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REGIONE LOMBARDIA INTERVENTI DI RIQUALIFICAZIONE DELL’ OSPEDALE NIGUARDA CA’ GRANDA Azienda Ospedaliera OSPEDALE NIGUARDA CA’ GRANDA 20162 Milano – Piazza Ospedale Maggiore, 3 Gruppo di progettazione N.E.C. SpA Niguarda Engineering Consulting SpA Direttori Tecnici Dott. Ing. Roberto CAPRA Dott. Ing. Carlo Maria BADI Progettazione Architettonica Dott. Arch. Fabiano REDAELLI Dott. Arch. Laura LAZZARI Progettazione Impianti Termofluidici Dott. Ing. Walter MAURO Dott. Ing. Remo MASSACESI Progettazione Strutturale Dott. Ing. Stefano PALLAVICINI Dott. Ing. Sergio SGAMBATI Progettazione Impianti Elettrici e Speciali Dott. Ing. Walter MAURO Dott. Ing. Mario RUBINI PROGETTO PRELIMINARE ELABORATI GENERALI RELAZIONE ILLUSTRATIVA Questo elaborato grafico è di proprietà di N.E.C. e pertanto non può essere riprodotto né integralmente, né in parte senza l’autorizzazione scritta della stessa. Da non utilizzare per scopi diversi da quelli per cui è stato fornito. Redatto UT Commessa Codice Elaborato Ident. File I07PC03 – PR – D0 – RL01 – 02.doc I07PC03 PR DO RL 01 Data Rev. Descrizione 18/06/04 02 REVISIONE PER GARA Verificato RC Controllato RC Controllato RC Scala COORDINATORE E RESPONSABILE DELLA INTEGRAZIONE PRESTAZIONI SPECIALISTICHE IL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO AZIENDA OSPEDALIERA Il Direttore Generale Dott. Ing. Roberto CAPRA Dott. Mario NOSCHESE Dott. Pasquale CANNATELLI

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Riqualificazione dell' ospedale niguarda

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REGIONE LOMBARDIA

INTERVENTI DI RIQUALIFICAZIONEDELL’ OSPEDALE NIGUARDA CA’ GRANDA

Azienda OspedalieraOSPEDALE NIGUARDA

CA’ GRANDA20162 Milano – Piazza Ospedale Maggiore, 3

Gruppo di progettazione

N.E.C. SpANiguarda Engineering Consulting SpA

Direttori Tecnici

Dott. Ing. Roberto CAPRADott. Ing. Carlo Maria BADI

Progettazione Architettonica

Dott. Arch. Fabiano REDAELLIDott. Arch. Laura LAZZARI

Progettazione Impianti Termofluidici

Dott. Ing. Walter MAURODott. Ing. Remo MASSACESI

Progettazione Strutturale

Dott. Ing. Stefano PALLAVICINIDott. Ing. Sergio SGAMBATI

Progettazione Impianti Elettrici e Speciali

Dott. Ing. Walter MAURODott. Ing. Mario RUBINI

PROGETTO PRELIMINARE

ELABORATI GENERALIRELAZIONE ILLUSTRATIVA

Questo elaborato grafico è di proprietà di N.E.C. epertanto non può essere riprodotto néintegralmente, né in parte senza l’autorizzazionescritta della stessa. Da non utilizzare per scopidiversi da quelli per cui è stato fornito.

Redatto UT Commessa Codice Elaborato

Ident. File I07PC03 – PR – D0 – RL01 – 02.doc I07PC03 PR DO RL 01Data Rev. Descrizione

18/06/04 02 REVISIONE PER GARAVerificato

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PRESTAZIONI SPECIALISTICHE

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INDICE

1PREMESSA....................................................................................................................... 32LE NUOVE TIPOLOGIE OSPEDALIERE.......................................................................... 5

2.1L’OSPEDALE DI NIGUARDA................................................................................................10

2.2L’OSPEDALE E IL SUO CONTESTO.................................................................................... 14

2.3IL NUOVO MODELLO DI OSPEDALE................................................................................. 15

4LA TUTELA DEL PATRIMONIO ESISTENTE ED IL PROGETTO PRELIMINARE DELNUOVO NIGUARDA.......................................................................................................... 18

4.1TEMI DI DISCUSSIONE POSTI DAL PROGETTO PRELIMINARE ..................................20

N.E.C. – Niguarda Engineering Consulting S.p.A. Sede Legale e Amministrativa: piazza Dell’Ospedale Maggiore, 3 - 20162 Milano

Sede Operativa e gestionale: Viale Zara 81 – 20159 MilanoC.F. – P.I. - N. Reg. Imprese 03752250963 – REA 1700339 – Cap. soc. 250.000,00 i.v.

La N.E.C. S.p.A. è soggetta alla direzione e controllo dell’A. O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano

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1 PREMESSA

Il progetto del Nuovo Ospedale Niguarda prevede l’inserimento di due grandi blocchi nuovi, l’uno posto a

nord l’altro a sud, in adiacenza rispettivamente ai padiglioni Ponti e Pizzamiglio appartenenti al progetto

originario.

Oltre a questi due edifici, il progetto conferma il Dipartimento di Emergenza e Urgenza ad alta specialità

recentemente realizzato come terzo elemento fondamentale del nuovo impianto ospedaliero.

Le motivazioni che hanno portato a questa scelta urbanistica ed architettonica sono state di diverso ordine.

Sicuramente sì è tenuto conto della volontà della Soprintendenza ai Beni Architettonici nell’aver individuato

in questo edificio una delle memorie storiche della città di Milano, sia dal punto di vista della sua

importanza architettonica che della sua originalità tipologica.

Questo grandioso progetto, che per oltre sessant’anni ha costituito uno dei riferimenti morfologici urbani più

importanti per la città, testimonia infatti una singolare e forse mai più pienamente colta capacità di sintesi tra

necessità funzionali, significati simbolici ed espressione tipologica compiuta.

Il ruolo di complessa attrezzatura urbana e il carattere prettamente civile dell’Ospedale Niguarda sono

leggibili proprio nelle intenzioni del suo autore, l’architetto Marcovigi, che nei suoi studi sulla tipologia

ospedaliera ha sempre tenuto ben presente le grandi istituzioni urbane di Milano, come il Teatro alla Scala,

il Duomo, la vecchia Fiera oppure l’Ospedale Maggiore del Filarete, che per oltre due secoli ha

rappresentato il riferimento tipologico obbligato per la costruzione degli edifici ospedalieri.

La stessa configurazione dell’ospedale del Marcovigi sembra essere perfettamente in grado di rappresentare

e contenere le forme attraverso cui allora si stava realizzando l’assistenza ospedaliera, molto simili, per

caratteristiche comportamentali e simboliche, alla complessità della vita associata che mano a mano

evolveva.

Nel progetto originario il ruolo di elemento base nell’organizzazione dell’impianto tipologico viene assunto

dal sistema della grande corte centrale e degli elementi porticati al piano terra, che costituiscono il momento

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di aggregazione e di esplicazione del carattere e del modo complessivamente sociale e civile di realizzarsi

dell’assistenza sanitaria in quegli anni.

Nella concezione dell’Ospedale Niguarda si verifica una sostanziale inversione concettuale rispetto agli

edifici che contemporaneamente si stavano sperimentando e costruendo oltreoceano: se l’ospedale moderno

americano a mono e poliblocco è concepito a immagine della fabbrica, di cui vuole riproporre la logica

organizzativa sia internamente che esternamente, quello del Marcovigi, come edificio rappresentativo della

nuova organizzazione del potere e della città, è immagine dell’edificio civile e come tale ne assume il ruolo

e l’importanza, come tale la sua architettura diventa elemento di riferimento anche della venustas della città

di vitruviana memoria.

E proprio in virtù di questa venustas, di questo decoro, dignità ed eleganza che possiede e che vanno ben

oltre la sua funzione, l’Ospedale Niguarda finisce per possedere un valore significativo. Un valore, cioè, che

risulta slegato dalla sua funzione originaria e che non modifica mai la sua qualità di fatto urbano, generatore

di una forma della città.

Alla luce di queste considerazioni sull’importanza del vecchio impianto, il nuovo progetto non poteva che

essere rispettoso dei principi base della progettazione del Marcovigi, che possono essere sintetizzati nel

concetto di simmetria e di proporzione degli elementi architettonici.

Questa simmetria è così forte da aver condizionato storicamente qualsiasi intervento, seppur secondario, che

mano a mano è stato aggiunto.

Anche negli anni ’60 e ’70, infatti, i corpi aggiunti alla composizione originaria del progetto hanno

rispettato questi principi e così è stato fatto oggi per i due blocchi nord e sud progettati che, riproponendo la

logica dello sdoppiamento, assumono una connotazione formale rispettosa dell’impianto complessivo sia da

un punto di vista planimetrico che altimetrico.

L’unico elemento che sfugge a questa logica è il DEAS, che nel suo impianto fa pensare ad una

riproposizione sconvolgente dell’intero impianto marcovigiano. La nuova progettazione, consistente nei due

blocchi, tende invece a ricomporre l’unità architettonica e di impianto microurbanistico ereditata.

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Del resto la concentrazione in un solo edificio di tutte le funzioni previste sarebbe risultata impossibile da

realizzarsi, a meno di non ripensare completamente il nuovo progetto, anche passando attraverso imponenti

demolizioni dell’antico ospedale.

Pertanto solo questi due elementi risultano come corpi visivamente aggiunti mentre gli altri, come per

esempio il Polo Logistico e quello Tecnologico, pur nella loro importanza funzionale, sono stati volutamente

mimetizzati, uno mantenendolo alla quota del piano seminterrato, l’altro ponendolo ai margini di questa

composizione unitaria.

Se i nuovi blocchi progettati possono apparire un “doppione” inutile e ridondante, trovano invece la loro

giustificazione sotto due aspetti: quello formale, di cui abbiamo già ampiamente parlato e quello sostanziale,

vale a dire che ognuno di loro può assolvere compiutamente e tutte le funzioni per le quali è stato progettato,

mettendo l’ospedale nel suo insieme in grado di funzionare completamente.

2 LE NUOVE TIPOLOGIE OSPEDALIERE

Il Novecento segna l’inizio di quel processo attraverso cui l’ospedale tende progressivamente a perdere i

connotati ideologici che hanno caratterizzato il suo sviluppo, dalle prime forme dell’assistenza organizzata

(l’ospedale nel Monastero), alla fase moderna delle strutture sanitarie (l’ospedale a padiglioni), per

sviluppare una propria storia che potremmo definire più “tecnica”.

E’ come se un capitolo si chiudesse e se ne aprisse uno nuovo: da questo momento in poi, il tema

dell’ospedale si confina all’interno di una propria logica di accrescimento, sempre più avulsa dai grandi temi

civili e sociali e sempre più concentrata sugli aspetti specialistici.

Con il trasferimento del dibattito architettonico dalla concezione dell’intero complesso ospedaliero

all’approfondimento delle singole caratteristiche interne e funzionali, il concetto stesso di ospedale, inteso

come edificio pubblico rappresentativo delle condizioni politico-culturali dell’epoca a cui appartiene, perde

di tensione.

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L’edificio ospedaliero non è più considerato come uno strumento di acculturazione sociale (così com’è

stato, per esempio, durante il passaggio dall’economia comunale all’affermazione delle Signorie o nel

periodo rivoluzionario francese).

Non ci si chiede più cosa debba essere l’ospedale: esso è ormai una funzione culturalmente già acquisita

dalla città, una funzione fra le tante.

La ricerca stessa del linguaggio architettonico si semplifica, seguendo ed adeguandosi ai modelli proposti

contemporaneamente da altre funzioni urbane, quali la residenza o gli edifici rappresentativi del potere

politico od economico, ed appiattendosi su stereotipi classicheggianti o storicistici, oppure

protofunzionalisti.

Durante i primi decenni del XX secolo si assiste ad un fondamentale processo di trasformazione della

tipologia ospedaliera: progressivamente viene abbandonato il tipo a padiglioni per sperimentare nuovi

modelli di organizzazione che vanno sotto il nome di monoblocco o di poliblocco o di tipologia mista

(orizzontale e verticale).

Con questi termini, desunti dal linguaggio razionalista che mutua termini già utilizzati per descrivere parti

del motore delle automobili, si intenderanno, d’ora in poi, gli ospedali multipiano a prevalente sviluppo

verticale, sorti per la prima volta negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘20, dove le varie parti che

compongono gli ospedali a padiglioni vengono condensate in un unico edificio.

Molti elementi concorrono alla definizione e all’affermazione di questi nuovi tipi.

La tesi comunemente accettata ritrova i motivi di questa trasformazione tipologica nella scoperta di nuove

tecniche di disinfezione che, scongiurando i pericoli di contagio diretti, rendevano inutile la separazione

fisica dei reparti ospedalieri in singoli edifici isolati.

L’assioma secondo cui all’affermarsi delle scoperte di Pasteur sulle infezioni microbiche corrisponderebbe

la tipologia dell’ospedale a padiglioni (funzionale all’isolamento dei fattori infettivi), mentre al successivo

sviluppo dei mezzi di controllo delle stesse infezioni (sterilizzazione, ecc.) e al conseguente venir meno di

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tale necessità di isolamento, corrisponderebbe automaticamente l’affermarsi dell’ospedale monoblocco, è

chiaramente frutto di un atteggiamento scientifico meccanicistico ed ingenuo.

Se esaminiamo solamente la successione cronologica delle sequenze tipologiche, è facile mettere in crisi

questa impostazione: i primi esempi di ospedali a padiglione risalgono ad assai prima dell’affermarsi delle

teorie microbiche di Pasteur, mentre numerosi impianti a padiglioni convivono insieme ad ospedali

monoblocco (es. ospedale Grange-Blanche di Lione del 1927), anche quando la medicina possiede ben altri

mezzi per scongiurare i contagi che non il semplice isolamento fisico.

In realtà nel passaggio dal tipo a padiglione alle altre tipologie descritte si realizza il completamento dello

sviluppo del sistema economico imperante che, sempre più strettamente, va legando alle proprie esigenze di

produzione la necessità di recuperare e conservare l’efficienza fisica della forza-lavoro, applicando

all’ospedale le stesse tecniche di organizzazione produttiva che si stanno consolidando contemporaneamente

all’interno della fabbrica.

Lo schema a padiglioni quindi non è più funzionale ai nuovi modi di intendere la gestione stessa

dell’ospedale. Numerosi motivi lo rendono ormai superato: innanzi tutto si rivela oneroso, per la

necessità di occupare una grande superficie, in un momento in cui il processo legato alla rendita fondiaria

rende i costi delle aree molto elevati.

Inoltre, il grande numero degli edifici che compongono il complesso, impone maggiori costi di costruzione,

maggiori costi di gestione ed, infine, ne derivano dei lunghissimi percorsi interni che il personale deve

effettuare e che si ripercuotono anche sui disagi a cui sono sottoposti i pazienti durante quelle lunghe

trasferte interne dai reparti di cura e diagnosi a quelli di degenza.

Questo processo di revisione critica degli ospedali a padiglioni, unito alla necessità di adeguare le strutture

ospedaliere ai nuovi criteri di produzione, determinano il concetto dell’ospedale come fabbrica “della

salute”.

La fiducia nella macchina, la fiducia che il progresso tecnico sarebbe andato a tutto vantaggio del progresso

sociale, porta a richiedere condizioni di maggiore efficienza all’interno degli ospedali, realizzando nuovi e

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moderni complessi, studiati accuratamente sotto il profilo dell’organizzazione dei servizi e della vita

interna: nuovi edifici dominati dal principio dell’utilità e della sobrietà architettonica.

Negli Stati Uniti, dopo la crisi del ’29, il massiccio intervento pubblico dell’economia americana rilancia

una nuova fase dello sviluppo industriale ed economico; la nuova travolgente espansione urbana che ne

consegue, impone una ricerca esasperata della massima redditività dei suoli. Sotto la spinta di un crescente

sfruttamento intensivo delle aree fabbricabili, nell’adeguamento ad un’immagine urbana ormai codificata e

resa imperante dall’uso del lotto urbano ritagliato a scacchiera dalla maglia della rete viaria, e soprattutto

nell’estensione all’intera città delle esigenze e delle concezioni di carattere aziendale, già intorno al 1930

compaiono i primi ospedali monoblocco o poliblocco o misto vale a dire risolti con edifici non

sostanzialmente dissimili, quanto a tipologia, dagli altri edifici destinati ad uffici o ad altri tipi di servizi.

Ben presto le nuove tipologie vengono applicate anche in Europa: in Francia, in Svezia, ecc.

Le caratteristiche che meglio definiscono gli ospedali a monoblocco, oltre agli aspetti tipologici e formali

che, come abbiamo visto, si riferiscono a modelli che la cultura architettonica ha già acquisito per la

soluzione di temi legali prevalentemente agli insediamenti del terziario, riguardano soprattutto alcune

peculiarità interne.

Innanzitutto si conclude quel processo di progressiva riduzione delle infermerie, avviato già verso la fine

dell’800, che porta alla scomparsa della corsia aperta (non più adatta all’organizzazione medico-scientifica)

a tutto vantaggio delle camere di degenza ad uno o a due o a quattro o al massimo a sei letti.

Acquistano maggiore importanza gli spazi dedicati ai servizi di diagnosi e cura, oltre che i laboratori di

analisi e i reparti specialistici e a queste funzioni viene dedicato uno spazio sempre più grande all’interno

dell’edificio.

L’organizzazione scientifica che si applica in questi anni alle attività produttive (Taylorismo) non può non

influire sull’organizzazione e quindi sulla tipologia del nuovo edificio ospedaliero. Ogni singola

componente dell’ospedale viene inserita all’interno di un diagramma funzionale di collegamento “(...) il

funzionalismo ha trovato in campo ospedaliero un terreno tra i più favorevoli. Sotto la copertura della

razionalità medica esso ha potuto insinuarvisi e proliferarvi”.

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Ma questa organizzazione scientifica, fondata sulla razionalizzazione dei flussi, opportunamente filtrati,

smistati e distinti, delinea un tratto caratteristico dell’ospedale moderno: la segregazione.

La segregazione dei percorsi fra malati, visitatori e personale è un tema che praticamente non fa che

accentuarsi; un architetto dichiarava, a proposito delle circolazioni parallele e sdoppiate che si realizzano in

questi nuovi ospedali: “(…) così i visitatori non incontrano mai un malato e circolano sempre sino agli

ascensori in un ambiente di luminosità e di luce in mezzo ad un giardino”.

Non si può dimenticare infine che gli edifici multipiano sono resi possibili anche da alcune nuove tecniche

costruttive messe a punto dall’architettura moderna: la struttura a scheletro d’acciaio; la possibilità di aprire

grandi vetrate negli intervalli lasciati liberi dalla struttura; nuovi sistemi di fondazione per scaricare le

sollecitazioni concentrate dei pilastri; nuovi sistemi meccanici od elettrici per gli ascensori, ecc.

Ascensori, telefono e posta pneumatica consentono di far funzionare edifici di qualsiasi altezza e grandezza.

Uno degli esempi più caratteristici, rappresentativo dei nuovi contenuti della cultura ospedaliera condensati

all’interno degli ospedali costruiti secondo le nuove tipologie è senza dubbio l’ospedale H. Ford a Detroit

del 1915.

Anche se Ford non ebbe diretta influenza sugli aspetti tipologici di questo ospedale, tuttavia egli ebbe

un’influenza determinante nella modificazione dell’organizzazione sanitaria secondo criteri omogenei a

quelli dell’attività di fabbrica e nella loro rapida diffusione e generalizzazione.

John Dos Passos, nel suo libro “Un mucchio di quattrini” del 1936, bene descrive il clima aziendale imposto

da Ford all’interno delle sue fabbriche: “(…) da Ford la produzione si perfezionava continuamente: meno

spreco, più occhi aperti, più sorveglianti, spauracchi e spie. Quindici minuti per il pasto, tre minuti per il

gabinetto, dappertutto la sveltezza di Taylor, fatevi sotto, tenute il bullone, girate la vite, ficcate la chiave,

fatevi sotto, tenete il bullone, girate la vite… finché l’ultima goccia di vita era succhiata dalla produzione e

alla notte gli operai ritornavano a casa, larve smorte tentennanti”.

Con gli stessi criteri applicati nelle fabbriche di automobili, Ford interviene nella gestione dell’Ospedale di

Detroit; l’organizzazione di questo ospedale viene impostata infatti su criteri di assoluta efficienza

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aziendale, dove lo studio delle dinamiche dei tempi di lavoro è considerato presupposto fondamentale al

funzionamento della “macchina”.

2.1 L’Ospedale di Niguarda

La premessa sopra descritta vuole mettere in luce il clima culturale e tecnologico in cui sorge il Nuovo

Ospedale Niguarda di Milano come filiazione dell’Ospedale Policlinico di Milano.

Le ipotesi di decentramento delle strutture dell’antico ospedale sforzesco, che già alla fine dell’800 era stato

ritenuto inadeguato e insufficiente, si concretizzarono nel 1919 quando fu deciso di costruire un nuovo

grande ospedale periferico e a tal fine fu stipulato un preliminare di compravendita per l’acquisto di un

terreno di 33 ettari a nord della città, in un’area suburbana edificabile, adatta per la sua struttura ancora

agricola e la mancanza di grossi stabilimenti industriali, ad accogliere un edificio ospedaliero.

In particolare la costruzione del nuovo ospedale andava a coinvolgere direttamente i comuni di Affori e

Niguarda, allora non ancora appartenenti alla città e, di fatto, riaprì l’antica questione dell’allargamento del

Comune di Milano, dei rapporti di subordinazione e di indipendenza dei comuni sparsi intorno al territorio

anulare della città.

In realtà sebbene allora i comuni limitrofi fossero indipendenti amministrativamente, continuavano ad

usufruire del servizio ospedaliero cittadino. Nel tentativo di risolvere la questione, si era tentato un piano

organico di decentramento, che avrebbe dovuto concretarsi con l’istituzione di ospedali mandamentali o di

circolo, ottenuti utilizzando quelli già esistenti o considerati idonei e costruendone di nuovi: l’Ospedale

Maggiore avrebbe dovuto provvedere soltanto al ricovero degli ammalati appartenenti per “domicilio di

soccorso” al comune, sollevandosi dall’obbligo istituzionale, risalente al tempo della sua fondazione

sforzesca, di corrispondere alle necessità sanitarie di un’utenza allargata all’intera provincia, nonché alle

contigue province.

La sistemazione decentrativa, divenuta legge con un decreto del 1924 e resa esecutiva nel 1927, stabiliva di

fatto che l’utenza afferente all’Ospedale Maggiore si sarebbe ristretta al solo circolo ospedaliero di Milano,

costituito dalla città e da ventidue comuni limitrofi annessi, mentre nel restante territorio dell’antico Ducato

venivano creati altri trenta ospedali di circolo.

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In questa prospettiva di risistemazione ospedaliera e di maggior agio finanziario, fu decisa la costruzione

dell’Ospedale Nuovo a Niguarda.

Oltre al riassetto decentrativo e al risanamento economico, un terzo fattore era emerso quale elemento

propulsivo verso di esso: la trasformazione dei padiglioni di via Francesco Sforza in Policlinico

universitario. Tale clinicizzazione del centro cittadino e la realizzazione del nuovo complesso alla periferia

della città, diventavano le due parti complementari, speculari e simmetriche, di uno stesso univoco

programma di sviluppo.

Nonostante la necessità di sostituire in breve il ruolo della Cà Granda, la costruzione del Nuovo Ospedale

venne però dilazionata nel tempo.

Il primo bando di concorso, pubblicato nel 1926, cioè a dieci anni di distanza dalla delibera di acquisto

dell’area, fu un completo insuccesso.

La Commissione ministeriale incaricata di esaminare il progetto redatto dall’ing. Bertolaia e dall’arch.

Carnelli, dichiarò che i padiglioni “presentano il difetto fondamentale di essere ispirati, nelle loro linee

generali, a criteri costruttivi ormai sorpassati”.

Il progetto definitivo fu redatto nel 1931 dall’ing. G. Marcovigi e dal prof. E. Ronzani, direttore sanitario, ed

ebbe come consulente architettonico Giulio Arata, professionista eclettico molto attivo nell’ambiente

milanese che, oltre ad occuparsi del “decoro artistico” del complesso, progettò l’edificio della chiesa.

L’impianto simmetrico, intermedio tra il sistema a padiglioni e quello a blocco centralizzato, impostato

sull’asse di viale Cà Granda, a cui fa da fondale l’edificio d’ingresso con gli uffici direzionali, è incentrato

su un nucleo principale di edifici di degenza impostati attorno al cortile centrale e collegati tra di loro da

porticati.

Gli edifici accessori (accettazione, ambulatori, convitti, lavanderie) nonché il mortuario sono invece

collocati lungo il perimetro del lotto.

La caratteristica principale di questo modello è sicuramente rappresentata dal raggruppamento degli edifici

rispetto al tipo a padiglioni; a tal proposito è interessante, per comprendere il contenuto talvolta retorico

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delle realizzazioni del Ventennio, affidarci alla descrizione che l’ing. Castelli scrive nel 1942 sull’Ospedale

di Niguarda: “Finalmente il Congresso Nazionale di Igiene tenutosi a Siena nel 1929 che discusse le nuove

concezioni di edilizia ospedaliera affermatesi in Germania e oltre atlantico, pur sottolineando tutti i vantaggi

del tipo a padiglioni isolati, riconobbe che dal punto di vista dell’igiene nulla vieta di abbandonarlo quanto

l’economia di

costruzione consigliasse di riunire in uno o pochi edifici a più piani, le infermerie e i servizi che prima si

distribuivano in edifici sparsi, seguendo il tipo misto che già aveva dato buona prova negli Stati Uniti”.

Innovativa e al passo con i tempi appare non solo la riduzione del numero dei padiglioni ma anche la

riduzione della capacità in letti delle infermerie, trasformate in camere da 6 letti al massimo,

convenientemente raggruppate in sezioni ospedaliere in media di 30 posti letto ciascuna.

Un altro aspetto caratteristico sono le vie di comunicazione, realizzate nell’ampio porticato che costituisce il

piano terreno dei padiglioni che, oltre ad includere importanti servizi, permettono ai convalescenti di stare

all’aperto e di godere aria pura anche nei giorni di pioggia, nonché la sosta dei parenti nelle ore di visita.

Infine la presenza di un vasto giardino di circa 600 metri di lato che circonda i diversi edifici, costituisce

parte integrante del progetto e rappresenta un aspetto fondamentale di questo modello. Scrive ancora l’ing.

Castelli nel 1942 a tal proposito: “Questa nuova grandiosa unità ospedaliera, che il Duce chiamò ospedale

giardino, si differenzia dalle altre dell’estero, per questa sua caratteristica tutta italiana, di elevarsi in uno

spazio verde tra i prati e gli alberi”.

La monumentalità dell’impianto e delle architetture, i rivestimenti in marmo bianco, le grandi dimensioni

degli spazi esterni ed interni, conferiscono all’assieme un aspetto severo, retoricamente istituzionale, proprio

dell’architettura pubblica del periodo prebellico.

Alcuni particolari, come le vetrate a tutta altezza che svuotano gli angoli in corrispondenza delle terrazze

sporgenti dei padiglioni di degenza, risentono dell’estetica funzionalista, ma il generale fuori scala degli

elementi compositivi riconduce tutti i dettagli alla ricerca dell’effetto d’assieme.

Come già il Palazzo di Giustizia, anche la “città ospedaliera” di Niguarda si arricchisce di interventi degli

artisti dell’epoca. I due gruppi marmorei nel piazzale di ingresso sono di Arturo Martini e Francesco

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Messina, all’interno si trovano sculture di Giannino Castiglioni, Timo Bortolotti e Vitaliano Marchini, le

vetrate della chiesa sono di Mario Sironi, Aldo Carpi e Alberto Salietti.

Descritto il vecchio ospedale come elemento di un’originalità italiana rispetto a quello che succede

all’estero, ospedale che per ragioni regolamentari deve rifiutare lo sviluppo in altezza e per ragioni

morfologiche adeguarsi ad una periferia che ancora non ha assunto i caratteri dell’agglomerato urbano, è

interessante, entrando nello specifico, mettere in luce quali sono state le scelte progettuali dell’architetto

Marcovigi.

L’architetto incaricato sceglie la strada della tipologia mista attraverso la connotazione in orizzontale di una

figura architettonica che rifiuta il contesto e che vive di vita propria. Sostanzialmente quindi si vuol dire che

il progettista, così come aveva fatto a Bergamo realizzando l’Ospedale, pensa più a rendere coerente la

forma interna dell’ospedale che non a rispettarne i rapporti con l’esterno.

Ecco dunque che l’ospedale, seppure impostato su di un forte asse di simmetria, rappresentato dal viale Cà

Granda e che farebbe prevedere uno sfondamento fino alla chiesa vista come elemento terminale del disegno

urbano, crea in realtà una cesura, sia funzionale che materica, nella parte antistante l’ospedale dove viene

costruito l’edificio d’ingresso, quasi a volerci comunicare che l’ospedale sta al di là della sua

rappresentazione sulla città.

In effetti la parte sanitaria non contamina minimamente il fronte principale dell’ospedale dove sono

contenute le funzioni direzionali e della gestione. Ciò significa un rifiuto a dialogare morfologicamente con

il territorio circostante al punto tale che, così com’era avvenuto per altri ospedali costruiti dentro alla città,

anche l’ospedale di Niguarda è posto sempre come “turris eburnea” rispetto al San Carlo, al Policlinico, al

Fatebenefratelli, ecc.

Questo è tanto vero tanto più approfondita si fa l’analisi stilistica sulle due parti che lo compongono: da una

parte vi è l’omaggio all’architettura monumentale di regime, rappresentato dalla parte antistante

dell’ospedale, dall’altra la "strizzatina d’occhio" al Movimento Moderno mitteleuropeo rappresentato dai

padiglioni delle degenze e della diagnosi e cura.

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Nell’ambito del panorama razionalista che contraddistingue questi ultimi edifici, spicca e si differenzia la

chiesa che in quanto edificio religioso non poteva che attenersi ai canoni dettati allora da Ugo Oietti e dalla

fantasia estremamente eclettica di Arata.

La scelta di collocare le due piastre simmetriche dietro ai corpi Ponti e Pizzamiglio risulta coerente con

l’impianto precedentemente descritto. Da una parte, infatti, questa scelta permette di mantenere l’impianto

originario intatto nella sua composizione d’insieme, senza snaturarne gli elementi originari. D’altra parte

questo impianto viene rimarcato dalla modesta altezza dei due corpi aggiunti che, seppur estesi

orizzontalmente, non alterano visivamente i rapporti di altezza stabiliti originariamente.

2.2 L’Ospedale e il suo contesto

L’area interessata dalla costruzione del Nuovo Ospedale rappresenta, per i suoi caratteri di atipicità rispetto

ai modi di espansione previsti dai primi piani regolatori, un caso singolare nello sviluppo della periferia

storica milanese.

Gli assi dei viali Zara, Testi e dei paralleli Sarca e Suzzani, furono infatti tracciati al di fuori della maglia

berutiana, dopo il 1908, sulla base di un progetto di una società

privata che intendeva creare, attorno ad una nuova radiale di espansione, una sorta di “città lineare” tra

Milano, Sesto S.Giovanni e Monza.

Nel cinquantennio precedente, il quadrante nord-ovest di Milano si era venuto caratterizzando per

l’attestarsi dei terminali degli assi ferroviari più importanti (la prima stazione Centrale e lo scalo Garibaldi)

con una vocazione prevalente a periferia operaia e industriale.

Le aree più esterne, non ancora urbanizzate, erano costituite da Comuni rurali (Affori, Bruzzano, Niguarda)

e da agglomerati di cascinali e case coloniche (Segnano, Pratocentenario, Bicocca) con presenza di antiche

ville e cascine suburbane (come la villa degli Arcimboldi alla Bicocca o le cascine Mirabello e Torretta).

All’inizio del secolo, a ridosso del ramo della ferrovia tra Milano e Sesto S. Giovanni, comune già allora

fortemente industrializzato, si insediavano i nuovi stabilimenti della Pirelli e della Breda che, con la loro

imponente presenza, avrebbero condizionato i futuri assetti della zona.

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Nel 1908 la “Società Anonima Quartiere Industriale Nord Milano”, tra i cui soci erano esponenti

dell’imprenditoria lombarda come Carlo Feltrinelli, Ettore Conti e Piero Pirelli, dopo aver acquistato i

terreni a nord della ferrovia, compresi tra i limiti esterni del Piano Beruto e i confini con Sesto, stipulava

una convenzione con il Comune per la valorizzazione dell’area con la creazione di un grandioso quartiere

con industrie e residenze per operai e impiegati.

Ben presto, però, le difficoltà economiche, gli eventi bellici, la sopravvalutazione dell’entità dello sviluppo

della zona e la mancanza di collegamenti con il centro cittadino, ridimensionarono l’iniziativa che si limitò

alla realizzazione di buona parte dell’infrastrutturazione primaria, al previsto restauro della cascina

Mirabello, della Bicocca degli Arcimboldi acquistata nel 1918 dalla Pirelli e oggi sede di rappresentanza di

alcuni quartieri ed edifici residenziali e di servizio (come il quartiere ICP Niguarda del 1913 e la torre per

l’acqua potabile in viale Sarca).

La ripresa dell’attività edilizia negli anni Trenta, ma soprattutto nel secondo dopoguerra rilanciò

l’urbanizzazione della zona che, pur rispettando la maglia viaria già realizzata, seguì modalità di sviluppo

diverse da quelle originariamente previste.

In generale gli interventi realizzati nel secondo dopoguerra si presentano come esperienze contraddittorie:

ad un’edilizia di tipo intensivo e speculativo da un lato si oppone dall’altro una politica di sviluppo di

quartieri economico popolari e cooperativi e strutture di servizio a scala metropolitana che hanno contribuito

a qualificare gli assetti della zona.

2.3 Il nuovo modello di Ospedale

Sulla base delle indicazioni della più moderna letteratura, ovvero in relazione alle esigenze gestionali

rilevate, ne scaturisce che l’ospedale dovrà essere deputato all’assistenza terapeutica polispecialistica per

acuti di alto o medio livello, quale nodo primario della rete sanitaria, integrato con la rete dei servizi

territoriali di assistenza e cura (prevenzione, assistenza di base e “on-line”, diagnostica e terapia

specialistica, assistenza farmaceutica, assistenza domiciliare integrata, riabilitazione, lungo degenza, alta

specializzazione).

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L’interazione della rete deve assicurare l’adeguata e completa funzione di filtro e di garanzia dell’intero

processo diagnostico-terapeutico.

L’Ospedale deve essere anche luogo di accumulazione di conoscenza clinico-scientifica, ricerca

intellettuale, aggiornamento professionale per i medici interni ed esterni e per il personale infermieristico e

amministrativo.

L’alta qualità delle sue prestazioni è garantita dall’efficacia della cura, dall’umanizzazione dell’assistenza,

dall’arricchimento professionale del medico e del personale infermieristico e dall’efficienza della gestione.

Per raggiungere questi obiettivi è necessario che siano presenti contemporaneamente nell’ospedale tutte le

professionalità medico-specialistiche, sanitarie, organizzative e gestionali, insieme a tutte le tecnologie

necessarie od opportune, e che si sviluppi una cultura organizzativa in grado di utilizzare tutti gli strumenti

messi a disposizione dalle moderne tecnologie, anche informatiche.

Il rapido mutamento che si realizza all’interno dei complessi ospedalieri, rende necessaria la flessibilità

strutturale e organizzativa.

Bisogna poter recepire facilmente e tempestivamente le innovazioni e i cambiamenti tecnologici,

organizzativi ed anche formali. La struttura deve essere perciò il più possibile preveggente, neutrale e

flessibile per adattarsi con facilità alle nuove funzioni necessarie.

Necessita una struttura organizzativa e formale che sia capace di consentire modificazioni e crescite senza

compromettere la coerenza intrinseca, che abbia la capacità di variazioni interne senza particolari difficoltà

e di espansioni esterne senza ledere gli aspetti strutturali e formali.

Sono fondamentali sistemi costruttivi che consentano il montaggio, lo smontaggio, lo spostamento,

l’aggiunta degli elementi attraverso lavorazioni a secco, non polverose, e non rumorose, espansibilità ed

adeguabilità semplice degli impianti idromeccanici ed elettrici di sicurezza.

Bisogna prevedere aree “polmone” per le probabili espansioni, specie nei settori ad alta prospettiva

innovativa quali la diagnostica per immagini, nonché modularità e interscambiabilità di ambienti, arredi,

apparecchiature.

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Vanno garantiti diversi livelli di flessibilità: interna edilizia (sistemi costruttivi, maglia strutturale

modulare); interna funzionale (ritagliabilità per aree funzionali); interna planimetrica (aree polmone libere,

semifinite, collocate in punti strategici) esterna planimetrica (possibili espansioni da realizzarsi in aree

predisposte, già preconfigurate).

Per quanto riguarda le dimensioni, l’ospedale deve essere sufficientemente grande da consentire la presenza

delle facilities e professionalità necessarie, ma allo stesso tempo non ipertrofico o eccessivamente

complesso onde evitare difficoltà e inefficienze nella gestione.

La struttura fisica del nuovo Ospedale si deve caratterizzare per l’estrema flessibilità, favorita dalla

modularità delle soluzioni edilizie ed impiantistiche adottate, indispensabile per l’adattamento continuo alle

esigenze che mutano nel tempo.

Massima flessibilità sarà richiesta anche al sistema organizzativo.

In questo modo sarà possibile in ogni momento variarne i contenuti di funzioni ed attività, anche per

conformarsi alla domanda dei singoli cittadini e della collettività e seguire l’evolversi tumultuoso del

progresso medico e della tecnologia.

La struttura nel modello supera il concetto del reparto tradizionale: le funzioni specifiche non sono più

legate alla peculiarità delle singole discipline specialistiche ma realizzabili in settori di “facilities” il più

possibili comuni.

Pertanto degenze, sale operatorie, laboratori, ambulatori, servizi speciali di diagnosi e cura, saranno il più

possibile centralizzati ed utilizzabili da molteplici professionalità, fatte salve ovviamente le situazioni per le

quali specifiche ed inderogabili necessità indichino di riservare la risorsa ad una specifica branca

specialistica.

Il modello del Nuovo Ospedale si caratterizza quindi principalmente per: alta capacità e complessità di

prestazioni a fronte di contenuta capienza dell’area di

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degenza; alta qualità e articolazione in diversi gradi di intensità di assistenza delle degenze; contenimento

del tempo medio di ricovero; continuità dell’assistenza; sviluppo delle prestazioni in ambulatorio e diurne

(day-hospital e day-surgery); alta utilizzazione delle attrezzature specialistiche, alta flessibilità strutturale e

di utilizzo; dimensione contenuta e compattezza con ottimizzazione dei percorsi; organizzazione per

processi di cura, contiguità dei servizi più utilizzati nell’ambito dei percorsi di diagnosi e cura;

ottimizzazione dei flussi; sicurezza e contenimento del rischio; integrazione con la città ed il contesto socio-

culturale; coordinamento con le altre strutture del Servizio Sanitario Nazionale.

3

4 LA TUTELA DEL PATRIMONIO ESISTENTE ED IL PROGETTO PRELIMINARE DEL

NUOVO NIGUARDA

Il comparto di intervento per la costruzione del nuovo Ospedale di Niguarda ha comportato come prima

verifica, preliminare ad ogni ipotesi di progetto, quella relativa ai vincoli sull’area e sugli immobili

esistenti.

Al di là dei riconoscimenti pure significativi, l’Ospedale di Niguarda rappresenta un importante esempio di

architettura sanitaria razionalista ed è per questo che le Soprintendenze per i Beni Architettonici e per il

Paesaggio di Milano e Regionale, ed il Comitato di Settore per i Beni Ambientali ed Architettonici del

Ministero per i Beni e le Attività Culturali, hanno definito, in seguito a numerosi incontri con i

progettisti, le linee guida per la presentazione di ipotesi progettuali: sostanzialmente l’ipotesi

localizzativa dei nuovi interventi prevedeva la nuova costruzione di due blocchi ospedalieri, collocati

simmetricamente lungo l’asse centrale del complesso ospedaliero esistente, con il solo mantenimento

degli edifici (n° 1, n° 2, n° 3) costituenti l’ingresso del Niguarda sulla piazza Ospedale Maggiore, degli

edifici n° 4, n° 5, n° 6, n° 7, n° 8, n° 9, n° 10, costituenti la struttura storica del complesso, valore

significativo dell’organizzazione del sistema, della cappella (ed. n° 22) e delle due strutture di recente

realizzazione (DEAS e Unità Spinale) [ Verbale n° 120 del 09/07/2003 del Comitato di Settore per i

Beni Ambientali ed Architettonici relativo al Complesso dell’Ospedale Niguarda - Tutela ai sensi del

Titolo 1° del D. Lgs. 29/10/1999, n° 490].

In seguito ad ulteriori incontri con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano,

venivano valutate proposte di progetto, interpretative del citato verbale n° 120 del Comitato di Settore

del Ministero, che erano considerate migliorative rispetto a quelle autorizzate, “ per quanto riguarda la

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conservazione delle qualità tipologiche e storiche del complesso “ e ottenevano pertanto parere

favorevole alla loro realizzazione. (Lettera della Soprintendenza per i Beni Ambientali e per il

Paesaggio di Milano del 05/03/2004 - Prot. n° 2142S).

Una sintesi della proposta esplicitata nel progetto preliminare vuole essere, nelle intenzioni, una soluzione

semplice per un tema complesso, quasi un edificio “didattico”, facile da spiegare e facile da capire.

In assoluta identità di impostazione con l’edificazione storica esistente, lungo un asse perpendicolare a

quello sul quale si compone l’attuale edificazione e passante per il centro dell’ed. n° 4, con

orientamento quindi Nord - Sud, è prevista la realizzazione di due blocchi planimetricamente speculari

ai due assi, il principale esistente (Est - Ovest) e quello di nuova formazione (Nord - Sud).

Sia il blocco Sud, sia il blocco Nord sono costituiti da una piastra centrale di 3 piani fuori terra, delimitata

ad Est e ad Ovest da corpi quintupli a quattro piani fuori terra, prevalentemente adibiti a degenze.

I due blocchi di nuova costruzione sono a loro volta uniti agli esistenti edifici n° 5 (Ponti) e n° 6

(Pizzamiglio) da una galleria coperta a protezione delle attività e servizi perisanitari, come bar,

caffetteria, negozi, banca, parrucchiere, giornalaio, posta, nido, situati al Piano Terra degli stessi ed. n°

5 e n° 6, mentre i quattro piani superiori verranno ristrutturati per degenze, studi medici e locali tecnici.

Gli ingressi sono previsti in numero di uno sul lato Sud da Via Zubiani e in numero di tre sul lato Nord,

dalla strada interquartiere di futura realizzazione; in prossimità degli ingressi sono ubicate le aree a

parcheggio.

Il progetto preliminare proposto vuole essere un sistema di relazioni molto chiaro, che risponda a tutte le

sollecitazioni e che sopporti tutti i condizionamenti.

La sistemazione a corte delle degenze, attorno alla piastra centrale delle sale operatorie, tende alla massima

riduzione dei percorsi, con conseguente ottimizzazione delle funzioni.

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L’innovazione della galleria coperta ad integrazione degli esercizi commerciali e di servizio risponde al

principio dell’ospedale aperto: che possa dare una nuova valenza urbana, cancellando il carattere

dell’ospedale come recinto esclusivo, impermeabile, storicamente nato per proteggere i sani dai malati.

Il fine perseguito per questo ospedale è quello di creare un edificio flessibile, che permetta variazioni di

dimensioni e cambiamenti di programma, senza alterare la sua funzione o, al più, migliorandola.

Anche i materiali previsti (la pietra, l’acciaio, il vetro, le finiture) sono pensati in funzione di un’economia

di gestione, ma con il fine di formare un ambiente rasserenante e confortevole, tendente ad accentuare

la familiarità del luogo.

Il progetto preliminare con la nuova costruzione dei due blocchi risponde alle moderne esigenze ospedaliere,

rispettando nel contempo volumi ed immagini che hanno contribuito a determinare l’organizzazione del

complesso, conservando soprattutto la funzione ospedaliera di Niguarda, che, a Milano, per tradizione

fortemente consolidata, rappresenta “ l’Ospedale ”.

4.1 Temi di discussione posti dal progetto preliminare

Il tema progettuale dell’“l’Ospedale del futuro” riassume in se i temi più avanzati del dibattito culturale in

merito alla concezione stessa dell’Ospedale.

Riassume, però, anche i dubbi e le incertezze che la continua accelerazione della nostra società,

saggiamente, impone.

È quindi impossibile descrivere l’ospedale del futuro ed in particolare un ospedale futuro quale è il nuovo

Ospedale Niguarda?

Il nostro progetto preliminare cerca di dimostrare il contrario.

Tuttavia si è ben consci che i progettisti sono tenuti da un lato a proporre soluzioni il più possibile aperte

verso le problematiche sopra esaminate e dall’altro a contribuire ad un dibattito così stimolante.

Esaminiamo le questioni essenziali:

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Il dimensionamento ottimale di una struttura ospedaliera costituisce uno dei temi centrali del dibattito, anche

istituzionale, in corso.

La risposta a questa domanda, a nostro parere, non può essere assoluta ed è condizionata dal ruolo

prefigurato per l’ospedale, dalla sua collocazione nella società che lo esprime, dagli altri anelli della

catena socio sanitaria presenti sul territorio, dallo sviluppo tecnologico, dalle economie di scala ecc.

Quello che appare sempre più certo, e potrebbe costituire una delle possibili metodologie per la definizione

dimensionale, è l’assoluta inderogabilità dell’approccio interdisciplinare nei confronti del Paziente.

Pur considerando i ruoli che i diversi ospedali hanno sul territorio, la garanzia di interdisciplinarietà

sottolinea la necessità di avere più specialisti che abbiano esperienza su di un numero di casi

significativo e dotati della necessaria attrezzatura.

Non necessariamente la risposta a questa necessità comporta la concentrazione in un unico “polo”.

La nascita di strutture dedicate a settori della medicina, come gli istituti dei tumori, dimostra che si può

procedere ad un approccio interdisciplinare per patologia, ma il basso livello complessivo di alcuni

ospedali di riferimento dei capoluoghi di provincia della nostra Regione è probabilmente dovuto

all’assenza di settori trainanti (trapianti-ricerca ecc), che costituiscono elementi emblematici di un

processo di approccio interdisciplinare.

È altrettanto certo che quanto affermato deve tenere conto di tutti gli strumenti informatici a disposizione,

strumenti che consentono di operare, anche a distanza, creando delle comunità virtuali di lavoro.

La riduzione della durata della degenza è, probabilmente, un processo irreversibile, ma anche in questo caso

l’ipotesi della distinzione tra ospedali diurni e ospedali in regime di degenza continua, deve fare i

conti con la necessità di un approccio interdisciplinare ai più alti livelli.

Deve altresì fare i conti con l’invecchiamento complessivo della popolazione e con la conseguente presenza

di anziani affetti da diverse patologie che potrebbero rendere più arduo l’intervento in day-hospital.

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Vi è inoltre da osservare come in molti casi, con il crescere della complessità degli interventi eseguibili in

regime di day-hospital, è necessaria la degenza di almeno una notte.

Quale può essere una soluzione dimensionale corretta?

La risposta, anche in questo caso, viene suggerita dal progetto preliminare che prefigura un alto livello di

flessibilità dei servizi sanitari e individua, per le aree di degenza, una possibile e futura tendenza

verso la camera singola, con letto di supporto per l’accompagnatore.

Questa soluzione è “figlia” di quanto abbiamo osservato, nel corso dei due decenni trascorsi, al passaggio

dalla camera a sei - otto letti, alla camera a tre - quattro letti con bagno comune e alla realizzazione

negli ultimi anni di degenze con camere a due letti con bagno privato.

Tale soluzione sta già personalizzando l’approccio al Paziente, consentendo di gestire la degenza con la

massima versatilità.

Per quanto concerne le aree di degenza è certamente difficile immaginare di dover rispondere, ottenuto il

risultato sopra indicato, a nuove e diverse esigenze, ma questo presuppone che i servizi della degenza

vengano correttamente dimensionati.

Il progetto prevede un incremento, rispetto ai “modelli” tradizionali, dei locali di soggiorno realizzandoli sia

all’interno dell’area di degenza stessa, dedicandoli a Pazienti che comunque necessitano di controllo,

sia all’ingresso dell’area, valorizzando le “testate” dei Padiglioni storici Ponti e Pizzamiglio, per

Pazienti che richiedono una minore attenzione e che possono ricevere i visitatori anche in orari

condizionati dalle attività sanitarie.

Sono previste inoltre delle aree, strutturate in “open space”, destinate ad attività di studio e di gestione

localizzate nelle predette “testate”.

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Così pure si è previsto di dotare ogni camera di degenza di bagno, almeno dimensionalmente utilizzabile da

parte di persone disabili, anche alla luce della considerazione che ogni Paziente, in qualche forma, è

un disabile, sia pure temporaneo.

Dobbiamo comunque considerare che la dimensione fisica della struttura ospedaliera, nel suo complesso,

non è solo dipendenza diretta delle valutazioni sopra esposte, ma è determinata da scelte operate in

differenti settori.

L’Ospedale di Niguarda rappresenta, infatti, una struttura caratterizzata da un’alta specializzazione, da

servizi sanitari diversificati e da complessi servizi alberghieri ed aziendali che devono rispondere ad

esigenze molto diverse da un tempo.

Ne deriva che il tema del dimensionamento va analizzato anche alla luce di queste grandi funzioni.

Lo “strumento” della “Concessione” prevede lo scorporo gestionale di alcune funzioni non prettamente

sanitarie, con l’evidente intento di concentrare le energie dell’Ospedale su quest’ultimo settore.

I progettisti, alla luce di questo scenario, si sono trovati di fronte a due possibili scelte operative:

ipotizzare la gestione del complesso di servizi all’esterno all’area ospedaliera prefigurando, da subito,

uno scorporo pressoché totale;

mantenere all’interno dell’area ospedaliera i servizi scorporabili, rafforzandone i collegamenti funzionali.

Si è optato per questa seconda ipotesi al fine di garantire una migliore efficienza e controllo di alcune attività anche

“delicate”, il servizio di sterilizzazione, di cucina e, non ultima, una potenziale autosufficienza operativa al

complesso ospedaliero anche in caso di grave calamità.

Dunque il corpo di fabbrica denominato “Polo Logistico” è parte integrante della struttura “unitaria e compiuta”, pur

ideato in sede separata, ma funzionalmente e strutturalmente collegato al complesso degli edifici ospedalieri.

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