riassunto verso una storia del restauro

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1 3. L’ ANTICO E LE PREESISTENZE TRA UMANESIMO E RINASCIMENTO La ripresa dell’ antico da parte di filosofi, letterati, poeti e antiquari produce uno dei più significativi momenti di riavvicinamento al mondo del passato, in modo più complesso e profondo di quanto era stato fatto durante il medioevo. Fin dall’ inizio del ‘400 si assiste alla riscoperta dei testi latini e greci: lo studio di tali codici antichi conduce ad una visione nuova dell’ uomo in rapporto alla natura e al divino, fortemente influenzata dalla filosofia neoplatonica, che si sviluppa soprattutto nella Firenze di Cosimo il Vecchio grazie a figure come Poggio Bracciolini, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola. Proprio per volere di Cosimo nasce a Firenze la prima biblioteca pubblica (sistemata poi successivamente dal nipote Lorenzo il Magnifico su progetto di Michelangelo), mentre in altre regioni italiane si diffondono istituzioni analoghe, come la Biblioteca Vaticana, fondata da papa Niccolo V, e l’ Accademia Pontaniana, sorta a Napoli per volere di Giovanni Pontano. Introdotto alla metà dell’ 800 da studiosi come Michelet e Burckhardt il concetto stesso di Rinascimento è stato più volte messo in discussione e studi approfonditi sul mondo medioevale hanno evidenziato il manifestarsi, già prima del ‘400, di diverse “rinascenze” in particolare all’ epoca di Carlo Magno e poi in quella di Federico II. Il Rinascimento rappresenta soprattutto un’ aspirazione culturale: si riscoprono i testi antichi con l’ intento di rintracciarvi nuovi valori di libertà dell’ individuo, da contrapporre al retaggio medievale di una religiosità intesa in senso terrifico. Il singolo individuo è visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Celebre è l'affermazione attinta dal mondo classico “homo faber ipsius fortunae” (l'uomo è fabbro della propria sorte), una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca, dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo. Queste attese di libertà degli umanisti si confrontano con un’ Italia lacerata dalle guerre (nel 1453 cade Costantinopoli, quindi l’ impero romano), dal timore di invasioni barbariche da parte del mondo turco, dalla crescente corruzione della Chiesa. E’ in questo clima che prende forma la riscoperta dell’ antico, sia dal punto di vista letterario che architettonico: le rovine romane sono percepite dagli umanisti come simbolo della caducità dell’ uomo e delle sue alterne sorti. 1 Inoltre il passato che le personalità del Rinascimento aspiravano a rievocare non era qualcosa di aulico e mitologico, ma anzi, tramite gli strumenti moderni della filologia e della storia, essi cercavano una fisionomia dell'antico più vera e autentica possibile. All’ inizio del ‘400 Roma consisteva in enormi ruderi coperti di vegetazione, malinconici e decadenti, e in piccoli tuguri che rappresentavano tutta l’ edilizia civile di un millennio. Si consolida l’ interpretazione delle rovine come segni di una magnificenza ormai perduta, ma anche di una possibile rinascita, fondata su una visione ciclica della storia. Dallo studio delle rovine romane ha origine, verso la metà del XV secolo, la redazione delle prime “guide” della città, a partire dalla Descriptio Urbis Romae di Leon Battista Alberti, fino alla Roma Instaurata di Flavio Biondo (1446), una ricostruzione della topografia romana antica basata sui resti allora visibili, che fornisce anche una lista di chiese e cappelle. Attraverso la guida del Biondo si diffonde il ricorso al metodo induttivo, fondato sull’ analisi diretta delle costruzioni, spesso in contrasto con le testimonianze scritte e le leggende tramandate nel tempo. 2 Agli umanisti si deve anche la “riscoperta” del De Architectura di Vitruvio, noto in età medioevale esclusivamente in ambiente monastico, che si diffonderà in Italia grazie a Boccaccio e Bracciolini, che lo riproporrà nel 1414. Le riproduzioni del testo crescono, ma sarà grazie ad Alberti che il testo vitruviano conoscerà grande fortuna. Attraverso i letterati e gli antiquari l’ attenzione verso l’ antico si diffonde presso gli architetti: il passato inizia ad essere percepito per la sua reale distanza dal presente, ma si riconosce altresì la possibilità di indagarlo, conoscerlo per poi riassorbirlo nel nuovo linguaggio architettonico. Un passato che tuttavia è percepito senza una chiara cognizione della sua storia. Accanto a una diffusa sensibilità per l’ antico perdurano ancora per tutto il ‘400 le spoliazioni dei monumenti antichi, al fine di reimpiegarne i materiali in nuove fabbriche. ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 1 _Bracciolini, passeggiando tra le rovine di Roma inveisce contro la fortuna maligna che aveva trasformato le sedi dei magistrati romani in stalle di maiali, mentre Pio II a Tivoli si lamenta di come le dimore delle antiche regine siano diventate nidi di serpi. 2 _ Un esempio è la vicenda della piramide di Caio Cestio a Roma, interpretata ancora dal Petrarca come la tomba del mitico Remo (Meta Remi) e riconosciuta nella sua realtà storica da Poggio Bracciolini e Paolo Vergerio attraverso lo studio dell’ epigrafe nascosta dalla vegetazione.

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Riassunto del testo Verso Una Storia Del Restauro

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Page 1: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  1

3 .    LL’’  AANNTTIICCOO  EE  LLEE  PPRREEEESSIISSTTEENNZZEE  TTRRAA  UUMMAANNEESSIIMMOO  EE  RRIINNAASSCCIIMMEENNTTOO 

La ripresa dell’ antico da parte di filosofi, letterati, poeti e antiquari produce uno dei più significativi momenti di riavvicinamento al 

mondo del passato, in modo più complesso e profondo di quanto era stato fatto durante il medioevo. 

Fin dall’  inizio del  ‘400 si assiste alla riscoperta dei testi  latini e greci:  lo studio di tali codici antichi conduce ad una visione nuova 

dell’ uomo  in rapporto alla natura e al divino, fortemente  influenzata dalla filosofia neoplatonica, che si sviluppa soprattutto nella 

Firenze  di Cosimo il Vecchio grazie a figure come Poggio Bracciolini, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola. 

Proprio per  volere di Cosimo nasce  a  Firenze  la prima biblioteca pubblica  (sistemata poi  successivamente dal nipote  Lorenzo  il 

Magnifico  su  progetto  di Michelangelo), mentre  in  altre  regioni  italiane  si  diffondono  istituzioni  analoghe,  come  la  Biblioteca 

Vaticana, fondata da papa Niccolo V, e l’ Accademia Pontaniana, sorta a Napoli per volere di Giovanni Pontano.  

 

Introdotto alla metà dell’ 800 da studiosi come Michelet e Burckhardt il concetto stesso di Rinascimento è stato più volte messo in 

discussione e studi approfonditi sul mondo medioevale hanno evidenziato il manifestarsi, già prima del ‘400, di diverse “rinascenze” 

in particolare all’ epoca di Carlo Magno e poi in quella di Federico II. 

Il Rinascimento  rappresenta  soprattutto un’ aspirazione culturale:  si  riscoprono  i  testi antichi con  l’  intento di  rintracciarvi nuovi 

valori di libertà dell’ individuo, da contrapporre al retaggio medievale di una religiosità intesa in senso terrifico. 

Il singolo individuo è visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le 

quali potrà vincere  la Fortuna  (nel senso  latino, "sorte") e dominare  la natura modificandola. Celebre è  l'affermazione attinta dal 

mondo classico “homo faber ipsius fortunae” (l'uomo è fabbro della propria sorte), una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca, 

dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo.  

Queste attese di  libertà degli umanisti si confrontano con un’  Italia  lacerata dalle guerre  (nel 1453 cade Costantinopoli, quindi  l’ 

impero romano), dal timore di invasioni barbariche da parte del mondo turco, dalla crescente corruzione della Chiesa. E’ in questo 

clima che prende forma la riscoperta dell’ antico, sia dal punto di vista letterario che architettonico: le rovine romane sono percepite 

dagli umanisti come simbolo della caducità dell’ uomo e delle sue alterne sorti.1   

Inoltre  il  passato  che  le  personalità  del  Rinascimento  aspiravano  a  rievocare  non  era  qualcosa  di  aulico  e mitologico, ma  anzi, 

tramite gli strumenti moderni della filologia e della storia, essi cercavano una fisionomia dell'antico più vera e autentica possibile. 

All’  inizio  del  ‘400  Roma  consisteva  in  enormi  ruderi  coperti  di  vegetazione, malinconici  e  decadenti,  e  in  piccoli  tuguri  che 

rappresentavano tutta  l’ edilizia civile di un millennio. Si consolida  l’  interpretazione delle rovine come segni di una magnificenza 

ormai perduta, ma anche di una possibile rinascita, fondata su una visione ciclica della storia. 

Dallo studio delle rovine romane ha origine, verso la metà del XV secolo, la redazione delle prime “guide” della città, a partire dalla 

Descriptio Urbis Romae di Leon Battista Alberti, fino alla Roma Instaurata di Flavio Biondo (1446), una ricostruzione della topografia 

romana antica basata  sui  resti allora  visibili,  che  fornisce anche una  lista di  chiese e  cappelle. Attraverso  la guida del Biondo  si 

diffonde il ricorso al metodo induttivo, fondato sull’ analisi diretta delle costruzioni, spesso in contrasto con le testimonianze scritte 

e le leggende tramandate nel tempo. 2 

Agli umanisti  si deve  anche  la  “riscoperta” del De Architectura di Vitruvio, noto  in età medioevale  esclusivamente  in  ambiente 

monastico, che si diffonderà in Italia grazie a Boccaccio e Bracciolini, che lo riproporrà nel 1414. Le riproduzioni del testo crescono, 

ma sarà grazie ad Alberti che il testo vitruviano conoscerà grande fortuna. 

Attraverso i letterati e gli antiquari l’ attenzione verso l’ antico si diffonde presso gli architetti: il passato inizia ad essere percepito 

per  la sua reale distanza dal presente, ma si riconosce altresì  la possibilità di  indagarlo, conoscerlo per poi riassorbirlo nel nuovo 

linguaggio architettonico. Un passato che tuttavia è percepito senza una chiara cognizione della sua storia. 

Accanto a una diffusa  sensibilità per  l’ antico perdurano ancora per  tutto  il  ‘400  le  spoliazioni dei monumenti antichi, al  fine di 

reimpiegarne i materiali in nuove fabbriche. 

 

 

 

 

 

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 1_Bracciolini, passeggiando  tra  le  rovine di Roma  inveisce contro  la  fortuna maligna che aveva  trasformato  le sedi dei magistrati 

romani in stalle di maiali, mentre Pio II a Tivoli si lamenta di come le dimore delle antiche regine siano diventate nidi di serpi. 

2_ Un esempio è la vicenda della piramide di Caio Cestio a Roma, interpretata ancora dal Petrarca come la tomba del mitico Remo 

(Meta Remi)  e  riconosciuta nella  sua  realtà  storica  da  Poggio Bracciolini  e  Paolo Vergerio  attraverso  lo  studio  dell’  epigrafe 

nascosta  dalla vegetazione. 

Page 2: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  2

Proprio  in questo periodo Roma è oggetto di  imponenti programmi urbanistici promossi dai papi che  inevitabilmente  investono la 

città antica:  i grandiosi edifici romani  in rovina rappresentano sia  il principale riferimento culturale per gli architetti che “fonti” di 

materiali da riutilizzare. 3 

L’ interesse degli architetti rinascimentali verso l’ antico è volto soprattutto a riprendere le regole compositive e gli elementi formali, 

soffermandosi  sullo  studio  degli  ordini,  nella  convinzione  di  poter  raggiungere  con  le  nuove  costruzioni  una  gloria  pari,  se  non 

superiore, a quella degli antichi. Da questo atteggiamento deriva che  l’  intervento sulle preesistenze risulta spesso  improntato ad 

un’ esplicita continuità storica, finendo per concepire ancora una volta, l’ opera architettonica come “aperta”, suscettibile di nuove 

trasformazioni, e il restauro come la prosecuzione dell’ antico manufatto.  

Di fronte alla necessità di completare gli edifici gotici occorreva effettuare scelte precise: lo stile gotico non era ammesso, ma non 

era neanche ammessa una violazione della concinnitas, di quella convenienza tanto propugnata dall’ Alberti. 4 

Molto presto  il giudizio verso gli edifici gotici muterà  in senso negativo:  l’  interesse è volto solo agli edifici pubblici, che possono 

ancora suggerire qualche soluzione pratica, mentre quelli religiosi verranno censurati, perché non rispondenti ai canoni formali ed 

estetici richiesti. 

L’ interesse del Papato 

L’  attenzione  verso  i monumenti  della  Roma  antica  inizia  a  diffondersi  nei  primi  del  ‘400  presso  il  papato,  data  la  volontà  di 

fortificare il potere pontificio attraverso il recupero dell’ autorictas romana. 

L’ interesse per gli edifici antichi è testimoniato già da Eugenio IV (1431‐1447), che avvia la liberazione del portico del Pantheon e 

tutela il Colosseo dalle crescenti spoliazioni, pur sottraendovi egli stesso materiale per la costruzione di San Giovanni in Laterano.  

La riscoperta dell’ antico segna  il pontificato di Niccolò V  (1447‐1455), mentre a partire da Paolo  II si diffonde  il collezionismo di 

antichità e si assiste ad un primo contenimento delle distruttive pratiche di elementi scultorei e statue. Tuttavia è con Enea Silvio 

Piccolomini, papa Pio II (1458‐1464) che si riscontra una più profonda riflessione sull’ antico. Preoccupato di tramandare ai posteri le 

testimonianze dell’ antichità di Roma promulga uno dei primi dispositivi di tutela contro le spoliazioni, la bolla Cum Almam Nostram 

Urbem, del 1462, dove si vieta la demolizione totale e parziale della antiche fabbriche o la trasformazione in calcina dei loro resti. 

Egli impone il rispetto dei monumenti dando quattro buone ragioni per farlo: 

 ‐‐‐ rappresentano un abbellimento notevole per le città; 

 ‐‐‐ mostrano le capacità e le virtù degli antichi romani; 

 ‐‐‐ incitano all’ imitazione dei progenitori; 

 ‐‐‐ ricordano la fugacità della vita terrena. 

Tuttavia, ancora una volta, lo stesso pontefice si concederà alcune deroghe. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 3_Il Colosseo tanto ammirato rappresenterà la principale cava di travertino per nuove costruzioni. 4_il problema della conformità poteva essere risolto in tre modi: 

      ‐‐‐  le  parti  preesistenti  potevano  essere  trattate  alla  maniera  moderna  (trasformazione  chiesa  San  Francesco  in  Tempio 

Malatestiano da parte dell’ Alberti); 

      ‐‐‐  l’opera poteva essere continuata  in uno stile volutamente goticizzante (progetti di Francesco di Giorgio Martini e Bramante       

per il tiburio del Duomo di Milano); 

      ‐‐‐ si poteva giungere ad un compromesso tra queste due soluzioni (s. Maria Novella a Firenze). 

Page 3: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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3.1 _ Brunelleschi e l’ antico: la cupola di Santa Maria del Fiore 

Nella figura di Brunelleschi si è sempre riconosciuta la prima manifestazione di una personalità architettonica “moderna”: fu il primo 

a capire il sistema strutturale dell’ architettura classica e ad adattarne i principi alle esigenze moderne. Si è soliti quindi individuare 

nella sua figura le origini dell’ architettura del Rinascimento e nel suo operato la prima 

diretta  applicazione  dello  studio  dell’  antichità  alla  definizione  di  una  “nuova” 

architettura. 

Nato a Firenze nel 1377 ha una discreta formazione letteraria ed entra in contatto con i 

circoli  umanistici  di  cui  fa  parte  Bracciolini.  Brunelleschi  manifesta  presto  doti 

artistiche, e nel 1404 ottiene l’ immatricolazione nell’ Arte degli Orafi. Successivamente 

è  ipotizzabile un  suo primo viaggio a Roma  insieme a Donatello,  seguito da ulteriori 

visite  durante  le  quali  osserva,  disegna  e  studia  quasi  tutti  gli  edifici  di  Roma.  L’ 

interesse per le architetture romane deriva sicuramente dall’ ambiente fiorentino non 

privo di reminiscenze romane, come la fabbrica del Battistero: egli studia soprattutto le 

modanature e gli ordini, con scarsa attenzione per la materia. Egli non prova rimpianto 

o curiosità archeologica: “l’ obiettivo  finale del suo studio non è  la  ricostruzione dell’ 

antico, ma la costruzione del moderno attraverso la lezione dell’ antico”, (G.C. Argan). 

È proprio nei confronti di una preesistenza che Brunelleschi adopera il suo maggiore ingegno creativo: la chiesa di Santa Maria del 

Fiore. Avviata nel 1296 su progetto di Arnolfo di Cambio la chiesa era stata concepita per essere la più imponente e maestosa della 

repubblica  fiorentina.  Il  progetto  iniziale  fu  ulteriormente  ampliato  da  Francesco  Talenti  intorno  al  1350,  fino  a prevedere  una 

cupola,  su  tamburo ottagonale, della  larghezza di  circa 42 metri per un altezza di 83 metri. Fin dall’  inizio quindi gli artefici del 

duomo fiorentino intendevano “rivaleggiare” con il Pantheon, date le grandi dimensioni e l’ ambiziosità del progetto. 

La complessità costruttiva è evidente:  le dimensioni previste e  l’ altezza da cui parte  l’  imposta, oltre 50 metri da terra, rendono 

impossibile l’ utilizzo di centine tradizionali, sia per la grande quantità di legname necessario, sia per il peso indotto dalla cupola sui 

ponteggi, sia per l ‘ ingombro prodotto da questi ultimi nel coro. 

Si presentarono due tipi di problemi: 

uno di ordine statico, che richiedeva di ridurre al minimo le spinte orizzontali sul tamburo; 

uno  di  tipo  costruttivo,  che  imponeva  il  ricorso  ad  una  struttura  autoportante,  realizzata  con  l’  impiego  di  soli  ponti 

appoggiati sulla muratura del tamburo. 

A  tutti questi problemi  si  aggiungeva  la difficoltà di organizzare  il  cantiere per  il  sollevamento dei materiali  ad un’  altezza  così 

elevata. 

Nel 1418  viene bandito un  concorso dall’ Opera di  Santa Maria del  Fiore per  la  realizzazione della  cupola, al quale partecipano 

Ghiberti e Brunelleschi: entrambi vengono nominati provveditori alla costruzione. Nel 1420 iniziano i lavori e l’ Opera, che sostiene il 

modello privo di centine proposto da Filippo, definisce con una delibera il programma costruttivo della cupola in modo dettagliato, 

anticipando i moderni capitolati tecnici. 

In  questa  delibera  del  1420  l’  impianto  della  cupola  è  descritto  in  modo 

dettagliato, a partire dal suo sesto rialzato, che consiste in un arco di cerchio di 

raggio pari ai 4/5 della diagonale dell’ ottagono di base. 

Tra  le  scelte  più  significative  vi  è  l’  adozione  di  una  doppia  calotta  che 

garantisce  la  protezione  dall’  umidità  ed  accentua  la  magnificenza  della 

struttura  all’  esterno.  Il  ricorso  all’  intercapedine  tra  le  due  volte  consente 

inoltre  di  ridurre  notevolmente  il  peso  della  cupola  e  di  nascondere  il 

complesso  sistema  strutturale  costituito  da  8  costoloni  principali, 

corrispondenti  agli  spigoli  dell’  ottagono  del  tamburo  e  da  8  coppie  di 

costoloni minori, posti all’ interno delle vele e non visibili all’ estradosso. 

Questo  sistema  di  strutture  verticali  è  collegato da  elementi  orizzontali  che 

uniscono i costoloni maggiori ai minori, assorbendo le spinte laterali. 

Col procedere dei  lavori  la presenza di Ghiberti si attenua,  lasciando al Brunelleschi  la responsabilità del progetto. Durante  le fasi 

costruttive si adoperano ponti mobili,  infissi  in buche ancora oggi visibili, che consentono  la realizzazione  in contemporanea delle 

volte e degli sproni (costoloni) su tutto il perimetro, in modo da assicurare che ogni strato di posa si configuri come un anello chiuso 

autoportante. 

Nel 1422 si decide di ridurre il peso della struttura diminuendo la sezione degli sproni secondari e sostituendo la pietra con mattoni 

già al di sopra della quota di 12 braccia (1 braccio fiorentino=0,583m), contro quella di 24 prevista dalla delibera. 

Successivamente  si  sostituiscono  le  volte  a  botte  con  arconi  orizzontali  e  si  adotta  per  la muratura  la  struttura  a  spinapesce, 

derivante dallo studio delle costruzioni romane. La chiusura dell’ anello sommitale è raggiunta nel 1436. 

Page 4: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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A questo punto è necessario “tappare” l’ anello, di 15 m di diametro: le forze che agivano su di esso erano tali che, nonostante la 

leggerezza della cupola, i costoloni tendevano a piegarsi verso l’ esterno e a spalancare l’ anello. 

Fu  quindi  progettata  una  lanterna  abbastanza  pesante  per  il  concorso  del  1436,  vinto  da  Brunelleschi.  I  costoloni  della  cupola 

vengono raccordati da un arco rampante, che sostiene il corpo della lanterna alla torretta ottagonale. 

Un ultimo tocco dato dal Brunelleschi al duomo è  la realizzazione delle cosiddette “tribune morte” poste sui piloni angolari della 

cupola, con funzione di completamento visivo ed irrigidimento della parte inferiore del tamburo. Le tribune saranno realizzate con 

un impianto semicircolare a nicchie chiaramente derivato dai monumenti sepolcrali romani. 

Tecniche adoperate 

Man mano che  la muratura  in pietra veniva sostituita dai mattoni e man mano che si procedeva con  l’  inclinazione della cupola 

furono adoperate due tecniche che agevolarono la costruzione di ciascun anello: la corda blanda e la spinapesce. 

La ccoorrddaa  bbllaannddaa (corda non tesa, perciò “blanda”) consiste nell’ adottare come piano di posa una superficie  leggermente concava 

verso  l’ alto:  il  letto di posa dei mattoni non è orizzontale, ma  segue una  curva aperta  verso  l’ alto  che, assieme all’ utilizzo di 

mattoni angolari, assicurava una tessitura dell’ ordito murario assolutamente priva di discontinuità lungo tutto l’ anello. 

La ssppiinnaappeessccee, adottata a partire dai 20 gradi di inclinazione sull’ orizzontale, fungeva da contenimento dei mattoni in fase di presa 

della malta, è utile a condurre l’opera in regime di auto‐portanza.  

Si fece ricorso a mattoni posti col lato più lungo emergente rispetto a quelli appoggiati sulla superficie conica: è una  

particolare  forma di apparecchiatura muraria,  strutturata di per  sé  in modo da  rendere  stabili piccoli  settori  longitudinali grazie 

all’azione di contrasto esercitata da mattoni emergenti, posti alle estremità di ogni settore stesso. L’espediente, che non ha valore 

strutturale ma  solo costruttivo, consente al maestro muratore di evitare  lo  slittamento verso  il basso della muratura  in corso di 

realizzazione, prima ancora che si  raggiunga  l’equilibrio complessivo di ogni strato di posa dei mattoni con  la chiusura sull’intero 

perimetro dell’ottagono. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I modelli assunti dal Brunelleschi per la concezione costruttiva della cupola sono vari: è presente la componente romana, quella 

fiorentina e addirittura influenze islamiche. È certa la grande capacità di assimilazione e di sintesi dell’ architetto, che vede ogni 

esempio del passato non come modello diretto da imitare ma come fonte di suggerimenti da rielaborare in vista della soluzione 

di specifici problemi. 

Page 5: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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3.2 _ Leon Battista Alberti: l’ antico e le preesistenze (Tempio Malatestiano e Santa Maria Novella) 

Leon Battista Alberti è una delle personalità più  influenti del panorama rinascimentale: al suo contributo teorico vanno ricondotti 

quasi tutti i successivi sviluppi del linguaggio e della pratica del costruire. 

Umanista ed erudito egli è anche il primo architetto dedito allo studio sistematico dell’ antico condotto attraverso l’ indagine delle 

fonti  letterarie e  l’ attento  rilievo materiale. Lo studio dell’ Alberti  tende soprattutto alla comprensione dei principi da  trasporre 

nelle pratiche costruttive attuali: se Brunelleschi aveva privilegiato gli aspetti costruttivi e la pratica di cantiere, Alberti sottolineerà il 

carattere progettuale del fare architettura e,  in contrasto con  l’ approfondimento rivolto ad argomenti tecnici  in De Architectura, 

non si  lascerà “coinvolgere” nella direzione dei cantieri e suggerirà agli architetti di “conservare la propria dignità”. 

 

Nasce  a Genova  nel  1404  da  una  ricca  famiglia  fiorentina  esiliata  da  Firenze.  Le  vicende  familiare  incideranno molto  sulla  sua 

formazione: seguirà i commerci del padre in varie città e, successivamente alla sua scomparsa, vivrà un periodo di crisi economica. 

In questo periodo si dedica allo studio della fisica e della matematica e consegue la laurea  in diritto canonico nel 1428. Nello stesso 

anno la famiglia Alberti può ritornare a Firenze e qui risolverà i suoi problemi economici. Soggiorna per quasi due anni a Roma, dove 

entra  in  contatto  per  la  prima  volta  con  i monumenti  antichi.  Ritornato  a  Firenze  conosce  Ghiberti,  Donatello  e  Brunelleschi. 

Ritornato a Roma nel 1443 Alberti vi si stabilisce quasi continuativamente fino alla morte, accingendosi in maniera sistematica allo 

studio dell’  architettura. È  in questi  anni  che prende  forma  la  sua  indagine  sulle  rovine degli  edifici  antichi  che  culminerà nella 

Descriptio Urbis Romae  (1448‐1455). Quest’ opera è caratterizzata da un breve  testo che  illustra, attraverso  l’ uso di coordinate 

polari,  la  sistematica opera di  rilievo urbano della  città  e delle  sue  emergenze  architettoniche,  condotta  in prima persona dall’ 

Alberti. 

Egli affida ai dati numerici  il compito di trasmettere precisamente il rilievo della città, senza incorrere nei rischi legati alla copia di un 

disegno, (l’ opera anticipa  l’ incarico conferito oltre 50 anni più tardi a Raffaello da Leone X). 

Verso la fine degli anni ’40 il prestigio di Alberti a Roma è ormai consolidato, nonostante i rapporti complessi con la Curia. 

Nel 1447 è eletto papa  l’ umanista Niccolò V, compagno di studi di Alberti, che avvia un vasto programma edilizio ed urbanistico 

esteso  all’  intera  città  di  Roma. Durante  il  suo  pontificato  però  il  ruolo  di Alberti    è  ridimensionato,  forse  anche  a  causa  della 

posizione presa nella congiura ordita da Porcari contro il papa nel 1453. 

A partire dalla metà degli anni ’40 Alberti è impegnato nella redazione del De re Aedificatoria, nel quale confluiscono tutte le sue 

conoscenze  letterarie,  in primis  il trattato di Vitruvio, e  l’ osservazione diretta dei monumenti antichi di Roma. Nel volume non si 

limita a definire le regole dell’architettura, ma pone la questione dell’ edificare alle più remote origini della storia del genere umano. 

Scritto  in  latino e articolato  in 10  libri,  il  trattato è compiuto già entro  il 1452, diffondendosi sotto  forma di manoscritto per poi 

essere stampato nel 1485, tredici anni dopo la sua morte.  

Il riferimento a Vitruvio è senz’ altro il punto di partenza per la stesura di questo trattato, nonostante i limiti che Alberti vi rileva, che 

si caratterizza anche per  la ricchezza di citazioni erudite di autori e filosofi classici.  Il vero fondamento del volume è comunque  l’ 

osservazione diretta degli    edifici  antichi,  intesi  come  “testi”  essenziali da  studiare  così  come  i  testi  scritti.  Il  rilievo dell’  antico 

rappresenta un elemento essenziale del suo lavoro, e il suo interesse per le opere antiche comprende tutte le opere architettoniche, 

dalla più nobile alla più umile, estendendosi anche alle opere del Medioevo e dunque non classiche. 

Nello studiare queste opere egli rileva  il degrado a cui sono soggette, e tale rimpianto di traduce  in esplicita protesta contro tale 

stato di rovina e contro chi demolisce senza riguardo tali costruzioni. Egli mostra quindi un orientamento conservativo nei confronti 

delle  preesistenze,  anche  quando  afferma  che  nel  continuare  una  fabbrica  già  avviata  bisogna  rispettare  l’  idea  progettuale 

originaria; tale principio sarà da  lui confermato nelle sue opere più  importanti, come  il Tempio Malatestiano e  la facciata di Santa 

Maria Novella. 

In questo stesso volume affronta anche il problema della ricostruzione di San Pietro mostrando una grande attenzione al restauro e 

al rispetto della preesistenza, contrastando le intenzioni del papa Niccolò V e il progetto del Rossellino. 

Importante è il concetto di concinnitas1 introdotto dall’ Alberti come principio ordinatore della bellezza. 

Tale concetto si fonda su tre leggi fondamentali: il numero (numerus), la delimitazione (finitio) e la collocazione (collocatio).  Dalla 

connessione  di  tutti  questi  elementi  si  ha  la  concinnitas,  ovvero  il  concerto  di  tutte  le  parti  tra  loro,  che  altrimenti  sarebbero 

distinte. 

 Negli  interventi di completamento,  in base a questo principio, si preferiscono soluzioni  in stile,  in modo da  legare  i nuovi apporti 

con gli elementi preesistenti per garantire un’ opera ultimata unitaria.  

Il X  libro è  intitolato “Restauro degli edifici”, e comincia col descrivere  l’ analogia  tra  l’ architetto‐restauratore e  il medico.  Inizia 

quindi a descrivere  l’ origine dei vari difetti  (vitia) dell’ edificio,  tra  i quali  i danni prodotti dagli agenti atmosferici e dall’  incuria 

umana.  

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 1_”ordinare  secondo  leggi precise  le parti  che altrimenti per propria natura  sarebbero ben distinte  tra  loro, di modo  che  il  loro 

aspetto presenti una reciproca concordanza”. 

Page 6: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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Affronta i problemi relativi ai dissesti delle pareti e le principali cause, come le erbe infestanti; segue poi una disamina delle tecniche 

di consolidamento   dei muri   sottili, come  la realizzazione di contropareti congiunte alle preesistenti o  il rinforzo con  legamenti  in 

ferro o rame.  

Nell’  ultimo  capitolo  del  libro  si  addentra  nel  tema  del  restauro,  trattando  della  diagnosi  dei  dissesti  e  delle  tecniche  di 

consolidamento. Dedica  particolare  attenzione  allo  studio  delle  lesioni  e  alle  proposte  di  riparazione;  interessanti  sono  anche  i 

suggerimenti proposti per  la sostituzione di una colonna o per  il raddrizzamento delle pareti. Alcune delle  tecniche consigliate  in 

presenza di moti rigidi delle murature sono di grande attualità: 

__ possibilità di sollevare la parte soggetta a cedimento con una trave che abbia funzione di leva (stadera); 

__ procedere con una sottoescavazione (applicato oggi alla Torre di Pisa). 

a) Tempio Malatestiano (1447/1462) 

Negli stessi anni in cui è impegnato alla stesura del trattato avvia anche la sua prima opera architettonica importante, volta alla trasformazione di 

una  preesistenza medioevale:  la  chiesa  di  San  Francesco  a  Rimini  che  Sigismondo Malatesta  intende  trasformare  in mausoleo  per  la  propria 

famiglia. La fase  iniziale dei  lavori vede protagonisti Matteo dè Pasti e Agostino di Duccio che nel 1447 elaborano un programma più  limitato di 

quello che sarà poi effettivamente realizzato: inizialmente si pensa solo a trasformare e decorare alcune cappelle. 

Sigismondo  immagina un  tempio che accolga  il proprio sepolcro e quella della sua amata 

celebrando il culto dell’ eroe attraverso simbologie religiose e pagane,come il culto del sole 

e dello zodiaco.  

All’  interno  gli  elementi  preesistenti  sono  trasformati  e  resi  più  grandiosi  con  interventi 

strutturali rivolti al minimo; l’ originalità presente fa pensare all’ influenza dell’ Alberti. 

La presenza di Alberti all’ interno della fabbrica si ha a partire dal 1450, quando Sigismondo 

pensa  di  intervenire  anche  all’  esterno.  Il  suo  intervento  all’  esterno  si  rapporta  alla 

preesistenza seguendo due approcci diversi: 

__  per la facciata                    – accosta  la nuova soluzione alle strutture preesistenti, senza 

distaccarsi.  Il progetto per  la    facciata può essere desunto dalla medaglia  coniata da 

Matteo dè Pasti nel 1450:  la  facciata è suddivisa  in un ordine  inferiore articolato  in 3 

arcate inquadrate da semicolonne su basamento e in un ordine superiore con campata 

centrale più alta, raccordata ai margini del prospetto con elementi curvilinei. Lo sfondo 

è dominato da una cupola, scandita da costoloni, emisferica, ampia quanto la facciata e 

derivata quasi certamente dal Pantheon. 

Alberti  si  rifà  esplicitamente  ed  esempi  romani,  come  l’  Arco  di  Costantino  per  la 

composizione  generale,  o  l’  arco  di  Augusto  a  Rimini  per  i  dettagli  e  la  zona 

basamentale. Adotta un ordine maggiore di semicolonne trabeate e un ordine minore 

di  lesene  sormontate  da  archi  a  tutto  sesto,  secondo  una  composizione mutuata  da 

esempi  antichi,  primo  fra  tutti  il  Colosseo.  Inizialmente  prevede  la  collocazione  dei 

sarcofagi di  Sigismondo e  Isotta nei due  fornici  laterali della  facciata; per motivi  statici  in  corso d’ opera  tali archi  vengono  tamponati e  i 

sarcofagi collocati lungo i fianchi. 

Più complesso è l’ incompiuto ordine superiore, dove Alberti immagina una campata centrale più alta, definita da lesene che inquadrano una 

trifora trabeata e sormontata da un arco, e due raccordi curvilinei sulle campate laterali, necessari per nascondere le coperture delle cappelle. 

__  per i prospetti laterali               – si distacca dalle strutture più antiche realizzando un involucro costituito da una sequenza di  archi su massicci 

pilastri, senza preoccuparsi dell’ allineamento con le aperture gotiche preesistenti. Tale successione di arcate è riconducibile sia la motivo degli 

acquedotti  romani  che  agli  archi  interni  del  Colosseo,  replicandone  il  rapporto 

proporzionale di 1:2 tra la larghezza del pilastro e la luce del fornice. Racchiude quindi l’ 

irregolarità  dell’  edificio  in  un  nuovo  organismo  fondato  sul  ritmo  delle  proporzioni 

classiche. Al tempo stesso egli si rifiuta di continuare o variare l’ antico, isolandolo dalle 

nuove strutture di oltre mezzo metro: la mancata corrispondenza tra le finestre gotiche 

e il nuovo paramento marmoreo è segno di onestà e rispetto. 

L’  articolazione  degli  ordini  rispetta  la  sintassi  degli  edifici  antichi  appena  codificata  dall’ 

Alberti nel  trattato: nei  templi è preferibile adoperare  columnae  rotundae  sormontate da 

trabeazioni, diversamente dalle basiliche o dagli edifici pubblici dove  si devono adoperare 

archi su columnae quadrangulae (pilastri). In nessun caso bisogna disporre archi su colonne 

circolari; ciò comporterebbe l’ impiego di un pulvino, così come aveva già fatto Brunelleschi. 

La  repentina  interruzione  del  cantiere,  conseguente  al  tramonto  delle  fortune  di  Sigismondo  dopo  il  1462,  lascerà  incompiuto  l’  ambizioso 

programma, lasciando al campo delle ipotesi sia il completamento della facciata che la copertura della navata, nonché la tribuna e la cupola. 

 

 

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b) Santa Maria Novella (1458/1480 e oltre) 

Un approccio diverso alla preesistenza caratterizza  il completamento delle  facciata di S. Maria Novella 

avviato su  iniziativa di Giovanni Rucellai. Rispetto al Tempio Malatestiano qui gli elementi preesistenti 

condizionano  in maniera più  significativa  la nuova  composizione. Alberti  si  trova davanti un  impianto 

architettonico  dove  le  opere  già  compiute  non  possono  essere  demolite  o  rimosse:  oltre  alle  tombe 

sormontate da archi acuti occorre tener conto delle porte laterali e del grande oculo centrale superiore. 

Il suo progetto si propone di inquadrare tutti questi elementi in una nuova composizione in cui prevalga 

l’ ordine classico, rispettando le preesistenze in modo da raggiungere la concinnitas. 

Alberti interviene con sull’ ordine inferiore, in buona parte già compiuto, con pochi elementi. Al centro, 

in corrispondenza di un’ apertura forse archiacuta, viene posto il portale inquadrato da alte semicolonne 

in marmo verde, replicate anche agli estremi della facciata, allargata oltre i muri perimetrali delle chiesa. 

Egli  adotta  in  tutta  la  facciata  la  bicromia  bianco‐verde.  Appare  irrisolta  la  questione  delle  quattro 

arcatelle cieche a tutto sesto impostate su stretti pilastri, la cui attribuzione è incerta. Wittkower le ritiene preesistenti, e la sua tesi sembra essere 

confermata dal fatto che agli estremi della facciata le arcatelle proseguono dietro le semicolonne. Il vincolo imposto dalla quota delle arcatelle ha 

condizionato il forte sviluppo verticale delle semicolonne, i cui rapporti proporzionali forzano i canoni albertiani. 2  

La notevole distanza tra le semicolonne è tenuta insieme dalla trabeazione. 

Elemento  fondamentale di  connessione  tra  la  riorganizzazione dell’ ordine  inferiore  e  il disegno  ex‐novo del  livello  superiore  è  l’  altro  attico, 

decorato con 15 tarsie dicromiche, che consente ad Alberti di raccordare  le differenti quote degli elementi preesistenti e di  inquadrare  l’  intera 

composizione nell’ ambito di uno schema proporzionale fondato sul quadrato. La cornice superiore dell’ attico divide a metà il quadrato perfetto 

all’ interno del quale si inscrive l’ intera facciata, mentre sia l’ ordine superiore che quello inferiore sono basati su un quadrato minore di lato pari 

alla metà di quello maggiore. 

Questo schema proporzionale comporta che  le paraste  interne dell’ ordine superiore si allineano al centro, con  le semicolonne sottostanti, e all’ 

estremità con le porte laterali preesistenti. 

Ispirato nelle linee generali alla facciata di San Miniato, l’ ordine superiore si differenzia per l’ adozione di un vero e proprio timpano classico e per 

le celebri volute che raccordano la sezione centrale rialzata con l’ ordine inferiore, nascondendo al contempo le navate laterali. 

L’ opera risulta ancora in costruzione dopo il 1480, mentre la voluta di destra sarà completata solo nel 1920. 

La facciata sottende probabilmente significati oscuri, a partire dai riferimenti al culto solare presenti nel timpano, dai temi astrologici delle tarsie 

dell’ attico, fino alle due figurae mundi comprese nelle volute;sembra alludere a quella “Prisca Theologia” tramandata dall’ ermetismo, che Alberti 

seguiva negli anni del Concilio e che poi rinnegherà per volere della chiesa. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 2_ le semicolonne raggiungono un’ altezza pari a 11 volte il diametro. 

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3.3_a   _ L’ antico e il restauro nel trattato di Filarete  

Il rapporto con l’ antico e le problematiche del restauro sono presenti anche nel secondo trattato di architettura del ‘400 dovuto ad 

un architetto di origine fiorentina, Antonio Averlino detto il Filarete (1400‐1465). Di formazione quasi opposta a quella dell’ Alberti, 

priva  cioè di particolare  erudizione umanistica  e  fondata principalmente  sulla pratica di mestiere,  egli  compone  la  sua opera  a 

Milano in età matura, tra il 1461 e il 1464, dedicandola a Francesco Sforza. 1 

Scritto in volgare, corredato da numerosi disegni e diffuso sotto forma di manoscritto il trattato si differenzia da quello albertiano 

per gli scopi che l’opera di propone e per i contenuti. 

Articolato  in 25  libri non presenta una stesura sistematica come  il De Re Aedificatoria; contiene numerosi spunti  interessanti sul 

tema del rapporto con l’ antico, sulle preesistenze, sul restauro desunti proprio dall’ Alberti. Anche lui sostiene l’ analogia tra medico 

e architetto e  ritiene  l’ uomo  il principale artefice della  rovina degli edifici. Al  rimpianto per  l’ abbandono  segue poi una  severa 

critica  ai  responsabili  della  distruzione.  E’  nel  libro  XIV  che  il  rapporto  con  il  passato  diviene  tema  centrale  della  trattazione, 

attraverso  il racconto fantastico del rinvenimento dei resti di un’ antica civiltà durante  i  lavori del porto di Sforzinda 2, che ha per 

protagonisti Francesco Sforza, il figlio Galeazzo, e lo stesso Filarete. 

Nel racconto si legge tutta l’ emozione e il pathos derivante dalla scoperta archelogica di una pietra squadrata con antiche iscrizioni, 

al  cui  interno  sono  custoditi dei  tesori  e un  libro.  In questo  volume  sono  raccontate  le  vicende del  re  Zogalia  e della  sua  città 

Plusiapolis,  i  cui  resti  giacciono proprio nel  sito dell’  incredibile  scoperta.  Il  valore delle nuove  scoperte  induce  i protagonisti  a 

interrompere  i  lavori per   avviare una ricostruzione filologica delle architetture originarie della città. Plusiapolis diviene quindi per 

Filarete  la  “città  della memoria”,  in  cui  la  collocazione  degli  edifici  è  dettata  dalla  presenza  dei  ruderi  e  dalla  persistenza  dell’ 

impianto urbano, anticipando una sensibilità propria della moderna cultura del restauro. 

Dopo  pochi  anni  dall’  allontanamento  di  Filarete  da  Milano,  la  città  vive  un  momento  di  grande  rinnovamento  in  campo 

architettonico promosso da Ludovico il Moro, fratello di Galeazzo, succedutogli come reggente nel 1480. 

In questi anni una presenza cruciale è quella di Donato Bramante. 

 

3.3_b   _ Bramante e le preesistenze tra Milano, Roma e Napoli  

Originario di Urbino (1444‐1514) si forma alla corte di Federico da Montefeltro. Egli è innanzitutto un pittore, ma manifesta presto 

vari interessi sia letterari che scientifici: si interessa molto anche all’ opera albertiana. Arriva a Milano nel 1478 per seguire i lavori di 

un palazzo di Federico da Montefeltro. 

a) Santa Maria presso San Satiro (1482), Milano E’  la  sua  prima  opera  architettonica  a  Milano.  Realizza  un  organismo  a  tre  navate  con  transetto 

seguendo  i  canoni  albertiani nell’  ambito di una  concezione  spaziale originale.  Tra  gli elementi nuovi 

spicca  la  sacrestia nella quale Bramante  recupera modelli antichi  insieme a  soluzioni brunelleschiane, 

come  il sistema di paraste angolari poste agli spigoli dell’ ottagono. L’ elemento più straordinario dell’ 

opera è frutto di un vincolo imposto dalla preesistenza: il limite di via Falcone che impedisce di costruire 

un quarto braccio per  il coro.  Il vincolo diventa occasione per sperimentare uno straordinario artificio 

prospettico attraverso  il quale  realizza un  finto  coro  in  stucco  che  riequilibra  l’  intera  spazialità della 

chiesa  in  rapporto  alla  cupola,  conferendole  una  centralità  visiva  altrimenti  impossibile.  In  una 

profondità  di  120  cm  riesce  a  sviluppare  il  quarto  braccio  di  un  impianto  cruciforme  che  sembra 

estendersi per ben 11 m, delimitato, come gli altri 3 bracci, da tre arcate aperte su navatelle o chiuse da 

nicchie. Diversamente dalle  finzioni pittoriche  l’ efficacia dell’  illusione è  fondata per  la prima volta su 

una soluzione plastica, che utilizza gli stessi materiali dell’ edificio e che produce un reale gioco d’ombre. 

 

b) Santa Maria delle Grazie (1492 ca), Milano Un  altro  programma  di  trasformazione  e  ampliamento  di  una  fabbrica  preesistente  riguarda  questa 

chiesa domenicana completata pochi anni prima del 1492 e che il Moro intende modificare per farla diventare sepolcro di famiglia. Assecondando 

Ludovico  Bramante  interviene  demolendo  la  zona  presbiteriale  e  sostituendola  con  una  grande  tribuna  sormontata  da  una  cupola  le  cui 

proporzioni si impongono per il loro carattere monumentale in rapporto all’ organismo originario. Con il suo impianto cubico la tribuna si propone 

come un’ architettura autonoma, benché il suo rapporto con la preesistenza sia evidente in molti punti, a partire dalla forte dilatazione delle absidi 

laterali.  Bramante  è  attento  anche  ad  mantenere  vivo  il  rapporto  con  la  cultura  architettonica  locale:  l’  impianto  generale,  gli  elementi 

architettonici della tribuna, l’ alta finestra rettangolare del tiburio con colonna centrale, testimoniano la sintesi operata da Bramante tra ispirazioni 

locali e centro‐settentrionali. 

 

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 1_ la sua presenza a Milano è da ricondursi a quel processo di apertura verso la cultura artistica del centro Italia avviato da Sforza fin dal 1450 e 

che avrebbe richiamato personalità come Leonardo e Bramante. 2_ città ideale progettata da Filarete. 

Page 9: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  9

Con la caduta di Ludovico il Moro nel 1499 Bramante si allontana da Milano per andare a Roma, avviando una fase completamente 

nuova della sua opera. Fondamento del nuovo linguaggio sarà un più sistematico e filologico studio dell’ antico, condotto a partire 

dai  resti  romani  e  concentrato  sull’  analisi  degli  ordini  architettonici,  degli  schemi  tipologici,  dei  materiali  e  delle  tecniche 

costruttive. L’ obiettivo era trarne le regole generali per il fare architettonico moderno. 

In questo periodo Roma  si presenta molto diversa da com’era 50 anni prima; presenta una monumentalità che non ha nulla da 

invidiare a quella degli antichi grazie ai grandi interventi a scala urbana e agli imponenti programmi di Giulio II, come la Basilica di 

San Pietro. 

c) Basilica San Pietro (1505 ca) 

Quest’  opera  segna  l’  affermazione  di  Bramante  come  architetto  del  pontefice.  Superato  un  primo 

approccio conservativo,  in cui  il corpo  longitudinale dell’ antica basilica veniva mantenuto aggiungendo 

un  transetto  e  un  coro,  Bramante  avanza  nel  1505  l’  ipotesi  di  modificare  radicalmente  la  chiesa, 

disegnando un  impianto fondato su un grande vano ottagonale coperto da una cupola retta da enormi 

piloni. Giulio II accetta tale proposta di demolizione e nel 1506 avvia i lavori, che demoliranno anche le 

grandi colonne di età costantiniana. 

Nel  1514  alla  morte  dell’  architetto  dell’  antica  basilica  rimane  ben  poco,  ma  il  problema  del 

completamento della nuova chiesa si proporrà ancora per decenni, conferendo all’  insieme un aspetto 

non dissimile dalle rovine romane. 

d) Duomo di Napoli, Succorpo (1497) 

La paternità bramantesca è stata sostenuta da Roberto Pane fin dal 1974. 

Rappresenta un testimonianza importante non solo per la straordinaria architettura ma per il complesso rapporto con lo spazio absidale angioino e 

i relativi imposti dalle preesistenze. 

Commissionata dal cardinale Carafa, già arcivescovo di Napoli,  l’ opera nasce con  l’  intento di ospitare  le  reliquie di San Gennaro,  traslate dall’ 

abbazia di Montevergine, e al tempo stesso di celebrare la famiglia Carafa attraverso la sepoltura dei suoi membri. 

I lavori hanno inizio nel 1497, e il cardinale già da subito esprime l’ intenzione di collocare la cappella al di sotto dell’ abside angioina, caratterizzata 

da un forte sviluppo verticale e interessata da problemi statici. L’ intervento prevede il rialzo del pavimento absidale di 80 cm e lo scavo della zona 

di fondazione profondo 3 metri per ricavare lo spazio necessario al succorpo. 

Oltre al limitato sviluppo in altezza tra i vincoli preesistenti emergono le difficoltà dovute: 

__ all’ illuminazione carente (risolta con aperture ricavate negli stretti vani compresi tra i contrafforti); 

__alla  ripartizione  dei  carichi  statici  della  zona  absidale  (affrontata  con  un  sistema  di  voltine portanti  sostenute  da  due  file  di  5  colonne  che 

suddividono  l’  intero spazio  in 3 navate di uguale ampiezza. Tali voltine sono nascoste da un cassettonato marmoreo poggiante su travi “T” 

rovescia). 

L’ attribuzione a Bramante scaturisce dall’  impianto spaziale e dalle raffinate soluzioni di dettaglio, condizionate dai vincoli preesistenti, come  le 

lesene che scandiscono le nicchie laterali, estese a tutt’ altezza per compensare il limitato sviluppo verticale dell’ ambiente. 

Le stesse nicchie con  il motivo a conchiglia appaiono simili a quelle realizzate da Bramante nella sacrestia di S. Maria delle Grazie e Milano, così 

come  le  lesene angolari poste  in corrispondenza delle  finestre strombate richiamano  il motivo portante dell’  impianto ottagonale della  fabbrica 

milanese. Se a ciò si aggiunge  la sua probabile presenza a Terracina nel 1497, da collegare a viaggi verso Napoli, e  l’  incarico conferitogli per  il 

chiostro di S. Maria della Pace a Roma sempre da Carafa, si può  ipotizzare almeno un’  ispirazione bramantesca del succorpo dovuta a una   sua 

consulenza dopo l’ avvio dei lavori nel 1497. 

 

3.4  _ Raffaello, la restituzione di Roma antica e la lettera a papa Leone X 

Con  l’ ascesa al  soglio pontificio di  Leone X,  figlio di  Lorenzo  il Magnifico, Roma è governata da un papa attento a promuovere 

importanti programmi artistici, architettonici ed urbani. Leone X dimostra subito particolare interesse per le vestigia romane e nel 

1514, in seguito alla morte di Bramante, conferisce l’ incarico di architetto della fabbrica di San Pietro a Raffaello, che verrà anche 

nominato  sovrintendente alle antichità di Roma,  con una giurisdizione  che  comprende  tutto  il patrimonio archeologico  romano. 

Tuttavia  il  suo  incarico è  solo  all’  apparenza  volto  alla  tutela:  i poteri  conferitogli dal papa  servono per  confiscare materiale da 

utilizzare nella fabbrica di S Pietro, stabilendo quindi un monopolio papale. 

In questo stesso periodo prender vita un programma di rilevamento degli edifici della Roma antica, ad opera sempre di Raffaello su 

incarico di Leone X, che intende redigere una vera e propria pianta di Roma, fondata per la parte topografica sulle misurazioni della 

Descriptio Urbis di Alberti.  

Se poco  è  rimasto dei disegni prodotti permane  invece una  testimonianza  importante:  la  lettera a  Leone X  scritta nel 1519 da 

Raffaello e Baldassarre Castiglione allo  scopo di presentare al pontefice  il  lavoro  svolto.  Il  testo è  importante anche per quanto 

riguardo  il tema della tutela: esso esprime una “compassione” per tutto ciò che si era perduto e una denuncia della barbarie che 

ancora si perpetra. La lettera costituisce la prova dell’  acquisizione del concetto di tutela, anche se solo sul piano teorico. 

La redazione della  lettere è  frutto di un  lavoro collettivo, coordinato da Raffaello, ma nel quale confluiscono    ispirazione diverse, 

come Fabio Calvo, Andrea Fulvio, Alberti e, primo fra tutti, Baldassarre Castiglione.  

 

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La lettera può suddividersi in 4 parti distinte: 

1. corrisponde al “Proemio”,  riconducibile al contributo di Castiglione,  ispirato alla Roma  Instaurata di Flavio Biondo. L’ autore del  testo 

inizia dichiarando n certa esperienza dell’ antica architettura, alla quale si accompagna un grande dolore provocato dalle condizione  in 

cui  essa  giace  nella  città  di  Roma.  L’  autore  cerca  quindi  le  cause  delle  distruzioni  sia  nel  passato  remoto  che  nel  tempo  presente, 

individuandole nel tempo e nell’ azione dell’ uomo.  

L’ autore riconosce però che, seppur private degli ornamenti, le antiche fabbriche sono ancora comprensibili nel loro impianto strutturale 

(“ossa del corpo senza carne”). 

Il passo più notevole della  lettere è quello  in cui gli autori accusano direttamente coloro che  invece di tutelare  i resti antichi ne hanno 

consentito  lo  scempio,  compresi  i numerosi pontefici  che hanno preceduto  Leone X.   E’ necessario quindi un appello alla  tutela,  che 

Raffaello rivolge al papa pregandolo di non trascurare i resti di questo patrimonio; 

2. La seconda parte è rivolta a illustrare l’ oggetto del lavoro commissionato dal papa. Viene sovlta una breve trattazione della storia dell’ 

architettura romana, dalle origini al tempo di Raffaello. Tra le fabbriche presenti in città la lettere descrive 3 tipi di edifici: 

“buoni antichi”, esistiti fino al tempo che Roma fu invasa dai Gotti; 

quelli corrispondenti alla dominazione dei Gotti e per i 100 anni successivi; 

quelli attuali, che Raffaello giudica molto prossimi alla maniera antica (opere di Bramante). 

Agli edifici medievali dedica altre considerazioni negative, così come all’epoca bizantina, romanica e gotica. La critica all’ architettura 

gotica si concentra su alcuni dei suoi caratteri ornamentali e sull’ uso dell’ arco a sesto acuto, peggiore di quello a tutto sesto sia per la 

solidità strutturale che per la perfezione visiva; 

3. chiarito l’oggetto del lavoro, la terza parte descrive il sistema di rilevamento usato fondato sull’ impiego della bussola; 

4. si affrontano i problemi della rappresentazione, svolgendo considerazioni sul disegno architettonico: Raffaello rimarca le differenza tra 

rappresentazione pittorica e architettonica e descrive  i 3 modi del disegno, corrispondenti alle proiezioni ortogonali di pianta, alzato e 

sezione. Ad essi è affidata la rappresentazione architettonica accompagnata da alcune prospettive. 

Il lavoro però non giunge a compimento: pochi mesi dopo la stesura della lettera, nel 1520, Raffaello muore. 

 

3.5  _ Michelangelo, le preesistenze e il non‐finito architettonico: il Campidoglio e S. Maria degli Angeli 

Il confronto  instaurato da Michelangelo  (1475/1564) con  le preesistenze, soprattutto con  le  fabbriche più antiche, si  rivela quasi 

sempre  più  sensibile  e  conservativo  di  tanti  architetti  suoi  contemporanei,  anche  se  la  sua  opera  si  fonda  spesso  sulla 

trasformazione di fabbriche o contesti urbani già esistenti. 

La straordinaria qualità dell’ architettura di Michelangelo è fondata sullo stravolgimento del canonico impiego degli ordini, tanto che 

la quasi coeva “Regola delli 5 ordini” di Vignola sembra quasi una reazione a tali spinte eversive. 

Già nelle prime opere Michelangelo si confronta con diverse fabbriche preesistenti, a partire dal progetto per la facciata della chiesa 

brunelleschiana di San Lorenzo a Firenze, dove emerge il problema del rapporto tra interno ed esterno, risolto dopo varie soluzioni 

con un unico piano rettangolare indifferente alle diverse altezze delle navate. 

Tuttavia  è  con  il  celebre  intervento  per  la  Biblioteca  Laurenziana,  promosso  dal  cardinale  Giulio  Dè  Medici  nel  1523,  che 

Michelangelo affronta un ben più complesso problema architettonico, confrontandosi con il preesistente chiostro di San Lorenzo. 

a) Biblioteca Laurenziana, (1523) Firenze La scelta del papa di collocare  la sala di  lettura sopra  le celle dei monaci  impone  il rispetto della configurazione originaria di queste ultime,  i cui 

ambienti non possono essere ingombrati con le fondazioni della biblioteca; inoltre il superamento del notevole salto di quota richiede un vestibolo 

con scala, da ricavare in uno spazio angusto e male illuminato. 

Gran parte delle  radicali  innovazioni  introdotte dall’ artista  traggono  la  loro origine proprio dai  rigidi vincoli  imposti dalla preesistenza, come  l’ 

arretramento delle colonne binate,  incassate all’  interno dei setti murari, o  le volute al di sotto delle basi delle colonne, prive di ogni  funzione 

strutturale, che assolvono il compito di compensare il forte salto di quota tra il vestibolo e la sala di lettura. 

 

Con il tramonto della repubblica fiorentina Michelangelo rientra a Roma nel 1534, in coincidenza con l’elezione al soglio pontificio di 

Paolo III, che lo coinvolgerà in uno dei più importanti programmi di ristrutturazione urbana: la sistemazione del colle capitolino.  

b) Campidoglio, (1534) Roma Il pontefice incarica Michelangelo di studiare un basamento per la statua di Marco Aurelio, sopravvissuta per 

secoli perché scambiata per la statua di Costantino, da collocare nello spazio antistante il Palazzo Senatorio. 

A partire da questo  incarico prende vita una sistemazione a scala urbana straordinaria, che assume  i vincoli 

imposti dagli edifici esistenti  come  spunto per  la  realizzazione di uno  spazio  che appare  concepito  fin dall’ 

inizio come unitario. 

L’ aspetto del colle capitolino prima degli interventi presenta il Palazzo Senatorio sullo sfondo e il Palazzo dei 

Conservatori,  frutto  di  una  trasformazione  di  un  precedente  edificio,  a  destra  della  futura  piazza.  Esso  si 

presenta  come  una  fabbrica  a  due  piani  con  porticato  di  archi  su  colonne. Michelangelo  cercò  di  dare 

razionalità alla casuale disposizione dei due palazzi, i cui assi formavano un angolo di 80°. Questa irregolarità 

lo indusse ad adoperare una pianta trapezoidale dalla quale derivano le altre caratteristiche  

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della composizione: lo svantaggio ancora una volta viene dominato in modo tale da sembrare un’ 

invenzione del tutto spontanea. Il complesso non fu concepito come un sistema di blocchi singoli, 

ma come un grande spazio aperto limitato da 3 pareti. 

Non meno  innovativa è  la  soluzione di accesso alla piazza, originata da un  forte  salto di quota 

dovuto  alle  condizioni  orografiche  del  suolo,  risolta  con  una  cordonata  la  cui  lieve  pendenza 

contrasta con l’ adiacente ripida scala della chiesa dell’ Aracoeli.  

La  pavimentazione,  realizzata  su  disegno  di  Michelangelo  solo  intorno  al  1940,  nasce  dall’ 

esigenza  di  mettere  in  risalto  il  centro  dove  sarebbe  stata  collocata  la  statua,  senza  però 

contrapporsi  all’  asse  longitudinale  della  piazza  e  del monumento.  Viene  scelto  l’ovale  come 

forma, che riunisce in una stessa forma i principi dell’ assialità e della centralità. 

 

 

 

 

c) Santa Maria degli Angeli, (1561) Roma Ancora  più  interessante    è  l’  intervento  condotto  negli  spazi  della  palestra  e  del 

tepidarium delle terme di Diocleziano allo scopo di insediarvi la basilica. 

Oggi  è  difficili  individuare  con  chiarezza  gli  intenti  originari  a  causa  delle  notevoli 

trasformazioni occorse a partire dal 1564 fino all’ intervento di Vanvitelli del 1749. 

Nel 1561, mentre Pio IV coinvolge Michelangelo nella vicenda, il complesso delle terme è 

stato  già oggetto di un primo  intervento,  attuato dal  sacerdote Antonio  Lo Duca1 nel 

1550. Secondo molti studiosi il suo intervento è di scarso rilievo per le successive vicende 

della  chiesa:  per  Zevi  invece  tale  sistemazione  non  va  sottovalutata  per  l’  influenza 

esercitata sul successivo progetto di Michelangelo.  

Numerosi  artisti  avevano  già  manifestato  interesse  per  il  complesso  termale,  come 

Antonio  da  Sangallo  il  Vecchio  che  ne  aveva  redatto  un  rilevo  piuttosto  accurato, 

proponendone la trasformazione in chiesa. 

All’ epoca del coinvolgimento di Michelangelo egli aveva  raggiunto una conoscenza più 

profonda  del mondo  classico:  fin  dall’  inizio  lo  spazio  di  Santa Maria  degli  Angeli  si 

configura nel rispetto del complesso termale romano, anche nel suo aspetto di parziale 

rovina. 

Tra le due possibili scelte, privilegiare l’ asse minore (coerente con l’ antica distribuzione 

delle  terme)  o  quello  maggiore  (coerente  con  la  scelta  di  Lo  Duca),  egli  sceglie  di 

accettare entrambe le istanze. 

Con semplici setti murari egli assimila alla sala del tepidarium i due ambienti estremi posti 

lungo l’ asse maggiore, nonché i 4 vani angolari coperti a botte. Si ottiene così uno schema 

all’ apparenza riconducibile ad una croce greca, negato dalla posizione dell’ altare a nord‐

est dietro il quale ricava un coro inaccessibile al pubblico collegato al chiostro, su richiesta 

dei certosini. 

Ne risulta un organismo aperto verso la città, con due ingressi posti verso la strada Pia e la 

campagna,  (che suggeriscono  l’asse maggiore) e un terzo  ingresso  in corrispondenza del 

vestibolo, aperto verso  la rotonda (che denuncia un asse secondario, però “negato” dall’ 

altare). 

All’  epoca dell’  intervento dell’  apparato originario  sussistevano  solo  le otto  imponenti 

colonne in granito sulle quale erano impostate le 3 volte a crociera, che Michelangelo assumerà come elementi essenziali nel nuovo spazio da lui 

progettato. Rinunciando ad altri ornamenti egli assegnerà proprio alle colonne  il ruolo di protagoniste della composizione, conferendo alle volte 

sovrastanti, semplicemente imbiancate, l’aspetto di “vele gonfiate”. 

Avviati dal 1561 i lavori, alla morte dell’ artista nel 1564, sono appena all’ inizio. Già dal 1575 partiranno quelle trasformazioni che stravolgeranno il 

carattere del progetto di Michelangelo, negandone sia la spazialità originaria che il rapporto con la preesistenza. 

Prima dell’  intervento di Vanvitelli  infatti si realizzeranno piccole cappelle  lungo    l’ asse minore  , si  isoleranno  i 4 vani angolari da Michelangelo 

assimilati al tepidarium e si trasformerà il coro in tribuna absidata, retrocedendo l’ altare. Tuttavia il cambiamento più evidente è la chiusura dei 

due ingressi posti lungo l’ asse maggiore,  evidenziando così solo il percorso lungo l’ asse minore e limitando l’ accesso alla chiesa all’ unico ingresso 

posto in corrispondenza della rotonda. 

 

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 1_ Nell’ arco di 15 giorni egli  seleziona  la parte centrale del complesso,  stabilendo un’  ideale  continuità  spaziale  tra  l’aula del  tepidarium e gli 

ambienti adiacenti posto verso  la rotonda e  individuando una direttrice  in corrispondenza dell’ asse maggiore, con  ingresso dalla strada Pia. Sul 

piano architettonico e liturgico realizza in questo spazio 7 altari per lato intitolati a 7 angeli e a 7 martiri, adattando la rotonda sud‐occidentale a 

sacrestia. 

Page 12: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  12

4 .    AARRCCHHIITTEETTTTUURRAA  NNEELLLLEE  PPRREEEESSIISSTTEENNZZEE  TTRRAA  CCOONNTTRROORRIIFFOORRMMAA  EE  BBAARROOCCCCOO 

4.1  _ Il ruolo della precettistica borromeana durante la controriforma 

Durante il periodo della Controriforma si ha una complessa a articolata revisione di liturgie e apparati religiosi; ciò rappresenta una 

decisa  reazione  delle  Chiesa  di  Roma  all’  ondata  luterana  diffusasi  nel  ‘500.  La  chiesa,  scossa  dalle  basi,  dovrà  “riformare”  i 

significati,  le  strutture,  i  simboli  e  lo  farà  ricorrendo  al  cristianesimo dei primi  secoli,  intervenendo  sulle  fabbriche  religiose del 

passato. Questo tipo di intervento sarà il mezzo essenziale per riaffermare i valori cristiani, resi evidenti e trasmissibili attraverso li 

apparati architettonici e figurativi. 

Subito arriverà una risposta alle tesi luterane da religiosi ed antiquari, che si serviranno della scrittura per rivalutare le antiquitates 

cristiane.  

Nell’ opposizione alle tesi luterane in prima linea è la cerchia oratoriana che, opponendosi alla negazione luterana del valore storico 

delle  testimonianze  materiali  della  passata  cristianità,  si  interesserà  alle  antichità  cristiane,  descrivendone  il  passato  per 

tramandarlo al futuro. 

Tra i primi oratoriani attivi in questo senso c’è Cesare Baronio che nel 1588 compilerà gli “Annales Ecclesiastici”, con la volontà di 

descrivere il passato solo sulla base di documenta: l’ edificio di culto costituirà esso stesso una testimonianza documentaria tangibile 

di eventi tali da fornire esempi ed  insegnamenti nel presente;  il suo restauro pertanto contribuirà a ricontestualizzare  le memorie 

del passato conferendo loro nuova vitalità. 

La  riscoperta  dei  luoghi  e  degli  edifici  simbolo  di  una  cristianità  remota  si  accompagnerà  all’  immediato  accaparramento  dei 

frammenti, sia epigrafici che umani. I resti dei martiri verranno esposti al pubblico nel punto focale della fabbrica sacra, solitamente 

l’ altare maggiore, dotati come sono di valore inestimabile, non solo sul piano spirituale. 

Parallelamente  il  fervore che si genererà verso quegli studi eruditi riguardanti, ad esempio, paleografia, epigrafia, contribuirà alla 

definizione di un’ impostazione scientifica del fatto storico.   

Una linea di pensiero caratterizzata da un avvicinamento razionale verso l’ antico e da una ricerca di modelli nelle origini della chiesa 

contraddistingue  l’  impegno,  sia  teorico  che  operativo,  di  Carlo  Borromeo,  che  nel  1577  redige  le  “Instructiones  Fabricae  et 

Supellectilis  Ecclesiasticae”:  esse  rappresentano  delle  raccomandazioni  da  seguire  riguardo  le  fabbriche  religiose  e  gli  oggetti 

religiosi.   La sua preoccupazione per  il decoro parrocchiale, tipica problematica   controriformista, è evidente fin dalle prime righe 

dello scritto, dove pone sullo stesso piano gli arredi sacri e gli ambienti costruiti.  

LUOGO       ‐‐‐ elevato rispetto alle costruzioni circostanti, anche attraverso l’ utilizzo di alcuni gradini, in numero dispari  

isolata in modo tale da allontanare rumori fastidiosi. 

FORMA       ‐‐‐ croce latina, anche se viene lasciata un po’ di libertà al progettista. 

POSIZIONE  ‐‐‐ la chiesa deve essere rivolta con l’ abside verso est, altrimenti verso mezzogiorno, ma mai verso nord. 

ABSIDE        ‐‐‐ deve essere coperta a volta e decorata con dipinti o mosaici; 

deve presentare differenza di quota rispetto alle altre parti della chiesa. 

PROSPETTI ‐‐‐ deve vigere una gerarchia: fronti laterali e intorno all’ abside privi di decorazioni; 

la facciata deve risaltare, essere splendida e conveniente al luogo. 

TETTO            ‐‐‐  l’  intera conservazione dell’ edificio sacro dipende dalla buona messa  in opera del tetto, costruito per conservare  le 

immagini, gli  apparati religiosi, gli ornamenti e la fabbrica stessa. La costruzione del tetto è quindi tesa ad assicurare 

al  futuro  la  trasmissione della  fede; Carlo quindi  suggerisce  anche  come proteggere  l’  interno della  fabbrica dalle 

intemperie attraverso  l’ uso di  legno ben stagionato, tegole di bronzo, o di piombo.  Inoltre è preferibile  l’ uso delle 

coperture voltate rispetto ai soffitti cassettonati, per il problema degli incendi.  

APERTURE  ‐‐‐ è preferibile l’ uso di porte architravate piuttosto che arcuate, tali che siano distinte dalle porte cittadine; 

le finestre devono essere superiormente arcuate e strombate ai lati; il numero delle aperture sulla navata deve essere 

dispari e soprattutto esse devono essere poste abbastanza in alto da evitare sguardi esterni. 

Dà indicazioni anche riguardo le vetrate più opportune; sono preferibili con vetri trasparenti o dipinti con l’ immagine 

di un santo. 

CAPPELLE  ‐‐‐  le  cappelle minori  possono  essere  escluse,  se  lo  spazio  non  ne  consente  la  realizzazione,  e  sostituite  con  altari  

addossati alle pareti della navata. Ciascuna cappella deve essere sopraelevata rispetto alla navata e separata da essa  

mediante cancelli. 

SACRE         ‐‐‐ bisogna attenersi alle disposizioni del concilio, e quindi realizzare immagini dotate di una certa compostezza.  

IMMAGINI        Il  luogo dove dipingerle dipende dalla  loro  trasmissibilità al  futuro, e quindi non devono essere  realizzate  in  luoghi 

umidi o dove possa gocciolare acqua. 

“CHIESA     ‐‐‐ aula a navata unica con eventuali cappelle laterali; “chiesa interna”, ovvero ambiente alle spalle dell’ altare maggiore 

PER                    dal quale le religiose possono assistere alle celebrazioni; atrio porticato che isola visivamente e acusticamente. 

MONACHE” 

Page 13: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  13

 

Egli  inoltre  sottolinea  la necessità di un  FILTRO  fra  interno ed esterno,  consistente  in un    atrio porticato o  in piccolo  vestibolo, 

riallacciandosi quindi a quella funzione liturgica medioevale che prevedeva un momento e un luogo di purificazione per i catecumeni 

prima  dell’  ingresso  in  chiesa.  L’  arcivescovo  si  preoccupa  molto  per  la  conservazione  della  chiesa  nella  sua  interezza;  per 

proteggerla dagli agenti dannosi, come l’ umidità, suggerisce aperture mobili per consentire la ventilazione. 

Accanto alla figura di Carlo si colloca quello di Federico Borromeo, il cugino, che mostra una più meditata attenzione al medioevo. 

I due si pongono in modo differente nei confronti del passato: 

__  Carlo  è  nel  pieno  della  temperie  controriformista  e  quindi  con  lui  si  avverte  un  precisa  volontà  di  rottura  con  la  tradizione 

medioevale, sigillo dell’ identità protestante; il suo approccio è quindi di tipi normativo, prescrittivo. 

__ Federico invece si riavvicina al gotico, adottando quasi un atteggiamento “conservativo”. 

Federico  è  attento  agli ornamenti  religiosi,  e  ciò  è  evidente  sia nella prassi  sia nell’ organizzazione degli  interventi  sugli  edifici, 

oggetto del   “Constitutiones ad Fabricam …” emanate nel 1620. A differenza delle  Instructiones del 1577 queste non affrontano 

questioni  architettoniche, ma  pongono  quale  obiettivo  la  sistematizzazione  di  un  apparato  amministrativo  interno  al  clero  di 

riferimento per ogni operazione di costruzione o di riparazione di fabbriche religiose.  

L’  intervento sul già costruito appare  la soluzione migliore, preferibile all’ ex‐novo,  in cui  incorrere solo  in casi di gravi dissesti o 

incapacità di accoglienza dei  fedeli; egli, per ogni  scelta architettonica e decorativa,  si attiene quindi alle  regole  conciliari e alle 

Instructiones Fabricae. 

4.2 _ Ammodernamenti, adeguamenti e trasformazioni della “venerabile antichità” a Napoli tra ‘500 e ‘600 

Il “restauro del culto cattolico” si diffonderà ben presto in tutta la penisola: gli interventi di Giorgio Vasari nella seconda metà del 

XVI secolo a Firenze forniscono un esempio eloquente della ricerca di un’ immediata chiarezza nella trasmissione della liturgia.  

a) Santa Maria Novella (dal 1565), Firenze 

Nel  cantiere  di  S. Maria  Novella  a  partire  dal  1565  egli  prenderà  le  distanze  dalle  operazioni  albertiane  di  un  secolo  prima:  all’  intervento 

precedente teso a condurre la preesistenza medioevale ad una moderna concinnitas egli opporrà delle trasformazioni decise, che distruggeranno il 

coro e inseriranno dei tramezzi lignei nella navata centrale, allo scopo di rendere maggiormente razionale e funzionale lo spazio sacro dal punto di 

vista liturgico. 

 

b) Complesso di Monteoliveto (1544), Napoli 

Anche in questo esempio precedente è evidente il superamento della classicità rinascimentale e il rifiuto verso il gotico. Egli accetterà l’ incarico di 

decorare il refettorio del compelsso allo scopo di abbagliare lo spettatore con il ricorso a ricche ornamentazioni e varie figure. 

Essendo  il  tufo  un materiale molto malleabile  il  lavoro  di  Vasari  risultà 

facilitato:  egli,  senza  alcuno  scrupolo  “conservativo”  sottrarrà materia  ai 

costoloni e ai pennacchi per annullare la tensione delle membrature tardo‐

gotiche,  a  vantaggio  di  un’  iconografia  “moderna”  per  tematiche  e 

modalità espressive. Rispettato  l’  impianto  rettangolare della  sala  con  le 

sue  tre  campate  quadrangolari,  Vasari  incentrerà  il  proprio  impegno 

soprattutto sulle coperture voltate, di cui schiaccerà le chiavi con ottagoni 

raffiguranti la Fede, la Religione e l’ Eternità.  

Le  spigolosità  dei  costoloni  sono  inoltre  annullate  da  ellissi  che 

racchiudono  le  virtù  che,  insieme  alle  grottesche  che  si  articolano  tra  i 

medaglioni, motivo  derivante  dall’  esplorazione  di  catacombe, marcano 

ulteriormente  il  distacco  dalla  preesistenza,  preludendo  al  barocco. 

Materiale usato per realizzare tutto ciò è lo stucco che, con la sua duttilità, 

ben si presta all’ “abbellimento" manierista; il suo uso in questo complesso 

è uno dei primi esempi in ambito napoletano. 

Lo  stesso  materiale  si  ritrova  nei  prospetti  laterali  della  sala,  dove 

sottolineerà le aperture presenti sul lato sinistro incorniciandole entro modanature e sormontandole con festoni, e risolverà illusionisticamente il 

fronte opposto con finte aperture e analoghe decorazioni. 

 

Il periodo in cui Vasari soggiorna a Napoli è contraddistinto da diversi fenomeni: la crescita demografica e i vivaci fermenti ereticali 

diffusisi sia tra i ceti civili sia all’ interno dei gruppi religiosi. Immediatamente si registrerà in città l’ arrivo e l’ affermazione di nuovi 

gruppi  religiosi  miranti  a  frenare  l’  ondata  luterana:  tali  nuove  presenze  determineranno  la  realizzazione  ex‐novo  di  diversi 

complessi religiosi, con la frequente demolizione del già esistente o la trasformazione radicale di preesistenti fabbriche sacre. 

Un esempio è dato dall’ arrivo n città dei Gesuiti a partire dal 1552; dal 1584 riusciranno a acquistare l’ edificio del ‘400 dei principi 

di Salerno Sanseverino,  in piazza del Gesù e ad  intraprendere un complessa opera di demolizione delle strutture precedenti allo 

scopo di realizzare la nuova Chiesa del Gesù. 

 

Page 14: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  14

 

c) Chiesa del Gesù (1584‐1601), Napoli 

Sarà costruita entro  i  limiti  imposti dalla preesistente  residenza civile e,  in un primo momento, sarà collocata  in corrispondenza della corte del 

palazzo. L’  impossibilità di estendersi sul suolo pubblico della piazza   e una resistenza da parte della cittadinanza determineranno  il riutilizzo del 

paramento in piperno a punta di diamante lungo i 3 lati perimetrali della fabbrica, rielaborato con nuovi inserti del ‘500 e del ‘600. 

Il risultato sarà un’ architettura  ibrida, carattere evidente già  in  facciata con  la sopraelevazione del  fronte preesistente nella parte centrale con 

bugne ricavate dai prospetti laterali, chiuso in alto con volute in pietra.  

La chiesa dei gesuiti appare irrisolta architettonicamente per la mancata realizzazione di un coronamento 

a timpano ricurvo che avrebbe dovuto concludere superiormente la facciata. 

Il portale marmoreo  rinascimentale, anch’ esso appartenente alla  fabbrica civile, verrà  riutilizzato come 

accesso principale della chiesa1.  

A  rendere  palese  all’  esterno  l’  impianto  tripartito  interno  contribuiranno  i  portalini  laterali  e  i 

corrispondenti finestroni del 1598, unici elementi che, con l’ ampia, coeva aperture centrale, denunciano 

l’ esistenza, alle spalle delle quinta civile, di uno spazio religioso. 

 

4.3 _ Architetture pagane a fabbriche cristiane a confronto: S. Paolo Maggiore e la cattedrale di Pozzuoli 

A sostenere l’ opera di rinnovamento religioso durante e dopo il concilio accanto ai gesuiti ci saranno i Teatini che, giunti a Napoli 

nel 1533,  riusciranno a ottenere una  sede definitiva  in  corrispondenza della  chiesa di  San Paolo Maggiore, nel 1538.  Il  cantiere 

teatino  è in pieno clima post‐tridentino e dimostrerà la capacità di un ordine religioso di operare un aggiornato “restauro” di una 

preesistenza medioevale sull’ onda della rinnovata liturgia.  

a) Chiesa di San Paolo Maggiore (1580 circa) Una  plurisecolare  attività  d’uso  contraddistingue  l’  area  dove  sorgerà  la  basilica;  fin  dal  I  secolo  d.C.  è  ivi 

collocato un tempio di età tiberina sorto probabilmente su una (III sec. A.C.).  

  

III sec a.C          ‐‐‐     preesistenza religiosa di epoca sannitica 

I sec d.C                ‐‐‐        tempio di età  imperiale,  tiberina, è dedicato alla dea Partenope e ai Dioscuri  (Castore e 

Polluce, figli di Zeus). Si articolava secondo la consueta successione di scalinata, pronao a 

sei  colonne  frontali  e  due  nei  risvolti,  cella;  il  tutto  si  concludeva  con  architrave  con 

iscrizione dedicatoria e un ricco frontone con sculture. 

VIII‐IX sec d.C.  ‐‐‐      in epoca medioevale  la  fabbrica pagana verrà riutilizzata come chiesa cristiana dedicata a 

San Paolo: la cella templare sarà conservata e suddivisa all’ interno in 3 navate separate da 

colonne in granito mentre il pronao avrà funzione di sagrato. 

Nei secoli successivi la fabbrica cade, ma attira ancora eruditi, artisti  ed architetti. 

1538         ‐‐‐  donazione ai Teatini, primo intervento provvisorio:  spostamento coro dei padri alle spalle dell’ 

altare maggiore. 

1580 ca        ‐‐‐  cominciano interventi di “restauro” nel transetto e nell’ abside. 

1588                ‐‐‐  allungamento  verso  sud e nuova navata  centrale progettata da Gian Battista Cavagna, di 

larghezza corrispondente alla cella templare pur se ridotta longitudinalmente rispetto alle 

dimensioni  attuali2.  Cavagna  disegnerà  un  prospetto  verso  il  decumano  che  rispetta  il 

pronao tiberino. 

1671              ‐‐‐  collegamento del colonnato alla facciata retrostante mediante una nuova volta o un soffitto 

piano; di conseguenza buona parte degli elementi del pronao vengono perduti in seguito al 

terremoto. 

1688              ‐‐‐  terremoto;  ci  sono  sollecitazioni  concentrate  nel  pronao  con  spinte  verso  l’  esterno,  che 

determinano  il  crollo  di  4  delle  antiche  colonne.  A  seguito  dell’  evento  Arcangelo 

Guglielmelli progetterà un nuovo fronte mantenendo in sito le 4 colonne rimaste in piedi. 

Di queste 4 colonne, 2 erano ancora collegate alla facciata retrostante mediante un tratto 

della trabeazione romana, mentre le rimanenti giacevano libere in sommità. 

1712             ‐‐‐  la condizione di precario equilibrio delle 2 colonne ne comporterà lo smontaggio da parte di 

Domenico  Antonio  Vaccaro;  il marmo  antico  di  queste  colonne,  così  come  quello  delle 

sculture del frontone gli fornirà materiale da reimpiegare nei rivestimenti dei pilastri della 

navata centrale della chiesa. 

 

 

                                                            1 _ A partire dal 1693 verrà restaurato da Guglielmelli, con l’ aggiunta di colonne laterali in granito rosso e di un frontone spezzato coronato da una 

teoria di angeli. 2 _ nei primi del ‘600 Giovan Giacomo Conforto aggiungerà le cappelle e le navate laterali, allungando la navata verso sud. 

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b) Duomo di Pozzuoli (dal 1632) Paragonabile al cantiere teatino per le sue diacroniche trasformazioni condotte a partire dall’ età romana, confermando la funzione religiosa e la 

valenza sacra del luogo può ritenersi il duomo di Pozzuoli. Il sito dove sorgerà la cattedrale puteolana affonda le radici in età repubblicana. 

II sec a.C                    ‐‐‐  alto podio templare in tufo appartenente al Capitolium cittadino, orientato con asse maggiore in direzione nord‐sud. 

I sec a.C./I sec d.C.  ‐‐‐ su questi resti Lucio Cocceio Aucto imposterà una nuova struttura templare, il cosiddetto “tempio di Augusto”, ricorrendo 

quasi  esclusivamente  al  marmo  di  Carrara.  Il  nuovo  edificio  è  pseudoperiptero  (i  muri  esterni  hanno  semicolonne 

addossate) ed esastilo. Medioevo                  ‐‐‐ adattamento della fabbrica pagana per uso cristiano. 

1490 circa             ‐‐‐ Giuliano da Sangallo elabora una ricostruzione grafica dell’ edificio 

nella quale esso è caratterizzato da una cella quadrata, scandita 

da  semicolonne  esterne  e  lesene  interne,  rivestita  di  lastre  a 

bugnato piano  e preceduta da un  ampio pronao  colonnato.  Si 

accedeva  alla  sommità  del  podio  mediante  due  gradinate 

parallele e addossate ai lati lunghi del tempio. 

1538                                      ‐‐‐ eruzione Monte Nuovo;  le scosse successive resero necessario un 

consolidamento  dell’  edificio  con  l’  ispessimento  delle  mura 

perimetrali  verso  l’  esterno  e  con  la  copertura  delle  strutture 

perimetrali del tempio. 

1632                             ‐‐‐ il “restauro” progettato da Bartolomeo Picchiatti si innesterà su 

una preesistenza di epoca  romana già modificata e consolidata 

nel  ‘500.  Regista  di  tali  operazioni  è Martin  Leon  y  Cardenas, 

vescovo  di  Pozzuoli  dal  1631  al  1650.  L’  aggiornamento 

architettonico  ‐  liturgico del duomo, mirante ad annullare ogni 

traccia  della  vetustà  della  fabbrica,  sarà  condotto mediante  lo 

sfondamento della parete posteriore della cella e la demolizione 

di 3  intercolumni del  tempio romano, al  fine di ricavarvi  l’ arco 

maggiore della tribuna. In corrispondenza dell’ arco si  innesterà 

una  nuova  soluzione  absidale  voltata  a  botte.  Alla  navata  si 

addosseranno  nuovi  spessori  murari  verso  l’  interno 

conservando  la  struttura  templare e  si aggiungeranno  cappelle 

aterali  scandite  da  pilastri.  Sarà  inoltre  realizzata  una  nuova 

facciata  verso  l’  esterno mentre  lo  spazio  interno  della  chiesa 

(corrispondente  all’  antico  naos  e  pronao)  verrà  rivestito  di 

stucchi  e  concluso  da  una  volta  incannucciata.  Si  tratta  di  un 

restauro che non si risolve in ardite invenzioni, ma che si pone l’ 

obiettivo  di  ordinare  e  aggiornare  ai  dettami  moderni  una 

fabbrica  angusta;  tale  restauro  inoltre  sottolineerà  la  valenza 

urbana della chiesa, dotandola di maggiore visibilità dall’ esterno 

in seguito alla demolizione di edifici e case a essa adiacenti. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

‐ volta della cappella del SS Sacramento

Page 16: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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4.4 _ Antiquitates medievali e aspirazioni innovative a Napoli tra ‘600 e ‘700 

A  paragone  con  altri  contesti  urbani,  la  trattatistica borromeana  giungerà  a Napoli  con  un  certo  ritardo:  bisognerà  aspettare  il 

sinodo indetto dal cardinale Innico Caracciolo nel 1676 perché i rimandi al cardinale milanese diventino espliciti. Tuttavia a partire 

da  questa  data  a  circolare  maggiormente  in  ambiente  campano  sono  altri  testi,  volumi  “minori”,  prodotti  sulla  scia  delle 

Instructiones, che verranno adattate alle contingenze locali. 

 Il campo edilizio è contraddistinto da atteggiamenti contraddittori, da frenetiche attività di acquisto e demolizione di strutture, di 

apertura di cantieri da parte della committenza ecclesiastica, legata sia a ordini femminili che maschili. 

La tendenza da parte  da parte di tali ordini, durante i cantieri, di inglobare nel proprio perimetro edifici civili e religiosi attraverso 

donazioni e acquisizioni porterà varie lamentele, esposte nel “Memoriale per le fabbriche di nuove chiese ed ampliazione di esse” del 

1714. 

L’ influenza delle raccomandazioni borromeane nei cantieri di edifici religiosi femminili è evidente: la facciata‐portico sarà un tema 

ricorrente non solo nelle realizzazione ex‐novo, ma anche nei rifacimenti. La ricostruzione della chiesa di San Gregorio Armeno 

(1574‐1580) si accompagnerà all’ edificazione di un pronao ad arcate lungo il cardo corrispondente.; analogamente accadde nella 

chiesa dei Santi Marcellino e Festo (1626‐1633) che si proietta all’ esterno, verso lo spazio urbano, con un atrio con volte su pilastri. 

Tali soluzioni hanno una duplice funzione, distributiva oltre che simbolica, in quanto consentono di alloggiare il coro delle monache 

ad un livello più alto, retto dalle strutture dell’ atrio, e non visibile dall’ esterno.  

In questo periodo a Napoli si registra anche la diffusione di una ricca letteratura artistica che affianca al racconto l’ immagine  per 

raccontare,  testimoniare,  trasmettere  al  futuro  ciò  che  viene  realizzato  o  che  viene  osservato  nel  presente.    Tali  fonti  scritte 

mostrano  un  clima  culturale  ancora  fortemente  oscillante  tra  apprezzamenti3  e  volontà  di  distacco  dalla memoria  del  proprio 

passato; tuttavia si nota una diffusa indifferenza verso il patrimonio medioevale e il rispetto verso l’ architettura classica. 

a) Basilica di Santa Restituta   

Le  vicende  che  caratterizzano  la  storia    dei  “restauri”  della  basilica  nel  duomo  di Napoli  sono  complesse;  la  storia  del  luogo  ha  inizio  in  età 

paleocristiana. 

IV sec d.C.   ‐‐‐ impianto paleocristiano con 5 navate separate da colonne e capitelli di spoglio. 

XIII sec        ‐‐‐ privata di tre campate e della facciata. 

XIV sec.          ‐‐‐ chiusura navatelle estreme per ricavarne cappelle gentilizie mentre gli archi a tutto sesto tra  le colonne verranno rifatti con sesto 

rialzato. 

metà  ‘600    ‐‐‐  tale veste, complessa e stratificata, costituita da elementi romani, medioevali e gotici sarà oggetto di contrastanti atteggiamenti, 

protesi da un  lato al suo aggiornamento al coevo gusto e  linguaggio architettonico e  , dall’ altro, alla salvaguardia dei segni del 

passato. Il “moderno” e l’ “antico” si scontreranno nelle figure di Carlo Celano, segretarie del Capitolo metropolitano, e  Giacomo 

Cangiano,  canonico  della  cattedrale.  La  querelle  sarà  scatenata  dalla  volontà  del  cardinale  Innico  Caracciolo    di  riavviare  una 

riconfigurazione in chiave barocca dello spazio medioevale, includendone le colonne entro pilastri, rivestendone superfici e capitelli  

con stucchi e alterando la percezione luministica della fabbrica costantiniana mediante il ridisegno delle aperture gotiche. 

Cangiano  da  subito  si  ergerà  in  difesa  dell’  antichità  della  basilica  invocandone  la  conservazione  nella  forma,  e  concedendo 

interventi  solo al  soffitto e al pavimento, necessari per  rispondere ai problemi di  risalita dell’ umidità. A  tal proposito Cangiano 

scrive numerose  lettere a Celano a partire dal 1687, con  lo pseudonimo L’ Antichità, dove motiva  la necessità di conservare tale 

fabbrica nella sua interezza richiamando l’ esiguo numero di antichità superstiti a Napoli.  

1688            ‐‐‐ terremoto.  

Il  dibattito  avrebbe  potuto  ottenere  risultati  diversi  se  il  terremoto  non  avesse  arrecato  alle  strutture  danni  tali  da  rendere 

necessario  un  intervento. Nonostante  il  dissenso  diffuso  il  capitolo metropolitano  deciderà  di  alterare  le  strutture medioevali, 

affidando  il compito ad Arcangelo Guglielmelli;  tuttavia  i conservatori non si  tirano  indietro e mirano a  ridurre  il più possibile  l’ 

impatto  del  nuovo  intervento.  Cangiano  invocherà  la  conservazione  la 

conservazione dei fusti e dei capitelli, evitando l’ apposizione di stucchi, e il rispetto 

delle finestre gotiche. 

Il  risultato di  tale dibattito  sarà un progetto anomalo nel  suo duplice  tentativo di 

mantenere  in  vista  i  segni  più  eloquenti  della  preesistenza  senza  rinunciare  all’ 

ammodernamento:  

_  gli archi di sinistra verranno rifatti come quelli posti sulla destra, 

_  le murature della navata  centrale  saranno  innalzate di  circa 9 palmi napoletani 

(2,4 m)  dove  verranno  aperti  nuovi  vani  rettangolari  al  posto  delle  finestre 

gotiche; 

_  i problemi di umidità ascendente verranno risolti da Guglielmelli che solleverà  la 

quota del pavimento mascherando la modifica con l’ apposizione di nuove basi‐

collarini alle colonne di destra, che non furono rimosse.  

                                                            3 _ Celebri sono le critiche di Carlo Celano ai “restauri” seicenteschi effettuati in S. Lorenzo Maggiore. 

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_ egli non rinuncerà all’ esuberanza delle ornamentazioni rivestendo le murature antiche e quelle rifatte con stucchi e ridisegnando 

l’arco absidale con un effimero drappo in legno dipinto, opera di Lorenzo e Nicola Vaccaro. 

 

4.5 _ Dalla precettistica alla libertà espressiva: alcuni cantieri di restauro nei primi del XVIII secolo a Napoli 

Entro una prassi coeva  fortemente connotata dal “difformar molte  fabbriche”  stava nascendo una prima  forma di contrasto alle 

trasformazioni dell’  antico  in  ambiente napoletano  già  all’  alba del  1700. Di  tale  sensibilità  sembra  farsi portavoce uno dei più 

“liberi” architetti partenopei, Ferdinando Sanfelice, autore di numerosi restauri ed estimatore delle vestigia antiche4.  

Tuttavia nonostante l’ avvicinamento all’ antico di alcuni esponenti della classe tecnica locale, sussistono ancora molti episodi in cui 

la trasformazione o la perdita della stratificazione precedente costituirà la norma. 

a) abside del duomo di Napoli – (dopo il 1732) 

Il restauro dell’ abside è emblematico di un atteggiamento non molto attento alle vestigia del passato.  

Di fronte ai dissesti della struttura poligonale di età gotica, già compromessa dalla realizzazione del Succorpo rinascimentale, consolidata alla fine 

del  ‘500  e  danneggiata  dal  terremoto  del  1732,  Paolo  Posi  inventerà  una  soluzione  scenografica  che  non  terrà  in  alcun  conto  le  istanze  di 

conservazione.  

In risposta alle spinte trasmesse dalla volta a crociera sulle murature perimetrali egli penserà di demolire la copertura gotica per sostituirla con una 

falsa  volta,  più  leggera,  decorata  da  cassettoni  all’  intradosso  e  sospesa  ad  un  sistema  di  travi  all’  estradosso.  L’  intervento  comporterà  l’ 

abbassamento dell’arco maggiore di  circa 5 metri e  la parziale  chiusura del  finestrone  centrale al  fine di  collocare  la  “macchina” barocca dell’ 

Assunta.  Trasferirà  il  coro, dalla navata  centrale, dietro  l’  abside e di  conseguenza progetterà  il prolungamento del piano dell’  abside  verso  il 

transetto mediante  un  ricco  avancorpi  circondato  da  una  balaustra;  prevede  inoltre  un  nuovo  accesso  al  succorpo mediante  due  scalinate 

simmetriche disposte ad ellisse. 

 

Anche l’ impegno sul campo di Domenico Antonio Vaccaro, così come quello di Sanfelice, si dimostrerà variabile nei rapporti con l’ 

antico, con soluzioni oscillanti da una volontà di conservazione a una libera reinterpretazione della preesistenza. Tale atteggiamento 

mutevole è  riscontrabile negli  interventi progettati per  il  complesso napoletano di  Santa Chiara, e  soprattutto per  la  chiesa e  il 

chiostro monastico. 

 

a) complesso di Santa Chiara – (dal 1739) 

CHIOSTRO  __La  vetustà  delle  fabbriche  e  soprattutto  il  desiderio  della  regina  Maria  Amalia  di  Sassonia  (moglie  di  Carlo  di  Borbone)  di 

ammodernare  il  chiostro  angioino  sostituendo  i  viali  in mattoni  con  viali  in  terra  battuta,  saranno  all’  origine  del  progetto  di 

Vaccaro. Vincolato  dal  recinto  claustrale  su  pilastri  ottagoni  ed  archi  a  sesto  rialzato,  egli  progetterà  un’  architettura  dentro  l’ 

architettura esistente, ricorrendo ad un disegno essenziale in pianta ma raffinato in alzato.  

Egli  non  si  opporrà  all’  antico, ma  dialogherà  con  esso  individuando  in  primis,  quale  asse  generatore  dei  nuovi  viali,  quello 

corrispondente  alla  preesistente  scala  regia  che  conduce  alla  chiesa,  e  poi  realizzando  un  sistema  a  croce  assolutamente 

indipendente dal  ritmo degli archi gotici. Vaccaro  richiama  il motivo ottagonale dei pilastri  trecenteschi nella  sezione dei nuovi 

piedritti, smaterializzati dalla decorazione a motivo vegetale su maiolica; inoltre realizzerà un pergolato superiore di legno. 

Il sapore “naturale” dell’ insieme sarà rafforzato dall’ uso dell’ acqua presente nelle fontane disposte tra i viali minori. 

BASILICA     __ concluso l’ intervento nel chiostro, le religiose procederanno con il restauro della basilica trecentesca, rimasta alla metà del ‘700 tra 

le poche architetture medioevale ancora leggibili nei loro caratteri angioini originari. La chiesa, a navata unica, fiancheggiata da 10 

cappelle per  lato, chiusa da un presbiterio, per  la sua grandiosità per  la preziosità delle “memorie” sepolcrali  ivi contenute aveva 

goduto di una grande ammirazione ancora nel ‘600. Le clarisse affideranno a Domenico Vaccaro e Gaetano Buonocore il controllo 

del cantiere avviato nel 1743 fino al 1746. In questo triennio, in maniera analoga a quanto era stato fatto per l’ abside del duomo di 

Napoli, verrà posta una calotta in legno in corrispondenza dell’ altare maggiore. Nascosta la copertura a capriate con un sistema di 

legno e canne l’ area presbiteriale sarà ammodernata trasformando le due arcate laterali gotiche, per alloggiarvi nuovi cori intagliati 

in legno, e rivestendo la volta con finti stucchi. 

Tra  il 1751 e  il 1763 si apre  la seconda  fase del cantiere, durante  la quale si assiste a un passaggio di direzione, a Giovanni del 

Gaizo, che non comporta il cambiamento del progetto di Vaccaro‐Buonocore. Egli termina il lavoro di mascheramento delle antiche 

capriate con una volta  in  legno e canne a sesto  fortemente  ribassato;  tale “copertura” della navata contribuirà a diminuirne  lo, 

slancio ascensionale, così come la variazione del disegno delle aperture laterali modificherà la diffusione della luce nella basilica. Le 

trifore delle  cappelle  laterali  verranno  tamponate per  realizzare più  “moderne”  aperture quadrangolari  sormontate da un  arco 

ribassato; le slanciate bifore superiori saranno sostituite da monofore e oculi. 

Verrà messo in opera il rivestimento in marmi policromi dei pilastri angioini e delle balaustre delle cappelle laterali. Il risultato finale 

dell’  intervento  sarà uno  spazio  anomalo nel panorama dell’  architettura barocca napoletana,  vincolato nelle proporzioni dalla 

preesistenza medioevale. 

 

                                                            4 _ il suo atteggiamento è confermato dalla posizione assunta nel 1740 in difesa delle ultime due colonne del pronao di San Paolo Maggiore, 

destinate alla demolizione per volere dei teatini o dal progetto, non realizzato, per il restauro della basilica di Santa Chiara, connotato dal rispetto per le finestre gotiche. 

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4.6 _ Preesistenze religiose e interventi di restauro nel ‘600 a Roma: Borromini e San Giovanni in Laterano 

A  partire  dalla  metà  del  ‘500  e  per  circa  un  secolo  Roma,  come  Napoli,  vivrà    una  notevole  crescita  demografica  che  si 

accompagnerà alla diffusione di fabbriche e cantieri sia civili che religiosi. All’ affermazione dei nuovi ordini e all’ istituzionalizzazione 

dei dettami tridentini si accompagnerà un programma urbanistico, culminante durante  il pontificato di Sisto V  (1585‐1590),   teso 

alla valorizzazione delle “antiquitates” cristiane, concepite come fuochi entro una maglia urbana rigorosa e funzionale. 

Rispetto al piano sistino, più generale,  più di ampio respiro, gli interventi e i programmi urbanistici effettuati nel corso del ‘600 si 

caratterizzeranno per un’ attenzione più mirata a singole parti della città: ne è un esempio  la  riqualificazione di Piazza Navona, 

promossa da papa Innocenzo X Pamphili con l’ edificazione del palazzo di famiglia, della chiesa di S. Agnese in Agone e della fontana 

dei 4 fiumi. Quest’ intervento sarà vincolato solo planimetricamente dalle preesistenti strutture del Circus dioclezianeo; si esprimerà 

infatti come “moderno” spazio all’ interno di una città stratificata. 

In vista dell’ anno santo del 1650 verranno commissionate numerose e dispendiose imprese dal papato, come i restauri delle grandi 

basiliche di Costantino, da San Paolo  fuori  le mura, a S. Pietro e a San Giovanni  in  Laterano,  che non hanno  solo un  significato 

tecnico ma  soprattutto  simbolico;  sono  finalizzate  a  conferire  ai monumenti  interessati  il  ruolo  di  punti  focali  di  un  percorso 

celebrativo che intende riaffermare le radici della cristianità.  

 

a) Basilica di San Giovanni in Laterano – (dal 1646) 

L’  intervento di Francesco Borromini, operante a partire dal 1646, sarà animato dalle   “discussioni” tra committenza e progettista; tale continuo 

confronto   porterà ad un risultato complesso per tematiche significati e linguaggio architettonico.  

IV  sec  d.C.      ‐‐      impostata  su  una  pianta  a  5  navate  suddivise  da  colonne,  la 

fabbrica costantiniana aveva perso parte delle antiche  strutture 

in seguito agli incendi trecenteschi, cui seguiranno la sostituzione 

dei piedritti della navata centrale con pilastri ottagoni raccordati 

da  archi  e  l’  apertura  di  finestre  ogivali  lungo  la  medesima 

navata. 

Rinascimento ‐‐ decorazione prospetto nord della navata principale, posa in opera 

nuova pavimentazione su quella costantiniana, ricostruzione arco 

trionfale. 

1559/1565      ‐‐ campagna di lavori sotto il pontificato di Pio IV:  

 _ rifacimento del fronte interno del transetto; 

 _ costruzione cassettonato di chiusura della navata centrale. 

1600 circa    ‐‐ le navate minori sono separate da quelle estreme da colonne di spoglio in granito, sormontate da pulvini e capitelli compositi; tali 

elementi  rappresentano  le  uniche  testimonianze,  gli  unici  resti,  della  basilica  paleocristiana  e  pertanto  rivestiranno  grande 

importanza  nella  “restaurazione”  seicentesca.  L’  incarico  attribuito  dal  pontefice  Innocenzo  X  a  Borromini  sarà  preciso  e 

circoscritto  sia  riguardo  i  tempi  che  lo  spazio:  il  restauro  si  concentrerà  nel  corpo  longitudinale  della  chiesa,  lasciando 

volutamente fuori dal progetto la zona absidale e il transetto (scelta conservativa).  

1646             ‐‐ A differenza di quanto accadde nella chiesa S. Pietro in S. Giovanni la committenza indirizzerà l’ intervento verso obiettivi precisi 

attraverso un apposito chirografo del 1647: nel documento papale è evidente l’ importanza data alla conservazione della fabbrica 

nella sua primitiva  forma. Borromini  realizza  tre progetti e progressivamente deve  lasciare da parte  i suoi ambiziosi propositi, 

vincolato com’è dalle aspirazioni conservative del committente.  

Nel progetto definitivo egli conserva il cassettonato del ‘500, e l’ intervento si realizzerà nella navata centrale, in una scansione di 

pieni  (ritmati  da  un  ordine  gigante  di  paraste  e  separati  da  arcate),  e  nelle  navate  laterali,  nella  successione  di  campate  e 

cappelle. Ampie finestre verranno associate alle arcate, mentre ai pieni corrisponderanno 10 tabernacoli, sovrastati da cornici e 

ovali in stucco. Una diretta corrispondenza con la navata sarà definita nell’ impaginato della controfacciata, ove il riproporsi della 

travata ritmica e l’ andamento concavo contribuiranno a dare una certa unità compositiva all’  intervento. Egli attuerà anche un 

programma di consolidamento dell’ esistente, mediante l’ ispessimento delle murature della navata centrale che ne aumenta la 

sezione  resistente ma ne  sposta  anche  il punto d’  appoggio  verso  fuori; per ovviare  a  tale problema Borromini utilizzerà dei 

saettoni. 

1656                 ‐‐ il progetto di completamento della facciata ideato da Borromini sarà eseguito solo più tardi da un altro architetto.  

 Egli prevede una soluzione porticata ad unico livello anteposta al fronte della basilica; così facendo egli cita il portico preesistente 

del XII secolo con colonne architravate. Egli concepisce un’ architettura contraddistinta dalla successione di 5 arcate di cui quella 

centrale  segnata  sui  lati da  colonne.  La  volontà di mettere a  confronto  la preesistenza e  la più moderna aggiunta  si  sarebbe 

attuata mediante la conservazione della quinta medioevale grezza in mattoni. Egli non vedrà mai il risultato, che sarà modificato 

da Alessandro Galilei che realizzerà la facciata definitiva nel 1732; riprendendo il progetto borrominiano lo allungherà in altezza, 

dando vita ad un ordine gigante che copre tutta l’ altezza dell’ edificio, incorniciato da colossali pilastri di ordine composito. 

L’  intero  progetto  si  contraddistingue  per  l’importanza  data  al  valore  conservativo,  evidente  ad  esempio  nella  volontà  di 

mantenere  a  vista  la  muratura  paleocristiana  in  corrispondenza  degli  oculi  cinti  di  alloro,  o  nel  riutilizzo  delle  colonne 

costantiniane  in  verde  antico,  asportate  per  poter  realizzare  le  navatelle  laterali,  in  altri  luoghi  della  fabbrica,  come  in  un 

tabernacolo. Borromini quindi adatterà la preesistenza ai suoi scopi piuttosto che piegarsi di fronte ai suoi vincoli. 

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4.7 _ Bernini “restauratore” nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo 

Il  grande  interesse per  l’  architettura  connoterà  il pontificato di Alessandro VII Chigi  (1655‐1667)  che  si  tradurrà  in una diffusa 

attività edilizia sia a scala urbana che architettonica. L’ artista prediletto dal papa è Gian Lorenzo Bernini, che riceverà da lui molti 

incarichi, fino all’ impresa del colonnato di San Pietro. 

Il restauro beniniano più controllato dalla committenza è quello riguardante la chiesa agostiniana Santa Maria del Popolo.  

 

a) Santa Maria del Popolo – (1655‐1661) 

Entro  la preesistenza quattrocentesca egli svilupperà un programma condotto per apposizione più 

che per  sottrazione dell’ antico.  L’  impianto  si basa  su 3 navate  con  cappelle  laterali,  lo  spazio è 

scandito da pilastri con semicolonne addossate ed è coperto nella navata princpale da crociere a 

spigolo vivo. 

Bernini  manterrà  il  ritmo  delle  campate  originario  conservando  le  coperture  delle  navate;  la 

successione delle arcate verrà sottolineata da un’ alta trabeazione in stucco a dentelli che si piega e 

segue l’ architettura preesistente, sottomettendosi ad essa nell’ andamento ma non nel linguaggio; 

tale elemento ha una funzione regolarizzatrice, unificante. 

Per quanto  riguarda  la  finitura delle  superfici egli elimina  il più antico  intonaco per  realizzare un 

nuovo intonaco a finto marmo cipollino, eliminato ai primi del ‘900. Inoltre ridisegna le aperture nel 

corpo longitudinale trasformandole da bifore a monofore. 

Il suo  intervento procede quindi per giustapposizione di  figure ed elementi  isolati e non  lo si può 

vedere come un’ unitaria riconfigurazione della fabbrica: è un esempio di arricchimento decorativo. 

Tale  evidente  volontà  di  abbellire  la  fabbrica  all’  interno  si  accompagnerà  all’  esterno  in  un 

intervento  più modesto,  con  limitate  alterazione  della  facciata  originaria.  Bernini  ridisegnerà  la 

scalinata d’ ingresso, più arrotondata, aggiungerà timpani sulle porte laterali e apporrà ghirlande a 

nuove volute raccordanti  il corpo centrale e  le navatelle. Anche  in  facciata  le bifore diventeranno 

monofore mentre  l’ originario  rosone  sarà  sostituito da un oculo  finestrato. Così  facendo Bernini 

ricondurrà la fabbrica entro lo spirito del proprio tempo. 

 

b) Porta del Popolo – (1655 circa) 

Bernini si occuperà anche della quinta civile della porta del Popolo. Il ricorso dalle volute 

segnate da ghirlande costituisce  il punto d’  incontro,  l’ unione tra  i due poli visivi della 

piazza,  connotando  il  “restauro”  chigiano non  solo  come un  intervento  architettonico 

ma bensì urbanistico. L’ aspetto attuale della porta è frutto di molteplici trasformazioni, 

di cui quella seicentesca è una fase intermedia: l’ antica Porta Flaminia inserita entro le 

mura  aureliane,  aveva  subito  un  primo  dissesto  durante  la  costruzione  della  chiesa, 

quando  furono realizzati due torrioni addossati alla porta  (poi demoliti nel 1879)5. Alle 

maestranze  seicentesche  si  presenterà  ad  unico  fornice  inquadrato  da  una  coppia  di 

colonne doriche trabeate e dotata di un’ attico unicamente all’ esterno. Il fronte interno 

appariva  incompiuto  con  parti  fatiscenti  sui  lati;  l’  intervento  del  papa  pertanto  si 

concentrerà  soprattutto  su  questo  lato,  entro  un  più  ampio  piano  di  allestimento 

barocco  della  piazza.  Il  prospetto  interno  sarà  arricchito  da  colonne  libere  binate 

proveniente  dal  transetto  della  basilica  vaticana,  mentre  il  registro  superiore  sarà 

caratterizzato da un’ attico sormontato da  timpani spezzati reggenti ghirlande e monti 

dello  stemma  Chigi  e  culminante  nella  cuspide  tonda  con  la  stella,  altro  simbolo  dei 

Chigi. 

 

 

 

 

 

 

4.8 _ 

                                                            5 _ i due fornici laterali saranno aperti nel 1887 per far fronte alle esigenze del traffico cittadino. 

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“Disse non haver talento atto alle mutazioni”: Bernini e il Pantheon 

Dal 1730 circa fino alla seconda metà del ‘700 il Pantheon sarà interessato da numerosi ininterrotti restauri. 

Nonostante il riutilizzo a partire già dal 608 d.C. della fabbrica pagana come chiesa cristiana dedicata a Santa Maria ad Martyres, la 

monolitica  romanità della  rotonda  si porrà quale  riferimento  immutabile nel  corso dei  secoli.  Sia  i progetti di Urbano VIII  che  i 

propositi di Alessandro VII si concentreranno soprattutto sul pronao e sulla volta, cercando di consolidare il più possibile. Tuttavia le 

strutture del Pantheon saranno oggetto di un serie di interventi che avranno come unico scopo quello di ricavare materiale per la 

fabbrica di San Pietro e per migliorare le artiglierie di Castel Sant’ Angelo: ad esempio Urbano Barberini ordinerà di fondere il bronzo 

delle capriate, poi sostituite con capriate in legno. 

Con  la direzione di Carlo Maderno, demolito  il  campanile  romanico preesistente,  l’  impresa Castelli‐Fancelli‐Radi‐Borromini dal 

1625 al 1632 ricostruiranno le torri campanarie sul blocco compreso tra il pronao e la rotonda e “restaureranno” l’ angolo sinistro 

del portico, sostituendo il capitello corinzio d’ angolo con un nuovo pezzo, scolpito forse da Borromini, seguendo l’ esempio antico, 

attualizzato mediante l’ ape dei Barberini scolpita a simbolo e ricordo della committenza. 

Alessandro VII Chigi manterrà fino alla morte, nel 1667,  la regia di una fitta successione di 

operazioni  realizzate  mediante  la  consulenza  di  Gian  Lorenzo  Bernini.  Si  manifesta  la 

volontà di ricollegare la quota di calpestio della piazza con il pavimento del pronao, posto 13 

gradini più  in basso  e di  valorizzare  la  fabbrica  adrianea  con  l’  eliminazione del mercato 

antistante e  l’ arretramento della casa dei Canonici sul  lato est;questi saranno gli obiettivi 

principali del pontefice a partire dal 1657. 

Il ruolo assunto da Bernini appare piuttosto marginale, limitato a presiedere la commissione 

incaricata  del  controllo  tecnico‐gestionale  dei  lavori,  senza  essere  citato  nei  documenti 

come progettista o  esecutore materiale.  Schizzi  e disegni  anonimi  lasciano  immaginare  il 

desiderio  della  committenza  di  riconfigurare  l’  intorno  dell’  edificio  con  assi  viari  che  lo 

avvolgessero seguendo  tracciati preesistenti o ne segnassero  la prospettiva con  tagli netti 

confluenti sul “fuoco” visivo della fontana cinquecentesca di Giacomo della Porta.  

In  seguito  a  tali  progetti  verrà  ultimato  solamente  il  ribassamento  di  circa  un metro  del 

piano di sedime della piazza al fine di mettere in vista le basi delle colonne. In questa fase di 

lavori  si  colloca  anche  il  complesso  intervento  strutturale  condotto  sul  lato  sinistro  del 

pronao a partire dal 1666 (già interessato dal restauro di Barberini): la presenza di un tamponamento murario medioevale eretto in 

sostituzione di due antiche colonne costituirà un’ incongruenza rispetto al resto dell’ edificio. Il problema da affrontare è quello di 

trasferire il carico del tetto da una base continua ad un sistema puntuale come quello delle colonne. Rinvenute porzioni di colonne 

di spoglio nei pressi della chiesa di S. Luigi dei Francesi si pensa di riutilizzarli qui, vengono quindi trasportati mediante argani e slitte 

lignee. L’ intervento prenderà il via dal puntellamento dell’ architrave preesistente e dallo smontaggio della corrispondente porzione 

di  copertura.  Scaricato  dai  pesi  superiori  si  potrà  demolire  il  tamponamento  murario  e  ricomporre  i  rocchi  di  colonne, 

opportunamente imbracati, al loro posto. Impegnativo sarà anche sistemare i capitelli nuovi come tutti gli altri elementi dell’ ordine, 

rifatti nel ‘600 riproducendo modanature e decorazioni della preesistenza; si tratta quindi di una copia nella definizione degli intagli. 

Anche l’ interno sarà oggetto di interventi rivolti alla parte basamentale, all’ attico, all’ oculo. Il papa aveva intenzione di ravvivare l’ 

ornato della cupola e si rivolge a Bernini il quale rifiuta di eseguire la decorazione dei lacunari, perché non si ritiene all’ altezza.  

I due personaggi  avevano una diversa opinione  sul  ruolo  assunto dall’  antichità  e  sulla  sua  “trasformazione”:  il papa  stimava  e 

conosceva il passato e lo riteneva uno strumento utile anche nel presente per contribuire all’ affermazione della città di Roma, che 

poteva diventare più grande di quella che era stata nel passato; Bernini invece ritiene che l’ integrità e l’ autorictas che tali vestigia 

possiedono non giustificava mai la libera espressione e, pertanto, egli si rifiuterà di intervenire. 

Il risultato del confronto sarà un cantiere avviato da Alessandro VII e interrotto da Clemente IX, quando già un terzo della cupola era 

stato ricoperto da stucchi con monti e stelle chigiani, poi fortunatamente rimossi. 

 

 

 

 

 

 

 

5 .    DDAALL  RRIIUUSSOO  AALLLLAA  CCOONNOOSSCCEENNZZAA  DDEELLLL’’  

Page 21: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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AANNTTIICCOO  ‐‐  ((AARRCCHHEEOOLLOOGGIIAA  EE  RREESSTTAAUURROO  NNEELL  XXVVIIIIII  SSEECCOOLLOO)) 

5.1  _ La riscoperta dell’ antico  

Alla  radice  delle moderne  formulazioni  del  restauro  c’è  la  riscoperta  settecentesca  di  un mondo  a  cui  l’  uomo moderno  non 

appartiene ma che vuole  indagarlo a fondo, scientificamente. Dalla  letteratura dell’ epoca si denota  l’ entusiasmo per  la scoperta 

dell’ antichità, il senso di attesa che tali nuove esplorazioni suscitavano. 

Il  contatto  diretto  con  gli  originali  antichi  e  l’  affermazione  di  metodologie  d’  indagine  basate  su  un  approccio  analitico  e 

sperimentale contribuiscono allo  spostamento degli  interessi antiquari dai valori estetici ai valori  intriseci, materiali dell’ oggetto 

stesso:  la  forma,  il  tipo di  lavorazione,  la vicenda storica che si è  impressa sul dato oggetto sono  i nuovi  interessi. Ciò comporta 

conseguenze sul modo di scrivere la storia, sul modo di esporre, sulla metodologia e finalità dell’ intervento sul preesistente. 

A  un’  idea  di  restauro  come  operazione  artistica  volta  a  rifare  parti  perdute  o  a  ripristinare  un  primitivo modello  via  via  si 

contrappone un’ istanza conservativa; tale fenomeno coinvolge sia opere classiche che rinascimentali. 

Tali nuove istanze conservative si fondano sulla consapevolezza che i ripensamenti e gli ultimi ritocchi dell’ artista  sono strumenti 

con cui  l’ autore ha perfezionato e personalizzato  l’ opera e che  le patine sono effetto di un processo di  lenta trasformazione che 

coinvolge e uniforma tutti gli strati; si contrappone all’ idea di tempo‐distruttore l’idea di tempo‐pittore. 

La seconda metà del  ‘700 costituisce una fase  fondamentale di accumulazione per  la storia del restauro; sviluppo delle discipline 

storiche,  ampliamento dei  confini del Grand‐Tour,  apertura di  alcuni  cantieri di  scavo  e  restauro  che  registrano  i primi  sviluppi 

metodologici  delle  nuove  discipline.  E’  giunto  a maturazione  quel  lento  processo  di  emancipazione  della  storiografia  da  una 

tradizione che poneva alla base della conoscenza  i dogmi della  fede; matura  la consapevolezza della discontinuità con  le epoche 

passate,  con  un  passato  che  ha  dato  luogo  a  una  produzione  artistica  importante ma  remota,  finita,  non  ripetibile  e  pertanto 

conoscibile con gli strumenti del presente. 

Legata al rifiuto del dogma  l’ emancipazione dei concetti di arte e di bello dal giudizio morale apre  la strada alla ricerca di nuovi 

modelli  di  riferimento,  che  vengono  attinti  dalla  natura  e  dalla  storia,  con  la  conseguenza  “instabilità”  dell’  ordine  classico:  si 

scelgono in tutto il passato i modelli per il presente, si estende il campo d’ azione della tutela e del restauro a manufatti di epoche 

diverse. 

 

5.2  _ La conoscenza dell’ antico tra imitazione, revival, conservazione 

Figura chiave nella fase di passaggio da un approccio   erudito e antiquariale a un approccio che aspira alla sistematicità è  l’ abate 

tedesco  Johann  Joachim Winckelmann.  Trasferitosi  a  Roma  nel  1755  ha  la  possibilità  di  visionare,  in  qualità  di  curatore  delle 

collezioni del cardinale Albani e di consulente per vari collezionisti, una varietà di reperti eccezionale per un erudito del suo tempo. 

Egli progetta di sistematizzare lo studio dell’ antico attraverso un processo che parte dall’ osservazione diretta, dalla ricerca di fonti 

scritte e procede per confronto dei dati così acquisiti; questo metodo gli consente di organizzare una storia dell’ arte universale 

strutturata secondo partizioni cronologiche. Tale approccio richiede una notevole quantità di dati che gli studiosi settecenteschi non 

avevano. Assume quindi nuova  importanza  il  reperto  autentico,  i monumenti di datazione  certa  e  arriva un nuovo  impulso  all’ 

esplorazione archeologica. 

Anche la rappresentazione dell’ antichità registra significativi cambiamenti: fin dal Rinascimento le opere antiche erano considerate 

un modello da eguagliare e superare, il loro studio aveva come fine l’ appropriazione del linguaggio classico; nel ‘700 invece viene 

eletta quale soggetto da rappresentare la realtà storica di luoghi e edifici. 

Insieme  all’  ampliamento  delle  rotte  del  Grand‐Tour  aumenta  il  numero  di  pubblicazioni  illustrate  a  carattere  scientifico  che 

documentano  tali meraviglie:  la  più  importante  è  sicuramente  “Antiquitaties  of  Athens”  degli  inglesi  James  Stuart  e Nicholas 

Revett. L’opera è l’ esito di un lavoro di rilievo e disegno sul posto durato 3 anni e si pone quale opera paradigmatica per l’ indagine 

sistematica effettuata dagli autori sulle opere antiche, fondata sull’ esattezza e  l’ oggettività dei rilievi, sull’ adozione di un’ unica 

unità di misura,  la rappresentazione  in scala. Anche  le vedute rispondono esattamente alla realtà dei  luoghi, non era negli  intenti 

degli autori modificare la realtà per renderla più piacevole all’ occhio, o realizzare vedute pittoresche. 

Tale opera di può confrontare con la coeva opera di Le Roy che pubblica prima di quella di Stuart e Revett. La sua “Torre dei Venti” 

di Atene è una veduta pittoresca dove l’ oggetto è la realtà storica dell’ architettura e dei luoghi; nei disegni di Stuart l’ oggetto non 

è immediato ma filtrato, rimeditato, lasciando già presagire il completamento, la ricostruzione. 

Altro fenomeno diffuso è l’ antico d’ invenzione, tema di esercitazioni e concorsi, ma anche commissionato ad architetti e pittori allo 

scopo  di  promuovere  l’  immagine  di  una  raccolta,  di  una  famiglia,  di  una  città  all’  esterno,  senza  specificare  se  ciò  che  viene 

mostrato  esiste  o meno.  E’  il  caso  di  Ennemond‐Alexandre  Petitot,  che  ha  il  compito  di  presentare  all’  esterno  un’  immagine 

fascinosa dei ducati borbonici padani. 

In  questo  panorama  le  incisioni  di  Piranesi  esprimo  un  ulteriori  punto  di  vista:  gli  edifici  romani  sono  ritratti  attraverso  una 

dettagliata analisi della tecnica muraria, dei sistemi costruttivi, delle forme di degrado. 

In Piranesi convivono due diverse tendenze in perenne contrasto: una di natura fantastica, che lo induceva a trascendere dal preciso 

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particolare della fabbrica, e l’ altra di natura culturale, che induceva alla fedeltà di fronte al vero. 

L’ attenzione dell’ autore si sposta dal disegno degli oggetti alla  loro consistenza  fisica, alla coesistenza  in un contesto, dal piano 

della documentazione al pianto del racconto e della rappresentazione di una grandezza passata.  

 

Tutte queste esperienze evidenziano un’ idea dell’ antico come modello da imitare, dalla quale è ancora possibile attingere forme, 

materiali e tecniche per legittimare restauri “creativi”, dove il problema delle integrazioni viene risolto in chiave storicistica, spesso 

dando luogo a veri e propri pastiche. 

Si  va  affermando  un  ulteriore  approccio  che  avrà  interessanti  risvolti  teorici  e  operativi  nel  campo  dei  restauri  archeologici:  il 

riconoscimento alle antichità di un valore storico che è premessa ad interventi di semplice conservazione, di restauri “manutentivi” 

improntati a minimo dispendio di energie e materiali, dove l’ integrazione non intende rivaleggiare con l’ antico ne sottometterle ad 

una nuova unità formale, quanto assicurarne la conservazione dal punto di vista statico. 

 

5.3  _ Il restauro delle antichità 

Se gli  itinerari tradizionali del Grand‐Tour conoscono un notevole ampliamento, Roma rimane  il centro  internazionale dell’ attività 

antiquaria.  In  rapporto agli  studi e alle  imprese archeologiche  si  sviluppano una  serie di attività  imprenditoriali,  come  l’ editoria 

specializzata,  il mercato di  autentici,  copie  e  falsi.  E’ qui  infatti,  a Roma,  che Winckelmann  elabora  alcune delle  sue  teorie più 

significative, è qui che si forma una scuola di eruditi di prestigio internazionale. 

Il  restauro ha una  storia  lunga quanto  il  collezionismo d’  antichità,  all’  interno della quale  è  individuabile una metodologia  che 

inizialmente  perseguiva  l’  unità  estetica,  in  sintonia  con  lo  sforzo  rinascimentale  di  eguagliare  e  superare  l’  antichità,  per  poi 

giungere una prassi opposta, tesa a rendere lo steso intervento integrativo uno strumento di ricerca. 

Ancora fino al ‘600 l’ integrazione di un reperto era considerata operazione simile alla costruzione di una nuova scultura, anche se 

durante il periodo barocco il restauro passa in secondo piano rispetto all’ attività artistica ex‐novo. 

Nella  seconda  metà  del  ‘700  il  rigore  filologico  che  si  vuole  imporre  all’  interpretazione  dei  reperti,  il  valore  di  documento 

insostituibile che si riconosce al pezzo autentico entra in conflitto con le esigenze dei collezionisti che vorrebbero veder reintegrate 

le sculture mutile. 

In questo complesso contesto emergono nuovi orientamenti metodologici direttamente ispirati alle teorie di Winckelmann:  

__si afferma  la necessità di far precedere  le  integrazioni da una accurata ricerca comparativa per giungere ad una  identificazione 

certa del soggetto, dei caratteri stilistici e della scuola di appartenenza di un’ opera; 

__si esige il rispetto della materia autentica; 

__ si esige la distinguibilità delle parti aggiunte; 

__ si determinano le condizioni per un lavoro sinergico tra artisti ed eruditi nel preliminare lavoro di indagine. 

Anche se tra le opere di Winckelmann non ve n’è nessuna dedicata specificatamente al restauro, il suo interesse per l’ argomento è 

testimoniato dalla sua attività di Prefetto alle antichità di Roma, dal suo ruolo nella formazione delle collezioni del cardinale Albani, 

e dal rapporto che lo lega a Bartolomeo Cavaceppi, il principale restauratore di marmi antichi attivo a Roma nella seconda metà del 

‘700. Oltre che titolare di una bottega specializzata in restauro scultoreo è autore di un trattato in 3 volumi, pubblicato tra il 1768 e 

il 1772 che si pone come una sorta di catalogo dell’ attività del restauratore, che trasmette l’ idea di un professionista con notevole 

esperienza. 

Secondo  Cavaceppi  il  restauratore  deve  saper  imitare  lo  stile  dell’  opera  su  cui  interviene  senza  dover  ricorrere  a  trattamenti 

superficiali uniformanti, con i quali gli artisti contemporanei cercavano di confondere le integrazioni con le parti antiche. Suo grande 

merito è aver posto l’ accento proprio su questa questione, sull’ importanza del riconoscimento del soggetto, dello stile, dell’ epoca 

di realizzazione del reperto. 

Tale  valore  di  documento  per  la  storia  e  modello  per  l’  arte  riconosciuto  al  reperto  è  tutelato  Attraverso  norme  tecniche: 

__ le integrazioni non devono superare 1/3 della materia dell’ opera finita; 

__ il marmo nuovo utilizzato deve essere simile a quello antico; 

__ l’ integrazione deve risultare invisibile senza l’ intervento di patinature e senza levigare le superfici antiche. 

Con  gli  inizi  del  nuovo  secolo,  con  il  passaggio  delle  consegne  ad  una  nuova  generazione  di  artisti  come  Antonio  Canova  e 

Quatremere de Quincy, i più legittimi prosecutori dell’ attività di Winckelmann, si fa strada un’ idea di autenticità che pone nuovi 

limiti  alle  integrazioni,  e  che  rivendica  alla  conservazione  dell’  autenticità  un  valore  non  inferiore  alle  sue  qualità  estetiche  e 

tecniche. Un esempio di tale nuovo atteggiamento è dato dalla posizione espressa dai due artisti  in merito alla reintegrazione dei 

marmi  Elgin6:data  l’  elevata  qualità  artistica  dei  gruppi  scultorei  l’  imitazione  dell’  antico  viene  ritenuta  impraticabile  e  la 

reintegrazione  sconsigliata. Quatremere  suggerisce  di  lasciare  i  reperti  frammentari  come  sono  e  di  realizzare  dei  calchi  su  cui 

esercitare le pratiche integrative. La conservazione senza integrazione è riservata a esemplari inimitabili, di eccezionale valore. 

                                                            6_  Collezione  di  statue  attribuite  a  Fidia  che  in  origine  componevano  il  fregio  del  Partenone  e  che  Lord  Elgin  aveva  portato  in  Inghilterra  a 

conclusione di una spedizione archeologica. 

Page 23: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  23

5.4  _ L’  attività archeologica nel Regno delle due Sicilie 

L’ attività archeologica promossa dal governo borbonico costituisce per molti versi un caso paradigmatico. Si tratta di una serie di 

operazioni distinte, attuate  in aree diverse e  lontane  fra  loro,  tra  le quali esiste una  sorta di  continuità  ideale, una  comunità di 

intenti: 

__una normativa che  limita  il mercato antiquario, che riconosce un valore molto  importante e complesso7 ai materiali estratti dal 

sottosuolo, sui quali solo la Corona può riservarsi qualche diritto; 

__ istituzione di un servizio decentrato per la tutela dei monumenti in Sicilia; 

__ apertura dei siti archeologici vesuviani;   

__ riscoperta a Paestum ma ancora di più  in Sicilia di alcuni originali esemplari di architettura greca   classica di notevole purezza 

stilistica. 

 

SICILIA__In Sicilia  l’ azione di tutela e valorizzazione è  legata all’  iniziativa di un ceto aristocratico  intellettuale che avvia a proprie 

spese scavi e ricerche e promuove un intervento del governo borbonico. L’ azione di tutela in Sicilia assume il significato di 

una ricerca dell’ identità dell’ isola, delle sue origini, attraverso il ritrovamento e il restauro dei luoghi‐simbolo di questa 

civilizzazione. La prammatica del 1755 non è estesa alla Sicilia perché a quel  tempo  il numero dei visitatori era ancora 

modesto  rispetto a quelli diretti a Napoli. Si  individua un  interesse più ampio per  l’ azione di  tutela che si caratterizza 

come opera diffusa di conoscenza e di conservazione. Nel 1767 l’ ingegnere Andrea Pigonati pubblica “Lo stato presente 

degli antichi monumenti siciliani”, dove divulga i disegni riguardanti i monumenti di architettura antica siciliana.  

L’ oggetto del volume tende a risvegliare gli interessi del re nei confronti del potenziale archeologico ancora inesplorato di 

quella terra. 

Il passaggio dagli studi antiquariali ad una coordinata attività di tutela si ha con un provvedimento del 1778 con il quale si 

istituiscono due Regi Custodi, uno per  la Val di Noto e Valdemone e uno per  la Val di Mazara; ciascun custode doveva 

presentare un plano, cioè un programma delle attività di tutela: 

__ Il plano del Principe Biscari (val di Noto) si pone in continuità con l’ attività di ricerca da lui svolta: si configura come 

organizzazione di una sistematica esplorazione archeologica del territorio a cui si accompagnano indicazioni specifiche 

per  interventi volti alla valorizzazione e alla conservazione dei monumenti. Dedica maggiore  impegno alle opere di 

liberazione degli edifici antichi e all’ eliminazione di cause di degrado. È raro  il ricorso a  interventi di restauro  intesi 

come integrali ripristini o ricostruzioni sia per ragione economiche che tecniche. 

__ il plano del principe di Torremuzza (val di Mazara) configura un proprio programma di restauri. Tra i primi interventi vi 

è  il  restauro  del  Tempio  di  Segesta  del  1781.  Era  caratterizzato  da  un  peristilio molto  ben  conservato  con  i  due 

frontoni ancora  in  situ.  L’  intervento è necessario a  seguito dei danni  subiti dal  frontone orientale   e da una delle 

colonne che  lo sorreggevano dopo un fulmine del 1761; tutto ciò andava ad  incidere su una struttura già  indebolita 

dalla  forte  erosione della pietra.  I  lavori  sono  affidati  a Carlo Chenchi  che  intende  ripristinare  totalmente  le parti 

mancanti o deteriorate con materiali, strumenti e tecniche simili a quelle del periodo classico in modo da non essere 

riconosciute  e  in modo  tale da non disturbare  la  complessità. Per  ragioni  economiche  il progetto  viene  limitato  e 

verranno impiegati materiali del posto, non simili a quelli originari. L’ intervento prevederà la messa in sicurezza dell’ 

intera struttura con la sostituzione di due colonne, il consolidamento degli architravi, il ricollocamento dei frammenti 

distaccati del fregio e della cornice e la liberazione della base del tempio dal terreno che la sommergeva in parte. 

Il caso è paradigmatico perché da un  lato vi è  la nuova cultura archeologica che attraverso  l’  imitazione dell’ antico 

cerca uniformità estetica e solidità, mentre dall’ altro vi sono  le ragioni economiche e  la volontà di alcuni a  lasciare 

intatta l’ aura di antichità, che danno luogo ad integrazioni distinguibili e dal minimo intervento. 

In Sicilia la riscoperta dell’ antica assume i toni e i tempi di una progressiva conquista. 

 

NAPOLI__Ercolano, Pompei e Stabia, una volta intuito il potenziale in termini di quantità è qualità degli oggetti, vengono sottoposte 

ad uno speciale regime di tutela che privilegia il pezzo unico e che sancisce il diritto esclusivo regale di sfruttamento. Nel 

1755 viene emanata la Prammatica LVII che sancisce il divieto di esportazione dal Regno di Napoli, e che quindi tutela i 

soli oggetti mobili. 

In stretto collegamento con gli scavi nascono  l’ Accademia Ercolanense e  l’ Accademia, rispettivamente con funzione di 

Antiquarium  e  luogo  di  studio,  restauro  e  coordinamento  scientifico;  in  realtà  le  due  istituzioni  rappresentano  lo 

strumento burocratico attraverso il quale la Corona esercita i propri diritti di sfruttamento dei luoghi, di tesaurizzazione 

dei reperti, di pubblicazione esclusiva di  immagini e notizie. L’ accesso ai  luoghi di conservazione non è  libero ma è un 

                                                            7 _ è sia risorsa economica che modello per la produzione artistica che documento per la scrittura della storia, valore simbolico per l’ immagine del 

Regno. 

Page 24: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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privilegio concesso a pochi, ai quali era proibito disegnare o prendere appunti; la politica artistica dei Borbone esprime un 

ritardo culturale. 

La  riscoperta dell’ antico non  si configura come  ricerca  scientifica, ma gli  scavi  sono  ridotti alla mera  scoperta di cose 

antiche, magari anche per  contribuire ad arricchire  la galleria  reale.  I  cantieri vesuviani  sono dominati  inizialmente da 

figure professionali spagnole provenienti dal Genio Militare che hanno un ruolo di supervisione ma che non seguono da 

vicino  il cantiere. Anche  i responsabili valutano gli oggetti ritrovati come oggetti d’ antiquariato, considerandone solo  la 

qualità estetica, la fattura, la trasportabilità come parametri per poter arricchire le collezioni reali. 

È proprio in questi cantieri che vengono formulati i primi nodi problematici su come staccare e trasferire pavimenti musivi 

e pitture murarie, su come conservare ciò che veniva alla  luce dopo tanti secoli; però si trattava comunque di problemi 

che riguardavano oggetti, dipinti, sculture  mentre i contesti architettonici vengono ancora violati senza alcuna attenzione 

o conservazione. 

___ERCOLANO___ Dal 1738 al 1780 gli scavi di Ercolano sono diretti dall’ ingegnere militare Don Roque d’ Alcubierre che 

si  dedica  esclusivamente  all’  estrazione  di  statue  e  oggetti  vari;  è  più  un  cercatore  di  tesori  che  un 

archeologo, con tutti i possibili risvolti negativi sui resti architettonici. Così come accadrà anche a Pompei 

il terreno spostato non veniva rimosso ma accantonato sulle zone già esplorate, senza un rilievo di quanto 

fosse  stato  già  scoperto. Questa  carenza  di metodo  viene  evidenziata  da  eruditi,  quali Winckelmann, 

Scipione Maffei, e dai successori di d’ Alcubierre, che senza una documentazione del già fatto dovranno 

ritornare su zone già esplorate. 

Tra  i  rilievi  fatti eseguire da d’ Alcubierre e  i  successivi di Bardet, Weber o  La Vega  c’è un’ evoluzione 

metodologica sorprendente. Nei primi  l’ architettura è resa  in modo schematico, essendo  il documento 

uno strumento di comunicazione tecnica; Bardet mostra già maggiore esattezza nei rilievi mentre Weber 

si rivela il più interessato alla rappresentazione grafica del luogo e dell’ architettura. 

Francesco La Vega, che agli inizi degli anni ’80 sarà direttore degli scavi, custode del museo ercolanese e 

membro dell’ accademia ercolanense, fa emergere un approccio nuovo alla ricerca archeologica in cui al 

primo  posto  vi  sono  le  finalità  della  conoscenza  e  della  conservazione;  appare  dunque  finalmente 

necessaria una documentazione grafica dei luoghi esplorati, che si accompagna alla formazione di grandi 

collezioni archeologiche e alla musealizzazione dei siti di scavo. 

___POMPEI___l’ avvio di scavi a cielo aperto, da lasciare aperti e da rendere fruibili ai visitatori, pone problemi del tutto 

inediti di  conservazione  e  restauro. Qui  trovano  spontanea  applicazione  alcuni di quelli  che oggi  sono 

riconosciuti come principi fondamentali del restauro: minimo intervento, rispetto della materia antica e la 

distinguibilità delle aggiunte. 

I primi restauri consistono  in una serie di  interventi di consolidamento e di messa  in sicurezza di alcuni 

edifici, mentre le ricostruzioni vengono limitate alle porzioni di muratura necessarie a realizzare un piano 

di  appoggio  per  le  strutture  di  protezione.  Vengono  comunque  scartate  le  ipotesi  di  ricostruzione 

integrale di alcune case; il desiderio di vedere realizzate nella loro completezza ambienti pompeiani trova 

espressione nella costruzione ex‐novo di edifici destinati ad operai, locande, ecc, imitando l’ architettura 

dei luoghi.  

 

Il governo francese, di breve durata, segnerà il passaggio dall’ intervento isolato all’ attività sistematica e programmata. A Pompei 

viene acquisita l’ intera area compresa all’ interno delle mura urbiche, mentre ad Ercolano si progetta l’ avvio di scavi a cielo aperto; 

nelle metodologie di scavo vengono introdotti criteri più scientifici, come la numerazione delle insule, i primi regolamenti e i primi 

organi amministrativi finalizzati a controllare i restauri archeologici. In particolare una commissione mista di archeologi e architetti 

stilerà un regolamento richiamando alcuni principi fondamentali come: 

_ la necessità di conservare qualunque pezzo di vecchio di intonaco che si trovi; 

_ la riconoscibilità delle integrazioni di intonaco e delle aggiunte; 

_ limitare i nuovi intonaci a quelle zone dove può infiltrarsi l’ acqua. 

Ma man mano che l’ attenzione si sposta dal pezzo singolo (scultura o pittura) agli organismi edilizi o urbani gli aspetti museografici 

delle sistemazioni archeologiche prendono  il sopravvento, anche sui principi di minimo  intervento e distinguibilità. È  il caso della 

ricostruzione dell’ Anfiteatro di Pompei, progettata da Michele Arditi,attuata  in parte nel corridoio ovale voltato, dove vengono 

costruiti dei sottarchi in mattoni analoghi a quelli di epoca romana presenti all’ ingresso dell’ edificio. 

L’ idea di un museo aperto a scala urbana si afferma sempre con maggior forza, fino a determinare un inversione di flusso dei reperti 

di  scavo dai depositi e dal museo verso  i  siti d’ origine. Ed è proprio qui  che  si pongono come un  tema ancora più  complesso  i 

problemi della conservazione: bisogna stabilire il confine tra ciò che necessariamente l’ edificio richiede e ciò che invece è dettato 

solo dall’ arbitrio e dal capriccio. 

Page 25: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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6 .  AASSPPEETTTTII  DDEELLLLAA  CCUULLTTUURRAA  DDEELL  RREESSTTAAUURROO  NNEELLLL’’  OOPPEERRAA  DDII  VVAANNVVIITTEELLLLII  ‐‐  ((SSEECCOONNDDOO  ‘‘770000))  

Nasce a Napoli nel 1700 dal pittore olandese Gaspar Van Wittel. L’ ascendenza paterna ha un forte  influsso su  l’ opera di Luigi fin 

dalla prime esperienze. Le inclinazioni pittoriche sono affiancate dalla passione per la scenografia, per la decorazione e quindi per l’ 

architettura. 

Nella  Roma  del  primo  ‘700  la  situazione  politica  europea  aveva  generato  una  stasi  per  quanto  riguarda  le  grandi  opere 

architettoniche, e così gli architetti diedero maggior attenzione alle opere scritte, alla progettazione di architetture effimere, all’ 

ammodernamento  di  edifici  per  famiglie  nobili,  al  restauro  di  complessi  religiosi,  e  all’  attività  d’  accademia.  Sarà  proprio  all’ 

Accademia di S. Luca che Luigi presenterà i proprio disegni a Filippo Juvarra, che lo incoraggiò e influenzò molto. In questo periodo 

lavora presso  la fabbrica di S. Pietro, partecipa al concorso per  la facciata di San Giovanni  in Laterano e a quello per  la fontana di 

Trevi (vinti da Galilei e Salvi). 

Di formazione romana, Vanvitelli diventa poi l’ architetto di re Carlo di Borbone per il quale costruirà la reggia di Caserta e alcune 

opere per la nobiltà e il clero napoletani. Nel 1751 si trasferisce da Roma a Napoli determinando, insieme a Fuga, un nuovo indirizzo 

per l’ architettura. 

Le  sue  capacità  tecniche  lo  vedranno  impegnato  in  importanti  interventi  di  restauro  in  cui  le  soluzioni  per  il  consolidamento 

diventeranno pretesto per interessanti elaborazioni architettoniche. Viene attratto dai resti antichi non in quanto testimonianze da 

conservare quanto perché può utilizzarne i materiali di spoglio pregiati; talvolta però si mostra anche più sensibile verso l’ antico. 

 

6.1  _ L’  intervento sulla cupola di San Pietro 

A metà maggio del 1590 viene completata  la costruzione della cupola  ideata da Michelangelo e costruita da Domenico Fontana e  

Giacomo della Porta: già a distanza di pochi decenni dall’ ultimazione dei lavori però si manifestano i primi dissesti e le prime lesioni. 

Nel marzo 1743 giunge a Roma per volere di Bendetto XIV Giovanni Poleni, che riceve l’ incarico di scrivere la storia del movimento 

che  aveva  subito  la  cupola  e  di  esaminare    i  dissesti  e  gli  intervento  di  restauro  effettuati  in  passato.  Inoltre  avrebbe  dovuto 

elaborare il progetto dei restauri che intendeva compiere e seguire l’ andamento dei lavori, affidati materialmente a Luigi Vanvitelli. 

Vanvitelli dal canto suo propone un intervento alquanto invasivo:  

_ sostiene la necessità di costruire 4 speroni di sostegno posti sui piloni e di collocare mensole rovesce con statue sui contrafforti, 

modificando di molto la soluzione michelangiolesca; 

_ prevede l’ uso di 3‐4 nuovi cerchioni, tutti ricoperti ed incassati; 

_ prevede di rinforzare i contrafforti, riducendo quindi la luce del vano 

di passaggio nel sottostante corridoio. 

Viene subito attaccato e  il progetto finale è molto meno fantasioso e 

più  “collaudato”:  vengono  apposte  delle  semplici  cerchiature 

metalliche previste dal progetto di Poleni. 

La proposta di Poleni non ha un carattere particolarmente innovativo; 

si pone come un’ attenta disamina di tutte  le proposte già effettuate 

per arrivare a una sintesi. Egli esamina infatti il primo parere dato sulla 

cupola da tre matematici francesi (Boscovich, Seur e Jacquier) e arriva 

alla  conclusione  che  lo  schema  statico  da  loro  proposto    non  è 

compatibile con l’ analisi del quadro fessurativo. 

Secondo  i  tre  matematici  il  crollo  della  cupola  poteva  essere 

imminente ed il restauro, da realizzare con urgenza, avrebbe richiesto 

notevoli  modifiche  architettoniche  dell’opera.  Secondo  Poleni,  la 

situazione era  invece meno drammatica.  I difetti della grande cupola 

potevano essere pienamente riparati con  l’esecuzione di  lavori meno 

invasivi che non avrebbero modificato l’architettura dell’opera.  

Egli  eseguì  innanzitutto  una  verifica  statica: il  procedimento  da  lui 

eseguito  consistette  nel  determinare  anzitutto  la  configurazione  di 

equilibrio di un  filo sottoposto a carichi proporzionali ai pesi dei vari 

conci  in  cui  aveva  suddiviso  lo  spicchio  di  cupola,  ottenuto  questo 

dividendo in cinquanta parti l’intero angolo giro. 

La  lunghezza  del  filo  era  stata  fissata  in modo  che  le  sue  estremità 

passassero, da un lato, per il baricentro della sezione di imposta dello 

spicchio e il tratto centrale per il baricentro dell’anello terminale di chiave.  

Rovesciando la curva di equilibrio del filo così determinata, Poleni verificò che la suddetta curva era tutta contenuta all’interno dello 

‐ i 6 nuovi cerchioni disposti da Poleni 

Page 26: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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spicchio.  

La  grande  cupola  potette  essere  riparata  e  rinforzata  utilizzando  le  valide  tecniche 

dell’epoca sotto le attente direttive di Poleni e di Vanvitelli. I lavori di consolidamento 

statico  consistettero  nell’esecuzione  di  una  fitta  rete  di  sarciture8  e  di  ripresa  di 

muratura, eseguite con la sapiente tecnica del “scuci e cuci”. Vennero inoltre disposte e 

messe in forza intorno alla cupola, con un sistema curato dallo stesso Vanvitelli, cinque 

cerchiature  in  ferro. Tale  sistema  consisteva  in due paletti a  cuneo  contrastanti, utili 

per serrare i cerchioni intorno alla cupola.  

Un sesto cerchione venne poi disposto nel 1748, dopo che Vanvitelli, durante i lavori di 

consolidamento, aveva  riscontrato che uno dei due vecchi cerchioni di  ferro, disposti 

nella cupola all’atto della sua costruzione, era risultato spezzato. 

Dopo  l’intervento  di  restauro,  nei  secoli  successivi  vennero  eseguiti  altri  lavori  di 

rinforzo nei contrafforti ma di minore rilevanza rispetto all’insieme dei  lavori eseguiti 

nel Settecento.  

Vanvitelli rimarrà sempre convinto, anche  in seguito al suo trasferimento a Napoli nel 

1751, che il tipo di provvedimenti adottati sia insufficiente. 

 

6.2  _ L’  intervento sulla chiesa di Santa Maria degli Angeli 

Quando riceve l’ incarico inizialmente si trova a dove affiancare Clemente Orlandi, 

che concepisce una delle  soluzioni che più hanno  indebolito  l’  impianto  spaziale 

della basilica: la chiusura degli ambienti che si aprivano sulla grande aula di quella 

che oggi appare come una croce greca.  

Nel  momento  in  cui  Vanvitelli  interviene  vengono  alterate  definitivamente  le 

condizioni spaziale originarie, data la volontà dell’ architetto di segnare come asse 

privilegiato quello che unisce il vestibolo circolare con la zona presbiteriale.  

Gran parte dell’ aspetto attuale della chiesa è dovuto a Vanvitelli: 

_ le otto colonne in muratura da inserire lungo l’ asse longitudinale per imprimervi 

il ritmo di una navata; 

_  l’ adozione di una  trabeazione e di un cornicione  fortemente aggettante vuole 

fornire  un  elemento  di  mediazione,  ma  l’  intento  non  è  raggiunto 

completamente. 

L’  aspetto maestoso  ancora  oggi  presente  nella  chiesa  è  da  attribuire  più  alla 

sopravvivenza  dell’  organismo  dioclezianeo  che  non  alle  successive 

riconfigurazioni. 

 

6.3  _ Il palazzo Reale di Napoli 

Nel  luglio 1753 Vanvitelli era già  impegnato nelle prime  fasi della  realizzazione delle  reggia di Caserta quando  riceve da Carlo di 

Borbone un nuovo oneroso incarico: il restauro del palazzo reale. Dopo un accurato sopralluogo si rende conto che la situazione è 

complessa ma  nonostante  tutto  egli  intende  portare  a  compimento  l’  opera  con  rapidità  ed  efficacia,  viste  le  aspettative  e  l’ 

interessamento del sovrano. 

Prima di procedere col progetto egli  fa eseguire alcuni sondaggi per verificare  lo stato delle  fondazioni:  il palazzo risulta  fondato 

sopra  terreno molle, e così decide di  realizzare  in corrispondenza della  facciata  sulla piazza profonde  sottofondazioni, a circa 30 

palmi sotto le antiche fondamenta. L’ intervento va a buon fine, e entro un anno dall’ inizio dei lavori il cantiere si avvia ad ultimare 

la realizzazione: viene risistemata la facciata con la tamponatura alternata9 di otto delle campate dello schema elaborato da Fontana 

nel 1600. Il nuovo paramento risulta avere caratteristiche morfologiche e cromatiche differenti da quello precedente: ad esempio i 

laterizi anche se affini come materiale, appaiono diseguali per dimensione e colore. Per alleggerire  le  tamponature  realizza delle 

nicchie entro le quali vengono collocate statue di dimensioni eccessive. 

Da sottolineare è  l’  intento programmatico di Vanvitelli di conformarsi quanto più possibile all’ opera esistente: è  insolito perché 

proviene da chi ha usato ogni occasione di “restauro” per proporre la propria architettura, spesso anche in contrasto con le mode 

imperanti. 

 

                                                            8 Cosa è??? 9 _ propone tale soluzione anche per il  palazzo Orsini di Gravina,  alla quale viene preferita l’ apposizione di catene metalliche  per contenere le 

spinte esercitate dalle volte del cortile interno. 

‐‐  la  verifica  statica  di  Poleni:  il  modellofunicolare per la verifica dei carichi

Page 27: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

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6.4  _ La ricostruzione della chiesa dell’ Annunziata 

Tale intervento non può essere considerato propriamente un restauro, ma piuttosto un rifacimento di una chiesa realizzata nel 1540 

dall’ architetto Ferdinando Manlio poi danneggiata da un incendio nel 1757. 

La  soluzione  progettuale  adottata  tiene  conto  delle  preesistenze  nella  realizzazione  di  un  nuovo  spazio.  Egli  si  trova  a  dover 

affrontare vari problemi come: la compatibilità del nuovo edificio con le parti residue; la stabilità delle nuove strutture per la cupola; 

il trattamento dei resti archeologici venuti alla luce in fase di scavo delle fondazioni che, considerati elementi di disturbo, saranno 

demoliti dopo un attento rilievo. 

Il danno provocato dall’ incendio è notevole in quanto distrugge la copertura  e parte della murature. Rimasero intatti la sacrestia, la 

cappella Carafa, l’ ospedale e il conservatorio: si trattava di una istituzione di grande valore e pertanto la chiesa convoca i migliori 

architetti del tempo per sanarne i danni. 

Viene convocata una riunione  con vari architetti che dopo aver esaminato il problema si dividono su posizioni diverse:  

__ Astarita, Pollio e Gioffredo sostengono la necessità di rifare il tetto con una finta volta; 

__ Manni, Canale, Fuga e Vanvitelli suggeriscono una volta in muratura, (soluzione gradita anche al sovrano). 

Il progetto di Vanvitelli viene sottoposto al parere della commissione e Astarita afferma che un tale progetto non si può realizzare in 

quanto si dovrebbero rifare buona parte delle murature, e non si tratterebbe più di restauro ma di rifacimento. 

Il  sovrano però  affida  l’  incarico  solo  a Vanvitelli  e nel 1758  gli  consente di  riedificare  la  chiesa,  con  grande  soddisfazione dell’ 

architetto. A breve cominciano i lavori di demolizione di ciò che rimaneva della vecchia chiesa e nel 1760 ebbero inizio le opere di 

fondazione del nuovo edificio, abbastanza complesse a causa della presenza di acqua sotterranea. 

Per  consentire  le  celebrazioni  religiose  anche  durante  i  lavori  di  ricostruzione,  il  Vanvitelli  realizzò  una  chiesa  sotterranea,  la  

rotonda,  indipendente da quella superiore, anche se posta in corrispondenza della cupola. 

Si tratta di un ambiente particolarissimo e assai suggestivo: seminterrato, rispetto al  livello del cortile, a pianta circolare e a volta 

ribassata,  con  sei  nicchie‐altare  nelle  quali  Vanvitelli  sistemò  alcune  delle  sculture  sopravvissute  all'incendio  della  chiesa 

cinquecentesca, più due aperture diametrali per le porte che aprono il cerchio. La particolarità dello spazio interno è sottolineata da 

un ulteriore cerchio interno costituito da otto coppie di colonne tuscaniche.  

Il progetto di Vanvitelli consiste nel realizzare un interno a navata unica con sei cappelle laterali; lo spazio si presenta molto ampio e 

prevale  il principale  intervento  settecentesco di  suddetto  artista e del  figlio Carlo  (la disposizione delle 44  colonne  corinzie  che 

raccordano la navata alle cappelle laterali, intervallate dalle possenti colonne binate). 

Per quanto riguarda i materiali da costruzione egli dimostra grande esperienza e conoscenza tecnica nello scegliere quelli più idonei 

in base alla loro resistenza o lavorabilità. 

Nel 1761 sotto un pilone della cupola, durante uno scavo, Vanvitelli si imbatte in un antico colombaio10 con celle sepolcrali, verso il 

quale dimostra  scarsa  sensibilità. Dopo attenti  rilievi dei  ritrovamenti demolirà  tutto per procedere alla  costruzione della prima 

colonna  di marmo, costituita da tre pezzi scanalati. 

Nella chiesa superiore il vero protagonista della composizione è la cupola, nonostante lo sviluppo longitudinale dell’ area; egli dà la 

massima importanza a questo elemento non tanto per eliminare la veduta a grande distanza dell’ altare e dell’ abside ma per ridurre 

il numero di cappelle  lungo  la navata unica. È proprio  la cupola che con  le  fasce binate e  i  lacunari stellati, che domina  il profilo 

cittadino, a connotare lo spazio interno con un disegno originale. 

Gli  amministratori della  casa dell’ Annunziata  volevano modificare  il progetto  sostituendo  alla  cupola un più  economico  catino. 

Vanvitelli non aderì alla proposta e nel 1769 l’ incarico fu affidato a Gioffredo. Tuttavia dopo soli due anni, nel 1771, venne di nuovo 

richiamato per  cominciare  la  costruzione della  cupola  i  cui  lavori, nel 1773, data della  sua morte, ancora non erano  cominciati. 

Vanvitelli dimostra che la differenza di spesa era talmente irrisoria da non giustificare un tale stravolgimento del progetto, essendo 

la cupola parte integrante dell’ opera. 

La  cupola  verrà  costruita  sotto  la  direzione  del  figlio  Carlo  che  completerà  anche  la  facciata,  caratterizzata  da  un  andamento 

leggermente concavo e ornata con due ordini sovrapposti di colonne classiche, nel 1782. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                            10 _ sepoltura a parete con loculi sovrapposti. 

Page 28: Riassunto Verso Una Storia Del Restauro

   

  28

7 .    CCOONNSSEERRVVAAZZIIOONNEE  EE  RREESSTTAAUURROO  NNEEII  PPRRIIMMII  DDEECCEENNNNII  DDEELLLL’’  880000  AA  RROOMMAA  

7.1  _ L’  avvento dei francesi e i primi programmi 

Con un decreto del 1809 fu creata da Napoleone la Consulta  straordinaria per gli Stati Romani che custodirà i monumenti romani a 

spese del governo francese e che ha come responsabile degli Interni il barone de Gerando. La Consulta istituisce una Commissione 

preposta alla tutela e al restauro dei monumenti antichi e moderni. dopo che lo stato pontificio fu annesso all’ impero napoleonico i 

francesi vollero realizzare importanti opere e portare a termine i programmi già avviati da Pio VII.  

Durante  il  governo  francese  (1809‐1814)  furono  emanati decreti  che  regolamentavano  gli  scavi  e  impedivano  le  esportazioni di 

oggetti  d’arte  e  furono  affidati  a  Giuseppe  Valadier  e Giuseppe  Camporesi  i  progetti  di  architettura  e  i  controlli  dei  lavori  da 

effettuare. Valadier  doveva  controllare  i  lavori  che  riguardavano  le mura  di  Roma,  il  Palazzo  della  Cancelleria,  la  chiesa  di  San 

Lorenzo, le dogane, le porte e tutte le altre antichità. 

Molti  interventi  consistevano  nella  liberazione  delle  parti  basamentali  dei monumenti,  anche  per  consentirne  lo  studio,  come 

accadde per il tempio di Antonino e Faustina. 

L’ amministrazione  francese per  far  fronte ai gravi problemi di disoccupazione promosse  lavori di  sgombero e abbellimento  che 

avevano  lo  scopo  anche  di  occupare molti  operai.  Fu  quindi  anche  varato  un  decreto  che  consentiva  a  tutti  i  disoccupati  di 

guadagnarsi da vivere in questo modo; gli scavi archeologici furono quindi addossati al capitolo della beneficenza. 

Dopo un mese dall’ elezione della commissione per la tutela e il restauro la Consulta, per accelerare l’ attuazione del disegno che si 

era prefisso, decide di sostituire  la vecchia commissione   con  la Commissione degli edifici civili,  il cui presidente era  il barone de 

Tournon, già prefetto di Roma. Egli programma  il  restauro di  tutti  i monumenti  sacri e civili di Roma, che ha come motivazione 

principale quella di occupare la popolazione. Egli propone un ppiiaannoo  ggeenneerraallee  ppeerr  ggllii  aabbbbeelllliimmeennttii  ddii  RRoommaa nel 1810, da sottoporre 

alla Commissione dei Monumenti. Il piano prevede diversi progetti: 

__ rendere navigabile il Tevere all’ interno della città; 

__ costruire un ponte per collegare due quartieri della città; 

__ realizzare un lungofiume; 

__  restauro monumenti antichi:  tra  i primi vi è  la sistemazione del Foro Romano. Egli propone di  trasformare  il Campo Vaccino, 

pieno di case e mercati,  in un parco archeologico che ridia dignità all’ antico foro. La proposta è di trasformare  il campo  in un 

giardino pubblico che, partendo dai piedi del Campidoglio, comprenda il Colosseo e l’ Arco di Costantino.  

Propone  la  liberazione  del  Portico  di  Ottavia  e  la  sistemazione  del  Teatro  di Marcello;  demolendo  alcune  case  si  sarebbe 

ottenuta  una  piazza  comprendente  i  due monumenti.  Il  portico  di Ottavia  possiede  alcune  colonne  di  rara  bellezza ma  è 

circondato da vecchi edifici e dal mercato; suggerisce quindi di demolire gli edifici, spostare il mercato e di realizzare una piazza 

che consenta di godere della bellezza del monumento. 

Il teatro di Marcello fin dall’ epoca medioevale fu occupato da piccole costruzioni fino trasformarsi in un castello fortificato; nel 

1500  la  famiglia Savelli  fece edificare a Baldassarre Peruzzi  il palazzo  tuttora esistente sopra  le arcate della  facciata. Nel XVIII 

secolo  ne  divennero  proprietari  gli  Orsini.  De  Tournon  riteneva  queste  costruzioni  successive  degli  atti  barbari,  che  hanno 

distrutto i resti del teatro, che ha quindi bisogno di un rimedio. 

__ realizzare passeggiate pubbliche, come quella già progettata fuori piazza del Popolo. I progetti per le passeggiate, realizzati dalla 

Commissione  per  il  Retablissement  du  Forum,  creata  in  seno  alla  Consulta,  non  si  proponevano  tanto  di  valorizzare  i  resti 

archeologici quanto di creare,  in ambienti naturali, percorsi  ricchi di scorci scenografici;  furono quindi presi  in considerazione 

sopratutto  i  ruderi antichi  che  concorrevano al  conseguimento di  tali effetti. Gli  interventi più  frequenti previsti per  i  ruderi 

archeologici riguardavano la liberazione delle parti interrate , che risultano essere le meglio conservate. 

Particolare attenzione merita  la  relazione  inviata da De Tournon al barone De Gerando,    commissario del governo  francese, nel 

1810, relativa alla conservazione delle chiese e degli oggetti mobili in esse contenuti. Egli teme che l’ abbandono di molti edifici sacri 

possa determinarne la distruzione e quindi sollecita l’ amministrazione a preoccuparsi della conservazione. 

Innanzitutto sostiene che le chiese possono suddividersi in quattro classi: 

__ chiese antiche (S. Clemente, S. Sebastiano, Santa Susanna); 

__ chiese moderne (il Gesù, la Vittoria, Sant’ Ignazio); 

__ chiese che contengono affreschi o monumenti inamovibili (Trinità dei Monti, Santa Sabina); 

__ chiese che non hanno alcun pregio particolare.  

Egli suggerisce di non spostare i quadri che furono dipinti appositamente per essere collocati in quella chiesa e di non spogliare le 

chiese dei loro ornamenti.  

Dopo aver sottolineato  l’  importanza che tali chiese rivestono per  l’  intera Europa, termina come delle proposte concrete: chiede 

che siano destinati dei fondi fissi per la conservazione di tali beni e che tutti gli oggetti mobili rimangano al loro posto. 

Le considerazioni contenute  in  tali documenti  saranno  la base per  la  formulazione di  regolamenti e  leggi che verranno emanate 

anche dopo la caduta dei Francesi. 

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7.2  _ Gli anni di transizione e le prime prescrizioni in materia di tutela 

Dal maggio  1809  al  gennaio  1814  Roma  è  sotto  il  dominio  francese.    Con  l’  insediamento  del  nuovo  governo  viene  istituita  la 

Consulta con  responsabile  il barone de Gerando.    Il barone  svolgerà un  ruolo  importante di organizzazione delle  trasformazione 

della città antica. Egli studia  la situazione della zona archeologica,  i progetti e  l’ esecuzione degli scavi effettuati sotto  il governo 

pontificio e si preoccupa di formulare nuovi regolamenti.  

Per poter affrontare  i problemi di conservazione dei beni dell’ ex‐ stato Pontificio  i francesi   cercano di conoscere tale patrimonio 

inviando un questionario a tutti i comuni in cui si richiede di indicare la presenza di tali beni, il loro stato di conservazione, la loro 

utilizzazione e collocazione, se pubblico o privato. 

Il 1809 è dunque un anno di transizione per  l’ amministrazione delle Antichità e delle Belle Arti e ciò si evince anche dal carteggio 

esistente tra il segretario del ministero dell’ Interno, barone de Gerando, e il commissario dell’ Antichità, avvocato Fea. 

In una relazione del 1809 egli riassume i ruoli degli addetti al patrimonio delle Antichità e Belle Arti, i lavori che si vanno compiendo, 

i regolamenti, le spese in atto. L’ avvocato, riferendosi al chirografo pontificio del 1802, regolamento vigente a Roma, sottolinea l’ 

importanza   di vietare  l’ esportazione delle sculture antiche, materiale di studio e di conoscenza; se si autorizza  l’ esportazione di 

marmi  antichi  lavorati  il  dazio  da  pagare  e  pari  al  18%,  tassa  necessaria  per  sostenere  la  conservazione  delle  antichità.  Nel 

regolamento  è  inoltre  presente  il  diritto  di  prelazione  da  parte  del  governo  sui  beni  per  i  quali  si  richiede  il  permesso  per  l’ 

esportazione. 

 

7.3  _ Criteri e metodi di conservazione e restauro sotto il governo francese 

Alcuni mesi dopo  il  loro  insediamento a Roma  i  francesi   cominciarono ad  indicare  i nuovi criteri di  intervento e ad attuare una 

politica di tutela che tende a dettare norme di carattere generale alle quali i progettisti devono attenersi. 

Molto interessante a tal proposito è la corrispondenza del 1813 tra Gisors, Ispettore degli edifici civili, Martial Daru, intendente della 

Corona  e il barone de Gerando, Ministro del Re. 

Giunto a Roma nel 1813 Gisors è attento alle demolizioni e agli scavi che si andavano compiendo e suggerisce il sistema da adottare 

in quegli edifici che minacciano rovina, come l’ arco di Tito o il Colosseo,  in modo tale da conciliare gusto, solidità e rispetto. Cita 

quindi alcuni esempi dove i metodi  adottati, seppur efficaci dal punto di vista statico, non soddisfano il lato estetico. 

È  il caso dell’  intervento attuato sul Colosseo sotto  il pontificato di Pio VII, quando uno sperone enorme viene fatto costruire allo 

scopo di prevenire la caduta di una parte del portico esterno. C’è poi l’ esempio dell’ arco di Tito, ai cui lati, per sostenerlo, si erano 

addossate costruzioni orrende e anche  insufficienti:  fino ad allora, egli  sottolinea, ci  si era  limitati a consolidare  le  rovine,  senza 

preoccuparsi di trasmetterne le forme e le proporzioni al futuro. 

Un  intervento corretto di restauro era quello effettuato sul Pantheon, dove si era rifatto  l’ angolo sinistro della trabeazione e del 

timpano non utilizzando  il marmo. Egli dunque, rifacendosi a questo esempio,  fa una proposta di carattere generale sul modo di 

intervenire  in  tutti  gli  edifici  e monumenti  che minacciano  rovina:  egli  sostiene  che  aannzziicchhéé   ppuunntteellllaarree,,   ccoonnttrroovveennttaarree   llee   ppaarrttii  

vvaacciillllaannttii  ddeeii  mmoonnuummeennttii  èè  mmeegglliioo  rriiccoossttrruuiirrnnee  llee  mmaassssee  nneellllee  lloorroo  ffoorrmmee  ee  pprrooppoorrzziioonnii,,  iinn  ppiieettrraa  oo  mmaattttoonnee..  Ad esempio, secondo lui,  

l’ arco di Tito dovrebbe innanzitutto essere puntellato e centinato in tutte le parti per poter smontare e rimontare tranquillamente 

le pietre sconnesse dopo aver  ricostruito  le masse delle parti di piedritti di cui  l’ arco era privo,  in modo  tale che  il monumento 

presenti di nuovo  la  sua  forma  e  le  sue primitive proporzioni. Nell'opera di  liberazione,  isolamento  e  reintegrazione delle parti 

perdute dell'Arco di Tito attuata da Raffaele Stern (1818‐21) e proseguita da Giuseppe Valadier fra il 1822 e il 1824, gli architetti si 

rifanno alle indicazioni fornite da Gisors. 

A queste considerazioni si accompagna  tutta una  fitta corrispondenza  tra  lui, Daru e de Gerando che mostra come  il ministro de 

Gerando sostiene le idee di Gisors e culmina con le considerazioni sul restauro di Daru che afferma che i monumenti devono essere 

lasciati  intatti fino a che  il tempo  lo permette e che nel conservarle bisogna fare attenzione a non snaturarle. Daru quindi pone  l’ 

accento sull’ autenticità del monumento.   

7.4  _ Il rudere nel paesaggio urbano ‐ (neoclassicismo) 

Fino al XIX  secolo  il  restauro è  inteso quasi esclusivamente  come operazione  rivolta a  ripristinare edifici antichi  con  lo  scopo di 

utilizzarli e valorizzarli. In età neoclassica tale atteggiamento è assunto solo nei confronti  di opere moderne mentre il rudere viene 

considerato una testimonianza storica da conservare nella sua  integrità fisica. Le rovine rammentano  i tempo passati e assumono 

per gli architetti neoclassici un maggiore “naturalezza” quando sono immerse nelle boscaglie e nella vegetazione. 

Si  verificano  quindi  episodi  di  realizzazione  di  finti  ruderi  volti  a  realizzare  particolari  effetti  scenografici,  come  nel  caso  della 

realizzazione del Tempio di Diana e di quello di quello di Faustina all’  interno di Villa Borghese. Alla vicenda costruttiva della villa 

sono legati anche i progetti di Valadier per l’ ingresso di Piazza del Popolo con la passeggiata del Pincio e il progetto di Luigi Canina 

per l’ ampliamento. Quest’ ultimo intervento rappresenta il risultato dello studio fatto sui giardini francesi, inglesi e anglo‐cinesi, e 

risponde  a  una  precisa  scelta  estetica  e  funzionale.  Escludendo  la  soluzione  “romantica”  dei  percorsi  tortuosi  privilegia  una 

soluzione  più  razionale  che  però  propone  ingressi  che  sono  il  risultato  dell’  imitazione  di  forme  antiche  secondo  i  canoni  dell’ 

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eclettismo diffuso in tutta Europa.  

Si diffonde quindi un’ estetica del pittoresco che con i finti ruderi si propone di ricreare gli effetti di quelli autentici; questa passione 

per  il pittoresco  indurrà Stendhal a scrivere nel 1827 a proposito del Colosseo che tale monumento è più bello nel 1827, quando 

cade  in  rovina, che al  tempo del  suo  splendore,  in quanto allora era un  teatro, mentre nell’ 800  rappresenta una  testimonianza 

preziosa del popolo romano. 

Il  restauro  architettonico ha  inizio  sul  finire  del  XVIII  secolo,  precisamente  nel  1794 quando  la  Convenzione  nazionale  francese 

proclama  il “principio di conservazione dei monumenti”. A partire da questa data si assiste allo sviluppo di vari modi di tutelare  l’ 

opera architettonica. La prima concezione del restauro si fonda sul principio di ricomporre le parti dell’ edificio antico; è il criterio 

con  il quale a Roma si eseguono  le sistemazioni dei monumenti classici, che vengono  restaurati con metodi più  rigorosi di quelli 

adottati per edifici medioevali o moderni, perché o monumenti dell’ antichità sono considerati come facenti parte di un particolare 

paesaggio e quindi non materialmente utilizzabili. 

E proprio durante  il decennio  francese saranno progettate   nelle zone ricche di ruderi, passeggiate archeologiche con  lo scopo di 

conseguire effetti scenografici. 

 

7.5  _ Le leggi di tutela nello stato pontificio 

Nel XIX secolo la situazione legislativa in Italia era molto complessa e ogni stato emanava leggi sulla tutela di beni artistici rifacendosi 

alla legislazione pontificia. Ad eccezione del Piemonte ciascuno stato di preoccupò di disciplinare gli scavi archeologici e di custodire 

le opere d’arte antiche per impedirne l’ esportazione. 

In particolare nello  stato pontificio  fin dal XV  secolo  i papi  si erano mostrati molto  attenti  al problema della  conservazione dei 

monumenti  antichi:  i  primi  editti  furono  emanati  al  solo  scopo  di  limitarne  la  distruzione, mentre  quelli  successivi  sancirono  l’ 

assoluto divieto di esportazione dei reperti archeologici scavati. 

 

EDITTO del 1750 – provvedimento del cardinale Valenti, riprende e conferma le disposizioni vigenti e cerca di colpire il commercio 

dei falsi molto diffuso a Roma; 

EDITTO del 1802 – provvedimento del cardinale Doria Pamphili, sotto il pontificato di Pio VII, con il quale l’ amministrazione dei beni 

artistici  viene  regolata  con maggiore  severità.  Viene  ristabilito  il  posto  di  ispettore  generale  delle  Belle  Arti, 

affidato al Canova. Viene confermato l’editto del 1750, viene impedito in modo assoluto l’ esportazione da Roma 

e  dallo  Stato  pontificio  di  qualsiasi  oggetto  antico  e  viene  impedita  la  demolizione  dei  ruderi  antichi  che  si 

trovavano in proprietà private. 

Viene proibito a  chiunque nel  costruire nuove  strade o edifici  rinvenisse  reperti di devastarli o demolirli. Tali 

disposizioni valevano anche per le sculture e le pitture. La situazione mutò durante il governo francese, quando 

molte opere d’arte furono trasferite a Parigi.  

EDITTO del 1820 – provvedimento del cardinale Pacca, rappresenta un caposaldo della legislazione negli altri stati prima dell’ Unità. 

Partendo dall’ editto del 1802, tale editto si avvale anche di tutti i regolamenti e disposizioni elaborate durante il 

governo francese. La novità dell’ editto riguarda  l’ organizzazione del servizio amministrativo, perché gli organi 

destinati a far rispettare  le  leggi erano  insufficienti, e quindi  le precedenti  leggi non erano stato correttamente 

applicate. Al  commissario delle  antichità  (Paolo  III),  ai 3  assessori  (cardinale Valenti)  e  all’  ispettore  generale 

(cardinale Doria),  Pio  VII  aggiunge  un  corpo  consultivo  tecnico:  la  Commissione  delle  Belle  Arti,  alla  quale  si 

aggiungevano  commissioni  ausiliarie  nelle  province.  Il  principale  compito  della  Commissione  era  quello  di 

regolare  gli  scavi  archeologici  e  di  sorvegliare  i  lavori  compiuti  dai  privati  nei  loro  fondi.  Con  questa  legge 

bisognava denunciare qualsiasi  rinvenimento nel sottosuolo di  fabbricati antichi11, era vietato  rompere muri e 

pavimenti antichi ed era vietato rimuovere tali oggetti dal luogo originario. 

REGOLAMENTO   – con esso  si  vuole  richiamare  l’ attenzione delle  Commissioni ausiliarie  sul patrimonio  artistico custodito  nelle  

del  1821             chiese, di cui si auspica la catalogazione. Viene inoltre ribadito il concetto che le opere d’arte, mobili o immobili, 

sono beni appartenenti alla collettività. Il documento sottolinea la necessità di eseguire precisi rilievi degli scavi 

senza fare ipotetiche ricostruzioni che potrebbero non corrispondere alla realtà.   

  

  

  

  

  

  

                                                            11 _ la perdita del suolo veniva indennizzata all’ ex‐proprietario. 

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7.6  _ Gli interventi di Stern e di Valadier sul Colosseo 

Nel 1756, quando Piranesi scrive “Le Antichità Romane”, i resti di queste andavano perdendosi per colpa del tempo e dell’ uomo, ed 

egli quindi riteneva utile conservarne la memoria attraverso le proprie incisioni, volte a magnificare la bellezza di Roma antica. Tra i 

temi più trattati vi è sicuramente  il Colosseo, che fin dal XV secolo viene considerato solamente come una cava di travertino utile 

per costruire la Roma moderna. 

All’ inizio dell’ 800 nonostante fosse meta obbligata del Grand Tour versava in uno stato di totale abbandono; era coperto di erbe  

ed era diventato deposito di letame e luogo di mercato.  

Si  decise  quindi  di  dare  avvio  ad una  serie  di  lavori  di  ripristino,  cominciando  con  l’  eliminare  il  letame  e  con  il  consolidare  le 

strutture: era infatti necessario intervenire dalla parte del Laterano, in quanto quel lato minacciava di crollare. Pio VII nomina una 

commissione composta dagli architetti Giuseppe Palazzi, Giuseppe Camporesi e Raffaele Stern. I tre si oppongono alla soluzione di 

demolire  la parte pericolante, proponendo, nel 1806, di  costruire un grosso  sperone  in  laterizio  che  rispondesse  sia a  ragioni di 

ordine economico che statico, oltre a conformarsi come una opera moderna, in grado di 

reggere  il  confronto  con  l’  antico.  Stern  propone  inoltre  di  murare  gli  archi  che 

presentavano  un  ribassamento  dei  conci  di  chiave.  Egli,  che  risulta  essere  il  vero 

responsabile dell’ opera, con  la costruzione dello sperone ritiene di aver compiuto un’ 

opera  indispensabile per arrestare  la distruzione del monumento;  inoltre  tale opera è 

degna di essere ammirata anche per sé stessa. 

È  proprio  per  consentire  la  vista  di  tale  contrafforte  a  coloro  che  arrivavano  da  San 

Giovanni  che papa  Pio VII ordinò di demolire  alcune  casupole.  Stern  si mostra molto 

fiero dell’ opera  in quanto  la ritiene capace di sostenere  il confronto con  l’ antico: per 

questo motivo realizza lo sperone in laterizio, materiale romano12. 

Altro intervento nel Colosseo attuato da Stern è il tamponamento degli archi realizzato 

in modo tale da lasciare i conci di chiave nella posizione che avevano assunto in seguito 

al  dissesto manifestatosi  dopo  il  terremoto  del  1806.  Tale  intervento  corrisponde  al 

gusto  romantico del pittoresco, del voler conservare  l’ aspetto di  rudere anche con  la 

tompagnatura. 

Molti all’ epoca sostennero tale intervento, ma non i francesi; Gisors, allontanandosi dai 

criteri seguiti da Stern,  formulò nuovi principi sui quali si sarebbero dovuti basare gli  interventi  futuri. Circa venti anni dopo  tale 

intervento, nel 1826,  interverrà sul  lato opposto del Colosseo, Giuseppe Valadier. Già prima di tale  intervento, durante  il governo 

francese,  erano  stati  compiuti  dei  lavori  più  generali  di  sistemazione  urbanistica  della  zona:  non  sono  solo  le  casupole  a 

compromettere  la  realizzazione del piano di  risanamento di De  Tournon ma  soprattutto  la presenza di  acqua  che  invade  l’area 

causando gravi dissesti.  

È nel  1823  che ha  inizio  l’intervento di Valadier nell’  area occidentale del Colosseo, 

consistente nella realizzazione di arcate in numero decrescente a partire dal basso, con 

un barbacane13 per ciascun ordine. L’ intervento nasce da esigenze di ordine statico ma 

persegue  l’  obiettivo  di  rispettare  il  valore  estetico  del  monumento,  utilizzando 

intonaco trattato a travertino. 

   

  

  

  

  

  

  

  

  

  

  

  

  

  

                                                            12 _ un affresco presente nei Musei Vaticani mostra lo sperone del Colosseo imbiancato, ma ciò non è verosimile in quanto Stern essendo così fiero 

della muratura in laterizio non avrebbe avuto nessun motivo per intonacarla. 13 _ contrafforte, rinforzo a forma di scarpa nella parte inferiore di un muro per sostegno. 

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7.7  _ Il restauro dell’ arco di Tito 

Il monumento è probabilmente opera dell’ ultimo imperatore della dinastia Flavia, Domiziano. È giunto fino all’ inizio dell’ 800 grazie 

al  suo  inserimento  nelle  fortificazioni  dei  Frangipane di  età medioevale,  anche  se  subì  notevoli  danni  dovuti  all’  estrazione del 

marmo. Tuttavia  la zona centrale, che costituiva  l’ entrata monumentale della  fortezza, è  in buone condizioni e permane  fino ad 

oggi.  In età medioevale fu distrutta totalmente  la zona dell’ attico, sostituita con una costruzione  in mattoni, ancora visibile nelle 

vedute di Piranesi del ‘700. A partire dal XVI secolo, sotto il pontificato di Paolo II  e Sisto IV vennero effettuati i primi restauri che 

consistettero  nella  demolizione  di  alcuni  edifici  addossati  e  nella  realizzazione  di  un  contrafforte.  Successivamente  l’arco  fu 

inglobato nelle strutture del convento di Santa Francesca Romana e solo a partire dal 1812‐13 ebbe inizio l’ intervento di liberazione 

che si concluse con il ripristino dell’ arco effettuato tra il 1818 e il 1824 ad opera prima dello Stern, e dopo la sua morte nel 1820, dal 

Valadier. 

Durante  il decennio  francese,  con  la  soppressione degli ordini  religiosi,  si propose di demolire parte del convento addossato all’ 

arco, ma è dopo il terremoto del 1812 che le condizioni statiche dell’ arco diventano precarie; il restauro del monumento pertanto è 

della massima urgenza e i criteri che saranno assunti sono quelli proposti da Gisors nel 1813. 

Importante è la  “Narrazione artistica dell’ operato finora nel ristauro dell’ arco di Tito” del 1822 di Giuseppe Valadier, documento 

che rappresenta un’ indagine storica del monumento e un’ esposizione critica dell’ intervento, contenente diverse tavole illustrate. 

Tale  documento  mostra  che  la  metodologia  adoperata  era  quella  che  faceva  precedere  l’  indagine  storica  e  tecnica  all’ 

identificazione del dissesto e delle  sue  cause. Nella  relazione è descritto quindi  lo  stato di  conservazione dell’ arco ad un unico 

fornice che risultava mutilo dell’ attico, ad eccezione della lapide con l’ iscrizione. Erano stati asportati sia il rivestimento dei fianchi, 

sia le colonne angolari, con la base; restavano in piedi lo zoccolo e una piccola parte del podio. 

Egli è certo che le colonne in origine fossero poste in angolo a reggere la trabeazione sporgente14; inoltre rinviene in situ l’ architrave 

del vano, posto tra gli intercolumni, che gli permette di calcolare l’ altezza del vano. 

Già in precarie condizioni l’ arco minacciava di crollare; così nel 1818 si affidarono i lavori a Raffaele Stern. La sua opera riguarda la 

puntellatura della struttura e la librazione di ciò che rimaneva dell’ arco, ovvero il fornice, il passaggio interno, le colonne centrali che lo inquadravano sui due lati, e la sovrastante trabeazione sormontata dalla grande targa celebrativa. 

Giuseppe Valadier nel 1822, dopo la morte di Stern del 1820, prosegue realizzando un castello di legname utile per smontare i vari 

pezzi, come  la  lapide, e poi  rimontarli, dopo averli contrassegnati: egli compie così un’ operazione di anastilosi15. Erano già  stati 

predisposti da Stern  i pezzi che avrebbero dovuto  integrare  le parti mancanti, con materiale diverso dall’ originario  (travertino al 

posto del marmo) e quindi Valadier non fa altro che mettere in opera quanto da lui predisposto. Valadier inoltre si oppone a coloro 

che avrebbero voluto realizzare delle strutture di sostegno. 

Egli  reimpiegò  tutto  il materiale  lapideo originario e utilizzò  il  travertino al posto del marmo non  solo per motivi economici ma 

soprattutto per differenziare il nuovo dall’ antico. 

Pertanto tale intervento si può considerare un restauro fatto con criteri moderni, per l’ impiego di materiali diverso dall’ originale, 

per  il  rifiuto  di  qualunque  imitazione  del  dettaglio  e 

per il rispetto dei reperti originari. 

Molto  criticato  da  Stendhal,  l’  intervento  fu  molto 

apprezzato  da  Quatremere  de  Quincy  che  nel 

“Dictionnaire  historique  d’  Architecture”  del  1831 

afferma: “l’ arco di Tito è stato felicemente sgombrato 

da  tutto  quanto  ne  riempiva  l’  insieme  ed  anche 

restaurato nelle parti mutate, precisamente nel modo 

e nella misura che abbiamo indicato”. 

 

 

 

 

   

  

  

  

  

                                                            14 _ gli sono d’ aiuto gli archi di Traiano di Benevento e Ancona. 15 _ tecnica di restauro con la quale si rimettono insieme, elemento per elemento, i pezzi originali di una costruzione distrutta, per esempio dopo un 

terremoto. 

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8 .    TTRRAASSFFOORRMMAAZZIIOONNII  DDEELLLL’’  AARRCCHHIITTEETTTTUURRAA  EE  DDEELLLLAA  CCIITTTTAA’’  DDUURRAANNTTEE  IILL  DDEECCEENNNNIIOO  

FFRRAANNCCEESSEE  AA  NNAAPPOOLLII  

In seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei e alla fondazione nel 1755 dell’ Accademia Ercolanense le istanze neoclassiche erano 

già diffuse a Napoli, ma  in architettura bisognerà attendere  il decennio  francese  (1806‐1815) per assistere all’ affermazione del 

neoclassicismo.  

Nella Napoli di  fine  ‘700 si vive un momento di  transizione politico‐storico che si riflette  in architettura. Dopo  la morte di grandi 

protagonisti  come  Vanvitelli,  Fuga  e  Gioffredo  nei  primi  decenni  dell’  800  si  assiste  soprattutto  al  completamento  di  opere 

monumentali, ma anche all’ incremento di costruzioni pubbliche e private e ad un assetto urbanistico con la realizzazione di nuove 

strade. 

Con  la venuta di Giuseppe Bonaparte prima (1806) e di Gioacchino Murat dopo (1808) si attuò una generale riforma con  la quale 

vennero modificati secondo  gli orientamenti francesi sia gli ordinamenti politici, giudiziari, amministrativi sia le istituzioni vigenti.  

GIUSEPPE BONAPARTE __ nel 1806 istituisce il Ministero dell’ Interno che si occupava dell’ amministrazione civile. Viene conferita al 

regno una struttura amministrativa simile a quella francese, basata sulla suddivisione in province ciascuna 

con  un  proprio  capoluogo. Ogni  provincia  era  dotata  di  un  Consiglio  di  Intendenza,  presieduta  da  un 

intendente. La struttura amministrativa riguardante le opere pubbliche venne modificata con l’ istituzione 

nel 1807 del Consiglio dei Lavori Pubblici. 

GIOACCHINO MURAT   __ subentra a Giuseppe nel 1808. Subito  istituisce a Napoli  il Corpo degli  Ingegneri di Ponti e Strade e nel 

1811  la  relativa  Scuola  di  Applicazione  che  avrebbe  dovuto  formare  in  pochi  anni  nuovi  ingegneri 

(presente  in  Francia  con  il nome di Ecole des Ponts  et Chausses). Da questa  scuola usciranno notevoli 

figure professionali, come Stefano Gasse e Giuliano de Fazio.  

Nel  1809  viene  fondata  la  Società  Reale  di  Napoli  divisa  in  tre  sezioni:  Accademia  Ercolanense  di 

Archeologia, Accademia di Scienze e Accademia di Belle Arti16.  

La pittura è considerata una cosa importante  e nel 1809 il Ministero dell’ Interno sottolinea l’ importanza 

di  “realizzare una  storia” della pittura napoletana: nel 1809 viene emanato un decreto  che ordina una 

collezione  di pitture  di  autori  napoletani  nel  Palazzo  dei  Regi  Studi  sotto  il  nome  di Galleria  di  Pittori 

napoletani.  Si  nutrono  timori  in merito  alla  possibile  sottrazione  di  opere  pittoriche  e  scultoree  dai 

complessi  religiosi  (dopo  la  soppressione  degli  ordini):  si  emana  un  decreto  nel  1806  che  prescrive  la 

compilazione di un inventario di tutto quanto contenuto in ciascun monastero con l’ obbligo di conservare 

tali beni. 

 

Quindi dopo il periodo di stasi edilizia successivo alla rivoluzione del 1799 con il decennio francese si assiste ad un incremento delle 

costruzioni e delle opere urbane:  l’ atteggiamento assunto dagli architetti  in questo periodo di fronte ai ruderi è sicuramente più 

conservativo rispetto a quello adottato nei confronti degli edifici monumentali; non hanno ancora preso coscienza del valore di tali 

beni e, molto spesso, non esitano a sacrificarli del tutto o  in parte per  la realizzazione do nuove strade o  l’ allargamento di quelle 

antiche. Durante tale decennio grande interesse viene rivolto alla configurazione urbana mediante la sistemazione di alcune strade e 

la realizzazione di nuovi collegamenti tra il centro e l’ area orientale. 

 

8.1  _ Istituzioni culturali e strutture amministrative  

Le  istituzioni che consentirono di  formare gli architetti, che operarono anche dopo  la  restaurazione borbonica, e di controllare  l’ 

attività edilizia sono il Pensionato napoletano di Architettura (1813‐1875), la Scuola di applicazione di Ponti e Strade e il Consiglio 

degli Edifici Civili (1806), preposto al controllo dell’ edilizia.   

PENSIONATO __  istituzionalizzato con un decreto del 1813, posto  sotto  il controllo del ministero dell’  interno,  fornisce ad artisti 

meritevoli borse di studio per completare gli studi a Roma. Ispirato al francese Gran Prix de Rome durava 5 anni. 

SCUOLA DI       __ fondata nel 1811 doveva formare nel giro di pochi anni la classe di professionisti appartenente al Corpo degli  

PONTI E                 Ingegneri di ponti e strade. Il direttore  è il generale del Genio militare Jacques David de Campredon che, seguendo 

STRADE                  il modello francese, contraddistingue l’ istituzione col centralismo e il controllo del territorio.   

Anche se furono realizzate importanti opere pubbliche, come l’ Osservatorio e l’ Orto Botanico, numerosi furono gli interventi sulle 

preesistenze in seguito alla soppressione degli ordini religiosi: ciò portò ad un razionale utilizzo dei grandi complessi conventuali ma 

anche ad alcune perdite del patrimonio artistico napoletano. 

                                                            16 _ per l’ Accademia di Belle Arti, fondata da Carlo di Borbone nel 1752, durante il decennio francese viene avviata una grande riforma, con la 

creazione nel 1806 della cattedra di Architettura. 

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8.2  _ Le opere pubbliche   

Così come accadde a Roma molte opere avviate dai francesi furono portate a termine dopo  la restaurazione e rivestirono grande 

importanza per  lo sviluppo della città. Opere di questo  tipo sono  le grandi strade, come Corso Napoleone  (oggi via Santa Teresa 

degli Scalzi e corso Amedeo di Savoia) che dal Museo raggiunge la collina di Capodimonte scavalcando il vallone della Sanità con un 

ponte. La realizzazione di questa arteria rientra nei provvedimenti urbanistici promossi da Giuseppe Bonaparte che riguardarono l’ 

apertura di tre sistemi viari: 

__ tracciati viari per la collina di Capodimonte; 

__ collegamento tra Napoli e Aversa; 

__ perimetrazione del Bosco di Capodimonte; realizzazione di una strada lungo i fondi appartenenti al sovrano. 

Un ‘ altra opera importante è la strada di Capodichino e il raccordo con la via Appia: costruita in tempo brevi, da 1811 al 1814, fu 

caratterizzata da  importanti  interventi  tecnici,  come  tagli del monte,  costruzione di due ponti e opere di  consolidamento per  l’ 

intero tracciato.  Inizialmente  il progetto era di Stefano Gasse e Gaetano Schioppa, ma  il  loro  lavoro non soddisfò  il ministro dell’ 

interno,  che  non  vi  trovò  soddisfatte  le  qualità  paesaggistiche:  succeduti  da  Giuliano  de  Fazio  e  Luigi Malesci,  re  Gioacchino 

collaborò per disegnare il tracciato. 

Tra gli architetti più attivi durante il decennio vi è sicuramente De Fazio, architetto municipale appartenente al Corpo degli Ingegneri 

di ponti e strade. 

 

8.3  _ La soppressione degli ordini religiosi e la costruzione del mercato nel complesso di Monteoliveto 

Nel 1807  fu promulgata  la  legge di soppressione degli ordini  religiosi che agevolò  la sistemazione urbanistica della città a danno 

talvolta del patrimonio artistico. Furono demolite fabbriche religiose o adibite a nuove funzioni, come: 

__ il complesso di San Marcellino e Festo adibito nel 1808 a educandato femminile; 

__ il convento di San Pietro Martire diventa manifattura tabacchi; 

__ il complesso del Gesù Vecchio viene trasformato in museo mineralogico e collegio reale; 

__  il  complesso  di Monteoliveto    che  viene  trasformato  in mercato,  inserito  all’  interno  del  giardino.  Costruito  in  seguito  all’ 

emanazione del decreto del 1807 che prevedeva la realizzazione di 4 mercati, realizzato da Stefano e Luigi Gasse, costituisce un 

importante opera pubblica rimasta in funzione per tutto l’ 800 distrutta negli anni ’30 per la realizzazione del Rione Carità. 

Inizialmente si volevano utilizzare gli edifici esistenti intorno al giardino, ma poi si preferì inserire una nuova struttura all’ interno 

del giardino che in pianta si sviluppava in un rettangolo e in un’ esedra semicircolare costituita da colonne senza basi con il fusto 

in mattoni e il capitelli e la parte inferiore in piperno. 

Fu  considerato  uno  dei migliori mercati  d’  Europa  per  la  soluzione  a  corte  chiusa  verso  l’  interno  con  due  soli  ingressi  che 

garantivano maggior controllo. La  struttura era nata per  risolvere problemi  igienici,  raccogliendo  tutti  i venditori  sudici di via 

Toledo, e il progettista adoperò un linguaggi architettonico ispirato dai temi in uso a Pompei ed Ercolano nel Foro, nella palestra, 

nel peristilio delle domus. 

 

Episodi che riguardarono il tessuto preesistente della città: 

__  sistemazione  della  Riviera  di  Chiaia,  1813,  consentì  la  realizzazione  di  un  recupero  urbano  con  la  ristrutturazione  di  alcune 

facciate  e  la  razionalizzazione di  attività poco decorose,  come quelle delle  lavandaie o dei pescatori,  ad opera di  Francesco 

Maresca. 

__ rettifica di Via Foria, tra il 1808 e il 1815, ad opera di Stefano Gasse e Gaetano Schioppa. Vengono demoliti due isolati, costruiti 

nuovi edifici e ristrutturati altri allo scopo di realizzare un fronte stradale omogeneo.  

__ piazza di fronte al Palazzo reale, viene ordinata con un decreto del 1806, ma solo nel 1809 viene bandito un concorso pubblico 

che aveva per oggetto anche la realizzazione di una sala per assemblee popolari. Il concorso fu vinto da Laperuta, e con l’ inizio 

dei  lavori furono demoliti edifici religiosi, come  la chiesa di Santa Maria a Cappella o  i monasteri di San Luigi e Santo Spirito, e 

furono  costruite  le  fondazioni.  Al  ritorno  dei  Borbone  i  lavori  furono  interrotti  e  nel  1816  un  nuovo  concorso  bandisce  la 

realizzazione di una chiesa, che verrà eseguita da Pietro Bianchi. 

 

Al  loro  rientro  i Borbone  tennero  conto dei programmi e dei progetti avviati dai  francesi e diedero  incarichi a professionisti già 

impegnati col passato governo: è il caso di Antonio Niccolini che chiamato da Roma prima dell’ arrivo dei francesi, come scenografo 

del San Carlo, rimase ad occuparsi del teatro, rinnovandone  le decorazioni e rifacendo  la facciata, aggiungendo  l’ atrio e  il portico 

antistante.  

 

 

 

 

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8.4  _ Il ponte della Sanità 

I francesi per realizzare grandi opere a livello urbanistico sacrificarono anche importanti monumenti, come nel caso del complesso di 

Santa Maria della Sanità. Appena giunto a Napoli Giuseppe Bonaparte volle realizzare, nel 1806, il prolungamento di via Toledo fino 

a Capodimonte; l’ arteria prese il nome di Corso Napoleone, che collega direttamente la città al sito reale.  

In seguito a tale decisione  l’ area urbana della zona delle Vergini e della Sanità subì una notevole trasformazione e  l’  importante 

complesso di Santa Maria della Sanità venne stravolto. 

XVI secolo __ fondazione da parte dei domenicani, progettato da Fra’ Nuvolo nel 1602. L’ intero complesso rimase inalterato fino all’ 

arrivo dei francesi; 

1808           __  il monastero di Santa Maria della Sanità viene soppresso e  i  lavori per  la realizzazione del corso proseguirono con  la 

realizzazione del ponte. Per concludere questi lavori si sacrificò una parte del borgo e del monastero; di quest’ ultimo 

fu demolita  la parte superiore, furono rasi al suolo  il chiostro rettangolare e gli ambienti a nord, conservando  il  lato 

sud. A tutto ciò si aggiunse la manomissione del chiostro ovale che venne diviso in due dai piloni del ponte.  

Il  progetto  originario,  di  Avellino  e  Leandro,  prevedeva  il  miglioramento  dell’  antico  percorso,  mediante  la 

realizzazione  di  un  passaggio  attraverso  una  cavità  nel monte  ad  ovest  della  piazza  che  il  progetto  prevedeva  in 

corrispondenza  dell’  attuale  tondo  di  Capodimonte.  Il  progetto  non  fu  approvato  e  il  sovrano  emise  nel  1807  un 

decreto di approvazione dell’ apertura di una strada rettilinea che con un ponte sovrastasse il vallone della Sanità.  

 

Ha  prevalso  dunque  la  volontà  di  realizzare  un’  opera  imponente  a  scapito  di  un  rione  che  è  rimasto  tagliato  fuori  e  di  un 

monumento la cui valenza architettonica non è stata presa in considerazione. Ciò non è da attribuire esclusivamente al Leandro, ma 

piuttosto al clima culturale di allora, che aveva trovato nei francesi gli esecutori di un piano organico per  l’ urbanistica dell’  intera 

città. 

 

8.5  _ La tutela del patrimonio artistico e archeologico 

Durante  il decennio si assiste ad una attività  istituzionale  rivolta alla  tutela del patrimonio storico‐ artistico,  in prevalenza quello 

archeologico e quello delle opere d’arte mobili. Il ministero dell’ interno si occuperà dei monumenti, dell’ istruzione, degli scavi, dei 

musei e delle accademie. 

Viene promulgata una specifica  legislazione per  razionalizzare gli scavi delle antiche città vesuviane: nel 1807  il  re  fa sospendere 

tutte le operazioni di scavo in attesa che venga formulato un regolamento. Nel 1808 viene emanato un regolamento che recepisce il 

piano dell’ Arditi: Michele Arditi, sovrintendente generale degli scavi dal 1807 al 1837 viene  incaricato di redigere un piano sugli 

scavi del regno, che aveva come scopo anche quello di controllare gli scavi effettuati dai privati.  

Grande  impulso  agli  scavi  fu  dato  soprattutto  durante  il  regno  di  Gioacchino  Murat,  la  cui  moglie,  Carolina  Bonaparte,  era 

interessata alle scoperte archeologiche  anche perché con essi arricchiva la propria collezione privata. 

In questo decennio si avvia una vera e propria metodologia che prevede  l’  istituzione di un giornale per divulgare  i risultati degli 

scavi e la numerazione delle insulae.  

In quel periodo venne acquistata  tutta  l’area di Pompei e vennero accelerate  le opere di sterro e di  restauro;  la preoccupazione 

maggiore  era data dagli  interventi  che  consistevano  in  aggiunte di parti nuove  che  toglievano  il  carattere  all’  antico.  Fu quindi 

emanato un regolamento di carattere tecnico che anticipa molti dei principi ancora oggi in uso. 

Un altro problema che fu affrontato dai francesi fu la salvaguardia dele opere d’arte, quasi esclusivamente pittoriche, contenute nei 

monasteri soppressi: nel 1806 fu emanato un decreto per evitare che il patrimonio acquisito dallo stato venisse soppresso: si stabilì 

di inventariare e mettere in deposito tali beni fino alla selezione dei migliori da portare al museo reale. 

Non tutti erano d’ accordo con il togliere i quadri dalle chiese e metterli in deposito senza restaurarli.  

Giuseppe Mazzucca, avvocato, inviò al ministro Zurlo un memoriale in cui sostiene la necessità di conservare anche i beni immobili; 

è preferibile conservare tali beni piuttosto che i musei, in quanto gli oggetti ivi contenuti separata dal luogo d’ origine perdono parte 

del loro interesse, mentre i beni immobili possono durare nel tempo con costante manutenzione.