scena i · web viewe se sa dov’è il nord… come fa a non sapere da che parte deve andare lei?...
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L’ATTESA
Atto unico
PERSONAGGI:
Walter Eddie Cosina (agente della scorta di Paolo Borsellino)
Giovanni Trecroci (vicesindaco del comune di Villa San Giovanni)
Sala d’attesa d’una piccola stazione di provincia. Si sente
provenire dall’esterno il suono incessante della campanella che
annuncia l’arrivo di un treno. All’interno, in scena, sulla panca
di legno siede un uomo in camicia bianca che legge un libro con
estrema concentrazione, tenendolo con la mano sinistra, mentre
nella destra ha una matita con cui, ogni tanto, segna appunti su
dei fogli slegati che tiene accanto a sé sulla panca. La sua
figura trasmette un certo senso di ordine e cura: la camicia
chiara ben stirata, capelli pettinati con attenzione, occhiali
dalle lenti larghe. Ad un certo punto, rimane con la penna sospesa
a mezz’aria, e lo sguardo che s’allunga fino all’estremità opposta
della panca, sospettoso: un borsone evidentemente lasciato lì da
qualcuno che ancora non vediamo. Cerca di concentrarsi sul suo
lavoro, ma non ci riesce: ogni volta che tenta di segnarsi degli
appunti, lo sguardo è irrimediabilmente attratto da quella borsa.
Sembra essere piuttosto ansioso, forse spaventato. Si guarda
attorno, poi chiude risolutamente il libro: è troppo agitato per
continuare. Fissa sempre quella borsa, fino a quando decide di
alzarsi cautamente per andare verso la porta che dà sulla banchina
dei treni e guardare fuori: sembra voglia spiare o controllare i
movimenti di qualcuno. Poi, resosi forse conto di averne la
possibilità, si volta, torna verso il borsone e, evitando di
toccarlo, lo scruta come se volesse capirne il contenuto. Sembra
quasi sul punto di voler aprire la borsa, ma sente dei passi alle
sue spalle e riapre immediatamente il libro che ha in mano. Entra
in scena un secondo uomo, sulla trentina, con baffi scuri che
accentuano ancora di più la giovialità del suo aspetto. Rimane
interdetto nel vedere che l’altro, che adesso gli volta le spalle,
è in piedi accanto alla sua borsa. Giovanni ritorna lentamente al
suo posto, sempre fingendo d’essere intento nella lettura, mentre
Eddie, dopo un attimo d’esitazione gli rivolge la parola:
E: Sono le 15.40.
G: Come scusi?
E: Sono le 15:40…
G: Ah… la ringrazio.
E: Le campanelle suonano contemporaneamente, per entrambe le
direzioni, ma non si vedono treni all’orizzonte…
G: Immagino… immagino bisognerà aspettare…
Giovanni riabbassa subito lo sguardo dopo aver risposto, in
maniera evasiva. Eddie va a risedersi accanto alla sua borsa e,
con finta noncuranza, poggia una mano sulla borsa per verificare
che l’altro non abbia preso nulla. Dopo essere rimasto a
guardarlo, dubbioso, si rivolge nuovamente a Giovanni:
E: Che treno sta aspettando?
G: Come?
E: Che treno aspetta? Verso che direzione?
G: (è esitante nella risposta) Io… non saprei dirle la direzione
del mio treno.
E: Come fa a non saperlo? Non è di qui lei?
G: Chi glielo dice che sono di qui? Ci conosciamo per caso?
E: No… io non la conosco…
Giovanni torna a fissare lo sguardo sul libro, ma è visibilmente
agitato. Eddie si alza in piedi, si riavvicina alle finestre per
poi voltarsi di nuovo verso Giovanni: lo fissa, da lontano. Sfila
da una tasca un pacchetto di sigarette e ne accende una: fuma
senza mai distogliere lo sguardo dalla figura di Giovanni; sembra
quasi che voglia sfidarlo in qualche maniera. Giovanni s’accorge
che l’altro lo guarda; di volta in volta rialza lo sguardo anche
lui, per riabbassarlo subito però. Poi prende coraggio:
G: Perché mi fissa?
E: Io? Non la sto mica guardando… (continuando però a scrutarlo)
Giovanni riabbassa lo sguardo. Eddie continua a fumare fino a
quando Giovanni non rialza gli occhi.
E: Le da fastidio il fumo forse?
G: A me? No…
E: Ah: mi sembrava di renderla nervoso.
G: No, si sbaglia… anche se in effetti non si potrebbe fumare qui.
E: E allora perché non me l’ha detto?
G: Non so, non mi dà fastidio le ho detto…
E: Quindi mi stava guardando… perché vuole una sigaretta anche
lei?
G: No, io non la stavo guardando. E comunque non fumo.
E: Non fuma… e non le dà fastidio che fumi?
G: Mmm… sono abituato ad avere attorno fumatori: non capisco la
sua domanda.
E: (sempre più incalzante) Vorrei capire perché mi stava
guardando.
G: (prendendo coraggio) No… era lei a fissare me.
E: Io?
G: Sì.
E: Beh… vede qualcun altro qui dentro? Siamo in due, ci può stare
che magari l’abbia guardata.
G: Bene: allora ci può stare la stessa cosa anche per me, no?
E: Ah… quindi mi stava guardando, effettivamente.
G: Mi scusi, ma… devo lavorare.
Giovanni cerca nervosamente di tornare sulla lettura. Eddie si
risiede, ma continua sempre a fissarlo, come se volesse a tutti i
costi smuovere la situazione.
E: Da che parte è il nord? Non capisco da dove dovrebbe arrivare
il mio treno.
G: (esita un attimo prima di rispondere. Poi indica) Di là.
E: Ah, bene. E se sa dov’è il nord… come fa a non sapere da che
parte deve andare lei?
G: Ma… cos’è che vuole da me?
E: Io? Niente… sono solo curioso di conoscere le persone che
incontro quando viaggio. Lei è di qua, vero?
G: (Chiude il libro, come se fosse finalmente intenzionato a
mettere da parte qualsiasi schermo e ad affrontare l’altro) È la
seconda volta che lo chiede… Me lo sta chiedendo o sa già la
risposta?
E: Lo deduco… è senza valigia, insomma…
G: Quindi io dovrei dedurre che lei è di chi sa dove perché ha un
borsone?
E: Magari sì…
G: Bene, allora mi dica di dov’è lei: arriva o parte?
E: Lei non mi ha ancora risposto, perché dovrei dirglielo prima
io?
G: Io abito qui vicino, uno dei paesi qui sullo stretto: gliel’ho
detto adesso. Lei?
E: Io?
G: Sì: di dov’è lei?
E: (aspetta a rispondere, con uno sguardo di sfida) Boh. Non me lo
ricordo…
Giovanni sta per controbattere, ma poi, come rassegnato, si
risiede e prende il libro tra le mani, senza riaprirlo questa
volta: ne guarda la copertina, assorto, poi con un sospiro, riapre
la borsa per riporvi il libro e i fogli.
E: Cosa legge?
G: Non le importa…
E: Mi importa sapere se lei quel libro lo stava effettivamente
leggendo… Mi sembrava facesse solo finta di leggerlo…
Giovanni non risponde. Rimette le sue cose in borsa, veloce ma
tremante.
E: Va via?
G: Ripeto: non le importa.
Nel rispondere e nella fretta, i fogli gli sfuggono di mano e si
spargono sul pavimento. Giovanni rimane interdetto, immobile
inizialmente, poi prende lentamente a raccoglierli. Uno è finito
vicino le gambe di Eddie, che però non accenna ad abbassarsi.
Giovanni guarda Eddie, poi si avvicina e s’inginocchia a
raccogliere il foglio, senza però distogliere lo sguardo
dall’altro. Nel rialzarsi, rimane (vd Elisa).
G: Fino a qui mi avete seguito? Che senso ha? Tanto sapete dove
abito, sapete chi sono, sapete tutto… Che senso hanno tutte le tue
domande? Sì, sono Giovanni Trecroci, va bene? Era questo che
volevi sapere? Volevi averne la certezza prima di sparare?
Eddie, a queste parole, rimane interdetto e si porta una mano alla
fondina della pistola, intuendo che l’altro l’ha vista.
G: Sono Giovanni Trecroci. Sono quello che stavi cercando, no?
Puoi spararmi tranquillamente adesso…
Eddie è sorpreso e costernato: s’abbassa velocemente a raccogliere
i fogli di Giovanni da terra e glieli porge insieme al suo
distintivo.
E: Scusami… non volevo farti paura. Pensavo mi stessi seguendo:
sono l’agente di polizia Eddie Cosina. Tranquillo.
Giovanni si risiede, confuso, visibilmente scosso, respira
profondamente, come se cercasse di tranquillizzarsi.
E: Ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa? Acqua?
Giovanni accenna un no solo con la testa.
E: Posso provare a prenderti dell’acqua dal bancone del bar…
G: No… No, davvero: sto meglio.
E: Sicuro?
Giovanni risponde nuovamente con un solo cenno della testa, ad
occhi chiusi.
G: Ma… quella pistola devi tenerla così in vista?
E: Lo so, scusami ma… devo tenerla così. Non volevo spaventarti.
G: L’hai fatto però!
E: Davvero: mi dispiace! Ma sono costretto a tenere la pistola a
portata di mano.
G: Sì… e tutte quelle domande?
E: Avevo paura…
G: Tu! Tu avevi paura?
E: Pensavo mi stessi seguendo.
G: Ma se sei tu quello che mi ha tartassato di domande!
E: Lo so… lo so… Volevo cercare di capire che intenzioni avessi.
Ero troppo teso per stare così, ad aspettare. Però ha funzionato:
sono tranquillo adesso.
G: (Rilassandosi finalmente in un sorriso ancora un po’ tirato)
Vaffanculo.
E: Beh… anch’io ti ho visto lì in piedi a guardare la mia borsa.
G: Avevi un aria strana…
E: Ma… chi pensavi che fossi?
G: Non lo so… non lo so…
E: Come “non lo so”: mi hai chiesto di spararti.
G: Pensavo… pensavo fossi qui per me.
E: Sì… ma perché?
G: Non lo so… non lo so… Negli ultimi tempi tutto quello che mi
sta attorno mi sembra una minaccia. Vedo pistole come quella lì
sotto ogni giacca. Ho paura a parlare, a confidarmi con chiunque,
anche con i miei amici più stretti, con i miei parenti: credo di
farlo per non metterli in pericolo a causa mia… ma forse ho paura,
forse una qualche parte di me ha paura anche di loro. Ho paura di
tutto ormai. Ho paura di bere il caffè, ho paura del dentifricio
con cui mi lavo i denti… E il bello è che non so neanche se dovrei
avere paura o no. È questa la cosa peggiore. La gente attorno a me
è serena, sorride, fa tutto quello che dovrebbe fare normalmente,
come ogni giorno… e anch’io mi sforzo di fare come loro: faccio
colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa; faccio
colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa; faccio
colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa… cerco di
essere normale, ma non ce la faccio. Non ce la faccio. Perché non
riesco a fare tutto questo senza chiedermi se anche domani potrò
alzarmi, fare colazione, svegliare mio figlio, andare a lavoro,
fare la spesa… E cerco di soffocarla questa domanda, davvero, ci
provo, perché al momento questa domanda non ha senso, forse;
perché magari mi sto preoccupando per niente, ma non ce la faccio
a non pensarci. Non riesco ad essere sereno come tutti gli altri.
E penso che dietro a ogni saluto, ad ogni sorriso, a qualsiasi
cenno, non ci sia solo un cenno, un sorriso o un saluto, ma
piuttosto un avvertimento, o una minaccia… a volte penso che le
persone con cui parlo sappiano qualcosa che io ancora non so, e
che se ne stiano lì ad aspettare che accada, ad aspettare di
vedermi… È assurdo. Da due mesi a questa parte accendo la mia auto
solo quando sono da solo, cerco di farlo sempre prima che mia
moglie e mio figlio mi raggiungano… E non so dirti se esagero o
no…
Giovanni sembra essere sul punto di piangere: sembra sia sempre
più preda d’una disperata rassegnazione.
Eddie è interdetto, non sa come comportarsi: gli si avvicina, ma
non riesce a trovare parole con cui consolarlo. Decide di
porgergli di nuovo il pacchetto da cui sporge una sigaretta.
E: Ma… non fumi proprio per niente? (Sorridendo, tentando di
sdrammatizzare) Perché una sigaretta è l’unica cosa che posso
offrirti: non sono bravo con le parole, non so che dire… Sarei
bravo a riempirti un bicchiere… ma il bar è chiuso. Sicuro?
G: Forse è il caso… (Sfila la sigaretta dal pacchetto di Eddie e
la prende tra le labbra. Eddie gliel’accende, con un sorriso
premuroso, poi accende anche lui una sigaretta. Fumano in
silenzio: Giovanni è a occhi chiusi, mentre Eddie lo scruta ogni
tanto, curioso e allo stesso preoccupato per l’altro.) Se
preferisci rimanere solo, non ci sono problemi… vado.
G: No… no, assolutamente. Anzi scusami per… per tutta quella scena
di prima.
E: Ma non ci pensare.
G: (Guardando la sigaretta) Ne avevo bisogno effettivamente…
E: Bene… almeno questo. Vorrei aiutarti, ma te l’ho detto: con le
parole faccio pena…
G: Ma no… No… scusami tu: non sono molto lucido negli ultimi
giorni. Davvero… una scena così non è da me.
E: Ma non ci pensare, dai , capita a tutti…
G: È che davvero non è da me: è la prima volta che dico… certe
cose.
E: Magari è proprio questo il problema: dovevi sfogarti…
G: Sì… forse sì, ma sai com’è… (Accennando un sorriso) Quando ti
rendi conto di essere esploso davanti ad un perfetto sconosciuto
nel mezzo di una stazione… un po’ te ne vergogni.
E: (Bonariamente ironico) Effettivamente sì… io al posto tuo sarei
già chiuso in bagno per la vergogna.
G: (Sorride, più tranquillo adesso) Appunto.
E: Però… per salvare la situazione possiamo fare in modo che io
non sia uno sconosciuto. Anzi… forse ci conosciamo già abbastanza
in realtà. (Giovanni lo guarda, senza capire) Da quello che hai
detto prima… credo di aver capito a grandi linee che cosa stai
passando. Anch’io sono nella tua stessa condizione…
G: Mmm… non mi sembri calabrese però, almeno da come parli.
E: Davvero? (sorridendo ironico) Effettivamente sarei più
credibile come croato che come calabrese… (Giovanni lo guarda con
un’aria interrogativa ed allora Eddie si batte l’indice sul petto)
Trieste!
G: Davvero?
E: Triestino ciapa’ de le stringhe, sì.
G: Ma… che ci fai qui?
E: Lavoro… Un lavoro per cui non posso essere sicuro di tornare a
casa e riabbracciare la mia famiglia. Per questo posso capirti,
posso comprendere bene il fatto che tu non abbia certezze,
sicurezze. Io sono in Sicilia da poche settimane: questa è la
seconda volta che torno dalla mia famiglia in licenza… Pochissimi
giorni soltanto, ma necessari: è dura resistere qui. Quando sono
partito la prima volta ero sereno, così sereno che ho mentito a
mia moglie e a mia madre in maniera abbastanza convincente credo:
non ho detto quello che sono realmente venuto a fare in Sicilia,
mi è bastato raccontare che dovevo occuparmi di faccende
amministrative e loro credo mi abbiano creduto… magari un po’
scettiche all’inizio, ma non si sono poste troppe domande. Mia
moglie non mi fa tantissime domande sul lavoro: cerca di indurmi a
parlare in maniera spontanea, è furba, ma se non mi sbilancio a
raccontarle troppo lei non insiste con le domande. (Silenzio) Dopo
i primi venti giorni in Sicilia invece, quando sono rientrato a
Muggia…
G: È il tuo paese?
E: Sì, un paesino sotto Trieste: ti affacci dalla finestra e sei
già in Slovenia. Quando sono tornato… ho pianto. Non l’avrei
immaginato. Non ce l’ho fatta a trattenermi… e non ho neanche
voluto trattenermi. In quei pochissimi giorni di licenza non ce
l’ho più fatta a mentire alla mia famiglia, non ne avevo la forza,
non sarei stato credibile… Non ho raccontato nulla e loro mi hanno
chiesto poco, ma hanno capito tutto. E quando sono ripartito per
tornare in Sicilia… ho avuto l’impressione di salutarli per
l’ultima volta. È stato terribile. Io ho perso mio padre quando
avevo ventun’anni… e fino a qualche settimana fa, se qualcuno
m’avesse chiesto qual era stato il dolore più grande che ho
provato nella mia vita, beh… avrei pensato istintivamente al
momento in cui ho visto chiudere la bara di mio padre. Avevo già
pianto, avevo già capito, razionalizzato, prefigurato quello che
sarebbe stato… ma in quel momento ho avvertito come un bruciore
che mi mordeva lo stomaco e i polmoni, dall’interno del mio stesso
petto, ed ero costretto a dei respiri corti, per non sentire
dolore, sempre più corti, e poi l’affanno e una sensazione di
vertigine… Ecco questa sensazione l’ho riprovata quest’ultima
volta in cui sono partito per la Sicilia, quando ho salutato mia
moglie, mia madre, mia nipote… E quel morso era ancora più forte
questa volta, più doloroso, è stato quasi lancinante. Ero quasi
sul punto di urlare, non ce la facevo… Pensare, nel momento in cui
saluti le persone che ami, che forse lo stai facendo per l’ultima
volta… ecco: questo dubbio terribile è qualcosa che mi ha dato più
dolore della morte stessa, di un distacco certo e irrimediabile.
(Silenzio. Guarda Giovanni, cercando di tornare a sorridere.) Mi
credi se dico che ti capisco? Io questo dolore l’ho provato una
volta sola… e rabbrividisco all’idea di doverli salutare di nuovo
tra solo cinque giorni, di dover provare ancora questa sofferenza.
Se mi dici che per te questo accade ogni giorno, beh… Vorrei
essere te: evidentemente sei una sorta di superuomo, di eroe,
perché io sarei già collassato al tuo posto.
G: Fidati, in questo momento non augurerei a nessuno di essere me.
Vorrei solo potermi addormentare con AnnaMaria… preoccupandomi
solo di impostare la sveglia al giusto orario e… anche
semplicemente di cosa cucinare domani a pranzo. Pesce o carne?
E: (Sorride) Alici o pesce spada?
G: (Sorride anche lui, stando al gioco) Alici. Alici sicuramente!
Ma marinate o gratinate?
E: Gratinate. Gratinate sicuramente! Ma… con prezzemolo o senza
prezzemolo?
G: “Con”, sempre con, ovvio.
E: Anch’io mi diverto a pensare a quale delizioso piatto cucinerà
mia madre al mio arrivo: le lasagne? La parmigiana? O un bel
piatto di gnocchi? Mi manca anche la sua cucina, il profumo di
cibo che esce da quel luogo prima dei pasti, l’odore stesso di
casa mia, perché si sa: ogni casa ha il proprio odore. Immagino di
correre dai miei cari, di abbracciarli, di stringerli…
G: Come si chiama tua moglie?
E: Monica. Anzi… ora te la presento. (Estrae una piccola foto
tessera dal portafogli e la mostra a Giovanni)
G: È bella.
E: Lo è ancora di più dal vivo, fidati.
G: La porti sempre con te questa foto?
E: Sì… da quando sono partito sì. Mi da forza guardare il suo viso
in certi momenti, in quei momenti in cui sei così… distrutto,
mentalmente stanco da fare fatica anche solo ad attivare un
ricordo, un’immagine col tuo cervello: guardare la foto mi aiuta,
mi rilassa, sorrido e lascio che la mia mente vada a riposo. E
poi, al massimo, sogno soltanto di andare a casa mia, accomodarmi
su un bus, su un aereo o su un treno proprio come quello che
stiamo attendendo. Penso a quanto possa essere rasserenante
estrarre dalla mia valigetta un giornale, leggerlo con calma
guardando di tanto in tanto fuori dal finestrino… Ho un estremo
bisogno di avere la certezza di tornare, di sentirmi a casa di
ritrovare quella quotidianità che si dissolve. E immagino di
vedere da un finestrino, non importa di quale mezzo, la mia
stazione, col paesaggio di casa, di casa mia. È un paese piccolo
il mio, Muggia, ma davvero delizioso, con un porticciolo in cui
staresti ore seduto a goderti la pace su una panchina.
G: Anche Villa San Giovanni, il mio paese, può essere molto bello
se non pensi a tutto il marcio che ci circonda. Il momento più
bello per godertelo è la tarda sera, quando riesci ad illuderti
che il buio si sia fagocitato tutto il male di questa terra e
rimani a guardare le luci di Messina al di là dello stretto. Se
cerchi degli scogli isolati, senza lampioni, non vedi più i
riflessi del mare davanti a te: lo stretto così diventa come una
striscia vuoto, d’infinito nero, con un aldilà luminoso che vibra
e ti sorride; quasi ti dimentichi d’avere l’acqua davanti e
vorresti correrci sopra.
(I due rimangono in silenzio per qualche attimo, assorti nei loro
pensieri.)
E: Tua moglie invece come si chiama?
G: AnnaMaria, ma non ho anch’io una foto per presentartela.
E: Non c’è problema: mi fido se mi dici che è bella.
G: Sì, fai bene a fidarti: è un po’ più giovane di me… e sono
davvero fortunato, perché è splendida.
E: Tuo figlio invece?
G: Giuseppe. Ha soltanto un anno… e adesso aspetta la sorellina.
E: Ah, beh: auguri allora.
G: Grazie. Non vedo l’ora che arrivi… ho bisogno di quanta più
gioia possibile in questo momento. Tu invece? Niente bambini?
E: No, non ancora… Ma dopo quest’esperienza in Sicilia, quando
tutto sarà finito, credo che tornerò a casa e m’impegnerò
seriamente a riguardo (Sorride, per poi però farsi subito serio).
Quando penso che potrei morire qui ed ora… sento che c’è una parte
di me, razionale, che sfugge alla paura e si sofferma piuttosto a
considerare che è davvero un peccato andarsene senza aver lasciato
un figlio al mondo.
G: Scusa ma… a questo punto non riesco più a trattenere la
domanda, che cosa fai esattamente in Sicilia? Sei con l’antimafia?
E: Sì… sono un agente di scorta, uno degli agenti di scorta di
Paolo Borsellino. Dopo la morte di Falcone, servono sempre più
agenti… stanno reclutando in tutta Italia e io ho deciso di
accettare la missione qui: dopo tutto quello che è successo, ho
sentito di dover fare anch’io quello che posso.
G: Beh… anche tu quindi non sei certo uno da invidiare.
E: (Sorride alla battuta di Giovanni) Sono consapevole dei rischi
di questo lavoro… Lo stesso giudice si definisce ormai un cadavere
che cammina, non vuole più nemmeno la scorta: si sentirebbe
responsabile della nostra morte… Ma abbiamo deciso di non
abbandonarlo. Sono consapevole dei rischi, ma l’ho voluto io: io
amo quello che faccio, anche se in ogni caso la pura di morire di
morire è tanta… Immaginavo quella che poteva essere la situazione
in Sicilia, ma la realtà in cui mi sono trovato… devo dire che
supera l’immaginazione. Palermo è praticamente una città in stato
d’assedio: ci sono anche blindati e carri armati in strada… se
solo servissero. Non ho mai provato la sensazione che avverto da
quando sono qui: mi sento invecchiare, ora per ora, lo vedo sulla
mia pelle, me ne rendo conto spaventato ogni volta che mi guardo
allo specchio. È una sensazione strana, come se all’improvviso, di
punto in bianco, cominciassi a percepire la velocità della
rotazione terrestre… è una cosa strana. Ma la tensione ormai è la
costante delle nostre giornate: ho imparato a guidare tenendo il
volante solo con la sinistra, mentre nella destra tengo la pistola
con pollice e indice, e con le altre dita uso il cambio. Mi ci
manca solo di girarmi il caffè con la canna della pistola… E non
ci sono momenti di pausa, non può esserci un attimo di distensione
o riposo se non in licenza. Anche fumarsi una sigaretta mentre
aspettiamo il giudice fuori dal tribunale o dal suo appartamento…
non serve a niente, non ti rilassa: parli col tuo collega ma la
coda dell’occhio è sempre a lavoro, perché ci sono minacce che
magari stanno lì ad aspettare solo una nostra distrazione,
l’attimo in cui tiriamo il fiato ad occhi chiusi.
G: Non so che di dirti… da un lato sono felice di conoscere
persone come te, mi sento quasi di ringraziarti; ma d’altro canto
mi viene quasi spontaneo chiederti… perché? Chi te l’ha fatto
fare?
E: Guarda che così un po’ m’offendi…
G: No ti prego, non era questo il mio intento, te l’ho detto…
posso solo provare stima per poliziotti come te, che arrivano qui
da tutt’Italia.
E: Quando ho scelto di fare questa carriera… ho preso questa
decisione perché sentivo sul serio l’impulso, il desiderio quasi,
di mettermi a servizio di qualcosa di più grande di me, di poter
essere utile a tutti. È una scelta forte da un certo punto di
vista, antiindividualista… ma sentivo che era quella giusta. Da
giovane ho cercato di immaginarmi impegnato in diversi lavori…
alcuni anche interessanti, mi sarebbero piaciuti effettivamente,
però, quando ho cominciato a focalizzare l’importanza del lavoro
che faccio ora, non ho più avuto dubbi: sarò anche l’ultimo dei
poliziotti magari, ma in questi anni di lavoro sento di aver
accumulato una ricchezza che va ben oltre lo stipendio o il
benessere di una singola famiglia. Sono uno di quei fortunati che
si sentono di poter camminare sempre a testa alta, che non devono
mai dubitare del buono di ciò che stanno facendo… e il bello è che
so che anche la mia famiglia gode di questa sensazione e sono
fieri di me. Nonostante tutta la tensione e la paura che posso
provare in alcuni momenti, o in maniera persistente come nelle
ultime settimane, non dubito mai della mia scelta e ho sempre
risposte pronte per ricacciare subito indietro qualsiasi
perplessità.
G: Ce ne fossero tante di persone come te…
E: Ma ce ne sono.
G: Ma non abbastanza… non siamo ancora sufficienti, evidentemente.
E: Scusami ma… tu invece? Non… non mi hai ancora spiegato niente
di preciso.
G: (Sorride) In effetti no. Sono io quello che è esploso… ma
finora le spiegazioni le hai date solo tu.
E: (Ammicca ironicamente) Appunto. Sospetti ancora di me?
G: No… anche se sospetto ancora un po’ dei tuoi baffi.
E: Ma dai! Sono anni che ce li ho… la mia nipotina li adora, a mia
moglie non dispiacciono e io mi rilasso terribilmente a giocarci
con le dita. Ma perché… i baffi sono distintivi della ‘ndrangheta
qui in calabria?
G: No. (Sorride) Comunque, da dove posso cominciare… Mi chiamo
Giovanni Trecroci, abito a Villa S. Giovanni… ma questo te l’ho
già detto.
E: Di cos’hai paura?
G: Questo è il bello… non puoi mai saperlo, puoi solo vagamente
ipotizzarlo. In ogni modo… sono vice sindaco e assessore ai lavori
del comune di Villa San Giovanni.
E: Mmm… ora comincio a capirti, credo.
G:(Sorride amaramente) Basterebbe questo in effetti, purtroppo. Io
nella vita, in realtà, insegno Italiano alle scuole medie, ho a
che fare con i ragazzi. Ma ho deciso di non limitarmi a questo:
volevo contribuire in qualche modo a creare un futuro migliore, o
quantomeno meno spietato per i ragazzi che mi trovavo di fronte
nei banchi.
Ed è per questo che ho deciso di fare politica qui. Sono stato
eletto e per alcuni anni ho potuto lavorare in relativa
tranquillità, ero contento di ciò che facevo… ma la situazione qui
peggiora sempre più. Comunque, nel mio piccolo, volevo provare a
cambiare qualcosa, ero stufo di questo sistema corrotto che ci
soffoca lentamente e lo fa con un sorriso sulle labbra e con i
guanti bianchi, celando tutto sotto questa patina di normalità
irreale. E in ogni modo non mi sono mai pentito della mia scelta…
nonostante tutto. Certo mi aspettavo qualche problema, ma speravo
di non ritrovarmi in quest’inferno. Il peggio è cominciato meno di
un anno fa... evidentemente la ‘ndrangheta aveva deciso di
smettere di sopportare il fatto che io impedissi di far finire gli
appalti pubblici in mani di qualcuno colluso con loro. Questa è la
mia battaglia personale, il modo in cui lotto… senza pistola come
te, sì, ma i rischi sono gli stessi…
È iniziato tutto in modo subdolo: qualche messaggio velato,
qualche "consiglio" ambiguo. E adesso non riesco a dormire, non
riesco a mangiare, non capisco se vogliono uccidere me o, peggio,
la mia famiglia. È difficile stare sempre sull’attenti, non sapere
mai quando potrà capitare il peggio, perché tutto si cela sotto un
apparente normalità. Ma come faccio a lasciare? Ho sempre mio
padre nella mente: "Giovanni non avere mai la presunzione di
essere migliore di qualcuno, anzi se trovi qualcuno che crede di
essere migliore degli altri devi lottare per fargli capire che non
è così". Me lo ripeteva spesso quando ero piccolo e forse è stato
lui a tramandarmi questo senso di giustizia. Così sono cresciuto
tra partite di calcio, merende con la marmellata… e ideali. E più
crescevo, più mi rendevo conto di quanto fosse difficile
preservare i miei principi, soprattutto nel posto in cui vivevo e
vivo tuttora: è un posto strategico, la porta d'accesso in Italia
per chi arriva dalla Sicilia, un manna dal cielo per chi riesce ad
accaparrarselo. Per questo nella mia città c'è una presenza
radicata di clan mafiosi e per questo è ancora più difficile
riuscire ad essere contro corrente: non sai quanti amici ho perso
perché hanno deciso di intraprendere la strada più facile… Se non
trovi lavoro e ti danno i soldi facili tu cosa decidi di fare?
Molti purtroppo hanno la risposta sbagliata per questa domanda… Io
invece sono stato molto fortunato: ho avuto mio fratello Franco.
Io e Franco siamo sempre stati molto uniti e ci davamo forza a
vicenda per andare avanti. Ci Diamo forza a vicenda e così quando
abbiamo deciso che cosa fare della nostra vita abbiamo deciso
entrambi di insegnare, ci è sembrata la scelta migliore… per
cambiare qualcosa bisognava cambiare la mentalità. È da lì che
bisogna partire… dalle basi, le basi anagrafiche intendo, i
ragazzi.
E: Due idealisti soli in una stazione… insomma.
G: A quanto pare sì… Ma alla fine che ci vuoi fare, è questo il
destino degli idealisti: aspettare. Che siano i treni o la
concretizzazione dei nostri ideali, ci tocca aspettare purtroppo.
E: In questo momento in realtà sarei ben contento di veder
arrivare prima il treno che la realizzazione dei miei ideali.
G: (Sorride) Guarda… aspetterei treni inesistenti in questa
stazione per l’eternità, se mi dicessero che nel frattempo là
fuori, in cambio, si realizzasse anche solo mezza delle cose per
cui sto spendendo la mia vita.
E: Va beh… e allora aspetto anch’io. (Sorride) Però, perdonami… va
bene tutto, ma aspettare così, con questo caldo, a gola secca, no
eh! Non ce la faccio più: vado dietro il bancone del bar e prendo
qualcosa: ti va?
G: Mmm… no, ti ringrazio ma su questo passo.
E: Dai su! Non farmi bere da solo… giusto un amaro, una grappa,
qualcosa. Alla fine il bar è praticamente aperto anche se non c’è
nessuno. E se non dovesse arrivare anima viva prima dei nostri
treni… vorrà dire che gli lasceremo dei soldi lì sul bancone.
G: No, davvero… meglio di no. E sarebbe meglio che lasciassi stare
anche tu.
Eddie intanto va dietro il bancone del bar e cerca dei bicchieri.
Poi comincia leggere, ad una ad una, le etichette delle bottiglie.
E: Ma perché? Alla fine restituiremo tutto. E poi, su: ce lo
meritiamo. Dopo tutto quello che facciamo e che rischiamo, per
degli stipendi normali… non ci meriteremmo dalla società neanche
il credito di un bicchiere d’amaro?
G: No… è una questione di principio.
E: Ma con tutto lo schifo che ci troviamo di fronte ogni giorno
dovremmo preoccuparci di farci anticipare un bicchiere?
G: Sì… è proprio di questo che devi preoccuparti. Dimmi pure che
sono troppo pesante… ma tu non sai come funzionano le cose qui.
E: No, questo non puoi dirlo: non sarò nato qui al sud, ma la sto
vivendo sulla mia pelle questa realtà adesso…
G: Sì, nessuno lo mette in dubbio, ma io la vivo sulla mia pelle
da quando sono nato, capisci? Ci sono cose che sono molto più
complicate di quello che credi. Quello che hai visto a Palermo
dopo la morte di Falcone è solo la parte che viene a galla di
questo cancro maledetto: la mafia non è solo sparatorie e
ammazzatine, quelle sono il risultato, il culmine, l’escrescenza…
vedila come ti pare. La mafia comincia prima, ben prima di ciò.
Comincia quando inizi a pensare di poter fare come ti pare, di
essere in diritto di prendere per te qualcosa che sarebbe di
tutti, sia anche qualcosa di piccolo. Quel po’ che prendi oggi
sottraendolo alla collettività, domani diventerà qualcosa di più
sostanzioso e poi crescerà ancora. No! Nessuno deve sentirsi
libero o in diritto di non rispettare le regole condivise da
tutti, per nessun motivo, perché è quando si comincia a fare
questo che nasce la mafia… il tritolo viene dopo.
E: Scusami…
G: No… non devi scusarti. Non voglio neanche essere pesante,
scusami tu, è che… vorrei solo che questo concetto fosse chiaro: è
qui il problema. È qui! Impedire le stragi non risolverebbe il
problema, non lo sradica: tagli un ramo, ma l’albero è sempre lì.
È questo il problema. Non si diventa mafiosi solo se si ammazza
qualcuno… O si capisce questo, o, per chi non la vive sulla
propria pelle, la mafia continuerà ad essere solo una sorta di
fenomeno esotico legato a queste regioni qui… ma non è così.
E: Ho capito. Non l’avevo mai vista in questa maniera… ma credo di
capire cosa intendi.
G: Scusa se mi infervoro…
E: Non devi scusarti, ti capisco, davvero… (Accennando un sorriso)
Però ti prego: non giudicarmi se un bicchiere lo berrò comunque in
questo caso… giuro che non lo farò mai più.
G: (Sorride anche lui) Faccio finta di non vederti, anche se
questa sarebbe omertà… Ma se mi assicuri che il discorso che ho
appena fatto sia comprensibile, chiudo un occhio, solo per te.
E: Versando un liquore in un bicchiere. Il concetto era
chiarissimo… Non scherzavo quando ti dicevo che ti capisco. È solo
che ogni tanto ho bisogno di un aiutino per distendere i nervi… la
sigaretta non mi basta più ormai. Ne ho davvero bisogno, anche
perché non riesco più neanche a dormire…
G: Idem: siamo in due.
E: Da alcune notti a questa parte ho cominciato a fare un sogno
strano. Credo di sognare la mia morte…
G: Stai scherzando?
E: No. È una cosa angosciante, ma continuo a fare questo sogno
ricorrente, strano, in cui sono per strada durante una giornata
normale e passeggio… (Si ferma per qualche secondo, poi sospira e
ricomincia) È tutto così tranquillo, c’è un’atmosfera
eccessivamente statica e questo mi inquieta. Non c’è nessuno in
strada, è tutto deserto, sembra di essere in una città fantasma…
Ad ogni passo sono più irrequieto, è come se sapessi che sta per
succedermi qualcosa, come se un pericolo fosse proprio dietro
l’isolato che sto attraversando a passo lento. Nemmeno la mia
pistola mi fa sentire sicuro, è come se non fosse sufficiente per
quello che sto per affrontare. Cammino molto, ma nonostante questo
mi ritrovo sempre allo stesso identico punto, sempre davanti ad un
maledettissimo edificio: non ho scampo finisco sempre lì. Mi
sembra quasi che qualcuno che non posso vedere mi stia tendendo
una trappola. Allora mi agito, comincio a correre per scovarlo,
corro, corro, ma non c’è nulla. Percorro sempre gli stessi viali
alberati, sempre gli stessi isolati, vedo sempre le solite
macchine e mi ritrovo sempre nello stesso stramaledetto punto.
Aumento la corsa, ma ritorno a quell’edificio, è soffocante.
Aumento la mia velocità dalla fretta non più di scovare il mio
avversario, ma di fuggire. Cado. Non riesco a rialzarmi ho la
schiena bloccata, le mani bloccate ed anche gli arti. Cado col
viso verso il sole, mi sento accecare, cerco di focalizzare la
vista su ciò che è intorno a me ma non ci riesco, il sole è troppo
forte. Mi concentro, provo ancora a rialzarmi per la seconda
volta, sento la tensione in ogni fibra del mio corpo, come se i
miei muscoli si stessero lacerando. Con uno sforzo enorme riesco
ad alzarmi e, mentre cerco di ripulirmi i jeans dalla polvere
dell’asfalto, porto il mio sguardo a terra. Vedo brandelli di
vestiti, continuo a camminare per capire cosa sia successo, ancora
brandelli, brandelli e poltiglia grigio rossastra. Accelero il
passo per capire cosa stia accadendo, l’unica cosa intera che vedo
al suolo è una scarpa. La riconosco: appartiene ad uno dei miei
colleghi di scorta. La tensione in me aumenta, continuo a correre
per trovare i miei compagni, urto qualcosa col piede. Decido di
chinarmi per capire di cosa si tratta: una radio. L’afferro, cerco
di sintonizzarla, trovo finalmente la stazione giusta e una voce
metallica comincia a parlare dicendo: “notizia drammatica
dell’ultima ora: Paolo Borsellino egli agenti della sua scorta
sono morti, tutti morti, tutti morti…”E a questo punto, di solito,
mi risveglio nel mio letto in un lago di sudore...
G: È assurdo.
E: E ovviamente dopo non riesco più a prendere sonno.
G: È che… è che anche a me succede la stessa cosa. Di sognarmi la
mia morte… sempre lo stesso sogno ricorrente ormai.
E: (Solleva il bicchiere, come per brindare da solo, cercando di
sdrammatizzare) Beh… ai pensieri felici allora! (Beve)
G: Il mio sogno ha inizio all’uscita del municipio, dopo una
seduta del consiglio comunale. Questa sera è durato più del
solito, ormai sono le undici, e io non vedo l’ora di tornare a
casa, abbracciare mia moglie, dare il bacio della buonanotte a mio
figlio, anche se quasi sicuramente sta già dormendo, e rifugiarmi
sotto le coperte. Salgo sulla mia vecchia BMW amaranto, metto in
moto e parto. Cerco di sintonizzare la radio sulla mia stazione
preferita, ma sembra che questa sera la mia radio non funzioni… Le
strade sono buie e l’aria è fredda, dopotutto siamo a febbraio, ma
questo freddo ha qualcosa di diverso…Inizio a costeggiare la
ferrovia, mi sto avvicinando a casa, c’è silenzio, non ci sono
molti treni a quest’ora: l’ultimo dovrebbe passare tra poco.
Intravedo nella luce pallida dei lampioni la via in cui devo
svoltare, metto la freccia, svolto a destra e poi subito a
sinistra nel grande parcheggio.Scendo, prendo alcuni documenti che
avevo gettato alla rinfusa sul sedile posteriore e chiudo
accuratamente l’auto. Mi avvio tranquillamente, seppur a grandi
passi a causa del freddo, verso casa. Proseguo lungo la via, ma
noto subito qualcosa di strano nella prima abitazione davanti a
me: porte e finestre spalancate e buie… In pieno inverno? Proseguo
senza pormi troppe domande, sono stanco e impaziente di arrivare,
tuttavia noto la stessa cosa anche nella seconda e così nella casa
seguente e in quella dopo ancora. Nessuna porta e nessuna finestra
è chiusa o accesa: sono tutti dei neri rettangoli vuoti. Accelero
il passo, comincio ad avere il fiatone, ma poi qualcuno che non
riesco a vedere lancia dei sassi verso di me da quelle finestre
scure, non capisco… corro! Uno mi colpisce al volto. Provo a
tastarmi la fronte, ma ritraggo subito la mano: è ricoperta di
sangue. Corro ancora più velocemente. Un altro sasso mi colpisce,
sempre sulla testa. Provo a proteggermi, ma invano. Ne arriva un
altro e dopo un altro ancora. I sassi continuano a piovermi
attorno ma fortunatamente non mi colpiscono più. Qualcosa mi cola
sulla fronte e sugli occhi impedendomi di vedere chiaramente… nel
buio della notte non distinguo esattamente cosa sia, ma presumo
sia sangue.Arrivo davanti a casa, la porta è chiusa, cerco di
avvicinarmi per aprirla ma sento un ultimo fortissimo colpo alla
fronte. Rimango un attimo immobile, troppo stordito per riuscire a
reagire ma ancora abbastanza cosciente da rendermi conto dello
sferragliare del treno che finalmente è arrivato. Ed io sono
ancora lì, immobile davanti a casa, ma sembra che la luce intorno
a me si stia affievolendo sempre di più, mi volto e il lampione si
spegne improvvisamente. Un brivido di paura mi percorre la
schiena, lascio cadere a terra i fogli che reggo tra le mani, ma
per qualche strano motivo riesco a tenere strette le chiavi
dell’auto. Immobile, in assoluto silenzio, al buio… poi,
all’improvviso, una risata gelida e come soddisfatta... (Silenzio)
La prima notte che ho fatto questo sogno mi sono svegliato di
soprassalto, sudato e ansimante come se quella corsa l’avessi
fatta per davvero. Mi sono rigirato nel letto per assicurarmi che
mia moglie stesse bene… ed era così. Mi sono alzato per
controllare mio figlio: stava bene anche lui. Però non sono
tornato in camera da letto, ero troppo agitato… sapevo già che
quella notte non avrei più potuto dormire.
C’è un lungo silenzio. Entrambi rimango con lo sguardo fisso
davanti a loro, senza guardarsi. Poi improvvisamente Eddie Scaglia
a terra il suo bicchiere, che va in frantumi. Entrambi rimangono
ancora in silenzio, per qualche attimo, guardando passivamente i
frammenti di vetro.
E: Io ci provo a sdrammatizzare, a sorridere, ad elevarmi al di
sopra di tutto… di tutto questo dolore, questo schifo, questa
frustrazione… (Cerca amaramente di accennare un nuovo sorriso) E
sono bravo di solito… ma ogni tanto non mi riesce. (Silenzio) Mi
chiedo: se davvero dovessi morire, come in quel sogno… che cosa
lascio? Che senso avrebbe per gli altri quello che ho fatto? Cosa
rimarrebbe di me? E… non so darmi una risposta che mi convinca. E
questo mi fa male.
G: Neanch’io riesco mai a darmi una risposta convincente… perché
me le faccio anch’io queste domande, ovviamente. Però… cerco di
convincermi del fatto che anche noi serviremo a qualcosa. Anche
noi rimarremo. Dobbiamo crederci: anche noi rimarremo. Anche se
soltanto nella mente, nel ricordo chi ci vuole bene: questo
sarebbe già sufficiente. Rimarremo lì in attesa nel ricordo, nel
racconto di mia moglie, di tua moglie, dei nostri colleghi…
sopravvivremo lì e prima poi quel ricordo, quel racconto passerà a
qualcun altro e allora saremo d’esempio anche per altre persone.
Dovremo solo attendere, essere pazienti. Dobbiamo pensarla così:
anche se s’avverassero i nostri peggiori incubi, noi rimarremo lì
in qualche spazietto di memoria e continueremo a fare quello che
abbiamo sempre fatto, a lottare.
E: È bello pensarla così… Mi rasserena.
Improvvisamente si sente il suono della campanella provenire
dell’esterno, dalla banchina dei treni.
G: Che ore sono? Non ho l’orologio.
E: (Si guarda il polso) Cavolo… neanch’io ce l’ho. Vado fuori a
vedere che treno sta arrivando.
Eddie esce. Giovanni intanto riapre il suo libro e ricomincia a
leggere. Ad un certo punto, rimane con la penna sospesa a
mezz’aria, eallunga lo sguardo fino all’estremità opposta della
panca, verso il borsone di Eddie. Si guarda attorno, poi chiude
risolutamente il libro. Fissa sempre la borsa, fino a quando
decide di alzarsi cautamente per andare verso la porta che dà
sulla banchina dei treni e guardare fuori. Si volta, torna verso
il borsone e, evitando di toccarlo, lo scruta come se volesse
capirne il contenuto.Improvvisamente sente dei passi alle sue
spalle e riapre immediatamente il libro che ha in mano. Entra in
scena Eddie, che rimane interdetto nel vedere l’altro in piedi
accanto alla sua borsa, che gli volta le spalle. Giovanni ritorna
lentamente al suo posto, sempre fingendo d’essere intento nella
lettura, mentre Eddie, dopo un attimo d’esitazione gli rivolge la
parola:
E: Sono le 15.40.
G: Come scusi?
E: Sono le 15:40…
G: Ah… la ringrazio.
E: Le campanelle suonano contemporaneamente, per entrambe le
direzioni, ma non si vedono treni all’orizzonte…
G: Immagino… immagino bisognerà aspettare…
Sipario