societÀ civile e stati per salvare il pianeta così...

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Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/31/2012; “TAXE PERÇUE” “TASSA RISCOSSA” 5,00 euro contiene I.P. Anno LX-n.1 /Gennaio 2016 www.cittanuova.it 20 /Terrorismo e fraternità 60 /Bonhoeffer oggi 74 /Islanda fuoco e gelo SOCIETÀ CIVILE E STATI PER SALVARE IL PIANETA Così fragile così bello

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Anno LX-n.1 /Gennaio 2016 www.cittanuova.it

20 /Terrorismo e fraternità 60 /Bonhoeffer oggi 74 /Islanda fuoco e gelo

SOCIETÀ CIVILE E STATI PER SALVARE IL PIANETA

Così fragilecosì bello

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Società, cultura e cambiamento.Le nuove proposte Città Nuova.

www.cittanuova.it

Abbi cura di lui (Lc 10,35). Itinerario

verso la PASQUA 2016 con bambini

e famiglie

In sintonia con l’Anno Santo della Misericordia, i sussidi Caritas per la Pasqua. Un percorsodi esperienze e riflessioni sul valore dell’accoglienza.

Opuscolo per famiglie: pp. 48, € 2,10

Libro per bambini “Il dono”, C. Zanotti: pp.48, € 3,00

Salvadanaio: € 0,40

GENNARO CICCHESE.

Macchine e futuro. Una sfida per l’uomo

Una riflessione interdisciplinare sul rapporto con le macchine e con il tempo, in un’epoca in cui si rivela sempre più inscindibile e problematica la relazione tra l’uomo, la tecnica/tecnologia e il futuro.

pp. 220, € 18,00

MARIA CLARA BINGEMER

Simone Weil. Una mistica sulla soglia

Intellettuale e operaia, attivista politica, filosofa e mistica, insaziabile cercatrice della Verità e instancabile paladina degli oppressi e dei deboli. La vita e il pensiero di Simone Weil, straordinaria testimone del nostro tempo.

pp. 180ca, € 18,00ca

FRANCESCO DI SALES

Lettere

Le lettere di Francesco di Sales dal 1585 al 1604. In dialogo con Re, principi, vescovi e Papi, ma anche con umili religiosi e semplici cristiani. Uno spaccato vivo e affascinante del suo tempo, un ritratto luminoso della sua carità.

pp. 680, € 40,00

HANS LIPPS

Ricerche per una logica dell’ermeneutica

Il saggio filosofico di Lipps sul linguaggio, l’organon con il quale l’uomo interpreta il mondo e sé stesso. La parola mette in comunicazione due esistenze e cambia il rapporto che intrattengono con il mondo.

pp. 256, € 22,00

TESTI PATRISTICI

Atanasio, Vita di Antonio

Nella lettera di Atanasio ai monaci d’Occidente, viene indicato in Atanasio Abate, vissuto tra il III e il IV secolo, l’ideale monastico puro. Un autentico best-seller della letteratura cristiana in una nuova traduzione italiana.

pp. 160, € 19.00

CONTATTACI T 06 7802676 – [email protected]

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La nuova versione della rivista, passata in questo 2016 da quindicinale a mensile, è giunta nelle case prima di Natale. Abbiamo ricevuto da parte delle lettrici e dei lettori una gran quantità di commenti: verbali, scritti, lettere, mail, post sui social, per telefono. Ne riportiamo alcuni nella corrispondenza alle pagine 94-97. Ve ne siamo grati, costatando il grande interesse che questo prodotto di carta suscita ancora (la carta non muore, vive e vivrà a lungo!). Contiamo di portare a termine nei prossimi mesi il progetto di revisione complessivo della nostra proposta editoriale, in particolare con il nuovo sito web totalmente rinnovato, con le proposte sui social network, con una App e con i contributi digitali riservati ai soli abbonati che potete cominciare a richiedere già da ora inviandoci una semplice email all’ufficio abbonamenti ([email protected]). Nel cellophane, assieme al mensile, avete ricevuto in questo inizio 2016, che segna il 60° anniversario della nostra rivista, un libretto di una neonata collana chiamata “Dossier”, che avrà non poca importanza nella nostra proposta culturale. Di cosa si tratta? Come dice il nome stesso (Dossier), è un approfondimento offerto ai nostri abbonati 3 volte all’anno (in libreria a 8 euro), su argomenti al centro del dibattito nazionale e internazionale. Cominciamo con la questione del gender, su cui si confrontano i nostri lettori e gran parte della società religiosa e laica. Il seguente sarà

dedicato invece all’immigrazione.La questione del gender, per come è stata articolata, chiama oggi in causa una molteplicità di concetti: unioni civili, femminismo delle differenze, transgender, educazione all’affettività, utero in affitto, step child adoption… Approfondire il tema, indagandone le dimensioni antropologiche, è un’operazione necessaria per chi voglia orientarsi responsabilmente e con competenza. Questa è da sempre la linea del nostro Gruppo editoriale e lo sarà ancora: la verità per i cristiani non è una serie di concetti e di assiomi. È una persona, Gesù Cristo, che ha fatto dell’amore il centro della sua predicazione. Non possiamo che seguirlo su questa via di ascolto, di incontro, di dialogo. Sapendo che il contributo di ogni uomo e ogni donna può essere decisivo per l’elaborazione di un pensiero che si avvicini per quanto possibile alla verità.In questo primo dossier presentiamo una sintesi dell’argomento grazie alle riflessioni di Susy Zanardo, docente di Antropologia filosofica e filosofia morale all’Università Europea. Seguono due interviste con Paola Binetti, psichiatra, professore di Storia della medicina e deputata, e con Livia Turco, già parlamentare e ministro. Opinioni diverse “in dialogo”. E poi delle documentazioni e il pensiero di Daniela Notarfonso, medico e bioeticista.Care lettrici e cari lettori, continuate a farci avere il vostro pensiero. Ci interessa molto!

Verità e ascolto.

di Michele Zanzucchi

il punto

3cittànuova n.1 | gennaio 2016

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20 /DOPO PARIGI Fraternità politica e guerra. La paura

del terrorismo interroga l’Italia su un intervento armato.

74 /REPORTAGE Un giro dell’isola

più fredda e bollente d’Europa, l’Islanda.

28 /AFRICA Il Burundi vive da mesi un conflitto

interno con morti e attentati quotidiani.

80 /TEATRO Intervista a Massimo Popolizio,

ora in scena con “Il prezzo” di Arthur Miller.

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Anno LX-n.1 /Gennaio 2015 www.cittanuova.it

20 /Terrorismo e fraternità 60 /Bonhoeffer oggi 74 /Islanda fuoco e gelo

SOCIETÀ CIVILE E STATI PER SALVARE IL PIANETA

Così fragilecosì bello

10 /Prove di coordinamento per il controllo del clima.

7 /PING PONG di Vittorio Sedini 27 /OLTRE IL MERCATO di Luigino Bruni

31 /SCENARI MONDIALI di Pasquale Ferrara 42 /PIANETA FAMIGLIA di Barbara e Paolo Rovea 62 /SE POSSO di Piero Coda 67 /PENSARE L’UNITÀ di Jesús Morán 93 /GIBI E DOPPIAW di Walter Kostner

In copertina

Opinioni

sommarioIl punto3 /Verità e ascolto.di Michele Zanzucchi

Editoriali8 /Democrazia cercasi.di Iole Mucciconi

/Il papa in Africa. di Giulio Albanese

9 /Quanto sangue (donato)!di Paolo Lòriga

Le regioni17 /Una regione tagliata in due.di Francesca Cabibbo

18 /A Udine ci sono “Ospiti in arrivo”.di Chiara Andreola

19 /A Roma c’è la biblioteca condominiale.di Mariagrazia Baroni

Politica lavoro economia24 /Banche armate.a cura di Carlo Cefaloni

26 /Solidarietà.a cura di Tomaso Comazzi

Pagine internazionali32 /Flash dal mondo.di Silvano Malini, Bruno

Cantamessa, Chiara Andreola,

John Mullins

Intervista34 /Svjatoslav Ševčuk.a cura di Aurora Nicosia

Famiglia e società38 /Le paure di lei e le paure di lui.di Pasquale Ionata

40 /Domande & risposte.di Marina Gui, Marco D’Ercole,

Federico De Rosa, don Tonino

Gandolfo, Maria e Raimondo

Scotto

Cantiere Italia43 /Cultura delle relazioni.di Rosalba Poli e Andrea Goller

44 /Multietnici e contenti.di Beatrice Cerrino

47 /La pace inizia coi vicini.di Rosi Bertolassi

48 /Iniziative.a cura della redazione

49 Aipec. Idealisti e professionisti.di Vittoria Siciliani

Storie50 /Signora maestra, perché sparano?di Patrizia Bertoncello

53 /Storie brevi.di Ivo Sansone, Costantino

Daddio, Gabriele Amenta

Spiritualità55 /La verità è un incontro. di Aurelio Molè

58 /La pace è come un grande albero.di Chiara Lubich

60 /Ascoltare il fratello.a cura della Redazione

65 /Parola di vita – Febbraio.a cura di Fabio Ciardi

Idee e cultura64 /Il fascino della Francigena.di Mario Spinelli

SEGNALIAMO SU

NOSTRA AETATE

Ebrei e cristiani.

50 anni di dialogo

di Roberto Catalano

MAMME IN AFFITTO

Inquietudini e questioni

aperte

di Elena Granata

SPORT

Europei di calcio 2016:

gruppi e calendario

di Mario Agostino

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Le icone pubblicate sono di: Sergey Krivoy, Ron Scott, YuguDesign, Claire Jones, Alex Auda Samora, Luis Prado.

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Mensile di opinione del Movimento dei focolari fondato nel 1956 da Chiara Lubich con la collaborazione di Pasquale Foresi.

Direttore responsabile: Michele Zanzucchi

Caporedattore: Aurelio Molè

Redazione: Carlo Cefaloni, Sara

Fornaro, Maddalena Maltese, Giulio

Meazzini, Aurora Nicosia

Progetto Grafico: Humus Design

Impaginazione: Umberto Paciarelli

Segreteria di redazione: Luigia Coletta

Abbonamenti: Antonella Di Egidio,

Desy Guidotti, Marcello Armati

Promozione: Marta Chierico

Editore: Città Nuova della P.A.M.O.M.

Via Pieve Torina, 55 | 00156 Roma

T 06 3216212 F 06 3207185

C.F. 02694140589 P.I.V.A. 01103421002

Direttore generale: Stefano Sisti

Stampa: Arti Grafiche La Moderna

di Miliucci Marco e Floriana S.n.c.

Via Enrico Fermi, 13/17

00012 Guidonia Montecelio (Roma)

tel. 0774354314/0774378283

Tutti i diritti di riproduzione riservati

a Città Nuova. Manoscritti e fotografie,

anche se non pubblicati, non si

restituiscono.

Abbonamenti per l’ItaliaAnnuale: euro 50,00

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Iscrizione R.O.C. n. 5849 del 10/12/2001

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dello Stato di cui alla legge 250/1990

68 /Vivere le nostre domande adesso.di Oreste Paliotti

71 /La direzione della storia.a cura di Giulio Meazzini

72 /Il piacere di leggere.a cura di Gianni Abba

73 /In libreria.a cura di Oreste Paliotti

Arte e spettacolo

82 /Televisione. di Eleonora Fornasari

83 /Cinema.di Edoardo Zaccagnini

Moda. di Beatrice Tetegan

84 /Musica e teatro.di Giulia Fabiano, Mario Dal Bello

ed Elena D’Angelo

85 /Musica leggera.di Franz Coriasco

/Appuntamenti, cd, novità.

Fantasilandia

86 /Il seminatore di stelle. Tratto da BIG

Pagine verdi

90 /Buon appetito con…di Cristina Orlandi

91 /Alimentazione. di Giuseppe Chella

/Educazione sanitaria. di Spartaco Mencaroni

/Diario di una neomamma. di Luigia Coletta

92 /Aumenta la raccolta dell’organico.di Lorenzo Russo

Dialogo con i lettori95 /La nostra città.di Alessio Valente

96 /Guardiamoci attorno.

97 /Riparliamone.a cura di Gianni Abba

Penultima fermata

98 /Cattive abitudini. di Elena Granata

88 /SPORT In dialogo con Frank Chamizo,

campione del mondo nella lotta libera.

Direzione e redazionevia Pieve Torina, 55 - 00156 ROMA

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Questo numero è stato chiuso in tipografia il 15-12-2015.

Il numero 23-24 del 10/25-12-2015 è stato consegnato alle poste il 4-12-2015.

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8 cittànuova n.1 | gennaio 2016

editoriali

Il mondo è in subbuglio e fermarsi a ragionare di elezioni amministrative può sembrare un provincialismo adatto alla fuga dalla realtà. E invece, se non diventano un amplificatore di risse partitiche, le elezioni di primavera (1289 comuni, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Cagliari) sono un’occasione per ritrovare il protagonismo democratico. Già si va poco al voto, e invece dovremmo cercare di partecipare anche alla scelta dei candidati. Dobbiamo ridirci quanto è importante individuare persone competenti, distaccate dal proprio tornaconto e con un legame trasparente con la base elettorale? Quest’ultimo elemento dipende anche da noi cittadini-elettori, che dobbiamo dimostrare di aver abbandonato atteggiamenti utilitaristici: «Che cosa mi darà quel politico? Avrò il posto di lavoro per mio figlio, la pensione di invalidità per mia nonna, la sanatoria edilizia per il terrazzo?». Il recupero dell’interesse generale è condizione basilare per il buon governo e il benessere di tutta la comunità. È necessario, tuttavia, che partiti e movimenti politici diano ai cittadini una concreta

occasione per partecipare. E come siamo messi sotto questo profilo? Non benissimo, diciamolo subito. I partiti maggiori, Pd e M5S, sono quelli che tradizionalmente sono più aperti alla partecipazione della base elettorale, ma il primo è impantanato in un’impasse che lo ha portato a ridiscutere le primarie (vedi braccio di ferro su Milano); il secondo è stretto tra scarsa partecipazione (in 300 soli a scegliere la candidata sindaco a Milano) e il controllo verticistico. La sinistra si deve riorganizzare e i partiti del centrodestra appaiono ancora lontani anche da primarie e web; per tutti, però, il cittadino-elettore fa capolino con i sondaggi onnipresenti. Ma non possiamo accontentarci. La selezione dei candidati è una partita troppo importante perché la responsabilità non sia assunta pienamente da tutto il sistema: partiti e cittadini. E se i partiti non ne vogliono sapere, industriamoci, anche utilizzando accortamente le tecnologie per farsi sentire. Promuovere un salto di qualità dell’amministrazione pubblica non è più un’opzione, è un obbligo.

Il recente viaggio di papa Francesco in Africa è stato un evento senza precedenti, per l’impatto della predicazione del pontefice e per l’accentuata riflessione sui temi ispirati alle sue due encicliche: Evangelii Gaudium e Laudato Si’. Ma soprattutto per alcuni gesti, il più significativo dei quali è stato voler far partire, in anticipo, l’anno giubilare in un luogo che appartiene ai bassifondi della storia. Francesco ha infatti aperto la prima porta santa non nella consueta basilica di San Pietro in Vaticano, ma nella cattedrale della capitale centrafricana Bangui.E subito dopo ha percorso le vie della città insieme con l’imam musulmano, quasi a dire al mondo che per la prima volta in oltre 700 anni di

storia giubilare (un istituto ebraico veterotestamentario di natura politica prima ancora che religiosa, trasferito dell’esperienza cristiana nel 1300 da Bonifacio VIII) possono riconoscersi non solo i cattolici, ma anche i fedeli di religioni diverse, insieme naturalmente ai cristiani delle altre confessioni. Del resto, è stato lo stesso Bergoglio, al suo rientro a Roma, a dichiarare che la tappa centrafricana «era in realtà la prima nella mia intenzione, perché quel Paese sta cercando di uscire da un periodo molto difficile, di conflitti violenti e tanta sofferenza nella popolazione. Per questo ho voluto aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima porta santa del Giubileo della misericordia,

Politica

Democrazia cercasi. di Iole Mucciconi

Chiesa

La porta santa di Bangui.di Giulio Albanese

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9cittànuova n.1 | gennaio 2016

Sono unici, ben si sa, i romani. Quando piove, prendono non l’ombrello ma l’automobile. Se fa freddo, invece, restano al calduccio di casa. È successo anche sabato scorso. Nelle prime ore di luce del rigido mattino le strade della capitale erano scorrevolissime.Anche al centro trasfusione del policlinico Umberto I le infermiere interpretavano con la sicurezza di navigati osservatori di flussi sociali la presenza assai ridotta di donatori di sangue. Sentenziavano serene: «Quando il termometro sale, la gente arriverà».Dopo gli attentati di Parigi, Roma è considerata un obiettivo ad alto rischio. I romani lo sanno e con consumata abitudine si stanno adattando alla nuova emergenza. Il sentimento della paura traspare nei discorsi quotidiani. L’inizio del Giubileo, per giunta, ha contribuito a renderli sospettosi.«Qui a donare il sangue vengono comunque», precisa l’infermiera con una punta di fierezza. Ha i fatti dalla sua. Lunedì scorso – riferisce – una ragazza è stata travolta da un camion. I familiari hanno fatto sapere in giro che servivano donatori. Ne sono arrivati 118. La giovane non ce l’ha

fatta, ma la risposta collettiva sta lì a dire che mente e cuore sono andati oltre la paura. Un caso straordinario, si può pensare, motivato da una forte componente emotiva. Eppure il venerdì di quella stessa settimana si sono presentate 96 persone al centro trasfusionale. Senza alcun motivo specifico. Sorprendendo medici e infermiere.La paura s’è aggiunta alla crisi. L’Istat ha confermato il rallentamento della nostra economia anche nel terzo trimestre 2015. Il Censis ha salutato l’anno vecchio constatando che l’Italia è immersa in un «letargo esistenziale collettivo», dove non si alza lo sguardo verso il futuro e la maggioranza si accontenta del giorno per giorno. La maggioranza, ma non tutti. Perché vanno registrati anche interessanti segnali di coraggiosa determinazione. C’è un boom in Italia di imprenditori giovani, più di quelli inglesi e tedeschi. Disposti al rischio e ad intraprendere, nonostante tutto. Il freddo della crisi non li ha frenati. Ulteriore prova che quei donatori di sangue non sono soli. Anche se i media nazionali non li degnano d’attenzione.

come segno di fede e di speranza per quel popolo, e simbolicamente per tutte le popolazioni africane». Ben consapevole di visitare quelle che tante volte ha definito periferie esistenziali e geografiche della post-modernità, ha voluto aprire una porta alla speranza, con un gesto profetico e moralmente ineccepibile.Già a Bangui, parlandone come di una «capitale spirituale del mondo», Bergoglio aveva spiegato che «l’Anno santo della misericordia viene in anticipo» perché «in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra». Attraverso cioè una sofferenza ingiusta che, come

spesso accade, non solo in Africa, vede i responsabili ammantare i loro interessi e la loro ferocia con blasfeme motivazioni pseudoreligiose. In un frangente della storia umana in cui le classi dirigenti a livello planetario ostentano una imbarazzante grettezza di fronte alle istanze di liberazione di una moltitudine di popoli oppressi, papa Francesco appare davvero l’unico leader mondiale in grado di dare voce a chi non ha voce. Non solo proponendo un’agenda perspicace e illuminata sulla «casa comune», ma soprattutto infondendo una speranza, davvero palpabile nei volti delle masse impoverite che ha incontrato.

Società

Quanto sangue (donato)!di Paolo Lòriga

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10 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Nel 2009, i risultati del summit di Copenaghen per il clima furo-no deludenti. Un’intesa minimale, «un accordo debole e senza ambi-zioni» che lasciò tutti insoddisfatti: non conteneva infatti obblighi, né a medio né a lungo termine, sulla riduzione delle emissioni di CO2. Furono soprattutto le piccole iso-le e l’Africa a gridare al tradimento da parte dei Paesi industrializzati, colpevoli di lasciarli in balia dei di-sastri provocati dall’aumento della temperatura media.

Tecnologie verdiAlla fine del summit 2015 di Pari-gi, invece, molti si sono dichiarati soddisfatti, anche se naturalmente l’accordo poteva essere migliore. Cos’è successo in questi 6 anni? Molte cose sono cambiate, in pri-mis le tecnologie verdi, che han-no dimostrato ormai la propria maturità: produrre energia con le rinnovabili (eolica, idroelettrica, geotermica, marina, da biomas-se, fotovoltaica e termodinamica) conviene dal punto di vista econo-mico (costano poco e non si esauri-scono), ambientale (provocano un inquinamento minimo), climatico

(non immettono CO2 in atmosfe-ra), etico (non vengono consuma-te risorse che potrebbero essere utili alle generazioni future), civi-le (sono tecnologie relativamente semplici e non pericolose).

Disastri ambientaliIn secondo luogo, disastri ambien-tali ormai diffusi e crescenti, come

i devastanti incendi in California o le invivibili metropoli cinesi stran-golate dallo smog, hanno convin-to anche i politici più riluttanti (statunitensi e cinesi in particola-re, meno gli indiani) che investi-re nella salvezza del clima costa meno che intervenire a posteriori, per riparare i guasti da incuria. In questo senso è forte anche la pres-sione della comunità scientifica, impegnata ormai nella sua quasi totalità a sollecitare provvedimen-ti immediati contro il consumo di combustibili fossili e la deforesta-zione. Politici e operatori della fi-nanza, sempre sensibili agli umori della popolazione, hanno capito che la coscienza ambientale sta crescendo nel mondo, per cui inve-stire sull’ambiente è “politicamen-te corretto” e ormai conveniente.

Dissesto e ingiustizia Una forte presa di coscienza l’ha provocata l’enciclica Laudato si’ del papa, che ha sottolineato come dissesto ambientale e ingiustizia sociale siano strettamente legati. I 100 miliardi di euro promessi dai Paesi ricchi per aiutare quelli po-veri ad abbandonare le tecnologie

alleanza per la terra

SUMMIT DI PARIGIl’inchiesta

Prove di coordinamento su scala mondiale. Oggi per il controllo del clima. E domani?

INQUINARE IL PIANETA COL GAS SERRA

I 6 maggiori produttori mondiali, le loro emissioni attuali

(in milioni di tonnellate di CO2) e il loro impegno volontario

di riduzione (prima del summit)

Cina 10,28 - 60%

Stati Uniti 5,30 - 26%

Unione Europea 3,71 - 40%

India 2,07 - 33%

Russia 1,80 - 25%

Giappone 1,31 - 25%

Altri 190 Paesi si sono impegnati nelle riduzioni.

(dati Sole24ore)

di Giulio Meazzini

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11cittànuova n.1 | gennaio 2016

di Maddalena Maltese

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12 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Geopolitica del climaProf. Vincenzo Buonomo Ordinario di Diritto internazionale alla Pontificia Università Lateranense

“Un impegno politico ha chiuso la Cop21 a Parigi. L’accordo (quelli internazionali

una volta conclusi sono sempre vincolanti per chi ne diventa parte) sarà firmato

il prossimo 22 aprile e diverrà operativo (dal 2020?) con la ratifica di almeno 55

Paesi responsabili del 55% delle emissioni di gas serra.

Cuore dell’accordo è l’art. 2 con i 3 obblighi essenziali: temperatura media “ben al

di sotto” dei 2 gradi di crescita rispetto ai livelli precedenti all’industrializzazione,

con lo sforzo di non superare 1,5 gradi; capacità di reazione ai cambiamenti

climatici ed emissioni più basse per non compromettere la produzione

alimentare; finanziamento a favore dei Paesi emergenti (100 miliardi di dollari

l’anno dal 2021 e una nuova cifra dal 2025). Per raggiungere questi obiettivi

l’articolo fissa due principi: equità e responsabilità comune ma differenziata,

cioè considerare la condizione di ogni singolo Paese e le sue specifiche capacità

(livello di emissioni e tempi per correggerli).

L’accordo riflette posizioni difficili da conciliare: i maggiori responsabili della

deriva climatica hanno manifestato l’impegno a ridurre le emissioni nei prossimi

10 anni (28% Usa, 80% Ue), senza però definire gli strumenti. Cina, India e

Paesi in via di sviluppo rifiutano limiti immediati all’uso delle fonti di energia

(carbone, petrolio) che hanno fatto la ricchezza dei Paesi industrializzati, additati

come i colpevoli della situazione. Infine, si vogliono escludere le emissioni

prodotte in agricoltura, da navi e da aerei, settori difficilmente regolabili dal

diritto internazionale. Le regole internazionali vanno dunque coordinate (e

forse subordinate) con quelle di ciascuno Stato. Ma funzionerà? Sui 186 Paesi

responsabili del 90% delle emissioni peserà la responsabilità di coniugare

sicurezza climatica ed emissione di CO2. Quale Paese rifiuterà se spinto da

un’opinione pubblica formata e informata? I riferimenti ai diritti umani e –

finalmente! – alla «giustizia climatica» contenuti nel preambolo dell’accordo

dicono che la geopolitica del clima è cambiata: le emissioni da “disattenzione”

diventano “colpa” e pertanto si puniscono; le energie alternative non sono più

“aspirazione”, ma “necessità”. L’Opec ha preso atto che l’uso strategico dell’oro

nero volge al termine. E non solo per le tecniche dall’impatto ambientale

disastroso (come il “fracking”) o perché le riserve siano esaurite, ma per il ricorso

a fonti alternative anche da parte dei produttori di greggio (vedi Arabia Saudita).

Cosa significherà questo per aree dove insicurezza e guerra dipendono dal

controllo dei combustibili fossili? Tra clima e pace c’è un legame spezzato che va

riannodato: la famiglia umana non può attendere.

l’inchiesta

INQUINARE IL PIANETA CON I COMBUSTIBILI FOSSILIPer salvare il pianeta dobbiamo smettere di estrarre combustibili fossili dal sottosuolo. La rivista “Nature” ha fatto i conti.

Petrolioi Paesi del Medio Oriente dovrebbero smettere di estrarlo entro 8 anni.

CarboneCina, India, Stati Uniti, Australia, Russia e Paesi africani dovrebbero lasciare sottoterra tra il 60 e l’80% delle riserve attuali.

Scisti bituminosi Le nuove tecniche di estrazione dovrebbero essere fermate in Canada, Cina e altrove.

Gas Niente trivellazioni per estrarre petrolio e gas dall’Artico.

CHI SI OPPONE? La potente industria dei combustibili fossili. Ma anche la necessità di sostenere

i Paesi più poveri che, per il loro sviluppo, non possono rinunciare, senza aiuti, a queste risorse.

SUMMIT DI PARIGI

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13cittànuova n.1 | gennaio 2016

energetiche basate su petrolio e carbone sono un piccolo ma signi-ficativo passo in questa direzione. «Il creato non perdona. Se tu non lo custodisci, lui ti distruggerà»: le forti parole del papa hanno reso globale, in tutti i popoli del mondo, la percezione che serve un’inter-vento veloce ed efficace.

Società civileAl di là della valutazione sulle conclusioni del vertice di Parigi sugli interessi in gioco e sulle pro-spettive energetiche, (vedi box), c’è però un altro aspetto, altret-tanto importante, che conviene sottolineare. Avere un nemico comune, in questo caso il cambia-

mento climatico, ha “costretto” i leader del mondo ad aggregar-si nello sforzo di raggiungere un obiettivo condiviso. Certo, ognu-no ha cercato di fare i propri inte-ressi, ma tutti hanno sperimentato un metodo nuovo di collaborazio-ne per il bene del pianeta. E non sto parlando solo dei 196 Paesi

INQUINARE IL PIANETACON LE STRADE

Nel continente africano sono in corso di

realizzazione decine e decine di “corridoi

di sviluppo”: ferrovie, strade, oleodotti,

porti. Obiettivo ufficiale: migliorare la

produzione agricola e industriale. Obiettivo

reale: penetrare in zone di difficile accesso

ma ricche di materie prime, come ferro

e carbone. La rivista scientifica “Current

Biology” analizza i rischi possibili:

sconvolgere l’habitat, distruggere specie a

rischio come gli elefanti, ridurre la diversità

vegetale, inquinare l’ambiente, peggiorare

il clima, impoverire le popolazioni. Alcuni di

questi corridoi in costruzione, avvertono gli

scienziati, andrebbero fermati. Subito.

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14 cittànuova n.1 | gennaio 2016

(l’Europa una volta tanto ha par-lato con una sola voce) che hanno firmato l’accordo. Neanche delle aggregazioni a geometria variabi-le che si sono composte e ricom-poste in questi mesi tra gli Stati, come quella, inedita, che ha visto Ue e Usa entrare nel gruppo com-posto da Paesi africani, caraibici e piccole isole del Pacifico. La vera novità di questi ultimi anni è l’in-credibile mobilitazione cresciuta nella società civile per salvare il

pianeta: religioni, sigle ambienta-liste, gruppi editoriali, enti locali, associazioni di tutti i tipi, partiti, sindacati, aziende (da 21st Cen-tury Fox a Facebook, da Amazon a Kpmg, da Linkedin a Lenovo, da Dupont a Bmw e Volvo Group NA), tutti si sono schierati, hanno preso posizione, discusso, alzato la voce, si sono informati, hanno organizzato convegni, pubblicato saggi, articoli, filmati diffusi nei social e nelle tv.

Governare il pianetaQuesta vivacità della società civile, collegata senza barriere attraverso Internet e le reti sociali, ha creato una forte opinione pubblica, una moltitudine di gruppi di pressione che in tutti gli Stati hanno condi-zionato le scelte politiche e im-pedito che l’accordo finale fosse il frutto degli interessi di pochi. Come si sperimenta già da tem-po nella gestione di Internet, per governare un mondo complesso

l’inchiesta

Nel mondo ci sono mezzo milione di isole. Un incremento anche minimo nel livello degli oceani ne sommergerebbe parecchie. Lo stesso per le zone costiere. Preoccupa anche il previsto incremento della domanda di acqua (più 55% entro il 2050).

SUMMIT DI PARIGI

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L’atollo Tarawa (Repubblica di Kiribati), nell’Oceano Pacifico.

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15cittànuova n.1 | gennaio 2016

Risparmiare energia si puòAlberto Ferrucci Prometheus

“Dopo l’era del carbone, dalla fine della Seconda guerra mondiale il petrolio è

diventata la fonte di energia motore dello sviluppo economico: il suo prezzo

ha riflettuto tensioni, guerre, eventi terroristici e finanziari. Gli interessi

in gioco sono enormi, ma le multinazionali, legate alla grande finanza e

pronte al cambiamento, negli ultimi mesi hanno ridotto i loro investimenti in

perforazioni, orientandosi, insieme con i grandi Paesi produttori di petrolio,

verso le energie rinnovabili!

Ma concretamente, nel breve termine, quali energie possono sostituire i

combustibili fossili?

L’energia più economica e a disposizione di tutti è il risparmio energetico, a

partire da energia elettrica sprecata in ambienti illuminati senza necessità e

a condizionatori tenuti al massimo: in Giappone si è alzata la temperatura di

condizionamento, consigliando di venire in ufficio senza cravatta.

Una grossa fetta di risparmio può venire dal riscaldamento domestico e degli

uffici: si potrebbe realizzare in pochi anni se i governi deliberassero per legge

che ogni nuova abitabilità fosse condizionata ad una robusta coibentazione.

Altro risparmio energetico si potrebbe ottenere decidendo per legge che ogni

nuovo mezzo di trasporto deve consumare un terzo in meno di quelli attuali,

come è possibile adottando la trazione ibrida.

Poi bisognerebbe bandire il carbone, che bruciando libera, oltre a dannose

polveri sottili, la maggiore quantità di anidride carbonica per kilowatt prodotto:

le nuove centrali a carbone, che pomperebbero in vecchi pozzi petroliferi

l’anidride carbonica prodotta, abbisognano di grandi investimenti, per fortuna

scarsamente appetibili anche con carbone a basso prezzo. L’energia da

fotovoltaico ed eolico andrebbe resa fruibile in modo continuo grazie a nuove

batterie a grande capacità. Infine andrebbe eliminato l’olio combustibile,

quindi il gasolio e infine il gas naturale, che rispetto al carbone produce la metà

di anidride carbonica.

INQUINARE IL PIANETA COL DENARO

Ovunque, gli individui più ricchi e le aziende nascondono migliaia di miliardi di dollari al

fisco in una rete di paradisi fiscali in tutto il mondo. Si stima che 21 mila miliardi di dollari non

siano registrati e siano offshore;

Negli Stati Uniti, anni e anni di deregolamentazione finanziaria sono strettamente correlati

all’aumento del reddito dell’1% della popolazione più ricca del mondo che ora è ai livelli più

alti dalla vigilia della Grande Depressione;

In India, il numero di miliardari è aumentato di 10 volte negli ultimi 10 anni a seguito di un

sistema fiscale altamente regressivo, di una totale assenza di mobilità sociale e politiche

sociali;

In Europa, la politica di austerity è stata imposta alle classi povere e alle classi medie a

causa dell’enorme pressione dei mercati finanziari, dove i ricchi investitori hanno invece

beneficiato del salvataggio statale delle istituzioni finanziarie;

In Africa, le grandi multinazionali – in particolare quelle dell’industria mineraria/estrattiva –

sfruttano la propria influenza per evitare l’imposizione fiscale e le royalties, riducendo in tal

modo la disponibilità di risorse che i governi potrebbero utilizzare per combattere la povertà.

(da Rapporto Oxfam)

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come il nostro non basta più l’o-ligarchia dei potenti, né l’Onu da solo, con i veti bloccanti e opachi tra gli Stati. Serve invece una par-tecipazione corale e trasparen-te, dove la libera convergenza di gruppi e associazioni della società civile abbia la stessa dignità e forza contrattuale degli stessi Stati. Oggi abbiamo fatto un primo positivo esperimento col clima. Ma l’appe-tito vien mangiando. Domani, spe-riamo presto, potremo riprovarci con la pace e la giustizia sociale. A livello planetario.

l’inchiesta SUMMIT DI PARIGI

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cittànuova n.1 | gennaio 2016

SICILIAle regioni

Dopo crolli e cedimenti, la circolazione viaria è in ginocchiodi Francesca Cabibbo

a cura di Sara Fornaro

Da Ragusa a Palermo il viaggio può durare anche 4 ore e mezza. Per 7 mesi è stato così e il pilone del ponte che cedeva sul fiume Himera è divenuto il simbolo di un degrado che, però, è solo la punta di un iceberg. Sono passati 7 mesi prima che venisse realizzata

una bretella di collegamento. 7 mesi lunghissimi, carichi di polemiche, con gli autoveicoli in transito costretti a inerpicarsi lungo una stradina tortuosa. Con il crollo di quel ponte, ci si è accorti che la Sicilia, oltre l’autostrada, ha pochissime strade.

Ma la storia viaria della regione degli ultimi mesi è costellata di punti neri. I crolli si succedono, come pure i cedimenti e le strade interrotte. Prima tocca alla Catania-Messina, poi alla Sciacca-Palermo, altra arteria importante per chi vive sulla costa mediterranea e deve

Una regionetagliata in due

17

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18 cittànuova n.1 | gennaio 2016

le regioni

raggiungere quella tirrenica. Qui la chiusura dura solo poco, ma su quei piloni, prima o poi, bisognerà intervenire. In precedenza bisogna ricordare il cedimento della tratta Gela-Caltanissetta, nel 2009, che aveva costretto, anche in quel caso, a percorrere vecchie strade alternative, o quello, meno noto, della Caltagirone-Niscemi. E poi quelli del viadotto Scorciavacche, del viadotto Petrulla, tra Licata e Ravanusa, e del viadotto Verdura (sulla Agrigento-Sciacca), due anni fa. Senza contare un tratto dell’autostrada Siracusa-Rosolini, progettata da decenni e non ancora completata. Quando venne inaugurato, alcuni anni fa, ci si accorse che l’asfalto aveva ceduto. Fu necessario chiudere e correre ai ripari. L’intera isola è collegata, lungo le coste, da 3 arterie, che percorrono tutto il periplo. La strada statale 113 collega Trapani a Palermo e Messina, la 114 va da Messina a Catania e Siracusa; infine, la strada statale 115 da Siracusa a Ragusa, Gela, Agrigento, Trapani. Queste arterie, in alcuni tratti, risalgono al periodo borbonico. Ed è lo stesso per buona parte delle strade interne, nonché per le ferrovie. I re delle Due Sicilie investirono non poco sulla mobilità, inaugurando le prime ferrovie. Oggi, invece, molte tratte ferroviarie vengono chiuse o declassate. Intanto, il Consorzio autostrade è in crisi e viene pignorato per i debiti pregressi, non ci sono soldi e invece ne occorrerebbero veramente tanti per rifare le strade. C’è tanto da ricostruire in una Sicilia sull’orlo di un collasso economico, che ha messo in forte crisi i conti della Regione e dei comuni isolani, molti dei quali sono in dissesto. Chi governerà l’isola, nei prossimi anni, avrà davvero tanto da fare!

Non è solo negli ultimi mesi che il Friuli Venezia Giulia ha scoperto l’esistenza della “rotta balcanica”: già da oltre un anno a Udine gli arrivi sono diventati consistenti, tanto che attualmente si contano 350 richiedenti asilo ospitati in una tendopoli nell’ex caserma Cavarzerani. Un numero difficilmente quantificabile di altre persone è al di fuori di qualsiasi percorso di accoglienza – sono un centinaio quelle che dormono in stazione –: per cui è ora la città stessa a muoversi, soprattutto tramite l’associazionismo. Tra i gruppi più attivi, oltre alla Caritas, c’è “Ospiti in arrivo”: un’associazione nata un anno e mezzo fa, che si

A Udine ci sono “Ospiti in arrivo”

Accogliere i migranti

aiutandoli a integrarsi di Chiara Andreola

friuli venezia

giulia

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19cittànuova n.1 | gennaio 2016

A Roma c’è la biblioteca condominiale

Si chiama “Al cortile” e oltre

a promuovere la cultura aiuta

a migliorare le relazioni fra

condomini di Mariagrazia Baroni

dedica soprattutto alla prima accoglienza distribuendo vestiario e coperte. Partita con 6 volontari, «non avrei mai creduto che saremmo arrivati dove siamo oggi – ammette Angela, una delle volontarie della prima ora –. Siamo una ventina di volontari fissi, più altri 30 circa che si prestano quando possono». Oltre a questo, “Ospiti in arrivo” organizza attività culturali come il corso di percussioni in collaborazione con il CSS Teatro Stabile del Fvg e le lezioni di italiano: una decina di insegnanti cerca di dare il primo strumento per l’integrazione, la lingua, avvalendosi del sostegno di mediatori. Inizialmente i corsi si tenevano in un parco, ed erano stati messi a rischio dall’arrivo del freddo; ora il circolo MissKappa ha aperto le sue porte. L’associazione sta inoltre creando un’équipe di psicologi, che possa aiutare queste persone che spesso hanno vissuto esperienze traumatiche.Non sono mancate iniziative per far incontrare i richiedenti asilo e gli udinesi: va ricordata la giornata ospitata dai padri saveriani a novembre, in cui quasi un centinaio di persone tra “locali” e ospiti hanno avuto modo di conoscersi e di condividere storie, aspettative, opinioni su come la città debba affrontare quella che appare sempre più come un’emergenza.Dall’inizio di dicembre fino alla vigilia di Natale, inoltre, in collaborazione con il Cinema Visionario si è tenuta l’iniziativa “Avvento Solidale”: ogni sera i frequentatori del luogo, “complici” assaggi di cioccolata da varie parti del mondo, musica e spettacoli di giocoleria, hanno avuto modo di conoscere l’associazione e gli “ospiti” che vuole aiutare.

comune che ha come aspirazione quella di diventare un luogo d’incontro fra quanti abitano il palazzo, ma in dialogo con le realtà del quartiere. La sede è in via Giovanni da Castel Bolognese 30, nel plesso storico dei Ferrovieri bombardato nel ’43, che quest’anno festeggia i suoi 100 anni. L’inaugurazione c’è stata il 21 giugno 2014, in occasione della “festa del condominio”, che qui si celebra da 3 anni nel cortile, da cui il nome della biblioteca. Essa risulta punto di aggregazione e luogo in cui incontrarsi al di là delle possibili beghe condominiali. E il suo punto forte è proprio il fatto che le relazioni tra condomini sono migliorate, tanto che si organizzano corsi, feste e iniziative culturali. Tra gli scaffali della biblioteca, inoltre, si scovano anche edizioni rare, come il primo romanzo di Romain Gary Cocco mio, del tempo in cui scriveva sotto lo pseudonimo di Émil Ajar. Loredana Grassi è l’ideatrice della biblioteca. Con un messaggio in bacheca presentò il progetto, chiedendo libri e scaffalature in regalo. In molti aderirono ripescando libri dalle cantine, testi scolastici di figli ormai cresciuti o doppioni. Quando arrivano nella stanza con il soffitto a botte che ospita “Al cortile”, i libri vengono catalogati insieme a dvd e cd e resi disponibili per la consultazione. Questo esperimento, come tanti altri (si pensi alle librerie da spiaggia o alle “little free library”, cioè le casette di legno per scambiarsi i libri dislocate in vari punti delle strade), è dedicato a chi ama leggere libri e condividere ciò che apprende e, con creatività, trova forme sempre diverse per aprirsi agli altri.

«Non un semplice luogo di prestito libri, ma un punto di incontro e socializzazione dove l’individualismo non è gradito». È questa la filosofia alla base della biblioteca condominiale “Al cortile”, ubicata in zona Trastevere a Roma: uno spazio

lazio

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20 cittànuova n.1 | gennaio 2016

politica lavoro economia PACEM

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21cittànuova n.1 | gennaio 2016

Dopo gli attentati di Parigi, l’Occidente è sempre più vulnerabile. La guerra un’opzione possibile, nonostante i bombardamenti accompagnino la recente storia europea sin dal conflitto nell’ex Yugoslavia del 1999.Tuttora, i vertici italiani non si spiegano la mancata opposizione all’allora presidente francese Sarkozy, sostenitore del conflitto in Libia del 2011 che, alla resa dei conti, ha moltiplicato i problemi. Ripeteremo l’errore?Come è stato notato su cittanuova.it, l’attuale presidente Hollande, dopo la strage, ha fatto leva sul patriottismo e la “libertà” minacciata, omettendo le fondamenta repubblicane della fraternità e dell’uguaglianza. Manca, in questa analisi, la percezione delle gigantesche periferie (banlieu) ghettizzanti dove cresce “l’odio” narrato dal film del 1995 di Kassovitz. La “fraternità antagonista” del “noi contro loro” ha bisogno di un

nemico facile da identificare così da liberarsi dall’angoscia. Putin, con i suoi bombardamenti a tappeto, esercita un grande fascino su tanta politica nostrana, nonostante gli esperti di strategia parlino di inefficacia del potere aereo nei conflitti asimmetrici.Dopo anni di polemiche sulle radici cristiane, tuttavia, il Vecchio continente ha mostrato i suoi frutti maturi come l’accoglienza in Germania dei profughi in fuga dal caos siriano o come l’esempio dei pescatori siciliani disobbedienti verso leggi che gli impedivano di salvare vite abbandonate in mare. Dove passa la nostra difesa? La fraternità è retorica? O è la chiave che spiega questo passaggio di secolo? Avviamo un percorso di riflessione intervistando Roberto Mancini, professore di Filosofia teoretica nell’Università di Macerata.

Davanti a un nemico nascosto e imprevedibile, come si spiega la reazione dell’Occidente, laico

e tecnocratico, che si affida ai bombardamenti?La reazione attuale dell’Occidente denota una mancanza di autocoscienza critica e di memoria. Da una parte non si vogliono vedere i legami tra le scelte economiche e politiche fatte in questi anni e il proliferare di formazioni armate che realizzano atti di terrorismo e di guerra. Molti Paesi occidentali, infatti, hanno continuato a vendere armi, a comprare petrolio, a vendere centrali nucleari o a Paesi contigui con i gruppi terroristici o talvolta, assurdamente, a questi stessi gruppi. Non contenti di ciò, gli stessi Paesi occidentali non di rado coltivano in casa propria la rabbia e il sentimento di rivalsa di molte persone e comunità straniere, spesso appartenenti al mondo arabo e di fede musulmana, relegando queste persone e comunità in zone e in condizioni di vita mortificanti e umilianti. Dall’altra parte, Europa e

La paura del terrorismo interroga l’Italia su un intervento armato. Le sfide aperte nel colloquio con Roberto Mancini, dell’università di Macerata

fraternità politica e guerra dopo parigi

a cura di Giustino Di Domenico

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22 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Occidente fanno torto a sé stessi, perché di fatto ripudiano i propri migliori progressi: il grado di democrazia rispettosa dei diritti e nonviolenta raggiunto nelle Costituzioni, la cultura della solidarietà e dell’ospitalità, la memoria del legame interumano riconosciuto nella dignità della fraternità e della sororità. Queste gravi contraddizioni naturalmente non giustificano la violenza fanatica che ha

colpito la Francia, ma spiegano la scarsa credibilità dei governi occidentali e la loro incapacità di affrontare le contraddizioni del mondo contemporaneo. La coscienza europea, in particolare, prima ha piegato il Vangelo alla propria mentalità e si è detta “cristiana” a modo suo, poi ha progressivamente rimosso il Vangelo stesso, nei suoi significati universalmente umani, sposando la logica del

mercato assoluto, della potenza egemonica e della presunzione.

Alcuni avanzano l’esempio dell’opposizione al nazifascismo per giustificare una “guerra giusta” che, anche oggi, prima o poi, dovremo combattere…Bisogna aver coscienza delle contraddizioni citate, imparando a riconoscere che iniquità e violenza sono come un contagio e il contagio non si spezza

politica lavoro economia

L’esplosione «Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende a espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate».(Francesco, Evangelii Gaudium, 59)

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Combattente del Daesh.

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23cittànuova n.1 | gennaio 2016

restando sullo stesso piano della minaccia che si vuole sconfiggere. Al male non si risponde con un “contromale”, ma con il bene. Questa è una delle indicazioni salienti della logica della misericordia, che se opportunamente tradotta può ispirare un modo fecondo di affrontare i conflitti e l’odio non solo tra i singoli, ma anche tra i popoli. Davanti a tali ricostruzioni si può rispondere che chi davvero ha fatto la resistenza contro il nazi-fascismo ha dato la vita perché la società del futuro fosse democratica e pacifica. Restare nella spirale della guerra e alimentarla significa tradire il dono che essi ci fecero allora.

Dobbiamo, comunque, rispondere a una minaccia reale... L’altra politica che ci serve è quella della ricostruzione delle condizioni della giustizia dentro le nazioni e nei rapporti internazionali. “Giustizia” significa rinunciare ai progetti di egemonia, dare a tutti la

possibilità di vivere con dignità, evitare lo sfruttamento degli altri e allestire i canali e le istituzioni adatte per esercitare la corresponsabilità dei popoli per la storia comune dell’umanità. Finché saremo attaccati a identità particolari ed egoiste, la guerra sarà la regola del mondo. Ciò implica un grande impegno educativo nel dialogo e nella conoscenza tra diversi, nonché un grande impegno a risanare l’economia, facendola diventare un’organizzazione di servizio all’umanità e di equilibrio con la natura. Nell’immediato, nei confronti del Daesh serve un’operazione di polizia internazionale sotto la responsabilità dell’Onu, istituzione che dev’essere democratizzata e valorizzata. Ma anche questo intervento, senza le altre azioni, non servirebbe.

«In questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi» (Francesco)

Forze speciali rumene.

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24 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Un investimento sul futuro Anche se in maniera generica, abbiamo mai sentito parlare di “banche armate”? Le parole di papa Francesco sui “mercanti di morte” esercitano un forte richiamo verso una grande questione rimossa. Cresce il numero di persone e di associazioni che decidono di spostare i propri conti presso banche non coinvolte con il commercio delle armi. Andiamo al nocciolo della questione intervistando Giorgio Beretta, referente della Campagna di pressione «verso i gruppi bancari che offrono servizi alle esportazioni italiane di sistemi

militari e di armi» e analista dell’Osservatorio Permanente sulle armi leggere e le politiche di difesa e sicurezza di Brescia.

Come è nata la vostra campagna di mobilitazione?È stata lanciata nel 2000 in occasione del grande Giubileo della Chiesa cattolica, dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia interpellando le banche commerciali per indurle a emanare direttive restrittive, rigorose e trasparenti sulle operazioni in appoggio alle esportazioni di armi e, più in generale, riguardo alle attività di finanziamento all’industria

militare, cioè verso un’attività legale e autorizzata ma non per questo meno problematica sul piano etico e della responsabilità sociale d’impresa. L’obiettivo è stato sufficientemente raggiunto relativamente ai principali gruppi bancari italiani, anche se registriamo una progressiva erosione di informazioni governative e la costante “disattenzione” del Parlamento.

Quali ostacoli avete incontrato?Una certa reticenza al confronto giunge non da tutti ma da molti gruppi bancari, anche se il vero ostruzionismo arriva da diversi settori del mondo industriale e politico. In base alla legge 185/90, il governo è, infatti, obbligato ogni anno a rendere pubblica una “Relazione sulle operazioni di esportazione, importazione e transito di materiali di armamento”, ma negli ultimi anni difetta la precisone tanto che oggi

Banche armateGuerre, finanza e un Parlamento “distratto”. Intervista a Giorgio Beretta, analista Opal

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AUTORIZZAZIONI PER ESPORTAZIONI ITALIANE DI ARMAMENTI

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non è più possibile sapere con chiarezza quali e quante armi vengono esportate dall’Italia e con l’appoggio di quali banche.

Cosa è avvenuto? La trasparenza della relazione è stata intaccata su forte pressione dei principali gruppi industriali del settore militare che hanno visto come un ostacolo la progressiva assunzione di direttive rigorose da parte delle banche. Dal 2008, nonostante le richieste delle nostre associazioni, le relazioni governative non sono quasi mai state oggetto di approfondimento e di discussione e solo lo scorso febbraio 2015 le competenti commissioni della Camera sono tornate a esaminare la relazione governativa, ma con una sola seduta che è durata meno di un’ora. Il Parlamento è “distratto” ma si tratta di affari per oltre 3 miliardi di euro solo nell’ultimo anno che riguardano esportazioni verso 70 Paesi, numerosi dei quali si trovano nelle zone di forte tensione.

Come si fa a incidere sui gruppi bancari esteri che sono i maggiori fornitori di servizio alle nostre industrie di armi? Non è facile, perché si tratta di gruppi presso i quali non sono

numerosi i correntisti italiani, mentre lo sono le aziende, soprattutto quelle che operano sull’estero. È necessario svolgere un’azione mirata per ogni banca prendendo in considerazione le loro linee guida nel campo della responsabilità sociale d’impresa e aprire un confronto per stimolarle a implementare direttive anche nel settore degli armamenti e in particolare delle operazioni per le esportazioni di armi.

Le banche cosiddette “non armate” potrebbero, tuttavia, fare accordi con altre che lo sono oppure partecipare a fondi speculativi senza scrupoli. Come si fa a certificare un sistema fluido come quello finanziario?Ci sono altre campagne che hanno preso dettagliatamente in esame le operazioni che riguardano il sostegno delle banche all’industria militare nella produzione di bombe a grappolo e ordigni nucleari immettendo sul mercato azioni od obbligazioni di queste industrie: i dati forniti dai rapporti di tali campagne sono utili per avere informazioni su questo “sistema fluido”. La possibilità di “fare cartello” c’è sempre, in questo come in altri settori, ma non deve far passare

in secondo piano il fatto che le direttive emesse dalle banche “non armate” costituiscono uno strumento di forte rilevanza per far pressione sulle banche anche su attività meno controllabili con informazioni pubbliche.

La pressione sulle banche armate non mette in discussione il nostro sistema industriale?Qui sta il centro del discorso. Non si tratta solo di monitorare e fare pressione sulle banche ma di offrire strumenti per un ampio ripensamento sulle decisioni industriali e soprattutto politiche nella produzione e compravendita di armamenti. La Campagna sostiene le attività di diverse associazioni, tra cui quelle della Rete italiana per il disarmo, a favore della promozione di politiche di diversificazione e di riconversione industriale.

Analisi dettagliate

su www.banchearmate.it

a cura di Carlo Cefaloni

25cittànuova n.1 | gennaio 2016

Chi finanzia la produzione e il commercio di armi?

La Deutsche Bank è una delle più esposte

nell’economia degli armamenti.

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GERMANIA

Università gratis per i rifugiati

La Kiron University offre la possibilità di seguire un percorso accademico gratuito e altamente qualificato a rifugiati e richiedenti asilo. Per accedere ai corsi – due anni online e un terzo presso una delle università partner del progetto – basta infatti dimostrare di godere di un tale status. Sono già oltre 15 mila le persone (soprattutto siriani) che hanno fatto richiesta per garantirsi migliori opportunità di lavoro e integrazione nella nuova realtà europea. Per info: www.kiron.university

famiglia e societàpolitica lavoro economia SOLIDARIETÀa cura di Tomaso Comazzi

CASERTA

Laboratorio di sartoria “New Hope”

Il centro di accoglienza Casa Rut di Caserta accoglie giovani donne immigrate e in difficoltà, aiutandole a superare i maltrattamenti e lo sfruttamento subiti. Vi riesce attraverso percorsi di formazione e di lavoro nella cooperativa sociale “New Hope” (nuova speranza). Si tratta di un laboratorio di sartoria (con bottega annessa) che loro stesse hanno fondato e che utilizza unicamente stoffe, colori e materiali provenienti dai Paesi delle donne che li realizzano.Per info: www.coop-newhope.it

CAMBOGIA

Accesso all’acqua potabile

Dal 2004 l’ong 1001 fontaines pour demain (1001 fontane per domani) installa nei villaggi di Cambogia, India e Madagascar un dispositivo economico e di facile utilizzo, capace di depurare l’acqua. A idearlo è stato Chay Lo, giovane ingegnere cambogiano che ha vissuto sulla sua pelle la mancanza di accesso all’acqua potabile. Da ragazzo era infatti andato in fin di vita proprio per aver bevuto a lungo acqua stagnante. Per la sua idea innovativa e per la sua storia commovente, l’ong di Chay Lo ha vinto nello scorso mese di ottobre il “Google Impact Challenge France 2015”.

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Cambiamo il governo delle imprese e delle bancheLuigino Bruni è professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma ed editorialista di Avvenire. È tra i riscopritori della tradizione italiana dell’Economia civile e coordinatore del progetto Economia di Comunione. Insieme a Stefano Zamagni, è promotore e cofondatore della Scuola di Economia Civile.

L’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana. Dietro l’atto più semplice che svolgiamo nelle nostre città – accendere la luce della stanza, acquistare un gelato – c’è la cooperazione implicita di migliaia, a volte milioni di persone che lavorano per noi senza saperlo né volerlo. Per mesi ho visto venditori offrire per strada lunghi utensili ai turisti, un giorno ho capito che erano prolunghe per scattare “selfie”. Il mercato soddisfa i nostri bisogni il secondo dopo che li avvertiamo – a volte un secondo prima.Questo lato solare dell’economia di mercato è visibile a tutti. Ma ci sono anche lati oscuri o neri. Basti pensare al business delle armi nelle tante guerre, alimentate e indotte dagli interessi economici dei governi e delle industrie occidentali. Non dobbiamo dimenticarlo, mentre continuiamo a piangere per Parigi, Beirut, Siria, per i bambini degli altri uccisi da armi prodotte accanto alle nostre case, nel nostro silenzio.Il mercato non riesce a correggere i suoi effetti collaterali peggiori. Sa ormai correggere i suoi piccoli danni, non quelli grandi. Se non avessimo gli Stati, le istituzioni e la società civile a costringere le imprese a ridurre le emissioni nocive per l’ambiente, a riconoscere diritti ai lavoratori, a non nascondere difetti (quasi) invisibili dei loro prodotti, le imprese implementerebbero soltanto quelle pratiche immediatamente traducibili in maggiori profitti perché facilmente riconoscibili dai clienti, e utili alla loro reputazione. Nel mercato ci sono evidentemente alcuni imprenditori e manager che attribuiscono un valore intrinseco alla correttezza e all’etica; ma in una economia globalizzata dove i proprietari delle imprese sono sempre più fondi di investimento e grandi banche, è sempre più difficile cercare e trovare un volto umano e

una coscienza dietro le scelte e le decisioni.Ecco perché le moderne democrazie hanno sempre assegnato e assegnano alle istituzioni il compito di controllare e regolamentare l’agire delle imprese. Il mercato vero non è mai stato solo mercato, ma un intreccio di molti attori, di controllori e di controllati. Questa divisione dei compiti su cui abbiamo costruito le democrazie nei due secoli passati, oggi però è in profonda crisi. Non possiamo più accettare che le imprese agiscano rispondendo solo a proprietari e ai consumatori e che la legge le regoli e controlli. Le imprese e ancor più le istituzioni finanziarie sono diventate troppo grandi, ricche, globali e potenti per pensare di poterle controllarle dal di fuori e alla fine. C’è bisogno di un radicale cambiamento interno: le istituzioni devono usare la forza che ancora hanno per chiedere alle grandi imprese e banche globali di cambiare il loro governo. Non devono più essere gestite da consigli di amministrazione scelti soltanto dai loro proprietari. Sono diventate troppo importanti per la vita di tutti, e i lavoratori, la società civile, rappresentanti indipendenti degli interessi dei più poveri devono essere inseriti nei loro CDA e poter contare nelle scelte ordinarie di governo. In tutte le grandi imprese e banche ci deve essere un “comitato etico” indipendente con poteri effettivi. L’economia è diventata troppo importante per lasciarla solo a economisti, finanzieri, azionisti. Nemmeno i consumatori col loro “voto del portafoglio” sono sufficienti: ci sono troppe persone condizionate dalle scelte delle imprese che non “votano” perché poveri o troppo lontani. E perché ci sono industrie (armi o azzardo) dove chi protesta non può votare perché non compra. L’economia di mercato e la democrazia non si salveranno senza una vera democrazia economica.

oltre il mercato LUIGINO BRUNI

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prove tecniche di guerraIl Burundi vive da mesi un conflitto interno con morti e attentati quotidiani. Si contesta l’illecita elezione del presidente. L’Onu interviene con circospezione

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28 cittànuova n.1 | gennaio 2016

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29cittànuova n.1 | gennaio 2016

aveva perquisito la Maison, in assenza dei suoi operatori, e rinvenuto dei fucili, a conferma che la Barankitse, dopo il tentativo di colpo di Stato del generale Godefroid Niyombare, era passata tra gli oppositori al presidente Pierre Nkurunziza. In realtà la donna aveva denunciato l’utilizzo di bambini come scudi umani e l’ingaggio di tanti giovani adolescenti in bande armate dette Imbonerakure, sostenute illegalmente dal governo. Nkurunziza, tra i leader del Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces pour la défense de la démocratie (Cndd-Fdd) che avevano aderito al processo di pace nel 2003, ha deciso di candidarsi alla presidenza per la terza volta consecutiva, ignorando il dettato costituzionale e il trattato di Arudha sull’alternanza al potere delle due etnie e il limite dei due mandati. La giustificazione è che le prime elezioni non furono a suffragio universale e che Nkurunziza venne eletto dal Parlamento e non dal popolo. A luglio comunque le elezioni gli hanno riconsegnato una vittoria non esente da brogli e contestata dagli oppositori, sia hutu che tutsi, con cortei e scontri. Il premier continua da mesi ad arrestare chi abbia manifestato contro di lui o si suppone lo abbia fatto. Perché in questo “non Stato di diritto” si viene prelevati da casa, da scuola, da un bar e si viene sbattuti in prigione per un interrogatorio. In pochi sopravvivono e chi ne esce cadavere non ha mai un certificato sulle cause del decesso, mentre l’aspetto denuncia chiare torture. Intanto Obama ha firmato delle sanzioni che bloccano beni e conti bancari di vari esponenti del governo; l’Ue ha minacciato di limitare gli aiuti al Paese e l’Onu continua a inviare timidi mediatori. La gente intimorita, fugge. «Abbiamo un problema politico ma agli occhi del mondo il nostro continua a essere un conflitto etnico – spiega una giovane farmacista burundese, che preferisce

Maison Shalom è uno dei luoghi della riconciliazione dopo il conflitto che nel 1993 insanguinò il Burundi, contrapponendo le etnie hutu e tutsi, prodromo del genocidio ruandese l’anno seguente. Questa struttura ha ospitato orfani, malati di Aids, donne, e alle cure mediche ha affiancato progetti di riscatto offrendo ben 300 posti di lavoro. L’ha ideata una donna, una professoressa di liceo, Marguerite Barankitse, che l’8 novembre scorso si è vista recapitare un foglio firmato dal procuratore generale della Repubblica con cui si sospendevano conti e attività dell’associazione. L’esercito

di Maddalena Maltese

In Burundi, negli ultimi 6 mesi

sono avvenuti ameno 240

omicidi. Alcuni sono attribuiti

all’Fnl, uno dei gruppi armati

dell’opposizione

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mantenere l’anonimato –. L’esercito ha messo in atto un nuovo censimento e spesso sono i militari ad attribuirti un’etnia. Un mio amico ha risposto di appartenere all’etnia di Dio e di essere prima di tutto burundese: è stato schiaffeggiato pesantemente e senza ragione. A mio parere è il governo stesso che manipola i problemi interni e li sposta su una lotta tribale». Sorprende tanti la deriva dittatoriale del presidente, che nel suo primo mandato aveva incoraggiato gli investimenti in infrastrutture, scuole, servizi sanitari. Perché allora proprio lui, che aveva combattuto per l’avvicendamento, ora è così ancorato alla poltrona? «Ha fatto affari importanti o imbrogli e teme di essere scoperto», sussurra quasi sottovoce uno studente, ma non è il solo a pensarlo così. Anche padre Gabriele Ferrari, già superiore dei Saveriani e per anni missionario in Burundi,

ha denunciato senza mezze misure il rischio di una nuova guerra civile. L’anonimato nelle altre interviste resta d’obbligo: tutti temono ritorsioni. Intanto la Cina è diventata il principale partener commerciale del Paese tanto che, atterrando a Bujumbura, ci si imbatte in una Chinatown locale. Pechino ha aperto ospedali e introdotto il suo sistema di cure, ha pagato molte delle arterie di collegamento del Paese e sostiene il nuovo corso del presidente. La Chiesa e le ong contano le loro vittime: in tanti ricordano l’assassinio delle 3 suore saveriane attorno a cui si era inscenato il depistaggio del furto. Come si esce da questa spirale di violenza? «Il dialogo. Tutti imploriamo il dialogo», è quasi una supplica della nostra amica burundese.

pagine internazionali

Radio e tv private che

offrivano notizie non allineate

alla linea governativa sono

state chiuse e incendiate,

mentre i giornalisti sono

scappati o continuano

clandestinamente sul web

la loro attività.

AFRICA

www.cittanuova.it

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Russia e Turchia, una crisi pericolosaPasquale Ferrara, diplomatico e

saggista, docente di diplomazia

e relazioni internazionali alla

Libera Università Internazionale

degli Studi Sociali Guido Carli

(Luiss) e all’Istituto Universitario

Sophia (Ius).

L’abbattimento di un caccia russo da parte

dell’aviazione turca è ben più di un incidente

in uno spazio aereo di confine, divenuto

molto, troppo frequentato e pericoloso

con l’inizio delle operazioni militari russe

contro il Daesh e chissà quali altri “obiettivi”

di antagonisti del regime di Assad. Dietro

l’episodio, che ha già reso incandescenti

(o gelide) le relazioni tra Mosca e Ankara,

si celano diversi livelli di criticità. In primo

luogo, si rende palese che identificare un

nemico comune – il sedicente Stato islamico

– non implica lo stare automaticamente

dalla stessa parte. La Russia sostiene Assad,

e lo considera parte della soluzione della

tragedia siriana, più che parte del problema.

Al contrario, la Turchia ne vorrebbe l’uscita

di scena, ma senza che ciò favorisca però

l’avanzata del totalitarismo pseudo-islamista

o rafforzi il ruolo dei curdi nella zona di

frontiera, alimentandone le prospettive

secessioniste anche all’interno del territorio

turco (e iracheno).

In secondo luogo, l’appartenenza della

Turchia alla Nato rende molto rischiosa

un’eventuale escalation nei rapporti tra

Ankara e Mosca, per le implicazioni che

essa avrebbe non solo per la sicurezza in

quella regione, ma anche per lo scontro

politico-diplomatico, già in atto a motivo

della Crimea e dell’Ucraina, tra l’Alleanza

Atlantica e il Cremlino. È dai tempi della crisi

dei missili a Cuba, in piena guerra fredda

(1962) che la Turchia (dal cui territorio

furono ritirati i missili americani poco dopo

lo smantellamento di quelli sovietici a Cuba)

non acquisiva un peso così strategico nei

rapporti tra Mosca e Washington. Dopo la

dissoluzione dell’Unione Sovietica, inoltre,

benché Turchia e Russia non abbiano

più un confine comune – per l’acquisita

indipendenza di Georgia, Armenia e

Azerbaijan –, le frizioni nell’area del Caspio

e del Caucaso sono rimaste intatte e in

qualche circostanza si sono acuite (come

nel caso della presa di posizione russa

sulla delicata questione del “genocidio”

armeno). Infine, entrambi i Paesi si sentono

minacciati da movimenti separatisti, con

la recrudescenza della questione curda

in Turchia e, per la Russia, a motivo delle

crisi ancora in atto in Cecenia, Daghestan e

Inguscezia. Circostanza non da poco è che

al potere vi siano due “uomini forti” come

Putin ed Erdogan, che giocano entrambi la

carta della sicurezza interna ed esterna, che

si materializza in un’agenda internazionale

molto assertiva e spregiudicata.

Quello che è certo è che in quella area del

mondo non è mai consigliabile giocare

col fuoco. I venti di guerra che vi soffiano

richiederebbero assai più responsabilità

e meno avventurismo, più istituzioni

internazionali e meno azioni unilaterali.

scenari mondiali PASQUALE FERRARA

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32 cittànuova n.1 | gennaio 2016

partite le proteste contro l’invasione boliviana del 1931 e contro la dittatura ultratrentennale di Alfredo Stroessner: ora è da abbattere il sistema corruttivo che aggredisce gli organismi statali, quelli economici e produttivi. Gli studenti chiedono la riforma dello statuto concepito in era dittatoriale per garantire maggiore autonomia all’università sia nell’insegnamento che nell’assunzione del corpo docenti. I giovani stanno dimostrando notevole serietà nell’organizzazione della protesta. Hanno organizzato turni alle porte degli edifici per impedire vandalismi, e controlli a borse e auto per evitare l’ingresso di alcol e sostanze stupefacenti, oltre a commissioni per garantire i servizi principali. Con l’aiuto di professori onesti e colleghi degli ultimi anni hanno strutturato un calendario didattico che non faccia perdere il semestre e garantisca esami trasparenti.

note e ha ottenuto la simpatia di oltre 500 mila libanesi che denunciano l’immobilismo politico e si attivano per riappropriarsi del territorio e dei beni pubblici. “Offre joie” invece riunisce chi si occupa di protezione ambientale e per scongiurare possibili epidemie ha lanciato campagne periodiche per differenziare e smistare la spazzatura in modo da facilitarne il riciclo.

Dalla fine dello scorso settembre migliaia di studenti continuano a scendere in piazza per chiedere di migliorare il livello di istruzione del Paese latinoamericano, giudicato tra i peggiori al mondo. Ma è soprattutto l’imperante sistema di corruzione nell’Università Nazionale di Asunción, la principale dello Stato, ad aver acceso le proteste. Si sono scoperti funzionari che lavoravano 26 ore al giorno e docenti titolari di 15 o 16 cattedre. «Prendono lo stipendio in 4 e lavora uno solo – spiega uno dei leader sui social media – e se questo è quello che vediamo, cosa sarà quello che non vediamo?». Intanto sono finiti in carcere l’ex rettore Froilán Peralta e vari collaboratori, mentre chi è rimasto cerca di fare pulizia e cancellare le tracce di favoritismi e corruzione prima di dimettersi. Tutto il Paraguay è dalla parte degli studenti perché proprio dalle loro mobilitazioni sono

Dal 17 luglio scorso la discarica di Naameh, a 20 km a sud di Beirut, è stata chiusa e nessuna azienda, da allora, ha partecipato all’appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in una zona che conta più di due milioni di abitanti. Fino a quella data la ditta appaltatrice, la Sukleen, raccoglieva fino a 2500-2800 tonnellate di spazzatura indifferenziata al giorno, anche se pare ne dichiarasse 4000, con un costo fra i più elevati del mondo. I cumuli di rifiuti agli angoli delle strade intanto si sono trasformati in roghi tossici. Il governo ha cercato di correre ai ripari con una scarna campagna di sensibilizzazione e un piano di apertura di nuove discariche dislocate in più punti del Paese e fortemente contestate dalla popolazione. L’emergenza spazzatura ha dato vita al coordinamento di diverse associazioni. “Vous Puez” in francese, ma la traduzione dall’arabo suona: “La vostra puzza è venuta fuori”, è una della più

Le numerose manifestazioni

studentesche in Paraguay

chiedono di migliorare il livello

di istruzione del Paese, per

cui si spende il 3,8% del Pil. In

Italia la spesa è del 4,6%.

PARAGUAY

No a università e Stato corrotti.di SILVANO MALINI

LIBANO

L’emergenza rifiuti mobilita i cittadini. di BRUNO CANTAMESSA

pagine internazionali FLASH DAL MONDO

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33cittànuova n.1 | gennaio 2016

e si prepara cibo da asporto anche per gli uomini. «Tra le storie – ha proseguito Suraya – ricordo quella di una donna fuggita dal marito che abusava di lei. Ha seguito i nostri corsi diventando una bravissima cuoca. Ora guadagna 300 dollari al mese, ha comprato una casa ed è indipendente; così anche i suoi figli, ai quali era stato raccontato che la madre era fuggita a causa delle colpe di cui si era macchiata, l’hanno ricontattata e hanno ricucito il rapporto con lei». Un altro fattore è il “recupero dell’identità sociale”: «Divenute indipendenti, queste donne possono reintegrarsi, avere una cerchia di amici, provvedere alle necessità dei figli». Oltre al ristorante, The voice of women ha aperto un panificio-pasticceria che porta ogni giorno prodotti freschi nelle scuole – cosa non facile a trovarsi in Afghanistan – e un laboratorio di sartoria che unisce tradizione e modernità, dando lavoro ad altre 40 donne. Certo, la strada non è facile: Suraya ha ricevuto svariate minacce e il figlio da ormai due mesi non va a scuola per il timore di ritorsioni. Ma lei non si scoraggia: «Se diamo dignità e speranza alle donne, la diamo alle famiglie. Se la diamo alle famiglie, la diamo alle comunità. Se la diamo alle comunità, la diamo all’Afghanistan. E se la diamo all’Afghanistan, la diamo al resto del mondo, perché ciò che accade lì ha ripercussioni a livello globale».

eticamente e con creatività persone di diverse nazioni e professionalità, ambiente e profitto. Una quota dei guadagni sulle vendite viene usata dagli universitari per viaggi d’istruzione in Centro e Sud America proprio per ampliare il numero di agricoltori da coinvolgere nel progetto, che ha dato vita a una start up, premiata tra le migliori 20 idee imprenditoriali nate in un ateneo americano.

Il nome di Suraya Pakzad ai più dirà poco; eppure è stata nominata “donna coraggio” dal Dipartimento di Stato Usa nel 2008; nel 2009 ha ricevuto il premio Malali dal governo afghano e oggi è considerata, dalla rivista Time, tra le 100 donne più influenti al mondo. Suraya, durante il periodo in cui al potere c’erano i talebani, ha fondato l’associazione The voice of women, con lo scopo di dare protezione alle donne – spesso ancora bambine – in fuga da matrimoni combinati, violenza domestica, o cacciate dalle proprie famiglie perché col loro comportamento ne avevano “macchiato l’onore”. L’associazione dà ospitalità a circa 200 donne in 5 case protette – quella di Herat da sola ne accoglie un centinaio ed è la più grande del Paese. «Al di là dell’alloggio e del sostegno legale e psicologico, la cosa di cui queste donne più hanno bisogno è di stare in piedi da sole – ha affermato l’attivista –. Per questo provvediamo non solo a corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, perché in Afghanistan l’85% delle donne è analfabeta; ma soprattutto cerchiamo di far sì che abbiano un lavoro, elaborando veri e propri progetti imprenditoriali». Il più importante è il ristorante per sole donne aperto a Herat nel 2006: uno spazio sicuro sia per lavorare che per mangiare e socializzare, dove si può richiedere un servizio di catering

L’incubatore d’impresa sostenibile dell’università di Slippery Rock in Pennsylvania ha ingaggiato gli studenti del corso di gestione imprenditoriale nel promuovere la commercializzazione di caffè equosolidale coltivato nella Golden Valley in Costa Rica, dove le aziende vengono selezionate per la loro attenzione a un’agricoltura sostenibile. Rockroast non è più solo il marchio della bevanda nera, ma è diventato sinonimo di una comunità che lega

AFGHANISTAN

Il ristorante delle donne libere.di CHIARA ANDREOLA

STATI UNITI

Studenti da business sostenibile.di JOHN MULLINS, Living City

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Prendere le armi vuol dire affermare la nostra debolezza, la nostra impotenza diplomatica e politica

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35cittànuova n.1 | gennaio 2016

Da clandestino a capo della Chiesa greco-cattolica ucraina. L’arcivescovo maggiore di Kiev, racconta di sé, della sua Chiesa, del suo Paese in guerra

importante per il nostro piccolo gregge l’Eucarestia, la preghiera, la forza spirituale per resistere alla pressione dell’ideologia atea del comunismo sovietico. La mia vocazione è maturata poi duran-te il servizio militare nell’esercito sovietico. Praticando la mia fede in quelle circostanze avverse, ho visto come i giovani avevano biso-gno di una speranza: parlare con loro di Dio era una gioia, alcuni chiedevano il battesimo. Tornato dal servizio militare, trovai un se-minario legale dove completare gli studi che avevo intrapreso nel se-minario clandestino.

Lo incontro presso il Collegio ucrai-no, situato a Roma lungo la passeg-giata del Gianicolo. Sua Beatitudine Svjatoslav Ševcuk è l’arcivescovo maggiore di Kiev, a capo della Chie-sa greco-cattolica ucraina. La nostra intervista avviene nei giorni in cui il Sinodo della famiglia sta volgendo al termine. Benché molto giovane, come s’intuisce dal suo racconto, è già al suo terzo Sinodo, il primo dei quali è stato quello del 2012 sull’e-vangelizzazione, con Benedetto XVI, da cui è stato nominato mem-bro del consiglio ordinario dell’orga-no consultivo della Chiesa cattolica. Per questo l’assise dei vescovi sulla famiglia – col Sinodo straordinario lo scorso anno e quello ordinario quest’anno – lo ha visto tra quelli che lo hanno preparato. L’intervista parte dalla sua storia personale, per poi toccare la dimensione ecclesiale ed entrare nel travaglio di un Paese che ancora oggi è in guerra.

Come è nata la sua vocazione?Ho sentito la chiamata al sacerdo-zio nel contesto della Chiesa clan-destina, perché in Unione Sovieti-ca la religione cattolica era vietata e perseguitata. A casa nostra, di notte, venivano dei sacerdoti a ce-lebrare la messa: a porte e finestre chiuse celebravano, confessavano, amministravano matrimoni, batte-simi e, prima che sorgesse il sole, andavano via. Finché ho visto ne-gli occhi della mia famiglia e dei miei vicini una domanda esisten-ziale profonda: questi sacerdoti, piuttosto anziani, da chi saranno sostituiti? Chi si prenderà cura di noi? Quei sacerdoti erano stati più volte incarcerati per aver svolto il loro servizio sacerdotale, erano capaci di andare controcorrente e questa autenticità ci attraeva. Così ho deciso: dovevamo fare in modo che questo servizio continuasse, perché avevamo visto come era

60%ortodossi

7%greco-cattolici

3,6%protestanti

1,2%cattolici

28,2%altri

intervista a cura di Aurora Nicosia

Fedeli in Ucraina

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SVJATOSLAV ŠEVČUKintervista a...

re un bel gruppo di seminaristi che saranno presto ordinati sacerdoti.

Si aspettava di diventare capo della sua Chiesa?No, questa è stata la terza sorpresa della mia vita, dopo quella di ce-lebrare pubblicamente e di uscire dal mio Paese. Quando il fatto è ac-caduto, nel 2011, avevo 40 anni ed ero il vescovo più giovane di tutto il Sinodo. Non so spiegarmi perché i miei confratelli abbiano fatto que-sta scelta e cerco con tutto quello che posso, conosco e capisco, di essere un buon servitore della mia Chiesa. Udire vescovi molto più anziani di me che mi chiamano “padre” è qualcosa che mi tocca nel cuore. Capisco l’immagine usa-ta da papa Francesco della Chiesa come una piramide capovolta: l’u-nico potere è quello del servizio, l’unica forza quella della croce.

Quali sono le sfide che le Chiese in Ucraina si trovano ad affrontare?L’Ucraina vive in un contesto di guerra: siamo vittime di un’ag-gressione diretta del Paese vici-no iniziata con l’annessione della Crimea, proseguita poi con l’azio-ne militare nella parte orientale del Paese. In questo momento il 10% del territorio ucraino è occu-pato; nel giro di 2 anni abbiamo raggiunto un milione e mezzo di sfollati, quasi un milione di rifu-giati in Russia, Polonia ed Europa occidentale. In queste circostan-ze, però, è avvenuta una grande conversione della società ucraina. Durante gli avvenimenti cono-sciuti come la “rivoluzione della dignità”, centinaia di migliaia di persone hanno ripreso a pregare insieme nella piazza principale della città, la Majdan. I sociologi sostengono che la società ucraina abbia aperto le porte alle Chiese e adesso noi cattolici, ortodossi e protestanti, dobbiamo uscire per

Come è continuata la sua vicenda?I miei formatori mi hanno man-dato come studente di teologia in Argentina negli anni ’90-’92 e nel ’94 sono stato ordinato sacerdote in Ucraina. Successivamente mi è stato chiesto di venire a studiare a Roma per poi essere formatore dei numerosi seminaristi - ne avevamo 350 - e così è stato. Ho conseguito il dottorato in teologia alla Pontificia università San Tommaso d’Aquino e nel ’99 sono rientrato in Ucrai-na: ero il primo dottore in teologia della nostra Chiesa. Da quell’anno sono stato formatore nel più antico e grande nostro seminario, a Leo-poli, fino a diventarne rettore. Nel 2009 il Sinodo della nostra Chie-sa mi ha eletto come vescovo per i greco-cattolici in Ucraina. Mai però avrei pensato che sarei tor-

nato in Argentina, anche perché avevo in cuore le necessità della mia Chiesa. Insegnare e forma-re era, secondo me, lo scopo della mia vita. Ma a un certo momento mi è stato chiesto di lasciare tutto, anche la mia carriera di teologo, per diventare pastore di un picco-lo gregge in Argentina. È stato un cambio brusco, ma sono partito. Sono stati anni preziosi perché ho potuto servire la nostra comunità in diaspora: circa 150 mila ucraini greco-cattolici sparsi in un terri-torio 6 volte più grande di quello ucraino, dove potevo contare solo su 15 sacerdoti. Dovevo viaggiare tantissimo, percorrere talvolta mi-gliaia di chilometri per celebrare una liturgia solo per 10 persone. Lì ho imparato che i numeri non con-tano, contano le persone. In quei pochi anni sono riuscito a raduna-

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na, perciò in questi ultimi anni abbiamo formato 135 parrocchie e centri pastorali per gli immigra-ti in Italia, abbiamo 87 sacerdoti che sono sotto la giurisdizione dei vari vescovi diocesani. C’è pure un vescovo ucraino come visitatore apostolico in Italia e Spagna, che visita, assiste e organizza la vita ecclesiastica della nostra gente. Siamo perciò molto grati ai pastori e alla società di questa accoglien-za. Ma mi preme ricordare un altro fattore molto importante: al termi-ne di una messa in Santa Marta con le nostre comunità il papa ha ringraziato le donne ucraine per la testimonianza di fede che portano nelle famiglie italiane. Tanti anzia-ni sono passati alla casa del Padre riconciliati con Dio, dopo aver ri-cevuto i sacramenti proprio grazie alla presenza di una badante ucrai-na. Non poche donne ucraine han-no aiutato gli italiani a riscoprire i valori della famiglia, ricostruendo le relazioni familiari e per questo il papa le ha ringraziate.

incontrare questa gente che aspet-ta l’annuncio della buona novella. Le Chiese che sono state capaci di testimoniare in modo autenti-co il Vangelo, di servire i bisognosi senza chiedere a quale religione o confessione appartengano, ora sono credibili. Di fatto viviamo un ecumenismo “pratico”: siamo tut-ti uniti nell’assistere i bisognosi e questo, insieme al fatto che l’80% delle famiglie è attivo nel volonta-riato, ci ha permesso di far fronte alla grande crisi umanitaria del nostro Paese. Ma se questo con-flitto non finirà, la crisi umanitaria raggiungerà tutti. Perciò abbiamo bisogno della solidarietà interna-zionale: fino a quando potranno resistere le nostre famiglie?

Come si pone politicamente la Chiesa greco-cattolica in Ucraina? Papa Francesco ha parlato di una «guerra tra fratelli». Cosa ne pensano, oggi, i greco-cattolici?La chiesa greco-cattolica ucraina non si schiera mai con nessun po-tere e non appoggia nessun partito politico. Noi abbiamo detto chiara-mente che siamo col nostro popolo: la rivoluzione della dignità non era una guerra fra partiti, era una rivo-luzione della società civile contro la corruzione. Se centinaia di persone nel centro della città venivano uc-cise, la Chiesa non poteva tacere: questa era la posizione non solo no-stra, ma di tutte le Chiese e comu-nità religiose. Certamente appog-giamo l’esistenza di un Paese libero e indipendente perché crediamo che questo sia conforme alla dot-trina sociale della Chiesa cattolica; ma l’esistenza dell’Ucraina indi-pendente non è “contro” qualcuno. Le parole di papa Francesco sulla guerra tra fratelli vanno ben inter-pretate: spesso la propaganda russa presenta la guerra in Ucraina come una guerra civile, negando la pre-senza delle forze armate di Mosca

sul territorio ucraino. Se noi leggia-mo la frase sulla guerra tra fratelli nel senso di una guerra civile, non è vera. Se invece la interpretiamo come una guerra fra due Stati, che dovrebbero essere fratelli perché i loro abitanti sono tutti cristiani, allora questa frase è interpretata in modo giusto. In tutto questo perio-do, personalmente e insieme alla nostra Chiesa, mi sono fatto por-tavoce della riconciliazione: sono convinto che non esista una solu-zione militare per nessun conflitto al mondo. Prendere le armi vuol dire affermare la nostra debolezza e incapacità di rispettare l’altro nel-la sua diversità e dignità, vuol dire confessare la nostra impotenza di-plomatica e politica.

Che ruolo può avere la vostra Chiesa in questa fase della storia del Paese?Da una dittatura comunista stiamo correndo verso la trasformazione in un Paese democratico e perciò la Chiesa ha un ruolo molto impor-tante perché è il momento di inse-gnare alla società cosa voglia dire la vera democrazia, la libertà e la responsabilità, come si debba or-ganizzare la vita pubblica, come si debba strutturare la società civile, quale sia la responsabilità civile e politica di ogni cittadino. La Chie-sa greco-cattolica ucraina ha una lunga storia in questo ruolo: noi non siamo mai stati una religione di Stato, né una ideologia del pote-re; siamo sempre stati una Chiesa povera e siamo riusciti a soprav-vivere perché abbiamo parlato al cuore del nostro popolo.

Come vede la presenza di tanti ucraini in Italia e cosa può fare per loro la Chiesa nel nostro Paese?Anzitutto ringrazio gli italiani per-ché la nostra gente si sente ben accolta. Per le nostre comunità è molto importante la fede cristia-

Di fatto viviamo un ecumenismo "pratico": siamo tutti uniti nell’assistere i bisognosi

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In cerca del miglior antidoto ai momenti

negativi della vita. Anche in epoca di terrorismo

Ciò che si teme va affrontato. Anche se non si riesce la prima volta, occorre provare ancora, finché la nostra vita non ne sarà più dominata. In queste settimane viviamo con l’incubo del terrorismo. Che fare? Prudenza è una cosa, paura è

un’altra. La paura non diminuisce nascondendosi in un buco. Dobbiamo invece comunicare la nostra paura, ascoltare quella degli altri, scambiarci pensieri ed emozioni. L’obiettivo è cambiare piano piano la percezione che abbiamo dell’ambiente

esterno come di quello interno. Ricordiamo che l’unica persona che ha pieno potere sulle proprie paure siamo noi stessi.Sostanzialmente uomini e donne hanno due paure istintive, di base: quella più profonda nell’inconscio dell’uomo è

PSICOLOGIAfamiglia e società

le paure di lei e le paure di lui

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l’angoscia di castrazione, mentre per la donna è l’angoscia di rimanere sola.L’angoscia di castrazione va intesa non tanto in chiave sessuale – come incapacità di relazionarsi con l’altro sesso nel senso di impotenza psichica che impedisce la realizzazione fisica della virilità –, quanto soprattutto in chiave esistenziale, cioè come fallimento, insuccesso nella carriera, crisi economica e finanziaria da disoccupazione, crisi da separazione familiare, e nello specifico come inadeguatezza nell’essere guida per la propria donna (“guidare” non significa comandare, bensì proteggere) e per gli altri.L’angoscia di rimanere sola della donna va invece intesa non tanto in chiave di coppia e matrimoniale (come nubilato, nido vuoto), ma soprattutto in chiave esistenziale, come fallimento nell’accudire i figli, i parenti più vicini, e in genere il proprio ambiente familiare a cominciare dalla casa. Ma anche come fallimento conseguente all’avere poche qualità relazionali con scarse amicizie femminili, e soprattutto di non essere in grado di seguire il proprio uomo (“seguire” non significa sottomettersi, ma essere complici) e gli altri.Nel cervello maschile l’ormone antistress più abbondante è il testosterone, l’ormone della soluzione dei problemi, mentre nel cervello femminile è l’ossitocina, l’ormone delle relazioni interpersonali.Alla fine, però, tutti cercano la stessa cosa: accettare e amare sé stessi, e condividere questo amore con altre persone. Accettare le proprie paure istintive condividendole con gli altri, infatti, è l’unico modo per imparare a superare le altre

paure che inesorabilmente arriveranno nella vita.Non basta accettare le paure, bisogna condividerle. Ben poco di ciò che è positivo è solitario. Quando è stata l’ultima volta che avete riso a crepapelle, avete provato una gioia indescrivibile, avete avvertito un significato e un obiettivo profondi? Sicuramente mentre eravate in compagnia di altre persone. Gli altri sono il miglior antidoto ai momenti negativi della vita, anche i più tragici.

Questa storiella lo dimostra: «Una volta un re si rivolse ai giovani del suo regno supplicandoli di salvare sua figlia intrappolata in un vascello che stava affondando davanti al porto. Tutti gli abitanti della città si riunirono all’estremità della banchina, la maggior parte di loro paralizzata dalla paura. Le acque intorno al vascello che colava a picco erano infestate dagli squali. Nessuno si muoveva e il silenzio riempiva l’aria. Tuffarsi in acqua era morte certa, ma tutti amavano il re. Quando questi offrì metà del suo regno a chiunque avesse salvato sua figlia, un forte tonfo ruppe il silenzio e si vide un giovane nuotare furiosamente verso il vascello. Il giovane si arrampicò, afferrò la principessa e tornò indietro a nuoto trasportandola a spalla. Il re, sopraffatto dalla gratitudine per quell’atto di eroismo, chiese al giovane cosa desiderava. Il nuotatore rispose: “Maestà, non desidero le vostre ricchezze, aiutatemi soltanto a trovare il bastardo che mi ha spinto in acqua!”».

La storiella insegna che quando non abbiamo scelta dimentichiamo ciò di cui abbiamo paura e riusciamo a

compiere grandi imprese. Gandhi ripeteva spesso che «l’assenza di paura è il primo requisito della spiritualità. I codardi non possono essere morali».Non a caso uno dei criteri di salute mentale è proprio il cosiddetto “auto-oblio”, cioè la capacità di dimenticare sé stessi, prima di tutto le proprie paure. Un modo ottimale per dimenticare è interessarsi agli altri. Infatti gli uomini superano con più facilità la paura di fallire aiutando paradossalmente gli altri ad avere successo; mentre le donne superano meglio la paura di essere sole preoccupandosi che gli altri abbiano compagnia.

di Pasquale Ionata

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Accettare le proprie paure condividendole con gli altri, è l’unico modo per superarle

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li vede solo come persone che gli stanno tra i piedi. Cosa che però si rimangia quando cresce, diventa genitore e capisce l’importanza dei parenti. A volte sento alcuni miei amici lamentarsi della propria famiglia: capisco che può capitare di litigarci, ma non bisogna fare l’errore di rompere il rapporto una volta per tutte. La nostra casa non è una prigione, ma un riparo, il posto dove si può stare tranquilli e felici. Penso che i tuoi familiari possano darti ciò che nessun altro può darti. Non bisogna vedere questo grande dono, la famiglia, con un’ottica sbagliata. Dobbiamo anzi, approfittarne, e viverla al massimo.

saggia, che un giorno davanti a una nipote che si era dipinta i capelli di verde se ne uscì con una risata dicendo che era il colore dei suoi occhi. Io ero scandalizzata, ma quella reazione me la ricordo ancora. Diceva: «Non sono queste le cose importanti, a questa età si vuole stupire. I rimbrotti è meglio tenerli per cose più serie». Cara nonna Sandra quante frasi mi sono restate stampate e mi hanno aiutata a fare la mamma.La famiglia è importantissima, ma deve essere capace di accompagnare alla autonomia.Sono utili gruppi e associazioni come gli scout o il volontariato che fanno da cuscinetto tra famiglia e realtà esterna, vere palestre di vita. Sarà compito dei genitori avvicinare i figli a questi gruppi, magari aiutati dai nonni.Un’ultima osservazione: spesso i nonni iniziano con i nipoti il discorso religioso, come ricordava papa Francesco. È una grande responsabilità, la più grande eredità che possiamo lasciare, la bussola essenziale della vita.

«Siamo una famiglia». Questa frase si usa spesso, e significa una grande unità in un gruppo di persone. Essere famiglia è una cosa bellissima, perché è proprio lì che si può trovare il sostegno quando ce n’è bisogno. La famiglia è la propria casa, la cosa più sicura che abbiamo al mondo e quella a cui teniamo di più. Noi ragazzi, però, non ci rendiamo subito conto della sua importanza. Anzi, si può dire che la rilevanza che gli diamo cambia a seconda dell’età. Un post interessante su facebook faceva notare come cambia l’atteggiamento del figlio nei confronti del genitore: quando è piccolo, vede i genitori come degli eroi. Invece nell’adolescenza

Noi nonni spesso siamo la scusa o i promotori delle riunioni di famiglia. Ricordo che i miei figli erano sempre contenti quando ci si ritrovava con nonni, zii, cugini. Anche i nipotini godono di questa famiglia allargata. La famiglia è il luogo dove si cresce grazie all’affetto di mamma e papà, sono le radici, quelle che ci permettono di affrontare il mondo fuori. Tanto più si riceve affetto, attenzione, rispetto, tanto più si saprà essere positivi nelle relazioni con l’esterno.Quante volte si trova qualcuno che non sa aprirsi, non sa dare affetto perché non lo ha ricevuto da piccolo! La famiglia quindi è il nido che fa spiccare il balzo nel mondo.Ecco, il fine è spiccare il balzo… a volte per i genitori è difficile questo distacco. Si vorrebbe evitare ai figli e nipoti sofferenze, brutte esperienze, si vorrebbe guidarli nelle scelte giuste.Ma allora si rischia di rinchiuderli in una gabbia dorata. Soprattutto quando i ragazzi giungono all’adolescenza sentono la spinta ad uscire, a scoprire il mondo. I nonni, essendo un po’ defilati, possono intuire queste esigenze. Ricordo mia suocera, nonna

Il rapporto che si stabilisce

fra nonni e nipoti non è

paragonabile a nessun altro

legame affettivo perché è

in grado di stabilire profonde

relazioni di reciprocità

e complementarietà.

In questa rubrica una nonna

e un nipote (non della stessa

famiglia!) si confronteranno

su uno stesso tema. Ognuno

dal suo punto di vista. Per

imparare gli uni dagli altri.

Nonni e nipoti

Ma cos’è la famiglia?MARINA GUIla nonna

MARCO D’ERCOLE il nipote“

famiglia e societàf i li i à DOMANDE & RISPOSTE

40 cittànuova n.1 | gennaio 2016

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41cittànuova n.1 | gennaio 2016

Il sacerdote

DON TONINO GANDOLFO

Le proprietà della Chiesa

Tutte le proprietà (escluse solo quelle pubbliche) dovrebbero pagare l’Imu! Se la Provvidenza ha dato alla gerarchia cattolica tanti beni, darà anche i mezzi per pagare quel che spetta a Cesare. E.M.

Immagino che per proprietà “pubbliche” intenda “statali”. A me pare un po’ riduttivo questo significato. Perché non farvi

rientrare le strutture che sono a servizio del bene comune, senza prospettiva di lucro? Parlo a partire dall’esperienza personale di parroco. La chiesa parrocchiale può essere considerata un bene “particolare”, e così l’oratorio e il campo sportivo parrocchiale? La casa parrocchiale per buona parte è costituita da uffici di accoglienza, aule catechistiche, sale da gioco, centri Caritas, che nulla producono se non il “servizio” alle persone. Nella parrocchia in cui mi trovo attualmente si paga regolarmente l’Imu

sul cinema, proprio perché, pur rientrando nelle finalità “pastorali” della parrocchia, svolge anche un’attività di tipo commerciale. Quanto alle scuole cattoliche, credo che l’esenzione non possa essere considerata un privilegio: svolgono un’opera di sussidiarietà rivolta a tutte le componenti della comunità civile. Si può discutere sull’opportunità della scuola privata, ma è un altro discorso: non si tratta di creare contrapposizioni con la scuola pubblica, ma semmai cercare una

sorta di simbiosi.In ogni caso la Chiesa deve essere “serva” e “povera”; è una questione di credibilità.

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Integrare la diversità

FEDERICO DE ROSA

Il ghetto dei normali

Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. papa Francesco

Il testo riportato sopra non è una domanda ma la parte finale di un discorso di papa Francesco, pronunciato durante la sua visita a Firenze. Mi sembra il manifesto dei nuovi valori su cui stiamo riflettendo in questa

rubrica e tratteggia una immagine di Chiesa e di società verso cui tutti, penso, dovremmo tendere.La prossima volta che vi ritrovate in un gruppo di persone, a scuola, al lavoro, tra amici, in associazioni o movimenti, concedetevi un attimo per guardare le persone attorno a voi. Se siete tutti bianchi, sani e di buona razza, chiedetevi: perché qui non ci sono gli abbandonati, i dimenticati, gli imperfetti di cui parla il papa? Non sarà che li stiamo escludendo, rinchiudendoci così inconsapevolmente nell’orrido ghetto degli auto proclamatisi normali? Quanti

emarginati avrebbero qualcosa di importante da dire in quel contesto ma sono così abituati a nascondersi da una vita di emarginazione che non hanno più la capacità di proporsi? Non sarebbe meglio piantare lì ciò che si sta facendo ed andarli a cercare per integrarli nel gruppo e poi ricominciare anche con il loro apporto?Recentemente ho girato l’Italia per alcuni convegni sull’autismo e nei contesti di vita pratica, in treno, al ristorante, vedo solo persone normali. Siamo una società così radicata nell’esclusione dei diversi che chi partecipa a questa esclusione neanche se ne accorge e chi è escluso neanche immagina che

possa esistere per lui una speranza di integrazione. Noi esistenzialmente rotti e voi sani, semplicemente viviamo in mondi che non si incontrano.Se non prendiamo coscienza di vivere in una società dell’apartheid come quella che esisteva in Sudafrica, mai inizieremo a costruire la luminosa società della piena integrazione di ogni diversità. Solo dopo potremo sperimentare quanto gli ultimi siano la ricchezza ed il motore propulsore di umanità all’interno di ogni civiltà; sperimentare e non credere ideologicamente che è veramente poca cosa ed anche molto triste.

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famiglia e società

In questi giorni un centinaio di “appassionati” ha concluso la prima scuola per tutor del progetto Up2Me (cfr “Citta Nuova” n. 19-20/2015). Per la quasi totalità erano coppie, provenienti da 4 continenti: professionisti dell’educazione, psicologi, insegnanti, genitori, animatori giovanili. Li ha messi insieme il desiderio e l’urgenza di mostrare a quanti più ragazzi possibile la bellezza della vita, della corporeità, del rapporto uomo/donna, di relazioni autentiche fondate sulla reciprocità che nasce dal conoscersi e conoscere l’altro.Cosa si insegna su questi temi ai nostri adolescenti, soprattutto attraverso i media? Qualcosa che si ferma alla biologia, terreno ricco di una meravigliosa realtà di valori che il più delle volte rimangono nascosti. Dentro ciascuno di loro c’è un mondo di emozioni, scoperte, interrogativi, che aspetta di potersi confrontare con adulti credibili, felici. Adulti che sbagliano, come tutti, ma che hanno visione e valori. Ci siamo resi conto della complessità di questa scommessa, più volte commentando:

«Ci tremano i polsi a pensare a quanto ci aspetta…».Più forte però è il desiderio di rispondere a un’attesa: è viva l’immagine di una 17enne, qualche mese fa al termine di una sessione sperimentale del nostro corso, che sbotta con gli occhi lucidi: «Perché non le troviamo in Internet queste cose? Nessuno ce le dice».Certo, non abbiamo pretese di risolvere tutto. Ma fare il possibile sì. Contribuire, insieme ad altri che da tempo ci stanno provando, a lasciar fiorire dal cuore dei ragazzi delle nostre città la voglia di fare scelte consapevoli, camminando per un pezzetto accanto a loro. Crediamo che le risposte siano già dentro i loro cuori: Up2Me vorrebbe essere uno strumento per farle emergere e risplendere. La bellezza brilla negli occhi dei nostri figli, quando trovano e riconoscono la verità che dà senso e gioia al periodo delle scelte, dei sogni, delle domande.

pianeta famiglia BARBARA E PAOLO ROVEA

Lasciar fiorire la Bellezza

Vita in famiglia

MARIA E RAIMONDO SCOTTO

Omofobi o conformisti?

L’altra sera siamo andati a cena con dei vecchi amici. È stata una serata molto distensiva fin quando abbiamo iniziato a parlare di adozioni per coppie omosessuali. Poiché avevamo un pensiero diverso, ci hanno chiamato omofobi. Siamo rimasti molto sorpresi dal loro atteggiamento…Maria e Gino - Basilicata

Scrive Marina Terragni (Io Donna 31.10.2015) che

oggi alcune cose non si possono dire, altrimenti si viene chiamati omofobi e fa alcuni esempi. Uno degli esempi ci sembra molto importante per rispondere alla vostra domanda: «Non si può dire che la differenza sessuale esiste, e che essere padre o madre sono mestieri diversi».Purtroppo oggi le ideologie dominanti spingono tutti ad avere la stessa opinione su certi argomenti, minando alla base la libertà di pensiero. Come continuare a dialogare nonostante opinioni diverse? Innanzitutto non scoraggiarsi, perseverando con impegno e creatività,

perché le relazioni sono un tesoro da custodire. Inoltre è molto importante saper ascoltare sul serio, specie quando l’altro esprime un pensiero diverso dal nostro; ascoltando senza pregiudizi, spesso riusciamo a cogliere qualche perla nascosta da condividere e valorizzare. Certamente l’omofobia è un atteggiamento da

combattere, ma alcuni, obbedendo alla moda, la intravedono dovunque, anche quando non c’è. Con i vostri amici sfruttate ogni occasione per far comprendere loro l’importanza della diversità di opinioni, altrimenti, conclude la Terragni, «soffocato dal conformismo, il mondo muore».

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DOMANDE & RISPOSTE

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43cittànuova n.1 | gennaio 2015 43cittànuova n.1 | gennaio 2015

AZIONI NEL PAESEcantiere italia

cultura delle relazioni /un impegno comune

impegno, nate da una consultazione tra vari soggetti della società civile ed ecclesiale che vorrebbero convogliare in progetti continuativi e incisivi il vivere per la pace e l’unità. Fra i “lavori in corso”: momenti di testimonianze e invocazione alla pace insieme ad altri movimenti ecclesiali e con fratelli musulmani ed ebrei; appuntamenti di carattere locale e un evento centrale nazionale a Roma, il 13 dicembre, con personalità e leader islamici e cristiani. Ma anche la messa in atto di una proposta per le scuole in collaborazione con alcuni parlamentari ai quali chiediamo di farsi portavoce presso il ministero della Pubblica istruzione della necessità di promuovere percorsi di educazione alla pace, al dialogo e all’accoglienze nelle scuole. Senza dimenticare l’impegno quotidiano con chi ci sta accanto…Rosalba Poli e Andrea Goller

In questo periodo in cui spirano venti di guerra, innumerevoli sono state, in tutta Italia, le iniziative a sostegno della pace alle quali abbiamo partecipato o che abbiamo promosso come Movimento dei Focolari. Ci sentiamo interpellati in prima persona: ciò sta facendo emergere proposte di

La pace ci interpella

in questo numero

Torino, Ventimiglia, Roma, Benevento, Loppiano

Iniziative avviate sul territorio italiano in campo sociale, politico, economico ed ecclesiale.

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44 cittànuova n.1 | gennaio 201644 cittànuova n.1 | gennaio 2016

INTERCULTURAcantiere italia

Multietnici e contenti

fatto promotore di un’intervista tra i compagni dalla quale emerge che i ragazzi sono in linea di massima contenti di vivere in un contesto multietnico senza vederlo come un problema. Si sentono arricchiti dal confronto tra culture diverse, dicono che li lega maggiormente. Sono pochi quelli che hanno affermato di preferire il rifugio nel proprio gruppetto di “uguali” sentendosi così più protetti. Si assiste sempre meno all’interno della scuola ad episodi di ostentata discriminazione, c’è stata una crescita.Uno degli esempi che citiamo più spesso con i ragazzi è quello della determinazione di Latifa, ragazza

Ore 8, lezione di integrazione! Non è una nuova materia, ma la sfida che bisogna essere pronti ad affrontare quotidianamente entrando all’Istituto superiore Lagrange di Torino. Qui il tasso di studenti stranieri è uno dei più alti della città, data anche la stretta vicinanza con il mercato di Porta Palazzo che è a due passi. Una sfida che, come insegnante di Diritto ed Economia, ho raccolto con trepidazione ma con grande entusiasmo e che mi sta arricchendo enormemente. Conoscersi, capirsi, accettarsi, fare cose insieme: facciamo in modo che non siano solo parole. Un esempio: Nizar, marocchino, si è

LA SFIDA QUOTIDIANA DELL’INTEGRAZIONE IN UN ISTITUTO

SUPERIORE, CON STUDENTI DI TANTE NAZIONALITÀ.

LA PAROLA A UNA DOCENTE.

TORINO

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Casablanca, ma nell’austera Facoltà di Economia di Torino.Particolarmente significativa l’esperienza vissuta con la 5A dello scorso anno: 23 alunni, 11 Paesi di provenienza. Verso la fine dell’anno scolastico ci siamo ritrovati per un ripasso collettivo pre-esame di Stato: mi ha colpito il rispetto per i compagni che osservavano in quei giorni il Ramadan e la dignità di questi ultimi nell’affrontare un digiuno che nella calura di fine giugno non era così facile da sopportare. Un giorno il dibattito si è fatto particolarmente animato. Daniela, una timida biondina di origini moldave, ha tirato fuori energie inattese: «Perché un ragazzo nato sul territorio italiano, che è cresciuto e ha imparato a diventare grande nelle scuole italiane, con compagni italiani e parlando in italiano, si deve ritrovare ogni due anni con problemi di un permesso di soggiorno che chiede tempo e soldi per rinnovarlo? E perché a 16 anni si deve ancora preoccupare del fatto che, se sceglie di non continuare gli studi, dovrà trovare subito un lavoro, e se non lo trova non potrà rimanere in Italia? E dove va? Dove può andare a questo punto?». Hayat, marocchina, ha rincarato la dose: «Già, e quando vai in vacanza nel tuo Paese e ti squadrano dalla testa ai piedi? Non solo non ti senti accolto, ma anzi ti senti rifiutato? Allora com’è? Vivo in Italia e non sono italiana. Torno in Marocco e non mi sento più marocchina. La mia migliore amica? Pe, cinese, con la quale abbiamo gli stessi gusti, con cui studiamo insieme ottenendo ottimi risultati e con cui condividiamo pure lo stesso problema con i nostri papà, che non vogliono lasciarci uscire la sera. Ma chi lo dice che non siamo uguali, se noi ci sentiamo uguali?». Si sarebbe potuto chiudere il discorso passando oltre, ma la lettura di un articolo sulle prospettive di modifica della legge sulla cittadinanza è stata l’occasione per offrire ai ragazzi l’opportunità di sentirsi coinvolti in prima persona: quanto appena discusso si è trasformato in elaborati

marocchina, che si è trovata anni fa in una classe difficile e spigolosa, composta di ragazzi italiani figli di immigrati dal Sud. Nonostante Latifa non si sentisse capita dai compagni, si è conquistata la loro amicizia a suon di gesti di disponibilità e di apertura. È stata tra le prime a Torino ad avvalersi della possibilità offerta anche a stranieri di effettuare il servizio civile. Era poi anche andata per uno stage estivo presso l’Agenzia delle entrate, meritandosi addirittura i complimenti del direttore in persona per il servizio reso nell’affiancare allo sportello gli utenti di lingua araba e per come era entrata in relazione con il personale. La stima del direttore era stata tale da volerla convincere a rimanere oltre il tempo previsto, salvo poi a rammaricarsi di non poterla assumere perché cittadina non italiana.I rapporti con lei sono continuati anche dopo l’esame di Stato dove ha presentato, a dire il vero un po’ snobbata dalla commissione, una tesina sulla finanza islamica. Anche il successivo percorso universitario non è stato meno accidentato, soprattutto per i tanti problemi burocratici incontrati, ma che non le hanno impedito di conseguire la laurea magistrale con una tesi sempre in finanza islamica a pieni voti, non a

A scuola, nella quotidianità,

l’integrazione non è poi

così difficile da realizzare,

malgrado le inevitabili

difficoltà. Crescendo, poi,

si ottengono risultati

importanti. Anche questo è un

modo di costruire una società

a misura d’uomo.

di Beatrice Cerrino

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personali da inviare come contributo a un seminario interparlamentare che si sarebbe svolto a Montecitorio.Proprio nei giorni scorsi, con una decina di questi ragazzi abbiamo partecipato a un convegno su “Cittadinanza e Ius soli” in cui hanno potuto esprimere con soddisfazione a parlamentari e amministratori locali presenti come per loro, almeno tra le mura scolastiche, l’integrazione sia una realtà: e se lì sì, perché fuori no? Gli attentati dello scorso 13 novembre, poi, ci hanno interpellato. Era difficile iniziare in classe qualsiasi discorso. Sul volto terreo dei tanti alunni di fede islamica si leggeva un solo pensiero: «Adesso diranno di nuovo che è colpa nostra!». Si sentiva la necessità di parlarne. Rabbia, sgomento, sentimenti di vendetta: c’era chi si schierava per la rappresaglia bellica, chi timidamente faceva presente, senza nulla togliere al dolore per i morti di Francia, che in tante parti del mondo centinaia di civili, anche bambini, muoiono quotidianamente senza l’onore della cronaca. Smarrimento. Come mettere in ordine questi pensieri contrastanti? Abbiamo aperto il tablet sulla homepage di Cittanuova e lì ecco un alleato: parole di accusa, sì, ma non urlate, realismo geopolitico e apertura al dialogo, nonostante tutto.

Amine chiedeva desolato: «Ma prof, come lo faccio capire alla signora che si ritrae per strada che non sono un terrorista?». «Falle un sorriso, salutala per bene e diglielo tu». «Ma quella manco mi lascia il tempo di aprire la bocca ed è già scappata». «Vabbè, domani usciamo insieme e glielo dico io». «Lei farebbe questo, prof?». «Subito». Il giorno seguente è tornato d’aiuto l’editoriale di Luigino Bruni su Avvenire, “Il male che anche noi nutriamo. Basta armare la guerra”, che iniziava con passaggi molto rispettosi nei confronti dell’Islam, ai quali i ragazzi annuivano con grande riconoscenza, per poi passare a una lucida condanna del traffico di armi. È diventata la sponda per considerazioni importanti, per un passo più profondo nella reciproca conoscenza. La mattina dopo Asma, ultima arrivata in classe, sempre molto schiva e anche apparentemente poco interessata, mi ha porta una copia del Corano in italiano avendo saputo il mio desiderio di leggerlo.

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cantiere italia

C’è chi è nato in Italia,

è cresciuto qui da noi

e non conosce neanche

il Paese d’origine dei genitori.

Gli stranieri di seconda

generazione sono “cittadini”

italiani, anche se talvolta

senza cittadinanza.

INTERCULTURA

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MIGRANTIcantiere italia

Il nostro cortile, quella sera, è diventato un luogo di comunione. Oltre all’ulivo un cesto raccoglieva numerose candeline accese che predisponevano alla preghiera. Un inquilino ha animato con la sua chitarra alcuni canti. Noi abbiamo letto un pensiero del patriarca Atenagoras: «Bisogna fare la guerra più dura che è la guerra contro noi stessi». Ne è seguita una comunione-preghiera spontanea: quella di una madre che raccomandava a Dio tutti i giovani che sono sotto le armi «perché tutti possano tornare alle loro case»; quella di un uomo maturo che manifestava il desiderio di far diventare il condominio una vera comunità; quella di una giovane signora che apriva il suo cuore attraverso un testo profondo e poetico scritto da lei.Un momento all’insegna della semplicità: con gli inquilini delle nostre due palazzine ci siamo fermati, guardati, salutati con calore, parlati con calma.Ci vuole poco, basta dare spazio a un’idea e condividerla, perché diventi un’iniziativa di pace.Tutti vogliono creare altre occasioni per fermarci insieme: stiamo pensando di festeggiare il 98° compleanno dell’inquilina veterana del nostro palazzo.

L’idea di trovarci insieme nel cortile delle due palazzine del condominio per un momento di preghiera per la pace ci è venuta per il susseguirsi di fatti terroristici. Il passaparola si è rapidamente diffuso fra i diversi inquilini. Si sono messe insieme spontaneamente le proposte: una ragazza ha suggerito di piantare

un ulivo. Alcune famiglie che non avrebbero potuto esserci quella sera, hanno voluto fare un gesto di presenza: una ha comperato una bella pianta di ulivo, un’altra ha acquistato il vaso e la terra e un’altra si è resa disponibile per il trapianto. Anche papa Francesco aveva piantato un albero a Nairobi spiegando che «piantare un ulivo ci provoca a continuare ad avere fiducia, a sperare, e soprattutto a impegnarci concretamente a trasformare tutte le ingiustizie e il degrado che oggi soffriamo».

La pace inizia coi viciniIN UN CONDOMINIO, VICINO SAN PIETRO, BASTA IL PASSAPAROLA

PER RITROVARSI INSIEME: UN’OCCASIONE PER INTENSIFICARE

I RAPPORTI FRA GLI INQUILINI

ROMA

di Rosi Bertolassi

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48 cittànuova n.1 | gennaio 201648 cittànuova n.1 | gennaio 2016

INIZIATIVEcantiere italia

microprogetti /cittadini solidali

territorio /in musica

un buon motivo per continuare a vivere. Da quel momento riceviamo in continuazione una grande scorta di oggetti vari: dalle pentole alle statuine di Capodimonte, da cianfrusaglie a oggetti in argento, lampadari di Murano, caffettiere napoletane, rarissime macchine fotografiche o scatole di Lego. Noi vendiamo di tutto nel nostro mercatino quindicinale, che ormai da alcuni anni è diventato un appuntamento per alcuni di noi, a cui teniamo moltissimo per i frutti che porta soprattutto in fatto di relazioni. E anche qualche migliaio di euro, per tamponare situazioni di emergenza per famiglie in gravi difficoltà economiche. Inoltre stiamo sostenendo due adozioni a distanza.

artistico internazionale del Gen Rosso si è esibito in un concerto acustico pro alluvionati nella Cattedrale di Benevento per donare un po’ di sollievo a chi ha perso la casa, il lavoro e le certezze di un’intera vita. I fondi raccolti durante la serata, completamente gratuita, sono andati alla Caritas Diocesana che da settimane sostiene l’intera provincia colpita dal disastro. “Officine di Fraternità”, che ha preso il via nel novembre 2014, ha l’obiettivo di parlare ai giovani di fraternità, solidarietà e legalità, attraverso la partecipazione a 11 laboratori dislocati tra Caserta, Napoli e la stessa Benevento. Da qui il legame naturale con i beneventani che hanno vissuto giorni drammatici e tuttora stentano a ripartire.

È nato un giorno per caso, anzi da un possibile suicidio. La nostra amica Milena era ammalata del morbo di Parkinson. Un giorno, a Piera che era andata a trovarla, ha raccontato che aveva deciso di uccidersi e lo avrebbe fatto perché non vedeva via d’uscitaai suoi problemi. Era seduta vicino alla stufa e, mentre parlava, buttava dentro il fuoco dei legnetti. «Fammeli vedere – le ha detto Piera –, possono servire per fare la capanna per Gesù!». Con un gruppo di amici è nata l’idea di costruire tante capanne per il presepe, visto che si era sotto Natale, poi venderle e dare il ricavato in beneficenza. Abbiamo venduto tutto nelle nostre prime uscite e abbiamo usato il ricavato per un’adozione a distanza. Ma soprattutto abbiamo dato a Milena

«#NOIXVOI» è stato il titolo della serata solidale organizzata a fine novembre dalla rete di “Officine di Fraternità” con la Pastorale giovanile di Benevento per raccogliere fondi a sostegno delle popolazioni colpite dalla terribile alluvione nel mese di ottobre. Il Gruppo

VENTIMIGLIA

Un mercatino diverso dal solito

BENEVENTO

#NOIxVOI

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AIPECcantiere italia

Nicola Pagliarulo nasce nel 1964 a Roma, da una famiglia franco-italiana; è sposato con Paola e ha 4 figli. Laureato in ingegneria elettronica, lavora nell’ambito dell’informatica, negli scorsi 18 anni in una media impresa italiana nella quale ha ricoperto ruoli di responsabilità. All’inizio del 2015 lascia il suo impiego e crea Share-Ing S.r.l., azienda di servizi informatici. Enrica Bruneri, sposata con Gianni e madre di due ragazze ormai grandi, diplomata come segretario d’amministrazione, lavora nell’azienda di famiglia da circa 22 anni. È sempre stata accanto a suo padre che l’ha fondata, fino a diventarne amministratore. La sua disponibilità? Offrire un aiuto alle categorie più in difficoltà e continuare a diffondere i principi di Aipec anche ad alti livelli (federazioni, industrie…); impegnarsi a dare ai giovani concrete speranze.Mauro Ventura, sposato con Cecilia e padre di 3 bimbi, promotore finanziario dal 2012 dopo 15 anni trascorsi alle dipendenze di due importanti gruppi bancari, socio fondatore di Aipec e dal 2014 referente per il Piemonte, ha deciso di rendersi disponibile in uno spirito di servizio e collaborazione, che aiutino il confronto partendo da idee diverse per arrivare a una strategia comune. Fra le sue proposte, il coordinamento dei territori e la nascita di nuove sedi.Nel futuro di Aipec ci sono anche contatti fuori dal territorio nazionale. Già nell’immediato, in Svizzera e in Germania, si intravede la possibilità di “esportare” l’Associazione.

Un direttivo rinnovato, con il 50% di presenze femminili. L’Aipec, l’Associazione di imprenditori per un’Economia di Comunione, ha tenuto a fine novembre scorso la sua assemblea per il rinnovo delle cariche elettive. Confermati presidente, Livio Bertola, e vice presidente, Ornella Seca, gli altri 4 componenti sono tutte new entry.I loro semplici profili umano-professionali raccontano il mix tra idealità e tecnica che è alla base stessa di chi aderisce all’Aipec.Annalisa Mancini, abruzzese d’origine, ha lavorato per multinazionali nell’Automotive (partendo dal gruppo Fiat) e nei settori di automazione industriale, vivendo in Italia, Inghilterra, Olanda e Germania e viaggiando in molti Paesi. Esperta in decisioni strategiche, attività di riorganizzazione dei processi aziendali e coordinamento di team inter-funzionali e internazionali. Da gennaio anche docente presso un’università tedesca sul Value Chain Management.

Idealisti e professionistiL’AIPEC, ASSOCIAZIONE DEGLI IMPRENDITORI DI ECONOMIA

DI COMUNIONE, GUARDA AVANTI E PROGETTA IL FUTURO,

TRA CONSOLIDAMENTO E INNOVAZIONE, CON IL NUOVO DIRETTIVO

LOPPIANO (FI)

di Vittoria Siciliani

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TEMPO PER GLI ALTRIstorie

Signora maestra perché sparano?

Gli interrogativi dei bambini in una classe

di Roma dopo gli attentati di Parigi. La parola

ai piccoli musulmani e ai piccoli cristiani:

momenti sacri di reciproco ascolto

di Patrizia Bertoncello / illustrazione di Mariannita Zanzucchi

È il lunedì pomeriggio dopo i tragici fatti di Parigi. Entro nella mia quinta elementare ed ho già cancellato mentalmente la mia lezione di scienze. 24 paia di occhi mi fissano interrogativi: «Sapete di cosa parleremo oggi, vero?». Alza la mano Meg, una bimba filippina dolcissima, ed ora visibilmente spaventata. È lei che subito indovina il tema e chiede con apprensione: «Maestra, ma perché quelle persone si sono messe a sparare? Perché c’è la guerra? Chi la vuole?».Mi trovo a raccogliere le paure, le riflessioni, le domande profonde, i pensieri dei miei alunni. I bambini, tutti i bambini, guardano il mondo con grande attenzione. Ma in queste ore davanti agli schermi di tv e tablet hanno dovuto fare i conti con le immagini di un mondo sempre più dilaniato dalla guerra, dalla violenza, dai conflitti. Pongono le loro domande in modo diretto quasi crudo, domande difficili, domande scomode ed esigenti che richiedono risposte chiare e vitali. I miei bambini poi, abitano un quartiere centrale di Roma e i presìdi di sicurezza davanti cui passano per recarsi a scuola, acuiscono la percezione

della tensione che c’è, la rendono palpabile. Interviene Gabriele ad alta voce: «Sono stati musulmani a sparare!». Passano interminabili secondi di silenzio, in cui ho il tempo di accorgermi che gli occhi di Alì – un bambino algerino – si sono riempiti di lacrime. Fermo tutti i loro interventi e comincio a raccontare: mi ritrovo dal cuore sulle labbra parole di pace, parole che nascono non da proclami, ma da esperienze di vita, da rapporti con musulmani con cui ho percorso tratti di cammino, condiviso gioie e dolori, imparato a crescere insieme. Racconto ai miei alunni che Dio, con qualunque nome lo si chiami, è un Dio della pace, che desidera per tutti gli uomini, nessuno escluso, un’esistenza in cui si sperimentino la gioia dell’accoglienza, dell’inclusione, dei rapporti sinceri, del perdono. Chiedo ad Alì di raccontare lui cosa prova dentro, e come la sua famiglia ha vissuto queste ultime ore. È un momento bellissimo, sacro, di ascolto reciproco profondo. Alì ha la stessa paura degli altri e la stessa tenace speranza che abita il cuore di ogni bambino. Lo dice con semplicità e racconta anche della

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sua mamma che porta il chador e che in queste ore per strada attira gli sguardi carichi di apprensione dei passanti. Le sue sono parole solenni, che contengono la sapienza di un popolo antico che ha sofferto, e il giovane candore di chi sa ancora vedere la “vita” nella sua profonda realtà. Come dovremmo saper ascoltare i bambini e imparare con loro a ripensare nuovo il mondo e i rapporti! Chiedo ad Alì di proporre al papà di cercare nel Corano, il suo libro sacro, qualche parola di pace da leggere ai compagni. Il giorno dopo Alì ne porta una copia e poi estrae dalla tasca un foglietto su cui ha trascritto la regola d’oro presente in tutti i testi sacri: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Mi commuovo per la profonda coincidenza con quanto ho in cuore. Poi arriva Elena con una carta da regalo che ci servirà per i lavori manuali. «L’ho scelta senza simboli cristiani – mi dice sottovoce – così non mettiamo in difficoltà Alì quando la usa». Avverto chiaramente che Elena non agisce così per paura, o perché non ritiene importanti i simboli cristiani. Ciò che la muove è l’affetto e il desiderio di accoglienza di un compagno. Anche questo si impara dai bambini: non hanno secondi fini come gli adulti. Quello è un gesto di pace e basta. Spiego che la cosa giusta non è tanto una carta senza simboli, quanto che ognuno porti i suoi simboli e insieme impariamo a conoscerli e ad amarli nel loro significato positivo. Non vogliamo il neutro, vogliamo la varietà, ma insieme, rispettandoci. Più volte nelle ore successive di lezione tornano le loro domande e anche i compagni di Alì fanno

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TEMPO PER GLI ALTRIstorie

ricerche per poter dire a lui i messaggi di fraternità che fanno parte del proprio patrimonio di fede e di cultura. Leggiamo insieme brani di storie di uomini e donne che hanno vissuto per tessere la trama della pace dentro la storia dei propri popoli. Nella nostra aula risuonano straordinariamente attuali le parole di Gandhi, Martin Luther King, Aung San Suu Kyi…«Mae’ – dice più tardi Alessandro nel bel mezzo di un esercizio sulle frazioni –, ma perché c’è lo stesso la guerra, se tutte le religioni e tutti i saggi del mondo dicono che ce deve sta’ la pace?». Beh, a questa domanda è davvero difficile rispondere. Allora ripensiamo insieme a un conflitto sorto nella nostra classe per un torneo di biliardino. Miriana, una bambina rom, interviene con il pragmatismo che la distingue: «Ma allora pure tra noi c’è stata una guerra!». «Come ne siamo usciti?», domando io. Dopo diversi vivaci scambi arriviamo alla conclusione che la pace è

tornata in classe solo quando ciascuno ha smesso di difendere il proprio punto di vista, ha provato ad ascoltare le ragioni dell’altro ed ha offerto perdono per i torti ricevuti, senza più cedere al desiderio di vendetta. «Maè – conclude Alessandro –, ma che ce vole ai grandi per fa’ lo stesso?». Già… che ci vuole? Certo le questioni e le guerre dei grandi sono faccende estremamente complesse e le vie di risoluzione altrettanto ardue da trovare e soprattutto da perseguire. La chiave di accesso alla dimensione vitale della pace la trovano con immediatezza i più piccoli e si chiama semplicemente… perdono!Mi convinco ancora una volta di come sia indispensabile ascoltare i bambini e coltivare con loro i giardini della pace, attraverso l’ascolto, la pazienza, lo stupore per il dono della vita, la capacità di vedere oltre il buio, oltre la notte che oscura le nostre esistenze.

”La chiave di accesso alla dimensione vitale della pace la trovano con immediatezza i più piccoli e si chiama semplicemente perdono.

AN

SA

I bambini devono convivere con il carabiniere fuori dalla scuola.

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Le olive di Peppe

Nella fatica della raccolta

trovare il tempo

per soccorrere il vicino

di Ivo Sansone

Raccolta, stoccaggio, defoliazione, molitura, spremitura a freddo. Passare dalle olive all’olio è un’esperienza indimenticabile. Un fiume verde, denso, profumato con il suo caratteristico retrogusto amarognolo-piccante. Una delizia. Sul pane fresco. Su tutto. È il condimento perfetto della dieta mediterranea. La stagione dura da settembre fino a tutto dicembre e Peppe, sposato con Enza e con 3 figli ormai grandi, di olive se ne intende. Ogni anno ripete un rito antico nelle sue campagne di Santa Maria a Vico, nella provincia di Caserta, adagiata sulla Via Appia, per una economia prevalentemente agricola. La raccolta è un lavoro duro, paziente, meticoloso che prosegue fino al tramonto. «Mentre il sole stava calando – ci racconta Peppe – ed è impossibile lavorare al buio, perché la collina in cui è situato l’uliveto è impervia e non c’è energia elettrica, io e Americo, il mio terzo figlio, abbiamo sentito delle grida: “È caduto, è caduto!”, provenire dal podere confinante.La stanchezza, la schiena dolorante e il buio in arrivo ci suggerivano di ignorare le grida, raccogliere i sacchi delle olive e tornare a casa facendo finta di niente.Quasi subito mi è venuta in mente la regola d’oro: “Fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” e

siamo corsi a vedere cosa fosse successo. Era il vicino di podere che, cadendo da un albero, si era fratturato una gamba. Io e Americo non abbiamo più pensato ai sacchi delle olive e alla stanchezza della giornata. Con una barella di fortuna, attraverso i viottoli di collina, abbiamo raggiunto la strada principale ad attendere l’ambulanza che avevamo chiamato nel frattempo.Tornati all’oliveto ci siamo caricati in spalla, col buio, i sacchi delle olive, con più viaggi li abbiamo caricati in auto e siamo tornati a casa. È stata dura, ma la gioia di aver amato concretamente, ci ha ripagato di tutto».

La nemica di Enza

Un’offesa ricevuta.

La miglior vendetta

è il perdono

di Costantino Daddio

In un terreno poco distante dall’uliveto di Peppe, Enza, sposata con Clemente e mamma di due bambine, è protagonista di un fatto che la addolora. Suo padre è noto nella sua piccola comunità di Santa Maria a Vico come un uomo onesto e integerrimo ma, a causa di una discussione per il riconoscimento della proprietà di un appezzamento di terreno, una parente gli ha dato del “ladro” in pubblico. «Il dolore di mio padre – spiega Enza – a vedere infangato il suo buon nome, è stato enorme e, al vederlo così, anche

noi figli ci siamo rimasti male e i rapporti con questa parente si sono interrotti. Una notte abbiamo sentito provenire, dalla casa di questa cugina, delle grida di “al ladro, al ladro”. Il primo pensiero è stato di godimento al pensiero di sapere che aveva a che fare con dei ladri veri. La tentazione di far finta di non aver sentito il trambusto e godercela è durata pochi istanti: io e mio marito, così com’eravamo, in pigiama, ci siamo lanciati di corsa verso la casa di questa cugina facendo quanto più chiasso possibile. Sentendo il trambusto, anche mio padre e le mie sorelle, in pigiama e pantofole, hanno fatto lo stesso». Spaventati dallo strepitio, i ladri si sono dati a una fuga precipitosa attraverso le campagne senza riuscire a portar via niente. Il tempestivo intervento ha dato i suoi frutti. «La mattina dopo – conclude Enza – alcuni vicini ci hanno rimproverato per aver soccorso chi aveva offeso la dignità di papà, ma io e mio marito ci siamo sentiti felici per aver vissuto: “Ama il tuo nemico”. Adesso anche i rapporti con questa cugina si stanno normalizzando».

Le coperte di Antonia

Un compleanno

originale. Festeggiato

in piazza con tanti amici

di Gabriele Amenta

È un ordinario lunedì di passione. Giornata lunga: l’ultima intervista di lavoro è fissata per le 19. Decido

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TEMPO PER GLI ALTRIstorie

di restare in ufficio piuttosto che farla nell’ambiente decisamente più vivace di casa dove le interferenze sarebbero troppe e incontrollabili. L’intervistato non risponde. Il suo cellulare risulta irraggiungibile. Mi spazientisco ma non demordo. Dieci minuti più tardi suona finalmente libero. Terminata l’intervista, raccolgo i giornali, i libri e la borsa e corro a casa. Sono ormai le 20 e 30. Piove controvento, nonostante la protezione, sono in moto, arrivo parzialmente bagnato e infreddolito. La gola è secca e sa di anidride carbonica respirata a pieni polmoni sul Grande raccordo anulare. La cena non è ancora pronta ma non resisto all’intingolo nel crepitio del sugo che bolle. Mi ricordo che alle 20 e 30 avevo un altro impegno. Un compleanno. Davvero originale. Antonia, ginecologa, nostra amica di gioventù, compie 50 anni. Non vuole feste, né regali. Gli farebbe immenso piacere se ognuno portasse una coperta agli amici di Dino. Centinaia di

persone che vagano attorno la stazione Ostiense di Roma a cui organizza una mensa di strada per 4 cene a settimana. L’invito alla festa di compleanno era circolato via whatsapp ma solo ora ce ne ricordiamo. Mia moglie apre l’armadio e trova una bella coperta di lana che gli aveva regalato sua mamma. Ci serve, ma serve di più anche ad altri. Ci si stringe il cuore a pensare che di colpo le temperature si sono abbassate più di 10 gradi e, mentre noi ci godiamo il tepore del riscaldamento centralizzato appena acceso, c’è chi dorme in strada. Dico ai bambini di non aspettarmi. Di cenare comunque. Sarei stato presto di ritorno. Sono quasi le 21. Procedo veloce sulla strada, temendo che la festa sia finita e arrivi in ritardo. Passo un paio di semafori con l’arancione. Il fine ne vale la multa. Arrivo in tempo. Una leggera brezza mi bagna il viso. Alla stazione Ostiense una scomposta fila di poveri, barboni, anziani, immigrati, uomini e donne

aspettano pazienti l’arrivo di Dino. Che all’improvviso sbuca con la sua station wagon. Tira fuori un pentolone enorme, stile caserma militare, e depone la minestra calda sulla tavola. Prontamente distribuita. Ma oggi è giorno di festa. Antonia aveva chiesto di portare le coperte più belle, simpatiche, ricamate, calde. Un’idea semplice, realizzabile, contagiosa. Dopo i pasti sono state distribuite più di 130 coperte, ognuna con la sua storia, il suo vissuto, il suo aneddoto. E gli occhi luminosi di un ragazzo africano che ringrazia Antonia valgono più di mille regali. Attraverso il piazzale per tornare in macchina e mi assale un moto di gioia autentica provocato da una semplice coperta donata. Penso alle migliaia di immagini negative di cui ogni giorno i media ci inondano e scopro, in mezzo alle notizie di attentati, guerre, terroristi ricercati, che c’è un mondo buono, positivo, che costruisce nel silenzio inascoltato e invisibile ai più. Eppure esiste. Di ritorno a casa, di nuovo una inondazione di notizie negative che ammorbano l’aria. Ma so che non sono le uniche. Mi tornano in mente le note di una canzone: «Conosco una nuova umanità». Nel frattempo il flusso di coperte non si è interrotto. Ne continuano ad arrivare a decine. Bisognerà organizzare un altro compleanno.

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Il vapur, il traghetto che collega Istanbul all’isola di Halki sul mar di Marmara, scivola leggero sul brodo oleoso, denso di meduse bianche che risaltano sul blu cobalto. L’aria fresca, salmastra, penetra dal finestrino e rende

ancor più piacevole il rito del çay, il tè turco, servito nel caratteristico bicchiere sinuoso a forma di tulipano che ne esalta i profumi. Come ci allontaniamo da Istanbul, un’immensa metropoli lunga 132 km e larga 32, con più di

14 milioni di abitanti distribuiti tra la costa europea e asiatica, il cielo vira da plumbeo ad arancione. All’approdo il sole splende con forza. Halki è un’isola straordinaria dove non circolano macchine. I suoi 4

la verità è un incontroIl paradigma dell’ecumenismo di oggi: non tanto e non solo dialogo teologico, ma soprattutto gesti e parole tra fratelli. Il 34° convegno di vescovi di varie Chiese amici dei Focolari

di Aurelio Molé, inviato

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spiritualitài i li à ISTANBUL

Il patriarca ecumenico Bartolomeo I e il cardinale Kurth Koch.

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mila abitanti si spostano a piedi, con le biciclette o con il feyton, il tipico calesse con due cavalli. La strada procede in salita, gli animali arrancano, non si odono suoni se non di cornacchie, di cani che abbaiano e il vociare dei bambini nella scuola. Sulla cima di una collina circondata da un bosco secolare si erge il Monastero della Ss. Trinità, fondato nel IX secolo. Dal 1844 funzionava come seminario per la formazione del clero greco-ortodosso, fino a quando, nel 1971, la Corte costituzionale turca decise di chiudere tutti gli istituti privati di alta formazione per inglobarli nell’offerta universitaria pubblica.

È in questo luogo dell’anima che si svolge il 34° convegno di vescovi di varie Chiese amici dei Focolari. 50 partecipanti provenienti da 16 Chiese diverse sul tema “Insieme per la casa comune”, incentrato sull’unità al servizio della famiglia umana. Un gruppo consolidato, talmente profetico che l’unità risalta più delle divisioni. I

legami, l’amicizia, la fraternità vengono prima delle diversità che permangono in Chiese molto differenti per approcci, tradizioni, pensieri. Opinioni variegate, come quelle sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, non attenuano il rispetto, l’ascolto senza giudizio, il cercare di comprendere l’idea dell’altro. Sono temi scottanti, problemi irrisolti, che fanno presagire un cammino di comune sofferenza, ma senza che venga mai meno la fraternità.Il metropolita Elpidophoros Lambriniadis, abate del monastero della Ss. Trinità, evidenzia come «molti dei nostri padri, patriarchi, papi, teologi, monaci hanno sognato momenti come questi. Volevano dialogare senza intolleranza, pregare insieme, vivere in pace, aiutarsi nelle difficoltà, stabilire un dialogo teologico, per sognare la riunificazione e la piena comunione nei sacramenti». È un microcosmo che condivide le proprie esperienze di oggi, ma è denso di storia, attraversa secoli di guerre, scomuniche, divisioni,

nuovi slanci verso l’unità. Michael Grabow, vescovo luterano di Ausburg, dice che «è stato molto utile conoscere e riflettere sulle differenze e su ciò che ci unisce con le altre Chiese». Sono la condivisione di microstorie, di buone pratiche ecumeniche che possono influenzare il pianeta, imprimere un cambiamento di mentalità, perché, come dice un proverbio africano, «tanta piccola gente attraverso tante piccole cose può cambiare il mondo». Per il cardinal Francis Kriengsak, «la diversità è un dono e un arricchimento reciproco, ma ciò è possibile con un’accoglienza che armonizza i vari carismi».

Jesús Morán, copresidente dei Focolari, ha identificato alcune grandi sfide della post modernità e ha evidenziato le risposte che “la cultura dell’unità” può offrire. «Insegnami il tuo pensare – diceva il vescovo Klaus Hemmerle, pioniere di questi convegni – perché io possa imparare di nuovo il mio annunciare»; solo in questo modo, con un atteggiamento di

spiritualità ISTANBUL

Maria Voce con il gruppo di vescovi di varie Chiese amici dei Focolari a Santa Sofia.

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ascolto e comprensione della cultura del mondo, è possibile compiere una «inescusabile operazione di purificazione dalle “incrostazioni religiose” presenti nelle nostre Chiese. Sono queste che ci dividono, il mondo non ci permette più non solo di essere disuniti ma nemmeno di annunciare il messaggio di Cristo come lo abbiamo fatto finora. Del resto i primi cristiani non hanno annunciato una nuova religione ma una vita piena, la vita buona che avevano trovato in Gesù». Un nuovo paradigma nel cammino ecumenico delineato anche dal cardinal Kurth Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, che ha messo in evidenza come papa

Francesco metta al primo posto non il dialogo teologico, anche se indispensabile, ma l’incontro fraterno nelle parole e nei gesti, nutrito di carità, fratellanza, amicizia, tramite l’incontro diretto di cristiani di diverse Chiese perché «la verità è un incontro, un incontro tra persone. La verità non si fa in laboratorio, si fa nella vita, cercando Gesù per trovarlo».

L’unità non è frutto di uno sforzo comune, «è primariamente un dono di Dio per il quale dobbiamo incessantemente pregare». È un processo avviato e irreversibile e per papa Francesco «l’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino».Per il vescovo della Chiesa apostolica armena di Istanbul, Sahak Mashalyan, «Dio ha permesso la divisione perché concepivamo l’unità in maniera umana: potere, interessi, politica. Ora è il tempo di fare di nuovo l’unità come Dio la intende, e vuole che noi facciamo la nostra parte. L’incontro di questi giorni è una grande speranza per la Chiesa».

La splendida liturgia al Fanar per la festa di sant’Andrea conclude la visita dei vescovi di varie Chiese al patriarca ecumenico Bartolomeo I che nel prendere la parola mette in parallelo Andrea, il fratello di Pietro, il “primo chiamato”, e Chiara Lubich, la “prima chiamata” al carisma dell’unità. «Il Santo Apostolo Andrea non ha avuto dubbi nell’incontrare

il Maestro, e neppure Chiara ha avuto dubbi nell’affidarsi a lui. Così anche noi, consci tutti delle nostre responsabilità, non abbiamo dubbi della via su cui siamo incamminati, nell’incontro tra le nostre Chiese, nell’incontro con le fedi, nell’incontro con l’umanità che soffre, perché solo l’Amore può vincere, e le porte degli Inferi non prevarranno su di esso».

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Una veduta dell’isola di Halki nel mar di Marmara.

«L’unità non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino»

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spiritualità

La partecipazione alle attività della “Conferenza mondiale delle Religioni per la pace” ha dato modo a Chiara Lubich di dare voce a uno dei bisogni e delle aspirazioni più profonde dell’uomo contemporaneo: la pace. Continuamente invocata e tradita, essa resta comunque un indizio sicuro di presenza di Dio nel cuore di ogni essere umano. Chiara sapientemente e realisticamente lega la pace alla fraternità universale e all’unità che Gesù è venuto a portare sulla terra. Per questo essa è al tempo stesso compito e dono.

La pace è come un grande albero

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LA GRANDE ATTRATTIVA

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La pace è come un grande albero che ha le sue radici in cielo e la chioma sulla terra. Senza la preghiera è come senza radici e senza il lavoro dell’uomo è come senza rami e senza frutti.Certo, per chiunque si accinga oggi a spostare le montagne dell’odio e della violenza, il compito è immane e pesante. Ma ciò che è impossibile a milioni di persone isolate e divise, può diventare possibile a un gruppo di gente che ha fatto della comprensione reciproca, del rispetto e della volontà di sacrificarsi per l’altro, il movente essenziale della propria vita.Ha detto Gandhi: «Non vorrei vivere in questo mondo se esso non ha da essere un mondo uno». È quello che ora pensiamo in molti. Ed è per questo che ci sforziamo di lavorare e pregare per l’unità di tutti gli uomini.La pace è il primo frutto dell’unità. Ma non vi può essere pace fra le nazioni se non si comincia a costruire l’unità fra alcune persone di buona volontà.

Dal messaggio ai membri del Consiglio

internazionale della Wcrp, Pechino 1986

Noi tutti crediamo in Qualcuno o qualcosa che ci trascende. Noi tutti crediamo in Dio, o in una verità, che per noi cristiani ha un nome: Padre. È lui il fondamento della fraternità universale. Non si può credere in un padre senza comportarsi da fratelli di tutti gli altri uomini. (...)L’uomo, dice la nostra fede, è stato «creato ad immagine e somiglianza» di Dio. Egli è il tu di Dio: tale l’eccelsa dignità che Dio ha pensato e voluto per questa sua creatura. Essa trova quindi la sua piena realizzazione e perciò la sua pace, nella costante comunione con Dio.Il mio augurio è che [...] ognuno, e più gente possibile, ami il

prossimo come se stesso; che questo amore si traduca in servizio; che questo servizio si concretizzi nel «farsi uno» con gli altri: nel farsi debole con i deboli, ignorante con gli ignoranti, sofferenti con quanti soffrono, nel farsi uno a tutti, perché molti siano trascinati nella stessa corrente d’amore. E Dio Padre, per quest’amore che lega i fratelli, si senta spinto in qualche modo a venire ad abitare fra gli uomini.

Dal messaggio inviato alla IV

Conferenza mondiale delle religioni

per la pace, Nairobi 1984

a cura di Donato Falmi

Chiara Lubich è stata fondatrice e prima presidente del Movimento

dei Focolari, nonché scrittrice prolifica. I suoi testi sono

un suo lascito e, ancora oggi, una fonte d’ispirazione per tanti.

Ogni mese Città Nuova ne propone uno stralcio.

Non si può credere in un padre senza comportarsi da fratelli di tutti gli altri uomini

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NOVITÀ EDITORIALIspiritualità

Nella vita comunitaria è importante dedicarsi gli altri aiutandosi scambievolmente. È il pensiero del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), che emerge da “La vita comunitaria dei cristiani”, edito da Città Nuova, e che va al cuore della sua teologia. L’esperienza che ha fatto della

Chiesa lo ha portato a vederla non tanto come istituzione, quanto come comunità che fa presente Cristo. Ne riportiamo uno stralcio che ci interpella anche oggi, nell’era digitale che riempie la vita di relazioni multiple ma troppo spesso leggere.

Il primo servizio di cui ciascuno è debitore all’altro consiste nell’ascoltare l’altro. Come il nostro amore per Dio comincia con l’ascolto della sua Parola, allo stesso modo l’amore per il fratello comincia imparando ad ascoltarlo. L’amore di Dio per noi si esprime non solo nel dono a noi della sua Parola, ma anche nel suo prestare a noi orecchio. E noi, di pari, compiamo la sua stessa opera verso il fratello quando impariamo ad ascoltarlo. Alcuni cristiani, specie i predicatori, si sentono sempre obbligati a “offrire” qualcosa quando

ascoltare il fratelloL’attualità del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer nel suo pensiero sulla vita comunitaria attraverso la raccolta di testi edita da Città Nuova

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si incontrano con altri, come se questo fosse il loro unico ministero. Dimenticano il fatto che ascoltare potrebbe essere utile almeno quanto parlare. Molte persone cercano semplicemente un orecchio disposto a prestare loro attenzione, e spesso non lo trovano presso i cristiani, perché costoro parlano anche quando

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dovrebbero saper ascoltare. Chi non riesce a dare retta al proprio fratello, finisce per non ascoltare più neppure Dio stesso e per voler sempre lui parlare. La morte della vita spirituale comincia qui e, alla fine, non sopravvive altro che la chiacchiera spirituale, quella sorta di condiscendenza clericale che soffoca ogni cosa con le parole devote. Chi non sa accordare all’altro un’attenzione continuata e paziente, parlerà anche come chi non entra mai nel centro del discorso e, alla fine, non se ne renderà più nemmeno conto. Chi pensa che il proprio tempo sia troppo prezioso per perderlo nell’ascolto degli altri, non avrà di fatto mai tempo per Dio e per il fratello; avrà tempo solo per se stesso, per le proprie parole, per i propri progetti.(…) Il mondo pagano sa bene che spesso, per aiutare qualcuno, è sufficiente ascoltarlo sul serio; sulla base di questa conoscenza, anzi, ha edificato una cura d’anime profana, che attira folle di persone, anche di cristiani. Quegli stessi cristiani che, nel frattempo, dimenticano di aver ricevuto il ministero dell’ascolto da parte di colui che è, per eccellenza l’Uditore alla cui opera devono partecipare. Dobbiamo ascoltare con le orecchie di Dio, per poter parlare con la Parola di Dio.

Il secondo servizio che dobbiamo prestarci a vicenda in seno alla comunità cristiana è il mutuo aiuto concreto. Pensiamo, innanzitutto, al soccorso semplice nelle piccole cose. Ve n’è un gran numero in ogni vita comunitaria. Nessuno deve ritenersi al di sopra di tali compiti. Temere di perdere tempo nel farsene carico significa dare troppa importanza a ciò che si fa. Dobbiamo essere pronti a lasciarci interrompere da

Dio. Lui verrà quotidianamente a infastidire i nostri percorsi e le nostre pianificazioni, inviandoci persone che hanno qualcosa da pretendere o da chiedere. Presi dai nostri importanti obblighi quotidiani, anche noi possiamo “passare oltre”, come il sacerdote di fronte all’uomo caduto preda dei banditi (cf. Lc 10, 31): ciò può accadere persino... mentre siamo immersi in una lettura biblica. Passiamo, così, accanto al segno della croce, che Dio ha innalzato ben in vista sulla nostra strada per indicarci che non è il nostro cammino a contare davvero, ma quello di Dio. (…) Quando le nostre mani non si ritengono troppo preziose per agire, in amore e misericordia, con disponibilità all’altro, nel quotidiano: ecco, allora la bocca può davvero annunciare, con gioia e in modo credibile, la parola dell’amore e della misericordia di Dio.

a cura della Redazione

Chi non riesce a dare retta al proprio fratello, finisce per non ascoltare più neppure Dio stesso

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BIOGRAFIA

Dietrich Bonhoeffer

Nacque nel 1906 a Breslavia

(Polonia). Manifestò fin

da ragazzo la volontà

di diventare pastore

evangelico. Conseguì il

dottorato in teologia a

Tubinga a soli 21 anni, nel

1937. Dopo vari soggiorni

all’estero, tornò in Germania

nel 1931. Lì iniziò la sua

opposizione al nazismo

che lo costrinse a emigrare

a Londra, fino al 1935,

quando decise di tornare

a Berlino. Aderì alla Chiesa

confessante, la comunità

che si era distaccata dalla

Chiesa evangelica ufficiale

(sottomessa al regime). Il

seminario di cui era guida

divenne clandestino, per cui

nel 1939 dovette accettare

un incarico di insegnante

negli Stati Uniti. Allo scoppio

della guerra, decise però

di tornare in patria per

condividere il destino del

suo popolo. Venne arrestato

dalla Gestapo e, quando fu

scoperta la congiura per

l’assassinio di Hitler, a cui

aveva preso parte, venne

impiccato il 9 aprile 1945,

pochi giorni prima della fine

della guerra.

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Impegnarsi nelle relazioni personaliPiero Coda, teologo, è preside dell’Istituto Universitario Sophia a Loppiano (Figline-Incisa Valdarno). Tra le sue tante opere ricordiamo “Dalla Trinità” (Città Nuova).

Tra le dimensioni della crisi che ci travaglia ce n’è una che per lo più ci sfugge. E che però va alla radice. Nel senso che rivela la posta in gioco.Papa Francesco la chiama “crisi dell’impegno comunitario”. Ma cosa significa “impegno comunitario”? Significa dare “in pegno”, e cioè anticipare con l’intenzione e l’affetto il dono di sé nella decisione di vivere e costruire insieme una comunità che sia lievito di trasformazione del mondo nella luce del Vangelo. La crisi diagnosticata da Francesco investe sia il deperimento di quest’im-pegno se si guarda ai modelli e alle forme in cui sin qui lo si è vissuto e pensato, sia il pararsi innanzi ai propositi e alle iniziative di conversione e cambiamento della resistenza e della tentazione a non lasciare ciò che già di fatto sta dietro le nostre spalle per immergersi, disarmati, in ciò che per ora solo riusciamo a intuire. Crisi, dunque, nel duplice senso di dissoluzione d’una figura già data di essere comunità e di parto, difficile e rischioso, d’una figura ancora tutta da decifrare nei suoi nitidi lineamenti.Eppure, la via d’uscita da questa crisi c’è. E come cristiani dovremmo conoscerla bene. È inscritta originariamente nella sequela di Gesù e si produce nel solco della sua risurrezione. Consiste – dice papa Francesco – nel «non fuggire mai da una relazione personale e impegnata con Dio, che al tempo stesso ci

impegna con gli altri». Im-pegno dice infatti relazione personale. E altro in verità non potrebbe dire. Il darsi in pegno, l’esporsi, l’offerta di sé, si dà solo nella relazione inter-personale: «Si tratta di imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste». È questo il crocevia decidente l’esito della crisi. La relazione personale che propizia “l’impegno comunitario” passa per Gesù. Si genera da e in lui nelle relazioni personali. Non è né un semplice punto di partenza, né un definitivo punto d’arrivo. È evento, accade, si dà ogni volta in quell’uscire da sé in cui ci si offre “in pegno” a Dio offrendosi in pegno al prossimo. Ma occorre rovesciare lo sguardo. Non solo per rispondere all’appello ad «uscire da sé stessi» e non assaggiare più – ecco le parole forti del papa – «l’amaro veleno dell’immanenza». Ma per cercare, per scoprire, per stupirsi, per coinvolgersi nel nuovo delle relazioni generate da Gesù: là dove esse realmente germogliano e fioriscono.Ciò può apparire scontato. Ma non lo è. La crisi dell’impegno comunitario chiede – nella semplicità della trasparenza personale con Dio e con ciascuno a tutti aperta – che questa esperienza della risurrezione di Gesù diventi soffio e stile di vita. Perché già lo è: come seme pregno di novità e come attesa dell’avvento del Regno nascosto nel cuore di ogni essere umano.

se posso PIERO CODA

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Chi non ha visto un bambino piangere e gettarsi nelle braccia della mamma? Qualunque cosa sia successa, piccola o grande, la mamma asciuga le sue lacrime, lo copre di tenerezze e poco dopo il bambino torna a sorridere. Gli basta sentire la sua presenza e affetto. Così fa Dio con noi, paragonandosi a una madre.Con queste parole Dio si rivolge al suo popolo rientrato dall’esilio di Babilonia. Dopo aver visto demolire le proprie case e il Tempio, dopo essere stato deportato in terra straniera dove ha assaporato delusione e sconforto, il popolo torna nella propria patria e deve ricominciare dalle rovine lasciate dalla distruzione subita.La tragedia vissuta da Israele è la stessa che si ripete per tanti popoli in guerra, vittime di atti terroristici o di sfruttamento disumano. Case e strade sventrate, luoghi simbolo della loro identità rasi al suolo, depredazione dei beni, luoghi di culto distrutti. Quante persone rapite, milioni sono costretti a fuggire, migliaia trovano la morte nei deserti o sulla via del mare. Sembra un’apocalisse.Questa Parola di vita è un invito a credere nell’azione amorosa di Dio anche là dove non si avverte la sua presenza. È un annuncio di speranza. Egli è accanto a chi subisce persecuzione, ingiustizie, esilio. È con noi, con la nostra famiglia, con il nostro popolo. Egli conosce il nostro personale dolore e quello dell’umanità intera. Si è fatto uno di noi, fino a morire sulla croce. Per questo sa capirci e consolarci. Proprio come una mamma che prende il bambino sulle ginocchia e lo consola.Bisogna aprire gli occhi e il cuore per “vederlo”. Nella misura in cui sperimentiamo la tenerezza del Suo amore, riusciremo a trasmetterla a quanti vivono nel dolore e nella prova, diventeremo strumenti di consolazione. Lo suggerisce anche ai corinti

l’apostolo Paolo: «Consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 4).È anche esperienza intima, concreta di Chiara Lubich: «Signore, dammi tutti i soli... Ho sentito nel mio cuore la passione che invade il tuo per tutto l’abbandono in cui nuota il mondo intero. Amo ogni essere ammalato e solo. Chi consola il loro pianto? Chi compiange la loro morte lenta? E chi stringe al proprio cuore il cuore disperato? Dammi, mio Dio, d’essere nel mondo il sacramento tangibile del tuo amore: d’essere le braccia tue, che stringono a sé e consumano in amore tutta la solitudine del mondo» (Chiara Lubich, “Meditazioni”, Città Nuova, 2008).

Vivremo questa parola - scelta da un gruppo ecumenico in Germania - assieme a tanti fratelli e sorelle di varie Chiese, per lasciarci accompagnare lungo tutto l’anno da questa promessa di Dio.

spiritualità PAROLA DI VITA di FABIO CIARDI

febbraio

«Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66, 13)

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testimoni del VangeloMadre Teresa di Calcutta, albanese, fondatrice della Congregazione delle missionarie della carità, visse la maggior parte della sua esistenza in India prendendosi cura dei più piccoli tra i poveri, fino al giorno della sua morte avvenuta a Calcutta il 5 settembre 1997. Proprio il prossimo 5 settembre è prevista la cerimonia della sua canonizzazione.

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cittànuova n.1 | gennaio 201664

idee e cultura 2016 ANNO DEI CAMMINI STORICIV

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cittànuova n.1 | gennaio 2016 65

Non è una novità. Tra i siti mondiali riconosciuti dall’Unesco come patrimonio morale-culturale (e quindi pure turistico-economico) dell’umanità, non ci sono solo gli scavi greco-romani o aztechi, le abbazie e i castelli medievali o i palazzi del Rinascimento, le chiese barocche o le fontane-monumento tutte statue e zampilli. C’è anche il creato, la Natura con la enne maiuscola, dove Dio (o il big bang, direbbe qualcuno) ce l’ha messa proprio tutta, realizzando capolavori – artistici, a modo loro – da contemplare e godere fino in fondo. Lo abbiamo visto con le nostre Dolomiti, incluse 6 anni fa tra i luoghi che per l’Unesco non vanno solo ammirati e visitati, ma anche protetti e valorizzati. Adesso, come nel 2009, siamo alla vigilia di un’altra attesa sentenza dell’organismo culturale delle Nazioni Unite, che deve decidere se iscrivere la storica (ma ancora vivissima) Via Francigena nel suo albo d’oro, fra i siti mondiali di straordinario, anzi unico

interesse culturale-spirituale per l’umanità. Se da Parigi, sede dell’Unesco, verrà la buona notizia, la Francigena sarà il 50° sito Unesco del nostro Paese. Un record, a conferma che la più alta percentuale di beni storici e artistico-culturali del mondo si trova nel Bel Paese! Ma la Via Francigena non è solo nostra, non interessa esclusivamente gli italiani. Il nome ci parla di Francia, ma la cosa è fuorviante, se vogliamo, perché in realtà bisogna risalire fino in Inghilterra, a Canterbury, da dove il neoarcivescovo Sigerico partì nel 990 verso Roma, per andare a pregare sulle tombe di Pietro e Paolo e ricevere il pallio dalle mani del papa. È chiaro che Sigerico non fu il primo né l’unico romeo del medioevo, tantissimi lo hanno preceduto e seguito; però la sua è la più antica relazione scritta del pellegrinaggio a Roma: dal Sud dell’Inghilterra, attraverso Francia e Svizzera, fino all’Italia e a S. Pietro. Perciò il viaggio di Sigerico, il

suo racconto e l’itinerario da lui coperto da Canterbury a Roma segnano storicamente l’atto di nascita della Via Francigena. Nei secoli ha subìto qualche variante, piccole deviazioni locali e marginali, ma in sostanza è rimasta sempre lei. Quando si parla dei 3 grandi pellegrinaggi medievali – a Santiago di Compostela, a Roma e a Gerusalemme –, chi andava dal Nord Europa alla Sede di Pietro lo faceva seguendo la Via Francigena, che col tempo si è caricata di tracce e di memorie, sacre e anche no, che vanno dalle chiese alle edicole sacre, dalle cappelle rustiche alle mansiones, le antenate delle locande, dove i romei posavano finalmente bisaccia e bordone, sostavano qualche ora e si ristoravano alla buona. Sempre guardandosi dai (non rari) malintenzionati e tagliaborse.La Via Francigena non è quindi solo italiana. È europea doc, rientra tra le espressioni concrete, visibili –in questo caso

Percorso di fede (e non solo) dal Nord Europa fino a Roma e oltre, verso Gerusalemme

il fascino della francigena

di Mario Spinelli

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idee e cultura

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geografico-turistiche, perché il medioevo non è “solo” monasteri e cattedrali –, di quella unità culturale, spirituale e linguistica che è la nota distintiva fondante la grandezza storica della civiltà medievale. Gli italiani sono i primi in fatto di attenzione e simpatia per la Francigena, come testimonia il recente summit tenutosi a Fidenza (città “francigeniana” fra le tante) fra i sindaci e i rappresentanti di province e regioni situate sullo storico percorso. Coinvolti e interessati più di tutti nel rilancio e nella valorizzazione turistico-spirituale e religiosa della Via Francigena. E dalla base, fortunatamente, la sensibilità è salita alle alte sfere. Abbiamo in Parlamento un intergruppo trasversale di “Amici della Via Francigena”, da cui si ha il diritto di aspettarsi non solo parole nobili ma soprattutto iniziative concrete. Come pure dal ministro dei Beni culturali, Franceschini, che in vista della decisione dell’Unesco ha già espresso il suo interesse. Anche l’Europa non è indifferente: nel 2004 a Bruxelles il Consiglio d’Europa ha riconosciuto ufficialmente la Via

Francigena – nell’insieme dei suoi tratti inglese, francese, svizzero e italiano – come un “Grande itinerario europeo di interesse culturale”.Il Giubileo esalta questo discorso. I pellegrini oggi, si sa, arrivano in treno o in aereo. Però pensiamo al pellegrinaggio a Santiago di Compostela, e a quanti non solo credenti ma semplici turisti scelgono di percorrere a piedi, in tutto o in parte, il “Cammino di Santiago”. Perché non potrebbe succedere lo stesso per la Via Francigena? Fino a qualche secolo fa era così, la tomba di Pietro non è da meno del sepolcro di Giacomo! È chiaro che una tradizione, una cultura devota non si improvvisano né si resuscitano da un giorno all’altro, specie in tempi di vacche magre. Però un Giubileo è sempre un grande evento, un’occasione da non perdere. Ottima quindi l’iniziativa della Regione Lazio di stanziare un milione di euro per la valorizzazione dei 4 Cammini di fede individuati intorno alla Capitale. Due di questi – oltre al Cammino di Benedetto, da Norcia a Montecassino, e al Cammino di Francesco, nella Valle Santa reatina – sono

rappresentati proprio dalla Via Francigena. Uno nell’Alto Lazio, da Roma a Proceno e al confine con la Toscana; e uno al Sud, da Roma a Minturno e Cassino, per continuare verso la Campania e il Molise. Eh sì, perché la Via Francigena, pure nel Medioevo, dopo Roma andava verso Gerusalemme. Due pellegrinaggi in uno, e scusate se è poco!

L’itinerario di Sigerico

Inghilterra Canterbury.

Francia Calais, Arras, Reims, Châlons-sur-Marne, Besançon, Pontarlier.

Svizzera Losanna, Gran San Bernardo.

Val d’Aosta Aosta.

Piemonte Ivrea, Santhià, Vercelli.

Lombardia Robbio, Mortara, Tromello, Pavia.

Emilia Romagna Piacenza, Fiorenzuola d’Arda, Fidenza, Fornovo di Taro.

Liguria Luni.

Toscana Pontremoli, Aulla, Camaiore, Lucca, Altopascio, Fucecchio, San Gimignano, Siena, San Quirico d’Orcia.

Lazio Bolsena, Montefiascone, Viterbo, Sutri, Roma.

2016 ANNO DEI CAMMINI STORICI

La Francigena tra Caprarola e Ronciglione, avvicinandosi a Roma.

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Relazione e relazionalità Jesús Morán è copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato in Filosofia, è specializzato in antropologia teologica e teologia morale.

«In principio è la relazione», scriveva nella prima metà del secolo scorso il grande Martin Buber, esponente del pensiero ebraico. Da allora, e grazie agli sviluppi compiuti dalla scuola dialogica, questa categoria è entrata con autorevolezza nella scena filosofica contemporanea, con conseguenze per la vita sociale e l’orizzonte di senso dell’esistenza. Le scienze umane, in particolare, ne hanno fatto un uso proficuo e fecondo. Sempre più tendiamo a pensare che la relazione sia quella dimensione della persona che in qualche modo la definisce. La capacità di relazione è perciò diventata importante in tutti gli ambiti dell’agire umano. Il fallimento di tante nobili imprese, per esempio, può essere fatto risalire a problemi di relazione. Avere una buona relazione risulta, per lo più, un positivo punto di partenza e una garanzia di continuità. La relazione è davvero essenziale.

Eppure, dal mio punto di vista, mi permetterei di modificare la frase del grande filosofo austriaco-israeliano con quest’altra: «In principio è la relazionalità». Con questo intendo dire che la relazione è sempre seconda, perché c’è qualcosa di più radicale: la relazionalità. È la struttura relazionale della persona che permette di entrare in relazione, ma non esige necessariamente un rapporto con l’altro per esserci. La relazionalità implica l’essere, la relazione, il fare. Relazionalità e relazione non si oppongono, ma vanno distinte perché toccano due dimensioni diverse della persona. La conclusione sembra paradossale: ci sono persone povere di relazioni ma ricche di relazionalità, e viceversa. Avere tanti rapporti, infatti, non è necessariamente indice di relazionalità. Pongo un caso estremo: una suora di clausura può essere più ricca di relazionalità di una star cinematografica, anche se infinitamente più povera di relazioni. Si può essere aperti all’infinito senza valicare il perimetro della propria stanza, così come chiusi in sé stessi mentre si gira il mondo. È una questione di quantità e qualità, allora? Sì e no.

Decisiva – come criterio di qualità delle relazioni – è la misura con cui esse partono

o meno dalla struttura relazionale della persona. Non è, quindi, questione di quantità o qualità, ma di profondità e reciprocità. La relazionalità proviene dal fondo dell’essere umano ed è sempre aperta. Aperta alla reciprocità, mentre non sempre le relazioni schivano la tentazione individuo-centrica. Partire dalla struttura relazionale della persona vuol dire allora essere coscienti che nelle nostre relazioni c’è sempre qualcosa che le precede e qualcosa che le eccede. Significa rinunciare a dominare le relazioni, addirittura a costruirle come se dipendessero da noi. Le relazioni non si costruiscono, si cercano. Questo vuol dire che nei nostri rapporti dobbiamo essere attenti soprattutto a ciò che ci sorprende, all’imprevisto. La “volontà di potenza” che caratterizza spesso l’uomo moderno tende non di rado a imporre le relazioni, anche per buoni fini. Può succedere, per esempio, nel rapporto padre-figli o nei rapporti di coppia. Se vogliamo rapporti carichi di relazionalità dobbiamo invece curare l’atteggiamento di attesa, di ascolto, di pazienza, anche di assenza. La relazionalità richiede amore insieme a una sorta di passività che, se ben vissuta, è l’unica veramente aperta al nuovo.

Le conseguenze etiche di questa distinzione, che può apparire solo accademica, sono in certi casi decisive. Un esempio: se la persona fosse primariamente relazione, intendendo con questo la capacità di costruire rapporti, l’aborto sarebbe legittimo perché l’embrione non è in grado di costruirli. Anche la persona in coma non avrebbe diritto di vivere, perché incapace di avere rapporti con gli altri. Se invece ciò che definisce alla radice la persona è la relazionalità, che per esserci non ha bisogno di rapporti perché viene prima di essi, allora le cose cambiano sostanzialmente.

pensare l’unità JESÚS MORÁN

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68 cittànuova n.1 | gennaio 2016

tono saccente, un maestro del saper vivere e una vera guida spirituale alla stregua, azzardo a dire, di uno starec russo. Le tematiche di cui egli argomenta sono di estremo interesse per chi come Kappus si affacciava alla vita: l’amore, la sessualità, il tempo che si consuma, Dio, una futura professione, l’arte...: ciò che rende queste lettere estremamente attuali anche per i giovani del nostro tempo. Troviamo in esse, come un leit-motiv, l’invito a «entrare in sé stessi», a «scavare dentro di sé», a «rivolgersi verso l’interno», a «scrutare le profondità da cui scaturisce la propria vita». Sempre accompagnandosi alla fiducia radicale nel suo acerbo interlocutore e nelle risorse di cui questi dispone.

Facciamo conto di non aver mai letto nulla di uno dei principali autori del XX secolo, Rainer Maria Rilke, nulla delle sue Elegie duinesi, dei Sonetti ad Orfeo o dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, per citare le sue opere più famose. E leggiamo invece Lettere a un giovane, raccolta di 10 sue lettere all’aspirante poeta Franz Xaver Kappus, con l’aggiunta di altri brevi testi. Ebbene, questo smilzo ma prezioso libretto, edito quest’anno da Qiqajon con la prefazione del priore di Bose Enzo Bianchi, è sufficiente per darci la “rivelazione” della grandezza d’animo di questo poeta, scrittore e drammaturgo austriaco di origine boema, morto di leucemia acuta nel 1926 a soli 51 anni. Qui Rilke si rivela, pur nella sua delicatezza e umiltà che gli evitano qualsiasi

Ecco solo qualche saggio di “Lettere a un giovane”:

«Se la sua vita quotidiana le sembra povera, non la accusi: accusi sé stesso, si dica che non è abbastanza poeta da chiamarne per nome gli aspetti preziosi; per colui che crea, infatti, non c’è povertà, e nessun luogo è povero o insignificante».

«In particolare nelle realtà più intime e degne di attenzione, siamo indicibilmente soli; e perché uno sia in grado di consigliare o aiutare l’altro, perché ciò succeda anche una sola volta, molto deve accadere, molto deve compiersi, un’intera costellazione di eventi deve realizzarsi».

«Le opere d’arte appartengono a una solitudine senza fine, e niente meno della critica è in grado di raggiungerle. Solo l’amore sa stringerle a sé, e viverne, e sa agire con giustizia nei loro confronti».

«Non si affanni per ottenere risposte che ancora non possono esserle date, perché non sarebbe in grado di viverle. (…) Viva le sue domande adesso. Forse, così, un giorno lontano, a poco a poco, senza accorgersene, vivrà già dentro la risposta».

«Forse i due sessi sono più simili tra loro di quanto non si creda, e il rinnovamento grande del mondo si baserà su questo, che l’uomo e la giovane donna, liberati da tutte le percezioni malsane e dalle reciproche avversioni, si cercheranno non come realtà opposte, ma come fratello e sorella, come vicini, e si uniranno l’uno all’altra come persone umane, per sostenere assieme, con semplicità, seriamente e con pazienza, il peso della carne che è stato loro imposto».

idee e cultura EPISTOLARI

viverele nostredomandeadessoLe lettere di Rainer Maria Rilke a un aspirante poeta: umile dono di amicizia da maestro a discepolo

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6969cittànuova n.1 | gennaio 2016

nemmeno ciò che è più enigmatico, vivrà la relazione con un’altra persona come qualcosa di vivo e saprà colmare tutta la vastità della propria esistenza».

«Non deve spaventarsi quando una tristezza le si staglia di fronte, grande come mai ne ha vista una; quando un’inquietudine, come la luce e l’ombra delle nuvole, scivola nelle sue mani e nelle sue azioni. Deve pensare che qualcosa sta accadendo in lei, che di lei la vita non si è dimenticata, che è la vita a

«Dovunque c’è molta bellezza».

«Provare amore tra un essere umano e l’altro: forse, è ciò che di più difficile ci viene chiesto, di più estremo, la prova finale a cui veniamo sottoposti, la fatica che tutte le altre fatiche servono solo a preparare. Ecco perché i giovani, che sono principianti in tutto, non conoscono ancora l’amore: lo devono imparare».

«Soltanto chi è preparato a tutto, colui che non esclude nulla,

tenerla tra le mani, e che non le permetterà di cadere».

«Il suo dubbio può trasformarsi in una buona qualità, se lei lo educa. Deve diventare sapienza, deve diventare capacità critica».

Ce n’è abbastanza, penso, per dirci grati dell’essere Rilke vissuto in un’epoca nella quale la scrittura epistolare era ancora in auge. In tal modo possiamo far tesoro delle sue lettere anche noi, uomini di un’epoca dalla spesso effimera comunicazione, affidata per lo più ai social network.

di Oreste Paliotti

Ecco perché i giovani, che sono principianti in tutto, non conoscono ancora l’amore: lo devono imparare

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Trimestrale di cultura fondato da Chiara Lubich nel 1978. Nuova Umanità fornisce gli strumenti

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del mondo attenta al dialogo e all’unità.

Semestrale accademico interdisciplinare dell’Istituto Universitario Sophia.

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71cittànuova n.1 | gennaio 2016

Oltre che direttore della rivista Nuova Umanità (NU) e responsabile del Centro Igino Giordani, Alberto Lo Presti è un politologo all’Istituto universitario Sophia. Riflettere con lui permette allora di trattare temi che vanno dalla cultura ai diritti umani, ai processi sociali.

Perché “Nuova Umanità” diventa trimestrale?Oggi fare cultura significa andare in profondità tra le trame nascoste del nostro divenire

storico, che danno forma al futuro. Bisogna prendersi tempo per fondare un pensiero solido, coscienti dei cambiamenti in atto. Diventare trimestrale (eravamo bimestrale) non significa quindi ridurre la propria offerta, ma migliorarla e approfondirla. Vorremmo essere una rivista “contemporanea al futuro”, cioè non tanto spiegare cosa accade oggi, quanto sapere dove stiamo andando. Nel 2016 vogliamo anche accompagnare l’offerta cartacea con strumenti digitali che proporranno agli abbonati interviste, retroscena, strategie, per una interazione più diretta con le sfide della cultura.

ll pensiero culturale di Chiara Lubich, alla base della rivista, è attuale?Il pensiero generato dalla cultura dell’unità nasce nel XX secolo con immediati risvolti in campo sociale, economico, politico, del dialogo. Non è il pensiero formulato da un singolo in un momento preciso, ma un processo culturale, sempre vivo nella misura in cui sapremo attualizzarlo. In questo NU può avere un ruolo importante, mettendo in dialogo protagonisti, testimoni, esperti, scienziati, interpreti, producendo quella unità

su cui la rivista fonda la propria missione.

Cosa significa cultura dell’unità?Significa innanzitutto riconoscere che “la” storia, e “le” storie delle nostre comunità, non avvengono a caso, non sono soggette a variabili incontrollate. Nonostante la complessità (e la violenza) del mondo, è evidente che la famiglia umana cerca nuovi modelli di relazione e nuovi rapporti di reciprocità. Cerca di estendere i diritti, di riconoscere nuove dignità, di dare parola a chi non ce l’ha. Per interpretare questi fenomeni serve una cultura che sappia cogliere nella storia i segni che indicano il particolare destino della famiglia umana: l’unità.

Cosa pubblicherete nel 2016?Ognuno dei 4 fascicoli sarà caratterizzato da un tema: Lutero mezzo millennio dopo, i 25 anni dell’Economia di Comunione, una visione comune della Chiesa nel quadro ecumenico, il punto di vista degli scienziati sulla Laudato si’. Cercheremo di “fondare” ogni tema, dandogli un respiro profondo e mondiale. Vorremmo anche capire cos’è la natura umana e se ha ancora qualcosa da dire nel determinare cosa è bene e cosa è male.

State presentando una “Storia di light” a puntate. Perché?Vogliamo tirare fuori dai cassetti i nostri tesori. Prima di tutto Igino Giordani che, dopo 30 volumi sulle figure dei santi, scrisse il suo capolavoro: la storia di Chiara Lubich. È un prodotto inedito, sconosciuto ai più.

la direzionedella storiaIntervista ad Alberto Lo Presti, direttore di Nuova Umanità, una rivista di cultura “contemporanea al futuro”

a cura di Giulio Meazziniidee e cultura SAGGI

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72

IL PIACERE DI LEGGEREidee e cultura

Coscienza critica del nostro tempoConversazioniJOSIF BRODSKIJ

Un libro stracolmo di stimoli, resoconto di una ventina di interviste concesse tra

il 1970 (l’unica fatta ancora in Urss, sapendo che due anni dopo sarebbe stato

“ufficialmente invitato” a emigrare in Israele) e il 1995, anno precedente alla

sua morte. Questo straordinario volume ci permette di penetrare in una delle

menti più lucide del XX secolo, un uomo che pretendeva di essere solo un

poeta, ma che nei fatti era un visionario, una di quelle rare “coscienze critiche”

che costellano il nostro tempo. Un uomo con uno spessore umano fuori dal

comune – «non sono mai riuscito a odiare i miei carcerieri» –, una lungimiranza

– «prevedo un enorme conflitto religioso, per l’esattezza non religioso in senso

stretto, tra il mondo musulmano e il mondo approssimativamente cristiano»,

scriveva nel 1989 – e una profondità unica – «l’estetica è la madre dell’etica...

Non si sceglie di amare una donna per motivi etici, ma per una spinta estetica»,

disse nel 1993 alla “nostra” Gabriella Caramore. Il carattere di Brodskij non

era dei più concilianti, anche se sapeva essere squisito nei rapporti umani. Un

uomo temperato dalle ristrettezze e dalla prigionia, Nobel nel 1987 ma mai

altezzoso, amico fedele ed estimatore di tanti colleghi. Ebreo di nascita ma

non di “elezione”, aveva in grande stima i valori religiosi: «Ciò che distingue

veramente una persona è la condotta, ciò che si è in grado di fare, non il

sapere, i geni, l’educazione, la cittadinanza». Un libro da non perdere.

Il tempo non cancellaROBERTA DE FALCO

Sperling & Kupfer

€ 16,90

Trieste è una città speciale.

Scrive di lei Claudio Magris:

«Se Trieste è una frontiera,

quest’ultima diviene un

modo di vivere e di sentire,

una struttura psicologica e

poetica». Anche “Il tempo

non cancella” respira

quest’aria incerta, a un

tempo mediterranea e

mitteleuropea, solare e

ventosa, malinconica e

tormentata, ferita. Piaga

che duole nelle anime dei

protagonisti del romanzo,

come segno di un passato

che parla di colpa e verità

celate. De Falco ritorna

con un’avventura del

commissario Benussi, gli

ispettori Morin e Gargiulo.

Questa volta l’intrigo

coinvolge Ivo Radek,

famoso scrittore di origini

istriane, la sua famiglia e un

Adelphi

euro 20,00

/recensione a cura di

PIETRO PARMENSE

La saggezza delle lacrimeLUCA SARACENO

Edizioni Dehoniane

Bologna € 15,00

Chi meglio del Rettore della

Basilica “Madonna delle

lacrime” di Siracusa, dove

arrivano fedeli da tutt’Italia

alla ricerca di grazie,

poteva occuparsi del ruolo

del pianto nel magistero

di papa Francesco? Don

anche di gioia indicibile

quanto ho sentito d’essere

infinitamente amato da Dio».

/recensione a cura di

PATRIZIA CAROLLO

Luca Saraceno, in questa

fatica letteraria, con un

lavoro certosino di ricerca

tra i discorsi, le omelie, le

meditazioni quotidiane,

gli angelus e le udienze di

Bergoglio, ha analizzato

il pianto in tutta la sua

«bellezza di linguaggio

non verbale che supera

la schematicità delle

parole, come mezzo di

comunicazione fra Dio e

l’uomo», facendo intuire la

saggezza d’ogni uomo che

«piange con chi piange,

condivide, cammina,

consola, in una parola

ama il suo prossimo». E

ha ammesso: «Anch’io ho

pianto di penitenza sui miei

peccati, d’inquietudine nei

miei cammini di ricerca, ma

cittànuova n.1 | gennaio 201672

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in libreria a cura di ORESTE PALIOTTI

a cura di Gianni Abba

contenzioso tra editori per

la pubblicazione del suo

ultimo libro. Vale la pena

seguire le loro avventure e

respirare un’estiva Trieste,

alla ricerca della verità, oltre

i fantasmi del passato: «E

la sera, se la giornata sarà

buona, mangeremo sulla

terrazza, davanti al mare,

vedendo partire le barche

dei pescatori, con le loro

lanterne, come facevo

con i miei genitori quando

vivevamo laggiù».

/recensione a cura di

TAMARA PASTORELLI

Il ladro di Monna LisaELSCHNER GÉRALDINE

E BADEL RONAN

Jaca Book € 14,00

Collana di indubbio valore,

“Ponte delle arti” della

Jaca Book, si offre con

un’accurata rivisitazione

del rapimento di Monna

Lisa. Misteriosa, bellissima,

eccelsa… colpisce il povero

vetraio italiano, di stanza a

Parigi al Museo del Louvre.

Innamorato del dipinto,

Angelo la riporta in Italia,

per ridarle la patria perduta,

la collocazione di diritto.

Angelo non è il solo ad

essere stato stregato dallo

sguardo della Gioconda;

anche il suo vero ladro,

attuò la singolare trovata e

cercò di rivendere la tela a

Firenze, dopo averla, come

Angelo, tenuta nascosta in

casa per ben due anni. Due

anni scomodi, sostengono

con illustrazioni convincenti

e di grande maestria gli

autori del libro per bambini,

due anni di interrogativi su

quello sguardo insistente

e indagatore. Impossibile

resistere alla Gioconda!

Impossibile ugualmente

vivere con lei… che forse

doveva incarnare la felicità.

Dai 6 anni.

/recensione a cura di

ANNAMARIA GATTI

73cittànuova n.1 | 1 gennaio 2015

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73cittànuova n.1 | gennaio 2016

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Le tre religioni monoteistiche a confronto con l’umanesimo di matrice greca. Un modello ermeneutico originale per dialogare. (p.p.)

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La “bibbia” dei motociclisti. L’avventura di un giramondo sulle due ruote. Da raccomandare a quanti respirano la libertà sfrecciando a bordo della loro moto. (p.p.)

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Il cibo secondo ebraismo, cristianesimo e Islam. Ripercorrerne le prescrizioni è un esercizio di dialogo, estetica e antropologia. (p.p.)

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Sebastien e Loi: due adolescenti a confronto, che crescendo si trovano a rapportarsi con la responsabilità, la lealtà e l’amicizia. Una storia di adulti immaturi e di scelte difficili, del delicato rapporto tra genitori e figli e di amicizie imprevedibili. Tradotta in film per la tv francese.

GIORNALISMO

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Dal terremoto di San Francisco del 1906 all’uragano del 2005 su New Orleans, i disastri naturali raccontati dai grandi reporter, tra cui anche London ed Hemingway. In questa raccolta si trovano la paura, il coraggio, l’eroismo: la materia profonda di cui è fatto l’uomo.

FAMIGLIA

Sposi e Bibbia Lorenzo Zani

Il Margine, € 15,00

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RAGAZZILe meraviglie della matematica Benoît Rittaud

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Una storia originale per far appassionare a questa scienza i giovanissimi. Il volumetto fa parte della collana Piccola Biblioteca di Scienza: domande poste dagli stessi bambini su argomenti scientifici affrontati in maniera semplice, dando la parola agli scienziati.

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reportage ISLANDA

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Un giro dell’isola più fredda e bollente d’Europa. Scenari naturali fantastici e gente riservata ma calorosa. Pensieri di fronte alla bellezza

Testo e foto di Emanuele Emiliani

fuoco e gelo

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76 cittànuova n.1 | gennaio 2015

ReykjavíkLa luce solare qui a Reykjavík è intensa, eterea e penetrante nel contempo. In un paio d’ore giro il centro di questa città che, pur ospitando il 66% della popolazione islandese, raggiunge a fatica i 220 mila abitanti. L’ordine, la pulizia, la buona manutenzione, l’armonia degli spazi, la cura di tutto ciò che è comune, bene comune, l’atten-zione ai dettagli sono certamente le note più appariscenti di Reykja-vík e della sua gente. E poi ci sono il mare e l’acqua del lago Tjörnin, presenti sempre e comunque, an-che se non direttamente alla vi-sta, ma basta girare l’angolo che l’orizzontalità del mondo liquido riprende possesso della città e di chi la guarda.

HarpaAccanto a me siede una coppia sul-la sessantina, parlano un perfetto francese. Lui è docente di ingegne-ria navale all’università di Reykja-vík, lei è capocontabile in una ditta di import-export. «Qui in Islanda o ti consacri coscientemente alle arti, oppure all’alcol. C’è pure una terza opzione, emigrare». Sono ca-tegorici: «Per questo qui trovi tante librerie e biblioteche: 9 mesi all’an-

reportage ISLANDA

Il laghetto di Tjörnin nel centro di Reykjavík. Nelle pagine precedenti, la calotta glaciale del Vatnajökull.

Il Geysir, tra le massime attrazioni dell’Islanda.

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77cittànuova n.1 | gennaio 2015

no trascorsi in casa formano un pa-trimonio di tempo da dedicare alla coltivazione dello spirito». Annah e Gunder ci tengono a precisarlo: «Lo spirito con la minuscola, non siamo credenti». Precisa lui: «Conosco perfettamente tutte le tradizioni esoteriche, sciamaniche, parareli-giose o semplicemente superstizio-se che noi islandesi siamo riusciti a creare in questi freddi secoli di civilizzazione dell’isola. Credo che siano tutte tradizioni poco o nulla religiose e molto invece usanze fa-

vorite e caldeggiate dal potere. Qui la più grande autorità è la Natura, perché incute paura. Quindi la po-litica non ha fatto altro che cercare di anestetizzarla con queste infi-nite saghe e un’incredibile profu-sione di riti superstiziosi. L’unico modo per scacciare questo sistema è la cultura».

HallgrímskirkjaReykjavík ha spesso come imma-gine “la” chiesa della capitale. Un edificio recente, totalmente can-

dido, che svetta su un’altura con i suoi 75 metri di altezza, per cui è visibile da tutta la città. Salgo sulla torre campanaria mentre scocca-no le dieci e le campane sembrano scuotere l’edificio e fors’anche la terra su cui poggia, qui siamo in lande di fuoco e di lava. All’altezza dei 4 grandi orologi, la città m’ap-pare segmentata e arrotondata, bella e misteriosa. Sotto la guglia Reykjavík si svela con il suo mare e le sue nevi appena fuori città. Un incanto di giustezza e di giustizia,

Un altro mondo si apre. Un mondo di 320 mila persone in un’isola che ha un perimetro di mille chilometri. Natura, soprattutto natura mi attende, e poco d’altro

Le cascate di Gullfoss, eleganti e imponenti.

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78 cittànuova n.1 | gennaio 2015

colonne basaltiche emerse in una delle tante eruzioni. La leggenda dice che i faraglioni ebbero origi-ne allorché due troll trascinarono di notte una nave a 3 alberi a terra, senza successo; e quando la luce tornò, divennero aghi di roccia.

VatnajökullMonumenti naturalistici unici e suggestivi come la calotta gla-ciale del Vatnajökull andrebbero apprezzati più da vicino, calpe-standoli coi ramponi. Ma non mi è concesso. Ragione per cui debbo ammirarne le grandiose fattezze dal basso. Ma con la fortuna che qui “dal basso” vuol dire pratica-mente dallo stesso livello, visto che i ghiacciai scendono fino al mare, o quasi. Qualche numero: è la più grande calotta glaciale del mondo esclusi i poli; 8100 kmq; spessore massimo di 1 km; mon-te più alto d’Islanda, 2110 metri; parco nazionale di 13.600 kmq, il 13% del Paese intero... Mi avvi-cino: si riconoscono, tra gli altri, Skaftárjökull, Skeiðararjökull, Breiðamerkurjökull e Skalafel-lsjökull. Qualcosa da non crede-re ai propri occhi: un gigantesco

non credo che in tutta l’isola si tro-verebbe un luogo più adatto a edi-ficare una capitale.

ÞinvgvellirOggi ho ricevuto una buona le-zione di democrazia. Nelle scon-finate e in fondo desolate lande islandesi mi ritrovo a Þinvgvellir. Geologicamente parlando, siamo in una delle frontiere più impres-sionanti e potenti che esistano al mondo: qui si separano le zol-le tettoniche nord-americana ed euroasiatica che danno origine a un avvallamento, Almannagjá, che ogni anno si allarga tra 1 e 18 millimetri. E la frontiera la si vede come una lunga frattura che scen-de verso il lago Þinvallvatn con un’altezza di 50 metri, come un taglio netto nella crosta terrestre. Qui s’è fatta l’Islanda, qui il parla-mento del popolo decretò la pro-pria indipendenza: era il 930 d.C. quando i vichinghi decisero che, per dirimere le controversie legi-slative tra le diverse tribù dell’i-sola, servisse una sorta di parla-mento, un ðing. Qui si firmavano accordi territoriali e si celebra-vano matrimoni. E sempre qui si

decise di adottare il cristianesimo come religione popolare.

GullfossCredo che in Europa non esista-no cascate belle e complesse come questa di Gullfoss. Dicono che con le giornate di sole si vesta d’iride. A me non capita d’arrivarci col cielo sereno, anzi minaccia piog-gia. Eppure in questo modo posso apprezzare le linee delle cascate, i loro meccanismi e le loro dinami-che, senza soccombere alle imma-gini da cartolina. Salendo i gradini di legno, curatissimi dalla precisa mano da carpentieri degli islande-si, posso capire i flussi delle acque, le canalizzazioni e le deviazioni, credendo – forse è vero – che que-ste Gullfoss siano la metafora della Grande Caduta. Dante qui si sa-rebbe beato e ricreato!

Reynisdrangur e ReynisfjaraUna spiaggia incantevole, seppur senza colore, salvo il verde delle montagne. Un enorme organo a canne è stato installato nelle 3 o 4 grandi caverne che si aprono sulla spiaggia, la Reynisfjara. Il feno-meno si spiega come un insieme di

reportage ISLANDA

Jökulsárlón. Akureyri.

Reynisfjara.Keldur.

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complesso montagnoso, ricco di rocce arditissime e di ghiacciai vastissimi – in verticale come in orizzontale –, che s’alternano con geometrie imprevedibili e alter-nanza tra zone di luce e ombra, scintillanti e arrembanti, pacifici e inquietanti.

Jökulsárlón È una di quelle meraviglie della na-tura che ti si incollano alla memo-ria. Il lago glaciale di Jökulsárlón ha la particolarità di sfociare in mare dopo il brevissimo tragitto del suo emissario, il fiume più cor-to d’Islanda, il Jökulsá. Il ghiaccio muore nel mare. Piccoli iceberg si staccano dal ghiacciaio, stazionano nel lago e poi vanno a morire nel

grande mare salato. Qui conflui-sce il ghiacciaio Breiðamkurjökull, in una laguna di 18 kmq, profonda fino a 250 metri. Seguo il volo biz-zarro dei pulcinella di mare, col becco arancione e il manto bianco e nero, come fossero in frac. Que-sti uccelli tipici dell’Islanda volano in modo un po’ goffo, non lineare, quasi umorale. Sostano su un la-strone gelato, fanno comunella, bi-sticciano o giocano e poi saltano da un’altra parte. Graziosi e simpatici, senza dubbio. Più seguo il loro volo, più mi trovo ad ammirare le infini-te gradazioni del ghiaccio, che van-no dal blu oltremare alla traspa-renza assoluta, passando per tutte le tonalità dell’azzurro, del celeste e anche di molti verdi.

AkureyriNon può essere classificata tra le più belle località dell’Islanda. Ep-pure è la seconda città del Paese, al cuore di un suggestivo scenario marittimo-montanaro. Ad Aku-reyri la gente è gentilissima, certo più che a Reykjavík, dove il benes-sere sembra aver scalzato anche la politesse. Ne ho la prova. In un bar mi trovo a chiacchierare con un giovane uomo, avrà 25 anni, che mi chiede qualche informa-zione sulla mia macchina fotogra-fica. Parola dopo parola, riesco a strappargli qualche confidenza. Terzo di 4 figli, studia geologia a Reykjavík − è un dottorando −, ma l’estate la trascorre qui a casa, ad Akureyri, dove per 2 o 3 mesi por-ta in giro i turisti a bordo di una nave per l’avvistamento delle ba-lene. Gli piace la natura dell’inter-no del Paese e le pietre, ma poca gente vuole uscire con lui in cerca di rocce, gli amici preferiscono il mare. Burg, così si chiama, ha una fidanzata, Sandra, con la quale conta di sposarsi in autunno, vi-sto che lei sta diventando medico. Vivranno per qualche anno nella capitale, poi cercheranno di spo-starsi qui ad Akureyri. Hanno pie-na coscienza della fragilità della loro economia, con la cruda crisi sofferta 8 anni fa, e quindi voglio-no andare avanti poco alla vol-ta, su solide basi. Sono luterani e praticanti, hanno molti amici ma non hanno l’abitudine di passare le loro notti a Reykjavík scivolan-do da un locale all’altro, a bere e rimorchiare, come i coetanei. Il conversare del giovane uomo è lento e pudico, svela qualcosa di sé solo per cortesia, non certo per spontaneità. Finché non osa chie-dere qualcosa anche a me.

79cittànuova n.1 | gennaio 2015

In un vecchio ristorante-museo a Eskifjördur.

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80 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Il teatro oggi sembra voler recuperare la parola. È così? Già, sembrava non essere più di moda. Nel mio caso, dato che la mia formazione è quella dell’attore di parola, vuol dire continuare a fare quello che ho sempre fatto. È vero che c’è stato anche un teatro di parola brutto e noioso. Però la parola in quanto tale mi sembra che sia più che mai necessaria in questo momento. “C’è bisogno del teatro di parola” sono anche le ultime parole che diceva Ronconi nell’allestire Lehman Trilogy.

Per lei Ronconi è stato un “padre” e un maestro? È stato il mio imprinting, quello che si riceve da coloro che conosci per primi. È stato sì un maestro, ma tramite lui ho potuto lavorare con quasi tutti i più grandi attori. Si può dire che ho avuto un padre di una famiglia numerosa, insieme a tanti altri zii. Da lui ho imparato che recitare è una cosa molto seria, da non confondere con seriosa; e che occorre farlo anche con una sorta di ironia.

Il rapporto artistico a un certo punto si è interrotto... Non è stato premeditato. Sono stato male e ho interrotto la mia attività per molto tempo. Quando mi sono ripreso, ho lavorato con altri registi e fatto altre esperienze. Il grande ritorno è stato per Lehman Trilogy.

Cosa ha significato tornare a lavorare con Ronconi? È stato un grandissimo regalo. Anche se non avevo più davanti il Ronconi furente, di grandissima energia, ho trovato un uomo pacato che aveva fatto della sua debolezza un punto di forza. Sempre lucidissimo, nelle 5 ore in cui lavorava dava indicazioni essenziali. Non sprecava energia, andava direttamente al bersaglio. Fra noi c’è stato un attestato di stima reciproca molto commovente.

Lei è l’attore più richiesto per le letture teatrali. Che importanza dà a questo genere?La lettura dal vivo è complessa. Chiunque la faccia deve darle sempre un taglio interpretativo. Per me è molto divertente perché, quando si è liberi perché da soli, si possono creare in un testo i primi e i secondi piani, i campi lunghi, le sonorità. Erroneamente si pensa che stare più fermo possibile voglia dire più concentrazione. Invece, in palcoscenico, la parola va continuamente mossa lì dove è necessaria, rendendo così più piani di ascolto.

Da un po’ di tempo il suo volto appare molto sullo schermo. Cosa cambia nel suo approccio? Quando ero giovane, l’attore di teatro non era concepito al cinema. Adesso il sistema è molto cambiato. Hanno capito che gli attori di teatro, in una distribuzione globale, sono un valore aggiunto. Essendo

INTERVISTE

arte e spettacolo

il teatro di parolaMassimo Popolizio ha appena vinto il Premio Ubu

2015 per la sua interpretazione in “Lehman Trilogy”,

ultimo spettacolo di Luca Ronconi. Ora porta

in scena un testo di Arthur Miller. E si racconta

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un modo di lavorare molto veloce, credo che un attore di teatro debba porsi sempre il problema di quello che sta dicendo. Questo fa la differenza.

Attualmente è in scena con Il prezzo di Arthur Miller, del quale è anche regista. Cosa comporta stare fuori dalla scena a dirigere e contemporaneamente dentro a recitare? Più che regista in questo spettacolo mi sento come direttore di un quartetto. La regia non si può fare stando dentro. Mi sono permesso di farla perché avevo degli attori “piloti, con parecchie ore di volo alle spalle”. È un testo con molti punti deboli, ma bisogna riconoscere che ha ancora qualcosa da dire.

Qual è la sua attualità? Che si parla di soldi, che allontanano due fratelli e sono all’origine del marcio di una famiglia. È un tema che ci riguarda tutti. Tanta gente che vede lo spettacolo si ritrova in quella situazione. Il testo lo abbiamo alleggerito. Annegava in un mare di parole anche difficili. È interessante anche perché è un testo per attori, con una scena fissa concepita come un ring. La sua forza è nell’essere molto violento.

Oggi, può il teatro aiutare a migliorare gli uomini? Può migliorarci come lo può fare un buon libro. Penso di sì, perché è un posto dove qualcuno in carne e ossa cerca di farti vivere un’esperienza. Il teatro dovrebbe essere un’esperienza. Abbiamo una responsabilità in questo senso, perché l’esperienza del brutto oggi è tanto più forte di quella del bello. E quando fai del brutto teatro allontani le persone.Giuseppe Distefano

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82 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Rai Uno iniziò con le trasmissioni “contenitore” domenicali nel 1976 con L’altra domenica, condotta da Renzo Arbore. Qualche mese dopo nacque la prima Domenica In di Corrado Mantoni, 6 ore di televisione pomeridiana che passarono successivamente a Pippo Baudo. Il programma, una sorta di “zibaldone” televisivo, raggruppava gli spettatori italiani intorno a vari temi d’interesse e d’intrattenimento leggero. Con l’avvento della televisione commerciale, anche Canale 5 sfornò presto il proprio contenitore domenicale e nel 1985 nacque Buona Domenica, un titolo che ne dichiarò fin da subito l’intento programmatico: condotta da Maurizio Costanzo, si pose subito in competizione con la domenica televisiva di Rai Uno. Oggi che i tempi e le conduzioni sono cambiate, Domenica In è condotta da Paola Perego e Salvo Sottile e ha proprio in Maurizio Costanzo il suo capo-progetto, mentre Buona domenica è diventata Domenica Live, sotto la

conduzione sensazionalistica di Barbara D’Urso. La prima differenza evidente tra i contenitori domenicali di oggi e quelli di ieri è la massiccia presenza della cronaca nera, che ha portato con sé nuovi linguaggi e ibridazioni. A fare da regina in questo campo è proprio la D’Urso. Stando ai dati Auditel, il suo programma vanta un pubblico più anziano e di estrazione socio-economica più bassa, soprattutto se comparato con quello dell’Arena di Giletti che precede lo spazio della Perego e di Sottile e che si rivolge a un pubblico mediamente più colto. Il “target D’Urso” percepisce i contenuti proposti dal talk come veri e propri approfondimenti giornalistici: ecco così che informazione e intrattenimento si ibridano, dando luogo a un magistrale quanto pericoloso equilibrio tra cronaca e gossip. I temi angoscianti di cui il pubblico ha sentito parlare al telegiornale, vengono trasformati dalla conduttrice in

familiari e comprensibili, grazie all’arte dell’affabulazione e del populismo. Se la D’Urso da un lato è nell’occhio del ciclone perché non teme di parlare di temi delicati, come per esempio gli attacchi di Parigi, dall’altro viene criticata perché non si risparmia nel proporre allo stesso tempo ecografie in diretta, matrimoni vip o interviste a personaggi di reality. Ecco così che il concetto di “zibaldone” non rappresenta più la varietà di contenuti, ma il caos totale: la televisione abdica al compito di chiamare le cose con il proprio nome e di rispettare i confini dati da genere e format. Quest’anno Domenica In sembrava essere partita con temi più leggeri e popolari, ma ha preso presto la stessa deriva (l’intervista a Raffaele Sollecito ne è un chiaro esempio), forse proprio per correre dietro alla controprogrammazione. Lo confermano le percentuali d’ascolto: all’inizio Domenica Live era più forte ma, dopo il cambio di rotta di Rai Uno, le distanze tra i due programmi si sono accorciate. Viene un po’ da rimpiangere le domeniche di intrattenimento puro del passato, quelle pre-Grande Fratello e ospiti annessi, ma anche quelle in cui la cronaca nera veniva esclusa dai giorni festivi e lasciata a ben altri generi televisivi. Eleonora Fornasari

TE

LE

VIS

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Earte e spettacolo

domenica in – domenica liveLa domenica pomeriggio è storicamente il campo

di scontro tra le reti del servizio pubblico e quelle

Mediaset, in particolare tra Rai Uno e Canale 5

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CIN

EM

AM

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A

il piccolo principe di mark osborne

jacqueline de ribesthe art of style

La prima volta del Piccolo principe al cinema fu nel 1967, per mano del lituano Arunas Zebriunas, non proprio il regista più famoso del mondo. Dunque il precedente cinematografico più illustre rimane quello del 1974 di Stanley Donen, il maestro di Cantando sotto la pioggia, capolavoro del 1952. Questo regista è considerato il re del musical americano e nella sua trasposizione del Piccolo Principe le canzoni non mancano; nessuna sequenza del suo film, però, è rimasta nella storia come quella in cui Gene Kelly cantava per la strada Singing in the rain. Pazienza, il suo The little prince fu comunque utile per far conoscere la bellezza del minuto e infinito libro di Antoine de Saint-Exupéry: vi si poteva rintracciare la disarmante semplicità con cui sono descritte le fragilità (e quindi i vizi) dell’essere umano, c’era l’emozionante omaggio alla bellezza dell’infanzia, era possibile riflettere attraverso la tenerezza di quel fanciullo ingenuo ma capace di cogliere l’essenziale

Jacqueline de Ribes, musa ispiratrice di Oscar de la Renta, Gaultier, Saint Laurent, Ungaro, disegna una collezione sontuosa di pret-à- porter, tema della mostra “The art of style”, che il Costum Center Metropolitan Museum of Art di New York le dedica fino al 21 febbraio. 60 i disegni indossati e progettati dalla duchessa de Ribes dal ’50 a oggi. Il loro specifico è evitare tendenze,

esprimere l’autentico, senza voler mai dimostrare nulla. Jacqueline è l’aristocratica che sfida i privilegi, l’educazione, l’appartenenza, per divenire “anomalia”. Quando decide nell’82 di produrre la sua collezione, la famiglia e gli amici pensano sia impazzita. Già a 10 anni disegna i vestiti per elettricisti, stallieri, carpentieri e camerieri del nonno. Sarà il giovane Valentino Garavani ad essere assunto dalla duchessa de Ribes per realizzare alcuni suoi disegni. La ricordo a Tokyo Collezioni nel 1989 seguire

noi modelle una ad una, quasi dovessimo appartenere ad altro universo, il suo. È stata insignita nel 2010 da Sarkozy, della Legion d’Onore, e della Presidenza d’Onore del Museo d’Orsay e de l’Orangerie. Beatrice Tetegan

della vita. Oggi il cinema torna a omaggiare Il piccolo principe con un buon film d’animazione ad alto budget, offrendo, come spiega il regista Mark Osborne (quello di Kung Fu Panda), la possibilità di compiere «un viaggio nel nostro modo di relazionarci agli altri». La pellicola è fedele al testo letterario pur costruendo attorno a questo una vicenda ulteriore, quella di una bimba a cui la madre ha imposto scelte precise per il futuro. Mentre la piccola si affanna a obbedirle, l’anziano vicino di casa (una sorta di de Saint-Exupèry invecchiato) inizia

a raccontarle la vicenda del libro aiutandola a scoprire sé stessa. Non è un caso che questa perla di letteratura sia la più letta dopo la Bibbia e sia stata tradotta in centinaia di lingue nel mondo: i suoi argomenti sono senza tempo, scavalcano ogni confine culturale e sono adatti a ogni stagione della vita. Perciò qualunque adulto volesse portare un bimbo a vedere questo film (in sala dal 1 gennaio) farebbe bene a non distrarsi mai durante la visione, a non limitarsi nemmeno per un solo istante al ruolo di mero accompagnatore. Edoardo Zaccagnini

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84 cittànuova n.1 | gennaio 2016

arte e spettacoloM

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il jazz degli abc

la lirica è in viaggio

i promessi sposi

Alchemy, Brotherhood, Cheerfullness, questo è l’acronimo per l’Abc del jazz secondo Sebastian Marino, Jacopo Ferrazza e Luca Fareri, giovani musicisti già da tempo apprezzati nell’ambito jazzistico italiano e straniero. Il primo è un pianista di 27 anni, proveniente da jazz, fusion e da varie esperienze come turnista pop; il secondo è un contrabbassista dedicato sia al jazz che alla musica classica; il terzo è un batterista jazz funky e fusion con una vasta esperienza nel rock. Alchimia, fratellanza e allegria sono, per loro, gli elementi fondamentali per creare buona musica e dare il nome, Abc, alla loro formazione. I nostri propongono brani originali da ritmi e sonorità jazz/fusion fresche, frizzanti, allegre come il nome stesso promette. Anche il jazz, come altri generi, necessita di un periodico rinnovo, di una ventata d’aria fresca che desti l’interesse di un pubblico sempre più variegato ed esigente. Così i 3 ragazzi, provenienti da background musicali molto diversi, non potevano che creare qualcosa di originale. Il debutto è avvenuto a dicembre e ora il trio si prepara a una serie di concerti in Italia e all’estero. Chi volessse apprezzare le loro performance cerchi su Youtube il loro canale con il nome di “Abc Music”.Giulia Fabiano

La lirica tiene duro. E se all’estero trionfano le nostre tournées in Cina e Giappone, in casa si è deciso di guardare al nuovo. La Scala di Milano, ad esempio. Ha aperto il 7 dicembre con Giovanna d’Arco di Verdi, ripescata dopo 150 anni, grazie al neodirettore Riccardo Chailly, e rivelatasi tutt’altro che opera “minore”. Ma, fra i 13 titoli dell’anno, spicca Fin de partie, da Brecht, che a 90 anni il compositore Gyorgy Kuntag sta completando per rappresentarla a maggio! A Palermo, al Massimo, altra novità, dopo la conclusione del Ring wagneriano. Giovanni Sollima presenta a maggio l’ultimo lavoro Il Caravaggio rubato su testo di Attilio Bolzoni, e lo affianca Philip Glass con Le streghe di Venezia in primavera. Il contemporaneo sembra d’obbligo, quasi. Infatti La Fenice veneziana, dopo il semisconosciuto Stiffelio verdiano, punta in autunno alla prima assoluta de Il medico dei pazzi di Giorgio Battistelli, uno dei migliori operisti attuali.E Roma? Nuovo avvio, dopo il trionfo dei Bassaridi di Henze, con la regia di Martone. Si celebrano i 200 anni del Barbiere rossiniano, allestendo anche una Cenerentola (regia “pericolosa” di Emma Dante). Mario Dal Bello

A gennaio al Gran Teatro di Roma, torna I Promessi Sposi, opera musicale moderna firmata Michele Guardì e Pippo Flora. Dopo il debutto a San Siro nel 2010 di fronte a una platea di 20 mila spettatori, il musical ha attraversato in lungo e largo la penisola registrando sempre un enorme consenso. La rivisitazione in chiave musicale del romanzo manzoniano, oltre alle imponenti scenografie e all’eccezionale cast di 24 ballerini e 12 interpreti, tra i quali nomi noti del panorama musicale italiano come Gio di Tonno e Graziano Galatone, ha il pregio di restituire una visione nuova e inedita di un classico della nostra cultura letteraria.

Un testo complesso, ricco e importante troppo spesso oggetto di una lettura esclusivamente scolastica, può finalmente raccontarsi al grande pubblico. Le coreografie curate da Martino Muller, storico collaboratore de Le Cirque du Soleil, rendono la materia drammatica altamente dinamica, alleggerendo i toni e costruendo una trama ritmica estremamente coinvolgente. La visione è consigliata soprattutto a quegli intellettuali che arricceranno il naso sospettosi: non potranno che ricredersi alla vista di Lucia tra le nebbie di Lario che, nella scena dell’addio ai monti, sostenuta da un coro di voci, lentamente s’allontana.Elena D’Angelo

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adele: popstar a modo suo

Che signorina Adele Laurie Blue Adkins sia una delle stelle più luminose del pop contemporaneo lo dicono le cifre. Anche quelle relative a 25, la sua terza avventura in sala d’incisione, pubblicata giusto in tempo per diventare uno dei regali più appetiti delle ultime feste. Ma la burrosa londinese è una popstar anomala: non ama le sortite sensazionaliste né i gossip scandalosi, ha un’immagine retrò che mal s’adatta al giovanilismo imperante nell’ambiente. Eppure piace: a un pubblico trasversale, ai critici più spocchiosi, perfino ai tanti che pensano che il pop sia solo un chewing-gum per palati compulsivi.Incurante dei trend

modaioli, Adelina tira diritta per la sua strada, e stravende. Prendi queste nuove canzoni: lineari e prevedibili senza mai suonare banali o scontate, piacenti ma non piacione, intelligenti senza apparire artefatte. Ma soprattutto confezionate con un savoir faire che miscela eleganza e immediatezza: a dimostrare che non occorre essere Ella Fitzgerald o i Beatles per dare alle elementari grammatiche del pop dignità e spessore espressivo. Lei ovviamente ci mette una gran bella voce e il suo credibile candore; quasi tutto il resto però, lo ha affidato ancora una volta a un manipolo di sapienti artigiani che le hanno cucito addosso una collezione capace di resistere alle intemperie e ai cingoli del consumismo “usa e getta”.

In soli 7 anni di carriera ha venduto oltre 40 milioni di dischi portandosi a casa 10 Grammy e un’infinità d’altre prestigiose certificazioni del suo successo planetario; 25 ha tutto ciò che serve per incrementarlo. Basti dire che negli Stati Uniti, nella prima settimana, ha venduto 3 milioni di copie. Nessuno prima di lei c’era mai riuscito, almeno da che esistono le rilevazioni

ufficiali. E ancor più strabilianti sono i 500 milioni di streaming dell’ammaliante singolo guida Hello: una di quelle canzoni perfette che sanno conquistarti al primo ascolto, ma che non t’annoiano al terzo. Appuntamento a fine maggio all’Arena di Verona per verificarne l’appeal anche dal vivo. Franz Coriasco

Rossini a RomaI 200 anni del “Barbiere di

Siviglia” vengono celebrati

con la messa in scena del

capolavoro nato a Roma,

all’Argentina, dove trionfò

dopo il fiasco della “prima”.

Sarà diretto da Donato

Renzetti. Cantanti giovani,

allestimento diretto da Davide

Livermore. Teatro dell’Opera

dall’11 al 21/2. M.D.B.

Wolf-Ferrari a VeneziaErmanno Wolf-Ferrari,

compositore del primo ‘900

non è troppo rappresentato.

La sua città lo omaggia con

un Dittico che comprende “Il

segreto di Susanna”, e l’opera

di Roberto Hazon “Agenzia

matrimoniale”. Venezia,

Teatro Malibran. Dal 23/1 al

4/2. M.D.B.

Laura Pausini: “Simili” (Warner Music)

Laura da Faenza tiene botta e

con l’età cerca di upgradare il

proprio stile senza stravolgerlo.

Da qui una varietà stilistica,

speziata qua e là da echi

reggae, flamenco, e hip-

hop. Arrangiamenti, autori e

produzione di lusso, per la più

internazional-popolare delle

nostre stelle. F.C.

AA.VV: “We love Disney” (Verve)

Una manciata di classici

pescati dal forziere

sempiterno di casa Disney:

classici senza tempo da

pellicole memorabili

– spaziando da “Mary

Poppins” a “Frozen” – ma

rivisitate e attualizzate da

grandi artisti contemporanei.

F.C.

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PER BAMBINI DA 3 A 99 ANNIfantasilandia

IL SEMINATORE DI STELLE

il giornalino dei bambini in gamba*

TRATTO DAn. 9 - Novembre-Dicembre 2014

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testi e illustrazione di Patricia Maguiña Flores

Guardando il cielo, una notte vidi in lontananza una splendida stella, che illuminava lo spazio con una luce abbagliante. Decisi di raggiungerla e cominciai il mio viaggio. Il percorso era lungo, così mi fermai a riposare su una stella vicina. Mi commossi molto, quando la vidi: purtroppo, non brillava quasi più. Allora, decisi di restare un po’ con lei e di aiutarla.

Ma come tutti i viaggi, anche il mio doveva continuare. Così salutai la stella e lei mi ringraziò, regalandomi dei semi luminosi.

Ero curioso di vedere cosa sarebbero diventati, così li seminai nello spazio. Subito cominciarono a crescere delle stelle, ma erano tanto piccole e delicate che decisi di accudirle. Quando le stelline cominciarono a brillare di più, le salutai e continuai il mio viaggio. Mentre proseguivo, lanciavo i miei semi speciali lungo il cammino. L’universo aveva bisogno di stelle e anche i viaggiatori che incontravo erano contenti di quelle nuove luci.

Finalmente, dopo un lungo, lunghissimo viaggio, raggiunsi la mia cara stella. Quando mi avvicinai, però, non c’era niente: la stella si era spenta ed io ero stato attirato dalla sua ultima luce, che viaggiava ancora nello spazio. Avevo inseguito un sogno, un’illusione, ma il mio viaggio era stato meraviglioso. Allora chiusi gli occhi e anche io, grazie ai miei semi speciali, cominciai a brillare come una stella.

Un giorno, qualcuno vide la mia luce accecante. Decise di raggiungermi e il viaggio ricominciò.

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88 cittànuova n.1 | gennaio 2016

SPORTpagine verdi

Una vittoria… di squadra

Frank Chamizo, atleta azzurro di origini cubane, ci racconta il segreto che l’ha recentemente portato a laurearsi campione del mondo nella lotta libera

«Ho iniziato a 7 anni, a Cuba. Un giorno sono entrato in una palestra, ho visto che facevano la lotta e sono rimasto immediatamente colpito dall’intensità di questa disciplina». Quando incontriamo Frank Chamizo, nel centro olimpico della Federazione italiana judo, lotta, karate e arti marziali al Lido di Ostia, il primo ricordo non poteva che andare agli inizi, alla scoperta di quello sport che lo ha subito affascinato ma che, “inspiegabilmente”, sua mamma non voleva fargli praticare. I suoi genitori, infatti, erano separati, e il papà, che si era trasferito negli Stati Uniti quando lui aveva solo due anni, era stato un nome importante nella storia della lotta cubana. Così, la madre non voleva che seguisse le sue orme. Frank, però, non ha saputo resistere al richiamo per questa disciplina. Approfittando di un periodo nel quale era rimasto solo con la nonna, ha cominciato a praticare la lotta libera, sport per il quale ha mostrato subito

una predisposizione naturale tanto che, a soli 18 anni, ha conquistato la medaglia di bronzo mondiale. Era il 2010, un anno davvero importante per lui considerato che si è anche laureato campione panamericano e ha conosciuto, durante uno stage della nazionale cubana in Italia, Dalma Caneva, anch’essa lottatrice, con cui è iniziata una storia d’amore. «Il cammino verso i Giochi di Londra 2012 sembrava essere in discesa, ma l’anno dopo, ai Mondiali di Istanbul, non sono andato bene. Poi, in una gara successiva, non ho potuto gareggiare perché non sono riuscito a stare nel peso. Per questa leggerezza sono stato squalificato per due anni dalla mia Federazione e ho dovuto rinunciare alle Olimpiadi. In quel periodo ho sofferto tantissimo – ricorda Frank – così, quando dopo i Giochi di Londra sono stato richiamato in nazionale, ero ancora troppo amareggiato per una punizione che ritenevo essere stata davvero eccessiva, e ho

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89cittànuova n.1 | gennaio 2016

Frank Chamizo

Nato a Matanzas, Cuba, il 10 luglio 1992, è uno specialista della lotta libera. Lo vedremo alle Olimpiadi di Rio, dove forse calcherà l’arena anche la moglie Dalma Caneva, pure lei lottatrice.

di Marco Catapano

dal campione olimpico, l’azero Asgarov), e infine si è aggiudicato il titolo mondiale durante la rassegna iridata disputata a Las Vegas nello scorso settembre, ottenendo anche la qualificazione per le Olimpiadi di Rio (la sua gara è in programma il 21 agosto, proprio nella giornata conclusiva). «Quando la mattina del Mondiale ho visto il sorteggio e mi sono reso conto che avrei dovuto affrontare uno dietro l’altro tutti i migliori lottatori della mia categoria, mi sembrava quasi impossibile pensare di vincere». Ecco che a tranquillizzarlo e sostenerlo arriva il suo allenatore, Filiberto Delgado, che dopo aver portato al successo diversi atleti cubani proprio quando Frank era un ragazzo, fa ora parte dello staff tecnico azzurro. «Mi ha detto di pensare un incontro alla volta. Lui a Cuba, per chi conosce la lotta, è un’istituzione, non potevo deluderlo. Così nei quarti mi sono preso la rivincita su Asgarov, in semifinale ho sconfitto l’iraniano Mohammadi, che in quel momento era il numero uno del ranking mondiale, e in finale ho battuto il fortissimo uzbeko Navruzov». Frank gareggia in uno sport individuale, ma a ben guardare i suoi recenti successi, in primis l’oro mondiale, sono frutto, oltre che del suo impegno, anche di chi ha saputo metterlo nella capacità di esprimere tutto il suo talento: la moglie Dalma, i suoceri, l’allenatore, il Paese d’origine e quello che l’ha accolto. Insomma, una vittoria… di squadra!

deciso di smettere». Dopo uno stop lungo, arriva però inaspettata una proposta. A lanciarla è Dalma, la fidanzata, che un giorno gli dice: «Sei giovane, possiedi un grande talento, vieni in Italia e vediamo se riesci a ripartire». Inizialmente scettico («un po’ perché avevo messo su molti chili e un po’ perché in Italia la lotta, a differenza di Cuba, non è molto considerata»), Frank si lascia convincere,

sposa Dalma e, grazie all’aiuto della sua famiglia (il suocero è un grande appassionato di lotta e presidente di una Polisportiva di Genova, mentre la suocera è un giudice arbitro internazionale di questo sport), si rimette gradualmente in moto. «Il loro appoggio è stato fondamentale, mi hanno accolto e sostenuto come un figlio, e da

quest’anno ho finalmente cominciato a ripagarli con una serie di risultati incredibili». Eh già, perché Frank, dopo due anni di allenamento (ha ottenuto la cittadinanza italiana lo scorso 3 gennaio), si è prima laureato campione europeo under 23 nella gara d’esordio con la maglia azzurra (a marzo), poi a giugno ha conquistato l’argento nei Giochi europei di Baku (battuto solo

(3) F

IJLK

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Frank Chamizo ai Campionati del mondo dello scorso settembre a Las Vegas,

dove ha vinto l’oro nella categoria dei lottatori fino ai 65 kg.

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90 cittànuova n.1 | gennaio 201690 cittànuova n.1 | gennaio 2016

di Cristina Orlandi

Rondelle di spinaci

INGREDIENTI PREPARAZIONE

Bocconcini da servire con l’aperitivo, ma anche per

un buon contorno, perfetto per chi non ama le verdure.

Si potrebbe sostituire la pancetta col prosciutto cotto

ed eliminare l’uvetta per una versione gradita ai piccoli.

per 4 persone

› 1 confezione di pasta sfoglia rettangolare

› 700 grammi di spinaci

› 1 scalogno

› 25 grammi di pancetta arrotolata

› 3 cucchiai di parmigiano grattugiato

› 150 grammi di scamorza

› 2 uova

› 50 grammi di uvetta

› 50 grammi di pinoli

› Latte

› olio extravergine di oliva

› semi di papavero e di sesamo

› q.b. di sale e pepe

Cuocere a vapore gli

spinaci e ripassarli in

padella dove avrete fatto

appassire lo scalogno

tagliato finemente

in 2 cucchiai di olio.

In un’altra padella

far saltare per pochi

minuti la pancetta

in un cucchiaio di

olio. In una terrina

mescolare spinaci, uova

e scamorza tagliata

a dadini, sale, pepe,

parmigiano, uvetta e

pinoli e regolare di sale

e pepe. Disporre sulla

pasta sfoglia le fette

di pancetta arrotolata,

versare il composto e

arrotolare. Distribuire

sullo strudel ottenuto

i semi di papavero e

di sesamo. Tagliarlo in

modo da formare delle

rondelle di un paio di

centimetri. Disporre le

rondelle su una pirofila

da forno e cuocere

a 180°C per circa 10-

15 min. Servire le

rondelle calde, quando

il formaggio all’interno

diventerà filante.

BUON APPETITO CON...pagine verdi

cottura10 min 180°

preparazione 60 min

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91cittànuova n.1 | gennaio 2016

EDUCAZIONE SANITARIAdi Spartaco Mencaroni

di Luigia Coletta

La clorofilla è il pigmento verde delle verdure. Negli anni ’50 la dott.ssa Wigmore ha rilevato la proprietà disintossicante della clorofilla, grazie all’apporto di ossigeno. Unendosi ai

metalli dannosi nel nostro corpo, ne facilita l’eliminazione. La clorofilla poi migliora l’anemia e la funzionalità di tutto l’apparato digerente, favorisce la pulizia del colon, l’aumento della

flora batterica intestinale ed è benefica anche per il fegato. È antiossidante, antinfiammatoria ed è considerata persino antidepressiva. Secondo alcuni studi, potrebbe aiutare a

combattere la proliferazione delle cellule tumorali. Posseggono la clorofilla tutti i vegetali di colore verde, come spinaci, broccoli, verza, rucola, cicoria, lattuga e bietola.

C’è un modo per prevenire l’influenza stagionale?La sindrome influenzale, il cui picco è atteso fra gennaio e febbraio, costituisce un importante problema di salute pubblica, per via del numero di casi e per l’impatto complessivo sulla popolazione. Può rappresentare un rischio diretto per soggetti particolarmente fragili (bambini e anziani) e per il tasso elevato di complicazioni, anche molto gravi, di malattie preesistenti (tipicamente broncopatie croniche

e cardiopatie). Il virus, della famiglia delle Ortomixoviridae, si diffonde facilmente tramite le goccioline di saliva ed è piuttosto resistente nell’ambiente esterno. La prevenzione quindi è basata su norme igieniche, richiamate anche da una nuova circolare del ministero della Salute, semplici ma efficaci, come il frequente e accurato lavaggio delle mani, l’igiene delle vie aeree e l’adozione di comportamenti adeguati al proprio stato di malattia,

specialmente vicino a persone più vulnerabili. Altrettanto efficace e sicuro è il vaccino, raccomandato sia per i soggetti a rischio, sia per prevenire la diffusione della malattia fra la popolazione, aiutando così tutti coloro che non possono proteggersi direttamente. Una scelta che tutela la salute collettiva ma che purtroppo, grazie anche a tanta disinformazione, è ancora troppo poco praticata.

La prima volta che Irene ha tagliato i capelli aveva 5 mesi. Mio padre l’ha portata dal suo barbiere di fiducia. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il barbiere, visibilmente inesperto coi bambini, ha dato per prima cosa un taglio netto alla frangetta. Ed è stata anche l’ultima, perché

abbiamo ringraziato e siamo usciti. C’è da dire che Irene è nata con un casco di bellissimi capelli neri (e non solo, tanto che l’ostetrica tenendola in mano con un sorriso mi disse: “Spenderete un bel po’ in cerette”). Quindi avrei dovuto pensare che ci fosse bisogno di un vero parrucchiere. Le volte

dopo, il nonno è rimasto a casa e siamo uscite con la nonna. Per il fratellino Michele invece è stato e sarà diverso, i suoi boccoli con meches biondo naturale non si toccano e chi dice che sia il caso di tagliarli è solo un invidioso!

ALIMENTAZIONE di Giuseppe Chella

DIARIO DI UNA NEOMAMMA

CAMBIO DI LOOKgiusep

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COME EVITARE L’INFLUENZA

LA CLOROFILLA

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Gli italiani tornano a consumare. La fiducia dà segnali sempre positivi e la crisi economica ormai è un ricordo del passato. E quando i consumi aumentano, sale anche la percentuale di rifiuti prodotti. Nel contempo però siamo attenti a fare la raccolta differenziata, che è salita al 45,2% nel 2014 (+3% rispetto al 2013), con una riduzione del 14% dei rifiuti in discarica (attualmente la percentuale è del 31%). Ma il dato più importante è lo scarto che facciamo con l’organico: 43%. Siamo molto attenti a separare i rimasugli del

nostro cibo con il resto della spazzatura. È quanto emerge da uno studio del Consorzio Italiano Compostatori sui dati Ispra 2015 (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). Questo vuol dire che siamo vicini alla soglia in cui si può organizzare una filiera di biometano per alimentare ad esempio i camion del servizio di nettezza urbana. Un bel successo grazie a piccoli e grandi comuni che spingono sulla differenziata. Milano ad esempio sfiora il 50%, così come molti comuni della Campania che da anni

hanno superato questa percentuale.«Il quadro che emerge dal Rapporto è estremamente positivo – ha commentato il direttore del Consorzio Italiano Compostatori, Massimo Centemero –. Più aumenta la raccolta dell’organico più i cittadini diventano consapevoli di quanto sia essenziale fare attenzione a ogni minimo particolare per difendere l’ambiente. E la frazione organica, che è la metà di tutti i rifiuti differenziati in Italia, è importantissima».L’80% dei nostri scarti organici viene trasformato in compost, mentre il restante va alla produzione di biogas. Un esempio è l’impianto di Acea Pinerolese, che gestisce rifiuti da raccolta differenziata provenienti da Torino e buona parte dell’area metropolitana, ed è il primo in Italia capace di produrre biometano per l’uso domestico e per autotrazione dai rifiuti organici delle città. Secondo Legambiente, rappresenta allo stato attuale la frontiera più avanzata sul fronte delle energie rinnovabili e recupero di materia da frazione organica del

Rifiuto Solido Urbano.Sarebbe però anche interessante che i cittadini che riciclano di più potessero pagare meno, cosa che in Italia non succede.

RACCOLTA E RECUPERO

SCARTO ORGANICO

IN ITALIA NEL 2014

43% raccolta differenziata dell’organico

5.721.000 le tonnellate dalla raccolta

di umido e verde

(+9.5% rispetto al 2013)

240 impianti di compostaggio

43 impianti di digestione anaerobica

operativi

1.326.000 le tonnellate di compost prodotte

da questi impianti

di Lorenzo Russopagine verdi

Aumenta la raccolta dell’organico

Secondo il Consorzio Italiano Compostatori, siamo molto attenti a separare i rimasugli del nostro cibo dal resto della spazzatura

AMBIENTE

92 cittànuova n.1 | gennaio 2016

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Dialogo con i lettoriRispondiamo solo a lettere brevi, firmate, con l’indicazione del luogo

di provenienza.

INVIA A [email protected]

OPPURE via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma

proposito di Vatileaks 2. Articoli calzanti e convincenti, efficaci nella forma e nella sostanza. Purtroppo quello che si impone e si vede di più in giro è il glabro faccione di Nuzzi e compagni. Scusate la poca carità, ma quanto è brutta quella donna Charaqui, dentro e fuori! Che gente c’era e c’è in Vaticano! Anche se come dite ci sono anche dei santi, e chissà quanto soffrono. Dio ci aiuti, povera Chiesa, povero mondo!› Lettera firmata

Il caso del nuovo Vatileaks lascia sconcertati, perché dopo la vicenda del maggiordomo Gabriele si poteva pensare che il bubbone fosse stato reciso definitivamente. In realtà anche in Vaticano c’è chi non segue il Vangelo ma i propri interessi. Papa Ratzinger e papa Bergoglio hanno cercato e cercano di fustigare tali soggetti, di eliminarli dall’orizzonte della Chiesa, ma a fatica riescono a ottenere risultati più o meno definitivi. La cupidigia e il carrierismo si sono infiltrati a più livelli. Certo è che costoro dovrebbero essere “espulsi” dalla comunità credente dal popolo di Dio che segue fedelmente il Vangelo. Anche perché questi affaristi rischiano

di screditare gravemente l’opera di coloro che vivono per Gesù e la sua Chiesa.

Poco spazio per l’inchiestaDi regola dall’articolo di copertina di un mensile ci si aspetta il servizio più corposo. Non è stato così per “Non è un paese per bimbi”. Avrei gradito maggiori approfondimenti e un commento sul fatto che, nonostante in calo, gli aborti volontari sono ancora 100 mila all’anno su 500 mila nati. Un bambino desaparecido su 5 che potrebbe essere salvato con una forte campagna di sensibilizzazione e una normativa sull’adozione del nascituro in accordo con la madre, come avviene negli Usa. Anche questo contribuirebbe alla lotta alla denatalità, ma nessuno in Italia ne parla. Coraggio allora! Tocca a voi.› Renzo Spegne Schiavoni

In un articolo non si può dire tutto, lo ripetiamo. Tuttavia non credo che la tendenza demografica fortemente negativa dell’Europa possa essere invertita con un semplice divieto di aborto. Il problema è molto più profondo, innanzitutto di ragioni culturali e spirituali: è un’intera società che sembra aver perso per strada la sua fecondità.

Il nuovo “Città Nuova”Sto leggendo il nuovo numero di Città Nuova. Ho cominciato dall’editoriale che mi ha colpito per la sua essenzialità e franchezza, quasi da commuovere. Mi sono ritrovata in pieno nelle prospettive indicate, vi ho ritrovato la radicalità e purezza dei miei “primi tempi”. Molto interessante anche l’articolo di Luigino Bruni, mette in guardia da una mentalità subdola così presente nella nostra società. La sua veste grafica invita alla lettura perché tutto è “ben incorniciato” da titoli chiari e diretti.› Lella

A parte i contenuti bellissimi, vi invio qualche critica, voglio sperare costruttiva, sull’impaginazione. Personalmente, in tutte le pagine osservo una ricerca estetizzante un poco eccessiva e autoreferenziale, ma dal mio punto di vista ripetitiva e abbastanza monotona. Pertanto la novità grafica alla fine riesce a creare un poco di noia. C’è una ricerca estetizzante, nella distribuzione dei paragrafi fine a sé stessa. Frequentemente la distribuzione dello scritto,

Valori non negoziabiliQuesta lettera è per dichiarare la mia piena sintonia con la vostra linea dopo aver letto la risposta al lettore Italo Esigibili sull’ultimo numero della rivista. Infatti un precedente articolo sui valori non negoziabili mi aveva lasciato con l’amaro in bocca. In questa ultima vostra risposta mi riappacifico completamente con voi. Quando dite: «Possono mai esistere valori “negoziabili”? Se un valore è un valore non è mai negoziabile», allora siamo d’accordo! Così come sono d’accordo con il resto della risposta.› Salvatore Pandolfo

Sulle questioni più scottanti non sempre basta un articolo o una lettera per capirsi. Nell’epoca della comunicazione più rapida e concisa che mai sia esistita, in cui si estraggono spesso e volentieri dal loro contesto parole e frasi che perdono così il loro senso, bisogna avere il coraggio di perdere tempo per capirsi. Ciò è ancora più valido oggi, in cui le culture si mescolano facilmente, spesso creando equivoci e scontri non voluti.

Vatileaks 2Ho letto qualche intervento sull’online a

cittànuova n.1 | gennaio 2016

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spesso minuscolo, sbiadito e di difficile lettura, si accompagna a “inutili” spazi vuoti. I caratteri dei titoli sono quasi tutti simili e ugualmente sottolineati, invece il genere della rubrica, in alto, molto piccola e non immediatamente leggibile. Le foto sono non belle e non bene inserite. Si è voluto fare un giornale chic per ipotetici lettori intellettuali.› Mario

Care lettrici e cari lettori, riporto solo due lettere, tra le tante ricevute, di segno opposto. A dire il vero, al 90% e forse anche di più, i commenti sono elogiativi e voi lettori vi ritrovate nella proposta che abbiamo elaborato. C’è un 10%, a spanne ovviamente, che fa invece fatica a “lasciare” il precedente progetto grafico. Che dire? Sui contenuti il consenso è unanime, o quasi, mentre sulle scelte grafiche registriamo dei distinguo. De gustibus disputandum non est, sentenzierebbero i latini. Tuttavia stiamo raccogliendo commenti e suggerimenti per valutare assieme ai grafici della Humus Design, che hanno elaborato il progetto, eventuali modifiche. Grazie infinite per i contributi dei nostri straordinari lettori.

Dopo Parigi/1Sacrosanto esprimere le condoglianze alle famiglie degli assassinati a Parigi. Commentare la strage di Parigi, avvenuta al grido di Allah Akbar significherebbe accettare di essere immersi nella solita nuvola “emotivamente corretta”, dove ci

costringono i media, eccitandoci o calmandoci a loro piacimento. Ho riletto il discorso a Ratisbona di Ratzinger e il libro Soumission di Houellebecq, lì c’è già scritto tutto, sottomettetevi e vivrete. Tanto fra qualche giorno, dopo un’ubriacatura di paroloni (mattanza, terrore, kamikaze, orrore), lo spreco di “je suis qualcosa”, i colti ci spiegheranno che gli 8 franco-belga-musulmani erano fondamentalisti (con l’uso di questo termine i nostri leader si mettono la coscienza a posto), erano criminali comuni, dobbiamo difendere l’Islam moderato. A Firenze, un consiglio di classe vieta a bambini delle elementari di visitare una mostra di arte sacra (Chagall, Picasso, Matisse) per non urtare la sensibilità degli islamici. Che c’entra una classe elementare fiorentina col Bataclan? C’entra, eccome, nel mondo magico della comunicazione politica tutto si tiene. È inutile commentare fatti sui quali chi fa le scelte è incapace di analisi e di decisioni. Ogni volta ci riempiono di emozioni, ma mai ci hanno spiegato il vero scenario di riferimento: la guerra non è fra Isis e noi, è fra due scismi religiosi dell’Islam, gli sciiti (Iran) e i sunniti wahhabiti (Arabia Saudita) che si odiano e si combattono da centinaia d’anni. Le guerre non si fanno sull’emotività del momento, ma valutando il “dopo”. Soprattutto rispondendo a una domanda chiave: siamo disposti che i nostri

Le tinte con cui dipingere le nostre città

degli ultimi mesi sarebbero scure, i modi

con cui descrivere i rapporti tra le persone,

specie se sconosciute e straniere, sarebbero

freddi e sospettosi, gli atteggiamenti con

cui esprimere gli scenari voluti dai media

sarebbero soprattutto di assuefazione, se

non di paura. Eppure quello che è stato

proposto a Gaeta è assolutamente in

controtendenza. Abbiamo pensato di fare

qualcosa che fosse d’impatto verso questa

deriva e cioè far incontrare un autore di Città

Nuova che potesse aiutarci a rendere meno

tetra l’atmosfera, a migliorare i rapporti tra

tutti noi e ad avere una visione diversa e

più vicina alla realtà dei conflitti che oggi

ci sono nel mondo. Ecco quindi che, anche

attraverso l’Associazione “Due o più” di

Gaeta, che dal 2010 diffonde la “cultura del

dare”, abbiamo promosso un evento nella

galleria commerciale del corso principale nel

pomeriggio di un sabato pre-natalizio. Oggi

possiamo dire che la sfida, grazie anche

a Roberto Catalano, autore di numerosi

articoli e testi sul dialogo interreligioso, è

stata vinta. Numerose persone, attratte dal

manifesto con cui si annunciava l’evento e

incuriosite dal banco di libri e riviste di Città

Nuova, venivano presentate all’autore che

si intratteneva a parlare di come lui fosse

riuscito in India a guadagnare la fiducia di

persone di culture e religioni le più varie,

di come superare la diffidenza, di quanto la

guerra non rappresenti mai la soluzione di

un problema. Il messaggio che è emerso è

che per vincere la paura bisogna imparare a

dialogare. E, grazie a Città Nuova, qualcuno

ha cominciato a farlo.  ALESSIO VALENTE - GAETA (LT)

[email protected]

IL DIALOGO PER SUPERARE LA PAURA

La nostra città.

di Michele Zanzucchi

cittànuova n.1 | gennaio 2016

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Ma soprattutto mi pare vera la conclusione della sua lettera: le guerre di oggi sono asimmetriche e inedite, al punto che possono essere vinte solo con la forza mite dell’Amore, quello con la maiuscola.

Dopo Parigi/2Cari giornalisti, cari politici, cari cittadini, cerchiamo di fare chiarezza e dire la verità e chiedersi perché stanno succedendo queste disumane stragi, dall’aereo fatto esplodere in volo alla strage di persone innocenti in Francia.Inviterei a porsi queste domande, per poi trovare delle risposte trasparenti di verità. Per chi è utile mettere in circolazione tante armi? Chi ha creato Daesh? Chi li addestra? Chi li finanzia? Chi fornisce le armi? Chi li sostiene politicamente? Se sapremo e avremo il coraggio di dare risposte sincere e oneste a

queste domande, allora saremo sulla strada giusta e buona per prevenire le stragi e per costruire la vera pace per tutti. Sì alla cultura dell’umiltà, dell’ascolto, del linguaggio corretto e rispettoso, sì alla cultura del contagio dell’amore, che sarà quello che ci salverà e salverà il mondo.› Francesco Lena

Dopo Parigi/3Dopo questo ennesimo episodio di barbarie più che deplorevole, tutti si sono mossi e ne parlano. Ma come mai ora tutto questo scalpore? Le vittime dell’aereo russo non erano esseri umani come le vittime di Parigi? E tutte le vittime nei vari naufragi non meritano la stessa attenzione delle vittime di Parigi? E tutti i cristiani, e non, trucidati ovunque sotto il silenzio dei mass media, non meritavano lo stesso cordoglio? Mi

sembra che ci sia un po’ di strumentalizzazione o mi sbaglio?› Lucio Baruzzo

Quant’è vero quanto lei dice! Le società occidentali, che si vantano giustamente di essere “la patria” dei diritti dell’uomo, considerano il peso specifico dei morti in maniera diversa a seconda degli interessi in gioco e della risonanza mediatica ottenibile. C’è qualcosa di disumano in tutto ciò.

Dopo Parigi/4Alla Presidente della Rai Monica Maggioni: «Nei Tg Rai da diversi giorni è drasticamente aumentata la trasmissione di immagini di guerra: esplosioni, carri armati, bombe sganciate da aerei, lancio di missili, soldati in combattimento. Riconoscendo il buon livello di informazione Rai anche relativamente ai drammatici fatti di Parigi, Mali, ecc.,

figli e nipoti vadano a morire? E se sì, sono capaci di combattere? Noi gli abbiamo insegnato che solo con l’Amore si vincono le guerre.› Giovanni Arletti

È vero, gran parte delle cause del terrorismo attuale (non tutte però) vanno cercate nel conflitto tra sciiti e sunniti. È vero, le categorie “moderati” e “fondamentalisti” non spiegano nulla, anche perché sono state elaborate in America del Nord in ambiente cristianissimo. È anche vero che i media stanno banalizzando ogni cosa e, peggio, stanno suscitando paure d’ogni genere pur di vendere. È altresì vero che Ratzinger a Ratisbona ha sostanziato in maniera mirabile l’incomprensione tra certo mondo arabo-islamico e certo mondo occidentale-cristiano. E non nego che Houellebecq qualcosa di vero l’abbia scoperto, nella resa di certo Occidente.

cittànuova n.1 | gennaio 2016

FIGLI DA MANTENERELa signora Luisa di Roma

è anziana e ha due figli,

uno in carcere e uno

disoccupato. È malata,

alcune medicine le deve

pagare a prezzo intero,

riceve 650 euro al mese di

pensione e la reversibilità

di quella del marito. Paga

di affitto 500 euro. Le

abbiamo portato aiuti in

viveri, ci ha fatto vedere il

frigo vuoto perché non sa

come fare per la spesa e

le bollette.

POVERTÀ ESTREMAA Ponte di Nona abitano

due famiglie molto povere.

In due stanze, cucina e

bagno, abitano Gionata, 28

anni, la moglie Samuela,

26 anni, la figlia Violetta,

5 anni, e il piccolo Iacov,

7 mesi. In più un’altra

coppia giovane. Non hanno

le sedie né il tavolo per

mangiare. Però abbiamo

notato tanta serenità.

Servono aiuti concreti.

AIUTO DOPO IL CARCEREAttraverso Città Nuova

ha scritto Campos Cico,

26 anni, detenuto presso

la casa circondariale di

Cremona. «Sono in carcere

dal 2012 per degli errori

fatti in passato e ho il fine

pena nel 2017. Convivo con

una ragazza e ho un bimbo

di 4 anni. Ci vogliamo molto

bene, ma non ci sono le

condizioni economiche

per stare bene insieme. Vi

chiediamo sostegno per

ricominciare».

Guardiamoci attorno a cura dell’associazione Progetto Sempre Persona

Invia il tuo contributo tramite c.c.p. n. 34452003 oppure tramite bonifico bancario (Iban IT46R07601032000000 34452003) intestato a Città Nuova della PAMOM, specificando come causale “Guardiamoci attorno”. Oppure scrivi a Città Nuova, via Pieve Torina 5500156 Roma.Le richieste di aiuto si accettano solo se convalidate da un sacerdote. Scrivete a [email protected] o all’indirizzo di posta. Verranno pubblicate a nostra discrezione e nei limiti dello spazio disponibile.

Dialogo con i lettori

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97cittànuova n.1 | gennaio 2016

chiediamo espressamente di evitare la trasmissione di immagini militari o relative ad azioni di guerra perché desideriamo che i nostri figli non bevano come acqua ai pasti tali immagini. Le informazioni sulle tragedie avvenute possono infatti essere date anche in altro modo. Confidiamo nella sua sensibilità, tanto più che lei stessa ha sfidato l’Isis decidendo di non trasmettere più i loro filmati».› Pierpaolo e Patrizia D’Ippolito

Dopo Parigi/5Grazie per i vostri articoli e commenti che fan vedere quanto complessa sia la realtà di questo momento. A Parigi abbiamo visto dei giovani che riescono ad uccidere a sangue freddo altri giovani, a fabbricare cinture esplosive per il proprio fratello, a farsi strumento di paura collettiva. Sentiamo tanti, anche a livello di governo, credere ancora che per risposta bisogna “mostrare i muscoli”. L’unico muscolo che credo serva mostrare è quello del cuore, che spinga a guardare in faccia le persone, a sentire nella propria pelle i disagi e le sofferenze altrui. E che altro fare? Andare a bombardare, così da far fuori un altro po’ di armamenti e magari per errore colpire gente che non c’entra per niente? No. Uccidere i terroristi? Farne eroi, così da giustificare, come se ce ne fosse bisogno, altro

spargimento di sangue? No. Ricordo quanto è successo in Italia al tempo degli “anni di piombo” e come l’aver consegnato alla giustizia, sottoponendo a processo, con diritto alla difesa, quanti si erano resi responsabili di omicidi e atti contro la collettività, sia servito, almeno in parte, a chiarire le cose e anche offrire a chi aveva pesantemente offeso di avviarsi su un percorso di redenzione.› Cristina

Democrazia assistitaLa Corte costituzionale ha stabilito che, in caso di procreazione assistita, potranno essere impiantati solo gli embrioni sani. I divieti che impongono il rischio di generare un figlio gravemente malato sono inaccettabili ma di fatto questa decisione sposta la lancetta verso l’ammissibilità di pratiche sanitarie pericolose e border line ed è un passo notevole verso l’eugenetica. Purtroppo in Italia abbiamo 12 stimatissimi costituzionalisti che si sostituiscono al Parlamento con decisioni così delicate. Siamo una democrazia giurisprudenzialmente assistita. › Cristina Pani

Concordo con lei sul fondo della questione, anche se non credo vada dimenticata la prudenza del dialogo con un modo di pensare laico che può aiutarci a non essere troppo “confessionali” nel nostro modo di giudicare cose e fenomeni.

A proposito dell’articolo “La buona scuola si autovaluta” di Pasquale Lubrano, apparso sul sito www.cittanuova.it il 7-11-2015

Ideologia «La scuola di mia figlia ha stabilito un

calendario per consentire alle famiglie di incontrare i

docenti. Essendo io e mia moglie impegnati al lavoro,

avremmo dovuto prendere una settimana di ferie.

Sono andato a vedere il Rapporto di autovalutazione

della scuola di mia figlia. Una delle criticità riguarda

proprio il coinvolgimento delle famiglie nella vita

scolastica. Mi sono rallegrato e ho ringraziato chi

ha pensato questo strumento di valutazione che le

scuole fanno sul proprio operato. Ho capito che il mio

problema non era personale, ma riguardava la logica

organizzativa di quella istituzione. Il rapporto mi ha

dato la possibilità di andare dal preside il quale mi

ha ringraziato e ha calendarizzato una riunione per

affrontare la questione. Se usciamo dall’ideologia

a favore/contro la valutazione (auto) e scendiamo

nel merito, fino a leggere gli indicatori previsti nel

questionario, vediamo che ci sono molte cose che

vanno nella direzione dei valori indicati nell’articolo.

C’è, ad esempio, un capitolo sull’inclusione degli

alunni in difficoltà, diversamente abili, immigrati,

culturalmente deprivati e sulle modalità di risolvere

queste situazioni di svantaggio da parte della scuola,

fino a prevedere azioni individualizzate di recupero.

Magari succede che se facciamo la fatica di guardare

nel dettaglio troviamo tanti don Milani e Montessori

già all’opera. E, dove non ci sono, possiamo

richiamare la scuola al suo dovere! È proprio un male

questa scuola che si auto-valuta?». Gennaro Iorio

Sono contento di sapere che in molte o poche scuole

c’è un giusto concetto della valutazione. Come

pure penso che anche lì dove la scuola entra con

delicatezza nel sistema valutativo ci sarà sempre

qualche docente che non sarà d’accordo.

Ritengo però che la valutazione sia argomento

complesso, spinoso e controverso nel quale

intervengono fattori di carattere sociologico,

psicologico, pedagogico. Quello che volevo

sottolineare è la non condivisione del tentativo

implicito di trasformare la scuola “da comunità

educante ad azienda” e di riportare un certo

tecnicismo statistico nel sistema valutativo,

che diventa dannoso nel processo formativo dei

ragazzi. P.L.

L’AUTOVALUTAZIONE NELLE SCUOLE

Riparliamone.

di Michele Zanzucchi

a cura di GIANNI ABBA

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98 cittànuova n.1 | gennaio 2016

Cattive abitudini

Bastano pochi mesi per vederle cambiare passo e assumere quella tipica andatura da ragazze di pianura, quella leggera cantilena nella voce e modi di fare delicatamente frettolosi. Bastano pochi mesi per notare che perdono i chili in eccesso, iniziano a vestirsi in modo diverso e spesso danno un taglio ai capelli (e alla propria vita precedente). Osservo da anni le giovani ragazze che arrivano a Milano, per lavoro o per studio, e ogni volta mi stupisco: cambiare abitudini le cambia, cambiare città le cambia. Forse perché la città plasma e libera, consente alle persone di essere diversamente sé stesse, senza destare commenti né curiosità. Quella trasformazione che a tante ragazze sarebbe impedita nei luoghi dove sono nate e cresciute e dove tutti hanno già un’opinione su di loro, in città avviene naturalmente e per emulazione. L’anonimato e la possibilità di muoversi in contesti sconosciuti e tra persone ignote sono condizioni privilegiate per inventarsi un nuovo modo di essere. Le guardo con tenerezza queste ragazze che tra i banchi della mia università tramutano in pochi mesi in bellissime farfalle. Non è una società che si muove e che cambia la nostra. 9 italiani su 10 trascorrono la vita all’interno della stessa provincia e spesso nella stessa casa, cambiare lavoro è difficile e non è quasi mai considerato un bene. Forse sarà anche per questo che siamo una società che tende a invecchiare, a

vivere di rituali consumati, a ripetere il già visto e sentito. Ci sono contesti culturali, penso al Nord America o al Nord Europa, che riconoscono nella varietà delle esperienze condotte nella vita e nel cambiare un valore collettivo e uno stile di vita per tutte le età e le condizioni sociali.E noi? Siamo destinati a ripeterci come un’eco in una gola profonda? «Non girare mai il cucchiaino del caffè dalla stessa parte, altrimenti sei già morta», mi ammonisce un amico saggio durante la pausa pranzo. Comincio a porre attenzione ai piccoli gesti automatici. È vero: fare e rifare le stesse cose, farle come si è sempre fatto, pensare che non si possano fare diversamente, ci ricopre di polvere come soprammobili che nessuno spolvera. Se mangiare le stesse cose, frequentare persone che ci rassomigliano, andare dai suoceri tutte le domeniche, tenere sempre lo stesso posto a tavola e mai una domenica senza la pasta al forno, ci paiono appigli rassicuranti, tuttavia nel tempo rischiano di chiuderci e privarci del gusto di scoprire cose nuove.Non è difficile provare a rinunciare alle “cattive abitudini”, ingaggiare una pacifica guerra alle nostre piccole e pigre abitudini, sperimentare il nuovo… e vedere di nascosto l’effetto che fa.

CITTÀ CHE CAMBIA

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ult

ima

ferm

ata

di Elena Granata

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