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L’ATTESA Atto unico PERSONAGGI: Walter Eddie Cosina (agente della scorta di Paolo Borsellino) Giovanni Trecroci (vicesindaco del comune di Villa San Giovanni) Sala d’attesa d’una piccola stazione di provincia. Si sente provenire dall’esterno il suono incessante della campanella che annuncia l’arrivo di un treno. All’interno, in scena, sulla panca di legno siede un uomo in camicia bianca che legge un libro con estrema concentrazione, tenendolo con la mano sinistra, mentre nella destra ha una matita con cui, ogni tanto, segna appunti su dei fogli slegati che tiene accanto a sé sulla panca. La sua figura trasmette un certo senso di ordine e cura: la camicia chiara ben stirata, capelli pettinati con attenzione, occhiali dalle lenti larghe. Ad un certo punto, rimane con la penna sospesa a mezz’aria, e lo sguardo che s’allunga fino all’estremità opposta della panca, sospettoso: un borsone evidentemente lasciato lì da qualcuno che ancora non vediamo. Cerca di concentrarsi sul suo lavoro, ma non ci riesce: ogni volta che tenta di segnarsi degli appunti, lo sguardo è irrimediabilmente attratto da quella borsa. Sembra essere piuttosto ansioso, forse spaventato. Si guarda attorno, poi chiude risolutamente il libro: è troppo agitato per continuare. Fissa sempre quella borsa, fino a quando decide di alzarsi cautamente per andare verso la porta che dà sulla banchina dei treni e guardare fuori: sembra voglia spiare o controllare i movimenti di qualcuno. Poi, resosi forse conto di averne la possibilità, si volta, torna verso il borsone e, evitando di toccarlo, lo scruta

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L’ATTESA

Atto unico

PERSONAGGI:

Walter Eddie Cosina (agente della scorta di Paolo Borsellino)

Giovanni Trecroci (vicesindaco del comune di Villa San Giovanni)

Sala d’attesa d’una piccola stazione di provincia. Si sente

provenire dall’esterno il suono incessante della campanella che

annuncia l’arrivo di un treno. All’interno, in scena, sulla panca

di legno siede un uomo in camicia bianca che legge un libro con

estrema concentrazione, tenendolo con la mano sinistra, mentre

nella destra ha una matita con cui, ogni tanto, segna appunti su

dei fogli slegati che tiene accanto a sé sulla panca. La sua

figura trasmette un certo senso di ordine e cura: la camicia

chiara ben stirata, capelli pettinati con attenzione, occhiali

dalle lenti larghe. Ad un certo punto, rimane con la penna sospesa

a mezz’aria, e lo sguardo che s’allunga fino all’estremità opposta

della panca, sospettoso: un borsone evidentemente lasciato lì da

qualcuno che ancora non vediamo. Cerca di concentrarsi sul suo

lavoro, ma non ci riesce: ogni volta che tenta di segnarsi degli

appunti, lo sguardo è irrimediabilmente attratto da quella borsa.

Sembra essere piuttosto ansioso, forse spaventato. Si guarda

attorno, poi chiude risolutamente il libro: è troppo agitato per

continuare. Fissa sempre quella borsa, fino a quando decide di

alzarsi cautamente per andare verso la porta che dà sulla banchina

dei treni e guardare fuori: sembra voglia spiare o controllare i

movimenti di qualcuno. Poi, resosi forse conto di averne la

possibilità, si volta, torna verso il borsone e, evitando di

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toccarlo, lo scruta come se volesse capirne il contenuto. Sembra

quasi sul punto di voler aprire la borsa, ma sente dei passi alle

sue spalle e riapre immediatamente il libro che ha in mano. Entra

in scena un secondo uomo, sulla trentina, con baffi scuri che

accentuano ancora di più la giovialità del suo aspetto. Rimane

interdetto nel vedere che l’altro, che adesso gli volta le spalle,

è in piedi accanto alla sua borsa. Giovanni ritorna lentamente al

suo posto, sempre fingendo d’essere intento nella lettura, mentre

Eddie, dopo un attimo d’esitazione gli rivolge la parola:

E: Sono le 15.40.

G: Come scusi?

E: Sono le 15:40…

G: Ah… la ringrazio.

E: Le campanelle suonano contemporaneamente, per entrambe le

direzioni, ma non si vedono treni all’orizzonte…

G: Immagino… immagino bisognerà aspettare…

Giovanni riabbassa subito lo sguardo dopo aver risposto, in

maniera evasiva. Eddie va a risedersi accanto alla sua borsa e,

con finta noncuranza, poggia una mano sulla borsa per verificare

che l’altro non abbia preso nulla. Dopo essere rimasto a

guardarlo, dubbioso, si rivolge nuovamente a Giovanni:

E: Che treno sta aspettando?

G: Come?

E: Che treno aspetta? Verso che direzione?

G: (è esitante nella risposta) Io… non saprei dirle la direzione

del mio treno.

E: Come fa a non saperlo? Non è di qui lei?

G: Chi glielo dice che sono di qui? Ci conosciamo per caso?

E: No… io non la conosco…

Giovanni torna a fissare lo sguardo sul libro, ma è visibilmente

agitato. Eddie si alza in piedi, si riavvicina alle finestre per

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poi voltarsi di nuovo verso Giovanni: lo fissa, da lontano. Sfila

da una tasca un pacchetto di sigarette e ne accende una: fuma

senza mai distogliere lo sguardo dalla figura di Giovanni; sembra

quasi che voglia sfidarlo in qualche maniera. Giovanni s’accorge

che l’altro lo guarda; di volta in volta rialza lo sguardo anche

lui, per riabbassarlo subito però. Poi prende coraggio:

G: Perché mi fissa?

E: Io? Non la sto mica guardando… (continuando però a scrutarlo)

Giovanni riabbassa lo sguardo. Eddie continua a fumare fino a

quando Giovanni non rialza gli occhi.

E: Le da fastidio il fumo forse?

G: A me? No…

E: Ah: mi sembrava di renderla nervoso.

G: No, si sbaglia… anche se in effetti non si potrebbe fumare qui.

E: E allora perché non me l’ha detto?

G: Non so, non mi dà fastidio le ho detto…

E: Quindi mi stava guardando… perché vuole una sigaretta anche

lei?

G: No, io non la stavo guardando. E comunque non fumo.

E: Non fuma… e non le dà fastidio che fumi?

G: Mmm… sono abituato ad avere attorno fumatori: non capisco la

sua domanda.

E: (sempre più incalzante) Vorrei capire perché mi stava

guardando.

G: (prendendo coraggio) No… era lei a fissare me.

E: Io?

G: Sì.

E: Beh… vede qualcun altro qui dentro? Siamo in due, ci può stare

che magari l’abbia guardata.

G: Bene: allora ci può stare la stessa cosa anche per me, no?

E: Ah… quindi mi stava guardando, effettivamente.

G: Mi scusi, ma… devo lavorare.

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Giovanni cerca nervosamente di tornare sulla lettura. Eddie si

risiede, ma continua sempre a fissarlo, come se volesse a tutti i

costi smuovere la situazione.

E: Da che parte è il nord? Non capisco da dove dovrebbe arrivare

il mio treno.

G: (esita un attimo prima di rispondere. Poi indica) Di là.

E: Ah, bene. E se sa dov’è il nord… come fa a non sapere da che

parte deve andare lei?

G: Ma… cos’è che vuole da me?

E: Io? Niente… sono solo curioso di conoscere le persone che

incontro quando viaggio. Lei è di qua, vero?

G: (Chiude il libro, come se fosse finalmente intenzionato a

mettere da parte qualsiasi schermo e ad affrontare l’altro) È la

seconda volta che lo chiede… Me lo sta chiedendo o sa già la

risposta?

E: Lo deduco… è senza valigia, insomma…

G: Quindi io dovrei dedurre che lei è di chi sa dove perché ha un

borsone?

E: Magari sì…

G: Bene, allora mi dica di dov’è lei: arriva o parte?

E: Lei non mi ha ancora risposto, perché dovrei dirglielo prima

io?

G: Io abito qui vicino, uno dei paesi qui sullo stretto: gliel’ho

detto adesso. Lei?

E: Io?

G: Sì: di dov’è lei?

E: (aspetta a rispondere, con uno sguardo di sfida) Boh. Non me lo

ricordo…

Giovanni sta per controbattere, ma poi, come rassegnato, si

risiede e prende il libro tra le mani, senza riaprirlo questa

volta: ne guarda la copertina, assorto, poi con un sospiro, riapre

la borsa per riporvi il libro e i fogli.

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E: Cosa legge?

G: Non le importa…

E: Mi importa sapere se lei quel libro lo stava effettivamente

leggendo… Mi sembrava facesse solo finta di leggerlo…

Giovanni non risponde. Rimette le sue cose in borsa, veloce ma

tremante.

E: Va via?

G: Ripeto: non le importa.

Nel rispondere e nella fretta, i fogli gli sfuggono di mano e si

spargono sul pavimento. Giovanni rimane interdetto, immobile

inizialmente, poi prende lentamente a raccoglierli. Uno è finito

vicino le gambe di Eddie, che però non accenna ad abbassarsi.

Giovanni guarda Eddie, poi si avvicina e s’inginocchia a

raccogliere il foglio, senza però distogliere lo sguardo

dall’altro. Nel rialzarsi, rimane (vd Elisa).

G: Fino a qui mi avete seguito? Che senso ha? Tanto sapete dove

abito, sapete chi sono, sapete tutto… Che senso hanno tutte le tue

domande? Sì, sono Giovanni Trecroci, va bene? Era questo che

volevi sapere? Volevi averne la certezza prima di sparare?

Eddie, a queste parole, rimane interdetto e si porta una mano alla

fondina della pistola, intuendo che l’altro l’ha vista.

G: Sono Giovanni Trecroci. Sono quello che stavi cercando, no?

Puoi spararmi tranquillamente adesso…

Eddie è sorpreso e costernato: s’abbassa velocemente a raccogliere

i fogli di Giovanni da terra e glieli porge insieme al suo

distintivo.

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E: Scusami… non volevo farti paura. Pensavo mi stessi seguendo:

sono l’agente di polizia Eddie Cosina. Tranquillo.

Giovanni si risiede, confuso, visibilmente scosso, respira

profondamente, come se cercasse di tranquillizzarsi.

E: Ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa? Acqua?

Giovanni accenna un no solo con la testa.

E: Posso provare a prenderti dell’acqua dal bancone del bar…

G: No… No, davvero: sto meglio.

E: Sicuro?

Giovanni risponde nuovamente con un solo cenno della testa, ad

occhi chiusi.

G: Ma… quella pistola devi tenerla così in vista?

E: Lo so, scusami ma… devo tenerla così. Non volevo spaventarti.

G: L’hai fatto però!

E: Davvero: mi dispiace! Ma sono costretto a tenere la pistola a

portata di mano.

G: Sì… e tutte quelle domande?

E: Avevo paura…

G: Tu! Tu avevi paura?

E: Pensavo mi stessi seguendo.

G: Ma se sei tu quello che mi ha tartassato di domande!

E: Lo so… lo so… Volevo cercare di capire che intenzioni avessi.

Ero troppo teso per stare così, ad aspettare. Però ha funzionato:

sono tranquillo adesso.

G: (Rilassandosi finalmente in un sorriso ancora un po’ tirato)

Vaffanculo.

E: Beh… anch’io ti ho visto lì in piedi a guardare la mia borsa.

G: Avevi un aria strana…

E: Ma… chi pensavi che fossi?

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G: Non lo so… non lo so…

E: Come “non lo so”: mi hai chiesto di spararti.

G: Pensavo… pensavo fossi qui per me.

E: Sì… ma perché?

G: Non lo so… non lo so… Negli ultimi tempi tutto quello che mi

sta attorno mi sembra una minaccia. Vedo pistole come quella lì

sotto ogni giacca. Ho paura a parlare, a confidarmi con chiunque,

anche con i miei amici più stretti, con i miei parenti: credo di

farlo per non metterli in pericolo a causa mia… ma forse ho paura,

forse una qualche parte di me ha paura anche di loro. Ho paura di

tutto ormai. Ho paura di bere il caffè, ho paura del dentifricio

con cui mi lavo i denti… E il bello è che non so neanche se dovrei

avere paura o no. È questa la cosa peggiore. La gente attorno a me

è serena, sorride, fa tutto quello che dovrebbe fare normalmente,

come ogni giorno… e anch’io mi sforzo di fare come loro: faccio

colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa; faccio

colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa; faccio

colazione, sveglio mio figlio, lavoro, faccio la spesa… cerco di

essere normale, ma non ce la faccio. Non ce la faccio. Perché non

riesco a fare tutto questo senza chiedermi se anche domani potrò

alzarmi, fare colazione, svegliare mio figlio, andare a lavoro,

fare la spesa… E cerco di soffocarla questa domanda, davvero, ci

provo, perché al momento questa domanda non ha senso, forse;

perché magari mi sto preoccupando per niente, ma non ce la faccio

a non pensarci. Non riesco ad essere sereno come tutti gli altri.

E penso che dietro a ogni saluto, ad ogni sorriso, a qualsiasi

cenno, non ci sia solo un cenno, un sorriso o un saluto, ma

piuttosto un avvertimento, o una minaccia… a volte penso che le

persone con cui parlo sappiano qualcosa che io ancora non so, e

che se ne stiano lì ad aspettare che accada, ad aspettare di

vedermi… È assurdo. Da due mesi a questa parte accendo la mia auto

solo quando sono da solo, cerco di farlo sempre prima che mia

moglie e mio figlio mi raggiungano… E non so dirti se esagero o

no…

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Giovanni sembra essere sul punto di piangere: sembra sia sempre

più preda d’una disperata rassegnazione.

Eddie è interdetto, non sa come comportarsi: gli si avvicina, ma

non riesce a trovare parole con cui consolarlo. Decide di

porgergli di nuovo il pacchetto da cui sporge una sigaretta.

E: Ma… non fumi proprio per niente? (Sorridendo, tentando di

sdrammatizzare) Perché una sigaretta è l’unica cosa che posso

offrirti: non sono bravo con le parole, non so che dire… Sarei

bravo a riempirti un bicchiere… ma il bar è chiuso. Sicuro?

G: Forse è il caso… (Sfila la sigaretta dal pacchetto di Eddie e

la prende tra le labbra. Eddie gliel’accende, con un sorriso

premuroso, poi accende anche lui una sigaretta. Fumano in

silenzio: Giovanni è a occhi chiusi, mentre Eddie lo scruta ogni

tanto, curioso e allo stesso preoccupato per l’altro.) Se

preferisci rimanere solo, non ci sono problemi… vado.

G: No… no, assolutamente. Anzi scusami per… per tutta quella scena

di prima.

E: Ma non ci pensare.

G: (Guardando la sigaretta) Ne avevo bisogno effettivamente…

E: Bene… almeno questo. Vorrei aiutarti, ma te l’ho detto: con le

parole faccio pena…

G: Ma no… No… scusami tu: non sono molto lucido negli ultimi

giorni. Davvero… una scena così non è da me.

E: Ma non ci pensare, dai , capita a tutti…

G: È che davvero non è da me: è la prima volta che dico… certe

cose.

E: Magari è proprio questo il problema: dovevi sfogarti…

G: Sì… forse sì, ma sai com’è… (Accennando un sorriso) Quando ti

rendi conto di essere esploso davanti ad un perfetto sconosciuto

nel mezzo di una stazione… un po’ te ne vergogni.

E: (Bonariamente ironico) Effettivamente sì… io al posto tuo sarei

già chiuso in bagno per la vergogna.

G: (Sorride, più tranquillo adesso) Appunto.

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E: Però… per salvare la situazione possiamo fare in modo che io

non sia uno sconosciuto. Anzi… forse ci conosciamo già abbastanza

in realtà. (Giovanni lo guarda, senza capire) Da quello che hai

detto prima… credo di aver capito a grandi linee che cosa stai

passando. Anch’io sono nella tua stessa condizione…

G: Mmm… non mi sembri calabrese però, almeno da come parli.

E: Davvero? (sorridendo ironico) Effettivamente sarei più

credibile come croato che come calabrese… (Giovanni lo guarda con

un’aria interrogativa ed allora Eddie si batte l’indice sul petto)

Trieste!

G: Davvero?

E: Triestino ciapa’ de le stringhe, sì.

G: Ma… che ci fai qui?

E: Lavoro… Un lavoro per cui non posso essere sicuro di tornare a

casa e riabbracciare la mia famiglia. Per questo posso capirti,

posso comprendere bene il fatto che tu non abbia certezze,

sicurezze. Io sono in Sicilia da poche settimane: questa è la

seconda volta che torno dalla mia famiglia in licenza… Pochissimi

giorni soltanto, ma necessari: è dura resistere qui. Quando sono

partito la prima volta ero sereno, così sereno che ho mentito a

mia moglie e a mia madre in maniera abbastanza convincente credo:

non ho detto quello che sono realmente venuto a fare in Sicilia,

mi è bastato raccontare che dovevo occuparmi di faccende

amministrative e loro credo mi abbiano creduto… magari un po’

scettiche all’inizio, ma non si sono poste troppe domande. Mia

moglie non mi fa tantissime domande sul lavoro: cerca di indurmi a

parlare in maniera spontanea, è furba, ma se non mi sbilancio a

raccontarle troppo lei non insiste con le domande. (Silenzio) Dopo

i primi venti giorni in Sicilia invece, quando sono rientrato a

Muggia…

G: È il tuo paese?

E: Sì, un paesino sotto Trieste: ti affacci dalla finestra e sei

già in Slovenia. Quando sono tornato… ho pianto. Non l’avrei

immaginato. Non ce l’ho fatta a trattenermi… e non ho neanche

voluto trattenermi. In quei pochissimi giorni di licenza non ce

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l’ho più fatta a mentire alla mia famiglia, non ne avevo la forza,

non sarei stato credibile… Non ho raccontato nulla e loro mi hanno

chiesto poco, ma hanno capito tutto. E quando sono ripartito per

tornare in Sicilia… ho avuto l’impressione di salutarli per

l’ultima volta. È stato terribile. Io ho perso mio padre quando

avevo ventun’anni… e fino a qualche settimana fa, se qualcuno

m’avesse chiesto qual era stato il dolore più grande che ho

provato nella mia vita, beh… avrei pensato istintivamente al

momento in cui ho visto chiudere la bara di mio padre. Avevo già

pianto, avevo già capito, razionalizzato, prefigurato quello che

sarebbe stato… ma in quel momento ho avvertito come un bruciore

che mi mordeva lo stomaco e i polmoni, dall’interno del mio stesso

petto, ed ero costretto a dei respiri corti, per non sentire

dolore, sempre più corti, e poi l’affanno e una sensazione di

vertigine… Ecco questa sensazione l’ho riprovata quest’ultima

volta in cui sono partito per la Sicilia, quando ho salutato mia

moglie, mia madre, mia nipote… E quel morso era ancora più forte

questa volta, più doloroso, è stato quasi lancinante. Ero quasi

sul punto di urlare, non ce la facevo… Pensare, nel momento in cui

saluti le persone che ami, che forse lo stai facendo per l’ultima

volta… ecco: questo dubbio terribile è qualcosa che mi ha dato più

dolore della morte stessa, di un distacco certo e irrimediabile.

(Silenzio. Guarda Giovanni, cercando di tornare a sorridere.) Mi

credi se dico che ti capisco? Io questo dolore l’ho provato una

volta sola… e rabbrividisco all’idea di doverli salutare di nuovo

tra solo cinque giorni, di dover provare ancora questa sofferenza.

Se mi dici che per te questo accade ogni giorno, beh… Vorrei

essere te: evidentemente sei una sorta di superuomo, di eroe,

perché io sarei già collassato al tuo posto.

G: Fidati, in questo momento non augurerei a nessuno di essere me.

Vorrei solo potermi addormentare con AnnaMaria… preoccupandomi

solo di impostare la sveglia al giusto orario e… anche

semplicemente di cosa cucinare domani a pranzo. Pesce o carne?

E: (Sorride) Alici o pesce spada?

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G: (Sorride anche lui, stando al gioco) Alici. Alici sicuramente!

Ma marinate o gratinate?

E: Gratinate. Gratinate sicuramente! Ma… con prezzemolo o senza

prezzemolo?

G: “Con”, sempre con, ovvio.

E: Anch’io mi diverto a pensare a quale delizioso piatto cucinerà

mia madre al mio arrivo: le lasagne? La parmigiana? O un bel

piatto di gnocchi? Mi manca anche la sua cucina, il profumo di

cibo che esce da quel luogo prima dei pasti, l’odore stesso di

casa mia, perché si sa: ogni casa ha il proprio odore. Immagino di

correre dai miei cari, di abbracciarli, di stringerli…

G: Come si chiama tua moglie?

E: Monica. Anzi… ora te la presento. (Estrae una piccola foto

tessera dal portafogli e la mostra a Giovanni)

G: È bella.

E: Lo è ancora di più dal vivo, fidati.

G: La porti sempre con te questa foto?

E: Sì… da quando sono partito sì. Mi da forza guardare il suo viso

in certi momenti, in quei momenti in cui sei così… distrutto,

mentalmente stanco da fare fatica anche solo ad attivare un

ricordo, un’immagine col tuo cervello: guardare la foto mi aiuta,

mi rilassa, sorrido e lascio che la mia mente vada a riposo. E

poi, al massimo, sogno soltanto di andare a casa mia, accomodarmi

su un bus, su un aereo o su un treno proprio come quello che

stiamo attendendo. Penso a quanto possa essere rasserenante

estrarre dalla mia valigetta un giornale, leggerlo con calma

guardando di tanto in tanto fuori dal finestrino… Ho un estremo

bisogno di avere la certezza di tornare, di sentirmi a casa di

ritrovare quella quotidianità che si dissolve. E immagino di

vedere da un finestrino, non importa di quale mezzo, la mia

stazione, col paesaggio di casa, di casa mia. È un paese piccolo

il mio, Muggia, ma davvero delizioso, con un porticciolo in cui

staresti ore seduto a goderti la pace su una panchina.

G: Anche Villa San Giovanni, il mio paese, può essere molto bello

se non pensi a tutto il marcio che ci circonda. Il momento più

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bello per godertelo è la tarda sera, quando riesci ad illuderti

che il buio si sia fagocitato tutto il male di questa terra e

rimani a guardare le luci di Messina al di là dello stretto. Se

cerchi degli scogli isolati, senza lampioni, non vedi più i

riflessi del mare davanti a te: lo stretto così diventa come una

striscia vuoto, d’infinito nero, con un aldilà luminoso che vibra

e ti sorride; quasi ti dimentichi d’avere l’acqua davanti e

vorresti correrci sopra.

(I due rimangono in silenzio per qualche attimo, assorti nei loro

pensieri.)

E: Tua moglie invece come si chiama?

G: AnnaMaria, ma non ho anch’io una foto per presentartela.

E: Non c’è problema: mi fido se mi dici che è bella.

G: Sì, fai bene a fidarti: è un po’ più giovane di me… e sono

davvero fortunato, perché è splendida.

E: Tuo figlio invece?

G: Giuseppe. Ha soltanto un anno… e adesso aspetta la sorellina.

E: Ah, beh: auguri allora.

G: Grazie. Non vedo l’ora che arrivi… ho bisogno di quanta più

gioia possibile in questo momento. Tu invece? Niente bambini?

E: No, non ancora… Ma dopo quest’esperienza in Sicilia, quando

tutto sarà finito, credo che tornerò a casa e m’impegnerò

seriamente a riguardo (Sorride, per poi però farsi subito serio).

Quando penso che potrei morire qui ed ora… sento che c’è una parte

di me, razionale, che sfugge alla paura e si sofferma piuttosto a

considerare che è davvero un peccato andarsene senza aver lasciato

un figlio al mondo.

G: Scusa ma… a questo punto non riesco più a trattenere la

domanda, che cosa fai esattamente in Sicilia? Sei con l’antimafia?

E: Sì… sono un agente di scorta, uno degli agenti di scorta di

Paolo Borsellino. Dopo la morte di Falcone, servono sempre più

agenti… stanno reclutando in tutta Italia e io ho deciso di

accettare la missione qui: dopo tutto quello che è successo, ho

sentito di dover fare anch’io quello che posso.

G: Beh… anche tu quindi non sei certo uno da invidiare.

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E: (Sorride alla battuta di Giovanni) Sono consapevole dei rischi

di questo lavoro… Lo stesso giudice si definisce ormai un cadavere

che cammina, non vuole più nemmeno la scorta: si sentirebbe

responsabile della nostra morte… Ma abbiamo deciso di non

abbandonarlo. Sono consapevole dei rischi, ma l’ho voluto io: io

amo quello che faccio, anche se in ogni caso la pura di morire di

morire è tanta… Immaginavo quella che poteva essere la situazione

in Sicilia, ma la realtà in cui mi sono trovato… devo dire che

supera l’immaginazione. Palermo è praticamente una città in stato

d’assedio: ci sono anche blindati e carri armati in strada… se

solo servissero. Non ho mai provato la sensazione che avverto da

quando sono qui: mi sento invecchiare, ora per ora, lo vedo sulla

mia pelle, me ne rendo conto spaventato ogni volta che mi guardo

allo specchio. È una sensazione strana, come se all’improvviso, di

punto in bianco, cominciassi a percepire la velocità della

rotazione terrestre… è una cosa strana. Ma la tensione ormai è la

costante delle nostre giornate: ho imparato a guidare tenendo il

volante solo con la sinistra, mentre nella destra tengo la pistola

con pollice e indice, e con le altre dita uso il cambio. Mi ci

manca solo di girarmi il caffè con la canna della pistola… E non

ci sono momenti di pausa, non può esserci un attimo di distensione

o riposo se non in licenza. Anche fumarsi una sigaretta mentre

aspettiamo il giudice fuori dal tribunale o dal suo appartamento…

non serve a niente, non ti rilassa: parli col tuo collega ma la

coda dell’occhio è sempre a lavoro, perché ci sono minacce che

magari stanno lì ad aspettare solo una nostra distrazione,

l’attimo in cui tiriamo il fiato ad occhi chiusi.

G: Non so che di dirti… da un lato sono felice di conoscere

persone come te, mi sento quasi di ringraziarti; ma d’altro canto

mi viene quasi spontaneo chiederti… perché? Chi te l’ha fatto

fare?

E: Guarda che così un po’ m’offendi…

G: No ti prego, non era questo il mio intento, te l’ho detto…

posso solo provare stima per poliziotti come te, che arrivano qui

da tutt’Italia.

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E: Quando ho scelto di fare questa carriera… ho preso questa

decisione perché sentivo sul serio l’impulso, il desiderio quasi,

di mettermi a servizio di qualcosa di più grande di me, di poter

essere utile a tutti. È una scelta forte da un certo punto di

vista, antiindividualista… ma sentivo che era quella giusta. Da

giovane ho cercato di immaginarmi impegnato in diversi lavori…

alcuni anche interessanti, mi sarebbero piaciuti effettivamente,

però, quando ho cominciato a focalizzare l’importanza del lavoro

che faccio ora, non ho più avuto dubbi: sarò anche l’ultimo dei

poliziotti magari, ma in questi anni di lavoro sento di aver

accumulato una ricchezza che va ben oltre lo stipendio o il

benessere di una singola famiglia. Sono uno di quei fortunati che

si sentono di poter camminare sempre a testa alta, che non devono

mai dubitare del buono di ciò che stanno facendo… e il bello è che

so che anche la mia famiglia gode di questa sensazione e sono

fieri di me. Nonostante tutta la tensione e la paura che posso

provare in alcuni momenti, o in maniera persistente come nelle

ultime settimane, non dubito mai della mia scelta e ho sempre

risposte pronte per ricacciare subito indietro qualsiasi

perplessità.

G: Ce ne fossero tante di persone come te…

E: Ma ce ne sono.

G: Ma non abbastanza… non siamo ancora sufficienti, evidentemente.

E: Scusami ma… tu invece? Non… non mi hai ancora spiegato niente

di preciso.

G: (Sorride) In effetti no. Sono io quello che è esploso… ma

finora le spiegazioni le hai date solo tu.

E: (Ammicca ironicamente) Appunto. Sospetti ancora di me?

G: No… anche se sospetto ancora un po’ dei tuoi baffi.

E: Ma dai! Sono anni che ce li ho… la mia nipotina li adora, a mia

moglie non dispiacciono e io mi rilasso terribilmente a giocarci

con le dita. Ma perché… i baffi sono distintivi della ‘ndrangheta

qui in calabria?

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G: No. (Sorride) Comunque, da dove posso cominciare… Mi chiamo

Giovanni Trecroci, abito a Villa S. Giovanni… ma questo te l’ho

già detto.

E: Di cos’hai paura?

G: Questo è il bello… non puoi mai saperlo, puoi solo vagamente

ipotizzarlo. In ogni modo… sono vice sindaco e assessore ai lavori

del comune di Villa San Giovanni.

E: Mmm… ora comincio a capirti, credo.

G:(Sorride amaramente) Basterebbe questo in effetti, purtroppo. Io

nella vita, in realtà, insegno Italiano alle scuole medie, ho a

che fare con i ragazzi. Ma ho deciso di non limitarmi a questo:

volevo contribuire in qualche modo a creare un futuro migliore, o

quantomeno meno spietato per i ragazzi che mi trovavo di fronte

nei banchi.

Ed è per questo che ho deciso di fare politica qui. Sono stato

eletto e per alcuni anni ho potuto lavorare in relativa

tranquillità, ero contento di ciò che facevo… ma la situazione qui

peggiora sempre più. Comunque, nel mio piccolo, volevo provare a

cambiare qualcosa, ero stufo di questo sistema corrotto che ci

soffoca lentamente e lo fa con un sorriso sulle labbra e con i

guanti bianchi, celando tutto sotto questa patina di normalità

irreale. E in ogni modo non mi sono mai pentito della mia scelta…

nonostante tutto. Certo mi aspettavo qualche problema, ma speravo

di non ritrovarmi in quest’inferno. Il peggio è cominciato meno di

un anno fa... evidentemente la ‘ndrangheta aveva deciso di

smettere di sopportare il fatto che io impedissi di far finire gli

appalti pubblici in mani di qualcuno colluso con loro. Questa è la

mia battaglia personale, il modo in cui lotto… senza pistola come

te, sì, ma i rischi sono gli stessi…

È iniziato tutto in modo subdolo: qualche messaggio velato,

qualche "consiglio" ambiguo. E adesso non riesco a dormire, non

riesco a mangiare, non capisco se vogliono uccidere me o, peggio,

la mia famiglia. È difficile stare sempre sull’attenti, non sapere

mai quando potrà capitare il peggio, perché tutto si cela sotto un

apparente normalità. Ma come faccio a lasciare? Ho sempre mio

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padre nella mente: "Giovanni non avere mai la presunzione di

essere migliore di qualcuno, anzi se trovi qualcuno che crede di

essere migliore degli altri devi lottare per fargli capire che non

è così". Me lo ripeteva spesso quando ero piccolo e forse è stato

lui a tramandarmi questo senso di giustizia. Così sono cresciuto

tra partite di calcio, merende con la marmellata… e ideali. E più

crescevo, più mi rendevo conto di quanto fosse difficile

preservare i miei principi, soprattutto nel posto in cui vivevo e

vivo tuttora: è un posto strategico, la porta d'accesso in Italia

per chi arriva dalla Sicilia, un manna dal cielo per chi riesce ad

accaparrarselo. Per questo nella mia città c'è una presenza

radicata di clan mafiosi e per questo è ancora più difficile

riuscire ad essere contro corrente: non sai quanti amici ho perso

perché hanno deciso di intraprendere la strada più facile… Se non

trovi lavoro e ti danno i soldi facili tu cosa decidi di fare?

Molti purtroppo hanno la risposta sbagliata per questa domanda… Io

invece sono stato molto fortunato: ho avuto mio fratello Franco.

Io e Franco siamo sempre stati molto uniti e ci davamo forza a

vicenda per andare avanti. Ci Diamo forza a vicenda e così quando

abbiamo deciso che cosa fare della nostra vita abbiamo deciso

entrambi di insegnare, ci è sembrata la scelta migliore… per

cambiare qualcosa bisognava cambiare la mentalità. È da lì che

bisogna partire… dalle basi, le basi anagrafiche intendo, i

ragazzi.

E: Due idealisti soli in una stazione… insomma.

G: A quanto pare sì… Ma alla fine che ci vuoi fare, è questo il

destino degli idealisti: aspettare. Che siano i treni o la

concretizzazione dei nostri ideali, ci tocca aspettare purtroppo.

E: In questo momento in realtà sarei ben contento di veder

arrivare prima il treno che la realizzazione dei miei ideali.

G: (Sorride) Guarda… aspetterei treni inesistenti in questa

stazione per l’eternità, se mi dicessero che nel frattempo là

fuori, in cambio, si realizzasse anche solo mezza delle cose per

cui sto spendendo la mia vita.

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E: Va beh… e allora aspetto anch’io. (Sorride) Però, perdonami… va

bene tutto, ma aspettare così, con questo caldo, a gola secca, no

eh! Non ce la faccio più: vado dietro il bancone del bar e prendo

qualcosa: ti va?

G: Mmm… no, ti ringrazio ma su questo passo.

E: Dai su! Non farmi bere da solo… giusto un amaro, una grappa,

qualcosa. Alla fine il bar è praticamente aperto anche se non c’è

nessuno. E se non dovesse arrivare anima viva prima dei nostri

treni… vorrà dire che gli lasceremo dei soldi lì sul bancone.

G: No, davvero… meglio di no. E sarebbe meglio che lasciassi stare

anche tu.

Eddie intanto va dietro il bancone del bar e cerca dei bicchieri.

Poi comincia leggere, ad una ad una, le etichette delle bottiglie.

E: Ma perché? Alla fine restituiremo tutto. E poi, su: ce lo

meritiamo. Dopo tutto quello che facciamo e che rischiamo, per

degli stipendi normali… non ci meriteremmo dalla società neanche

il credito di un bicchiere d’amaro?

G: No… è una questione di principio.

E: Ma con tutto lo schifo che ci troviamo di fronte ogni giorno

dovremmo preoccuparci di farci anticipare un bicchiere?

G: Sì… è proprio di questo che devi preoccuparti. Dimmi pure che

sono troppo pesante… ma tu non sai come funzionano le cose qui.

E: No, questo non puoi dirlo: non sarò nato qui al sud, ma la sto

vivendo sulla mia pelle questa realtà adesso…

G: Sì, nessuno lo mette in dubbio, ma io la vivo sulla mia pelle

da quando sono nato, capisci? Ci sono cose che sono molto più

complicate di quello che credi. Quello che hai visto a Palermo

dopo la morte di Falcone è solo la parte che viene a galla di

questo cancro maledetto: la mafia non è solo sparatorie e

ammazzatine, quelle sono il risultato, il culmine, l’escrescenza…

vedila come ti pare. La mafia comincia prima, ben prima di ciò.

Comincia quando inizi a pensare di poter fare come ti pare, di

essere in diritto di prendere per te qualcosa che sarebbe di

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tutti, sia anche qualcosa di piccolo. Quel po’ che prendi oggi

sottraendolo alla collettività, domani diventerà qualcosa di più

sostanzioso e poi crescerà ancora. No! Nessuno deve sentirsi

libero o in diritto di non rispettare le regole condivise da

tutti, per nessun motivo, perché è quando si comincia a fare

questo che nasce la mafia… il tritolo viene dopo.

E: Scusami…

G: No… non devi scusarti. Non voglio neanche essere pesante,

scusami tu, è che… vorrei solo che questo concetto fosse chiaro: è

qui il problema. È qui! Impedire le stragi non risolverebbe il

problema, non lo sradica: tagli un ramo, ma l’albero è sempre lì.

È questo il problema. Non si diventa mafiosi solo se si ammazza

qualcuno… O si capisce questo, o, per chi non la vive sulla

propria pelle, la mafia continuerà ad essere solo una sorta di

fenomeno esotico legato a queste regioni qui… ma non è così.

E: Ho capito. Non l’avevo mai vista in questa maniera… ma credo di

capire cosa intendi.

G: Scusa se mi infervoro…

E: Non devi scusarti, ti capisco, davvero… (Accennando un sorriso)

Però ti prego: non giudicarmi se un bicchiere lo berrò comunque in

questo caso… giuro che non lo farò mai più.

G: (Sorride anche lui) Faccio finta di non vederti, anche se

questa sarebbe omertà… Ma se mi assicuri che il discorso che ho

appena fatto sia comprensibile, chiudo un occhio, solo per te.

E: Versando un liquore in un bicchiere. Il concetto era

chiarissimo… Non scherzavo quando ti dicevo che ti capisco. È solo

che ogni tanto ho bisogno di un aiutino per distendere i nervi… la

sigaretta non mi basta più ormai. Ne ho davvero bisogno, anche

perché non riesco più neanche a dormire…

G: Idem: siamo in due.

E: Da alcune notti a questa parte ho cominciato a fare un sogno

strano. Credo di sognare la mia morte…

G: Stai scherzando?

E: No. È una cosa angosciante, ma continuo a fare questo sogno

ricorrente, strano, in cui sono per strada durante una giornata

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normale e passeggio… (Si ferma per qualche secondo, poi sospira e

ricomincia) È tutto così tranquillo, c’è un’atmosfera

eccessivamente statica e questo mi inquieta. Non c’è nessuno in

strada, è tutto deserto, sembra di essere in una città fantasma…

Ad ogni passo sono più irrequieto, è come se sapessi che sta per

succedermi qualcosa, come se un pericolo fosse proprio dietro

l’isolato che sto attraversando a passo lento. Nemmeno la mia

pistola mi fa sentire sicuro, è come se non fosse sufficiente per

quello che sto per affrontare. Cammino molto, ma nonostante questo

mi ritrovo sempre allo stesso identico punto, sempre davanti ad un

maledettissimo edificio: non ho scampo finisco sempre lì. Mi

sembra quasi che qualcuno che non posso vedere mi stia tendendo

una trappola. Allora mi agito, comincio a correre per scovarlo,

corro, corro, ma non c’è nulla. Percorro sempre gli stessi viali

alberati, sempre gli stessi isolati, vedo sempre le solite

macchine e mi ritrovo sempre nello stesso stramaledetto punto.

Aumento la corsa, ma ritorno a quell’edificio, è soffocante.

Aumento la mia velocità dalla fretta non più di scovare il mio

avversario, ma di fuggire. Cado. Non riesco a rialzarmi ho la

schiena bloccata, le mani bloccate ed anche gli arti. Cado col

viso verso il sole, mi sento accecare, cerco di focalizzare la

vista su ciò che è intorno a me ma non ci riesco, il sole è troppo

forte. Mi concentro, provo ancora a rialzarmi per la seconda

volta, sento la tensione in ogni fibra del mio corpo, come se i

miei muscoli si stessero lacerando. Con uno sforzo enorme riesco

ad alzarmi e, mentre cerco di ripulirmi i jeans dalla polvere

dell’asfalto, porto il mio sguardo a terra. Vedo brandelli di

vestiti, continuo a camminare per capire cosa sia successo, ancora

brandelli, brandelli e poltiglia grigio rossastra. Accelero il

passo per capire cosa stia accadendo, l’unica cosa intera che vedo

al suolo è una scarpa. La riconosco: appartiene ad uno dei miei

colleghi di scorta. La tensione in me aumenta, continuo a correre

per trovare i miei compagni, urto qualcosa col piede. Decido di

chinarmi per capire di cosa si tratta: una radio. L’afferro, cerco

di sintonizzarla, trovo finalmente la stazione giusta e una voce

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metallica comincia a parlare dicendo: “notizia drammatica

dell’ultima ora: Paolo Borsellino egli agenti della sua scorta

sono morti, tutti morti, tutti morti…”E a questo punto, di solito,

mi risveglio nel mio letto in un lago di sudore...

G: È assurdo.

E: E ovviamente dopo non riesco più a prendere sonno.

G: È che… è che anche a me succede la stessa cosa. Di sognarmi la

mia morte… sempre lo stesso sogno ricorrente ormai.

E: (Solleva il bicchiere, come per brindare da solo, cercando di

sdrammatizzare) Beh… ai pensieri felici allora! (Beve)

G: Il mio sogno ha inizio all’uscita del municipio, dopo una

seduta del consiglio comunale. Questa sera è durato più del

solito, ormai sono le undici, e io non vedo l’ora di tornare a

casa, abbracciare mia moglie, dare il bacio della buonanotte a mio

figlio, anche se quasi sicuramente sta già dormendo, e rifugiarmi

sotto le coperte. Salgo sulla mia vecchia BMW amaranto, metto in

moto e parto. Cerco di sintonizzare la radio sulla mia stazione

preferita, ma sembra che questa sera la mia radio non funzioni… Le

strade sono buie e l’aria è fredda, dopotutto siamo a febbraio, ma

questo freddo ha qualcosa di diverso…Inizio a costeggiare la

ferrovia, mi sto avvicinando a casa, c’è silenzio, non ci sono

molti treni a quest’ora: l’ultimo dovrebbe passare tra poco.

Intravedo nella luce pallida dei lampioni la via in cui devo

svoltare, metto la freccia, svolto a destra e poi subito a

sinistra nel grande parcheggio.Scendo, prendo alcuni documenti che

avevo gettato alla rinfusa sul sedile posteriore e chiudo

accuratamente l’auto. Mi avvio tranquillamente, seppur a grandi

passi a causa del freddo, verso casa. Proseguo lungo la via, ma

noto subito qualcosa di strano nella prima abitazione davanti a

me: porte e finestre spalancate e buie… In pieno inverno? Proseguo

senza pormi troppe domande, sono stanco e impaziente di arrivare,

tuttavia noto la stessa cosa anche nella seconda e così nella casa

seguente e in quella dopo ancora. Nessuna porta e nessuna finestra

è chiusa o accesa: sono tutti dei neri rettangoli vuoti. Accelero

il passo, comincio ad avere il fiatone, ma poi qualcuno che non

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riesco a vedere lancia dei sassi verso di me da quelle finestre

scure, non capisco… corro! Uno mi colpisce al volto. Provo a

tastarmi la fronte, ma ritraggo subito la mano: è ricoperta di

sangue. Corro ancora più velocemente. Un altro sasso mi colpisce,

sempre sulla testa. Provo a proteggermi, ma invano. Ne arriva un

altro e dopo un altro ancora. I sassi continuano a piovermi

attorno ma fortunatamente non mi colpiscono più. Qualcosa mi cola

sulla fronte e sugli occhi impedendomi di vedere chiaramente… nel

buio della notte non distinguo esattamente cosa sia, ma presumo

sia sangue.Arrivo davanti a casa, la porta è chiusa, cerco di

avvicinarmi per aprirla ma sento un ultimo fortissimo colpo alla

fronte. Rimango un attimo immobile, troppo stordito per riuscire a

reagire ma ancora abbastanza cosciente da rendermi conto dello

sferragliare del treno che finalmente è arrivato. Ed io sono

ancora lì, immobile davanti a casa, ma sembra che la luce intorno

a me si stia affievolendo sempre di più, mi volto e il lampione si

spegne improvvisamente. Un brivido di paura mi percorre la

schiena, lascio cadere a terra i fogli che reggo tra le mani, ma

per qualche strano motivo riesco a tenere strette le chiavi

dell’auto. Immobile, in assoluto silenzio, al buio… poi,

all’improvviso, una risata gelida e come soddisfatta... (Silenzio)

La prima notte che ho fatto questo sogno mi sono svegliato di

soprassalto, sudato e ansimante come se quella corsa l’avessi

fatta per davvero. Mi sono rigirato nel letto per assicurarmi che

mia moglie stesse bene… ed era così. Mi sono alzato per

controllare mio figlio: stava bene anche lui. Però non sono

tornato in camera da letto, ero troppo agitato… sapevo già che

quella notte non avrei più potuto dormire.

C’è un lungo silenzio. Entrambi rimango con lo sguardo fisso

davanti a loro, senza guardarsi. Poi improvvisamente Eddie Scaglia

a terra il suo bicchiere, che va in frantumi. Entrambi rimangono

ancora in silenzio, per qualche attimo, guardando passivamente i

frammenti di vetro.

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E: Io ci provo a sdrammatizzare, a sorridere, ad elevarmi al di

sopra di tutto… di tutto questo dolore, questo schifo, questa

frustrazione… (Cerca amaramente di accennare un nuovo sorriso) E

sono bravo di solito… ma ogni tanto non mi riesce. (Silenzio) Mi

chiedo: se davvero dovessi morire, come in quel sogno… che cosa

lascio? Che senso avrebbe per gli altri quello che ho fatto? Cosa

rimarrebbe di me? E… non so darmi una risposta che mi convinca. E

questo mi fa male.

G: Neanch’io riesco mai a darmi una risposta convincente… perché

me le faccio anch’io queste domande, ovviamente. Però… cerco di

convincermi del fatto che anche noi serviremo a qualcosa. Anche

noi rimarremo. Dobbiamo crederci: anche noi rimarremo. Anche se

soltanto nella mente, nel ricordo chi ci vuole bene: questo

sarebbe già sufficiente. Rimarremo lì in attesa nel ricordo, nel

racconto di mia moglie, di tua moglie, dei nostri colleghi…

sopravvivremo lì e prima poi quel ricordo, quel racconto passerà a

qualcun altro e allora saremo d’esempio anche per altre persone.

Dovremo solo attendere, essere pazienti. Dobbiamo pensarla così:

anche se s’avverassero i nostri peggiori incubi, noi rimarremo lì

in qualche spazietto di memoria e continueremo a fare quello che

abbiamo sempre fatto, a lottare.

E: È bello pensarla così… Mi rasserena.

Improvvisamente si sente il suono della campanella provenire

dell’esterno, dalla banchina dei treni.

G: Che ore sono? Non ho l’orologio.

E: (Si guarda il polso) Cavolo… neanch’io ce l’ho. Vado fuori a

vedere che treno sta arrivando.

Eddie esce. Giovanni intanto riapre il suo libro e ricomincia a

leggere. Ad un certo punto, rimane con la penna sospesa a

mezz’aria, eallunga lo sguardo fino all’estremità opposta della

panca, verso il borsone di Eddie. Si guarda attorno, poi chiude

risolutamente il libro. Fissa sempre la borsa, fino a quando

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decide di alzarsi cautamente per andare verso la porta che dà

sulla banchina dei treni e guardare fuori. Si volta, torna verso

il borsone e, evitando di toccarlo, lo scruta come se volesse

capirne il contenuto.Improvvisamente sente dei passi alle sue

spalle e riapre immediatamente il libro che ha in mano. Entra in

scena Eddie, che rimane interdetto nel vedere l’altro in piedi

accanto alla sua borsa, che gli volta le spalle. Giovanni ritorna

lentamente al suo posto, sempre fingendo d’essere intento nella

lettura, mentre Eddie, dopo un attimo d’esitazione gli rivolge la

parola:

E: Sono le 15.40.

G: Come scusi?

E: Sono le 15:40…

G: Ah… la ringrazio.

E: Le campanelle suonano contemporaneamente, per entrambe le

direzioni, ma non si vedono treni all’orizzonte…

G: Immagino… immagino bisognerà aspettare…

Sipario