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San Paolo L’Apostolo delle Genti a cura del Centro Missionario Francescano Convento S. Pietro in Calibano - Pesaro [email protected] Introduzione «Come la fiamma che brucia trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che raggiunge ogni luogo e che schianta ogni ostacolo. Come atleta che insieme lotta e corre, come soldato che assedia le mura e combatte in campo aperto, così Paolo usava ogni genere di battaglia... Balzava ovunque senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, più veloce del vento. Governava come fosse una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Questa antica predica di san Giovanni Crisostomo sintetizza in pochi versi la natura impetuosa del più grande apostolo del cristianesimo: Paolo di Tarso. L’ anno paolino indetto dal Santo Padre Benedetto XVI è una splendida occasione per riscoprire il coraggio e la fede di quest’uomo: fede nel Signore Gesù, morto e Risorto per amore dei fratelli. Tutto il mondo è debitore di questo santo, che ha consumato ogni sua energia per portare il gioioso annuncio del Vangelo, ovunque fosse possibile. Egli continua a dire anche a noi: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo»: non risparmiate perciò niente di voi, per portare a tutti il grande tesoro della fede nel Signore Gesù!

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Page 1: San Paolo - Nuova pagina 1 · Sappiamo che il suo nome da ebreo è Saulo, lo stesso ... era a quel tempo città cosmopolita, ... Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono

San PaoloL’Apostolo delle Gentia cura del Centro Missionario Francescano

Convento S. Pietro in Calibano - [email protected]

Introduzione«Come la fiamma che brucia trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che raggiunge ogni luogo e che schianta ogni ostacolo. Come atleta che insieme lotta e corre, come soldato che assedia le mura e combatte in campo aperto, così Paolo usava ogni genere di battaglia... Balzava ovunque senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, più veloce del vento. Governava come fosse una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Questa antica predica di san Giovanni Crisostomo sintetizza in pochi versi la natura impetuosa del più grande apostolo del cristianesimo: Paolo di Tarso. L’ anno paolino indetto dal Santo Padre Benedetto XVI è una splendida occasione per riscoprire il coraggio e la fede di quest’uomo: fede nel Signore Gesù, morto e Risorto per amore dei fratelli. Tutto il mondo è debitore di questo santo, che ha consumato ogni sua energia per portare il gioioso annuncio del Vangelo, ovunque fosse possibile. Egli continua a dire anche a noi: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo»: non risparmiate perciò niente di voi, per portare a tutti il grande tesoro della fede nel Signore Gesù!

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Paolo di Tarso«Sono un ebreo di Tarso, non oscura città della Cilicia» (At 21,39) «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge» (Fil 3,5); «istruito a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge dei padri» (At 22,3). In queste poche righe, sparse negli Atti degli Apostoli e nelle sue lettere, è lo stesso Paolo a raccontarci delle sue origini e della sua cultura. Sappiamo che il suo nome da ebreo è Saulo, lo stesso del primo re d’Israele, originario come lui della tribù di Beniamino. A questo nome affiancherà quello romano di Paolo (che in latino significa “piccolo”), scelto forse in relazione alla sua bassa statura, o più semplicemente per la somiglianza sonora col nome Saulo. La sua città natale, Tarso di Cilicia (nell’odierna Turchia meridionale) era a quel tempo città cosmopolita, con una numerosa comunità ebraica. Essendo di tale città, aveva diritto alla cittadinanza romana, come decretato prima da Marco Antonio e poi dall’imperatore Augusto. San Girolamo riferisce che i suoi genitori erano originari della piccola città di Gischala in Galilea, e che essi si trasferirono quando i Romani conquistarono il paese.A Tarso il giovane Paolo imparò perfettamente l’uso della lingua greca, che utilizzerà con abilità e fantasia nelle sue corrispondenze. Qui apprenderà anche la conoscenza della filosofia stoica, che in questa città aveva un’autorevole scuola di pensiero. Ma come ogni buon ebreo della diaspora anche Paolo dovette recarsi a Gerusalemme per approfondire lo studio della Scrittura. Suo maestro della Legge sarà il famoso Gamaliele il Vecchio: alla sua scuola imparerà le rigide norme della spiritualità farisaica e i 613 precetti della Torah.

Persecutore dei cristianiAnche Paolo, come molti altri farisei del tempo, vedrà nella nascente fede cristiana un’eresia da combattere e distruggere con ogni mezzo. Racconterà di fronte ad Agrippa: «Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno,

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come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 9-11). Il libro degli Atti racconta che Paolo era presente anche all’uccisione del primo martire Stefano: «Deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Signore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo, morì. Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione» (At 7,58 - 8,1).

L’agguato di DioForse proprio il perdono concesso da santo Stefano ai suoi uccisori sarà la fonte di grazia per la grande conversione di Paolo. Ma sentiamo dalla stessa bocca dell’Apostolo il racconto di questo avvenimento che sconvolgerà la sua vita: «Mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per

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questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio» (At 26, 12-18). Paolo ci racconta dell’incontro con questa grande luce più splendente del sole: è la luce di Cristo che lo illumina potentemente, facendogli comprendere che quello che sta facendo è totalmente sbagliato. Egli, perseguitando la Chiesa, sta addirittura perseguitando lo stesso Dio che crede di servire! Questa luce violenta lo porterà ad una cecità temporanea. Ma seguiamo ancora il racconto degli Atti: «Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: “Và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». Ma il Signore disse: «Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio

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nome». Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono» (At 9, 8-19). Paolo riceve così dallo stesso Signore la missione di annunciare il Vangelo a tutte le genti e in ogni luogo, nelle sinagoghe dei giudei e nelle piazze delle città pagane. Dopo essere rimasto alcuni giorni con i cristiani di Damasco, subito inizia ad annunciare nelle sinagoghe, con grande meraviglia di coloro che lo ascoltavano, che Gesù è veramente il Figlio di Dio. E così rapidamente passa, grazie alla conversione e all’ironia divina, da persecutore a perseguitato: «Saulo confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta» (At 9, 23-25). Dopo questa avventurosa fuga Paolo si recò a Gerusalemme, cercando di contattare gli apostoli. Questi, non sapendo ancora della sua conversione, lo temevano e lo sfuggivano. Fu grazie a Barnaba, che fece da garante del suo reale cambiamento, che Paolo riuscì a introdursi nella comunità cristiana di Gerusalemme. Anche nella città santa Paolo iniziò ad annunciare apertamente la sua fede in Cristo ai giudei ellenisti, provenienti come lui dalla diaspora. Essi iniziarono a tramare la sua uccisione. Venutolo a sapere, i fratelli lo convinsero a ritornare a Tarso. Passato poco tempo, Paolo e Barnaba, ispirati dal Signore, capiscono che è giunto il momento di diffondere il messaggio del Vangelo anche tra i pagani (i cosiddetti “gentili”), che nulla sanno della parola di Dio e di Gesù Cristo. Tale evangelizzazione si compie nell’arco di 12 anni, dal 45 al 57 d. C., e si snoda lungo tre successivi viaggi, tutti iniziati dalla città di Antiochia.

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Il Primo viaggio missionarioIl primo viaggio portò Paolo, Barnaba ed il giovane evangelista Giovanni, detto Marco, dapprima nell’isola di Cipro, con le città di Salamina e Pafo, poi in Asia Minore, dove vennero fondate varie comunità presso le città di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe. Il viaggio durò cinque anni, tra il 45 e il 49 d.C., non senza difficoltà e persecuzioni. Nell’isola di Cipro si registra lo scontro tra Paolo e il mago di origini giudaiche Bar Iesus. Saulo, lo definirà “figlio del diavolo”, accusandolo di pervertire con l’inganno il proconsole dell’isola, Sergio Paolo. Sull’indovino l’apostolo fa scendere la cecità, segno della menzogna che è in lui, per impedirgli di condurre altri alla falsità. Frutto di questa prima tappa missionaria sarà la conversione del proconsole romano. A Perge Marco abbandona la missione, mentre Paolo e Barnaba si inoltreranno fino ad Antiochia di Pisidia. Qui, attenendosi alla direttiva secondo la quale bisognava annunciare la parola di Dio prima ai Giudei e solo succesivamente ai pagani (At 13,46), gli apostoli si presentano nella sinagoga, durante il culto del sabato. Dopo aver letto alcuni brani della Legge e dei Profeti, l’apostolo annuncia che la promessa del Messia dalla discendenza davidica si è realizzata in Gesù Cristo. I Giudei nel crocifiggerlo, senza esserne coscienti, hanno adempiuto le profezie. Facendolo risorgere dalla morte il Padre ha dimostrato che egli è il vero Messia, che porta a compimento le promesse di salvezza.

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Ad Antiochia di Pisidia Paolo ha un secondo incontro pubblico, a cui assistono anche i pagani. Il successo dell’apostolo scatena la reazione ostile dei capi della sinagoga. Paolo, allora, dichiara esplicitamente, basandosi su una profezia di Isaia (Is 49, 6), il passaggio del vangelo ai pagani, dopo che i primi destinatari, cioè gli Israeliti, hanno opposto il loro rifiuto. Un rifiuto, tra l’altro aggressivo nei confronti di Paolo e Barnaba, che si vedono costretti a lasciare Antiochia. La nuova tappa del viaggio è Iconio. Anche qui i missionari si rivolgono prima ai Giudei nella sinagoga, e successivamente ai pagani. La nuova reazione violenta degli oppositori, se da una parte costringe i predicatori alla fuga, dall’altra li sospinge verso nuovi orizzonti di evangelizzazione. A Listra la predicazione di Paolo e Barnaba è accompagnata dai prodigi del Signore: «C’era un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce: “Alzati diritto in piedi!”. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente al vedere ciò, esclamò in dialetto licaonio: “Gli dei sono scesi tra di noi in figura umana!”. E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente. Il sacerdote di Zeus, recando tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: “Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente”».

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Dopo questi momenti esaltanti non tardarono ad arrivare anche quelli della persecuzione:«Giunsero da Antiochia e da Icònio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe» (At 14). Durante il viaggio di ritorno gli apostoli ripercorsero le tappe dell’andata a ritroso, rianimando le comunità fondate e preoccupandosi di dare anche a loro un’organizzazione simile a quella della chiesa di Gerusalemme, istituendo in esse come responsabili degli “anziani”. Da Perge, infine, passarono ad Attalia e da qui, tornarono ad Antiochia di Siria (At 13). Ad Antiochia trovarono una comunità in fermento: il problema che si poneva era quello della necessità o meno di far circoncidere e sottoporre alle prescrizioni della legge mosaica i pagani che si convertivano a Cristo. Vi erano al riguardo due correnti di pensiero: secondo alcuni la legge di Mosè conservava ancora tutto il suo valore e per giungere alla salvezza era necessario osservare le opere della Legge; secondo altri invece la salvezza veniva unicamente dalla fede in Gesù Cristo. Per dare una risposta a tale questione Paolo e Barnaba dovettero recarsi a Gerusalemme per discutere con gli altri apostoli: si ebbe così quello che è chiamato il primo Concilio di Gerusalemme (At 15; Gal 2). Paolo e Barnaba giunti nella città santa raccontano agli Apostoli il successo della loro missione tra i pagani. Anche Pietro e Giacomo, forti della loro esperienza, hanno compreso che in Gesù la salvezza è offerta a tutti i popoli. Tuttavia, preoccupati della pacifica convivenza delle comunità miste, imporranno ai cristiani di origine pagana l’osservanza di alcune norme come il divieto di nutrirsi delle carni immolate agli idoli e il rifiuto delle unioni matrimoniali illecite (l’incesto e la poligamia). In tal modo la Chiesa cristiana si svincola ufficialmente dalla sua matrice giudaica: la Parola di Vita annunziata dagli apostoli, prosegue la sua marcia “fino all’estremità della terra”.

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Il Secondo viaggio missionarioSi apre ora il secondo grande viaggio missionario di Paolo, che durerà approssivativamente dal 49 al 52 d. C., destinato ad approdare in Europa. Barnaba decide di recarsi a Cipro insieme a Marco. Paolo con Sila si avvia verso le città di Derbe e Listra, già visitate nel primo viaggio. Qui incontra colui che diverrà un suo stretto collaboratore, Timoteo, figlio di madre giudea e di padre pagano. I missionari si dirigono poi verso la Frigia e la Galazia, costeggiano la Misia e scendono a Troade: qui Paolo ha un’esperienza misteriosa di rivelazione. In visione gli appare la figura di un uomo della Macedonia, terra greca, che lo supplica di andare anche lì ad annunziare il vangelo (At 16). Paolo, obbedendo

all’ispirazione, giunge con i suoi collaboratori a Filippi, importante città della Macedonia, e qui incontra una donna originaria della città di Tiatira. Benestante, commerciante di porpora, la donna, che porta il nome della sua terra, Lidia, costituisce con la sua famiglia il primo nucleo cristiano nel continente

europeo, fondamento di quella comunità di Filippi che sarà particolarmente cara a Paolo. Ma in agguato c’è il pericolo. L’apostolo, infatti, con un esorcismo aveva scacciato “uno spirito di divinazione” da una schiava, che i padroni usavano come maga, traendone grandi profitti. I padroni di questa donna sobillarono la folla, costringendo le autorità romane a intervenire e a sottoporre i missionari alla fustigazione e al carcere. Ma ecco ripetersi anche per Paolo e Sila la prodigiosa liberazione accaduta anche a Pietro (At 12). Colpito da questa manifestazione divina segnata dal terremoto, il carceriere stesso si converte, riceve il battesimo con la sua famiglia, allargando così la nuova comunità cristiana di Filippi. I magistrati romani, l’indomani, sospendono la

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carcerazione, tra l’altro illegittima, poichè la flagellazione doveva essere preceduta da un’indagine. Ricevute le scuse, salutati i nuovi fratelli nella fede, i missionari continuano la loro opera itinerante seguendo il percorso dell’Egnazia, la via romana che collegava Roma all’Oriente. Passano per Anfiboli e giungono a Tessalonica, capitale della Macedonia, per procedere poi fino a Berea. A Tessalonica i missionari hanno un primo contatto con la locale comunità giudaica. Qui si annunziano Cristo sulla base delle profezie messianiche: la reazione di molti è

positiva, e si segnalano conversioni di uomini e donne di rilievo. Altri Ebrei invece sobillano la folla e costringono le autorità romane a intervenire, accusando i predicatori cristiani di essere agitatori politici, perché «affermano che c’è un altro re, Gesù» (At 17,7).Paolo è costretto a staccarsi da Sila e Timoteo e a puntare sulla capitale greca, Atene. Qui stabilirà

due punti di attività missionaria: la sinagoga e l’agorà, cioè la pubblica piazza. Nell’Areòpago tenterà invece di agganciare direttamente gli uomini di cultura ellenistica, rappresentanti delle varie correnti filosofiche del tempo: gli epicurei, che esaltavano la cultura del piacere, e gli stoici, con la loro visione panteistica del mondo. Il suo discorso all’Aereòpago rappresenta l’esemplare dell’atteggiamento di apertura al “diverso”, che costruisce ponti con la cultura già presente, per poi diffondere l’annuncio del Cristo Risorto. Di fronte allo scetticismo di molti, la menzione finale di Dionigi e Damaris, che invece di irridere Paolo ne accolgono il messaggio, ci ricorda che l’impegno apostolico non è mai senza frutti. Dopo Atene, Paolo si sposta a Corinto (51 d.C.), la capitale dell’Acaia, dotata di due porti, sede

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di traffici internazionali ma anche di grande corruzione morale. Qui l’apostolo incontra una coppia di Ebrei, Aquila e Priscilla, espulsi da Roma in seguito all’editto antigiudaico dell’imperatore Claudio (49 d.C.). Paolo vivrà con loro, lavorando come tessitore di tende, memore dell’arte appresa in Cilicia. Il sabato, invece, svolgerà la sua attività missionaria, suscitando tra l’altro la conversione di Crispo, capo della sinagoga.Una visione conferma l’Apostolo nel suo impegno missionario a Corinto, che si prolunga per un anno e mezzo. Ma alcuni Giudei non sopportano la presenza concorrente di Paolo e inoltrano una causa presso il proconsole romano Lucio Giunio Gallione (fratello del filosofo Seneca), che governò la città di Corinto dal luglio 51 al giugno 52 (è un elemento cronologico importante per conoscere la vita di Paolo). L’accusa di illegalità viene considerata infondata ed è rigettata da Gallione. La soluzione positiva della vicenda giudiziaria permette all’apostolo di continuare il suo soggiorno a Corinto.Il ritorno ad Antiochia segna il termine del secondo viaggio missionario di Paolo. Sulla strada del rientro visiterà le comunità già fondate in precedenza. A margine si segnala il voto di nazireato (Nm 6) fatto da Paolo, comprendente l’astinenza da bevande inebrianti e il taglio dei capelli, voto sciolto a Corinto.

Il Terzo viaggio missionarioIl terzo viaggio vede Paolo ripercorrere le regioni della Galazia e della Frigia, «confermando nella fede tutti i discepoli». Arriva poi ad Efeso, capitale della provincia romana di Asia, uno dei centri più importanti dell’antico mondo greco-romano. Paolo vi giunge incontrandovi un gruppo di cristiani che non ha conosciuto ancora il dono dello Spirito e che ha ricevuto solamente il battesimo di Giovanni Battista. L’Apostolo li istruisce sulla superiorità della figura di Gesù, e si ripete anche su di loro l’effusione pentecostale dello Spirito. Paolo sosta almeno due anni a Efeso, tra il 52 e il 55 d.C., ed è qui che egli scrive la prima lettera ai Corinti, e probabilmente anche quella ai Galati e ai Filippesi. In questa città, piena di culti superstiziosi ed esoterici, Paolo

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conduce una vera e propria campagna contro la magia e molti del popolo spontaneamente distruggono i loro testi magici e gli amuleti. Il successo della predicazione cristiana genera la dura reazione dei mercanti del tempio della dea Artemide, che vedono fallire i loro affari. Paolo, costretto ad affrettare la partenza, riprende il suo viaggio missionario verso la Grecia, accompagnato da una delegazione, probabilmente gli incaricati della raccolta di aiuti per la Chiesa di Gerusalemme (2Cor 8).La sosta a Troade è accompagnata da un evento curioso: durante lo “spezzare del pane”, cioè la celebrazione eucaristica, l’Apostolo si dilunga nel parlare. Un ragazzo, un certo Eutico, seduto alla finestra, s’addormenta e precipita dal terzo piano. Paolo lo raccoglie e grida: “Non vi turbate, è ancora vivo!”, e lo restituisce sano alla comunità in festa.Il viaggio di Paolo tocca anche Mileto. È qui che egli saluta i responsabili della Chiesa di Efeso, da lui chiamati anche “vescovi” (At 20,28). L’apostolo dirigendosi verso Gerusalemme sente che sta per compiersi con questa scelta il suo destino di donazione totale, fino al martirio. Conscio della definitiva separazione esorta gli anziani ad assolvere con amore ai loro doveri di pastori a servizio della Chiesa di Dio. Il saluto commosso ai cristiani di Efeso chiude una pagina di grande intensità, come pure una tappa importante della vita di Paolo. Attraverso una navigazione diurna l’Apostolo salpa dall’isola di Cos per Rodi e di lì per Patara. Si trasferisce poi verso la Fenicia, per toccare i porti di Tiro e Cesarea, passando per Tolomaide. I cristiani delle varie Chiese sentendo che è l’ultima visita di Paolo cercano di trattenerlo, ma l’Apostolo è ormai deciso. A Cesarea accade un episodio carismatico: Agabo, pieno di spirito profetico, compie un gesto simbolico, legandosi piedi e mani con la cintura della veste di Paolo, a indicare il suo futuro destino di carcerato. La reazione di Paolo è affettuosa, ma irremovibile: egli, come Gesù, deve salire verso Gerusalemme. Paolo, dunque, giunge nella Città Santa e subito si reca in visita a Giacomo, riunito con gli altri apostoli e anziani. Essi lo avvisano che molti

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giudeo cristiani sono adirati contro di lui sulla base di false dicerie, secondo le quali egli inviterebbe gli Israeliti ad abbandonare la pratica della circoncisione e dell’osservanza della legge mosaica. Gli suggeriscono di partecipare con altri cristiani a riti di purificazione al Tempio, mostrando rispetto per queste tradizioni. Paolo accetta la proposta, ma

la folla, aizzata da alcuni Giudei dell’Asia, reagisce violentemente. Di fronte al tentativo di linciaggio, interviene l’esercito romano. Il comandante della guarnigione sottrae Paolo alla folla, e cerca di aprire un’istruttoria per appurare lo svolgersi dei fatti. Per non essere confuso con un sobillatore politico l’Apostolo racconta di fronte a tutti la storia della sua conversione: è interessante notare con quanta passione egli evochi la vicenda del suo ingresso nel cristianesimo e come faccia balenare l’orizzonte ultimo della sua missione, che è quello di varcare le frontiere della nazione giudea per approdare al mondo pagano. È proprio quest’ultima parte del discorso di Paolo a far scattare la reazione furiosa della folla. Infatti la ragione profonda dell’opposizione giudaica era proprio verso questa apertura ai gentili, che veniva vista come una contaminazione e una distruzione del patrimonio spirituale di Israele. Il comandante romano decide di condurre l’Apostolo nella Torre Antonia, sottoponendolo a un interrogatorio con tortura. È a questo punto che Paolo dichiara con orgoglio la sua cittadinanza romana: questa affermazione genera timore e sconcerto tra i soldati della guarnigione e in particolare nel tribuno che lo stava interrogando. Ora l’apostolo viene trattato con rispetto e soprattutto secondo un’istruttoria che segue le rigide norme del diritto romano. È dunque necessario un confronto con il Sinedrio. Qui Paolo per salvarsi, afferma

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con scaltrezza che la causa del suo arresto è la sua fede nella risurrezione, sostenuta dai farisei ma negata dai sadducei, corrente del sinedrio di matrice aristocratico-sacerdotale. L’assemblea si spacca e il dibattito degenera al punto tale che il tribuno è costretto a nascondere Paolo e a farlo riparare nella fortezza Antonia. In questa tempesta di eventi si profila, però, nella pace della notte, l’apparizione del Cristo Risorto, che dà coraggio all’apostolo e gli delinea la futura missione a Roma. La situzione, però, continua ad essere drammatica: un gruppo di Ebrei fanatici orchestra un complotto per eliminare Paolo, ma un giovane nipote dell’apostolo, figlio di sua sorella (è l’unica notizia sulla famiglia di Saulo), riesce a scoprire questa macchinazione. Il ragazzo incontra il tribuno Claudio Lisa che, informato della vicenda, fa scortare Paolo a Cesarea Marittima, la città costiera sede del governatore romano Felice. Qui sarà tenuto in prigione per due anni.Gli accusatori ebrei si presenteranno a Cesarea con una delegazione ufficiale, guidata dal sommo sacerdote Anania, sostenuta da un legale esperto in oratoria greca, Tertullo. Paolo è accusato di sedizione, un delitto cui l’autorità romana era particolarmente sensibile. L’imputazione, già ventilata in passato contro l’apostolo (At 17, 5-7), era stata alla base della denuncia di Gesù al tribunale romano (Lc 23,5). La delegazione giudaica conferma i capi di accusa di sedizione e profanazione del tempio da parte dell’imputato. Paolo con maggior sobrietà, ma anche con puntigliosità, ribatte alle accuse. Durante il breve soggiorno a Gerusalemme, motivato da ragioni spirituali, egli non ha mai avuto incontri pubblici né convocato assemblee popolari, tali da far sospettare intenzioni sediziose. La “Via” che egli segue (così è definita la religione cristiana) non è in contrasto con la fede biblica e si presenta come una scelta di alta moralità. Paolo poi contesta l’accusa di profanazione del tempio, svelandone la falsità e rievocando lo svolgimento dei fatti. In particolare ribadisce che la reazione violenta del tribunale giudaico è stata motivata da una questione religiosa, la disputa sulla risurrezione, che Paolo proclama come verità di fede. Più tardi

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il governatore Felice, incuriosito dalla figura e dal pensiero di Paolo, incontrerà il detenuto, interrogandolo sulla sua fede in Gesù Cristo. Le lentezze processuali faranno sì che Felice sia sostituito da un nuovo governatore, Porzio Festo. Sarà lui a riaprire l’azione giudiziaria, ferma ormai da più di due anni.

Paolo si appella a CesareGiunto a Gerusalemme in visita ufficiale, Festo subisce pressioni da parte delle autorità giudaiche per il trasferimento del processo contro Paolo nella città santa. Di fronte a questo rischio l’apostolo decide di giocare l’ultima carta possibile a un cittadino romano, l’appello al tribunale imperiale di Roma. Festo non può che prenderne atto: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai» (At 25,12). Proprio in quel momento giungono in visita dal governatore Erode Agrippa I, sovrano della Calcide, in Libano, e Berenice, sua bellissima sorella, con la quale convive in un’unione incestuosa. Festo coglie l’occasione per chiedere ad Agrippa un consiglio sulla stesura del rapporto da inviare con il detenuto a Roma per il processo d’appello presso il tribunale imperiale. Paolo, invitato a parlare, con un solenne discorso ripete ancora il racconto della sua conversione, trasformando così la sua autodifesa in una calorosa testimonianza della sua fede nel Cristo Risorto. Al termine del racconto Festo e Agrippa sono convinti che Paolo non è perseguibile penalmente e che potrebbe essere rimesso in libertà, se non avesse interposto appello presso il tribunale imperiale di Roma. È ora indispensabile eseguire il trasferimento nella capitale. L’operazione è affidata a un centurione romano che imbarca Paolo su una nave dal porto di Adramitto.

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Il viaggio verso RomaPrima tappa del viaggio è Sidone, sulla costa libanese. Il centurione tratta con benevolenza il detenuto e gli permette di incontrare i cristiani della città. La navigazione procede per Cipro, Mira, Cnido e Creta. Durante il percorso avvengono cambi di imbarcazione e rallentamenti di vario genere a causa delle difficili condizioni del mare. Paolo segnala i rischi della navigazione in quel periodo autunnale, tuttavia il comandante decide di proseguire. Ma, ecco scatenarsi un uragano: nel tumulto della scena emerge la figura di Paolo, la cui autorevolezza trascina tutti. Egli rassicura i passeggeri, cercando di convincerli che essi saranno tutti salvati proprio grazie al disegno che Dio ha su di lui. Egli, infatti, è chiamato a Roma per compiere un’opera divina: quella di testimoniare Cristo. Si oppone con fermezza alla fuga dei marinai, che avrebbe messo a repentaglio la vita dei passeggeri. La nave, sbattuta dalle onde, si incaglia in un banco di sabbia e subisce gravi lesioni. Con Paolo erano trasferiti anche prigionieri comuni, sotto scorta militare. La situazione poteva offrire l’occasione per una fuga a nuoto. I soldati, garanti della custodia dei prigionieri, decidono di ucciderli, pur di impedire la loro fuga. Ma il centurione li blocca per salvare Paolo, nei cui confronti nutre stima e rispetto. La tempesta ha fatto incagliare la nave presso l’isola di Malta. Qui avverranno dei fatti prodigiosi: Paolo è morso da un serpente, ma ne esce illeso; riesce poi a guarire il padre di un funzionario romano e tutti i malati che accorrono a lui. Questi miracoli sono il segno di una missione più alta: annunziare a ogni creatura la salvezza offerta da Dio in Cristo Gesù.

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Dopo aver passato l’inverno nell’isola la comitiva riprende la navigazione. Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli sono le tappe di avvicinamento alla capitale dell’Impero. A Pozzuoli si presentano ad accogliere Paolo alcuni cristiani, mentre i credenti romani gli vengono incontro al Foro Appio, a 65 chilometri dalla capitale. Giunto a Roma, Paolo è posto agli arresti domiciliari, sotto la custodia permanente di un soldato. L’Apostolo chiede subito di incontrare i capi della numerosa comunità giudaica romana. Ad essi presenta un articolato discorso su Gesù, il Messia atteso da tutte le Scritture. Di questo annunzio l’autore degli Atti ci offre solo un’indicazione sintetica e segnala la reazione dell’uditorio, che si divide in due parti: alcuni abbracciano la nuova fede, altri la respingono con veemenza. È a questo punto che Paolo cita un passo di Isaia (6, 9-11). Se alcuni chiudono il cuore davanti all’offerta del vangelo, la stessa Buona Novella deve essere proposta anche ai pagani, ai quali l’Apostolo inizia a rivolgersi.

La prigionia e il martirioLa prigionia di Paolo a Roma, secondo Atti 28, 30 dura due anni: Luca, però, non dà informazioni sull’esito del processo. Del martirio dell’apostolo parlerà Clemente Romano, in una lettera datata alla fine del I secolo. Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica affermerà che il martirio di Paolo è avvenuto nel 68 d.C. Se l’informazione è corretta, si deve pensare che Paolo, dopo i due anni di prigionia, sia tornato in libertà. Secondo alcune tradizioni si recò in Spagna (Rm 15,24). Rientrato a Roma, subì il processo e il martirio per decapitazione lungo la via Ostiense. Secondo la più antica tradizione il martirio avvenne alle Tre

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Fontane, appena fuori la città. Il corpo fu sepolto, per opera dei devoti cristiani, nel luogo dove più tardi sorgerà la maestosa basilica di S. Paolo fuori le mura. L’Apostolo perde così la sua vita per il Signore, ma conserva l’unica cosa a cui tiene: la fede in Lui. Così aveva scritto qualche tempo prima: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tim 4, 6).

La Teologia di PaoloAttraverso il racconto degli Atti e l’analisi delle sue 13 Lettere ci è possibile scoprire quale sia la struttura portante del messaggio annunciato dall’Apostolo. Con Paolo si può dire che la fede professata dai cristiani dei tempi apostolici comincia anche ad essere “pensata”. Con lui si muovono i primi passi della teologia, cioè quel “discorso su Dio” che la ragione – illuminata dall’esperienza della fede – cerca di fare per comprendere la verità divina.Paolo non è un teologo di professione, ma uno che ha fatto esperienza di Gesù Cristo prima sulla via di Damasco e poi in tutte le difficili strade del mondo dove

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lo Spirito lo ha sospinto. Di lui dirà san Girolamo che «non si preoccupa più di tanto delle parole, quando aveva messo al sicuro il significato». La sua non è quindi una esposizione accademica, ma un annuncio vitale del Cristo, il Figlio di Dio morto e risorto per la salvezza di ogni uomo. Le sue lettere spesso sono la risposta a problemi sorti in sua assenza nelle comunità cristiane da lui fondate. Tuttavia, sia pure da teologo occasionale, Paolo affronta e svolge i temi con una capacità di sintesi fino allora sconosciute. Attraverso la profondità del pensiero e lo splendido vigore della testimonianza, l’annuncio paolino costituisce senza dubbio alcuno un momento irripetibile nella storia dell’evangelizzazione.

Per grazia di Dio sono quello che sonoPaolo – «l’infimo tra tutti i santi» - sa di essere diventato ministro del Vangelo «per il dono della grazia di Dio», perché fosse annunciato anche ai pagani l’eterno «mistero, non manifestato agli uomini delle precedenti generazioni». Questo mistero è il progetto di salvezza realizzato da Dio nella storia che ha il suo compimento «in Cristo» (Ef 3, 11; Rm 8, 28), e la sua prosecuzione nella vita della Chiesa.Nel suo epistolario, il nome menzionato più spesso dopo quello di Dio (più di 500 volte) è quello di Cristo (380 volte). È chiarissimo che per Paolo il valore fondamentale e insostituibile è la fede in Cristo: «L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Gal 2, 16; Rom 3, 28). L’esperienza personale di Cristo come unico salvatore è divenuta vita della sua vita: «Questa vita che io vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).

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Paolo sa che gli «è stata concessa la grazia di annunciare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8).Nell’unico piano di salvezza concepito fin dall’eternità dalla sapienza amorevole del Padre, Cristo Gesù – morto e risorto – detiene l’assoluto primato e la centralità. Egli è il principio unificante e vivificante (Col 1, 17), dal quale scaturisce ogni realtà creata; con Lui il tempo raggiunge la sua pienezza (Gal 4,4); «in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 8); Gesù glorioso ha ricevuto il nome che «sta sopra tutti i nomi» (Fil 2,9) e tutto in Lui sarà ricapitolato alla fine dei tempi (Ef 1,10). Lo stesso Gesù preesiste dall’eternità: partecipa all’opera della creazione divina che trae dal nulla ogni creatura, terrestre e cosmica; di esse è l’unico Signore, «in tutto il primeggiante» (Col 1, 18). L’universo intero e tutta la vicenda degli uomini trovano in Lui origine, modello e scopo del loro esistere; da Lui dipende il loro permanere nell’esistenza: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1,15-17). In Lui ogni realtà è stata riconciliata al Padre (Col 1,20), per opera sua «abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1, 14; Gal 3, 13).

Crocifisso e RisortoPaolo non descrive i misteri della vita nascosta di Gesù a Nazareth, né quelli della predicazione e dei segni miracolosi della vita pubblica; concentra il messaggio cristiano sul Signore Gesù Crocifisso e Risorto, le due facce dell’identica medaglia: «Egli è morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione» (Rom 4, 25).Croce e risurrezione rappresentano la logica seguita dalla vita di Gesù: l’annientamento del Dio glorioso, che si fa uomo, obbediente fino alla morte, e l’esaltazione del “Signore” al di sopra di ogni realtà creata (Fil 2, 6-11). Al cristiano il compito di corrispondere a questo evento salvifico: «L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5, 14).

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La sapienza della CroceIl mistero della croce, condensa tutto il sapere di Paolo su Cristo: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2).Numerose sono le espressioni che evidenziano il valore salvifico della croce: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15, 3) e «colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato a nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5, 21). Ma Paolo, con dolore, constaterà che «molti…si comportano come nemici della croce» (Fil 3, 18).Ed è mistero che non va taciuto: «Mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,22; Gal 5,11).La croce dalla quale Cristo non scende è, infatti, la più chiara forma di rivelazione dell’amore di Dio, prima ancora che strumento doloroso di redenzione. È questa «morte del Signore» che viene annunciata ogni volta che, nella celebrazione eucaristica, si mangia il Corpo dato e si beve il calice del Sangue della nuova alleanza (1Cor 11, 23). «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti» (2Cor 5, 14); «Dio dimostra il suo

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amore per noi, perchè mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8). «Quanto a me, invece, non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifi sso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).

Il Signore è Risorto!Insieme alla morte redentrice Paolo annuncia con forza e con gioia anche la risurrezione del Signore. La presenta come una verità sperimentata nella tradizione apostolica e documentata da innumerevoli testimonianze da lui puntigliosamente elencate (1 Cor 15, 3). È l’avvenimento che qualifi ca la nuova religione cristiana, che Paolo non può tacere, anche sopportando il ridicolo da parte di rappresentanti della sapienza pagana (At 17, 31s). Paolo annuncia Gesù come «il primogenito dei risorti» (Col 1, 18), come l’unico che ha sconfi tto defi nitivamente la morte: «Cristo risuscitato dai morti non muore più, la morte non ha più potere su di lui» (Rom 6, 9).Quella di Cristo è anche la vittoria di tutta la famiglia umana sulla sua “ultima nemica”, la morte (1Cor 15, 26). E, con la consueta incisività, ricorda che senza Cristo crocifi sso e risorto, nessun uomo riuscirebbe a scampare dalla colpa e dalla morte: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti» (1Cor 15, 17). Senza di Lui – a tutti necessario – non c’è che l’assurdità e il venir meno di tutte le speranze. Ma Gesù di Nazareth è veramente risorto e, ovunque si trovi, tutto ciò che è vero, giusto e bello, da Lui proviene e di Lui è partecipe.

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Il ritorno del SignoreDel ritorno di Cristo, giudice e Signore, Paolo parla già nelle due lettere ai Tessalonicesi, le prime da lui scritte da Corinto nell’inverno del 50-51 d. C.. E lo fa nei termini e con le immagini della tradizione apocalittica giudaica e del cristianesimo primitivo, insistendo per un verso sulla imminenza imprevedibile di questa venuta, al punto da dare l’impressione che egli e i lettori la vedranno nella loro vita (1Tes 4, 17) e quindi richiedendo più che mai la massima vigilanza nella perseveranza e sobrietà (1Tes 5, 1; Ef 5, 15); per altro verso (2Tes 2, 1-12), calmando i suoi fedeli agitati da tale prospettiva, confusi da discorsi e scritti allarmanti, tentati di «vivere disordinatamente e senza far nulla» (2Tes 3, 12).Tra i segni riconoscibili che precederanno il ritorno del Signore, alla fine dei tempi, parla della apostasia di coloro che si lasciano distogliere dall’amore alla verità della fede (1Tim 4, 1: 2Tim 3, 1). Sarà provocata da un personaggio che si presenta come il grande nemico di Dio: è «l’uomo dell’empietà», «il figlio della perdizione», «l’avversario» (chiamato «Anticristo» in Gv 2, 18; 4, 3; 2Gv 7). Esso è lo strumento di satana, che già opera nel «mistero dell’iniquità» (2Tes 2,7), il male. L’ostacolo «che impedisce adesso la sua manifestazione» (2Tes 2,6), è la predicazione del vangelo.Cristo risorto «verrà a giudicare i vivi e i morti» (2Tim 4,1), ritornerà «un giorno a giudicare la terra con giustizia» (At 17, 31), dice Paolo agli Ateniesi. Ai Romani e ai Corinti ricorda che «ciascuno renderà conto a Dio di se stesso» (Rom 14, 12; 2Cor 5, 10), a secondo di come avrà costruito sul «fondamento … che è Gesù Cristo» (1Cor 3, 11).

Creature nuove«Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5, 17). L’avvenimento di Cristo, Nuovo Adamo, morto e risorto, attua la ri-creazione dell’uomo, che già era stato creato in Cristo e poi era stato coinvolto nella caduta del vecchio Adamo. Con Cristo e il suo Spirito, l’uomo antico che è “terrestre”, provenendo dalla terra, lascia il posto ad una «nuova umanità» (Ef 2, 15), che è “spirituale”,

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perché viene dal cielo ed è capace di partecipare alla stessa vita trinitaria di Dio (Rom 5,12-21; 1Cor 15, 45-50). «Ciò che conta è l’essere nuova creatura» (Gal 6,15).In questo contesto precisiamo il significato che hanno per Paolo alcuni suoi termini fondamentali:Carne (sarx) assume un significato negativo: sta ad indicare l’ uomo in quanto debole e incline al male; è l’area del male che si annida nelle coscienze, è la sorgente oscura e deleteria che insidia irrimediabilmente il bene.

Il Peccato (hamartía) è quasi sempre inteso come il male compiuto da noi, che incrementa la “carne” e si manifesta nelle azioni inique, fino a quelle dettate dalla ragione impazzita e contro natura. Per questo, i pagani ed ebrei sono in balia di sè stessi e delle loro infamie (Rom 1, 24; Gal 5, 9; Ef 4, 17);

la Legge (nómos) è da osservare in quanto dono di Dio; essa segnala il peccato alla coscienza dell’uomo. È però incapace di salvare l’uomo, senza l’intervento della grazia che viene dall’alto.

La Grazia (cháris) è l’amore di Dio, «che si fa trovare anche da quelli che non lo cercano» (Rom 10, 20). «Quando ancora eravamo peccatori» (Rom 5,6), Cristo riscatta l’uomo con il suo sangue, liberandolo dal peccato e dalla schiavitù della Legge.

La Fede (pístis) rappresenta la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio, accogliendo la salvezza offerta: «L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per la fede in Gesù Cristo» (Gal 2, 16).

Lo Spirito (pnéuma), infuso nel cuore di chi ha accolto con fede la grazia divina, è lo stesso respiro, la stessa vita di Dio: «Lo Spirito di Dio abita in noi,…risiede in noi» (Rom 8, 9).Ma in Paolo, lo Spirito non è più soltanto lo “Spirito di Dio “, che crea il mondo e fa dell’uomo la sua immagine e somiglianza (Gn 1, 2). Invece lo “Spirito di Cristo” (Rom 8, 1), lo “Spirito del Figlio” (Gal 4, 6), è lo “Spirito vivificante” (1Cor 15, 45) del Crocifisso Risorto, che ci rende non soltanto “immagine”, ma “figli” di Dio.Lo Spirito di Cristo costituisce il fermento che trasforma

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il “vecchio uomo” in figlio di Dio: «Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio… Avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!... Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi» (Rom 8, 14; Gal 4, 4). Senza di Esso, non ci sarebbe vera preghiera: «Nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Sempre desto nella parte più segreta del nostro essere, lo Spirito supplisce alle nostre carenze e offre al Padre l’adorazione a Lui dovuta, insieme alle nostre aspirazioni più profonde: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare; ma lo Spirito stesso intercede per noi con insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rom 8, 26).

La Giustificazione (dikaiosýne) è il frutto di tutta la vicenda redentiva: dalla universale e irrimediabile condizione di ignoranza e corruzione in cui versava l’umanità decaduta, la grazia di Dio misericordioso, con l’effusione dello Spirito di Cristo morto e risorto, ci ha resi giusti, “creatura nuova”. In una misura che va oltre ogni attesa: «Laddove il peccato è abbondato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom 5, 20).Essa è una rinascita di tutto l’essere, una santificazione che conferisce all’uomo un nuovo statuto interiore, da cui le opere giuste fluiranno come frutto della salvezza ricevuta: «Secondo la verità che è in Gesù, dovete deporre l’uomo vecchio… Dovete rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 21-24; Col 3, 9).

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Tale rinascita è visibilmente espressa dal rito efficace del battesimo: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 26). L’immersione nell’acqua del fonte seppellisce il peccatore nella morte di Cristo (Col 2, 12), da dove esce mediante la risurrezione con Lui (Rom 6, 2). È così divenuto creatura nuova e purificata (Ef 5, 26) «nel lavacro di rigenerazione» (Tito 3,5) e da Cristo illuminata (Ef 4, 14).La “Cristificazione” è il frutto della salvezza e del battesimo. Esso comporta una mutua compenetrazione tra Cristo e il cristiano, una intima immedesimazione di noi con Cristo e di Cristo con noi. È tipico soprattutto di Paolo affermare che i cristiani sono “in Cristo Gesù”. L’essere “di, in, con, per” Cristo fu innanzitutto la personale esperienza di Paolo, fin dall’incontro sulla via di Damasco: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21), «Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). E questo è vero anche per ogni credente battezzato: «Quelli che sono in Cristo Gesù» (Rom 8, 1; 1Cor 15, 23). Cristo diventa il soggetto più profondo di tutte le azioni vitali del cristiano, che “appartiene” ormai a Cristo, perché «ha lo Spirito di Cristo» (Rom 8, 9). Il rapporto del cristiano con Cristo, del quale porta il nome, non è dunque parziale e di superficie: «In Lui vivete, radicati ed edificati in Lui» (Col 2,6; Ef 3,18). È Lui la pietra angolare che dà a tutta la costruzione ecclesiale solidità e consistenza (Ef 2, 20). Nessun istante o azione è concepibile al di fuori di Lui: «Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore: Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore» (Rom 14, 8).Già dal momento della creazione l’uomo è destinato da Dio ad essere conforme all’immagine del Figlio suo (Col 1,15). Ora, con la fede e il battesimo, il cristiano è con-crocifisso e con-risuscitato (Rom 6, 3; Col 2,12), con Lui soffre e regnerà nella gloria (Rom 6,5; Fil 3, 10).

Il corpo nella visione paolina non è né neutro né negativo, come riteneva una certa cultura greca. Insieme allo spirito compone l’uomo come immagine di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito

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Santo?...Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6, 19). La corporeità trova nella sessualità un mezzo per esprimersi e comunicare, sempre in una significativa parità di diritti fra uomo e donna, anche se molte espressioni paoline risentono delle culture maschiliste giudaica e greca (Ef 5, 22). Per Paolo, il matrimonio non solo è legittimo, ma è «grande mistero», perché nell’unione dei coniugi si attua il mistero salvifico dell’amore di Cristo, capo e sposo, per la Chiesa, suo corpo e sposa (Ef 5, 21-33).La verginità, per chi è chiamato a questa esperienza, è un segno

provocatorio che anticipa lo stato finale e definitivo dell’umanità risorta (che sarà «senza mogli né mariti»: Mt 22, 20) e che testimonia una libera e totale dedizione a Cristo e al servizio del prossimo: ideale di carità cui deve tendere anche la condizione degli sposati (1Cor 7, 29).

Un tesoro in vasi di cretaLa tensione morale della vita cristiana tra la carne e lo Spirito (Rom 5,5; 7,5) è pure argomento rilevante nel vangelo di Paolo. Finchè si trova in questo mondo, il cristiano vive simultaneamente in una duplice condizione: quella temporanea, propria della realtà mondana, «visibile e provvisoria», e per la quale «l’uomo esteriore» è sottoposto all’usura del tempo, come tutte le cose; e quella propria della grazia, «invisibile ed eterna», per la quale «l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16).Fino a quando il corpo del credente battezzato non abbia «rivestito l’immortalità» (1Cor 15, 54), il peccato può ancora trovare nel corpo «mortale» il mezzo per continuare a nuocere. Paolo stesso non esita a confessare la drammatica lacerazione da lui personalmente avvertita: «Trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare

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il bene, il male si insedia accanto a me» (Rom 7, 21). Così come lo richiamerà ai Galati: «La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5, 17).Si rende allora nuovamente decisivo l’irrompere dell’azione della grazia: «Me sventurato, chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». La risposta è una sola: «Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 7, 24). Se è vero che già rifulge nei nostri cuori quella gloria di Dio che rifulge sul volto di Cristo, è pure vero che «noi portiamo questo tesoro nei vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4, 6). E tuttavia è proprio «quando sono debole, che sono forte» (2Cor 12, 10); alla preghiera che lo liberasse dalla «spina della carne», il Signore aveva risposto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 7-9). Infatti, «la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1, 25).Per resistere al male ed essere capaci di bene, non resta che vivere nell’obbedienza allo Spirito: «Camminate secondo lo Spirito» (Gal 5, 16). Chi si lascia guidare dallo Spirito ne raccoglie anche i frutti: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 21; Rom 6, 15; 8, 24; Fil 1, 9).In questa battaglia per la conquista della vera libertà bisogna «attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza» (Ef 6,10; cf Ef 3, 20; Gal 3,5; Col 1, 29; Fil 2. 13); «Tutto posso in Colui che è la mia forza» (Fil 4, 13). «Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 9-11).La tensione morale che caratterizza la condizione del cristiano è sovente da lui rappresentata come un «camminare in una vita nuova» (Rom 6, 4; Gal 5, 16), una navigazione (2Tim 4,6), un combattimento spirituale con armi adeguate ad una «buona battaglia» (2Tim 4,7; 1Tim 1,18), una gara sportiva: corsa (Fil 3, 12; Gal 5, 7) o incontro di pugilato (1Cor 9, 26).

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L’obbedienza della fedeLa fede è la risposta totale che la libertà umana dà a Dio. Abramo è «il padre di tutti i credenti» (Rom 8, 11) e Paolo ne tesse l’elogio (Rom 4, 16). Insieme al battesimo la fede è l’unica causa di giustificazione (Rom 3 - 6; Gal 3).La conoscenza di fede deve diventare “sapienza” (Ef 1, 17), crescendo nell’età (1Cor 13, 11), fino alla visione perfetta (Cor 13, 12). Da quella nuova creatura che è il cristiano, scaturisce un nuovo principio di conoscenza: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16), «Siamo in Cristo Gesù, che per noi è sapienza» (1Cor 1,30). Ai Corinti Paolo insegna che esistono due sapienze ben diverse: quella del mondo e quella del cristiano (1Cor 1, 17; 2, 16). «La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio», è «vana» (1Cor 3, 19, Ef 5, 6) e Dio la disperde e l’annienta (1Cor 1, 19); non può che ritenere follia la parola della croce (1Cor 1, 18) e non arriva a conoscere Dio, se rimane chiusa nella sua orgogliosa autosufficienza (1Cor 1, 20). È questa infatti la sapienza dell’uomo naturale, che si attiene unicamente alle risorse della sua natura.La sapienza del cristiano, invece, proviene dallo Spirito di Dio (1Cor 2, 10); è pienamente presente in Cristo nel quale si possono trovare «tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3); con il dono di questa nuova sapienza, l’uomo “spirituale” può conoscere i profondi segreti di Dio (1Cor 2, 10), i tesori «che Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2, 9).Per un verso, l’apostolo esorta a discernere e ad accogliere tutti i valori etici universali: «Tutto ciò che c’è di vero, nobile, giusto, puro, amabile, lodevole, virtuoso e onorato, sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8); «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Tes 5, 21). Nessun momento o attività è estraneo alla radicale novità del credente: «Sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui» (1Tes 5, 10) e «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rom 4, 7s).Per altro verso, traccia la linea di demarcazione tra il bene e ciò che non lo è: «Astenetevi da ogni specie di male» (1Tes 5, 21). E mette in guardia dal rischio di lasciarsi contaminare da categorie ideologiche: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma

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trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12, 1); «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia, con i vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2, 8); «Non lasciatevi legare al giogo degli infedeli: Quale rapporto tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre?...» (2Cor 6, 14).

La speranza che non deludeLa buona speranza è la virtù che rinnova la volontà e rafforza il desiderio di felicità nella vita eterna. Diversa dalle piccole speranze in beni immediati e dalle astratte utopie, non consente facili ottimismi o amari pessimismi.Essa trova solido fondamento in Cristo, morto e risorto: «Cristo Gesù, nostra speranza» (1Tim 1, 1); «Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo,…che ci ha dato una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene» (2Tes 2, 16). E, perché gli inquieti Tessalonicesi non si affliggessero «come gli altri che non hanno speranza» (1Tes 4, 13), li conferma nella fede in Cristo morto e risuscitato, che radunerà insieme con Lui, sia quelli «sopravvissuti sino alla venuta del Signore», sia «quanti si sono assopiti nella morte» (1 Tes 4, 13-18). «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3, 20).Noi cristiani dunque, scrive ai Romani, «teniamo viva la nostra speranza», affidandoci al «Dio della perseveranza e della consolazione» (Rom 15,4; 2 Cor 1, 2); una consolazione che in noi abbonda per mezzo di Cristo (2Cor 1, 4) e con il «conforto dello Spirito Santo» (At 9, 31); il quale ci rende capaci di darne anche agli altri (1Tes 4, 18). Lo Spirito è una generosa caparra che Dio ci ha dato come anticipo e insieme come garanzia della nostra eredità futura (2Cor 1, 22; 5, 5; Ef 1, 13). Il cristiano protende tutto il suo sguardo sul futuro ritorno del Signore, ma deve guardarsi dalla pigrizia e dal disimpegno che distraggono dalle responsabilità storiche. L’attesa cristiana è vigilante nell’operosità: «Si, voi tutti siete figli della luce e figli

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del giorno…perciò non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente, …mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo che è speranza della salvezza» (1Tes 5, 5-8). È una speranza sorretta dalla incrollabile certezza che Dio ci vuole salvare in Cristo:«Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom 8,31). Nulla e nessuno «ci potrà mai separare dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8, 32-39). Con la speranza di chi cammina tra un “già compiuto” e un “non ancora”, il cristiano rivive così il mistero pasquale di Cristo: «Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 1). Il mondo di quaggiù è l’«uomo vecchio», il «peccato», che il cristiano ha sepolto nel fonte battesimale. Il mondo di lassù, invece, è l’ «uomo nuovo», è il mistero di Cristo stesso, un tesoro che è già in noi, anche se in vasi fragili, e si manifesterà soltanto alla fine dei tempi, quando Cristo sarà «tutto in tutti» (Col 3, 11).

L’Inno all’ AmoreLa carità, è la virtù più grande con la quale lo Spirito rinnova la facoltà di amare, rinvigorendola e assimilandola sempre allo stesso amore che Cristo ha per il Padre e per il prossimo. Non è riducibile alle opere di elemosina o ai buoni sentimenti del filantropo, tanto meno l’amore cristiano è assimilabile all’erotismo.

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Proviene, tramite lo Spirito di Cristo, dalla «grazia, misericordia e pace» (1Tim 1, 2) di Dio Padre: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5, 5). Il segno più chiaro e lo strumento più efficace di tale carità (agàpe) è la Croce: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rom 8, 32). Lo Spirito ci rende personalmente partecipi dei rapporti che intercorrono tra il Padre e il Figlio. E chi è “fervente nello Spirito” non renderà “a nessuno male per male” (Rom 12, 11).Lo Spirito di Dio-Amore dimora in noi fin dal battesimo (1Cor 2, 16; Rom 5,5) e ricevendo l’Eucaristia diventiamo sempre più un solo pane, un solo corpo (1Cor 10,17); si riceverebbe la propria condanna, se si partecipasse alla Cena del Signore con in cuore la divisione tra fratelli e con l’indifferenza per i loro bisogni (1Cor 11, 17-34).Il primo frutto dello Spirito è l’amore (Gal 5, 22) ed è generatore di comunione all’interno della comunità cristiana (2Cor 13, 13). L’unico Spirito dona a ciascuno i carismi e ministeri diversi, ma sempre per l’utilità comune delle membra di uno stesso corpo, quello di Cristo (1Cor 12).Proprio trattando dei doni distribuiti liberamente dallo Spirito, Paolo compone il celeberrimo inno alla carità (1Cor 13, 1-13). Con la forza dolce della sua prosa ritmata, l’apostolo mette in luce in primo luogo il primato detenuto dalla carità sulla cultura e sugli stessi miracoli o sull’eroismo di chi sacrifica la vita del corpo; tutto ciò, senza l’amore, è decisamente nulla, solo un vano spettacolo.In secondo luogo l’inno elenca le opere che della carità sono frutto e segno, le qualità che accompagnano l’amore

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autentico: apertura di cuore, bontà, umiltà, disinteresse, rispetto, perdono, pazienza; capacità di valorizzare l’altro e di infondere fiducia, di sopportazione dell’altro. Da ultimo Paolo assicura che «la carità non avrà mai fine», mentre le altre virtù svaniranno con la raggiunta conoscenza perfetta, «faccia a faccia», di Dio.Parlando della carità Paolo usa il termine “agàpe” e non quello di “eros”. Soprattutto a partire dalla cultura illuminista, si suole contrapporre il primo al secondo: “Agàpe” indicherebbe l’amore gratuito e offerto dall’alto, con il quale Dio ama l’uomo, la dedizione all’altro totalmente disinteressata e sofferta; “Eros” indicherebbe il desiderio bramoso e possessivo, teso alla propria esclusiva soddisfazione. In realtà “Eros” e “agàpe”, l’amore ascendente e quello discendente, non sono mai completamente scindibili. L’eros umano, all’inizio prevalentemente possessivo, se accoglie l’agàpe di Dio, è aiutato a purificarsi, divenendo sempre più cura dell’altro, vita vissuta per l’altro. Fino all’estasi mistica nell’incontro con Dio, soltanto nel quale il cuore umano può trovare pace piena e definitiva: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6, 17).L’amore del cristiano è dunque la forma e costituisce il valore di ogni virtù, senza il quale ogni bene cessa di essere tale (1Cor 13, 1-3). E ogni membro della Chiesa è chiamato a «ricevere forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4, 15). Da qui le insistenti esortazioni dell’Apostolo: «Ricercate la carità» (1Cor 14, 1), «Vivete in pace tra voi…non spegnete lo Spirito» (1Tes 5, 12), «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno» (Rom 12, 10), «Perdonatevi scambievolmente. Come il Signore ci ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3, 13).

La Chiesa: Corpo di CristoLa Chiesa per Paolo è la modalità che Cristo ha scelto per proseguire, dopo Pentecoste, la sua opera di Redentore nel tempo e nello spazio; è l’organismo vitale in cui lo Spirito inserisce e fa crescere l’uomo nuovo; di norma, è la testimonianza dei credenti a suscitare l’interesse su Gesù, per accoglierlo o rifiutarlo.

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Nell’esperienza personale di Paolo, il tema della Chiesa è posto addirittura a partire dalla sua conversione, quando la voce del Risorto identifica con se stesso i cristiani che Saulo va a perseguitare a Damasco (At 9); e a quella comunità ecclesiale rimanda, perché sia iniziato alla nuova vita ricolmata dallo Spirito (At 9, 10-19; 22, 10-16). Tutto l’insegnamento seguente confermerà la persuasione di come sia impossibile ormai separare Cristo Risorto dalla sua Chiesa, dove è presente e continua ad agire «l’uomo Cristo Gesù, il solo mediatore tra Dio e gli uomini» (1Tim 2,5); Nelle “Grandi Lettere” (Galati, Corinzi, Romani), le due immagini principali preferite da Paolo per illustrare «questo mistero grande, in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (Ef 5, 31) sono quella del corpo e quella della sposa, mai adeguatamente distinti, essendo anch’essi «non più due, ma una sola carne» (Gn 2, 24).Nella sua identità più profonda, la Chiesa è il “nuovo” Corpo di Cristo, suo Capo (1Cor 6; Rom 12; Ef 1). Lo Spirito ci rende “con-corporali” a Cristo (Ef 3, 6). Nei corpi dei cristiani abita lo stesso Spirito che ha risuscitato il corpo di Cristo (Rom 1,4; 8, 9); a cominciare dal battesimo, ricevuto «in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12, 13). La radice più profonda di tale sorprendente designazione è il Sacramento del suo Corpo, l’Eucaristia, dove Cristo ci dà il suo Corpo e ci rende suo Corpo: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo» (1Cor 10, 17); mangiare la cena del Signore è mettersi «in comunione con il corpo e il sangue di Cristo» (1Cor 10, 16s). I nostri stessi corpi non vanno profanati, perché «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1Cor 6, 15). Di questo Corpo del Risorto, personificato nella Chiesa, Cristo è il Capo, fonte e garanzia di unità e maturazione dei suoi membri, «al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4, 12), «cercando di crescere in ogni cosa verso di Lui, che è il capo, Cristo» (v. 15). Egli, infatti, è «costituito in tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1, 22; Col 1, 18). Ed è proprio come Capo della Chiesa, che Cristo Signore va realizzando la sua Signoria anche su tutto l’universo (Ef 1, 23; Col 1, 19).

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Tutti uniti, a servizio di tuttiLa comunione di vita con il Capo che è Cristo è comunione con tutti coloro che la fede e il battesimo hanno, in virtù del suo Spirito, incorporato a Cristo: «Noi tutti siamo un solo corpo in Cristo, siamo membri gli uni degli altri» (Rom 12,5; Ef 4, 25). Perciò nella esperienza di Chiesa già si attua il passaggio, dalla dispersione e dalla frammentazione, all’unità e all’armonia tra tutti: «Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né maschio né femmina: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Non è un’unità uniformante, perché lo stesso Spirito del Padre e del Figlio, con libertà e fantasia, ha distribuito a ciascuno diversi carismi e ministeri nei quali l’unico Spirito «opera tutto in tutti » e «per l’utilità comune» (1Cor 12,4; Ef 4, 4). È importante che i carismi non diventino motivo di lacerazione: «È forse diviso il Cristo?» (1Cor 1, 13). Paolo insegna che è necessario «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace: un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati» (Ef 4, 3).

La Chiesa degli apostoliGià ai tempi di Paolo, l’unica Chiesa vive nelle Chiese locali, in regioni tra loro lontane e con caratteristiche diverse. Al loro interno emergono già i primi elementi di organicità: con gli “apostoli” collaborano i “vescovi” (chiamati anche “presbiteri, anziani”), incaricati di

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vigilare e assistere le comunità dei “santi, battezzati” (Fil 1,1; Tito 1,5), assistiti dai “diaconi” (Fil 1,1; 1Tim 3, 1). Per quanto riguarda la già emergente funzione autoritativa di Pietro nella Chiesa apostolica, anche Paolo gli riconosce una posizione speciale: a tre anni dalla conversione, va «a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me» (Gal 1,17); e dopo tre anni ci ritorna, «per consultare Cefa» (v. 18). Nella Chiesa madre, insieme a Giacomo fratello di Gesù e Giovanni figlio di Zebedeo, Pietro costituiva allora le «colonne». Con loro, dopo 14 anni (attorno al 49 d.C.), Paolo concorda la decisione che riconosce la sua missione ai pagani non circoncisi, «per non trovarmi nel rischio di correre o di avere corso invano» (Gal 2, 1-10).Esponendo ai Corinti il credo predicato da lui, riconosce a Pietro il privilegio di essere stato il primo dei Dodici ad aver visto il Risorto (1Cor 15, 3-5).Tutto ciò non impedirà a Paolo di «opporsi a viso aperto, perché Pietro era evidentemente nel torto» (Gal 2,11) nella fiera disputa di Antiochia circa la condivisione della mensa fra cristiani provenienti dall’ebraismo e dal paganesimo (Gal 2, 11). Del resto, Paolo – apostolo per vocazione – non mancherà di ritenersi uguale agli altri apostoli (1Cor 9, 5; Gal 2, 6-9), ai quali ricorderà di non dovere a loro il suo vangelo. Anche a lui - «l’infimo degli apostoli» (1Cor 15, 9) – è stata infatti affidata la missione di essere testimone del Risorto (At 26, 16).

La Chiesa: Sposa di CristoL’altra immagine, privilegiata da Paolo per descrivere il mistero di Cristo ormai inseparabile dalla sua Chiesa, è quella nuziale: la Chiesa è la sposa bella e fedele di Cristo sposo, che per lei dà continuamente tutto se stesso.

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Il tema dell’alleanza nuziale per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo che Egli si è scelto ricorre già in tutto l’Antico Testamento. Di questo patto Paolo rimarcherà la fedeltà assoluta di Dio: «Anche se noi manchiamo di fedeltà, egli però rimane fedele» (2Tim 2, 13). Altrettanto presente, nelle Scritture del Nuovo Testamento, il tema di Cristo sposo, soprattutto nelle parabole del Regno. Nessuna meraviglia, dunque, che anche Paolo ricorra all’immagine sponsale per illustrare il rapporto tra Cristo e la comunità cristiana: «Provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11, 2).Su questo tema, il testo più citato è quello di Ef 5, 21-33. L’apostolo sta dando agli sposi consigli di reciproca sottomissione, indicando come esempio l’amore che Cristo ha per la Chiesa e viceversa. Il «mistero» che la famiglia vive in modo «sacramentale» tra le mura domestiche, è lo stesso che è vissuto in tutta la realtà ecclesiale: «Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (v. 32). E l’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa è riconoscibile da ciò che l’Uno compie per l’Altra. Cristo dona tutto se stesso per lei - sua carne -, purificandola e santificandola con il lavacro battesimale e la Parola, amandola come il proprio corpo, da lui nutrito (Eucaristia, banchetto nuziale) e curata (sotto la guida del Buon Pastore). La Chiesa - resa tutta gloriosa e senza macchia - lo riama con la sottomissione libera e grata, come le membra di un corpo rispetto la loro testa. Un mistero, quello ecclesiale, che Paolo vede significativamente già adombrato nel rapporto uomo-donna, Adamo-Eva, figure di Cristo nuovo Adamo e della Chiesa nuova Eva, «che formeranno una carne sola» (Gn 2, 24).Le immagini del corpo e della sposa mettono in gioco il mistero del rapporto di comunione: quello verticale, tra Gesù Cristo e tutti noi; ma anche quello orizzontale, tra tutti coloro che si distinguono nel mondo per il fatto di «invocare il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1, 2). E Paolo ricorda ai Corinti che la loro unità sarebbe la testimonianza più efficace per i non cristiani che proclamerebbero «che veramente Dio è fra noi» (1Cor 14, 24).

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La Chiesa non svolge unicamente una funzione passiva: essa esercita attivamente la funzione di Madre. È la “nuova Eva”, che - insieme allo Sposo “nuovo Adamo” genera e dilata la comunità cristiana, divenendo anch’essa in qualche modo salvante, diffusiva della vita nuova.La funzione attiva della maternità della Chiesa è evidente nel ministero della riconciliazione: «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5, 18).«Noi siamo i collaboratori di Dio» (1Cor 3, 9), «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (4,1). E questa collaborazione è vissuta da Paolo come partecipazione paterna/materna alla fecondità della potenza dello Spirito: «Miei figli diletti, anche se aveste migliaia di precettori in Cristo, non avete però molti padri, perché nel Cristo Gesù per mezzo del Vangelo io vi ho generato» (1Cor 4,15).«Miei figli, per i quali soffro di nuovo i dolori del parto, fino a quando il Cristo sia formato in voi» (Gal 4, 19).

La salvezza aperta ai paganiSe «nel mistero nascosto da secoli» (Col 1, 26), l’unica e necessaria salvezza viene soltanto da Cristo è possibile salvarsi oltre i confini visibili istituzionali della Chiesa?Va premesso qualche certezza paolina: il Padre «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tim 2,4); solo Dio può giudicare le coscienze di chi ignora il vangelo senza colpa e cerca sinceramente la verità. Nessuno mai è stato ed è totalmente estraneo all’azione dello Spirito di Cristo, del quale ogni uomo creato è sempre - lo sappia o meno - immagine palpitante, anche se appena abbozzata e sfigurata dal peccato. La frase di sant’Agostino «Signore, ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in Te» vale per ogni uomo che si affaccia all’esistenza su questa Terra.Tutta l’opera di evangelizzazione di Paolo, rivolta specificamente ai pagani, è testimonianza della premura che tutta la Chiesa deve avere nell’annunciare anche ad essi ciò a cui naturalmente aspirano - conformarsi a Cristo, a immagine del quale sono stati creati. Per poter credere in Cristo gli uomini hanno bisogno che

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qualcuno faccia loro dono del Vangelo: «Come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rom 10, 13). Questo annuncio di salvezza Paolo vuol trasmetterlo anche ai suoi fratelli Ebrei: «Il desiderio del mio cuore e la mia

preghiera sale a Dio per la loro salvezza» (Rom 10,4). Paolo constata che «l’indurimento» del cuore «di una parte di essi » (Rom 11, 25) ha coinciso con l’annuncio ai pagani: alcuni rami della «santa radice» d’Israele sono stati tagliati e al loro posto sono stati innestati i pagani (Rom 11, 16). Ma verrà tempo in cui gli israeliti «potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo buono» (v. 24). Infatti, «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (v. 29). Davvero «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (v. 32).

Testimoni del Risorto«Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 15). Così Anania precisa a Paolo la sua nuova vocazione, richiamandolo all’esperienza dell’incontro fatto sulla via di Damasco (At 22, 14). A questa esperienza di incontro diretto con Cristo risorto, Paolo farà riferimento ogni volta che sarà costretto a legittimare il suo lavoro di apostolo.Come testimone, Paolo ha ben presente di essere strumento di cui un Altro si è voluto servire. Il suo annuncio evangelico «non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con lo Spirito Santo» (1Tes 1, 5); «Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Tes 2, 13). Egli insegna

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e scongiura in nome di Altro da sé: «Vi esorto,

o fratelli, in nome della misericordia di Dio» (Rom 12, 1), o «in nome di nostro Signore Gesù Cristo» (1Cor 1, 10). «La sua presenza

fi sica è debole e la parola dimessa»

(2Cor 10,10) dicevano di lui gli avversari di Cristo.

Lo ammetterà lui stesso: «Sono un profano nell’arte del parlare» (2Cor 11, 6). Non è dunque da attribuire ad accorgimenti retorici e a furbizie apologetiche l’effi cacia del suo annuncio, ma soprattutto al coinvolgimento personale, proprio di chi si è dedicato totalmente a Cristo, dal quale nulla potrà mai separarlo (Rom 8, 38). Paolo sa bene che non vi è che un solo «vangelo», predicato da tutti gli Apostoli , al servizio del quale Dio ha scelto anche lui. Defi nendosi egli stesso «schiavo di Cristo,…scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rom 1,1), Paolo non si concepisce se non in funzione della missione ricevuta: «Infatti, annunziare il vangelo non costituisce per me un motivo di vanto. Su di me incombe la forza del destino: guai a me se non annunciassi il vangelo!» (1Cor 9, 16). Se non lo facesse, si sentirebbe in colpa: «Io sono debitore ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli incolti» (Rom 1, 14). Da questa convinzione trae energia missionaria: «Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rom 1,16). Anzi, per esso soffre (Col 1, 26), lotta (Col 1, 29 ), anche nella prigionia (Col 4). «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9, 23); «So, infatti, che tutto questo servirà alla mia salvezza,… nella piena fi ducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorifi cato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (Fil 1, 19).La testimonianza, come modalità imprescindibile per l’effi cacia della missione, riguarda pure la Chiesa come

e scongiura in nome di Altro da sé: «Vi esorto,

la parola dimessa» (2Cor 10,10)

lui gli avversari di Cristo.

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tale. La diffusione della vita di fede è assicurata dalla stessa vita dei cristiani che – quando è conforme al vangelo – diviene la forma più vera della Parola di Dio.Prefiggendosi di recare l’annuncio evangelico ai più lontani - geograficamente e culturalmente, giudei o pagani che siano - il missionario Paolo ha cura innanzitutto di accostarli, immergendosi nella loro condizione e situazione, facendosi il più possibile “come loro”, ma sempre per proporre meglio Gesù Salvatore. È questo, del resto, la modalità seguita da Cristo con l’Incarnazione: «Nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge» (Gal 4, 4); «Pur essendo di natura divina, … spogliò se stesso, … divenendo simile agli uomini» (Fil 2, 6-8).Anche Paolo dirà: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero,… Giudeo con i Giudei … Con coloro che non hanno la legge sono diventato come uno che è senza legge... Mi sono fatto debole con i deboli per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventare partecipe con loro» (1Cor 9, 19). Una non trascurabile conferma di questo stile apostolico ci è data dalla costante preoccupazione di non gravare economicamente sulle comunità fondate.Egli ne avrebbe diritto: «E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto?» Tuttavia, lavora con le sue stesse mani (1Cor 4, 12), esercitando il mestiere di fabbricatore di tende, come farà nel laboratorio di Aquila, del quale era ospite (At 18, 3). Lo ricorderà perfino nel suo testamento spirituale: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 33).

L’annuncio ai lontaniIl missionario Paolo sa che non si può annunciare una verità nuova e vitale, senza partire da un terreno comune, una pietra di paragone, un linguaggio comprensibile dall’interlocutore, in qualche modo preparato e

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predisposto ad accoglierla come risposta ad una sua esigenza avvertita ed attesa. Per questo, di fronte agli ateniesi, inizia lodando la eccellente religiosità loro e di ogni uomo, naturale ricercatore di Dio «non lontano da ciascuno di noi», che siamo «progenie di Lui»; e si complimenta per l’altare dedicato «al Dio ignoto», prova della loro apertura a riconoscere anche qualche altra eventuale divinità rimasta ancora da loro sconosciuta.Ma non rinuncia a muovere la sua critica al politeismo e alla pretesa di ridurre la trascendente divinità di Dio a simulacri (prodotti «ad arte e con ingegno umano», e collocati «in templi fatti dalla mano dell’uomo»). Non esita a proporre un solo Dio creatore «che ha fatto il mondo e tutto ciò che vi si trova», e che dà «a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa».E soprattutto Paolo non tace l’annuncio più nuovo e decisivo, «quello che voi onorate senza conoscerlo»: l’avvenimento di Cristo, un uomo designato da Dio, con il quale hanno termine «i tempi dell’ignoranza»; che va accolto da tutti con profondo ravvedimento; a cui è riservato il compito di giudice universale; la cui missione di Salvatore è garantita dal fatto che è risorto dai morti.Il discorso dell’Areopago incontra la derisione di molte delle persone presenti, ma non di tutti: «Alcuni s’unirono a lui: fra questi Dionigi l’Aeropagita, una donna chiamata Damaride e altri con loro» (At 17, 34). Era nato il “piccolo gregge” di Atene.

Attraverso la sofferenza«Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». Sono le parole del Signore, che invita Anania ad andare a cercare Paolo «strumento eletto per portare il mio

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nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele» (At 9, 16). Paolo non tarderà a verificare sulla propria pelle la verità di questa profezia: «Il nostro Dio ci infuse coraggio nell’annunciare per voi il vangelo di Dio tra molte lotte» (1Tes 2, 2); «Siamo stati oppressi oltre misura, al di là delle nostre forze, da disperare persino della vita» (2Cor 1, 9); «Siamo diventati come la spazzatura del mondo, i rifiuti dell’umanità» (1Cor 4, 13). I guai che Paolo ha dovuto attraversare sono proprio tanti: di natura fisica e morale, provenienti dai pagani, dai figli d’Israele, dagli stessi cristiani. Costretto a una infuocata difesa del suo operato, stende per i Corinti un elenco impressionante di fatiche e di prigionie, di avversità personali e di rischi mortali: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i 39 colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli sui fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali e dai pagani, pericoli nelle città, nei deserti e nei mari, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (2Cor 11, 23).Riguardo alle fatiche fisiche connesse al continuo spostarsi cui si sottopose, da un calcolo approssimativo delle distanza superate, si arriva a più di 4000 Km nei tre viaggi missionari. A questi vanno aggiunti quelli dei viaggi precedenti e seguenti: lungo tragitti non sempre ben tracciati, spesso percorsi a piedi.Paolo accenna a una imprecisabile «malattia del corpo», per la quale i Galati non provarono ripugnanza (Gal 4, 13); e di una altrettanto misteriosa «spina nella carne», quasi uno schiaffo di satana «perché io non vada in superbia»; e le sue preghiere non valsero ad esserne liberato (2Cor 12, 7). Sempre scrivendo ai Galati userà - quanto realisticamente? - l’espressione:«Porto nel mio corpo le stimmate di Gesù» (Gal 6, 17).La stessa normale cura pastorale delle giovani Chiese da lui fondate era fonte incessante di sofferta responsabilità: «Il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor 11, 28).

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Tra molte lacrimeIn contesti culturali e morali ancora così segnati dal paganesimo, le comunità erano anche soggette a divisioni interne (1Cor 1, 10-16), turbate da scandali morali (1Cor 5), incapaci di vera correzione fraterna (1Cor 6), incerte nel giudizio su varie questioni teologiche e morali che comportava la novità cristiana: osservanze giudaiche (1Cor 8), matrimonio e verginità (1Cor 7), ordine nelle assemblee liturgiche (1Cor 11), istituzione e carismi (1Cor 12. 14), fine dei tempi e risurrezione (1Cor 15). Come reagisce a tutto questo? Innanzitutto, non nascondendo una profonda amarezza: Nella “lettera delle lacrime” leggiamo: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e con il cuore angosciato, tra molte lacrime» (2Cor 2, 4); in secondo luogo, rispondendo colpo su colpo, convinto che la difesa di se stesso e del suo insegnamento sia battersi per «la verità del vangelo» (Gal 2, 5).A volte risponde con termini senza sfumature: «Costoro sono falsi apostoli, operai fraudolenti, travestiti da apostoli di Cristo. Niente di strano: lo stesso Satana si traveste da angelo luminoso. La loro fine sarà conforme alle loro opere» (2Cor 11, 13); «Che vadano a farsi castrare quelli che vi sobillano!» (Gal 5, 12). Accanto a questo Paolo scompostamente reattivo, c’è però quello che scrive: «Chi è debole senza che io sia debole? Chi insidiato, senza che io m’infiammi?» (2Cor 11, 29).

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Tutto io faccio per il Vangelo!Paolo si rende conto che anche le sue comunità erano partecipi del suo dolore e delle sue persecuzioni. A loro fa anzitutto constatare che nessuna avversità avrà mai il potere di sopraffare la presenza cristiana: «Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi» (2Cor 4, 8).Li esorta a resistere, a non lasciarsi mai intimidire, ad essere fieri nel dare testimonianza, anche se incompresi: «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6, 2).Osa chiedere loro di imitarlo nel vincere il male ricevuto con il bene dato: «Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (1Cor 4, 12). Ai Romani consiglierà di «non rendere a nessuno male per male…Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rom 12, 17).Paolo sa fornire una profonda ragione teologica al dolore innocente che non risparmia il cristiano: è l’imitazione di Cristo Crocifisso, che ci chiama a morire con Lui per risorgere con Lui, partecipando attivamente al mistero redentivo della sua Pasqua: «E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8, 17).Della sofferenza mette in luce la misteriosa fecondità apostolica: «A causa del mio vangelo, io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata. Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù… Certa è questa parola. Se moriamo con Lui, vivremo anche per Lui» (2Tim 2, 9). La carità pastorale può benissimo ricorrere ai rimproveri: senza rancore vendicativo, ma per salvare i diritti della verità e in vista del vero bene di chi li riceve. Manderà più volte Tito a Corinto per richiamare la comunità alla doverosa obbedienza (2Cor 9, 13). Avendo

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cura di mettere ben in chiaro che «non vogliamo spadroneggiare su di voi nella sfera della vostra fede. Siamo invece collaboratori per la vostra gioia» (2Cor 1, 24).Ai Tessalonicesi potrà garantire di aver agito «non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori» (1Tes 2, 4); i suoi provvedimenti non vogliono procurare loro «la tristezza del mondo, che produce la morte», ma «la tristezza secondo Dio, che produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza» (2Cor 7, 9); e sempre li assicura del suo l’affetto.

Vi porto nel cuoreGratitudine e fiducia sono da san Paolo riservate ai molti collaboratori, dei quali volle servirsi. Le persone che l’accompagnavano e che lasciava a vigilare sulle comunità che sorgevano, furono di indubbia utilità per realizzare il suo progetto di prima evangelizzazione. Sappiamo che Paolo preferì località non ancora raggiunte da altri: «Mi sono però fatto un punto d’onore di annunciare il vangelo solo là dove il nome di Cristo non era ancora invocato» (Rom 15, 20). Per Paolo nessun popolo doveva restare estraneo all’annuncio evangelico, che avrebbe costituito il fattore decisivo per la costruzione della nuova civiltà dell’amore. Dei molti collaboratori gli Atti e l’epistolario conservano i nomi. A due di essi – Timoteo e Tito – la tradizione paolina ci ha conservato le lettere che li aiutano a svolgere bene il compito pastorale loro assegnato. Per tutti ebbe parole di riconoscenza, di affetto, di incoraggiamento: «a Tito, mio vero figlio nella fede comune» (Tito 1, 4), «Salutate tutti i fratelli con il bacio santo» (1Tes 5, 26). Tale rapporto, colmo di tenerezza è ben espresso rivolgendosi ai Filippesi: «Vi porto nel cuore... Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù» (Fil 1, 7s).Ai Tessalonicesi dice: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari… (1Tes 2, 7).

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Luoghi Paolini a RomaBasilica di San Paolo fuori le Mura: è la maestosa Chiesa dove è sepolto l’Apostolo. Costruita da Costantino nel 324. Fermata Metropolitana: Linea B - San PaoloAbbazia delle Tre Fontane: secondo la tradizione è il luogo del martirio di san Paolo.Fermata Metropolitana: Linea B - Laurentina

BibliografiaJ. Fitzmyer, Paolo. Vita, viaggi, teologia, Ed.QuerinianaR. Penna, Paolo di Tarso, San Paolo Ed.A. Massobrio, Paolo di Tarso, Ed. Messaggero PadovaG. Barbaglio, Il pensare dell’Apostolo Paolo, Edb

RingraziamentiPer la parte storica abbiamo utilizzato il testo di don Antonio Schena (www.corsobiblico.it). La parte teologica è tratta da alcuni articoli di don Piero Re (www.culturacattolica.it). Li ringraziamo per il loro prezioso aiuto. Ringraziamo anche Silvia Renzi per aver curato la veste grafica.

In Internetwww.annopaolino.org ; www.abbaziasanpaolo.net

www.abbaziatrefontane.com

In copertina: San Paolo, Pala di Giovanni Bellini, realizzata per la Chiesa di san Francesco di Pesaro, ora ai Musei Civici della stessa città. Sotto: Basilica di San Paolo fuori le mura

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Benedizione della Famiglia

La grazia e la pace di Dio nostro Padre e del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.

E con il tuo spirito.

Preghiamo:O Dio, Trinità d’amore, aiuta ogni

famiglia cristiana a riscoprire la bellezza di essere una piccola chiesa domestica,chiamata ad essere santa come lo sei tu.Aiutaci a crescere ogni giorno nella fede,

nella speranza e nell’amore.Insegnaci a dividere il pane con chi ha fame, a donare affetto a chi è piccolo, malato e solo.Ti chiediamo ora Signore la grazia di ravvivare,

nel segno di quest’acqua benedetta, il ricordo del nostro Battesimo e l’adesione a Cristo Signore,

crocifisso e risorto per la nostra salvezza. Amen

Dio vi riempia di ogni gioia e speranza nella fede.La pace di Cristo regni nei vostri cuori.

Lo Spirito Santo vi dia l’abbondanza dei suoi doni.

E la Benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, discenda su di voi e con voi

rimanga sempre. Amen.