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ROBERTO FERRUCCI Sentimenti sovversivi Sentimenti sovversivi Isbn Edizioni Romanzo

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Il primo capitolo del nuovo libro di Roberto Ferrucci, dal 16 luglio in libreria

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Page 1: Roberto Ferrucci - Sentimenti sovversivi

€ 17,00

roberto ferrucci

Sentimenti sovversivi

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i Sentimenti sovversivi

isbn edizioni

romanzo

A un certo punto il protagonista chiede a un amico come si chiama il vento che li avvolge in riva all’oceano. L’amico ci pensa un po’ su, e risponde: «Vento». Con le sue quarantamila parole, questo romanzo trova quarantamila volte il nome giusto al vento che sta spazzando via tutto, qui da noi: è la bruttissima aria che tira oggi in Italia. Roberto Ferrucci la affronta armato delle sue inconfondibili frasi cristalline, raffinate, combattive. Romanzo d’esperienze, Sentimenti sovversivi rinuncia alle fantasticherie letterarie, si lascia invadere da «quest’epoca che ti raggiunge sempre, che ti snida

ovunque»: in Italia e in Francia, a Venezia e a Saint-Nazaire, sulla costa atlantica. Nonostante tutto, l’indignazione civile, la vergogna politica di essere italiani oggi non riescono a soffocare la delicatezza e la capacità di amare (Roberto Ferrucci fa l’amore con le cose descrivendole). È un libro spalancato in mille paesaggi, respirati a pieni polmoni, oppure inquadrati dalla immensa vetrata di un aeroporto e dal piccolo schermo di una webcam. È un romanzo pieno di vento, tempestoso e carezzevole.

Tiziano Scarpa

© Lucia Ziliotto, tutti i diritti riservati© Roberto Ferrucci

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1 Tutto il bianco percepito

Ogni volta che ritorno qui, al decimo piano del Building, il vecchio tavolino è incastrato fra la colonna e la parete della terrazza, la su-perficie ripiegata in due. Ha addosso lo sporco del tempo, che mi sono convinto coincida ormai con le mie assenze. Nonostante le di-mensioni, è pesantissimo, il che, con il vento che tira da queste par-ti, non nuoce affatto se non quando arriva il momento di spostarlo. Ogni volta che ritorno qui, prendo il tavolino, lo apro, lo pulisco, lo ricopro con la stuoia da spiaggia che ho trovato nell’armadio dell’in-gresso, e trasformo l’insieme in un perfetto scrittoio che utilizzo più che posso. La prima volta, però, era inverno, e il tavolino l’ho sol-tanto pulito e mai usato. Non in terrazza, almeno, evitando così il problema dell’ancoraggio dei fogli al tavolo, che mi si sarebbe pre-sentato le volte successive, con la bella stagione, quei refoli di ven-to improvvisi, potenti.

Ho sempre desiderato avere una terrazza dove scrivere, e questa, così in faccia alla Loira, così accanto all’oceano, così sopra al porto di Saint-Nazaire, così in alto e con tutto il mondo intorno, sembra l’ideale di tutte le terrazze. In una panoramica introduttiva, lenta,

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la videocamera inquadrerebbe ciò che adesso sto vedendo. Da sini-stra i tre chilometri del ponte di Saint-Nazaire, poi, piano piano, il movimento metterebbe a fuoco il vecchio faro bretone, qui davan-ti – eccolo, lo sto indicando, vedete – e più lontano, di là dal fiu-me, oltre gli alberi, Saint-Brévin, sì, laggiù, un po’ più a destra. Qua sotto, l’obiettivo dovrebbe indugiare un po’ più a lungo sul picco-lo quartiere del Petit Maroc che – meglio dirlo subito – nessuno ha saputo dirmi perché si chiami Petit Maroc. Infine, la videocame-ra dovrebbe ritornare indietro, fino a inquadrare, ancora più a sini-stra, parallelo al Building, il porto di Saint-Nazaire, utilizzando il massimo ingrandimento possibile per far avvicinare il mio sguar-do sulle navi in costruzione, quelle in riparazione, e infine su cimi-niere, gru, fumi.

Quando ci sono arrivato, la prima volta, mi sono reso conto che se nella tua vita sono tante, di solito, le case che hai abitato, che abi-ti, e che abiterai, mi sono accorto che, fra queste, da una parte c’è la casa dello stare, dall’altra la casa dell’essere. Quest’ultima, è meglio non coincida con casa tua. È piuttosto un sentimento. Senti che questo è il luogo. Non necessariamente dove vivere ma, di si-curo, dove ritornare quanto più di frequente possibile. Perciò sono di nuovo qui, e non ricordo più che volta è questa. La quinta, la se-sta, non so. La prima volta che ci sono arrivato non è stata solo una percezione visiva, dunque, ma un vero sentire. Questa è la casa, ho pensato subito, non per forza mia, la casa, né raggiungibile a piaci-mento, condivisa con decine di altri scrittori prima di me, altrettanti dopo di me, invitati a fare dentro a questo appartamento, o su que-sta terrazza, proprio quello che sto facendo io, adesso, vedete, l’iPad piazzato sopra al tavolino ripulito e ordinato, un taccuino pieno di appunti, una penna, una caraffa d’acqua e un bicchiere.

Sulla videotastiera dell’iPad, liscia, lucida, le dita non picchiettano sui tasti, ma li sfiorano, ci scivolano sopra, e lettera dopo lettera, ta-sto dopo tasto, sono delle carezze a far scaturire le parole. Scrivere

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accarezzando le parole, chi l’avrebbe mai detto. Un oggetto che, su-bito, appena lo vedi, sembra la lavagnetta di quando eravamo bam-bini (fatta di ardesia, come i tetti delle case da queste parti, la stes-sa dei tetti del Petit Maroc, lavagna diffusa di scrittura potenziale). Quella lavagnetta con i gessetti colorati su cui – regalata a Natale o al compleanno – hanno preso forma le invenzioni più effimere del-la nostra vita, disegni e testi della durata di un attimo, il tempo di crearne uno, guardarlo, ammirarlo (non era così spiccato, allora, lo spirito critico) e, subito, cancellarlo. Guai a metterti in testa di scri-verci una storia, là sopra. Nessuna pagina da far scorrere, solo l’in-finita variante di uno stesso incipit. E usata così, adesso, guardata mentre scrivo, inclinata dalla custodia, sembra trasformarsi in una Lettera 22 piatta e liscia, macchina per scrivere del domani. La tec-nologia che ti porta avanti partendo dal passato, e che ti fa stare nel presente come hai sempre desiderato. E avrei voluto scrivere una storia d’amore, quando ho iniziato questo libro, la prima volta che sono arrivato qui. Ma oggi è impossibile, credo, per uno scrittore italiano, scrivere una storia d’amore, riuscire ad astrarsi da un in-sopportabile senso di repulsione per il proprio paese. La quotidia-nità ti incalza metro dopo metro, sta in agguato a ogni angolo, provi a scartarla ma lei ti insegue, ti penetra dentro, non ti lascia scam-po. Com’è possibile, oggi, mi domando, inventarsi dei personaggi che vivano e che agiscano in un altrove asettico, immuni dal mar-ciume che ci sta attorno, che ci sovrasta, che si è insinuato dentro ciascuno di noi?

Terminal 2F, dopo aver salutato l’hostess in cima alla scaletta (Au revoir Monsieur, bon séjour), nastro dei bagagli (e una valigia, non la mia, che continuava a girare solitaria con accanto un libro, la gui-da della Francia del Nord. Avrebbe potuto essermi utile, la guida), e poi scale mobili, tapis roulant, metro, locandine di giornali alle edicole senza nessun accenno alla politica italiana – finalmente – Montparnasse, altre scale, stavolta non mobili, Tgv, quattro ore cir-ca, e quando le porte della stazione di Saint-Nazaire si spalancarono

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davanti a me e al mio bagaglio di una trentina di chili, lo riconobbi subito, quel tipo, isolato lì, in piedi, cappotto nero come il mio, la luce che riverberava chiara dall’interno della stazione e che andò a rifrangersi, alle sue spalle, sullo sfondo giallo di una parete po-sticcia da lavori in corso. Ci misi un istante a ricalibrare i suoi li-neamenti più marcati, i capelli grigi un po’ lunghi, con l’espressio-ne e il ciuffo scuro delle foto che avevo visto vent’anni prima. In un istante parallelo al mio, vidi la mano con cui teneva la sigaretta al-zarsi a mezz’aria, poco sotto il suo mento, indicarmi e salutarmi, e sentii la sua voce dire il mio nome alla francese mentre io, all’ita-liana, pronunciai il suo, Patrick Deville, il direttore letterario della fondazione che mi aveva invitato qui a Saint-Nazaire.

Qualche parola, ringraziamenti, benvenuto, com’è andato il viaggio, benissimo, grazie, e intanto mi trascinavo dietro i trenta chili di ba-gaglio, rumorosi quasi quanto il motorino che in quel momento sta-va passando sul pavé esterno alla stazione. Ero imbarazzato, non era lui che mi aspettavo, così come, fino a un paio di giorni prima, non mi aspettavo che fosse lui il direttore della fondazione. Preparo sempre all’ultimo momento le mie partenze, non so se per pigrizia o per lasciare qualche margine in più alla sorpresa, qualche ulte-riore prospettiva alla novità del viaggio. A dire il vero, però, forse mi preoccupa lo spostamento, l’idea di me trasportato da un luo-go all’altro, timoroso di mancare coincidenze, di invertire tragitti, di sbagliare strada. Per fortuna c’è Teresa a orientarmi, a stabilire i percorsi, a indicarmi le direzioni. Lei si siede sul divano, il porta-tile sulle ginocchia, ed è come se lo avesse inventato lei, il teletra-sporto, ma soltanto per me. Per noi. Nulla poté fare, però, Teresa, per l’imbarazzo del mio arrivo, quella sera. Non poteva prevederlo e così, pur di non tacere, alla stazione di Saint-Nazaire, quella se-ra, dissi a Patrick Deville la cosa più scema, quella che non dovre-sti dire mai a uno scrittore appena incontrato, anche se è la verità. Gli dissi che avevo letto tutti i suoi romanzi, snocciolai titoli, anno di pubblicazione, forse anche qualche personaggio. Ah oui, replicò

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lui, vago, come si deve in questi casi, quando uno ti sta lusingando troppo e un po’ a vanvera. Era buio, sguazzavo in un imbarazzo da cui non sapevo come uscire, sudavo, pur se era inverno, avrei voluto mandare un sms a Teresa, domandarle aiuto, e intanto però una par-te di me, o del mio sguardo, non saprei dire, cercava di percepire qualcosa di quel luogo, sintonizzato, il mio sguardo, com’era giusto, inevitabile, sulla frequenza della novità. E quella parte di me, atti-va mio malgrado, percepiva del bianco. Tanto bianco. Mi sembrava che i palazzi là intorno, non alti, fossero tutti bianchi. E nonostante il marasma in cui mi trovavo in quel momento, la sensazione sgra-devole della maglietta sotto alla camicia che si incollava alla schie-na, come se fosse una qualunque serata d’agosto, altro che febbraio nel Nord della Francia – e fingevo di chiedermi come mai, che co-sa rendesse possibile quell’anomalia umidiccia – nonostante tutto quel disagio, la percezione restava intatta, e si sarebbe rivelata, nei giorni successivi, una sensazione esatta. È il bianco a dominare le architetture squadrate e recenti di Saint-Nazaire, ricostruita qua-si per intero nel dopoguerra e cresciuta via via in seguito. Un bian-co geometrico, essenziale, tante linee, pochi angoli, nessuna curva-tura. Anche le case qui di fronte alla terrazza sono bianche, case e palazzi del Petit Maroc, bianchi, e le costruzioni qui a fianco, lungo la rue du Port, bianche. E sono bianchi anche i capannoni del por-to, a sinistra. Solo il Building spicca nel suo color ocra, diverso e unico anche in questo. Tutto il bianco percepito quella sera, e quel certo tipo di architetture, e le palme, ora lo so, sono alcuni dei mo-tivi per cui la città è stata definita la California bretone.

Avevo appena terminato di dire le mie fesserie su Patrick Deville e i suoi libri, quando passammo davanti a un bistrot e io, con la par-te vigile di me e il rimbombo del bagaglio alle mie spalle, stavo ti-rando dritto mentre lui invece deviò di qualche metro verso l’entra-ta. La sua voce mi raggiunse pochi passi più in là, sul marciapiede. Andiamo a prendere un verre, disse. Avec plaisir, replicai io, de-viando a mia volta verso l’interno e incastrandomi, ma solo per un

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attimo, con il trolley fra le porte che lui mi teneva aperte. Lo stock con cui lo liberai fu secco, netto, come se avessi scardinato qual-cosa dall’infisso della porta. Il mio affanno aumentò e guardai su-bito verso il bancone del bar, temendo un rimprovero, un’occhiata di traverso, non so, ma non c’era nessuno. Evitato il rimbrotto, sce-gliemmo il tavolino. Avvenne dentro a quel bistrot, credo, l’episo-dio cruciale che ha trasformato subito e per sempre questo luogo nel luogo della mia scrittura. Ci sedemmo. Lui propose un Sauvignon col nome di una regione o di una zona che non ricordo, ne discus-se un po’ con il barista e, da buon intenditore di vini, mi chiese se andasse bene anche a me, che con quel freddo avrei però preferi-to un rosso, e invece, il senso di colpa per le sciocchezze di poco prima, mi fece dire di nuovo, e con un tono ebete, credo, avec plai-sir, Patrick, merci.

Ordinò e poi tirò indietro la sedia. Mi disse che doveva assentarsi una ventina di secondi (mi disse proprio così, devo m’absenter venti secondi), lasciò gli occhiali (il modello esatto che mi viene in men-te quando sento la parola lunettes, montatura sottile, di metallo co-lor del metallo, lenti ovali), li lasciò sul tavolino, laddove il barista avrebbe appoggiato, pochi centimetri più in là, uno dei due cali-ci di Sauvignon del chissà dove. Il calice che decisi essere il suo, e mi impossessai dell’altro. Mandai un sms a Teresa. Mi bastò sol-tanto premere il tasto di invio. Lo avevo scritto in treno, calibrando le parole, misurando le virgole, controllando il tono. Un sms infor-mativo e intimo, che voleva dire e raccontare. Soltanto dopo avere sentito il sibilo che ne segnala l’avvenuta partenza, mi accorsi che l’sms era troppo lungo per il vecchio telefonino che Teresa si osti-nava a usare, sarebbe arrivato diviso in chissà quante parti, tron-co, vanificando ogni mio sforzo di controllo, di calibratura, di misu-ra. Bisbigliai un hélas fra me e me e ritornai presente al bistrot. Mi guardai intorno, con quel senso di spaesamento naturale, credo, in questi casi. Scattai un’inutile foto alla parete, un’altra meno inutile ai suoi occhiali e al calice di Sauvignon che nella foto brilla quasi

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verdino, trafitto dalla luce, e Patrick Deville ritornò che i secondi saranno stati in tutto una settantina, a voler essere precisi, il tem-po per altri tre scatti ancora più inutili, che ora, a distanza di anni, decido di cancellare, non più appunti visivi ma roba inservibile. Si sedette, afferrò il calice, lo alzò. Bene, disse, brindiamo al tuo arri-vo (possiamo darci del tu, no, aveva detto appena entrati nel locale) e anche in onore di Alain Robbe-Grillet che oggi nous a laissé.

Mi bloccai, come adesso, che alzo gli occhi verso la Loira e provo a ripetere lo stesso gesto così come si modificò appena ricevuta quel-la notizia, il calice a mezza altezza, meno verdino, quella sera, non coincidente alla luce – come invece sarebbe adesso, se lo alzassi qui, al sole, in terrazza – e un po’ dondolante, il vino, dopo il suo-no – dlinn – che fa il cristallo quando sbatte sul cristallo, scocca-to più o meno quando disse à ton arrive. Sul ton, di preciso, credo. La mia sorpresa andava oltre la morte di Alain Robbe-Grillet, che aveva ottantacinque anni, e anche al fatto che fosse morto il giorno in cui io, per la prima volta, arrivavo in Francia non come turista, ma per un lungo soggiorno di lavoro.

Più tardi, dopo cena, nel buio di quello che sarebbe stato il mio appartamento qui a Saint-Nazaire, avrei rivisto me stesso a inizio anni ottanta, non ancora ventenne, trovare a fatica, nel mio primo viaggio a Parigi, ebbro di poeti maledetti e di Jim Morrison, ma an-che di École du regard, che è l’altro nome con cui veniva defini-to il Nouveau Roman, quella stradina stretta di Saint-Germain de Près, rue Bernard-Palissy, numero 7. La ricordo bene l’epoca del Nouveau Roman, lo sforzo, in quel periodo, di affrontare i roman-zi di Alain Robbe-Grillet, di Claude Simon, di Robert Pinget, di Michel Butor, di Natalie Sarraute, e di Samuel Beckett, soprattut-to, che furono esperienza, ostacolo e soddisfazione insieme. E una lezione, anche. Svoltai l’angolo, e mi ci ritrovai davanti, senza vo-lerlo, faccia a faccia con quel portoncino di legno, così incongruo, apparentemente, rispetto alla soglia letteraria che rappresentava,

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eppure così coerente, a pensarci bene, con la storia di quella casa editrice. Un portoncino riverniciato più volte, la densità irregolare e visibile degli strati color amaranto, con una targhetta piccola, di quelle che si usavano quando ero bambino, scritta dorata su sfondo nero, ricoperta in plastica trasparente, smangiata ai lati dai tempi, quello atmosferico e quello dell’età. Sopra c’era scritto Les Éditions de Minuit, Administration. Sotto, un’altra targhetta più piccola e di metallo: Entrez sans sonner. Ma a me bastava vedere tutto da fuori, e infatti non ci pensavo per niente di spingerla, quella porta.

Diedi un’occhiata alla vetrinetta lì accanto. In realtà era il davanza-le della finestra di un ufficio, a piano terra, sul quale erano esposti i libri pubblicati di recente. Anche su quel semplice davanzale, i ro-manzi Minuit mi incantavano. Merito delle loro copertine. Il sogno di ogni autore, posso dire oggi: non avere l’incubo della copertina, le discussioni continue con quei grafici che spesso fanno scempio di quello che dovrebbe essere il vestito del nostro libro. Non credo esista l’ufficio grafico da Minuit. Copertina bianca e, dentro un sot-tile bordino blu, nome dell’autore in nero, titolo in blu, il marchio dell’editore, una stellina e una emme minuscola in nero, così come roman, stampato poco più sotto. Tutto qui. Le copertine più sobrie, più note e – credo – più amate di Francia e da uno studente vene-ziano, incantato lì, davanti a quella finestra.

Quando stai a lungo a osservare qualcosa, quando ti avventuri den-tro ai dettagli, capita di perdere – per poco – il contatto con la real-tà. Così fu con una leggera spinta che il portoncino amaranto si spa-lancò e subito di fronte a me vidi una scala strettissima di legno arricciarsi all’insù, verso il buio. Avrei potuto fermarmi lì, respira-re quanto bastava di quel luogo e invece fu questione di poco e sen-tii gli scalini scricchiolare sotto i miei passi forse allo stesso modo di quando, nel 1951, ci salì per la prima volta un autore sconosciu-to, che portava sottobraccio il manoscritto di un romanzo intitola-to Molloy. Uno scrittore alto alto e magro magro che non sorrideva

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mai. Samuel Beckett, irlandese, che però quel romanzo lo aveva scritto in francese. Al primo dei quattro piani c’era un ufficio con una dei pochi impiegati di Minuit. Mi guardò, mi salutò, io nemme-no guardai dentro, cercando di fare l’indifferente. Bonjour, balbet-tai, ora mi caccerà, pensai, e invece tacque. Provocai, spostandomi, qualche altro scricchiolio e lei mi guardò di nuovo. Ecco, ci siamo, pensai, e invece mi disse che mademoiselle era di sopra, all’ultimo piano, precisò. Ringraziai e non saprò mai se la mademoiselle era la stessa che incrociai qualche gradino più su. Colto in flagrante le dissi che ero uno studente italiano, lì per una ricerca, e lei mi por-tò in un ufficio sobrio, poco illuminato, e incominciò a seleziona-re dei dépliant. Mica avevo mentito, anzi, ma non ho mai avuto la minima idea della faccia che deve avere fatto mademoiselle quan-do, giratasi per porgermi il materiale, si è ritrovata sola in un uffi-cio vuoto di altre presenze, e l’impiegata del primo piano nemmeno deve avermi visto sfrecciare all’ingiù. Solo la frequenza degli scric-chiolii stava dicendo a tutti, là dentro, che c’era uno che se la sta-va dando a gambe.

Nel bistrot di Saint-Nazaire, invece, col calice un po’ meno a mezz’aria, la prima sera del mio arrivo qui, dissi qualcosa di forma-le, le cose che si dicono in questi casi, senza nessuna inclinazione, credo, che potesse far trasparire lo stupore per quella coincidenza. Il calice ritornò giù, finalmente, sul tavolo, cambiai discorso viran-do su dettagli tecnici riguardanti il periodo di residenza, affrettai i miei sorsi, di solito lentissimi, scanditi sempre da lunghe pause. Fu allora che sentii in tasca la vibrazione dell’sms di Teresa, la sua ri-sposta al mio, di poco prima.

Svuotati i bicchieri, il mio non del tutto, a dire il vero, uscimmo e raggiungemmo l’auto, parcheggiata a pochi metri di distanza. A bordo, alcuni minuti di tragitto. Il tempo, metro dopo metro, di per-cepire ancora netto quel bianco, che quasi non si notava al semi-buio dell’illuminazione giallastra delle strade, e intanto le prime

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indicazioni di alcuni luoghi essenziali, l’indice di Patrick Deville che oscillava da una parte all’altra, come una sorta di tergicristallo suggeritore: la biblioteca (bianca), il cinema (grigio, forse con del bianco), La cave de mon ami Jean-Luc (blanche), il supermercato (bianco, forse con del grigio), la base sottomarina (grigia) – e infine, voilà, scendemmo dall’auto appena fermata davanti al Building (dif-ficile definirne il colore, al buio, ma di certo non bianco, questo). E quel buio, unito alla preoccupazione di recuperare con una cer-ta disinvoltura i trenta chili di bagaglio dal bagagliaio, me lo avreb-bero fatto sembrare un condominio qualunque, un po’ trasandato, anche. Sensazione ingiustificabile (trasandatezza a parte), in que-sto momento, mentre digito queste parole, davanti a un paesaggio comunque, sì, inimmaginabile quella notte.

Dieci piani più su, poco dopo e dopo essermi rivisto a Parigi nel pellegrinaggio a Les Éditions de Minuit, dopo aver ripensato a cer-te pagine di Le Voyeur, dopo aver letto in rete le notizie della morte del suo autore, ed evitato accuratamente le novità dall’Italia, deci-si che era tardi quanto bastava per rimandare a domani l’esplora-zione dell’appartamento.

Poi, però, appena spente le luci del soggiorno, si accese, fuori, die-tro alle tende, l’ombra di un’illuminazione che, puntiforme, riempi-va l’ampia vetrata e che di lì a poco mi sarebbe diventata familia-re. Ma non approfondii. Lasciai che quelle luci restassero, solo per quella sera, un ovvio corollario esterno a una qualunque finestra di città. Come se le luci là fuori, dietro alle tende, appartenessero al-la più normale illuminazione pubblica immaginabile. Un rumore proveniente da non so dove, da dentro l’appartamento o dall’ester-no, non saprei, mi fece ricordare la vibrazione di prima, al bistrot. L’sms di Teresa. Mi insultai, recuperai frenetico l’iPhone dalla ta-sca dei pantaloni e lo lessi. Buonanotte anche a te, risposi. La not-te precedente gliel’avevo augurata guardandola negli occhi, Teresa. Al risveglio, poco prima che uscisse, lei aveva fatto scivolare un

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pacchettino rosso dalla sua mano nella mia, come se niente fos-se. Lo aprii, era una penna permanente, tutta in metallo, una pen-na perpetua, una matita infinita, a voler essere precisi, che avrebbe funzionato sempre, in ogni condizione, che non si sarebbe esauri-ta mai. È per via dell’alluminio con cui è fatta, stava scritto sulla scatola. Poi però bisognava trovargliele, le parole. Permanenti, ine-sauribili, come la penna, trovare significati incorruttibili, narrazio-ni inalterabili. Per la tua scrittura, ovunque, mi aveva scritto su un biglietto. E ci eravamo baciati. Uno di quei baci che ci diamo spes-so, Teresa e io. Ci baciamo come nei film, diciamo ridendo. Al buio dell’appartamento al decimo piano del Building avrei voluto scrive-re di quel bacio, che aveva preceduto la sua uscita in fretta da casa, diretta al lavoro, io che la guardavo dalla finestra, mentre posava il sacchetto delle immondizie accanto al portone che si era appena ti-rata alle spalle, con un gesto deciso, accelerato alla fine del movi-mento, a far scattare la serratura nell’attimo – abituale, sapete come sono le porte veneziane, l’umidità, la salsedine – in cui si inceppa. L’aveva imparato subito, il trucco. Fece toccare terra al sacchetto piegando le ginocchia ma senza interrompere il passo in avanti e però lanciandolo, comunque, il suo azzurro d’occhi all’insù, sicura – mentre spostava la testa all’indietro – di trovare me, che ero lì.

Spensi il computer e dentro la stanza rimase, solo per un momento, prima dell’implosione a nero, il riverbero del display che restò az-zurro ancora per qualche secondo, prima di spegnersi. E fu in coin-cidenza con lo sfrigolio di chiusura dell’hard disk, che replicai a vuoto, nel vuoto, il brindisi di poco prima, al bistrot.

Cin cin, dlinn, a Alain Robbe-Grillet.