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Fernando Pessoa Fernando Pessoa Fernando Pessoa Poesie e scritti Poesie e scritti Poesie e scritti ritratti ritratti ritratti

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Fernando PessoaFernando PessoaFernando Pessoa

Poesie e scrittiPoesie e scrittiPoesie e scritti

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Chi era Fernando Pessoa?

P er tutta la vita, trascorsa per la maggior parte in una stanza ammobiliata in affitto a Lisbona, dove sarebbe morto in solitudine, Fernando Antonio Nogueira Pessoa rima-

se pressoché sconosciuto al mondo editoriale ed al grande pubblico. Oggi egli viene comune-mente riconosciuto come il più importante poeta portoghese moderno, membro più rappre-sentativo del Gruppo Modernista conosciuto anche come Orpheu. Nasce a Lisbona nel 1888; il padre Joaquim de Seabra Pessoa morì di tubercolosi quando Fer-nando era poco più che un bambino, la madre si risposò con il console portoghese per il Sud Africa dove la famiglia si trasferì nel 1896. Qui restò per tre anni, imparando perfettamente la lingua inglese ed interessandosi alla lettura delle opere di Shakespeare e Milton. Tornò a Lisbona nel 1905 per iscriversi all'Università, avrebbe tuttavia abbandonato gli studi molto presto per iniziare a lavorare come traduttore per conto di aziende commerciali. Nel frattem-po Fernando Pessoa iniziò a scrivere lettere ed articoli per riviste letterarie quali l'Orpheus, suscitando spesso vivaci polemiche per le idee ed i termini anticonformisti. La sua prima col-lezione di poesie Antinous fu scritta in lingua inglese ed apparve nel 1918. Pure in inglese furono redatte le successive due raccolte e soltanto nel 1933 pubblicò il primo li-bro, Mensagem, in portoghese che, come i precedenti, passò completamente inosservato. La maggior parte delle sue poesie apparvero su riviste letterarie quali Athena da lui stessa diretta e sotto gli pseudonimi di Campos, Reis e Caeiro, veri e propri alter ego, ciascuno dota-to di una differente personalità e di un proprio background (Campos un ingegnere affascinato da Walt Whitman, Reis un dottore epicureo dalla solida cultura classica) che spesso animava-no le pagine di Athena dandosi battaglia, ora lodando ed ora criticando le "reciproche" opere. Fernando Pessoa morì il 30 Novembre 1935, la sua fama iniziò a diffondersi, in Portogallo e poi in Brasile, a partire dal 1940 e tutte le sue opere furono pubblicate postume. Ricordiamo Poesias de Fernando Pessoa (1942) ed Odes de Ricardo Reis (1946). La sua auto-biografia scritta sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, apparve solo nel 1982.

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Versi da Fernando Pessoa, Il mondo che non vedo. Poesie ortonime Non chiedermi (12 aprile 1915) Non chiedermi perché sono triste… Più triste sono per non poterti dire perché questo dolore esiste e mai cessa di vincermi Ah, molto lontano dalla mia pena, in un’isola piena di sole e fiori devono esistere ritmi di brezza e acqua che bastono alle anime con pace e amori. Devono esistere lì giorni felici, ore che passano senza parlare… O morte, dimmi in che paesi conservi la vita d’oltre Mare?... Dimmi a bassa voce, all’orecchio, a che distanza da questo mio essere hai posto quanto io ho perduto prima che la vita mi conoscesse… E portami poi su quell’isola, portami lontano, preso nell’andare… Ah, il canto dell’aquila che mi leva in alto! Ah, il viaggio per l’Esistere…!

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Deve chiamarsi tristezza (19 agosto 1930) Deve chiamarsi tristezza questo che non so cosa sia che m’inquieta senza sorpresa, nostalgia che non desidera. Sì tristezza - ma quella che nasce dal sapere che lontano v’è una stella e vicino v’è il non averla. Sia quel che sia, è quel che ho. Tutto il resto è solo tutto. E lascio andar la polvere che prendo dalle mani piene di polvere.

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Lascio al cieco (24 agosto 1930) Lascio al cieco e al sordo l’anima con frontiere, ché io voglio sentir tutto in tutte le maniere. Dall’alto d’aver coscienza contemplo la terra e il cielo, il vedo aver esistenza: niente del veduto è mio. Ma vedo così attento così in essi mi disperdo che ogni pensiero mi rende subito diverso. E siccome sono frantumi dell’essere, le cose disperse, spezzo l’anima in frammenti e in persone diverse. E se la stessa anima vedo con altro sguardo, mi chiedo se v’è motivo per questo di giudicarla. Ah, tanto come la terra e il mare e l’ampio cielo, chi si crede se stesso erra, sono vario e non sono mio. Se le cose sono frantumi del sapere dell’universo, sia io i miei frammenti, impreciso e diverso. Ciascuno intende e sente Senza essere se non chi sono Se quanto sento è estraneo

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e di me si sente, com’è che l’anima venne a definirsi in ente? E così io mi adatto a quel che Dio creò, Dio ha un diverso modo, diversi modi io sono. Così Dio imito, che quando fece quel che è gli tolse l’infinito e perfino l’unità. Ogni albero è solo sé, ogni fiore sé soltanto.

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Vergine Maria (21 agosto 1935) Madre di chi non ha madre, sul tuo grembo posa la testa il dolore universale e dorme, ebbro della fine della sua fatica… E reggi in mano, usato e mai immondo, il piccolo fazzoletto materno con cui asciughi la lacrime del mondo.

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da Una sola moltitudine (volume I) Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente. E quanti leggono ciò che scrive, nel dolore letto sentono proprio non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno. E così sui binari in tondo gira, illudendo la ragione, questo trenino a molla che si chiama cuore.

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(2 ottobre 1933) Grandi misteri abitano la soglia del mio essere, la soglia dove esitano grandi uccelli che fissano il mio tardivo andar aldilà di vederli. Sono uccelli pieni di abisso, come ci sono nei sogni. Esito se scandaglio e medito, e per la mia anima è cataclisma la soglia dove essa sta. Allora mi sveglio dal sogno e mi rallegro della luce, seppure di malinconico giorno; perché la soglia è paurosa e ogni passo è una croce.

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Cippo Grande è la prova e piccolo è l’uomo. Io, Diogo Cão, navigatore, piantai questo cippo sull’arenile bruno e feci rotta in avanti. Divina è l’anima e l’opera è imperfetta. Questo cippo segnala al vento e ai cieli che la parte compiuta della prova è mia e che il da farsi è compito di Dio. E all’immenso e possibile Oceano insegnano gli Scudi che qui vedi che il finito mare è greco o romano: il mare senza fine è portoghese. E l’alta croce dice che la febbre di navigare che mi brucia in petto troverà solo nell’eterna calma di Dio il porto ancora da trovare.

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Mare portoghese O salso mare, quanto del tuo sale sono lacrime del Portogallo! Per solcarti, quante madri piansero, quanti figli pregarono invano! Quante promesse spose restarono promesse Perché tu fossi nostro, o mare! Valse la pena? Tutto vale la pena se l'anima non è angusta. Chi vuole andare oltre Capo Bojador deve passare oltre il dolore. Dio dette al mare pericolo e abisso, ma è nel mare che rispecchiò il cielo.

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Il Quinto Impero Triste colui che vive in casa, contento del suo focolare, senza che un sogno, in un librarsi d’ala, renda più viva la brace del fuoco da lasciare! Triste colui che è felice! Vive perché la vita dura. Niente nell’anima gli dice più della lezione della radice: avere per vita la sepoltura. Ere sopra ere si sommano nel tempo che in ere arriva. Essere scontento è essere uomo. Che le forze cieche siano domate dalla visione dell’anima. E così, passati i quattro tempi dell’essere che ha sognato, la terra sarà teatro del giorno chiaro, che nell’altro dell’erma notte è cominciato. Grecia, Roma, Cristianità, Europa: tutte e quattro se ne vanno verso dove va ogni età. Chi viene a vivere la verità che morì Don Sebastião?

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Passi da Fernando Pessoa, Una sola moltitudine (volume I) «Ah, chi mi salverà dall’esistere? Non è la morte che voglio, né la vita: è qualcosa che brilla nel fon-do dell’inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. È tutto il peso e tutta la pena di questo universo reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell’aria fittizia da cui l’immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità. È tutta l’assenza di un Dio vero che è il cadavere vacuo del cielo alto e dell’anima chiusa. Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te!(…) Per tutto quanto esiste ho una tenerezza dello sguardo, una dolcezza dell’intelligenza: niente del cuore. Non ho fede in niente, speranza in niente, carità per niente. (…) È questa la mia morale, o la mia metafisica, o io stesso. Randagio in tutto, perfino nel mio stesso animo, non appartengo a niente, non desidero niente, non sono niente: centro astratto di sensazio-ni impersonali, caduto specchio senziente che guarda la varietà del mondo. Con ciò, non so se sono felice, o infelice… né me ne importa». «Nostalgia! Ce l’ho perfino di ciò che non è stato niente per me, per un’angoscia del tempo e una malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la mia vita. Il vec-chio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove del mattino? Il vendi-tore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch’io scomparirò dalla Rua da Prata, dalla Rua dos Douradores, dalla Rua dos Fanquieros. Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che io sono per me stesso – sì, domani anch’io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un «che ne sarà stato di lui?». E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi. (…) Ma, dopotutto, c’è un universo anche in Rua dos Douradores. Anche qui Dio concede che non man-chi l’enigma di vivere. E per questo, i sogni che riesco a estrarre fra le ruote e le tavole, poveri quasi come questo panorama di carri e di casse di legno, sono tuttavia quanto ho e quanto posso avere. Altrove, senza dubbio, esistono i tramonti. Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con stelle all’orizzonte… È quanto mi viene alla mente in questo pomeriggio ultimo, presso questa alta finestra, nell’insoddi-sfazione del borghese che non sono e nella tristezza del poeta che non potrò mai essere». «Sentire tutto in tutte le maniere, avere tutte le opinioni, essere sincero contraddicendosi a ogni minuto, spiacere a se stesso per piena libertà di spirito, e amare le cose come Dio».

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