sale e miele

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SALE E MIELE di Candi Miller Traduzione di Carla de Caro

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Il merito di Candi Miller è di aver scritto un piccolo libro dai temi davvero grandi. È un romanzo ambizioso di impressionante livello e di sentimenti profondi e autentici. Barbara Trapido

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Page 1: Sale e miele

SALE E MIELE

di Candi Miller

Traduzione di Carla de Caro

Page 2: Sale e miele

Candi Miller, Sale e miele

Titolo originale: Salt & Honey

First published in 2006 by Legend Press Ltd

Copyright © Candi Miller, 2006

Copyright © Del Vecchio Editore, 2009

Grafica e impaginazione: Dario Lucarini

Editing: Paola Del Zoppo

Redazione: Vittoria Rosati Tarulli, Raul Romano

www.delvecchioeditore.it

www.myspace.com/delvecchioeditore

ISBN: 978−88−6110−011−4

Page 3: Sale e miele

c o l l a n a > n a r r a t i v a

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Page 5: Sale e miele

AYanno, che ha sempre creduto.

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PROLOGO

Africa sud−occidentale, 1958

Icani da guardia cominciarono ad abbaiare con tanta insistenza daspingere Marta ad alzarsi e correre alla finestra.Era buio fitto, non si vedeva neanche la Croce del Sud all’orizzonte.

Sarà nuvoloso, pensò lei. Con un po’ di fortuna domani farà più fresco.Aveva dimenticato quanto poteva fare caldo lì a dicembre. Tanto peggioper i suoi piedi, già gonfi per la gravidanza.I doberman abbaiavano in modo frenetico adesso; persino i latrati del

ridgeback, che in genere facevano solo da accompagnamento simbolico,avevano un che di pressante. Non c’era traccia degli onnipresenti scia-calli, in quel momento, intenti di solito a perlustrare la palizzata del cor-tile nella speranza di trovare un varco per il pollaio. E non poteva certotrattarsi di uno dei domestici. Non avrebbero mai osato avventurarsi nelcortile, almeno fino al giorno successivo, quando il padrone, EtienneMarais, avrebbe legato i cani. Ma Etienne e gli altri uomini erano fuoria caccia quella notte, da qualche parte nella prateria. Marta guardò ilfucile poggiato accanto alla finestra. Etienne, suo cognato, aveva insistitoche se ne occupasse lei, in loro assenza.− Lettie rischia di perdere una delle sue unghie rosa di Parigi se lo affi-

do a lei, − aveva detto ammiccando in direzione della moglie.− Non voglio avere niente a che fare con le armi, − gli aveva detto

Marta.

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Era uscita dalla stanza senza portarselo dietro, avanzando a tentonilungo il buio corridoio verso quella crescente cacofonia. Mentre tentava diaprire la porta a zanzariera sentì il guaito di uno dei doberman, seguito dauna voce familiare che gli inveiva contro: − Chiudi il becco, Blerry brak!− Etienne? André? Siete voi lì fuori? − ormai aveva preso coraggio.

Scese di corsa i gradini della veranda, scorgendo sagome di uomini eanimali. Impossibile distinguere chiunque in quella notte senza luna.− Deon, − chiamò, riconoscendo il marito nell’uomo che avanzava per

farsi vedere, zoppicando più del solito. La torcia che reggeva in manoriusciva a individuare, nel cono di luce tremolante, un cavallo con duepiccole figure sopra. Dietro si trascinava un bue, portando sul suo dorsomassiccio qualcosa di grosso e inerte. I cani presero a saltellargli intorno,mentre il ridgeback continuava ad abbaiare lamentoso.− Voetsek, jou focken brakke, − sentì imprecare suo nipote André.Marta fischiò ai cani, li afferrò per il collare e li fece accovacciare.− Come mai siete tornati così presto? − chiese a Deon.− C’è stato un incidente, − mormorò con la voce impastata. Marta si

accostò il colletto slacciato della camicia da notte, lasciando i cani liberidi filarsela.− Mannie? − disse in un soffio.− Il bambino sta bene, − Deon agitò vagamente la torcia in direzione

del cavallo.Marta gli strappò la torcia di mano e si precipitò su suo figlio. La sua

mano percorse febbrile il corpo del bambino, cercando di scoprire ciòche il debole bagliore non poteva rivelare.− Stai bene piccolo mio? − Così pareva. Era fresco, niente febbre, nes-

suna ferita ed evidentemente niente di rotto. Grazie a Dio. Puntò la tor-cia sul suo viso, sconvolto dalla paura.− Che succede per amor di Dio?− Mamma, mamma, − cercava di ricacciare indietro i singhiozzi, − non si

tratta di me, mamma. Vai dallo zio Etienne. Salvalo, mamma, per favore,mamma, è stata colpa mia, − si strozzava. Marta si allontanò, sconcertata.Improvvisamente in casa si accese la luce, negli alloggi della servitù

brillarono le candele e sulla veranda si udì la voce stridula di sua cognata:

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− Liewe magies, che succede?Marta puntò la torcia verso il bue e trasalì. Etienne giaceva completa-

mente immobile, con una macchia rosso scuro sul torace.− Cosa… − avrebbe dovuto tastargli il polso. Ma non riusciva a

muoversi.− Mamma, per favore. Devi fare qualcosa in fretta. Credo…Si voltò di nuovo verso il figlio, la luce della torcia lo investì in pieno.Nel più ampio cerchio di luce Marta vide che il bambino stava soste-

nendo un corpo minuto, dagli arti gialli e sottili e grandi occhi dal taglioorientale. Un bambino khoisan. Ma non di queste parti, a quanto potevaintuire dal suo vestito tradizionale: un grembiule inguinale e un mantel-lo di pelle di animale. Doveva appartenere a una tribù del desertoKalahari. Cosa ci faceva così lontano da casa? E solo per di più?− Qualcuno mi aiuti a mettere giù i bambini, − urlò lasciando cadere

la torcia e precipitandosi di nuovo verso il cavallo.Non appena si allungò per prendere il bambino khoisan, lui si tirò

indietro, cercando di respingerla con le mani legate. Marta si fermò,colma d’orrore. − Perché questo bambino è legato?

Quando André ebbe legato i cani, la servitù cominciò a riversarsi nelcortile, in diversi stadi di vestizione. Le domestiche, che non si eranomai fatte vedere prima a capo scoperto da questa parte del recinto, sem-bravano estranee e nude, nonostante gli scialli e le coperte che si eranopudicamente messe addosso per coprirsi. Alcune portavano in braccioi bambini ancora annebbiati dal sonno, mentre gli uomini sisparpagliavano nel cortile armati di mazze e lunghe sbarre di metallo,pronti a usarle. Nel frattempo gli anziani cercavano di stabilire chidovesse assumere il controllo ora che i bianchi e Twi, il capo, si trova-vano nei guai, mentre due dei giovani, con i tagli delle iniziazioni anco-ra freschi sul petto, si misero a perlustrare il perimetro del recinto, tenen-do in alto le torce. I cani sforzavano le catene, abbaiando furiosamente.L’angoscioso mormorio umano continuò a crescere finché Marta non

cominciò a sentirne le vibrazioni lungo la schiena, come l’ansimarerauco di un leopardo.

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− Datemi una lampada, prendete una torcia, − urlò nella confusione, −e qualcuno accenda il generatore, per amor di Dio. − Sentì i passi degliuomini affrettarsi per correre a eseguire il suo ordine, poi le urla di Lettiealla vista di Etienne, subito seguite dalla voce di André che cercava dicalmare la madre. Marta si rivolse a Deon: − Dove hai trovato questobambino?− Là fuori. Dalle parti delle Mother Hills, − con gli occhi iniettati di

sangue indicò una coppia di colline le cui vette di pietra erano state, neltempo, erose a forma di capezzolo dal lascivo vento del deserto. Velatedall’oscurità della notte, conservavano ancora un loro fascino. Quando ilsole del mattino si affacciava tra le colline si specchiava nel gioiello ada-giato nel mezzo, una scintillante pozza color acquamarina, incastonatanell’oro rosso della roccia, traccia superficiale dell’abbondante ricchez-za artesiana del sottosuolo.I coloni dell’Africa sud−occidentale avevano imparato come attingere

a questa manna nascosta. Nessuno meglio di Etienne Marais. Lui, con isuoi campi di granturco verde banconota che si estendevano a perditad’occhio intorno alla fattoria; l’alto, biondo, imponente Etienne Marais,la storia di un successo afrikaner, padrone di tutti coloro che risiedevanonella zona e rappresentante parlamentare di quanti avevano il diritto divotare grazie al colore della loro pelle.Adesso stava morendo, mentre Marta lottava con i nodi che legavano

il bambino al pomo della sella.Vide André passarle accanto trasportando il padre con l’aiuto di tre

domestici neri. Lettie si precipitò verso di loro, sgambettando sui tac-chetti a spillo delle sue pantofole, gemendo forte. Stringeva la manosenza vita che penzolava inerte da quella lettiga improvvisata.− Marta, Marta, per carità, vieni ad aiutarci. Fai un muti o qualcos’al-

tro. Il mio Etienne sta male. Liewe magies, lascia stare quel maledettobambino. È solo un kaffir.

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Deserto del Kalahari, 1950

Carne. A mucchi. Tranci infilzati su rami appuntiti, lasciati a seccaresulla soglia delle capanne dal tetto di paglia, fette sfrigolanti sui falò.Le gente rideva, scherzava, si udivano richiami da una parte all’altra delcampo. L’eccitazione scoppiettava come il grasso sulla fiamma, mentrei cacciatori squartavano la carcassa della giraffa, continuando a scivola-re e cadere sulla fanghiglia di terra e sangue.Zuma sedeva a terra, a gambe tese, sanguigna nella luce del tramonto.

In una zucca vuota mescolava grasso di giraffa e corteccia macinata, perottenere una pasta densa, rossa quanto bastava, da spalmare sulla pelle.Voleva apparire al meglio, quella sera, nella danza che avrebbe seguitoil banchetto. In fondo, sarebbe stata sotto gli occhi di tutti. Era lei a pos-sedere la prima freccia che aveva colpito il vecchio toro.“Mmm, il primo pezzo di carne della creatura−alta−ed−elegante è

mio. Il braccio di Tami è forte, è un bravo genero. Ma la mia freccia, yau,è un’ottima procura−cibo, una fabbrica di carne. La gente ricorderà chesono figlia della stagione delle piogge. Devo brillare stanotte. La miapelle deve splendere come la pelliccia fulva di un’antilope.”Zuma sentì un soffio di vento sfiorarle le spalle e capì immediatamen-

te di cosa si trattava. Era decisa a ignorarlo. Essere una medium era unaseccatura. Gli spiriti sceglievano sempre i momenti meno opportuni permanifestarsi. Non potevano aspettare che cadesse in trance durante ladanza? Scosse la testa per liberarsi da quei mormorii, facendo ondeggia-re i suoi ornamenti. Si toccò i capelli rasati. Il grigio spuntava ancoranella ricrescita? Forse avrebbe dovuto chiedere a N#aisa di rasarle dinuovo la testa.Il vento dello spirito vorticava intorno a lei, insistente. Lo ignorò, mas-

saggiandosi le braccia per farsi passare la pelle d’oca. Il vento aumenta-va sempre più, sollevando nuvole di polvere. Zuma chiuse gli occhi perdifendersi dal demone della polvere, ma era troppo tardi.Scossa dalla tosse, con gli occhi infiammati, fu costretta a capitolare.

Inclinò la testa di lato per ascoltare il messaggio.

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E così c’erano /ton nel loro acqua−alberi, nel loro territorio. Avrebbepotuto dirlo a Kh//’an, suo marito, uno sciamano più esperto di lei, maera troppo vecchio ormai per un viaggio così lungo. E come avrebberopotuto competere le sue frecce con i bastoni−di−tuono degli /ton? La suagente aveva già combattuto abbastanza battaglie. Scrollò le spalle. Forseera suo dovere aggiungere questo episodio alla storia dei Ju/’hoansi.Anche i bambini dovevano sapere.Si alzò lisciandosi il grembiule di cuoio che le copriva l’inguine e si

diresse verso i falò poco distanti. Scambiò qualche parola con un paio didonne, scherzò con un uomo, cercando allo stesso tempo di sondare laricettività della sua gente. Stasera i giovani volevano carne. Se ne perce-piva chiaramente l’odore, dappertutto. “Come non essere solidali conloro, dopo mesi di bacche e radici?”, pensò Zuma. Ma la carne non eraancora pronta. Una storia sarebbe servita a distrarli.Si fissò due piume sulla nuca e, con le braccia tese all’indietro come

due ali ripiegate, diede inizio alla sua imitazione di un’otarda−kori, cam-minando a grandi passi su e giù per il campo.Un bimbetto con la pancia grossa la indicò, strattonando il kaross della

madre e guardandola con le sopracciglia sollevate in un’espressioneinterrogativa.− La donna−kori vuole deporre un uovo, − rise la madre.La sorella maggiore lo prese in braccio. − Vieni, seguiamola. Forse ne

verrà fuori una storia.Altri bambini si unirono a loro, trotterellando dietro Zuma, mentre lei

si avvicinava a grandi passi a un pergolato sotto un baobab.− Wum, wum, wum, wummmmm, − urlò.Anche i ragazzi più grandi, nell’udire il suo richiamo, abbandonarono

i loro giochi e corsero a raggiungere il gruppo. Zuma n!a’an era unabrava cantastorie.Zuma aspettò che si sistemassero, poi si mise in grembo la nipotina di

tre anni, Koba, e disse semplicemente: − C’è una nuova storia, ma voiprobabilmente non avrete voglia di ascoltarla.Sua nipote inclinò la testa di lato, tendendo al vento la minuscola con-

chiglia del suo orecchio.

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− Io so ascoltare, − mormorò con gli occhi sgranati. La sua voce sot-tile fu soffocata dal coro degli altri bambini che invocavano Zuma per-ché raccontasse la storia.− Allora, è una storia nuova, ma comincia molto tempo fa, dopo l’epo-

ca dei Primi Uomini, ma prima dei nostri giorni, quando tribù di uomi-ni pacifici vivevano in queste regioni, là dove sorge il sole e le montagnehanno i denti, − Zuma scoprì i suoi, ormai consumati per l’abitudine diusarli per ammorbidire il cuoio, − là dove cala il sole e la terra brilla didiamanti.− Dov’è questo posto? − sospirò una bambina dagli occhi lucenti.

Zuma indicò l’ovest e cominciò pazientemente a spiegare il tragitto trail campo e la Skeleton Coast, menzionando tutte le dune, i pozzi e glialtri punti di riferimento che riusciva a ricordare. Nessuno ascoltava conmaggiore attenzione della bimba dagli occhi allungati che le sedeva ingrembo. Koba era affascinata dall’idea di un mondo oltre i confini delcampo.La voce di Zuma assunse un tono di mistero. − Un giorno in questa

terra arrivarono degli stranieri. Portavano con loro mandrie di animaliaddomesticati che soffrivano quando non trovavano acqua o pascoli. Lanostra gente gli mostrò dove trovare l’acqua e portò le loro mandrie giùnelle vallate perché potessero pascolare. Quando i Ju/’hoansi tornaronocon gli animali ben pasciuti, ricevettero in cambio del tabacco e ne furo-no felici. − Diventate i nostri mandriani, − dissero alla nostra gente gliHerero e gli Tswana, gli uomini di queste tribù, − e vi daremo latte inabbondanza. Ma i Ju/’hoansi non volevano. Preferivano badare agli ani-mali da carne che amavano.Mentre il gruppo annuiva, Zuma cercò l’astuccio perlato che teneva

allacciato in vita e ne tirò fuori una pipa. Infilò del tabacco nel fornelloe spedì un ragazzo a prendere un po’ di fuoco dal più vicino falò. I bam-bini aspettavano educati. Tutti tranne Koba.− Ancora, ancora, − supplicava, con le dita grassocce che tentavano di

afferrare la pipa responsabile di aver interrotto la storia.− Yau, − rise Zuma, allontanandola da lei, − questa mia nipotina è

secca. Ha bisogno di storie come le radici di acqua.

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I bambini più grandi cercavano di distrarre Koba facendo le boccacce,passandosela di grembo in grembo, facendole il solletico. Non appenaZuma riuscì ad accendere la pipa a dovere, continuò.− Quando arrivarono i mandriani, i Ju/’hoansi si trasferirono altrove.

La pacchia era finita, capite. Le mandrie dei coloni stavano mangiandotutta l’erba.Chiuse gli occhi e cominciò a cantilenare l’adorata litania: – Eland,

gazzelle, cudù, gnu, alcefali, tsessebe, roan… – I bambini si unirono allacantilena, molti tenendo gli occhi chiusi, quasi assaporando i grandi ani-mali da carne. Zuma sbuffò soddisfatta. − Ora tutti questi eland, gazzel-le, cudù, gnu, alcefali, tsessebe, roan dovevano spostarsi per trovare altrocibo. − Zuma scosse la testa e le piume oscillarono tristemente, − IJu/’hoansi e i coloni divennero nemici.− Come mai divennero nemici?L’anziana donna si tolse la pipa di bocca e sospirò. − Si battevano per

molte cose: l’erba, l’acqua−alberi, gli animali da carne addomesticati.Gli stranieri avevano molte cose che la nostra gente voleva. I Ju/’hoansise le presero con le frecce, ma furono scacciati quando arrivarono gli/ton, − Zuma fece una pausa, roteò gli occhi, − con i lorobastoni−di−tuono.La paura serpeggiò tra i bambini più grandi. I piccoli avvertirono che

l’atmosfera era cambiata. Koba chiese una spiegazione.Un ragazzo saltò su, stese il braccio all’altezza della spalla e premette

un grilletto invisibile. Il procacciatore di fuoco si unì a lui. Un attimodopo presero a “spararsi” a vicenda, facendo a gara a chi riproducevacon maggiore perfezione la detonazione del fucile.Koba cominciò a piangere. Zuma la prese con sé e si premette la sua

testolina singhiozzante contro il petto rossiccio. − Shhh shhh. Non cisono bastoni−di−tuono qui.− Laggiù, laggiù, − insisté Koba, indicando le colline lontane.Il viso di Zuma si rannuvolò ripensando al sussurro del vento. Ma

Koba era troppo piccola per avere l’ “orecchio”. Era il momento di met-tere da parte la storia. La parte nuova non poteva far altro che conferma-re le loro comuni paure.

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−Yau, − esclamò, battendosi la mano sul naso, − la mia faccia, il miofronte−delle−emozioni, c’è qualcosa sopra. Koba, Koba, riesci a vederla?Spinse il suo naso ondeggiante a un palmo dal viso sbalordito della bam-bina. − Mi sta tirando, mi chiama, − si sporse in avanti, allontanandosidal gruppo stupefatto degli ascoltatori, − un profumo mi ha preso per ilnaso. Devo seguirlo. Vieni Koba.I bimbi più grandi cominciarono a capire. Si alzarono in piedi odoran-

do l’aria. Il profumo della carne arrosto era irresistibile. − È pronta, −gridarono correndo verso i falò delle rispettive famiglie.Zuma li seguì più lentamente, cullando Koba e soffiando piano nelle

sue orecchie per disperdervi ogni altro suono.

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