibilità più propria del nostro

destino. Il tempo è dunque il senso generale dell‘essere.

―Tempo ed essere‖, avrebbe dunque dovuto costituire

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l‘ulteriore sviluppo di Essere e tempo: tuttavia Heidegger

rinuncia a svolgerlo.

INCOMPIUTEZZA DI ESSERE E TEMPO

Stabilito che il senso dell‘Esserci è la temporalità e che il

tempo, essendo l‘Esserci l‘interrogato di base

dell‘ontologia, rappresenta l‘orizzonte di ogni

comprensione e di ogni interpretazione dell‘essere,

Heidegger avrebbe dovuto passare alla sezione intitolata

Tempo ed essere, relativa al ‗problema del senso

dell‘essere in generale. Ma tale sezione non è mai stata

scritta.In questa sezione doveva essere discusso quel

―problema del senso dell‘essere in generale‖. Perché

Heidegger ha interrotto la sua costruzione? E in che senso,

dopo Essere e tempo, si parla di una svolta‘ (Kehre) del

suo pensiero?

La svolta

In Essere e tempo, dopo aver citato un passo del Sofista

platonico (È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari

con ciò che intendete quando usate l‘espressione

―essente‖; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo

senz‘altro, ma ora siamo caduti nella perplessità),

Heidegger commenta: ―Abbiamo noi oggi una risposta alla

domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la

parola ―essente‖? Per nulla. È dunque necessario

riproporre il problema del senso dell‘essere. Ma siamo

almeno in uno stato di perplessità per il fatto di non

comprendere l‘espressione ―essere‖? Per nulla. In altri

termini, oltre a non possedere una risposta al problema

dell‘essere noi abbiamo anche smarrito il senso e

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l‘importanza di tale problema. Da ciò la necessità di una

sua esplicita riproposizione. Riproposizione che, in Essere

e tempo, passa attraverso un‘analisi del modo di essere di

quell‘ente che pone il problema dell‘essere, cioè attraverso

uno studio dell‘uomo in quanto esistenza. Essere e tempo

era un‘opera incompiuta, perché priva della sezione

(―Tempo ed essere‖) in cui doveva essere discusso quel

problema (―il problema del senso dell‘essere in generale‘).

Da ciò la ―svolta‖ (Kehre) del suo pensiero. La svolta non

coincide con un (soggettivo) evento biografico, ma con un

(oggettivo) rovescio della questione dell‘essere. Rovescio

che non allude a un cambiamento del problema centrale di

Heidegger, ma ad un diverso modo di rapportarsi ad esso.

Modo che non consiste più nel risalire all‘essere

muovendo dall‘esistenza, ma nel porsi direttamente

nell‘ottica dell‘essere, cioè nell‘ambito di un‘ indagine

sull‘essere condotta dal punto di vista dell‘essere.

Il problema della metafisica

Essere e tempo era arrivato alla conclusione che l‘Esserci,

in quanto Cura, è temporalità. Questa concezione

dell‘essere alla luce della temporalità. implicava una

contrapposizione di fondo nei confronti della tradizione

occidentale e della sua idea dell‘essere in termini di

―semplice-presenza‖, modellata sulle categorie di sostanza

e permanenza. Da ciò la critica heideggeriana alla

metafisica, che rappresenta una componente di base del

pensiero del ―secondo Heidegger‖. L‘essere, pur non

risoivendosi nell‘ente, tende a configurarsi come la luce o

l‘orizzonte che, tramite l‘Esserci, rende visibile l‘ente. Da

ciò la nozione di differenza ontologica, che Heidegger

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prospetta come il messaggio ultimo di questo scritto,

ovvero la tesi secondo cui l‘essere non è l‘ente e non va

quindi (metafisicamente) confuso con esso. La

comprensione dell‘essere nell‘esistenza in Essere e tempo

porta al problema dell‘essere in sé. Nella Lettera

sull’umanismo, Heidegger affermerà che la sua ―svolta‖

(Kehre) dall‘analitica esistenziale verso l‘analisi del senso

dell‘essere in generale non è stata realizzata perché il

linguaggio, condizionato dalla tradizione concettuale della

metafisica, l‘ha resa impossibile. Il pensiero di Heidegger

successivo a Essere e tempo è dunque incentrato sul

problema della metafisica e della sua storia, nonché sulle

modalità con cui è possibile risalire all‘essere partendo

dall‘essere stesso, pensando ―l‘uomo in rapporto all‘essere

anziché il suo contrario‖. In Che cos’è la metafisica? e

L’essenza del fondamento la metafisica è dunque descritta

come il pensiero che pone il problema dell‘essere

dell‘ente, concependo l‘essere come l‘ente, in qualità di

semplice-presenza. L‘essere viene infatti identificato con

il carattere comune, astratto e indeterminato, di tutti gli

enti, ovvero come causa e fondamento degli enti, come

accade con il Dio della teologia aristotelica e cristiana. Ciò

porta ad oscurare la ―differenza ontologica‖ fra l‘essere

l‘ente e al vero e proprio ―oblio dell‘essere‖ della

metafisica occidentale.

La storia della metafisica Heidegger è convinto che la

storia della metafisica richieda di partire dal problema

dell‘essenza della verità. Per i Greci la verità è svelamento

della natura dell‘essere nel suo originario manifestarsi.

Questo manifestarsi, secondo Heidegger, è opera

dell‘essere stesso che si ―svela‖, si rende visibile. Con

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Platone, tuttavia, il vero diventa l‘idea, etimologicamente

ciò che è ―visibile‖ al nostro intelletto. In questo caso non

è più l‘essere a manifestarsi, ma lo sguardo dell‘uomo a

coglierlo: la verità ―cade sotto il giogo dell‘idea‖ e si

trasforma in corrispondenza tra l‘idea e la cosa. L‘essere

diviene dunque presenza effettiva e oggetto di valutazione

dell‘uomo e ciò, afferma Heidegger. pone le premesse del

dominio della tecnica.

Arte, linguaggio e tecnica

Prima però di giungere ad esaminare questo discorso,

dobbiamo notare che Heidegger tenta nel corso degli anni

Trenta di giungere ad una ridefinizione del problema

dell‘essere a partire dall‘arte e dalla poesia. A partire dalla

nozione di verità come ―svelamento‖ dell‘essere

(realizzato dall‘essere stesso e non dall‘uomo), Heidegger

vede nella poesia e nell‘opera d‘arte in genere quelle

caratteristiche di ―apertura‖ che permettono lo svelamento

dell‘essere. Esse creano dunque ―eventi‖ per la verità,

sono ―esperienze di verità‖ o sue ―messe in opera‖. Che

cos‘è un‘opera d‘arte? Dopo aver distinto fra semplice

cosa, mezzo e opera e dopo aver mostrato l‘insufficienza

delle definizioni tradizionali della cosa (la cosa come

portatrice qualità, come ciò che è percepito dai sensi,

come materia formata), Heidegger mostra )me per

comprendere l‘essere-cosa della cosa e l‘essere-strumento

del mezzo sia indispensabile muovere dall‘opera, intesa

come opera d‘arte. Secondo Heidegger, l‘arte si configura

me ‗il porsi-in opera-della verità. Poiché la verità coincide

con il non-esser-nascosto dell‘ente, dire che l‘arte è la

messa in opera della verità significa che il nucleo

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dell‘opera d‘arte è quello di mostrare la verità dell‘ente e

quindi, in prima battuta, il significato autentico delle cose

e dei mezzi. Heidegger illustra queste tesi con un

riferimento al celebre quadro di Van Gogh, raffigurante un

paio di scarpe da contadina: ―Nell‘orificio oscuro

dall‘interno logoro si palesa la fatica del cammino

percorso lavorando, Nel massiccio pesantore della

calzatura è concentrata la durezza del lento procedere

lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal

vento ostile. Il cuoio è impregnato dell‘umidore e dal

turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine

del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe

passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono

di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell‘abbandono

invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la

sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al

bisogno, il tremore dell‘annuncio della nascita, l‘angoscia

della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla

terra, e il mondo della contadina lo custodisce‖. Nell‘arte è

la verità stessa — e quindi l‘essere — che si mette in

opera. E poiché l‘essere coincide con la radura al cui

interno gli enti diventano visibili, ossia con l‘aprirsi delle

varie aperture storiche e dei vari orizzonti di senso, dire

che l‘arte è messa in opera della verità significa dire che

l‘arte è l‘automanifestazione stessa dell‘essere in quanto

radura dell‘ente e accadere di aperture storiche.

Il linguaggio Il tema della poesia ci porta a rivolgerci più

in generale al linguaggio, che Heidegger definisce ―casa

dell‘essere‖. Nella raccolta di saggi In cammino verso il

linguaggio, la più nota su questo argomento e dotata di

grandi influssi sulla filosofia ermeneutica, Heidegger trae

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le sue considerazioni soprattutto dalla riflessione sui

linguaggio poetico e su alcune poesie di autori come Trakl

e George. A questo riguardo egli sostiene che la nostra

esperienza del linguaggio e della parola consiste nel

riconoscere in essi ciò che conferisce alle cose il loro

essere: ―l‘essere di tutto ciò che è abita nella parola‖, il

linguaggio ―fa venire alla presenza‖ ciò che è e non si

lascia fissare come cosa. In questo senso il linguaggio

poetico, centrato sul ―mistero della parola‖, si contrappone

al parlare ―strumentalizzato‖ e all‘‖informazione‖. A

differenza di quanto ritengono le definizioni tradizionali, il

linguaggio non è un semplice segno o strumento di

comunicazione (concezione strumentalistica del

linguaggio). Esso è piuttosto la casa dell‘essere‖, ovvero il

luogo in cui si eventualizza l‘evento dell‘essere: Da ciò il

―circolo ermeneutico che è proprio del linguaggio. Anzi, il

linguaggio è la forma tipica e concreta in cui esiste il

circolo ermeneutico. Il linguaggio che meglio rivela

l‘essenza del linguaggio e che più di ogni altro si

contrappone alla concezione strumentalistica di esso è il

linguaggio poetico. Solo in quest‘ultimo, e non in qualsiasi

linguaggio (ad es. nel linguaggio logico-matematico),

avviene l‘automanifestazione dell‘essere: ―Il destino del

mondo si annuncia nella poesia‖. La parola poetica

coincide quindi con l‘area del Dire primordiale e,

instaurando il contesto linguistico entro cui le cose

vengono all‘essere, si configura, per definizione, come

creatrice di civiltà e cultura, I poeti forniscono a un popolo

la sua identità. e istituiscono usanze e costumi,

presentandosi come gli autentici inventori della cultura di

un popolo (e del complesso dei significati civili, etici,

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Storia della filosofia Paolo Rebaudo ________________________________________________________________________________________________________

385

religiosi ecc, in cui essa si incarna). Tutto ciò fa sì che il

pensiero del secondo Heidegger si concretizzi in un

assiduo colloquio con gli antichi filosofi greci e con la

voce dei poeti. Nei frammenti di Anassimandro e

Parmenide, negli aforismi di Eraclito, nella lirica di

Hoelderlin, Rilke e Trakl Heidegger cerca spunti preziosi

per pensare l‘enigma dell‘essere. Hoelderlìn, in

particolare, viene eletto a interprete privilegiato della

modernità e dei problemi del presente.

La tecnica Nella riflessione heideggeriana ha un ruolo

fondamentale, a partire dagli anni Trenta, anche la tecnica.

La metafisica trova il proprio compimento nella tecnica,

che è la metafisica realizzata a livello planetario, A partire

dagli anni Trenta, anche per influsso di Scheler e di Ernst

Jùnger, Heidegger comincia a scorgere, nella tecnica, la

figura epocale tipica del nostro tempo, ossia il fenomeno

che qualifica, in tutti i suoi aspetti, la civiltà

contemporanea. Per Heidegger l‘importanza della tecnica

nella cultura occidentale scaturisce direttamente

dall‘‖oblio dell‘essere‖, a partire dal quale la filosofia si è

volta allo studio degli enti, che devono essere conosciuti

con la scienza e dominati con la tecnica. Ne La questione

della tecnica (1953) Heidegger afferma dunque che ormai

è la potenza tecnica, che foggia gli strumenti scientifici, la

condizione per acquisire scienza della natura: è dunque la

tecnica a ―fare‖ la verità, la quale muta con il mutare degli

strumenti che pro-vocano, che chiamano la realtà innanzi a

noi. La tecnica era pensata dai Greci in termini di pro-

duzione, ossia come un rendere manifesto (o dis-velato)

ciò che prima non era tale (ad es. chi costruisce una cosa o

modella un calice manifesta, o porta alla presenza,

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qualcosa che prima risultava assente). Anche la tecnica

moderna, prosegue Heidegger, è un modo del

disvelamento, che tuttavia non si dispiega nella forma

della semplice produzione. ma in quella della pro-

vocazione, ossia del trarre fiori dalla natura energia da

accumulare e da impiegare. In altri termini, a differenza

della tecnica degli antichi, che si limitava a favorire

l‘opera della natura e a seguirla nei suoi autonomi

meccanismi, la tecnica dei moderni si configura come

un‘accumulazione di energia naturale messa a

disposizione dell‘uomo.Tuttavia il disvelare tecnico è

sottoposto alle logiche di dominio della tecnica stessa: non

vi è più verità assoluta, la verità viene, di volta in volta,

decisa per scopi strumentali e provvisori. Poiché, inoltre,

la tecnica è stata sviluppata per dominare il reale, essa

cessa di essere ―strumento‖ e istituisce un controllo totale

e planetario, una signoria sulla natura al cui interno

l‘uomo è semplice ―funzionario‖, in quanto il suo modo di

sentire, percepire, pensare, progettare è deciso dalla

tecnica.

Heidegger è stato, a giudizio di molti suoi allievi illustri,

una personalità straordinaria, la cui adesione al nazismo è

stata percepita da molti con forte sconcerto e con grave

perplessità rispetto al significato stesso che possono

assumere le figure e gli atteggiamenti dei filosofi di fronte

alla storia. Lasciata da parte tale questione, si deve tuttavia

riconoscere che la filosofia di Heidegger ha prodotto la

nascita di importanti sviluppi speculativi in almeno tre

grandi direzioni, la cui cerniera è rappresentata dal

passaggio dall‘analitica esistenziale di Essere e tempo alla

riflessione sulla metafisica, sui linguaggio, sull‘arte, sulla

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tecnica. Abbiamo già accennato che Essere e tempo

influenza vastamente il pensiero esistenzialista (e in parte

anche quello fenomenologico, stante che la fenomenologia

di Husserl è perlomeno l‘alveo in cui Essere e tempo viene

concepito). Da ciò è nata la questione interpretativa circa

l‘esistenzialismo di Heidegger. questione cui hanno dato

alimento anche le esplicite prese di distanza del filosofo da

queste tematiche. Senza voler approfondire, si potrebbe

dire che in un certo senso Heidegger è stato un

esistenzialista suo malgrado, nel senso di avere messo a

punto, pur rivolgendosi verso l‘essere, una serie di concetti

e riflessioni cruciali per la tradizione di riflessione

esistenzialista. La sua filosofia successiva ad Essere e

tempo ha poi avuto almeno due chiavi di lettura distinte:

da una parte quella dell‘Ermeneutica, che ha colto nella

storicizzazione dell‘essere e nella centralità del linguaggio

le basi per la costruzione di una filosofia dell‘uomo

attraverso il tema complessivo dell‘interpretazione,

dall‘altra quella di tutti i pensatori post-strutturalisti e

postmoderni che hanno fatta propria soprattutto la lettura

<nichilista‖ dell‘heideggerismo, portando avanti tematiche

come quella della ―morte dell‘uomo‖, della decostruzione,

della ―fine dei grandi racconti‖ e, talora, spunti per la

ricostruzione di nuovi valori e dimensioni di senso.

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CAPITOLO 22

H.G. Gadamer

Sebbene l‘umanità sia sempre stata alle prese con

problemi di tipo interpretativo, ossia con la necessità di

risalire da determinati segni al loro significato. rendendo

chiaro ciò che a prima vista risulta oscuro (un‘iscrizione,

una legge, un testo religioso o poetico ecc.), l‘ermeneutica,

intesa come metodologia o teoria elaborata

dell‘interpretazione, è un prodotto tipicamente moderno.

A partire dal Rinascimento e dalla Riforma protestante,

l‘ermeneutica, inizialmente ristretta nel campo specifico

dell‘esegesi dotta (tarda antichità) o dell‘esegesi biblica

(cristianesimo) si è aperta a questioni riguardanti ogni tipo

di testo. Con Heidegger il comprendere si configura come

una delle strutture costitutive dell‘Esserci e ad Heidegger

si rifà esplicitamente Gadamer. Il nome ermeneutica (che

derisa da hermenéia, un termine greco affine al latino

sermo) contiene in sé una famiglia di significati, come

―esprimere‖, ―portare messaggi‖, ‗tradurre‖. Heidegger,

con una connessione forzata, lo fa derivare da Hermes, il

nunzio degli dèi. Gadamer dichiara che lo scopo della sua

indagine non è quello di fissare una serie della di norme

tecniche del processo interpretativo, ma quello di mettere

in luce le condizioni del comprendere. Come Kant non

aveva avuto l‘intenzione di prescrivere alla scienza le

norme del suo procedimento, ma si era limitato a porre il

problema filosofico delle condizioni che lo rendono

possibili la conoscenza e la scienza, così Gadamer non si

propone di esibire una metodologia normativa per le

scienze dello spirito, ma solo di suscitare un dibattito

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filosofico circa le condizioni di possibilità della

comprensione. In secondo luogo, Gadamer intende

mostrare come il comprendere non sia uno dei possibili

atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad ambiti

particolari della sua :unto. esperienza, ma coincida con ―il

modo d‘essere dell‘esistenza come tale‖. In terzo luogo,

Gadamer si propone di illustrare come nel comprendere si

realizzi un‘esperienza di verità irriducibile al ―metodo‖

della scienza, ossia a quel tipo di sapere che persegue

l‘ideale di una conoscenza obiettiva e neutrale del mondo.

Da ciò il rapporto di tensione‘, suggerito dal titolo del

capolavoro di Gadamer, fra verità (ermeneutica) e metodo

(scientifico). Ci sono esperienze extrametodiche di verità

che, pur collocandosi al di fuori dell‘area conoscitiva della

scienza, risultano fondamentali per l‘uomo: l‘arte, la storia

ecc.: La ricerca che segue si oppone alla pretesa di

universale dominio della metodologia scientifica. Il suo

intento è quello di studiare, ovunque essa si dia,

l‘esperienza di verità che oltrepassa l‘ambito sottoposto al

controllo della metodologia scientifica, e di ricercarne la

specifica legittimazione. Le scienze dello spirito vengono

così ad avvicinarsi a quei tipi di esperienza che stanno al

di fuori della scienza: all‘esperienza filosofica.

La teoria dell‘arte

Gadamer critica la tendenza moderna a scorgere, nel fatto

artistico, una zona asettica dello spirito, che non avrebbe

più nulla da spartire 1) con la realtà della vita; 2) con le

questioni del vero e del falso. A questa teoria dell‘arte

come bella apparenza, derivante dal fatto che ―il dominio

del modello conoscitivo delle scienze naturali conduce a

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screditare ogni possibilità di conoscenza che si collochi

fuori di questo nuovo ambito metodologico, Gadamer fa

corrispondere la coscienza estetica, la cui operazione

tipica è di mettere in moto un processo astraente, che

consiste nella separazione dell‘opera dal suo contesto

vitale originario e nella fruizione del suo puro valore

estetico. Un esempio concreto di tutto ciò è il museo, nel

quale l‘opera d‘arte viene strappata al suo mondo

originario per divenire patrimonio di un‘atemporale

coscienza estetica. Parallelamente, assistiamo ad un‘opera

di sradicamento sociale dell‘artista, il quale viene

assimilato ad un outsider a un bohèmien, privo di radici e

di ruoli definiti. Contro questo modo di rapportarsi al

fenomeno estetico, Gadamer obietta che l‘arte non è una

fantasticheria surreale priva di qualsiasi portata veritativa

e di qualsiasi effetto concreto. L‘arte non è un evento

onirico, ma un‘esperienza del mondo e nel mondo che

modifica radicalmente chi la fa, ampliando la

comprensione che egli ha di se stesso e della realtà che lo

circonda. Un poema, un dipinto o una sinfonia sono eventi

che aprono un mondo, che offrono un‘illuminazione del

senso delle cose. La fruizione dell‘opera d‘arte comporta il

problema più generale dell‘interpretazione, ossia della

messa in luce, per il presente, del significato proprio del

passato.

Il circolo ermeneutico

Gadamer sostiene che l‘interpretante può accedere

all‘interpretato solo tramite una serie di ―pre-

comprensioni‖ o di ―pre-giudizi‖. Lungi dall‘essere una

tabula rasa, la mente dell‘interprete è abitata da un insieme

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di attese o di schemi di senso, ovvero da una molteplicità

di ―linee orientative provvisorie‖, che costituiscono, nel

loro insieme, delle preliminari ipotesi di decodificazione

dell‘interpretato stesso. Questa situazione circolare, per

cui ciò che si deve comprendere è già in parte compreso,

costituisce il cosiddetto a ―circolo ermeneutico‖.

Heidegger ci avrebbe fatto capire come il problema non

sia quello di sbarazzarsi del circolo, ma di acquistarne

coscienza, mettendo ―alla prova‖ i pregiudizi che lo

costituiscono e mostrandosi eventualmente disposti — di

fronte all‘urto‖ con i testi — a rinnovare le proprie

presupposizioni. Tanto più che i primi ―urti‖ del soggetto

interpretante con l‘oggetto interpretato rivelano, di solito,

l‘inadeguatezza delle pre-comprensioni iniziali,

obbligando l‘interpretans a ritornare su di esse, a rivederle

e a correggerle, tramite un reiterato confronto con

l‘interpretandum. Quindi, il circolo ermeneutico non

comporta una chiusura dell‘interpretante in se stesso, ma

una sua programmatica apertura all‘alterità del testo. Chi

vuoi comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi

dire qualcosa da esso.

Pregiudizi e tradizione

La teoria del circolo ermeneutico si accompagna alla

riabilitazione dei pregiudizi, dell‘autorità e della

tradizione. Gadamer chiarisce come i pregiudizi non siano

qualcosa di necessariamente falso, poiché accanto a

pregiudizi falsi e illegittimi esistono pregiudizi veri e

legittimi: ―Un‘analisi sulla storia dei concetti dimostra che

solo nell‘illuminismo il concetto di pregiudizio acquista

l‘accentuazione negativa che ora gli è abitualmente

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connessa. Di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio

che viene pronunciato prima di un esame completo e

definitivo di tutti gli elementi obbiettivamente rilevanti.

Gadamer mette in luce come i pregiudizi facciano parte

integrante della nostra realtà di esseri sociali e storici, in

quanto noi ci comprendiamo secondo schemi nella

famiglia, nella società e nello Stato. Gadamer ha tentato

una riabilitazione filosofica dell‘idea di autorità,

affermando che essa non implica obbedienza cieca e

abdicazione alla ragione e alla libertà, Intesa in modo

umano ossia come legame fra persone ragionevoli

l‘autorità risiede piuttosto in un atto di riconoscimento e di

conoscenza. Adeguatamente concepita, l‘autorità si basa

quindi su di una scelta della ragione dell‘individuo, che,

conscio dei suoi limiti, concede fiducia al giudizio altrui.

Per quanto concerne la tradizione, Gadamer chiarisce

come sia la lotta illuministica alla tradizione, sia la sua

riabilitazione romantica non colgono la sua essenza

storica‘. In ogni caso, l‘uomo non può collocarsi fuori

della tradizione, poiché quest‘ultima fa parte della

sostanza storica del suo essere. Secondo Gadamer. il

lavoro ermeneutico implica una tensione fra estraneità e

familiarità, Infatti, se l‘intepretandum fosse

completamente estraneo, l‘impresa ermeneutica sarebbe

condannata allo scacco, mentre se fosse completamente

familiare, non avrebbe senso lo sforzo interpretativo. Di

conseguenza. si deve ammettere che l‘interpretandum,

rispetto all‘interpretans, risulta estraneo e familiare nello

stesso tempo. La lontananza temporale fra interpretante e

interpretato non è un abisso vuoto, ma uno spazio riempito

dalla tradizione. Questa circostanza trova un‘illustrazione

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nell‘importante (e complesso) concetto di storia degli

effetti, che allude al fatto che l‘interprete può accingersi al

compito interpretativo solo sulla base di una serie di

interpretazioni già date, ovvero sulla scorta degli effetti

prodotti da un determinato evento. Al principio della storia

degli effetti corrisponde ―la coscienza della

determinazione storica‖ ossia la consapevolezza della

nostra storicità costitutiva o del nostro essere esposti agli

effetti della storia. Coscienza che ci impedisce di studiare

la storia da un preteso punto di vista ―neutrale‖ e quindi, di

fatto, meta-storico. Appurata la storicità invalicabile del

nostro essere e del nostro comprendere, l‘incontro

ermeneutico non potrà più consistere, secondo Gadamer,

in un ingenuo tentativo di mettere tra parentesi se stessi ed

il proprio presente, ma in una fusione di orizzonti dove il

proprio tempo non è annullato, ma posto al servizio della

comprensione del tempo altrui. L‘attività ermeneutica

assume quindi la forma di un dialogo fra presente e

passato. Gadamer vede platonicamente nel dialogo il

fulcro dell‘esperienza ermeneutica. Il testo ci pone

determinate domande e noi, sollecitati dal suo interrogare,

poniamo ad esso nuovi interrogativi. nell‘ambito di un

processo infinito, nel quale ogni risposta si configura

come una nuova domanda. I concetti di ―coscienza della

determinazione storica‖ e di ―fusione degli orizzonti‖

escludono la possibilità di un sapere assoluto.

Essere linguaggio e verità

Nella terza sezione di Verità e metodo Gadamer prende in

considerazione il linguaggio, mostrando come tutti i

caratteri dell‘esperienza ermeneutica esistano solo come

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linguaggio. Anzi, respingendo la concezione

strumentalistica del linguaggio, cioè la dottrina secondo

cui esso sia un insieme di immagini (della realtà) oppure

di ―segni‖ (convenzionali) per esprimere un mondo già

pre-linguisticamente noto, Gadamer sostiene che il

linguaggio è tutt‘uno con la nostra esperienza concreta

delle cose, al punto che non c‘è cosa dove vien meno il

linguaggio‖, poiché ―la parola ―appartiene‖ in qualche

modo alla cosa stessa, e non è qualcosa come un segno

accidentale legato esteriormente alla cosa. Questa

riconosciuta assolutezza e intrascendibilità del linguaggio,

motivata dal fatto che ogni incontro con le cosa si risolve

in un incontro linguistico, porta Gadamer alla tesi-chiave

della sua ontologia ermeneutica, cioè all‘affermazione

secondo cui l‘essere, che può venir compreso, è

linguaggio. Tutte le forme di vita sono linguaggio e come

tali possono venir comprese. Questa identificazione

dell‘essere con il linguaggio per Gadamer rappresenta la

condizione stessa dell‘ermeneutica. Dire che l‘essere è

linguaggio significa dire che l‘essere in generale e l‘essere

umano in particolare — che sussiste concretamente sotto

forma di discorsi, libri, opere d‘arte ecc. — è

interpretazione. Da ciò l‘equazione essere = linguaggio =

interpretazione. Equazione che suggerisce l‘idea di un

autodisvelamento dell‘essere nel linguaggio e

nell‘interpretazione. Autodisvelamento che per Gadamer

ha il carattere di un processo interminabile. Nelle ultime

pagine di Verità e metodo Gadamer spiega il concetto

della verità come eventualità extrametodica mediante il

concetto di gioco. Con l‘idea di gioco, inteso come un

processo che possiede un primato rispetto ai suoi

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protagonisti, Gadamer ribadisce come la verità (e il

linguaggio in cui essa si manifesta) sia un evento di cui

l‘uomo non è il soggetto, ma il tramite. Infatti, nel ―gioco‖

della verità e del linguaggio, chi gioca veramente non è

l‘uomo, ma la verità e il linguaggio.

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CAPITOLO 23

Il Neopositivismo

Per neopositivismo o positivismo logico si intende la

corrente filosofica che, pur condividendo con il

positivismo ottocentesco il primato della razionalità

scientifica, se ne differenzia strutturalmente sia per un

concetto più critico della scienza, sia per l‘attenzione

prestata all‘aspetto logico-linguistico della scienza stessa e

per il ricorso sistematico agli strumenti della logica

formale, sia per una tendenza più empiristica. Il Circolo di

Vienna era un cenacolo di filosofi e scienziati che si

incontrarono periodicamente nella capitale austriaca prima

e dopo la prima guerra mondiale. Neurath, Hahn e Carnap

nel 1929 scrissero un manifesto intitolato La concezione

scientifica del mondo. I punti principali del programma: lo

scopo di raggiungere l‘unificazione della scienza; 2)

l‘enfasi posta sul lavoro collettivo degli scienziati; 3)

l‘identificazione del metodo della chiarificazione

concettuale con l‘analisi logica;4) il programma di

distruzione della metafisica5) lo sviluppo di linguaggi

formali che rettifichino le oscurità del linguaggio

ordinario;6) il rifiuto di ogni apriorismo.

Circoli di Vienna e Berlino

La prima fase del Circolo di Vienna fu costituita da alcune

riunioni svoltesi a partire dal 1907 fra il matematico Hahn,

il fisico Frank e il filosofo e sociologo Neurath. Questi

studiosi si riunivano il giovedì sera in un caffè della

vecchia Vienna per discutere sia di questioni generali di

filosofia della scienza. Nel 1922 Schlick venne chiamato a

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Vienna a occupare la cattedra di filosofia delle scienze

induttive del defunto Mach e ancora prima di Boltzmann.

Sorto ufficialmente nel 1928 sotto la presidenza dello

stesso Schlick vi parteciparono molti ricercatori (da Hahn

a Frank, da Neurath a Feigl a Waismann). Al Circolo di

Vienna fu collegato il gruppo di Berlino che si costituì nel

1927 con il nome di ―Società di filosofia empirica‖ intorno

a Hans Reichenbach e che includeva fra gli altri K. Lewin,

W. Kòhler, R. von Mises e C. G, Hempel e W. Dubislav,

oltre a diversi medici e psicologi. La collaborazione tra i

due gruppi fu stabilita soprattutto dalla rivista Erkenntnis.

Con l‘annessione dell‘Austria alla Germania nazista nel

1938 la diffusione degli scritti degli aderenti al movimento

fu vietata nei Paesi di lingua tedesca e il Circolo si

disperse definitivamente. I rappresentanti del

neoempirismo trasferitisi negli Stati Uniti. Nacque così

l‘Enciclopedia internazionale della scienza unificata che si

comincia pubblicare a Chicago nel 1938 sotto la direzione

di Neurath, Carnap e Morris e ha raccolto monografie

dovute a scienziati e filosofi di molti paesi.

Il neopositivismo, almeno nella sua prima fase, è

rappresentato da una serie di autori che, pur

differenziandosi fra di loro per specifiche posizioni

teoriche, risultano per lo più accomunati da talune

convinzioni di fondo che possono venire riassunte e

schematizzate nel modo seguente:

1) le uniche proposizioni che hanno significato

conoscitivo sono quelle suscettibili di verifica empirica o

fattuale (criterio di significanza);

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2) poiché la scienza si basa sulla verifica, essa rappresenta

l‘attività conoscitiva per eccellenza;

3) le proposizioni della metafisica sono proposizioni senza

senso nell‘ambito della conoscenza, in quanto trascendono

l‘orizzonte dell‘umanamente verificabile. In altri termini,

ciò che il neopositivismo rimprovera alla metafisica non è

la falsità o l‘infondatezza, ma l‘insensatezza delle sue

dichiarazioni, che sono costituite da parole senza senso. Di

conseguenza, come scrive Schlick, l‘empirista non

dichiara al metafisico: ―le tue parole affermano il falso‖,

ma, piuttosto: ―le tue parole non affermano assolutamente

nulla‖

4) attività come la metafisica, l‘etica e la religione non

forniscono conoscenze, ma semplici manifestazioni di un

atteggiamento emotivo verso l‘esistenza;

5) gli enunciati significanti possono venire classificati

secondo la dicotomia instaurata da Hume tra enunciati che

concernono relazioni tra idee (come quelli della

matematica) ed enunciati che concernono fatti (come

quelli della fisica). I primi sono delle tautologie che hanno

in se stesse la loro verità (come quando diciamo che il

triangolo ha tre lati), i secondi sono veri solo se

testimoniati dall‘esperienza. Con Kant i primi sono

enunciati analitici, i secondi sono enunciati sintetici;

6) la filosofia non è una scienza, ma un‘attività

chiarificatrice che ha come compito principale l‘analisi del

linguaggio sensato della scienza e la denuncia di quello

insensato della metafisica.

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7) la scienza, al di là della differenziazione delle singole

discipline, è una sola; questo consente di elaborare una

visione unitaria o unificata del sapere che comprende sia

le scienze naturali sia le scienze sociali come l‘economia,

la storia, la politica.

8) il discorso scientifico è esclusivamente logico e

formale; ha in altre parole il compito di tradurre le

procedure scientifiche in modelli linguistici aventi valore

predittivo e normativo.

Moritz Schlick e il principio di Verificazione. L‘uomo

intorno a cui si raccolse il Circolo di Vienna, Moritz

Schlick (1882-1936), benché di tendenze politiche

sostanzialmente conservatrici, fu assassinato sulla

scalinata dell‘Università di Vienna. La filosofia non è una

scienza, ma un‘attività, e il suo scopo è un rigoroso

accertamento dei termini di cui fa uso. La parte più

importante del pensiero di Schlick è il principio di

verificazione, che egli esprime dicendo che una questione

è di principio risolvibile se possiamo immaginare le

esperienze che dovremmo avere per darle una risposta.

Questa teoria sottintende ovviamente una distinzione tra

verificabilità di principio e verificabilità di fatto, in quanto

una tesi attualmente inverificabile, come sull‘altra faccia

della luna esistono montagne di tremila metri, può

benissimo essere verificata in futuro. Anzi, essa

rimarrebbe significante anche se sapessimo con certezza

che non si potrà mai raggiungere la superficie dell‘altra

faccia della luna. perché la verificazione resterebbe

sempre concepibile. Di conseguenza, coerentemente con il

suo principio, Schlick sostiene che il significato di una

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proposizione è il metodo della sua verifica . Con questo

slogan Schlick intende appunto affermare che un

enunciato risulta sensato soltanto quando esistono

procedure empiriche atte a verificarne o falsificarne la

validità. In caso contrario ci troviamo nel regno della

metafisica, la quale, non offrendo un metodo per la

verifica empirica dei propri enunciati, risulta senza senso.

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CAPITOLO 24

K.R. Popper e le nuove epistemologie

Karl R. Popper nasce a Vienna nel 1902, ove studia

filosofia, matematica e fisica. Nel 1934. ma con data 1935

pubblica La logica della ricerca, edita successivamente in

inglese con il titolo Logica della scoperta scientifica

(1959). Con l‘avvento del nazismo, si trasferisce in Nuova

Zelanda, dove scrive La miseria dello storicismo (1945) e

La società aperta e i suoi nemici (1945). Alla fine della

guerra si stabilisce a Londra.Congetture e confutazioni

(1963); Conoscenza oggettiva (1972): La ricerca non ha

fine (1974, ne. 1976): L‘io e il suo cervello (1977, con

Eccles); I due problemi fondamentali della conoscenza

(1979); Poscritto alla logica della scoperta scientifica

(1982). Muore a Londra nel 1994.

POPPER, IL NEOPOSITIVISMO E EINSTEIN Il

rapporto fra Popper e il neopositivismo rappresenta uno

dei problemi più controversi e discussi. A tal proposito,

sono state elaborate più interpretazioni. La più fondata

sostiene che quella di Popper non sarebbe né

un‘epistemologia sostanzialmente riconducibile al

neopositivismo né una critica e un‘alternativa radicale ad

esso, bensì una posizione intermedia. L‘influenza più

importante di tutte l‘ha esercitata Einstein. E' possibile

dire che la rivoluzione epistemologica di Popper

rappresenti il riflesso, in filosofia, della rivoluzione

scientifica compiuta da Einstein in fisica. Popper rimase

colpito dal fatto che Einstein avesse formulato delle

previsioni rischiose, ossia dal fatto che le sue teorie, a

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differenza di quelle del marxismo e della psicoanalisi

fossero programmaticamente organizzate non in vista di

facili conferme (o ―verificazioni‖) ma in vista di possibili

smentite (o ―falsificazioni‖), In secondo luogo, Popper

trasse da Einstein la conclusione che le teorie scientifiche

non sono verità assolute, ma semplici ipotesi o congetture

destinate a rimanere tali. In altre parole, Popper ha tratto

da Einstein principi di fondo della sua epistemologia: il

falsificazionismo e il fallibilismo.

Il ruolo della filosofia

La trattazione del pensiero di Popper può essere divisa in

due grandi sezioni: l‘epistemologia e la politica.

Innanzitutto, egli afferma che il suo interesse non si

rivolge soltanto alla teoria iella conoscenza scientifica,

bensì alla teoria della conoscenza in generale, pur

aggiungendo che ―lo studio dell‘accrescersi della

conoscenza scientifica è il modo più proficuo di studiare

l'accrescersi della conoscenza‖. In primo luogo egli

ribadisce la necessità della filosofia: tutti gli uomini sono

filosofi, perché in un modo o nell‘altro assumono un

atteggiamento nei confronti della vita e della morte. In

secondo luogo, insiste sul fatto che, come esistono teorie

scientifiche o politiche, perché esistono problemi

scientifici o politici, così esistono le teorie filosofiche

perché esistono problemi di natura filosofica. Popper ha

continuato a scorgere, nella filosofia, la disciplina dei

grandi problemi, avvertendo che la filosofia ha sempre a

che fare con la conoscenza della realtà e non con vuote

parole. Questa visione ampia del filosofare risulta

confermata dalla concomitante rivalutazione dei

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presocratici e del problema cosmologico. Gli interrogativi

cui i presocratici tentarono di dare risposta vertevano

principalmente sulla cosmologia, ma essi si posero anche

questioni intorno alla teoria della conoscenza. Sono

convinto che la filosofia deve rivolgersi di nuovo ai

problemi della cosmologia e a una semplice teoria della

conoscenza.

LE DOTTRINE EPISTEMOLOGICHE Il punto di

partenza di Popper è la ricerca di un criterio di

demarcazione fra scienza e non-scienza, intendendo, per

demarcazione. la linea di confine fra le asserzioni delle

scienze empiriche e le altre asserzioni. Secondo un

radicato luogo comune. elevato ad assioma filosofico dal

neopositivismo, una teoria risulta scientifica nella misura

in cui può essere ―verificata‖ dall‘esperienza. In realtà,

ribatte Popper, il verificazìonismo è un mito o un‘utopia.

in quanto, per verificare completamente una teoria o una

legge, dovremmo aver presenti tutti i casi. Ma ciò non è

possibile. Infatti, da una somma, per quanto ampia, ma pur

sempre limitata, di casi particolari non potrà mai scaturire

una legge universale. Inoltre, mentre le conseguenze di

una teoria sono di numero infinito, i controlli effettivi

della medesima sono di numero finito. Ma se il principio

di verificazione non è atto a definire lo status scientifico di

una teoria, a quale principio ci ispireremo? Stimolato dal

modello di Einstein Popper rintraccia tale principio nel

criterio di falsificabilità. Secondo tale criterio una teoria è

scientifica nella misura in cui può venir smentita

dall‘esperienza; ovvero se i suoi enunciati risultano in

potenziale conflìtto con eventuali osservazioni. Una teoria

è classificabile come scientifica nella misura in cui

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dispone di un sistema di controlli empirici, ossia quando

esibisce, nella forma delle asserzioni-base, delle possibili

esperienze falsificanti: Un'asserzione o teoria è

falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore

potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri

logicamente in conflitto con essa. Ad esempio.

l‘asserzione domani pioverà o non pioverà non è empirica

(analogamente alle proposizioni classiche della metafisica)

in quanto non può essere confutata, mentre è empirica

(analogamente alle proposizioni della scienza) l‘asserzione

―domani pioverà. Detto altrimenti, una teoria che non

possa venir contraddetta da nessuna osservazione non ha

un contenuto empirico e non dice nulla di scientificamente

valido intorno al mondo. Al contrario, più numerose sono

le possibili esperienze falsificanti, cioè i cosiddetti

―falsificatori potenziali‖ cui può fare riferimento una

teoria, più ricco appare il suo contenuto empirico e

scientifico.

ASSERZIONI DI BASE Le asserzioni-base sono quegli

enunciati elementari, aventi la forma di asserzioni

singolari di esistenza (ad es. ―nel luogo K c‘è un indice‖),

che risultano intersoggettivamente controllabili e sulla cui

accettazione esiste un accordo di fondo tra gli osservatori

scientifici. Il valore delle asserzioni-base, secondo Popper,

non dipende da proprietà intrinseche, ma da una

―decisione‖ dei ricercatori, ossia dal fatto che gli scienziati

di un certo periodo storico si trovano d‘accordo nel

ritenerle valide e nell‘usarle come mezzi di controllo delle

teorie. Poiché la comunità dei ricercatori può sempre

decidere di metterle in discussione, ne segue che la base

empirica del sapere risulta priva di qualsiasi assolutezza e

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che alla tradizionale immagine della scienza come edificio

stabile basato su una solida roccia bisogna contrapporre

l‘innovativa immagine della scienza come costruzione

precaria eretta su fragili palafitte: La scienza non posa su

un solido strato di roccia. L‘ardita struttura delle sue teorie

si eleva, per così dire. sopra una palude. E come un

edificio costruito su palafitte. (Logica). Le asserzioni-base

non fungono da base del sapere scientifico in senso

cronologico o logico ma in senso metodologico. Le

asserzioni-base effettivamente accettate costituiscono il

punto di partenza del concreto meccanismo di controllo di

una teoria. Senza le asserzioni-base che denotano ‗eventi

osservabili‖, non esisterebbe il sapere intersoggettivo della

scienza.‘‖Se un giorno gli osservatori scientifici non

potessero più mettersi d‘accordo sulle asserzioni-base ciò

significherebbe un fallimento del linguaggio come mezzo

di comunicazione universale.

TEORIA DELLA CORROBORAZIONE La ―superiorità‖

epistemologica del principio di falsificabilità, che insiste

sul valore della smentita rispetto a quello della conferma,

deriva, secondo Popper, dalla asimmetria logica fra

verificabilità e falsificabilità, ossia dal fatto che miliardi e

miliardi di conferme non rendono certa una teoria, mentre

basta un solo fatto negativo per confortarla (ad es nessuna

osservazione particolare di soli cigni bianchi sarà mai in

grado di giustificare la validità della tesi generale ―tutti i

cigni sono bianchi, mentre basta l‘osservazione di un solo

cigno nero per smentirla). Popper ritiene che le teorie, pur

non potendo essere verificate, ma solo, eventualmente,

falsificate, possano tuttavia venir ‗corroborate‖. Un‘ipotesi

teorica è corroborata quando ha superato il confronto con

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un‘esperienza potenzialmente falsificante. Il fatto che una

teoria sia ―più corroborata (di altre) non significa che essa

sia ‗più vera‖ (di altre). La corroborazione non è un indice

di verità, ma uno strumento per stabilire ―la preferenza

rispetto alla verità. Questo significa che la corroborazione,

pur non potendo fungere da (definitivo) criterio di

giustificazione delle teorie, può fungere da (temporaneo)

criterio di scelta fra ipotesi rivali.

La metafisica

Il criterio di falsificabilità è semplicemente un criterio di

demarcazione atto a distinguere, all‘interno delle teorie

significanti, quelle scientifiche da quelle non-scientifiche.

Di conseguenza, per quanto riguarda la metafisica, questa

certamente non è una scienza, non essendo falsificabile.

Ma questo non significa che sia senza senso (anche se non

disponiamo di strumenti atti a controllare la validità delle

affermazioni metafisiche). Inoltre la metafisica ha spesso

svolto una funzione propulsiva nei confronti della scienza.

Infatti, dal punto di vista psicologico, la ricerca empirica

risulta impossibile senza la fede in idee metafisiche

generali. Ad esempio, per quanto concerne la cosmologia,

da Talete ad Einstein, sono state e idee metafisiche a

indicare la strada. Anzi, in taluni casi, idee che prima

erano metafisiche (es. l‘atomismo) si sono trasformate in

dottrine scientifiche.

Critica al marxismo e alla psicanalisi

Molto più duro risulta l‘atteggiamento di Popper nei

confronti del marxismo e della psicoanalisi. Lo studio di

una qualunque di queste teorie generali sembrava avere

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l‘effetto di una conversione o rivelazione intellettuale, che

consentiva di levare gli occhi su una nuova verità. Una

volta dischiusi in questo modo gli occhi, si scorgevano

ovunque delle "conferme". Mentre la dottrina di Einstein

si presenta con un potere esplicativo limitato e risulta

aperta a possibili smentite, marxismo e psicanalisi sono

dottrine onni-esplicative a maglie larghe che appaiono: a)

dotate di insufficiente falsificabilità; b) dirette ad aggirare

possibili smentite tramite continue ipotesi di salvataggio.

Ad esempio, per quanto riguarda il marxismo, le

previsioni, connesse a taluni suoi enunciati originari (come

l‘analisi della incombente rivoluzione sociale) erano

controllabili, e, di fatto, vennero falsificate. Tuttavia,

invece di prendere atto di tali confutazioni i seguaci

originari di Marx reinterpretarono sia la teoria, sia le prove

empiriche, per farle concordare. Così salvarono la teoria,

ma a condizione di renderla inconfutabile (e quindi non-

scientifica).

Congetture e confutazioni

Popper si presenta, a prima vista, come un tipico filosofo

del Metodo. In realtà, la posizione del filosofo su questo

argomento è più articolata di quanto sembri. Infatti, da un

lato, contro tutta la tradizione dell‘empirismo, Popper

afferma, testualmente, che non c‘è alcun metodo per

scoprire una teoria scientifica, sostenendo che le teorie

sono l‘esito di congetture audaci e di intuizioni creative e

non l‘esito di procedimenti da manuale (non esiste una

macchina scopritrice che assolva la funzione generativa

del genio). Le ipotesi hanno un numero imprecisato di

sorgenti: dalla riflessione alla fantasia. Anzi, l‘origine di

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molte teorie scientifiche è palesemente extra-scientifica.

Ovviamente le idee, una volta trovate, devono essere

provate. Ed è a questo punto che interviene il principio di

falsificabilità il quale proclama che una teoria è scientifica

solo nella misura in cui può essere smentita

dall‘esperienza. ―Tutta la mia concezione del metodo

scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di

questi tre passi: 1) inciampiamo in qualche problema; 2)

tentiamo di risolverlo, per esempio proponendo qualche

nuova teoria; 3) impariamo dai nostri errori, in particolare

da quelli su cui ci richiama la discussione critica dei nostri

tentativi di soluzione, una discussione che tende a

condurci a nuovi problemi. O per dirla in tre parole:

problemi - teorie – critica‖. Questo metodo non è altro che

il procedimento per prova ed errore, che consiste nel

rispondere a un problema mediante un‘ipotesi che deve

venir sottoposta al vaglio critico dell‘esperienza.

La critica dell‘induzione

Per una tradizione di pensiero che va da Bacone ai giorni

nostri, osserva Popper, la scienza si fonda sull‘induzione,

intesa come procedimento che va dal particolare

all‘universale. In realtà,, sostiene categoricamente Popper,

l‘induzione, concepita come procedimento di

giustificazione delle teorie, non esiste. Infatti, per quanto

numerose possano essere le osservazioni singolari, esse

non sono mai capaci di produrre teorie universali (―per

quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo

aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i

cigni sono bianchi‖). Questa impotenza strutturale

dell‘induzione trova un‘emblematica illustrazione nella

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vicenda del ―tacchino induttivista‖ raccontata da B.

Russell. Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che,

nell‘allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il

cibo alle 9 del mattino. E da induttivista eseguì ulteriori

osservazioni in tutti i tipi di circostanze: di mercoledì e di

giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che

piovesse sia che splendesse il sole. Così, arricchiva ogni

giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in

condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza

induttivista fu soddisfatta ed elaborò un‘inferenza

induttiva come questa: ―Mi danno il cibo alle nove del

mattino‖, Purtroppo, però, questa conclusione si rivelò

incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando,

invece di venir nutrito, fu sgozzato. Popper ritiene che la

propria dottrina epistemologica sia sintesi di due teorie

classiche della conoscenza: una sintesi di elementi di

razionalismo e di empirismo. Infatti, da un lato essa fa

proprio l‘orientamento deduttivistico del razionalismo e

dall‘altro accetta l‘insegnamento di fondo dell‘empirismo

moderno, secondo cui è solo l‘esperienza che può aiutarci

a decidere in merito alla validità di un‘ipotesi. La critica

dell‘induzione si accompagna ad un rifiuto

dell‘osservazionismo, ossia della teoria secondo la quale

lo scienziato osserva la natura senza presupposti o ipotesi

precostituite. In realtà, la nostra mente non è un recipiente

vuoto ma un faro che illumina, ossia un deposito di

ipotesi, consce o inconsce, alla luce delle quali percepiamo

la realtà. Per cui, nell‘accostarci ai presunti ―fatti‖, noi

siamo già da sempre impregnati‘ di teoria. In altre parole,

invece di darci ―dati puri‖, l‘osservazione risulta ―carica di

teoria‖.

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Popper e Kant

La teoria della mente come faro può richiamare la nota tesi

kantiana secondo cui il nostro intelletto non deriva i propri

schemi mentali dalla natura, ma li impone ad essa. Popper

stesso sottolinea l‘affinità, ma puntualizza

immediatamente la differenza, affermando che mentre per

Kant gli schemi della mente sono necessariamente validi,

in quanto la natura non può contraddirli, per il

falsificazionista essi sono delle semplici ipotesi che

l‘esperienza può smentire all‘istante. In altri termini, pur

essendo psicologicarnente e logicamente a priori, le

aspettative della nostra mente non sono

gnoseologicamente valide a priori. Kant ha ragione

quando afferma che il nostro intelletto non trae le proprie

leggi dalla natura, ma le impone ad essa, ma sbaglia nel

ritenere che tali leggi siano necessariamente vere. La

natura, assai spesso, si oppone molto efficacemente,

costringendoci ad abbandonare le nostre leggi in quanto

confutate.

Scienza e verità

Per Popper la scienza non è un sapere definitivo e

assolutamente certo, in quanto le sue dichiarazioni sono e

restano ipotesi. Detto altrimenti, la scienza non ha a che

fare con la ―Verità‖, ma con semplici congetture. Del resto

le teorie non sono mai verificate, ossia portate nel regno

delle verità immutabili, ma semplicemente corroborate,

ossia temporaneamente non-falsificate. Popper afferma

invece: 1) che il nostro sapere è strutturalmente

problematico e incerto: 2) che la scienza possiede, come

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tratto costitutivo, la fallibilità; 3) che il classico problema

di come possiamo giustificare la nostra conoscenza risulta

privo di senso; 4) che all‘uomo non compete il possesso

della verità, ma solo la ricerca, mai conclusa, di essa. Da

ciò la connessione fra popperismo e socratismo. Infatti,

sostenendo che tutte le conoscenze umane sono incerte e

che ―la ricerca non ha fine‖, il fallibilismo si presenta

come una sorta di ripresa odierna, in chiave

epistemologica, del socratismo: il fallibilismo è nient‘altro

che il non-sapere socratico. Secondo Popper, Io scopo

della scienza non è la verità ma il raggiungimento di teorie

sempre più verosimili, ovvero sempre più vicine all‘ideale

di una descrizione esauriente del mondo. In altri termini,

dire che una teoria è migliore di un‘altra e che realizza un

certo progresso nei suoi confronti, equivale a dire, per

Popper, che ―essa appare più vicina alla verità‖.

Il realismo dell‘ultimo Popper

La visione fallibilistica della scienza si accompagna, in

Popper, al rifiuto di due classiche posizioni

epistemologiche: l‘essenzialismo (secondo cui le teorie

scientifiche descrivono la natura essenziale della realtà) e

lo strumentalismo (secondo cui le teorie scientifiche sono

solo utili strumenti di previsione). Il rifiuto dello

strumentalismo si è ulteriormente accentuato nelle ultime

opere e sta alla base della ripresa popperiana del realismo.

Infatti, se in un primo tempo il nostro autore sembrava

vicino a tesi di tipo convenzionalistico, in un secondo

tempo è andato esplicitamente elaborando una teoria

realistico-obiettivistica basata sulla definizione della verità

come corrispondenza fra proposizioni e fatti: chiamiamo

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―vera‖ un‘asserzione se coincide con i fatti, se corrisponde

ai fatti, o se le cose sono tali quali l‘asserzione le presenta.

È questo il concetto cosiddetto assoluto o obiettivo di

verità. Questo esito realistico risponde all‘esigenza di

evitare il relativismo implicito in quelle posizioni di

pensiero che, non distinguendo fra teoria e fatti, risultano

prive di un criterio atto a valutare la consistenza delle

teorie stesse. In altri termini, l‘ipotesi realistica‘ appare

l‘unica in grado di ―rammentarci che le nostre idee

possono essere errate. Infatti, in antitesi alle

―degenerazioni dell‘epistemologia post-positivistica

l‘ultimo Popper sostiene che le teorie scientifiche, pur

essendo un costrutto della nostra mente, debbano poter

―cozzare contro la realtà. Un aspetto del realismo

dell‘ultimo Popper è la cosiddetta teoria dei tre mondi. Il

Mondo I è quello delle cose, cioè degli oggetti fisici e dei

fatti naturali. Il Mondo 2 è quello delle esperienze

soggettive, cioè degli stati di coscienza, dei pensieri. dei

sentimenti ecc. Il Mondo 3 è costituito dai contenuti del

nostro pensiero, ovvero dalle teorie (non solo scientifiche,

ma anche metafisiche, religiose, mitiche ecc.) le quali

sono oggettive (in quanto non dipendono dagli stati

d‘animo e trascendono gli individui) e altrettanto reali

quanto ―i tavoli e le sedie fisiche‖.

Le dottrine politiche

Le opere in cui Popper tratta di problemi riguardanti la

società e la politica sono Miseria dello storicismo e La

società aperta e i suoi nemici. L‘originalità di questi lavori

consiste nel tentativo di difendere le ragioni della libertà e

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del pluralismo con argomentazioni di natura

epistemologica.

Popper include nel concetto di storicismo tutte quelle

filosofie che hanno preteso di cogliere un senso globale

oggettivo della storia (il marxismo ma anche le più antiche

dottrine del mondo). Non esiste, secondo Popper, un senso

della storia pre-costituito rispetto alle interpretazioni e alle

decisioni umane poiché la storia assume il senso che gli

uomini le danno. Ma l‘errore metodologico più grave dello

storicismo ―oracolare‖, secondo Popper, è quello di far

confusione fra leggi e tendenze. Partendo dalla

convinzione che se è possibile per l‘astronomia predire le

eclissi, lo storicismo, fondandosi su talune tendenze della

società, crede di poter predire il futuro ―inevitabile‖ delle

cose umane. In tal modo, esso dimentica che una

previsione, per essere veramente scientifica‖, deve basarsi

su di una legge e non su una tendenza, che può perdurare

per centinaia di anni, come ad esempio l‘aumento della

popolazione. ma può anche cambiare in un decennio o in

due anni.

La democrazia

Popper pone un‘antitesi fra ―società chiusa‖ e ―società

aperta‖, e approfondisce i concetti di totalitarismo e di

democrazia. La contrapposizione bergsoniana fra società

chiusa e società aperta viene utilizzata da Popper per

focalizzare l‘irriducibile contrasto fra una società

organizzata secondo norme rigide di comportamento (e

basata su di un controllo ―soffocante‖ della collettività

sull‘individuo) ed una società fondata sulla salvaguardia

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delle libertà dei suoi membri, mediante istituzioni

democratiche autocorregibili. aperte alla critica razionale e

alle proposte di riforma. A cominciare da Eraclito

(portavoce della più arrabbiata aristocrazia greca) e da

Platone (esponente della reazione alla società aperta

incarnata dalla democrazia ateniese e teorico di un

modello statale ―organicistico‖) sino a Hegel

(rappresentante di uno statalismo antidemocratico) e a

Marx (profeta di un collettivismo totalitario), lo storicismo

non ha fatto che accompagnarsi a posizioni politiche

autoritarie e foriere di sofferenze e di sventure per

l‘umanità. L‘anti-totalitarismo di Popper mette capo ad

una dottrina della democrazia, che costituisce una delle

parti più interessanti e notevoli dell‘opera di questo

filosofo. La democrazia è stata tradizionalmente definita in

relazione al soggetto cui viene attribuito il potere: ―il

popolo‖ o la ―maggioranza‖. Tutto ciò, secondo Popper,

serve a poco se non si aggiunge che la democrazia si

identifica con la possibilità, da parte dei governati, di

controllare i governanti, mediante una serie di istituzioni

―strategiche‖ — fra cui le elezioni — che consentano il

mantenimento o il licenziamento dei governanti, senza

dover ricorrere alla violenza. Di conseguenza, la classica

domanda: ―Chi deve esercitare il potere nello Stato?‘,

puntualizza Popper, importa molto di meno rispetto alle

domande,‘‖ Come è esercitato il potere? e ―Quanto è il

potere esercitato?‖. Volendo tracciare una linea di

demarcazione fra democrazia e dittatura, Popper. in uno

dei passi più rilevanti de La società aperta e i suoi nemici

scrive:1. La democrazia non può compiutamente

caratterizzarsi solo come governo della maggioranza,

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benché l‘istituzione delle elezioni generali sia della

massima importanza. Infatti una maggioranza può

governare in maniera tirannica (La maggioranza di coloro

che hanno una statura inferiore a 6 piedi può decidere che

sia la minoranza di coloro che hanno statura superiore a 6

piedi a pagare tutte le tasse). In una democrazia, i poteri

dei governanti devono essere limitati ed il criterio di una

democrazia è questo: in una democrazia i governanti —

cioè il governo — possono essere licenziati dai governati

senza spargimenti di sangue. Quindi se gli uomini al

potere non salvaguardano quelle istituzioni che assicurano

alla minoranza la possibilità di lavorare per un

cambiamento pacifico, il loro governo è una tirannia.2.

Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo,

cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti

gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.3. Una

costituzione democratica consistente deve escludere

soltanto un tipo di cambiamento nel sistema legale, cioè

quel tipo di cambiamento che può mettere in pericolo il

suo carattere democratico. 4. In una democrazia,

l‘integrale protezione delle minoranze non deve estendersi

a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che

incitano gli altri al rovesciamento violento della

democrazia.5. Una linea politica volta all‘instaurazione di

istituzioni intese alla salvaguardia della democrazia deve

sempre operare in base al presupposto che ci possono

essere tendenze anti-democratiche latenti sia fra i

governati che fra i governanti. 6. Se la democrazia è

distrutta, tutti i diritti sono distrutti: anche se fossero

mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governanti,

essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione. 7. La

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democrazia offre un prezioso campo di battaglia per

qualsiasi riforma ragionevole dato che essa permette

l‘attuazione di riforme senza violenza.

RIFORMISMO GRADUALISTA La difesa popperiana

della democrazia si accompagna ad una critica

dell‘atteggiamento rivoluzionario e ad un‘esaltazione del

metodo riformista. Al metodo rivoluzionario, da lui

definito di ―meccanica utopistica‖, Popper contrappone il

programma della tecnologia sociale ―a spizzico‖, che

prescrive interventi limitati e graduali. Di conseguenza,

Popper ritiene che il metodo riformista e gradualista

possegga una netta superiorità su quello rivoluzionario

perché: 1) evita di promettere ‗paradisi‘ che alla prova dei

fatti si rivelano degli ―inferni‖; 2) non pone dei fini

assoluti che legittimino anche i mezzi più ripugnanti in

vista del loro presunto raggiungimento; 3) procede per via

sperimentale, essendo disposta a correggere mezzi e fini in

base alle circostanze concrete e ai risultati ottenuti; 4)

riesce a dominare meglio i mutamenti sociali, senza

trovarsi in situazioni impreviste e difficili, tali da facilitare

l‘avvento di una dittatura traditrice degli ideali stessi della

rivoluzione.

L‘epistemologia post-positivistica

Con l‘espressione epistemologia post-positivistica si

intende quel tipo di filosofia della scienza che ha assunto

posizioni radicalmente critiche nei confronti del

neopositivismo e di Popper. Fra i tratti salienti di tale

epistemologia troviamo: 1) l‘anti-empirismo e l‘anti-

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fattualismo, ossia la convinzione che i fatti sono dati solo

all‘interno di teorie; 2) l‘attenzione per la configurazione

storico-concreta del sapere scientifico ; 3) la messa in luce

dei condizionamenti extra-scientifici (sociali, pratici,

metafisici ecc.) cui è sottoposta la scienza, vista come

attività ―impura‖, che non vive esclusivamente nei cieli

cristallini della ―pura‖ teoria; 4) l‘esclusione di una base

empirica neutrale in grado di fungere da criterio di

―verificabilità‖ falsificabilità delle teorie; 5) la negazione

di un presunto ―metodo‖ fisso del sapere e di ogni rigida

―demarcazione‖ della scienza rispetto alle altre attività

umane: 6) il rifiuto del mito della Ragione e il

ridimensionamento del valore conoscitivo ed esistenziale

della scienza; 7) la propensione a considerare le teorie non

in termini di ―verità‖, bensì di ―consenso‖; 8) la

contestazione dell‘epistemologia tradizionale e dei suoi

classici interrogativi

T. Kuhn

Lo storico e filosofo statunitense Thomas Kuhn è autore di

La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), nella

quale, utilizzando le sue ricerche di storico della scienza,

egli ha elaborato una concezione epistemologica originale,

secondo cui le nuove dottrine non sorgono né dalle

verificazioni né dalle falsificazioni, ma dalla sostituzione

del modello esplicativo vigente (paradigma) con uno

nuovo. Infatti, secondo Kuhn, lo sviluppo storico della

scienza si articola in periodi di ―scienza normale‖ e in

periodi di ―rotture rivoluzionarie‖, I primi qualificati dal

prevalere di determinati paradigmi, ossia di complessi

organizzati di teorie, di modelli di ricerca e di pratiche

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sperimentali ―ai quali una particolare comunità scientifica,

per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di

costituire il fondamento della sua prassi ulteriore.

L‘astronomia tolemaica e quella copernicana, la dinamica

di Aristotele e quella di Newton, l‘ottica corpuscolare e

quella ondulatoria ecc., sono altrettanti esempi di

paradigmi. Kuhn ritiene che la scienza normale entri in

crisi per un sommarsi di anomalie, ossia di eventi nuovi e

insospettati, che gli scienziati del periodo ancora normale,

portati ad evitare il cambiamento e le novità sensazionali,

cercano di incasellare nel vecchio modello esplicativo.

Essi cercano piuttosto di riformularlo e di correggerlo. Ma

ciò fa sì che le crepe all‘interno del vecchio sistema

aumentino, sino a produrre una vera e propria crisi

rivoluzionaria. Crisi che comporta l‘abbandono del

vecchio paradigma e l‘accettazione di un nuovo sistema,

che obbliga il ricercatore a guardare il mondo in maniera

completamente diversa. Di conseguenza, i vari paradigmi

che si succedono nella storia della scienza rimandano.

secondo Kuhn. a quadri concettuali completamente

diversi, fra loro incommensurabili. L‘accettazione di un

nuovo paradigma può avvenire per ogni genere di ragioni.

Alcune di queste ragioni — ad es. il culto del sole che

contribuì a convertire Keplero al copernicanesimo — si

trovano completamente al di fuori della sfera della

scienza. Altre ragioni possono dipendere da paure

autobiografiche e personali. Persino la nazionalità

dell‘innovatore e dei suoi maestri può talvolta svolgere

una funzione importante. Negli anni successivi. Kuhn ha

cercato di articolare meglio la sua dottrina. attenuando

quegli aspetti di essa che potevano dar luogo alle accuse di

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irrazionalismo e di relativismo. Egli ha parlato ad esempio

di taluni criteri che presiederebbero alla scelta di teorie

rivali (accuratezza, coerenza, semplicità, redditività); ha

proposto, in luogo del troppo generico concetto di

paradigma, quello di matrice disciplinare (disciplinare

perché è il possesso degli esperti di una disciplina

professionale e ―matrice‘ perché è formata da elementi

ordinati di vario tipo, ciascuno dei quali richiede una

ulteriore specificazione).

I. Lakatos

L‘ungherese Imre Lakatos (1922-1974) ha insegnato a

Londra accanto a Popper, dal quale ha subito profondi

influssi. I suoi scritti maggiori sono La falsificazione e La

metodologia dei programmi di ricerca scientifica.

Alla base del pensiero di Lakatos sta un serrato confronto

con Kuhn e Popper. Vicino alle posizioni razionalistiche

di Popper, Lakatos contesta Kuhn per avere assimilato le

rivoluzioni scientifiche a delle ―conversioni‖ religiose,

derivanti da un irrazionale cambiamento di fede‘. Per

quanto concerne Popper, pur riconoscendo (a differenza di

Kuhn) come il suo falsificazionismo non sia rimasto ad

uno stadio ―dogmatico‖, ma si sia evoluto in senso

―metodologico‖, Lakatos afferma che una prospettiva

scientifica entra in crisi e viene sostituita non a causa di

presunti ‗esperimenti cruciali‖. ma grazie al presentarsi di

una prospettiva rivale: ―gli scienziati hanno la pelle dura,

Non abbandonano una teoria solo perché alcuni fatti la

contraddicono. Gli scienziati parlano di anomalie, di casi

recalcitranti, mai di confutazioni‖. Lakatos teorizza una

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concezione della storia della scienza come di una serie di

programmi di ricerca in razionale confronto fra di loro. Per

programma di ricerca scientifico si intende una

costellazione di teorie scientifiche coerenti fra di loro ed

obbedienti ad alcune regole metodologiche fissate da una

determinata comunità scientifica. Un programma di

ricerca è costituito da un ―nucleo ritenuto inconfutabile ―in

virtù di una decisione metodologica dei suoi sostenitori‖.

Attorno al nucleo troviamo una ―cintura protettiva

costituita da ―ipotesi ausiliarie‖ aventi la funzione di

rappresentare uno ―schermo‖ per la difesa del nucleo. Un

programma di ricerca è valido finché si mantiene

progressivo, ovvero ―fin quando continua a predire fatti

nuovi con un certo successo. Viceversa, è regressivo o in

stagnazione, come accade anche in quei programmi

scientifici degeneri che sono il marxismo e la psicanalisi,

se si limita ad inventare teorie ―solo al fine di accogliere i

fatti noti‖ o si limita a dare spiegazioni post hoc di

scoperte casuali o difatti anticipati, e scoperti, nell‘ambito

di un programma rivale. Di conseguenza, le rivoluzioni

scientifiche non accadono in seguito ad irrazionali

mutamenti di prospettiva da parte degli scienziati ma in

seguito a delle razionali decisioni, da parte della comunità

dei ricercatori, di sostituire programmi ormai ―regressivi‖

con programmi all‘altezza della situazione. E' solo con il

senno del poi, si pensi all‘ipotesi copernicana, che si può

stabilire con sicurezza il carattere regressivo o progressivo

di un certo programma.

Paul K. Feyerahend

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Paul K. Feyerahend (1924-), di origine tedesca e

professore universitario negli Stati Uniti, è forse il

pensatore più noto e discusso dei post-positivisti. Fra le

sue opere principali: Contro il metodo (1975); La scienza

in una società libera (1978)

Feyerabend propone una ―epistemologia anarchica‖

fondata sulla convinzione secondo cui non esiste alcun

metodo scientifico che stia alla base di ogni progetto di

ricerca e lo renda scientifico. ―Nel libro Contro il metodo

ho tentato di dimostrare che i procedimenti della scienza

non si conformano ad uno schema comune, che non sono

―razionali‖ in riferimento a nessuno schema del genere.

Gli uomini intelligenti non si lasciano limitare da norme,

regole, metodi, ma sono opportunisti, ossia utilizzano quei

mezzi mentali e materiali che, all‘interno di una

determinata situazione, si rivelano i più idonei al

raggiungimento del proprio fine‖. Questa tesi, che mette

capo ai principio polemico ―anything goes‖ (tutto può

andar bene). è stata attaccata, sostiene Feyerabend, dai

―benpensanti‖ preoccupati delle sorti della ricerca umana.

In realtà tutti costoro sono degli analfabeti, oppure dei

―lettori della domenica‖. Infatti essi non si sono resi conto

che l‘epistemologia anarchica non è che la presa di

coscienza del fatto storico che non esiste neppure una

regola, per quanto plausibile e ―logica‖ possa sembrare,

che non sia stata spesso violata durante lo sviluppo delle

singole scienze. Tali violazioni non furono eventi

accidentali o conseguenze evitabili dell‘ignoranza e della

disattenzione. Esse erano necessarie perché, nelle

condizioni date, si potesse conseguire il progresso. Eventi

come l‘invenzione della teoria atomica nell‘antichità

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(Leucippo), la rivoluzione copernicana, lo sviluppo

dell‘atomismo moderno (Dalton: la teoria cinetica dei gas;

la stereochimica: la teoria quantistica), la graduale

affermazione della teoria ondulatoria della luce si

verificarono solo perché alcuni ricercatori o si decisero a

non seguire certe regole ―ovvie‖ o perché le violarono

inconsciamente...‖. Difendere l‘epistemologia anarchica

ed un conseguente pluralismo teorico e metodologico non

significa dunque distruggere regole o criteri nell‘ambito

della pratica scientifica, ma farsi paladini della libera

inventività della scienza al di là di qualsiasi metodologia

prefissata: ―Io non raccomando alcuna ―metodologia‖, ma

al contrario affermo che l‘invenzione, la verifica,

l‘applicazione di regole e criteri metodologici sono di

competenza della ricerca scientifica‖.

Altro tema caratteristico di Feyerabend è la tesi secondo

cui i fatti non esistono ―nudi‖, al di fuori delle teorie, ma

soltanto nell‘ambito di determinati ―quadri‖ mentali, in

quanto lo scienziato ―vede‖ solo ciò che questi ultimi lo

inducono a vedere. Un effetto della teoria dei ―quadri‖ è

che neppure le nozioni più semplici o apparentemente

neutrali della scienza possono venir considerate in modo

universale ed oggettivo, in quanto i loro significati

risultano intrinsecamente connessi ai differenti contesti

teorici entro i quali sono stati formulati (ad esempio il

termine ―massa‖, che assume accezioni diverse a seconda

che si tratti della fisica di Newton o di Einstein). Da ciò il

recupero, in un contesto ancor più radicalizzato, della tesi

di Kuhn circa l‘incommensurabilità delle teorie (come si

possono valutare comparativamente delle teorie che sono

sorte in momenti diversi; che non usano gli stessi termini o

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li adoperano con significati diversi; che non parlano degli

stessi fatti o ne parlano in modo differente; che non hanno

il medesimo fine o scopo ecc.?) ed il parallelo rifiuto della

visione della scienza come ―accumulazione‖ progressiva

di conoscenze (positivisti e neopositivisti) o come

―approssimazione‖ graduale alla verità (Popper) e

l‘adesione ad una prospettiva che affida a criteri di tipo

pragmatico (l‘efficacia, il successo, la capacità di

persuasione ecc.) la preferenza fra le teorie in

competizione. Ma l‘esito forse più caratteristico

dell‘epistemologia di Feyerabend è la distruzione del mito

della Scienza (la scienza non è sacrosanta). Infatti,

denunciando lo strapotere della scienza nel mondo d‘oggi

e battendosi per un ridimensionamento del suo peso

teorico e sociale. Feyerahend dichiara che essa è solo uno

dei molti strumenti inventati dall‘uomo per far fronte al

suo ambiente e che, al di là della scienza, ―esistono miti,

esistono i dogmi della teologia, esiste la metafisica, e ci

sono molti altri modi di costruire una concezione del

mondo. È chiaro che uno scambio fecondo fra la scienza e

tali concezioni del mondo ―non scientifiche‖ avrà bisogno

dell‘anarchismo ancora più di quanto ne ha bisogno la

scienza. L‘anarchismo è quindi non soltanto possibile, ma

necessario tanto per il progresso interno della scienza

quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo

complesso. Feyerabend ipotizza un modello ideale di

società totalmente libera, una forma di coesistenza in cui

vengano riconosciuti uguali diritti ed eguali possibilità di

accesso ai centri di potere sia agli individui, sia alle

diverse tradizioni culturali cui essi appartengono.