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LE COSE CHE TI HO NASCOSTO

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NANCY RICHLER

LE COSE CHE TI HO NASCOSTO

Traduzione diVELIA FEBRUARI

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Titolo originale: The Imposter Bride Copyright © 2012 by Nancy Richler. Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

and The Cooke Agency Inc.

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono frutto dell’imma-ginazione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qual-siasi somiglianza con eventi o luoghi o persone, vive o scomparse, è del tutto casuale.

Il primo capitolo di questo libro è apparso in forma leggermente diversa in Room of One’s Own, volume 28:2, 2005.

ISBN 978-88-566-2505-9

I Edizione 2014

© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milanowww.edizpiemme.it

Anno 2014-2015-2016 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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A Janet e Martin,e a Vicky

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Tu, che non ho potuto salvare,ascoltami.Cerca di capire questo linguaggio semplice,mi vergognerei di un altro.Non possiedo, lo giuro, la magia della parola.Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.

CZESŁAW MIŁOSZ

Prefazione, 19451

1 CZESŁAW MIŁOSZ, Poesie, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2005, p. 41.

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Lily Kramer sedeva in silenzio con il suo novello sposo nel salottino riservato di una sala ricevimenti di Montréal. Era estate e la stanzetta era rovente come una fornace. Non c’erano fi nestre né porte, solo una tenda oltre la quale gli invitati – per lei quasi tutti sconosciuti – davano fondo a pan di spagna e aringhe innaffi ati da grappa e vodka. Lily e suo marito sedevano alle estremità opposte del sofà sul qua-le, presumeva, avrebbero dovuto consumare il matrimonio.

Davanti al sofà c’era un tavolinetto imbandito di frutta e uova sode. Il giovane sposo prese una prugna e la fece rotolare nel palmo della mano. Si chiamava Nathan e Lily lo conosceva da una settimana. In realtà doveva sposare suo fratello, Sol, l’uomo con cui aveva scambiato una serie di lettere senza averlo mai incontrato, l’uomo che l’ave-va intravista mentre scendeva dal treno e aveva deciso di non volerla più. Lily osservò Nathan giocherellare con la prugna in mano e si chiese cosa avesse scorto in lei suo fratello al punto di decidere di ripudiarla.

Nathan prese un coltello e iniziò a incidere la buccia della prugna. Non si erano ancora toccati, nemmeno sfi o-rati la mano o le labbra nell’istante in cui erano diventati marito e moglie. Gli sguardi che si erano scambiati si con-tavano sulla punta delle dita: il primo quando si era sedu-ta sul divano della casa dove alloggiava, così imbarazzata

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dal rifi uto alla stazione da doversi imporre di guardarlo negli occhi mentre le chiedeva scusa a nome del fratello e dell’intera famiglia.

«Suo fratello non si abbassa nemmeno a scusarsi di persona?» gli aveva chiesto. Si era sorpresa della propria vergogna. Ne era rimasta delusa. Non aveva tempo – né forza – da perdere per un uomo che se l’era data a gambe alla sola vista di una donna. O così pensava.

«No, non si abbassa nemmeno a quello» aveva risposto Nathan.

«Allora non ho perso granché» aveva replicato lei, imprimendo alla propria voce una leggerezza che non le apparteneva. Aveva attraversato due oceani per sposare quel Sol. Non aveva niente e nessuno a cui fare ritorno.

«È lui ad aver perso» aveva risposto Nathan con un fi l di voce.

A quel punto Lily aveva pensato che se ne sarebbe andato, che avrebbe battuto velocemente in ritirata di fronte al pessimo comportamento del fratello, invece non lo aveva fatto. Era rimasto in piedi davanti a lei, spostando il peso da un piede all’altro.

«Vuole sedersi?» gli aveva chiesto infi ne.Aveva gli occhi castani e affettuosi; in essi non c’era

compassione. E sembrava apprezzare l’aspetto della don-na che gli si trovava davanti. Nel suo sguardo si percepiva già un certo calore.

L’indomani era tornato per formalizzare il fi danzamen-to. Perché tanta premura? si era chiesta Lily quando si era ripresentato alla porta. Non aveva ricevuto proposte matrimoniali, perciò non c’era il rischio che un altro pre-tendente se l’aggiudicasse se lui non avesse immediata-mente rivendicato il diritto di prelazione. Ma poi lo aveva capito, o per lo meno aveva creduto di capire. Era tornato per il rossore sulle sue guance quando era entrato nella stanza per la prima volta, lo sguardo abbassato che aveva alzato con grande fatica, il mento sollevato a dispetto dei

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propri sentimenti. Era tornato per redimerla dalla vergo-gna. Aveva portato i testimoni e il brandy, e lo stesso calo-re nello sguardo. Era un uomo fortunato, aveva pensato Lily in quell’istante. Il desiderio lo induceva a compiere atti di bontà.

«Do you speak English?» le aveva chiesto quel giorno. Fino ad allora avevano parlato in yiddish e mai in inglese.

«Ticket» aveva risposto lei. «Bread. Cousin. Suitcase.» Biglietto, pane, cugino, valigia.

Lily parlava inglese in maniera quasi perfetta, a dire il vero. Era stata la rabbia in quel momento a spingerla a nascondere le proprie capacità, una rabbia improvvisa perché Nathan aveva dato per scontato che fosse lei la più ignorante tra i due, lei, che parlava cinque lingue e sape-va destreggiarsi in molte altre. Lei, che aveva traghettato innumerevoli profughi oltre confi ni che lui non sarebbe riuscito neppure a trovare su una cartina. Una rabbia che, in realtà, avrebbe dovuto portarla a questa conclusione: se Nathan Kramer la voleva, lei si sarebbe data a lui e gli sarebbe stata riconoscente. Lei, che aveva tenuto la vita e la morte tra le mani, prima di morire e di riciclarsi in quel pallido oltretomba della propria esistenza.

«Freedom» aveva proseguito lei. «Buttons. Train.» Li-bertà, bottoni, treno.

«Bottoni?» le aveva chiesto lui sorridendo.«Sì, quelli degli Eisenberg» aveva spiegato, facendo il

cognome della famiglia che la ospitava, i datori di lavoro di Sol, proprietari di una fabbrica di bottoni.

«Sì, sì, capisco» aveva detto Nathan, sempre sorridendo.Sapeva che Lily parlava inglese, lo aveva capito dal-

le espressioni sul suo viso mentre seguiva la precedente conversazione con gli Eisenberg, tutta rigorosamente in inglese. Aveva già incontrato dei principianti, sapeva rico-noscere il tempismo sbagliato dei loro cenni, i sorrisi in ritardo, le risate imbarazzate, lo sguardo confuso. In lei non c’era niente di tutto ciò. Era stanca, sì, dopo il lungo

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viaggio che aveva affrontato, certamente smarrita e turba-ta dal comportamento di suo fratello alla stazione, ma non era una donna che non capiva cosa si diceva intorno a lei. Comprendeva perfettamente. Ma fi ngeva di non capire. E la cosa lo intrigava.

L’aveva desiderata subito, lo aveva concluso nell’istante in cui era entrato in quella stanza. Non per la sua bellezza. O almeno, non solo per quella. L’aveva notata, certo. E come poteva ignorarla? Gli zigomi alti, gli occhi grigio fumo... Ma soprattutto era stato per la tensione in lei, una tensione ferina, in parte fame, in parte paura. Era stata quella a far accelerare il battito del suo cuore, quella – non la vergogna – che lo aveva spinto a tornare l’indomani con i testimoni e il brandy. Non si aspettava di trovare una tale tensione nel salotto di Sam Eisenberg della Button King, il re dei bottoni di Montréal. Aveva già conosciuto molte ragazze nei salotti degli ebrei della città. Ragazze carine, non troppo carine, intelligenti, belle, furbe, argute, spe-ranzose, ma mai... no, mai come lei.

«Prendi» le disse, porgendole uno spicchio della pru-gna, il primo scambio della loro vita matrimoniale.

La guardò – la sua novella sposa – mentre dava un mor-so al frutto, gli occhi pieni di lacrime.

«Cos’hai?» le chiese.«Niente.» Scosse la testa, chiudendo gli occhi un istante.

«È buona questa prugna, non è nemmeno troppo dolce.»Avevano digiunato entrambi quel giorno, secondo la

tradizione. Non avrebbero dovuto rompere il digiuno con qualcos’altro? si domandò ora Nathan. Inaugurare l’unione nuziale dando un morso a un uovo, forse, quale simbolo di nuova vita? Una fetta di melone, dolcissima, priva dell’asprezza della prugna?

«Erano molti anni che non assaggiavo una prugna così» disse Lily nel suo inglese impeccabile. Gli restituì il resto dello spicchio, bevve un lungo sorso di acqua, poi si accostò il bicchiere alla guancia per rinfrescarsi la pelle.

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«Fa caldo» osservò lui, e lei convenne.Lily si portò il bicchiere all’altra guancia anche se non

era più fresco sulla pelle. Nathan le porse un tovagliolo e lei gli sorrise per ringraziarlo mentre si asciugava il sudore dalla fronte e dal labbro superiore. Fino ad allora non l’aveva mai vista sorridere.

Lily Azerov Kramer. Non era chi sosteneva di essere.Probabilmente nessuno lo è, in fondo, ma la mistifi ca-

zione di Lily era più letterale che mai. Il suo vero nome... lo aveva lasciato laggiù, in quel paesino stremato dove la prima, vera Lily era morta lasciando, tra le altre cose, una carta d’identità a sostituzione di quella di cui ormai ci si poteva sbarazzare, un’identità nuova che poteva generare un futuro per chiunque se ne fosse impossessato.

E qualcuno lo avrebbe fatto, ovviamente. Quel paesino era in Polonia, nel 1944. Lì, niente andava sprecato.

Ed ecco alcune delle cose che si ottenevano quando si rubava l’identità di una ragazza che non si era conosciuta in vita: un nuovo nome innanzitutto, Lily Azerov, la carta d’identità, un paio di calzini di lana, un quaderno pieno di sogni e altri scarabocchi, un frammento di ghiaccio.

Aveva indossato i calzini su quelli frusti che già portava. La carta d’identità e il quaderno li aveva infi lati nella cinta dei pantaloni, ma non prima di aver imparato a memoria l’unica parte di valore pratico di tutte le pagine: Sonya Nemetz, Rehov Hayarkon 7, Tel Aviv. La pietra, che sape-va essere un diamante, l’aveva nascosta dentro il proprio corpo.

Era stato proprio allora che aveva esitato, proprio quan-do era pronta ad andarsene una sensazione, forte quanto l’istinto di sopravvivenza, l’aveva sopraffatta. Sapeva che avrebbe dovuto fuggire. L’istinto la spronava a lasciare subito l’abitato e a rifugiarsi nel bosco, dove poteva aspet-tare il momento più sicuro per proseguire. E poi scappare, per unirsi alla moltitudine di rifugiati che si riversava a

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ovest sulla scia dell’esercito liberatore, mescolarsi a quel-la fi umana e inaugurare la vita che, con il tempo, poteva diventare sua. Scappa, si era detta, come aveva fatto mol-te volte negli ultimi tre anni, forte dell’istinto che l’aveva sempre tenuta a pochi centimetri dalle grinfi e della morte. Ma quel giorno, in lei era emerso qualcos’altro. Un’esita-zione. Il suo sguardo aveva indugiato. Era forse l’angola-zione del corpo della ragazza morta, le membra appena in obliquo, come quelle della sua sorellina quando dormiva? Un frammento dei sogni della ragazza che era venuto a galla ed era penetrato in lei mentre sfogliava in fretta il quaderno? O l’ombra del ratto, richiamato dall’odore del prossimo pasto?

Si era fermata. Aveva posato la mano aperta sulla fron-te fredda e liscia, l’aveva passata sugli occhi ormai ciechi – grigioazzurri come i suoi – e le aveva chiuso le palpe-bre. Gli occhi andavano chiusi. Era il minimo, e il massi-mo, che potesse fare. Chiuderle le palpebre e tenerle così per un momento. Lo aveva fatto per la ragazza alla quale stava rubando il futuro. Poi era fuggita.

Sol Kramer era tra gli ospiti al matrimonio. Al matri-monio che avrebbe dovuto essere il suo. Per tutta la serata aveva brindato in onore degli sposi e sollevato il fratello in spalla in una danza più forsennata che gioiosa. La sua voce rimbombava più forte di quella degli altri invitati, il suo viso scintillava di sudore.

«L’hayim» esclamava, tracannando un bicchierino di whisky dopo l’altro. Già si pentiva della propria decisione.

Ecco che genere d’uomo era Sol Kramer. Se a colazio-ne mangiava del pane integrale, nel pomeriggio avrebbe voluto averne mangiato di bianco. Ma oltre a desiderare, sprecava del tempo prezioso a chiedersi come sarebbe potuta andare la giornata, quanto sarebbe stato meglio – di stomaco, in tutto il corpo – se solo avesse mangiato pane bianco anziché integrale.

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La sposa ora gli appariva bella. C’era una fi erezza nella sua espressione che non aveva notato prima, che non c’era – era disposto a giurarlo – quando era scesa dal treno. Quel giorno sembrava disorientata, si guardava intorno, aspettando con ansia che qualcuno andasse a reclamarla. Patetica, ecco come gli era sembrata, una donna sola sen-za nessuno ad accoglierla. Un bagaglio abbandonato.

Ma non poteva essere altrimenti, si rese conto, dopo tutto quello che aveva passato. E lui, dal canto suo, non era tenuto ad amarla per forza, a sposarla e a restare suo marito abbastanza a lungo per lasciarla passare da uno spiraglio nella frontiera canadese, che non si era ancora riaperta ai rifugiati ebrei. Il matrimonio, il primo per Sol, doveva essere un atto di carità. Un atto di carità per cui avrebbe ricevuto un piccolo compenso, un pegno di gra-titudine; niente di eccessivo, quel poco che bastava per dargli l’incentivo di cui aveva bisogno, la spinta che gli altri giovani uomini, non certo per meriti propri, riceve-vano dalla famiglia o da altri colpi di fortuna. Sol Kramer non aveva mai avuto colpi di fortuna. Il matrimonio dove-va essere il primo. Ma quando aveva visto la sposa aveva fatto marcia indietro.

Un bene difettato. Ecco cosa aveva visto. Una vita rovi-nata, una donna spaurita, un matrimonio che lo avrebbe vincolato – benché per poco tempo – al dolore.

Che la sposasse qualcun altro, aveva deciso su due pie-di. Era un uomo di carità, nessuno poteva negarlo. Non avrebbe mai negato il suo aiuto alle vedove e agli orfani del mondo. Ma non li avrebbe certo sposati, ormai era chiaro. E perché avrebbe dovuto, con il suo bell’aspetto e la sua intelligenza, e il futuro roseo che sentiva fervere sotto la punta delle dita? Che la sposasse qualcun altro, aveva detto al sensale che aveva combinato l’unione. La sua carità non si estendeva al talamo nuziale.

Ma la donna che aveva lasciato alla stazione adesso era scomparsa, del tutto volatilizzata nella splendida spo-

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sa che si era preso suo fratello. Adesso veniva sollevata sulla sedia al centro della sala. Quando i danzatori sotto di lei si protesero per avere una presa più solida, spro-fondò per un istante e la sedia si inclinò, prima da un lato e poi dall’altro, al punto che sembrò potesse scivo-lare giù e cadere. Tutti trattennero il fi ato, alcune donne si fecero sfuggire un grido, ma Lily resisté. Sorridendo, nondimeno. Altri invitati accorsero a sostenerla, braccia più muscolose del necessario, e un secondo dopo Sol la vide ergersi sulla folla. La donna che avrebbe potuto – o meglio, dovuto – essere sua.

Era radiosa mentre i lettighieri la trasportavano su quel trono volante attraverso la sala, in direzione dello sposo. Trionfante, così appariva agli occhi di Sol. Non si curava di tenersi aggrappata ai bordi della sedia, che continuava a inclinarsi e rimbalzare pericolosamente. Con ambo le mani libere, sventolava un fazzoletto in direzione del con-sorte – il fratello di Sol – che protendeva una mano per afferrarne un lembo. Il suo sguardo non si abbassava mai alle persone sotto di lei; non staccava gli occhi da Nathan neppure per un secondo.

Tuttavia si accorse della presenza di Sol, dei suoi ten-tativi di calamitare il suo sguardo. E così adesso mi vuole, si disse. Ti conosco, sai, ho già incontrato uomini come te. Era uno di quelli che riuscivano a desiderare solo ciò che un altro desiderava per primo, pensò Lily, un uomo la cui sete di vita era così scarsa che il suo sostentamento dipen-deva da brame parassitarie. Incrociò il suo sguardo per un attimo, poi lo distolse.

Non sono niente per lei. Anzi, meno di niente. Un vigliacco, pensò Sol mentre si abbandonava sulla sedia più vicina. Osservò il fratello allungarsi per afferrare il fazzoletto e la sentì ridere quando Nathan lo acciuffò per un istante prima che i danzatori sotto di lui lo trascinas-sero via.

«Non durerà» affermò una voce alle sue spalle, una

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voce femminile ma dotata del peso e della gravità di quel-la di un uomo.

Sol si voltò e si accorse di essersi seduto al tavolo di un’invitata che non conosceva, una donna di mezza età che era, o pensava di essere, una spanna sopra il resto degli ospiti. Il suo abito, di raso blu, era più formale di quello delle altre donne, il suo portamento più dritto e solenne. Portava i capelli raccolti e laccati a forma di con-chiglia, la fronte ampia e diafana. Non si era alzata dal tavolo per tutta la serata e posava una mano a mo’ di anco-ra sul braccio della ragazza adolescente al suo fi anco – la fi glia, presumeva Sol – ogni volta che cercava di alzarsi per unirsi alle danze.

«Non durerà mai» ribadì la donna. «Si sente già quel-l’odore inimitabile.»

«Mamma, ti prego» sibilò la ragazzina. Era chiaramen-te mortifi cata. Attorcigliò un fazzoletto tra le dita e abbas-sò lo sguardo sul tavolo, rifi utandosi di alzare la testa.

«La puzza di un matrimonio sfortunato è inconfondi-bile» disse la donna.

«Capisco» rispose Sol, anche se in realtà non capiva. Solo che non sapeva cos’altro dire. Si sapeva districare bene nelle occasioni mondane – mellifl uo, lo avrebbero defi nito alcuni – ma quella situazione particolare, la spic-cata maleducazione di quella donna, esulava dalla gamma delle sue capacità. La fi glia, che stillava acredine, continuò a torcere il fazzoletto. Teneva la testa china verso il tavo-lo, senza mostrare altro che la divisione impeccabile dei capelli scuri e ondulati.

La madre fi ssò Sol, in attesa della sua reazione.Lui ci rifl etté un momento, poi fece un ampio sorriso

e le porse la mano. «Sol Kramer» si presentò. «Fratello dello sposo.»

La donna non restituì il sorriso, ma strinse la mano profferta. «Ida Pearl Krakauer» disse. «E questa è mia fi glia, Elka.»

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La ragazza alzò lo sguardo dal fazzoletto avvoltolato. Era tanto bella quanto scontrosa, notò Sol con piacere.

«Ida Pearl Krakauer» ripeté. Quel nome non gli diceva niente.

«Mi dica» proseguì la donna. «Dove ha acquistato quell’anello, lo sposo?»

«L’anello?»«Sì, quel fondo di bicchiere che pensa sia un diamante.»Sol si sentì avvampare in difesa del fratello. Nella pietra

che la donna aveva defi nito fondo di bicchiere erano fi niti i risparmi di un mese intero.

«Da Grinstein» disse lei senza aspettare una risposta. «Riconosco lo stile. Perché ne è privo.»

«È stato un piacere, glielo assicuro, signora» disse Sol alzandosi per lasciare il tavolo. Non aveva intenzione di restare ad ascoltare mentre quella donna offendeva i gusti e le scelte di suo fratello. Né si sarebbe abbassato a ripa-garla con la stessa moneta.

«Si sieda, si sieda. Non intendevo offenderla. Se avessi saputo che lei era così impulsivo avrei tenuto la bocca chiusa, glielo assicuro, signore».

Elka sorrise appena dell’imitazione di Sol da parte di sua madre, del giro di parole che prima aveva trovato ele-gante e adesso considerava ridicolo.

«E comunque, io sono una concorrente di Grinstein, perciò non dovrebbe prendermi troppo sul serio» prose-guì Ida Pearl.

«Con il dovuto rispetto, signora Krakauer, non credo che lei sia una persona da prendere alla leggera.»

A quelle parole, Ida Pearl gli rivolse un sorriso, ampio e genuino.

«Invece di andarsene tutto impermalito, perché non porta mia fi glia a fare qualche piroetta? Di solito non approvo i balli misti ai matrimoni, ma...»

Elka era già in piedi, sorridendo in modo invitante, per quanto timido, a Sol.

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«...come può vedere, cosa approvo o non approvo non ha importanza.»

Donna strana, a dir poco, pensò Sol mentre conduce-va Elka nel cerchio misto di danzatori che Ida Pearl non vedeva di buon occhio. Ma la fi glia era adorabile, quello era indubbio. Specialmente quando sorrideva e ai lati del-la bocca le si formavano due fossette.

Che villano, pensò Ida osservando Sol che guidava Elka attraverso le coppie di ballerini. Un uomo innamo-rato della moglie del fratello che non aveva nemmeno la decenza di nasconderlo.

«Ecco, annusa» disse Elka, infi lando il braccio sotto il naso di Sol.

Annusarla? si domandò lui. Era un braccio giovane e grazioso, esile e ben tornito. Sol prese il polso tra pollice e indice, lo girò in modo da esporre il delicato lato inferiore e inspirò.

«Mmm...» mugolò. «Lillà.» Anche se, in verità, il suo olfatto era così saturo dell’odore di aringa e sudore, non-ché dai profumi degli altri ospiti, che la delicata fragranza fl oreale che pensava di aver riconosciuto poteva benissi-mo essere immaginaria.

«Acqua di rose» lo corresse Elka. «Quello è il mio profumo. Ma davvero non riesci a sentirla?» Gli sorrise timidamente.

«Sentire cosa?» le domandò sorridendo a sua volta, ma a disagio.

«Non è la loro puzza che sente mia madre.» Elka indi-cò la sposa e lo sposo. «Lo sanno tutti che sono una bella coppia. Non vedi tuo fratello come la guarda, quanto la ama?»

Ma Sol non sopportava di guardare suo fratello in quel momento, la felicità che avrebbe potuto essere sua.

«È l’odore del matrimonio con mio padre, quello che sente mia madre. Traspira da ogni poro della mia pelle, e a lei non può certo sfuggire.»

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«Secondo me hai un ottimo profumo» mormorò Sol mentre si guardava intorno in cerca di un pretesto per cambiare argomento. Com’era stravagante quella coppia madre-fi glia con i suoi discorsi sugli odori e i profumi. E che genere di ragazza parla del matrimonio dei genitori in quei termini a un uomo appena conosciuto?

Che peccato, pensò Ida Pearl, guardando nella direzio-ne indicata dalla fi glia. Perché non era felicità quella che leggeva sul volto di Nathan. Ma malinconia. Una malinco-nia in quel momento soffusa con la speranza, una speranza che non sarebbe durata, non poteva farlo, Ida lo sapeva. E sembrava un bravo giovane, bello a vedersi e ben educato. Un giovane uomo nel cui futuro, anche se non nel matri-monio, poteva racchiudersi la speranza di felicità.

Ida Pearl e Elka non erano state propriamente invitate al matrimonio, un dato di fatto che Sol avrebbe potuto intuire se solo avesse dedicato attenzione alla faccenda. Tutti gli ospiti venivano dalla parte dei Kramer. Non poteva essere altrimenti. La sposa non aveva né amici né parenti a Montréal. Non conosceva nessuno tranne la famiglia Eisenberg che aveva accettato di ospitarla.

Ma quella sera Sol non pensava alla lista degli invitati, né gli era venuto in mente di interrogarsi sulla provenien-za delle due uniche estranee nella sala. Era concentrato su di sé, sui propri fallimenti. Come aveva potuto rifi utare una donna come Lily? Come aveva potuto farsi una pri-ma impressione così sbagliata? Era un uomo che faceva grande affi damento sull’istinto. Doveva. Il suo futuro, in assenza di un’istruzione o di relazioni familiari a sostener-lo, dipendeva esclusivamente dalla sua astuzia. E poi quel passo falso. Il futuro luminoso che gli si era acceso come un lampo davanti agli occhi adesso tremolava e sbiadiva nella sua mente. Al suo posto, una visione color seppia: una donna sgraziata in vestaglia che innaffi ava piante di pomodoro sul balcone di un appartamento senza ascen-

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sore, un uomo in canottiera che masticava semi di giraso-le su quello stesso balcone e sputava le bucce per terra. Era una visione repellente, spaventosa nella sua chiarezza. Una visione in cui Sol aveva immediatamente riconosciu-to se stesso e la sua futura moglie.

Era stata quella visione a spingerlo a invitare Elka a uscire dalla sala con lui? Il bisogno di distrarsi dai suoi cupi pensieri?

Elka lanciò un’occhiata d’angoscia verso la madre. Non aveva bisogno di chiederlo per sapere che era proi-bito. «Immagino di sì, purché si tratti di pochi minuti...» rispose.

«Una boccata d’aria fresca farà bene a entrambi» le garantì mentre la conduceva verso la porta, ma non c’era freschezza nell’aria esterna, solo la pesante immobilità di un’afosa serata estiva. Quanto alla distrazione... si aspetta-va che la ragazza iniziasse a parlare, a lamentarsi del caldo, che gli facesse qualche domanda, su di lui, sulle sue opi-nioni, sui suoi sogni.

Ma d’un tratto Elka si era resa conto di essere rimasta sola con un uomo per la prima volta in vita sua, un uomo più grande, nondimeno – doveva avere almeno venticin-que anni – e in circostanze che, se lo avesse chiesto a sua madre, le sarebbero state espressamente e inequivocabil-mente proibite. Non le veniva in mente niente da dire, se ne stava impietrita e muta come una scema, tutta sudata nel buio della sera.

«Che ne dici di fare due passi?» le propose Sol.«D’accordo» rispose lei, e passeggiarono in silenzio per

alcuni isolati. Davanti a ogni veranda che superavano c’era qualcuno seduto, come su ogni balcone, su ogni scala; le persone sfuggivano al caldo dei loro appartamenti, per chiacchierare, giocare a carte e sventolarsi con il giornale.

«Allora, raccontami» esordì Sol. «Come fate tu e tua madre a conoscere Lily?»

«Non la conosciamo» rispose Elka.

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«Ah, no? Allora conoscete mio fratello?»La ragazza scosse il capo.«E allora come...?»«Non siamo state invitate.»Sol sorrise. «Be’, certo è... interessante.» Pensò all’im-

menso piatto di pan di spagna e aringhe che la madre si era servita, i rinforzini di ceci e Scotch. Era uno dei piani per riempirsi lo stomaco più ingegnosi in cui si fosse mai imbattuto, e certamente meno rischioso di qualsiasi altro gli fosse mai venuto in mente.

«Pensavo che lo sapessi» disse.«E come facevo a saperlo?»«Allora perché sei venuto al nostro tavolo?»«Be’, certamente non per buttarvi fuori.»«Oh» esclamò lei.«Vi buttano fuori spesso?»«Che cosa intendi con quello... “spesso”? Credi che sia

nostra abitudine intrufolarci ai matrimoni altrui? Per chi ci hai preso?» E poiché Sol non rispondeva: «Mia madre aveva una cugina di nome Lily Azerov in Europa; Azerov è il cognome di mia madre da nubile. Non abbiamo più ricevuto notizie dalla famiglia, sin dall’inizio della guer-ra. Mia madre aspetta da anni, ma non ha ancora saputo niente». Guardò Sol, che annuì. Anche sua madre stava aspettando notizie.

«Sono ancora nel caos più completo laggiù» commentò Sol.

«Perciò quando ha sentito da uno dei suoi clienti che una rifugiata di nome Lily Azerov era arrivata a Mon-tréal...»

«Ma se fosse stata sua cugina, non si sarebbe messa subito in contatto con tua madre?»

«Immagino di sì» convenne Elka. «Ma forse mia madre ha pensato che non fosse riuscita a trovarci, o che for-se avesse dimenticato il suo cognome da sposata.» Elka rifl etté ancora un attimo, poi fece spallucce. «Non cono-

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sco il motivo per cui a mia madre sia venuto in mente di trascinarmi con sé, ma la moglie di tuo fratello non è sua cugina. Lo ha capito subito.»

La cosa, però, non le aveva impedito di restare alla festa e di rimpinzarsi di cibo e bevande, notò Sol.

«Non so per quale motivo ci siamo trattenute. So che non avremmo dovuto» continuò Elka come se avesse appena letto nella mente di Sol. «E poi le cose che ha detto...» Un rossore le salì alle guance.

«È una situazione alquanto bizzarra» ammise Sol.Bizzarra era un eufemismo, pensò Elka. Si aspettava

che sua madre girasse sui tacchi e uscisse dalla sala rice-vimenti non appena aveva visto che la sposa non era la cugina perduta che sperava di ritrovare. Invece lo sguar-do di Ida si era indurito e la sua presa intorno al polso di Elka irrigidita. Era ipnotizzata dalla sposa, e non per banale ammirazione. Elka poteva solo sperare che nessu-no degli altri invitati notasse l’espressione sul suo volto: un’espressione glaciale e dura del tutto fuori luogo a un matrimonio. Sembrava che la delusione di Ida si fosse tramutata in rabbia nei confronti della sposa, pensava ora Elka mentre camminava al fi anco di Sol. Come se fosse stata colpa sua se non era la cugina che Ida aveva sperato che fosse.

«Non riesco proprio a spiegarlo» ripeté Elka. «Il moti-vo per cui abbia detto quelle cose.» E nientemeno che al fratello dello sposo. E a una festa di matrimonio alla quale non era stata nemmeno invitata. «Lei crede di avere un sesto senso per le persone, sai? Che tipo sono, con chi dovrebbero sposarsi...» Poi guardò Sol. «Per quel che le è servito.»

Sol inarcò le sopracciglia con aria perplessa.«Il suo matrimonio con mio padre non è stato esatta-

mente un gran successo.»Sol sorrise. «Magari il suo sesto senso funziona meglio

sugli altri che su se stessa.»

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Elka sorrise, sollevata che Sol non fosse offeso come aveva temuto.

«E magari stavolta ha davvero fi utato qualcosa» sog-giunse lui.

«Cosa vuoi dire?»«Ero io che dovevo sposarla, sai?»«Tu?»Le raccontò delle lettere che lui e Lily si erano scritti,

dell’accordo cui erano giunti; tralasciando la parte riguar-do il pagamento che aveva pattuito. E infi ne la scena alla stazione Windsor.

«Ma c’era qualcosa che non andava» concluse. «Me lo sentivo nel cuore.» Guardò Elka. «Sesto senso» aggiunse con una strizzatina d’occhio.

Si aspettava un sorriso in cambio, la conferma di aver fatto la scelta giusta, che il cuore non mente mai. Si aspet-tava una certa varietà di cenni di assenso e sorrisi inco-raggianti che era solito ricevere durante il primo incontro con una ragazza.

«E così l’hai piantata alla stazione?» gli domandò inve-ce. «Hai abbandonato la tua fi danzata alla stazione?»

«Non l’ho abbandonata.» Per chi l’aveva preso? «Ho telefonato alla famiglia che aveva accettato di ospitarla fi no al matrimonio.» Ricordava la chiamata supplichevole a Eisenberg, suo capo e mentore dalla morte del padre, undici anni prima. «Ho spiegato cosa era successo e ho chiesto loro di andarla a prendere.»

«E così l’hai abbandonata? Una profuga che ha attra-versato mezzo mondo per sposarti?»

«Non è andata proprio così» protestò Sol, ma menti-va, naturalmente. Ricordava l’espressione di Lily mentre aspettava che arrivasse qualcuno ad accoglierla, il fremi-to di speranza del suo sguardo verso ogni uomo che le si avvicinava, la delusione e poi lo smarrimento ogni vol-ta che lo sconosciuto le passava accanto per salutare un altro passeggero. Man mano che la folla intorno a lei si

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diradava, aveva sviluppato un’improvvisa preoccupazione per il bagaglio: un tentativo, Sol lo sapeva, per controllare il panico crescente, per tenere a freno gli sguardi ormai spasmodici. Si era chinata sulla valigia, una fi gura solitaria e immobile nella folla turbinante, il vestito grigio troppo cupo tra i vivaci colori estivi, il taglio classico troppo seve-ro tra le gonne svasate e gli accessori superfl ui che celebra-vano la fi ne dell’economia di guerra. Per quanto tempo era rimasta ricurva su quella valigia, si chiedeva ora, ad armeggiare con la cinghia di cuoio che non aveva alcun bisogno di essere sistemata, rimandando il momento in cui avrebbe dovuto alzare lo sguardo verso l’atrio deserto?

Qualcuno lo aveva urtato: una ragazza dai capelli bion-do oro, la bocca rossa e carnosa. «Scusa, tesoro» aveva sussurrato. Aveva gli occhi azzurri, i capelli acconciati in innumerevoli onde dorate e perfette. Una bambola, ave-va pensato, come quella con cui giocava sua sorella Nina tanti anni prima. Una bambola vivente che gli si sareb-be avvinghiata al braccio se solo le avesse dato il segnale giusto. Gli aveva sorriso con aria invitante, la bocca una macchia rossa. Mentre, dall’altra parte dell’atrio, ai con-fi ni del suo campo visivo, la chiazza grigia che avrebbe dovuto sposare.

Che razza di uomo...? si domandava ora, rievocando il viso adombrato di Lily, il vestito, tutto sbagliato, che ovviamente era stato scelto con cura. Che razza di uomo...? leggeva nella mente di Elka, e una vergogna bruciante lo travolse, una vergogna alimentata dalla rabbia per la ragazza ammutolita accanto a lui, attraverso i cui occhi aveva appena scorto un’immagine nettamente sgradevole di se stesso.

Quello che Elka vedeva, però, non le sembrava così sgradevole. Le piaceva il fatto che Sol si tenesse sul lato esterno del marciapiede mentre camminavano, come se nella strada vuota risiedesse una qualche minaccia. Le pia-ceva il lieve tocco della sua mano intorno alla vita mentre

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la sospingeva per svoltare o attraversare la strada, e aveva iniziato a desiderare quei momenti, quel lieve tocco fuga-ce che rivendicava il possesso di diverse parti del suo cor-po. Era scandaloso, naturalmente, che avesse lasciato la fi danzata alla stazione, ma si sentiva lusingata al pensiero di aver catturato ciò che a Lily era sfuggito. Forse non era poi tanto strano che sua madre avesse insistito per restare al matrimonio, pensava ora sorridendo a Sol. Magari sua madre aveva davvero il sesto senso.

Forse andrà tutto bene, pensò Bella Kramer mentre sedeva da sola al tavolo degli sposi e osservava il fi glio e la nuora danzare sopra di lei sulle sedie volanti. La famiglia consisteva di tre persone: Lily, Nathan e Bella. Il padre dello sposo, Joseph, era morto undici anni prima e la sorella, Nina, era emigrata in Palestina appena la guerra in Europa era fi nita. Sol avrebbe dovuto essere il testimo-ne e sedersi al tavolo con il resto della famiglia, ma in quel caso era stato stabilito all’unanimità che non potesse avere alcun ruolo nel matrimonio.

Bel tavolo degli sposi! aveva pensato Bella quando si era seduta al piccolo tavolo rotondo con cinque sedie; le due in aggiunta per il rabbino e sua moglie. Ricordava il tavolo principale al proprio matrimonio, una lunga mensa che occupava un’intera parete di una delle sale ricevimenti più grandi di tutta Berdyciv, con la sua famiglia numero-sa e chiassosa a un capo e quella altrettanto numerosa e chiassosa di Joseph dall’altro. Quello sì che era un vero tavolo degli sposi.

Dapprima Nathan pensava che non ci dovesse esse-re una festa di matrimonio, che avrebbero dovuto fare a meno della marcia nuziale, visto che Lily non aveva nessuno ad accompagnarla alla hupàh, ma la sposa si era opposta con veemenza. «Perché le mie sciagure dovreb-bero privarti di un matrimonio come si deve?» gli aveva chiesto. «Allora anch’io entrerò in chiesa da solo» aveva

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replicato lui, al che Lily aveva scosso di nuovo la testa. Non avrebbe mai permesso che la suocera venisse insul-tata in quel modo.

Nathan aveva riferito di quello scambio a Bella mentre viaggiavano sul sedile posteriore dell’automobile che ave-va noleggiato per recarsi alla cerimonia. Avrebbero potuto andare a piedi. La sinagoga dove si teneva il matrimonio si affacciava su Hutchinson Street, a pochi isolati dall’ap-partamento dei Kramer, in Clark Street, ed era una bellis-sima serata estiva. Ma ciò che inizia in un modo prosegue sempre allo stesso modo, pensava Nathan, perciò per lui era importante che ogni membro della famiglia arrivasse con il massimo lusso e la massima comodità che potesse permettersi.

Quanto gli sarà costato quel giretto in macchina? si era chiesta per un attimo Bella, ma poi aveva scacciato quel pensiero perché sapeva quanto Nathan fosse orgoglioso di aver noleggiato un’automobile per l’occasione. E non una soltanto. Un’altra automobile a nolo aveva percorso le stesse strade, in quel momento esatto, per portare la sposa nella sinagoga dove poco dopo sarebbe diventata sua moglie. Era un modo deprimente per andare a sposar-si, non poteva fare a meno di pensare Bella. Lei era stata portata al suo matrimonio per le strade, tra canti e balli. Aveva sentito da lontano le voci e i battiti di mani della famiglia e degli amici aumentare di volume via via che si avvicinavano alla casa dei suoi genitori. Joseph l’aspetta-va già nella sala e stavano andando a prenderla per por-tarla da lui. Che momento! Ricordava la gioia e il senso di trionfo mentre veniva sballottata per le strade verso l’uomo che aveva scelto per se stessa e che già sapeva di amare. Quel viaggio silenzioso verso il matrimonio di suo fi glio sembrava più adatto a un funerale, ma sapeva che Nathan era felice e orgoglioso. E sapeva che aveva appena raccontato di quello scambio con Lily per dipingere la sposa nel migliore dei modi alla futura suocera.

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Lei gli aveva posato una mano sulla gamba e aveva sor-riso.

In realtà Nathan non era il primogenito di Bella; era il quarto fi glio. Ma era il primo ad essere sopravvissuto oltre l’infanzia. I primi tre erano morti durante la guerra civile che era seguita alla rivoluzione, in Russia. Non erano sta-ti ammazzati come molti altri, trucidati e torturati dalle ondate di soldati che a turno conquistavano la città; e per questo immaginava di potersi ritenere fortunata. Adesso scuoteva la testa a quel pensiero e cercava di immaginare se, da sposa piena di belle speranze qual era stata, avrebbe mai creduto a ciò che la vita l’avrebbe costretta a consi-derare come «fortuna». No, Bella lo sapeva. Ma la donna che era diventata conosceva i lati più oscuri della buona sorte. Ed ecco cos’era stato, un lato molto oscuro della fortuna, che i suoi fi gli non avessero avuto paura quando avevano esalato l’ultimo respiro. Erano morti in silenzio di fame e malattia, tra le braccia della madre. Uno dopo l’altro; prima il più piccolo, poi Leah di due anni e infi ne il primogenito Shmulik, che era la luce degli occhi di suo padre.

In quel momento Bella aveva pensato che la sua vita fosse fi nita, ma un anno dopo, durante la traversata verso il Canada, era venuto alla luce Nathan. Era nato in antici-po, un mese prima della data che aveva calcolato, e né lei né Joseph avevano pensato al nome da dargli, nessuno dei due era capace, ormai, di immaginare che la gravidanza potesse concludersi in modo normale, se non addirittu-ra felice. Uno dei passeggeri aveva suggerito di dargli il nome del transatlantico che li stava portando tutti verso una nuova vita. Ora sorrideva pensando a quel passeg-gero: un sarto di Pinsk che si era messo in viaggio per fare l’agricoltore da qualche parte nelle terre selvagge del Saskatchewan o di Manitoba. Auguri, aveva pensato in quel momento, domandandosi come potesse coltivare la

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terra con quella schiena ricurva. Si chiese cosa ne fosse stato di lui.

Il suggerimento dell’uomo per il nome del bambino – la nave si chiamava SS Vedic – era assurdo quanto la sua ambizione per la nuova vita, tuttavia per Bella aveva una qualche attrattiva. Non per la carenza di nomi tradiziona-li; c’erano tutti i nomi di fratelli e zii che attualmente non erano in uso, sospesi com’erano dalla morte prematura dei loro precedenti proprietari. Ma Bella non voleva pian-tare nella nuova terra ciò che nella vecchia era appassito. Voleva un nome fresco, senza legami con le persone che lei e Joseph avevano conosciuto. Era stata lei a suggerire Nathan, dalla parola ebraica per «dono». Era un nome, pensava lei, che controbilanciava il ricordo di ciò che ave-vano ottenuto dalle proprie speranze per il futuro. Joseph, tuttavia, non nutriva speranze per il futuro – né per il pro-prio né per quello altrui – e aveva suggerito Sol, il nome dell’adorato fratello minore morto di tifo a tredici anni, anche lui durante la guerra civile. Bella però era irremo-vibile: Nathan, aveva ribadito. Joseph sarebbe tornato a sperare. Avevano ricevuto un altro fi glio, un’altra occasio-ne, ed erano diretti verso un’altra vita in una terra nuova e lontana. Ma Bella si sbagliava.

In Russia il suo Joseph lavorava il metallo. Un mate-riale nobile, le aveva detto al primo appuntamento. Un materiale la cui storia procedeva in parallelo con quel-la dell’uomo. Bella sorrideva al ricordo di quanto le era sembrato vanitoso. Naturalmente aveva convenuto con lui. Avrebbe convenuto con qualsiasi cosa avesse detto in quel momento – tanto era bello e sfrontato – ma il suo consenso era più profondo. A quei tempi Bella era socia-lista. Condivideva il parere, diffuso tra i compagni, che l’industria metallurgica fosse di gran lunga la più preziosa e importante di tutte per l’economia che avrebbe costrui-to il futuro del socialismo.

In Canada, invece, Joseph Kramer smistava bottoni.

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