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1 3 SCHEMA Annuale di poesia e cultura (nuova serie) Anno XXI - XXII N. 71/72 Gennaio 2006 - Dicembre 2007 Registraz. Trib. Milano n.229 del 21 aprile 1984 online consultabile e scaricabile dal sito www.francomanzoni.it Direttore Responsabile: Franco Manzoni Direttore Editoriale: Cinzia Mupo Redazione: Viale Montello 18, 20154 Milano Tel. 02 344781 e- mail: [email protected] Proprietà: Marina Manzoni Copertina: Romeo Traversa Gli scritti, anche se non pubblicati, non verranno restituiti

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3 SCHEMA Annuale di poesia e cultura (nuova serie) Anno XXI - XXII N. 71/72 Gennaio 2006 - Dicembre 2007 Registraz. Trib. Milano n.229 del 21 aprile 1984 online consultabile e scaricabile dal sito www.francomanzoni.it Direttore Responsabile: Franco Manzoni Direttore Editoriale: Cinzia Mupo Redazione: Viale Montello 18, 20154 Milano Tel. 02 344781 e- mail: [email protected] Proprietà: Marina Manzoni Copertina: Romeo Traversa Gli scritti, anche se non pubblicati, non verranno restituiti

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POESIA 2006/2007

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INDICE FABIO ABRUGIATO pag. 4

ANGELO GACCIONE 7 GIORGIO GAZZOLO 10 CHRISTIAN IDE HINTZE 13 DOMENICO IANNACO 19 ALESSANDRO MOSCE’ 22 CINZIA MUPO 25 ANTONIO PORTA 28 TOMAZ SALAMUN 30 ALEŠ ŠTEGER 36 CURRICULA 41 RECENSIONI 44

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FABIO ABRUGIATO

Cerchio

Vivendo capire la bellezza della natura illudendosi provare gioia fal l ire ricominciando con le speranze prime

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Senza filtro Mosse obbligate case perdute ripidi affanni roghi tra letti viandanti apocalisse di lune segreti d’amanti lampi risvegli ubriachi anime in bilico narcotiche spicciole domani catrame

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L’amore non fa rumore Scaglie di luna brandelli di sole odore di stelle scintille di buio cielo morente in umidi boschi di leggere farfalle leggeri ricordi perse memorie discorsi di lunghi silenzi l’amore non fa rumore

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ANGELO GACCIONE Resonet Coeli

I

C’è stato un tempo di mia vita un tempo agro, una stagione amara, di chi al la vita non chiedeva nulla. II E niente m’era stato così caro di quella musica l ieta che veniva a me come una grazia, come le stelle appese al mio balcone. III Saliva come un’onda a farsi dono meno spietato della cruda morte: era i l fuoco d’inverno, i l pane buono dentro la credenza. IV Se sono stato più vicino al cielo lo devo a te; al suono che inventava un altro fato, al le note beate, al l’armonia. V Lascia che ancora e sempre t i r icordi, col canto lieto e vivo nella gola.

Milano, 11 apri le 2003

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Mi piaci e basta

Mi piaci perché non somigli al l’aurora non hai la voce del mare o la luce del tramonto perché non somigli a un prato di f iori né ad una musica E soprattutto perché la luna non mi ricorda niente di te Mi piaci e basta e non c’entrano le sciocchezze dei poeti Mi piaci quando t i adiri e vorresti fare a pezzi i l mondo mi piaci quando cucini un po’ meno quando fumi Mi piaci perché sei piena di difett i come me Mi piaci perché. . No, mi piaci senza perché perché non è necessario che ci sia un perché e perché ne ho piene le scatole dei perché Perché per ogni cosa dev’esserci un perché? Mi piaci e basta e vederti mi rende più allegro meno difficile la vita.

Milano, 1994

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Senza sapere dove

Al mercato di Marrakech c’è una vecchia sdentata vende pietre di f iume perché ha esaurito le i l lusioni. Nella cit tà di Mondarizzoli vendono parole a peso e un giovane incantatore zufola poesie formali che hanno la forma ma non hanno ali . Alla mia poesia stanno strett i i legami non ama la rima ma dice cose per le rime.. E quando è stanca di vaneggiare mette le ali ai piedi e vola via dove un tempo c’era l’azzurro e si lascia morire fra i fumi di scarico senza destare rimpianti Mentre giù gli uomini vanno vanno sempre più in fretta senza sapere dove.

Milano, 10 febbraio 1990

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GIORGIO GAZZOLO

CONIUGAZIONI ’ L coniugarsi a formular concetto dell’avvenir ch’è stato Scampa è no da ’l groviglio del pattume… CARMELO BENE (da ' l mal de’ fiori )

suscipio manche volezze sulla scarna rima delle labbra – Accetta fra le assi anche questa disperata disispirata fessura malo ' e capa kopfschmerz passi per quella volta così lontana ma ora, adesso … Chiede perché nella mute volezza argentopesce – Nude le spalle all’onda e chiude il cuore suscipe che di spalle si tratta adatta rsi a nuove fatiche sempre finché … E non poter vedere e dare gioia di vento a te lassù nelle percorrenze – Invisibili vele gonfiate che tu lo sai perché e non ricevi festa di qualche sguardo sul seno tuo duro che spogli r ami nudi a catturare più che castellinaria o chateaux en Espagne e corre rossa veronica nel sogno d’esser vestito di luce e carezza il dorso nero morte di sangue suscipio scelus in me

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quaero – qua si sempre spiegando cortesie scusando l’ardire come fra rami neri controsole … Quaero solatium d’un bicchiere terso talvolta sibi remedium quaerere il cercare capìte non lei tu tu che più su non vai di ben gelate stoppie galaverne sui rami e vorresti me sole solo per farti bella e chiedi difficili partenze o non ritorni – Mai nostra giostra girò in tondo sì male oh do manda in giro se non credi a me tu lei li vedi i musi bianchi la dondolante cartapesta ? chiede altre cose lei che dici sempre tu tu tu pensando io in cerch -io … Oh sapessi almeno qua le di re z ione atomo briciola d’altro chi-eder nuovo dolore ? fune ni yoimashita sta male sul mare i l cuore così lontano senza domandare

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imitor – Tor ni-amo giù coi piedi sulla terra oppur dans l’eau oh sì ridiamoci dei cieli della mistica e d’altro … Imitari veritatem gesto scaltro come una borsa Louis Vitton oppur-mente anche Cristo da imitare cosicché con traff atto aff atto l ieto e come atto nito immiserito Lui passi all’uso comune … Imitari ferrum sudibus sostituire le spade co’ bastoni ? e qual’ altra commedia ? la gioia forse ? no nemmeno difficile est imitari gaudia almeno dopo la prima volta – Mimi imitantes turpia sì sì ma loro stanno al gioco del supplir muti usando gesti rari imitari principem … Resterebbe Lucifero ad esempio o qualche minor demonio empio e imbellettato … No no mai scimmiottare io mai mai spero che tu mi creda mai ch’io mi faccia si mia di D-io

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CHRISTIAN IDE HINTZE

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Ritratto di una poesia

( traduzione di Crist ina Sibaldi)

da Terra di Czeslaw Milosz e Anima notturna di Georg Trakl

Capovolgo il calice di un tulipano e aspetto: finestre appannate, un corno d’oro, baldacchini di piume di civetta, traiettorie di armi senza sicura, tutte le immagini della malinconia che da quando sono solo mi scaldano le mani. Ma non succede nulla, nemmeno una goccia di rugiada. Una farfalla di cera, un fiore sconosciuto che chiuda la mia serratura. Se i l sole splende, magari sull’altra faccia dell’anima, una sera va guardata con meraviglia: boschi neri di alberi tutt i uguali e una luna a due facce che i l lumina la mia stanza, dove le mani fredde si aprono lentamente sulle labbra e, invece delle labbra, sperimentano parole.

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Sognare è preciso

da Woyzeck di Georg Büchner , scena “L’interno del baraccone ben illuminato”

da “Marie, che luce” a “Hei, che serata”

E’ seduta da sola a un tavolo. E’ i l giardino di ghiaia di un caffè sudamericano. Una sott i le corona di terra, con fiori , cespugli e alberi bassi . Salsa e musica reggae colorano d’oro i l cielo invisibile. “Un bicchiere di sangria” dice qualcuno al cameriere, che finalmente viene a prendere l’ordinazione. Con gli occhi chiusi appoggia i l braccio destro, su cui t iene la piccola testa, su un muro rosso. Inosservata da tutt i , tranne uno, lascia scorrere dolcemente nelle vene il chiaro di luna.

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Idill io notturno

da Isolation di John Lennon

Quando dentro fa buio, vedi le stelle. Per vedere, cerchi di i l luminarti . Scopri che nemmeno così le stelle t i vedono. Quando dent ro fa buio, vedi le stelle. Per farti vedere, cerchi di i l luminarti . Scopri , con stupore, che anche così sei solo. Pensi che i l sole splenderà anche quando sarai morto e i l mondo in cui vivi sarà passato. Pensi di essere al buio e isolato, e che gioie e tormenti oggi abbiano altr i nomi. Ti accorgi che i l quotidiano che ti insegna per primo, t i insegnerà per ult imo anche senza i tuoi tormenti . Nient’altro dice la poesia.

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DOMENICO IANNACO

Anassagora, no Anassimandro! Conchiglie di momenti , piccole gocce di vita di un mare che tramonta. . Raccogliere i tempi, i frammenti perché ciò che era flusso è cotto, e rotto e la fine è finita nel sale. . Le figlie sono state vendute E la luce ha paura dello specchio, i l Grande, colui che stupra. . Non c’è coscienza che possa sopportare i l grasso del capitale. Da quando le stelle sono amare e non c’è flusso Ho capito che i l Tempo è morto prematuro e non ha espiato i l peccato di essere nato

17/06/2005

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Il cane

La rivelazione vuole i l corpo e il tempo e il ri to. Oggi sono stato battezzato e fatto santo di provincia qui dove i noccioli ingiall iscono di ardori renali e tacciono al vento afoso che chiede sacrificio perché tutto sia r icomposto e i l sole ri trovi la sua pace. Chiedono sangue per parole. . Dicono che non sono degno e si annusano il culo come i cani. Non voglio essere icona della moda. Se deve essere sarò profeta di dubbio e distruzione perché io sono nato per questo dubbio, per questo incendio verde. Seducono il si lenzio e sua sorella Fine che ha spine e petali di rosa bianca e pallidi ricordi. I l fuoco conosce solo la l ingua della luce.

24/06/2005

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Madre Nacque da una donna che per un figlio perse la sua verginità. Era del Sud. Io sono vissuto nel suo sangue b runo che sognava la mia vita. E’ notte, presto verranno le presenze. Contare le stelle e carezzare le anime gatte dei f iumi e ascoltare e provare terrore. . Ci hanno lasciato simboli che dicono che sono vissute, Ma io sono un mostro peggiore di loro e so che la musica è nel vento e vivi e morti mi pregano di non raccontarla, di non dire dei piatt i che lei lavava, dalle bollette dissanguanti , del sogno imborghesito della vil la, mentre sognava la mia vita.

26/06/2005 nocte

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ALESSANDRO MOSCE’

da Stanze all’aperto

I I l lungomare odora di pesce fri t to, di caffè all’aperto in quel cielo colpito dalle insegne fluorescenti dei bar davanti al le case. La riviera si popola di zainett i , di fermacapell i immobili quando il sole è una lancia che cuoce i muri . La spiaggia feconda non ha che la schiuma delle onde a schiacciare i l senso di vicinanza e di un tuffo nell’aria. La bonaccia d’agosto si ferma nelle vele, la nave da crociera traccia i l confine del nulla, l’autostrada in cerca del vento arde nella piazzola di sosta senza più ombre nella secca.

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II I turisti sono in piedi sulla piattaforma d’acciaio dove i l mare galleggia nell’ult imo garbino* d’agosto. Una saetta in cielo sfi laccia i l passaggio del gabbiano sullo scoglio delle palombe. La costa si al lunga d’estate: i bagnanti non se ne accorgono, ma al centro di qualcosa lo sa quel bagnino che fuma dove porta i l garbino, dove dispera in nome del sonno la gioventù sui fuoristrada, la vita dei morti che guardano dall’altra parte della costa, quella che non si vede.

* garbino, vento della riviera Adriatica, che batte la costa da Rimini a Senigallia. Un vento folle che secondo la fantasia popolare farebbe cambiare l’umore della gente.

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III Un bambino corre in acqua schiacciando la paura e la madre lo segue nella frescura che arriva alle caviglie docili . Padri che guardano ancora con l’ansia dei vent’anni amori insensati che non nasceranno sui seni di donne mute. Li unisce i figli piccoli quei padri e quelle madri che non si conoscono, l i scuote i l sogno indolore di gettarsi con le onde al largo dei mari , quando leggono distratt i i l ibri dei corsari mentre i bambini si addormentano.

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CINZIA MUPO

A mio padre: assente

Ci si spegne : nel via vai di corridoi è fragore sordo indifferenza negli sguardi al trove di chi at tende l’avvicendarsi rapida pulizia dell’Indicibile: e lenzuola nuove.

La fucsia. . La fucsia da poco trapiantata promette d’espandersi , d’oscurare rapido l’orizzonte serrato di cantieri : tronchi di gru, serre di ponteggi nel bagliore di una luce che non promette. Ma è già abbastanza quella che si sopporta del divino.

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Già sento. . Già sento: la stagione del gelo si fa strada tra le feri toie del giorni. Accade fatalmente quando sovente senza un perché ci si r i trova sotto il neon d’un vicolo a respirare insonni i l vuoto di se stessi .

Cambio casa.. .

Cambio casa. Trasloco da un limine all’altro di quartiere : dal volto sfatto al nuovo l if t ing di Bovisa. Poche cose salverò dalle mie macerie: rinnoverò l’arredo, i tendaggi, solo i l ibri trasbordano per intero, troveranno più ampi spazi. Ogni cosa troverà i l suo posto: non io. Non quel che di me rimane avvinghiato ad un fascio di nervi e di vene.

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ANTONIO PORTA

La distanza amorosa 1 . Non sarò io mai a colmare la distanza e il mio pensiero è colmarla attraversare la stanza baciarla. 2 . Dove c’è un buco nero l’oblò di una talpa io vivo di luce riflessa se doni te stessa io c’ero. 3 . Mi chiedi: rinuncia all’orgasmo approvo senza sarcasmo distante dal cieco furore sovrano i miei piedi ai tuoi piedi congiungo. 4 . Dalle caviglie alla nuca un confine un altro dall’alluce alla bocca il principio, la fame, la buca lo sguardo nel centro si blocca.

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5 . Se tocchi il mio sesso per caso lo sfiori come un naso un cavallo mansueto, inquieto, imbizzarrito vai subito distante incitante. 6 . Decido di arrivarti da sotto come il tubo dell’acquedotto il rubinetto chiuso, silenzioso, acceso pronto a dissetarti disteso già preso. 7 . C’è solo più un gesto lontano non muovo neppure la mano m’invade, straripa, mi asseta, tu dormi su un colle vicino io ardo cespuglio. 8 . “E’ la fiamma che brucia e non consuma” che tace e si accende in parola sui bordi del corpo un dito discende gelato il brivido interno l’esterno s’increspa.

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9 . Va bene se penso lontano se il buco è la morte è vano per giorni i l respiro è la sorte sospesa l’attesa. 10. Se chiami più forte reclami il corpo ritorna con forza si stacca, mi scioglie la scorza in bocca c’è il miele rimàni. (11-14 agosto 1986)

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TOMAZ SALAMUN

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Sono un muratore (traduzione di Jolka Milic) Sono un muratore, il sacerdote della polvere temprato come un mostro, come una crosta di pane sono una ninfea, il guerriero degli alberi sacri di sogni sacri, grido con gli angeli sono un castello, una parete morta rimorchio le navi, traghettatore di viandanti o legno! Legno! venite aironi, sangue venite giardinieri, luce risplendi vieni mano tesa, vetro vortici azzurri, vieni superficie vento strisciante di essere di altri campi qua i pascoli sono riarsi, la lava ribolle i pastori aspettano, sbattono impazienti le ali i cani si annusano, i cani lupo qua vive il r icordo, l’ordine, i segni del futuro

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Canto popolare Il poeta autentico è un mostro. Annienta la voce e la gente. Il canto crea una tecnica che devasta La terra per non farci mangiare dai vermi. Il beone vende il cappotto. Il furfante vende la madre. Soltanto il poeta vende l’anima per separarla dal corpo che ama.

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Tu sei il mio angelo Tu sei il mio angelo. Una bocca cosparsa di gesso. Sono il sacerdote del rito. Integro. Funghi bianchi su un campo bianco. A livello del fuoco. Io cammino su pulviscolo d’oro.

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ALEŠ ŠTEGER

( traduzione di Michele Obit)

Kamen Nihce ne sl iši , kar hrani kamen u sebi. Neznatno, le njegovo je, kot bolecina, Ujeta med usnje cevlja in podpat. Ko jo sezuješ, se zavrtinci l ist je v golih drevoredih. Kar je bilo, ne bo nikoli vec; In kupi drugih znamenj v trohnenju. Vonj bližnjih ambulant. Nem greš naprej . Kar hraniš v sebi, ne sliši nihce. Edini prebivalec svojega kamna si . Pravkar s i ga odvrgel. Sasso Nessuno che senta cosa i l sasso conservi in sé. Insignificante, è solo suo, come un dolore Preso tra la scarpa in pelle e la pianta del piede. Quando le togli , le foglie girano vorticosamente nei viali spogli . Quello che è s tato, non sarà mai più; E un mare di altri segni in putrefazione. L'odore degli ambulatori vicini. Non puoi proseguire. Quello che conservi in te, nessuno sente. L'unico abitante del tuo sasso sei tu. L'hai appena gettato.

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Sušilec Rok

Kdo govori , ko ne govoriš v svojem imenu? Ko se ne pretvarjaš govorit i v imenu koga drugega. A je prisoten glas kot na spiri t ist icni seansi? Zgolj retro larifari , kadabra abra, aha, aha, bla bla? Dogaja se, kot da bi govoril veter skozi tebe. Kot da govori burja, košava, pasat, ledeni sibirski vetrovi. Dogaja se s tem, da med govorjenjem nevidni, ostajajo cist i glas. In se ne dogodijo. Njihove vrnitve ne prinašajo sprememb. Ali pac, kje vmes, kjer žive oplazijo mrtvi . Kapljice, s katerimi si j im pokapal celo, izhlapijo s tvojih dlani. Še enkrat prit isneš srebrn gumb na plasticni škatl ici . Še enkrat pribucijo, tokrat da ogrejejo tvoje premrzle prste. Zgolj abrakadabra, aha, aha, bla bla. Ker ne prinašajo nic novega. Stranišce bencinske crpalke je takšno kot prej . In tudi t i se nisi spremenil . Le skozi tvoje dlani je nekaj zavelo. Ne držiš ga, a vcasih drži tebe. Ima tvoje življenjske crte. Stisk tvojih rok. Nima imena, ki govori , ko ne govoriš v svojem imenu. In ne doma. In ne lastnih reci. Brezimnež brez telesa je, zmeraj na poti . In njegove poti so lahko tudi tvoje, tvoje pa njegove ne bodo nikdar.

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Asciugamano

Chi parla, quando non parli a tuo nome? Quando non fingi di pa rlare a nome di qualcun altro, Ma è presente, come in una seduta spiri t ica, una voce? Solo retro nonsense, kadabra abra, aha, aha, bla bla? E’ come se i l vento parlasse attraverso te. Come se parlassero la bora, la kosava, l’aliseo, i venti siberiani. E’ per le voci nette che senti nelle conversazioni tra gli invisibil i . E non succede. I loro ri torni non portano cambiamenti . Oppure si , là in mezzo, dove i vivi sfiorano i morti . Le gocce con cui seppellist i loro la fronte evaporano dalle tue mani. Premi di nuovo il bottone argentato sulla scatola di plastica. Di nuovo rumoreggiano, ora per scaldare le tue fredde dita. Solo abrakadabra, aha, aha, bla bla. Perché non portano nulla di nuovo. La toilette del distributore di benzina è rimasta com’era. E anche tu non sei cambiato. Solo attraverso le tue mani è passato un soffio. Non lo t ieni, ma a volte t iene te. Ha le tue l inee della vita. La stretta delle tue di ta . Non ha un nome che parli , quando non parli a tuo nome. E non ha casa. Né cose proprie. E’ una senzanome senza corpo, sempre in cammino. E le sue strade possono essere le tue, anche se le tue non saranno mai le sue.

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Lososi

Po letih življenja v oceanu Zaplavajo pacifiški lososi navzgor po reki, Katere tok j ih je nekoc prinesel . Vec tednov traja njihovo potovanje k izviru, Na mesto, kjer se je nekoc, v brezoblicnosti ikre, Prisencilo prvo oko. Ne nabirajo vec hrane. Ne ravna jo po logiki vsakdanjih preživetvenih strategij . Ne išcejo, ne bežijo, ne lovijo. Na poti so. Scasoma se njihova koža obarva s krvjo. Njihove glave pozelenijo. Samcev gobec postane kljukast in dolg. Ranljivi, vsem na oceh, potujejo. Ob skokih po slapovih navzgor Se j ih na t isoce rani do smrti . Preostali plavajo med brzicami dalje, Proti valovanju rjave dlake, proti senci, ki j ih caka, Sklonjena nad obok njihovega derocega sveta. Kako nežna je smrt živordecih losov, Nabodenih na medvedkine kremplje. Kot da smrt ni konec, marvec nemi prehod. In Destrnik je kraj v osrcju Aljaske. Mladic stoji na obrežju In opazuje medvedko, ki jo je reka urocila. Za vedno njen potomec, že dolgo samo svoj. Brzice, slapovi, smrtni udarci šap. Le redkim lososom se uspe vrniti v svoj izvir, Pod plavutjo skleniti pricetek in konec. Po drstenju pocasi odmirajo v ledenih vodah. Njihove nabreknjene trupe raznašajo tolmuni. Proti toku reke stopaš, ki j ih odnaša. Ki te odnaša.

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Salmoni

Dopo anni di vita nell 'oceano I salmoni del Pacifico si gettano all ' insù nei fiumi La cui corrente un tempo li ha trasportati . Tanti sono i giorni del loro viaggio all 'origine, Al luogo dove un tempo, nell ' informità dell 'uovo, Il primo occhio trovò ombra. Non raccolgono più cibo. Non si regolano secondo la logica della strategia di sopravvivenza quotidiana. Non cercano, non fuggono, non cacciano. Sono in cammino. Con il tempo la loro pelle si colora di sangue. Le loro teste diventano verdi. I l muso del maschio diventa uncinato e lungo. Vulnerabili negli occhi, viaggiano. Saltando all ' insù le cascate A migliaia si feriscono a morte. Quelli che rimagono nuotano oltre le rapide, Contro l 'ondeggiare dei peli scuri , contro l 'ombra che li aspetta, Curva sulla volta del loro mondo precipitoso. Com'è dolce la morte dei salmoni rossovivo, Infi lzati sugli art igli dell 'orsa. Come se la morte non fosse la fine, ma un muto passaggio. E Destrnik è un paese nel cuore dell 'Alaska. I l ragazzo sta sulla riva e osserva l 'orsa, ammaliata dal fiume. Per sempre suo discendente, da tempo solo suo. Le rapide, le cascate, i colpi mortali delle zampe. Solo a pochi salmoni riesce di tornare all 'origine, Sotto la pinna congiungere principio e fine. Dopo la smania lentamente si estinguono nelle acque fredde. I loro gonfi corpi diffondono vortici . Avanzi contro la corrente del f iume che l i allontana. Che ti allontana.

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CURRICULA DEGLI AUTORI

FABIO ABRUGIATO, nato a Ortona (Ch) nel 1970, milanese d'adozione, lavora in campo editoriale e pubblicitario, le sue due passioni. E' direttore responsabile del sito "virtualmilano.com", che propone un panorama delle attività culturali milanesi, programmazioni e calendari di cinema, spettacoli musicali e cartelloni di teatro,recensioni di libri. La sua prima pubblicazione poetica è Ansie Necessarie , uscita nel 2007 per le edizioni Tender2fly.

ANGELO GACCIONE è nato a Cosenza. Narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, poesie, aforismi e testi teatrali. Tra i più noti ricordiamo: La porta del sangue, Stupro ed ostaggi a teatro, Tradimenti, Single, Il sigaro in bocca, Manhattan, L’incendio di Roccabruna, Disarmo o Barbarie e il best seller Lettere ad Azzurra. Ha curato la trilogia su Milano: La città e la memoria, La città narrata (3 edizioni) e Poeti per Milano. E’ uscito di recente il suo nuovo libro di racconti La striscia di cuoio (amato da critici e

lettori).Notevole il suo impegno civile espresso anche attraverso un’ampia produzione saggistica. Vive e lavora a Milano dove dirige il giornale di cultura Odissea ed è animatore culturale dello Spazio Lattuada.

GIORGIO GAZZOLO, nato nel 1937 a Genova, ha vissuto a Roma, a Milano ed da anni è tornato nella città natale. Ha collaborato a riviste quali Resine, Pietre, Atelier, La Clessidra, Nuovo Contrappunto, Tribuna Letteraria e ai quotidiani Paese Sera, il Secolo XIX e il Corriere Mercantile. Le edizioni d’arte PULCINOELEFANTE hanno stampato cinque suoi libri. Tradotto in giapponese nella rivista Ginyu, suoi testi si trovano in numerosi siti internet. Nel 2002 vincitore del Mainichi Haiku Contest a Tokio. Nel 2003 ha ottenuto il premio “Friends of the Berkeley Public Library”. E’ stato inserito nell’antologia Genova in versi, edita da

Philobiblon nel 2003. Nel 2004 per le edizioni De Ferrari ha pubblicato un volume di versi Genova, Le scrivo… con prefazione di Stefano Verdino. Con Shuichi Takeda ha composto 14 Haïku di mare, Lugano 2004. Inoltre 13 aforismi sono nell’antologia Athanor, edizioni Joker uscita nel 2005, è stato inserito in Quel che resta del cielo, per la casa editrice Alla chiara Fonte nel 2006, mentre ha dedicato un omaggio in versi alla città di Genova, volume illustrato con traduzioni in cinque lingue, edito a Lugano nel 2008.

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CHRISTIAN IDE HINTZE è nato nel 1953 a Vienna, dove ha studiato giornalismo e teatro. Numerosi suoi lavori (visuali, acustici e dinamici) sono stati presentati in vari festival; dal 1983 tiene in tutto il mondo letture di poesia. Nel 1991 ha contribuito a fondare la Scuola di poesia nella sua città e a Medellin, in Colombia. E’ stato inoltre tra i fondatori dell’ Accademia virtuale. E’ considerato uno dei maggiori performer, autori austriaci di body-poetry e poesia sonora dell’ultimo mezzo secolo. Tra i volumi pubblicati da Hintze ricordiamo Il flutto

d’oro nel 1987, La lirica guerriglia nel 1993, Il diluvio d’oro nel 1996.

DOMENICO IANNACO è nato 1980 ad Avellino. Allievo di Mario Luzi, nel 1999 esordisce con la silloge Vita. Del 2003 è il poema Ambèr, cui segue nel 2004 Orlando, “satira in prosa”. Nel 2006 esce il poemetto Ellisse. E’ in attesa di pubblicare la silloge Frammenti d’irreale, che raccoglie le “riflessioni” degli anni 2001- 2006.

ALESSANDRO MOSCE’ è nato ad Ancona nel 1969. Vive a Fabriano. E’ ricercatore presso la cattedra di Sociologia della Letteratura dell’Università di Urbino. Ha pubblicato l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Ancona, il lavoro editoriale, 2003), i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia 2004) e Tra due secoli (Neftasia, Pesaro 2007), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006). Nel

2005 è uscita la raccolta di poesie L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme). Si occupa di critica letteraria e di filologia su varie riviste e giornali come Il Corriere Adriatico, Nuova Antologia, Pelagos.

CINZIA MUPO è nata a Milano nel 1961, dove vive e insegna. Ha collaborato come redattrice a diverse riviste culturali e case editrici. Si occupa di promuovere le voci della poesia nelle scuole e in occasione di eventi culturali. Dopo aver ottenuto diversi riconoscimenti letterari, nel 2005 ha pubblicato la silloge poetica In note di baritono per l’editore ExCogita.

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ANTONIO PORTA, pseudonimo di Leo Paolazzi, nato a Vicenza nel 1935, fece parte del Gruppo 63. In quegli stessi anni si dedicò alla "poesia visiva", partecipando ad alcune mostre a Padova, Milano, Roma, Londra. Ha svolto una notevole attività critica, collaborando a riviste significative in ambito culturale e con alcuni fra i più importanti quotidiani e periodici: il Corriere della sera, Il Giorno, L'Unità, Panorama, L'Europeo. E' stato dirigente editoriale per Bompiani e Feltrinelli. Ha lavorato inoltre per la Rai. E' scomparso a Roma nel 1989. Tra i testi poetici segnaliamo La palpebra rovesciata (1960), I

rapporti (1965), Metropolis (1971), tutti raccolti successivamente in Quanto ho da dirvi (1977). Seguiti da Passi passaggi (1980), L'aria della fine (1982), Invasioni (1984) e il postumo Yellow (2002).

TOMAZ ŠALAMUN, nato nel 1941 a Zagabria, poeta sloveno, traduttore e curatore d diverse antologie, è laureato in Storia dell’arte all’Università di Lubiana, dove vive. Ha pubblicato più di trenta volumi di versi ed è stato tradotto in diverse lingue. Tra le sue raccolte poetiche segnaliamo Poker (1966), Romanje za Maruško (1971), Amerika (1972), Turbine (1975), Pesmi (1980), Morje (1999), Zelen cvet (2000). In Slovenia gli sono stati attribuiti i riconoscimenti letterari più importanti: nel 1988 il premio Jenko e nel 1999 l'ambìto premio Prešeren.

ALEŠ ŠTEGER è nato nel 1974 a Ptuj in Slovenia. Dopo gli studi di letteratura comparata e di lingua tedesca, vive e lavora a Lubiana. Finora ha pubblicato quattro libri di poesie: Šahovnice ur (Scacchiere delle ore, 1995), Kašmir (Kashmir, 1997), Protuberance (Protuberanze, 2002) e Knjige reci (Libri delle cose, 2005) oltre al romanzo di viaggio sul Perù Vcasih je januar sredi poletja (Talvolta è gennaio in piena estate, 1999). Le sue opere sono tradotte in tedesco, spagnolo, lituano, slovacco, ceco, bulgaro e croato.

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RECENSIONI

Silvio Aman, Nel cuore del drago (prefazione di Guido Oldani), Novara, Interlinea, 2005, pagine 143, euro 12.

Assegnando al titolo una valenza simbolica indubbiamente

pregnante, Silvio Aman (di cui si ricordano le raccolte Devozioni, 2003 e Sinfonia alpina, 2004), scopre le carte della sua poetica. Che è una poetica intesa a coinvolgere in profondità esperienze vitali già implicitamente sogguardate da un principio di potenza, il cui emblema va ricercato nel drago, appunto, con i significati

che ognuno di noi gli vorrà conferire in base ai codici di riferimento tramandati. Se il drago rappresenta in una maniera o nell’altra il nodo delle passioni e dei desideri più tenaci ma resistenti all’interpretazione, insomma le forze inconsce con cui fare i conti, Aman dimostra di saper condurre la fascinosa lotta contro l’’avversario’ contando su armi adeguate, che sono quelle offerte dalle risorse del linguaggio, tra sprezzatura, allusione e freudiane tecniche di compromesso, il tutto superbamente affidato all’intelaiatura dei sussidi figurali, talvolta sovradeterminati dall’elemento mitico (come nell’elegante endecasillabo “La tua serata è Dafne e Apollo il giorno”). La metaforica astuzia per aver ragione del drago (senza peraltro distruggerlo, essendo quella creatura anche fonte di benefico vitalismo) consiste tutta, per Aman, nel saper trasformare la virtù poetica in arte della mediazione, del chiaroscuro e, quanto ai frequenti esiti narrativi, della dissolvenza incrociata. Vorrei richiamare al proposito la capacità di circoscrivere, entro congrui segmenti scenici, l’incontro tra manifestazioni dell’io profondo (produzioni mnestiche, sogni a occhi aperti, illuminazioni “dal fondale oscuro/ dove oscillava forse in boschi d’alghe”) e luoghi di una geografia riconoscibile. Luoghi che la toponomastica colloca in una Mitteleuropa cognita per vie empiriche, col baricentro nell’area alpina e prealpina, ma che rappresentano innanzitutto le tracce di una Zivilisation introiettata, i referenti di una precisa vocazione etico-intellettuale. Nell’ambivalenza interno-esterno che alla lunga consegue da questo stato di cose, e che per intrinseca necessità finisce col proiettarsi sull’asse temporale in quanto l’identità dell’io si consolida nel colloquio con le figure della memoria, “fra il nulla e il gioco delle apparizioni”, dobbiamo cercare il tratto saliente, non sto ad aggiungere l’attrattività, della poesia di Aman. Una poesia dove il paesaggio, reso per scorci e insenature, assurge a distintivo segnico di primaria importanza. Esso potrà abbandonare le già sfumate connotazioni naturalistiche di partenza, ricche tra l’altro di efficaci icone botaniche, per riproporsi in scenari trasfigurati, non immemori dell’immaginario romantico (“C’è questo senso strano e duplice,/ come nei sogni”, così l’emblematico incipit del testo Il cacciatore, che rimanda a una tela di C.D.Friedrich). Si viene così a creare quell’aura di volta in volta diafana o umbratile, pervasa spesso di finissimo erotismo, capace di imprimersi nelle presenze rammemoranti dell’altro, e dove i segni dell’affettività hanno modo di esplicarsi entro un arco espressivo e tonale che oscilla dall’euforia all’elegia. È attraverso questi impensati sentieri e labirinti dell’anima, che Aman ci insegna l’antica arte di addomesticare il drago.

Gilberto Isella

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Paolo Cagnetta, Basta cose, ExCogita editore, Milano, 2007, pagine 90, euro 10. I versi di Paolo Cagnetta ci introducono, attraverso un ritmo sorvegliato e una musicalità mai ostentata, in un mondo lirico in cui presente e passato,talora opponendosi, talora compenetrandosi, ci restituiscono il microcosmo di un vissuto riconoscibile, segnato da comuni ferite inferte dall’incontro con la malattia, dalle separazioni, fisiche e morali, da un presente percepito come estraneo alla propria sensibilità. Sullo sfondo, quando non protagonista, una Milano paradigma di quel più generale “frastuono morale” a cui l’io lirico non sa

adattarsi, opponendovi, sottraendole al “livido oblio”, immagini della stessa città rivisitata dalla memoria. Ecco allora ricomparire strade, scuole, interni di case vissute, brandelli di una città cara e “solidale”: e il verso, sospinto dalla volontà prometeica del poeta, si contrae nello sforzo di riconsegnare intatti quei luoghi, richiamandone i dettagli e persino i nomi. In questa geografia della memoria si inserisce un interrotto dialogo con gli assenti, in cui la riflessione si allarga all’ineluttabile destino umano, che il percorso poetico declina in domande, discorsi diretti con quell’oltre umanità, dal poeta chiamata familiarmente “i più che adulti/ che, da un certo punto, ci fanno assidua compagnia/ in conversazione aperta e decisiva-/ un’attenzione più forte della vita/ li intrattiene di noi/ nella salutare morte dei corpi-/e per noi si svolge felice/ un potere di ascoltare e parlare,/ di dire opinioni e fantasie./ Felicità dei morti/ sola che in vita possiamo intuire…”. E quello con i morti, con tutti i cari assenti, pare essere rimasto l’unico filo ancora teso, non reciso dal poeta, che vive ormai in una sorta di ritiro claustrale appena fuori Milano; un esilio dalla città (ma non troppo lontano da non poterne respirare l’humus),dal mondo che più non riconosce:sentimento d’inappartenenza, cui forse non è estranea la vertigine originaria dello sradicamento ebraico, anche in chi “ ebreo da ebreo non[ ha ] vissuto". Basta cose, terza raccolta poetica di Paolo Cagnetta, segna un punto di non ritorno: l’imperativo del titolo pare sbarrare la strada allo spaglio di eventi che pretendono di invadere i luoghi della coscienza non più disposta ad accoglierli. Così, almeno, sembrano testimoniare i versi a chiusura della silloge: “dopo la perdita di ogni memoria/ a dare scacco siano le parole/ di chi chiude in noia e per accidia / il cerchio della sorte personale. Se da un lato la poesia non può che limitarsi a dire il disincanto, l’assenza di un centro, lo spaesamento dell’anima, essa ha tuttavia il potere di resistere strenuamente al “farnetico del mondo“, di opporvisi con la sua carica di sana e vitale eresia: forse non è molto, forse sì.

Cinzia Mupo

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Umberto Piersanti, L’albero delle nebbie, Torino, Einaudi,

2008, pagine 176, euro 12,50.

Umberto Piersanti, urbinate, è ormai una voce di primo piano tra i poeti di oggi: anticonformista, schietto, legato alla tradizione, alla poesia di Carducci, di Pascoli, all’Aminta del Tasso, a Bertolucci, al conterraneo Volponi. Il dolce e amaro sguardo del poeta ingloba il senso dell’appartenenza e del possesso, in un territorio privilegiato, in una visibilità assoluta nella cerchia del Montefeltro. La poesia si compie, si esaudisce in una vicenda

terrestre e fisica, in un timbro che avvolge. Nell’ultima raccolta L’albero delle nebbie (Einaudi, Torino 2008), c’è un ingresso nella

realtà coeva, senza punte di realismo, tra selve, fiori, animali e un sapore mitico di natura-memoria impresso nel tempo passato, ma che si dilata in una percezione odierna. Gli indimenticabili luoghi sono cristallizzati, ustionati da ferite e alimentati da aloni paesaggistici, da incontri di corpi e di anima. Ecco la novità del terzo libro Einaudi di Piersanti, che compone così l’auspicata trilogia, dopo I luoghi persi del 1994 e Nel tempo che precede del 2002.

L’albero delle nebbie scava un solco nella produzione italiana della nostra contemporaneità, con il maggior poeta naturalistico di oggi: “Soffia, soffia forte nei campi / turbina tra le macchie / e gli strapiombi / mia tempesta di neve…”. Un tempo e un luogo anacronistici quelli di Umberto Piersanti, che si muove nella mitografia personale delle Cesane, al cospetto di Urbino, ma fuori delle mura e fuori del caos degli studenti universitari. Oltre alla forza della “primavera lontana”, di un “muschio d’inverno” (parafrasando alcuni titoli e versi), del fosso della nonna Fenisa, dello stradino bianco con le brecce, questo tempo e questo luogo irrompono sempre di più nel presente. Nelle figure parentali degli affetti e dei ricordi evocati, precisi, e di una storia perfino ancestrale, a volte spersonalizzata (come riportato nella quarta di copertina), l’immagine del figlio Jacopo traduce l’emozione e il dolore della quotidianità (“tu, immune alle parole / e agli spaventi, / che c’entrano le strade / con la sua terra che nessuno / divide, striscia e frammenta?”). Un figlio malato, ma anche un’anima lirica per il poeta che lo canta, tra i monti, davanti allo specchio, sulla pista di sabbia, tra case e strade. Piersanti è un grande poeta “tra cronaca e memoria”, di luoghi, ma non solo. Il senso della pienezza e della perdita (ben individuato da Roberto Galaverni) lo rende, specie in questa ultima opera, universale e classico. Si pensi a versi perfetti come: “presto ritorneremo insieme / nelle strade, oggi / giro solo tra i campi, / a questo sole tiepido / mi piego e arrendo, / tacciono le memorie, / fisso il cielo, / la cerchia di quei monti, / blu, lontani”. Tra secoli e istanti, una delle migliori poesie, consegna il tempo orizzontale di Piersanti, quello dei sassi e dei rami, dei merli. E’ lo stesso tempo ingrato che segna la poesia Soffrono i favagelli. L’inverno sembra eterno tra la neve bianca e la pietra grigia, tra l’aria azzurra e il mattino rado.

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La natura è un mondo assoluto, di radici e spaesamento, nell’avventura che riprende

l’esperienza, la lettura di un posto concepito per sequenze e inquadramenti.

Il verso si orienta sempre più verso quella classicità alla quale si faceva riferimento, che dall’Appennino impervio arriva immediatamente alla fuga dei giorni. L’amore è fissato in un equilibrio quasi magico, come magico è questo albero delle nebbie, lo scotano, con il suo colore rosso-arancione, come lo sprovinglo, il diavolo contadino che sale sullo stomaco della gente provocando smania, e che ritroviamo ancora. Quindi ombre di ricordi, i carri dell’ottava armata britannica che attaccano dalle Cesane i primi avamposti tedeschi della linea gotica. Umberto Piersanti chiude il suo libro con I settembrini, bellissima poesia dedicata alla madre, all’orto che “settembre accende / colmo e pacato / come nei tuoi giorni”: giorni antichi e attuali, intramontabili di carica esistenziale.

Alessandro Moscè

Paolo Ruffilli, Le stanze del cielo, Marsilio, Venezia, 2008, pagine 92, euro 12.

Nel 1990 Paolo Ruffilli congedava il delizioso e desolato Diario di Normandia. Diario o piuttosto anomalia di diario, irrisolto nella nomenclatura di cose e gesti, in una deriva (o naufragio) che insieme esorcizzava e testimoniava la condizione di “indifferenza a tutto” del soggetto, l’impossibilità della storia (del senso della

storia) e di ogni possibile storia. Ma c’era, nel Diario (nella stessa istanza diaristica), un «rapporto tra cercare e trovare» – come riscontrava Sereni in una nota critica – che era in ultima analisi una forza di resistenza a quell’indifferenza. Lì, intanto, ad essere “trovata” era soprattutto la parola, che teneva l’io, la sua non serena ma distaccata disperazione, in bilico tra l’ansia del vivere e la “distrazione” delle cose, dei gesti, dei fatti.

Nella più recente produzione poetica, La gioia e il lutto e in particolare questo Le stanze del cielo, si direbbe che Ruffilli abbia trovato anche i fatti e le cose. O meglio il contrario. Che i fatti, le cose abbiano trovato lui. Non proprio gli stessi di un tempo, quelli che l’io auscultava e increspavano appena il suo cerchio di in- o a-significanza.

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Si tratta ora di drammatici fatti altrui e del conseguente ingresso dell’altro nella sfera dell’io. Questo ingresso conturbante segna la risoluzione sul piano etico più che su quello intellettuale dell’impasse dell’indifferenza. Trovato e “toccato” dalle cose e dai casi altrui l’io sente il dovere morale di chinarsi su di essi e dare loro voce (voce ora che si incarna, diventa cosa anch’essa). Nella gratuità del donare qualcosa gli ritorna e, come accade, ritrova se stesso e il fondo di un’umanità che tutti ci affratella (un fondo ancora più irriducibile del fatto, della cosa che rispetto ad esso sono quasi accidenti).

Così leggi (ad ampie sorsate, come respiri avidi) le pagine de Le stanze del cielo e senti l’uomo. E niente, verrebbe detto continuando a parafrasare Terenzio, niente di quanto è umano è alieno allo sguardo del poeta Ruffilli. Da ciò e dalla fedeltà «agli uomini nella disgrazia», Mori i Po lo ricorda al lettore-viaggiatore sul cartiglio dell’esergo, deriva la freschezza dei versi, il loro guizzo “animato”. Beninteso che un armamentario espressivo consolidato e raffinato permette alle buone, ottime intenzioni di prendere forma, le sostanzia di una musicalità mai stucchevole o esornativa.

Anzi. Proprio in questo distintivo impulso ritmico e tonale, c’è la dimora del poeta. La ragnatela, per così dire, con la quale cattura il mondo, l’altro da sé. Lì c’è il confine e il contatto tra Ruffilli-poeta e i suoi personaggi, compagni di vita (reali o immaginari poco importa). Perché il poeta (anche il poeta “narrativo”) non si eclissa mai, come fa il romanziere, nei suoi personaggi. Li porta a sé. Li vive lui stesso. È lui a prestar loro la voce. Può mostrare al più di non muovere le labbra e di lasciare un altro io solo sulla scena di una pagina; ma è come nei casi di ventriloquio: la voce che sentiamo è pur sempre la sua. La sua «che ditta dentro» i personaggi.

Nella sua divina (o umanissima?) facoltà di essere trasmutabile per tutte guise il poeta Ruffilli trova nella voce (e tono e musica) l’antidoto alla dispersione, l’istanza dell’unità, il segno della sincerità. In virtù dell’istanza unitaria di questa voce un carcerato diviene il carcerato e un tossicodipendente il tossicodipendente. E la sincerità di questa voce garantisce che il passaggio non avvenga nel senso di una slavata tipizzazione bensì verso la credibile esplicitazione di un’essenza così profondamente personale da essere propria di ogni uomo. È una voce-musica che fluisce ad onde e si rifrange nel silenzio «ricominciando / da dove poi è finita», sospinta sempre da una lieve ossessione. C’è qualcosa in essa, mi si passi l’azzardo, tra Metastasio e il rap: dell’uno una levità melodica trasfigurante dell’altro il sincopato, la ripetizione e quel piglio d’ossessione. Che, tuttavia, se nel cascame commerciale dell’hip hop è tutto estrinseco nel gesto (tribale), qui è squisitamente forma (che in poesia è sostanza). Al rap rimandano naturalmente (congiunti al proposito di scuotere il cuore anestetizzato della società giudicante o, peggio, dimenticante, messo a fuoco in limine da un estratto checoviano) anche i temi “sociali” : la vita in carcere, la servitù alla droga, i punti di vista degli “invisibili”, dei negletti, dei “vinti”, così come, dal Bronx al Senegal, gli esclusi, i neri, i disoccupati, i prigionieri, i poveri pescatori diventano soggetti e testimoni di tormenti e dignità in contemporanei recitativi degli schiavi al ritmo dei tamburi che non andranno mai su MTV. Conduco all’estremo la provocazione: forse queste poesie de Le stanze del cielo (due giri di perle della stessa collana) sono il più bel testo che il rap non sa di avere. Forse si potrebbe trovare qualcosa di così vivo e genuino e poeticamente valido in qualche luogo dell’Africa.

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Mi sono addentrato in un terreno non mio. La cultura hip hop non mi appartiene, e l’accostamento scandalizzerebbe accademici, benpensanti e i giovin signori di ieri e di oggi, ma credo non Ruffilli uomo né il suo alter ego poeta: su questo filo teso con cui le strofe di versi brevi a percussioni rimiche cadenzate legano Metastasio e il rap si equilibra la modernità (e la durata) di questa poesia, la sua fedeltà all’uomo (nella disgrazia) e la sua sorprendente limpidezza. Sono poi ancora tante le cose che si apprezzano di questo libro: il peso sconvolgente del fatto sul pensiero; la graduale intensificazione della morsa ossessiva (rilevabile in entrambe le serie) senza «ormai / più porte da cui uscire» non detta ma “rivissuta” in corpo e spirito, quel sapore di uomo che non si perde neanche nell’indifferenza del silenzio, quella percezione pur precaria dell’io in frantumi di essere anche altro e altrove da quei frantumi anche se la mente non sa dove parare e il corpo come il cuore fa la spola tra dolore e indotte anestesie... Ma vorrei azzardare un altro accostamento in conclusione. E dire che Ruffilli mi ricorda un po’ Noventa. Del resto, seppure originario di Forlì, è ormai naturalizzato veneto e non sta troppo lontano da Noventa di Piave. Ebbene, Ruffilli è l’unico tra i poeti veneti d’oggi che io conosca a possedere due qualità sommamente noventane. Un evidente legame formale e culturale con la poesia premodernistica e in particolare sette-ottocentesca (prima ricordavo, ma solo come generico richiamo alla “canzonetta” e alle “voci meliche”, Metastasio, ma poi c’è tutto il filone romantico e tardo-romantico – specie tedesco e inglese – della poesia narrata e del poemetto) e l’istanza orale impregnata di dotto e popolare con cui la sua poesia, come Fortini ebbe a dire proprio di Noventa, «riesce a parlarci di quel che la cultura moderna non sa più nominare». Aggiungerei anche un’investitura d’umiltà per cui la forza e la felicità affabulatorie sono con tale intensità e schiettezza proiettate alla vita (al suo fluire) da non dar mai l’impressione di far diventare la poesia un’ipostasi o un totem.

Roberto Nassi

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Emilio Zucchi, Tra le cose che aspettano, Passigli editore, Firenze, pagine 80, euro 10

Mi ha sempre colpito, nella poesia di Emilio Zucchi, il senso di un’originalità valorosamente difesa. Originalità rispetto ai modelli (non del tutto identificabili nei grandi poeti della sua terra, da Bertolucci a Bacchini, passando per lo struggente Giancarlo Conti), rispetto a quanto gli accadeva intorno durante il periodo dell’apprendistato (il suo recupero della metrica è diverso da quello, vagamente postmoderno, invalso negli anni ottanta), ma soprattutto rispetto a se stesso. Lo capirà il lettore che dopo aver apprezzato la

semplicità gnomica e apparentemente sbarazzina di Il pane (1994), dopo aver condiviso la gioia riconoscente, un po’ panteista e un po’ francescana di Il pioppo genuflesso (2001, prefazione di Mario Luzi), scopre adesso Tra le cose che aspettano. La grande qualità dei primi libri, cioè il felice equilibrio tra l’io e il mondo, tra la quotidianità e il suo riverbero cosmico, trova in quest’ultima raccolta una matura, compiuta espressione. Insomma, fa uno scatto in più. Lo ha colto bene Maurizio Cucchi, che nello scritto introduttivo, oltre a indicare in Zucchi uno dei quattro poeti italiani più interessanti della sua generazione (insieme a Riccardi, Rondoni e Dal Bianco, tutti nati come lui negli anni sessanta), pone l’accento sull’«energia compressa della sua parola e la sua esattezza». Ma qual è lo scatto in più? Partiamo, anziché dal mondo interiore nella sua forma più diretta (la gamma dei sentimenti e del vissuto), dalla descrizione della realtà esterna. Non tutti i poeti ci parlano del paesaggio. Se lo fanno, la cifra della loro riuscita va cercata nella capacità di rappresentare, attraverso lo specifico della loro terra, l’appartenenza di ogni uomo a una terra. Zucchi conseguiva questo risultato già nelle prime raccolte, quando con malia indolente evocava la città di Parma e i suoi dintorni. Attento allo spettacolo della contemporaneità, il suo sguardo si posa adesso, innanzitutto, sulla disarmonia delle periferie industriali, dei mall, della tangenziale e di chi la abita: «Pugni africani stringono badili / e martelli pneumatici. / Il tracciato del treno alto-veloce / dispera porcospini, schiaccia talpe, / cementifica aurore». L’impegno civile di questi versi ci ricorda il prezzo umano della crescita economica, e l’immagine delle scavatrici presente in una delle poesie costituisce, probabilmente, un omaggio consapevole a Pier Paolo Pasolini. Anche la contemplazione della natura, nella seconda sezione del libro, assume un tono nuovo e straordinariamente intenso: quello di uno sbigottimento cosmico, lucreziano, di fronte a un mondo che il poeta conosce bene. L’Appennino, i suoi crinali e le sue bestie sono raccontati, con potenza emblematica, attraverso episodi minimi ma cruenti, densi di una struggle for life alla Jack London, tanto più enigmatici in quanto fissati da Zucchi nell’attimo successivo al loro accadere: «Profonde d’ombra, orme nella neve / d’inseguitori e prede / nella radura; macchie rosse, gli urli, / e ancora il rosso sopra il bianco, e i ringhi». La sostanza interiore di questo poeta, dunque, va cercata nell’occhio, nella mente e nel cuore che amano, di un amore disperato e vitale, le forme del mondo nella loro asprezza e nel loro splendore. Questa adesione appassionata trova la propria misura etica nel coraggio di giudicare, e il proprio canone estetico in un gusto ostinato, da antico fabbro forgiatore di parole, per la metrica e la lingua italiana. Efficacemente contaminata dai ritmi e dal lessico della contemporaneità, la tradizione, in Zucchi, non è sfoggio di bravura ma necessità intima.

Leopoldo Carra