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TEMI E TESTI138

“RELIGIONI FRONTIERE CONTAMINAZIONI”SERIE DIRETTA DA MARINA CAFFIERO

MAGIA, SUPERSTIZIONE, RELIGIONE

UNA QUESTIONE DI CONFINI

a cura di

MARINA CAFFIERO

ROMA 2015EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA

Publishing editorGiacomo Scarpelli

Editor in chiefFederica Buongiorno

Advisory boardNunzio AlloccaAntonello D’AngeloPaolo D’AngeloArne De BoeverRoberto EspositoAntonello La VergataThomas MachoMarcello MustèJean-Luc NancyMaria Teresa PanseraFabio PolidoriLorena PretaVallori RasiniPaola RodanoWolfgang RotherEmanuela ScribanoFrancesco Saverio Trincia

Editorial boardCristina BasiliMarco CarassaiSimone GuidiAntonio LucciIgor PelgreffiLibera PisanoGiulia RispoliAlberto RomeleChristoph Wulf

EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA

AZIMUTHPhilosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age

VI (2018), nr. 11

Life and ConceptInterpretations of

Michel Henry’s Phenomenology

Vita e concettoInterpretazioni della fenomenologia

di Michel Henry

edited by • a cura diJean Leclercq - Ilaria Malaguti – Roberto Formisano

«Azimuth», VI (2018), nr. 11Semiannual review© 2018 Edizioni di Storia e Letteratura - InschibbolethDirettore responsabile: Giacomo Scarpelli

Cover: Tycho’s Wall Quadrant. An engraving of Tycho Brahe in his Uraniborg observatory on the island of Hven, probably from the 1598 printing of his Astronomiae instauratae mechanica (detail).

ISSN (paper): 2282-4863ISBN (paper): 978-88-9359-183-6ISBN (e-book): 978-88-9359-184-3

Editorial contact: [email protected] - www.azimuthjournal.com

Administrative offices:Edizioni di Storia e Letteratura, via delle Fornaci, 38 – 00165 Roma – Italytel. +39.06.39.67.03.07 – fax +39.06.39.67.12.50e-mail: [email protected] - www.storiaeletteratura.it

Annual subscription 2018 (two issues): Italy € 44,00; Europe € 65,00; Rest of the world € 89,00 - free shipping

For subscriptions and purchases (paper, e-book, single essays) please refer to www.storiaeletteratura.it or write to [email protected]

All essays are subjected to double blind peer-review.

Tutti gli articoli sono sottoposti a doppia blind peer-review.

«Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age» is a semi-annual journal of philosophy, jointly published by Edizioni di Storia e Let-teratura and Inschibboleth. We have chosen to combine our energies, enthusiasm and competences, while respecting our different backgrounds and catalogues, to support a project which we both believe in – and the people who have created it and continue to implement it with diligence and perseverance.

Aside from being a stimulating avenue for mutual engagement, this collaboration is the path to be followed to ensure the establishment and continued existence of a high-quality publishing enterprise. We trust that «Azimuth» will continue to grow and – as its name implies – become a point of reference for philosophical studies both in Italy and abroad.

CONTENTS

Life and Concept Interpretations of Michel Henry’s Phenomenology

Preliminary Notes ............................................................................................. 9

LEONARDO SAMONÀ, La vita e lo spirito. Hegel e Henry ................................ 13

JEAN LECLERCQ, Michel Henry e i nodi epistemologici di una ‘fenomenologia materiale’ ................................................................................ 29

STEFANO BANCALARI, Modelli fenomenologici di intersoggettività: la posizione di Michel Henry ........................................................................... 45

CARLA CANULLO, Michel Henry tra Krisis e critica. La filosofia nell’epoca della barbarie .................................................................................. 61

FELICE CIRO PAPPARO, Lo strazio e l’accoglienza. La violenta lettura henryana di Nietzsche ....................................................................................... 77

FABIO GRIGENTI, Su barbarie e tecnica in Michel Henry ................................ 91

GIULIANO SANSONETTI, La fenomenologia della vita in discussione: tra Michel Henry e Renaud Barbaras .............................................................. 103

GIUSEPPINA DE SIMONE, Tradurre Michel Henry. Note a margine ................ 119

STEFANO SANTASILIA, L’indigenza del fondamento. Michel Henry interprete di Meister Eckhart ........................................................................................... 131

ROBERTO FORMISANO, L’eredità ‘impossibile’. Fenomenologia e filosofia dell’immanenza a partire da Fichte e Michel Henry ...................................... 147

«Azimuth», VI (2018), nr. 11© 2018 Edizioni di Storia e Letteratura – http://storiaeletteratura.it/category/azimuth/ISSN (paper): 2282-4863 ISBN (paper): 978-88-9359-183-6 ISBN (e-book): 978-88-9359-184-3

6 CONTENTS

CLAUDIO TARDITI, Michel Henry e il progetto di una ‘fenomenologia non-intenzionale’ ........................................................ 165

***ABSTRACTS .......................................................................................................... 177

LIFE AND CONCEPT

INTERPRETATIONS OF MICHEL HENRY’S PHENOMENOLOGY

edited by Jean Leclercq – Ilaria Malaguti – Roberto Formisano

MICHEL HENRY TRA KRISIS E CRITICA

LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

Sebbene Michel Henry non sia stato un pensatore della crisi né un filoso-fo del pensiero ‘critico’, il suo testo La barbarie1, prima ancora i due volumi su Marx2, presentano una critica serrata alla cultura del suo e, diremmo, del nostro tempo, una cultura in cui è stato occultato ogni riferimento alla vita e alla sua essenza. Occultamento messo in atto tramite un rovesciamento contro il quale Henry si è battuto con tutta la sua opera e che egli ha proposto di superare tramite la fenomenologia. L’incontro con questa via filosofica non è stato casuale: nella fenomenologia, infatti, Henry ha individuato un percorso che rendesse possibile il rovesciamento del metodologismo imposto al pensiero al fine di cogliere di nuovo quello che la matematizzazione della realtà ne aveva occultato – innanzitutto la vita. Questo rovesciamento raddoppiato, ‘rovescia-mento del rovesciamento’ che vuole ripristinare quello che il pensiero moder-no ha rimosso, è a nostro avviso il momento critico della filosofia di Henry.

Si tratterà allora di vedere se e in che modo questa proposta fenomenolo-gica ha ritrovato quello che è stato dimenticato e occultato e come ‘il rimosso’ della filosofia è stato ridonato al pensiero. Se ciò sarà mostrato, allora sarà colto anche il tratto critico del pensiero di Henry, capace non soltanto di contestare il suo tempo ma anche di proporre ciò che può rinnovarlo. Lo faremo discuten-do alcuni temi de La barbarie, opera che sarà interrogata muovendo da questo interrogativo: qual è il legame tra la barbarie e la ‘sua’ critica? Tale legame sarà messo a tema chiarendo due motivi che, nella nostra epoca, hanno subito un radicale rovesciamento, la cultura e la psicanalisi che, nata come cura dell’ani-ma, ha perduto quest’ultima nel momento in cui ha perso e occultato la vita.

1 M. Henry, La barbarie, Paris, Grasset, 1987.2 M. Henry, Marx, 2 voll., Paris, Gallimard, 1976.

«Azimuth», VI (2018), nr. 11© 2018 Edizioni di Storia e Letteratura – http://storiaeletteratura.it/category/azimuth/ISSN (paper): 2282-4863 ISBN (paper): 978-88-9359-183-6 ISBN (e-book): 978-88-9359-184-3

62 CARLA CANULLO

1. Filosofare alla rovescia, ovvero: verso il rovescio dimenticato.

La prima parte di Incarnazione. Una filosofia della carne3, è intitolata Il rovesciamento della fenomenologia. Qui Henry riassume efficacemente la tesi già discussa in altre opere e propone una sorta di genealogia del sapere filosofico che, nato in Europa, è stato poi assunto in comunità scientifiche non europee. Prima di affrontare il tema, però, vale la pena annunciare il quadro nel quale queste osservazioni si collocheranno, quadro che muove da una difficoltà.

Ciò che comunemente chiamiamo filosofia inizia, o almeno assume questo nome, in Grecia. È in questo ‘luogo’ dello spirito che la parola logos assume il valore di principio razionale che fonda la conoscenza delle cose. È in Grecia, inoltre, che nasce il termine che dà il titolo all’opera di Henry, ossia barbaros e, di qui, barbarie. Il termine indicava, com’è noto, quanti non parlavano il greco e non appartenevano alla koinè culturale condivisa. Nel termine non c’era, perciò, alcuna nota negativa, nota che invece assume in Henry. Barbaro, in Grecia e a Roma, significava balbettante, che non conosce la lingua perché è straniero e di altra stirpe. Invece Henry, pur stigmatizzando la barbarie, con la sua proposta fenomenologica non vuole comunque parlare la lingua greca del logos che illumina ogni conoscenza. Agli occhi di un greco antico, egli sarebbe dunque stato ‘barbaro’. Ma altrettanto ‘barbaro’, Henry lo è altresì agli occhi della filosofia moderna impostasi con la svolta scientifica galileiana.

Su questa sua ‘barbarie’, Henry torna in più luoghi4. In questo gioco di prospettive e rovesciamenti speculari che egli pone in atto, la famosa critica all’idea greca di manifestazione5 che riduce l’umanità dell’uomo al suo essere nel mondo è soltanto un aspetto del pensare greco che egli contesta. Il secon-do aspetto concerne proprio il Logos, parola che, unendosi con phainomenon, dà luogo a quello che nel ventesimo secolo ha trionfato come fenomenologia6, ossia quella corrente filosofica che s’interroga sulle condizioni dell’apparire. Contro la ‘fenomenologia storica’ di Husserl e Heidegger – in cui «fenome-nicità e Logos sono intesi in senso greco, l’apparire che indicano entrambi è

3 M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne, ed. it. a cura di G. Sansonetti, Torino, SEI, 2001.

4 Cfr. soprattutto M. Henry, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, ed. it. a cura di G. Sansonetti, Brescia, Queriniana, 1997, pp. 31-39; cfr. anche Henry, Incarnazione, pp. 48-51.

5 Esemplarmente sviluppata in Henry, Io sono la verità, p. 33.6 Cfr. M. Henry, Fenomenologia materiale, ed. it. a cura di P. D’Oriano, Milano, Guerini

e Associati, 2001, p. 61.

63LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

quello del mondo»7 –, Henry cercherà una via diversa di manifestazione, che non alieni la fenomenalità dai fenomeni individuandola in altro dai fenomeni stessi. Infatti, se il mondo è ciò in cui tutto appare, ciò vuol dire che 1) esso costituisce la condizione di possibilità di ogni manifestazione ma anche che 2) tale condizione è un ‘au dehors’ estatico di cui la fenomenalità ha bisogno per manifestarsi. Ma per Henry, non solo la fenomenologia contemporanea bensì l’intera filosofia occidentale è «quella il cui logos è la fenomenicità del mondo»8: questo è il pregiudizio sul quale essa si fonda. Si tratta di una cri-tica forte, forse anche troppo tranchant, ma che si giustifica se andiamo alla radice della questione che ha guidato l’autore fin dalle ricerche di L’essence de la manifestation, il cui scopo era appunto quello di fornire una fondazione fenomenologica alla scoperta di una fenomenalità puramente immanente, priva di ogni trascendenza, capace di «sorgere e compiersi indipendentemen-te dal movimento nel quale l’essenza si slancia e proietta in avanti nella forma di un orizzonte»9, indipendente dalla fenomenalità del ‘mondo’.

In questo senso, dunque, nella misura in cui rifiuta il linguaggio greco per cogliere l’essenza della manifestazione, Henry è deliberatamente barba-ro: egli non parla il linguaggio della filosofia greca, ma neppure il linguag-gio della modernità, la quale assegna il primato alla rappresentazione che oggettiva tutto ciò che conosce. La barbarie di Henry si esprime pertanto nella volontà radicale di spingere la fenomenologia oltre qualunque forma di oggettivismo, in qualunque modo quest’ultimo possa esser pensato e assunto dalla filosofia. Siffatta barbarie non conduce però al rifiuto di ogni forma di razionalità, ma alla ricerca di un modo autentico d’intendere la stoffa della ragione stessa, ossia la ‘carne impressionale’ sulla quale si fonda il primo momento di ogni conoscenza, come Descartes aveva ben intuito conferman-do il cogito con il suo «at certe videre videor».

Chi frequenta l’opera di Henry conosce già la sua interpretazione di questo passo cartesiano: dopo aver sospeso il rapporto con il mondo attraverso una sorta di ‘epoché ante litteram’ che lo conduce alla scoperta dell’irriducibilità dell’«ego sum, ego existo», Descartes produce un ultimo argomento che difenderebbe tale scoperta dall’assalto del dubbio: «At certe videre videor, audire, calescere»10, che Henry traduce: «À tout le moins il

7 Henry, Incarnazione, p. 49.8 Henry, Fenomenologia materiale, p. 165.9 M. Henry, L’essence de la manifestation (1963), Paris, PUF, 19902 ; per le due citazioni,

cfr. pp. 279-280.10 Cfr. R. Descartes, Meditatio II, in Id., Meditationes de Prima Philosophia, Paris, Vrin,

1978, p. 30.

64 CARLA CANULLO

me semble que je vois, que j’entends, que je m’échauffe»11. Perciò con le sue meditazioni Descartes non soltanto inizia la modernità, ma pone anche la questione del cominciamento in quanto ricerca di un punto iniziale. Contro il pensiero aristotelico per il quale la filosofia iniziava con la meraviglia che conduceva poi la domanda sull’essere al quale spetta ogni primato, Descartes scopre le je pense e inaugura la tradizione metafisica che di quest’ultimo sancisce il primato. Pensare, tuttavia, per un verso è, in linea con la tradizione logocentrica greca, un atto estatico in quanto rivolto a un oggetto che il pensiero si rappresenta, ma per altro verso è atto immediato. Se allora, come scrive Descartes, anche sentire è pensare, tale sentire è un sentire ‘qualcosa’ la cui condizione di possibilità è il fatto stesso di poter provare e sentire. Perciò, «al sentire che regna nel vedere, nel sentire, nel toccare (…) si oppone (…) il sentire se stesso», per il quale il pensiero è ciò che è, ossia «l’originario apparire a sé dell’apparire»12. E poco dopo: «Il vedere può vedere ciò che è visto soltanto perché esso è innanzitutto possibile come vedere, è cioè percepito in se stesso (…). Essa è l’originario apparire a sé dell’apparire»13.

Questo passo conferma che la questione henryenne non si gioca su ciò che è visto ma sulla possibilità di tale visione, questo «mode de donation» a proposito del quale precisa che «questo modo puro (…) è la fenomenicità pura che deve giungere essa stessa all’apparenza conformemente al proprio potere»14. La ‘fenomenologia materiale’, ossia la fenomenologia concepita da Michel Henry, è una fenomenologia che non ha a che vedere con dei contenuti, ma che si propone di «leggere nella fenomenicità compiuta la struttura del suo modo di compimento, struttura che si esaurisce nella materialità di questa fenomenicità effettiva e concreta. (…) Struttura vuol dire il come secondo cui si fenomenizza la fenomenicità in quanto come identico alla propria effettuazione»15. Descartes tradirà la sua idea iniziale privilegiando non già la struttura (o il ‘come’) del pensiero ma l’intelletto che lo coglie. In tal modo, l’ek-stasis dell’apparire prevarrà sull’affectivité, ossia sulla possibilità di ricevere le impressioni – possibilità che si dà prima di ogni conoscere estatico e che, addirittura, è all’origine di ogni sapere. Invece, la dimensione estatica – già propria del Logos greco – diventerà il

11 M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le commencement perdu, Paris, PUF, 1985, p. 25.

12 Ibidem, p. 31.13 Ibidem, p. 33.14 Ibidem, p. 35.15 Ibidem, pp. 35-36.

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fondamento di ogni conoscere. All’auto-affezione dell’affettività primor-dinale si sostituirà il primato della rappresentazione della coscienza. Di conseguenza, quanto appartiene all’ambito dell’affettività sarà considerato come inconscio che non può essere rappresentato – o che si sottrae alla rappresentazione.

Ora, questo inconscio è il ‘rovescio dimenticato’, abbandonato, perdu-to non soltanto da Descartes ma anche da Kant e dalla fenomenologia di Husserl e Heidegger, i quali hanno rovesciato la fenomenologia perdendone la materialità. Rovesciare di nuovo la fenomenologia significherà perciò tornare a questo inconscio che è il rovescio che sta dietro il lato diritto e visibile, dietro la superficie. Vi sono tuttavia almeno due modi possibili di intendere il rovesciamento e il rovescio: un rovesciamento tematico, ossia un rovesciamento dell’ordine delle questioni e temi da trattare, e un rovescia-mento più propriamente filosofico/fenomenologico. Un esempio del primo ci è offerto proprio dall’operazione cartesiana, che rovescia l’ordine metafi-sico-aristotelico fondato sul primato ontologico per partire da una certezza più radicale, la certezza dell’io. Il secondo, che chiameremo rovesciamento filosofico/fenomenologico, cerca di mettere in luce il lato rovescio delle cose, ossia la loro stoffa o struttura. Tale è, a nostro avviso, il rovesciamento hen-ryen, questo rovesciamento che fa dell’opera di questo filosofo un «filosofare alla rovescia», o meglio: a rovescio – rovesciando i motivi fenomenologici; verso il rovescio – al fine di tornare a ciò che è stato rimosso o perduto.

E ciò che è stato perduto è quella vita che soltanto l’autoaffezione ci per-metterebbe di riscoprire e che si sottrae a ogni ekstasis del pensiero. È per arrivare a questa vita – inizio perduto della filosofia – che Michel Henry si fa barbaro, rifiutando il linguaggio greco della filosofia con cui si confronta.

2. Il rovescio del linguaggio.

Se barbaro è colui che non parla il linguaggio nel quale la comunità dotta si riconosce, Henry – né greco, né moderno – è barbaro. Egli cerca di inaugurare una nuova forma di linguaggio che non sia pura astrazione ma che venga da quel rovescio che il suo metodo intende (ri)portare alla luce, un linguaggio della materialità, un linguaggio filosofico ‘più greco’ del greco e, perciò, ‘autenticamente greco’16. Affinché, tuttavia, siffatto linguaggio sia autenticamente greco, autenticamente filosofico, deve assumere la stessa

16 Cfr., sullo stesso tema, M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in Id., In cammino vero il linguaggio, Milano, Mursia, 1973, p. 112: «Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancora più grecamente».

66 CARLA CANULLO

forma linguistica del linguaggio che intende rifiutare – ché, altrimenti, chiamandosi semplicemente fuori dalla filosofia tradizionale, non ne per-metterebbe il rinnovamento radicale che pure rivendica. Riscrivere il greco in greco, ritrovare la radice stessa del linguaggio greco significherà allora ritrovare quel rovescio (perduto, come il suo cominciamento) del linguaggio che in greco si dice pathos. «Pathos indica il modo del fenomenalizzarsi secondo il quale si fenomenalizza la vita nella sua autorivelazione originaria, la materia fenomenologica di cui quest’autodonazione è fatta, la sua carne. (…) Se la vita rivela originariamente soltanto la propria realtà, ciò accade perché il suo modo di rivelazione è il pathos (…), questa pienezza di una carne immersa nell’auto-affezione del suo soffrire e del suo gioire»17.

Se il lato diritto del linguaggio sta nel suo esprimere cose, il lato rovescio sta nel portare a manifestazione ciò che non è esprimibile altrimenti che attraverso questo pathos. La parola del pathos, cioè, non è pronunciata ma si pronuncia, accade così come lo fa la sofferenza:

La Parola originaria della vita per ogni vivente è dunque la propria vita. (…) Consideriamo la sofferenza che io provo. Non dice, ad esempio: “Io soffro, qual-cuno ne è colpevole” – lasciando al pensiero il compito di aggiungere qualcosa a quello che essa prova (…). Ciò che essa dice, nella sua nudità, nella sua ingenuità, nella più totale spoliazione di sé, nella sua prova di sé, è se stessa e nient’altro. (…) La sofferenza è parola, è essa a parlare nella carne e a farsi rivelazione di ciò che, in questo modo, essa ci dice, ossia ci dice se stessa18.

Questo linguaggio più greco del greco, non è tuttavia a-logico o illogico, bensì inaugura un modo di intendere il logos capace di «generare la realtà di cui parla»19, o anche: «La parola di vita genera la propria realtà provan-do ed esperendo sé nel Sé in cui si auto-rivela. In tal modo la Parola della vita è al contempo realtà della vita e Sé senza il quale nessuna vita è viven-te»20. Henry insiste nel ribadire che la possibilità del logos non sta nella ‘cosa detta’ ma nella ‘fenomenicità pura’, ossia in quell’affectivité che sta a fondamento di ogni esperienza e di cui parlerà ampiamente nell’ultimo libro dato alle stampe senza tuttavia averne potuto vedere l’apparizione, Parole del Cristo21.

17 M. Henry, Phénoménologie et langage (ou: pathos et langage), in Michel Henry. L’épreuve de la vie, A. David – J. Greisch (éds.), Paris, Cerf, 2001, p. 25.

18 Ibidem, p. 27.19 Ibidem, p. 26.20 Ibidem.21 Cfr. M. Henry, Parole del Cristo, ed. it. a cura di G. Sansonetti, Brescia, Queriniana,

2003.

67LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

Ciò detto, una questione resta ancora aperta: il linguaggio estatico e con-diviso è un linguaggio che permette una diffusione universale del sapere, mentre Henry cerca un nuovo modo di portare a manifestazione parole che rischiano di rimanere incomprensibili e incomunicabili. Se questo è il caso, cui prodest tale procedere verso il rovescio del linguaggio? È a questo punto che la crisi e la critica del linguaggio estatico mostrano la loro potenza euri-stica attestando che il manifestarsi del pathos come rovescio del linguaggio è la modalità dell’auto-coglimento della radice fenomenologica del ‘darsi a dire’ di ogni manifestazione. Il pathos – rovescio del linguaggio – può rivelare infatti un senso nuovo di cultura e, persino, del(l’inconscio) vivente rimosso. È per far sì che tali nuovi sensi emergano che il rovesciamento è compiuto, ed è alla luce della manifestazione di tale rovescio che le drastiche opposizioni proposte da Henry (ad esempio, quella tra verità del mondo e verità della Vita) acquistano il proprio senso.

La tesi che sarà proposta è, allora, questa: mondo e Vita sono diversi, certamente, così come diverse sono le loro verità, ma essi stanno insieme come il diritto e il rovescio di un tappeto o di un ricamo. Essi sono diversi, distinti, ma contigui. Un tappeto è niente; è una trama di intrecci e fili. Così come un ricamo, quando è rovesciato ridona lo stesso disegno del lato invisibile ma riprodotto al contrario, porta a visibilità il medesimo disegno senza, perciò, identificarsi con esso. Nel ricamo, nel tappeto, in ogni intreccio, non si dà continuità ‘tra’ lato diritto e lato rovescio; a darsi, infatti, è una sorta di contiguità. Il rovescio, invisto e separato dalla superficie dell’intreccio, è dunque un interstizio minimale che sta tra il disegno e la struttura che ne rende possibile la tessitura. Si obietterà che questo è vero per il ricamo, che suppone il suo interstizio (ossia la tela), ma non vale per il tappeto che si costituisce nel momento stesso in cui è tessuto e in cui il disegno si crea. Tuttavia, persino l’apparente semplicità della sua manifattura è infranta, aperta, esposta in se stessa, ché l’intreccio dei fili non si limita a produrre un disegno ma porta a manifestazione – istituendola – la struttura stessa del tappeto, la quale viene a infrangere la continuità dei due lati istituendo una speciale contiguità non preesistente alla trama tessuta.

Allo stesso modo Henry è filosofo della Krisis perché e nel momento in cui egli critica la superficie delle cose per portare alla luce quel rovescio che decide della manifestazione delle cose ma che la filosofia non ha saputo pensare. Lo fa, tuttavia, mantenendo i due lati, ossia il lato visibile e il lato invisibile che ne arreca la manifestazione; o anche, mantenendo un lato manifesto e uno che non si è ancora manifestato. Lo stesso accade per la barbarie: se per un verso la barbarie è la distruzione della cultura, per altro

68 CARLA CANULLO

verso occorre essere barbari affinché la superficie liscia, pulita, cristallina venga infranta e la verità invista della realtà emerga.

3. Ciò che non si manifestava / ciò che si manifesta.

Un approccio classico alle questioni henryennes sarebbe certamente più chiarificatore: procedere alla rovescia e cercando il rovescio espone al rischio di non chiarire i temi esposti dal filosofo francese. Il prezzo della chiarezza condurrebbe però a equivocare l’accentuazione delle opposizioni che, pure, Henry sottolinea con forza, soprattutto quella del mondo e della Vita dalla quale consegue l’opposizione tra corpo (che si fenomenizza nel mondo) e carne (che si fenomenizza nell’immanenza del patire). Possiamo tuttavia vedere le cose da un altro punto di vista, forse meno ortodosso ma, speriamo, rispettoso dell’intento di Henry.

Questo intento è chiaro: ogni minima manifestazione del vivente è tale per la vita che non si vede come un ‘oggetto’; essa, invece, si coglie nel suo stesso accadere e sentirsi. Perciò la vita è il rovescio invisto del vivente, quel rovescio che non si manifestava nella filosofia greca e moderna ma che può manifestarsi grazie a un metodo che non s’imponga alla manifestazione stes-sa e che nasca da tale manifestazione. Questo motiva l’oscillazione di Henry nei riguardi dei temi che affronta e quelle che in alcune pagine assumono il tono di osservazioni critiche (della filosofia, della società, ecc.), sono in realtà l’avanzarsi della vita che tenta la sua manifestazione – ché ciò che non si manifestava a mano a mano si manifesta. E ciò a partire innanzitutto da uno dei motivi annunciati all’inizio di queste pagine, la psicanalisi e la sua genealogia, ovvero a partire dal cominciamento perduto della vita.

3.1. La psicanalisi e la vita.

Anche se la psychè dell’uomo non può manifestarsi come ‘oggetto’ rap-presentabile, la filosofia, almeno nella sua vicenda trascendentale, l’ha sotto-messa alla condizione della rappresentazione (Descartes) e del tempo (Kant). Tale oggettivazione è moderna, e nasce dalla sistematizzazione galileiana del mondo. Cacciata dall’orizzonte del discorso scientifico, la vita, scrive Henry, «è rimossa, diventa inconscio e con tale nome è recuperata dalla psicanalisi. La psicanalisi è il sostituto inconscio della vita di cui essa riprende il grande compito: delimitare l’umanità dell’uomo»22. Nel 1985, in Genealogia della psi-canalisi, in modo altrettanto deciso Henry scrive che: «Quando l’oggettività

22 Ibidem, p. 205.

69LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

non cessa di estendere il proprio regno di morte su un universo devastato, quando la vita non ha altro rifugio dall’inconscio freudiano e, assumendo le specie di ognuno degli attributi pseudo-scientifici sotto i quali quest’ultimo si cela, agisce e si nasconde una determinazione vivente della vita, allora si deve dire: la psicanalisi è l’anima di un mondo senza anima, è lo spirito di un mondo senza spirito»23.

Le osservazioni di Henry nei riguardi del lato scientifico della psicanalisi sembrano critiche, ma questo è solo uno degli aspetti della sua lettura. Un altro aspetto è stato acutamente colto da Florinda Martins quando osserva che dobbiamo leggere Henry oltre la lettera per coglierne il vero spirito, ossia l’incontro tra scienza, filosofia e cultura. Infatti, la sua lettura di Freud e della psicanalisi fa emergere anche il rovescio di un inconscio che soltanto se è inteso come ciò che si sottrae alla rappresentazione è pensato negativa-mente. In senso positivo, invece, l’inconscio è la vita che si manifesta come affetto. Perciò, quello che dal punto di vista della scienza non si manifesta, lo può fare e di fatto lo fa nell’auto-affezione pathétique della vita, lo fa per il pathos vivente. Sbaglieremmo, però, se opponessimo queste due concezioni dell’inconscio intendendole come contraddittorie l’una rispetto all’altra. Esse sono invece l’una il lato contiguo dell’altra, essendo separate da un interstizio minimo che solo a un primo sguardo le mostra come contraddit-torie e non contrarie. Tale scarto minimo è quello che domanda, come ha acutamente osservato Rolf Kühn, un «passage»24 che non potrebbe darsi se innanzitutto non si desse uno scarto minimale25.

Il linguaggio barbaro di Henry fa sì che ciò che il linguaggio greco della koinè non riconosce nella radice manifestativa venga invece a manifestazio-ne senza apparire alla luce del mondo. In altri termini, fa sì che si manifesti quello che il freudismo fraintende quando si concepisce esclusivamente come ‘ideologia della barbarie’ che tradisce la soggettività tradendo la vita e il suo pathos. Ma, reciprocamente, un lato rovescio potrebbe annunciarsi se il lato diritto non lo esponesse al rischio del tradimento? Occorre essere

23 Henry, Généalogie de la psychanalyse, p. 12.24 Cfr. R. Kühn, Radicalité et passibilité, Paris, L’Harmattan, 2003, pp. 139 sgg.25 Perciò Henry può scrivere che «al di fuori della rappresentazione (l’inconscio) rappre-

sentato non sussiste in forma di “rappresentazioni inconsce”, entità per le quali il freudismo ha immaginato destini fantastici. Quanto all’inconscio che indica la vita, questo non può essere ridotto alla negazione vuota del concetto formale della fenomenicità, se e nella misura in cui la vita è l’iniziale giungere a sé dell’essere nella forma di affetto, il suo accrescimento di sé – nella misura in cui, in fin dei conti, le quantità di eccitazioni, il loro aumento e la loro diminuzione, sono soltanto l’espressione dell’energia del pathos della vita» (Henry, Généalogie de la psychanalyse, p. 384).

70 CARLA CANULLO

barbari, occorre attraversare lo scacco della non-manifestazione affinché altro si annunci nell’insoddisfazione e nell’incompiutezza che tale apparire reca con sé.

I due lati, però, devono essere contigui e non continui, altrimenti ogni diritto si rovescerebbe automaticamente nel suo rovescio. Tutto ciò che è automatismo, invece, e che caratterizza l’automa, è esattamente il contra-rio della vita26. Potremmo addirittura dire che una psicanalisi basata solo sull’automatismo e che diventa una tecnica, non solo non porta a manifesta-zione la vita ma, addirittura, la nientifica; viceversa, una terapia che è pratica che accade nel manifestarsi della vita e del vivente27 è una prassi che genera una terapia clinica diversa.

Qui, però, scopriamo anche altro. Infatti, in un’ottica di diritto/rovescio, se quello che ci invita a fare un passo avanti non è un meccanismo di automa-tismi destinati alla cieca ripetizione, resta legittima la domanda: perché com-piere un ‘passaggio oltre’, verso il rovescio? C’è un tratto del rovescio che, in un certo qual modo, costringe a passare oltre la superficie del lato diritto: si tratta del fatto che la vita è tale e medesima per il ‘paziente’ e per il terapeuta. Questa vita medesima per entrambi, è la stoffa del loro essere insieme e di ogni comunità. Stoffa che, di nuovo, si esprime nel termine greco pathos.

Il lato diritto di tale comunità è certamente anche la comunità intermo-nadica e intersoggettiva di Edmund Husserl, ma è anche la comunità così come è pensata dalla sociologia, secondo quanto Henry scrive ne La barba-rie28. La sociologia, infatti, pensa la relazione Società/Individuo come «una relazione esterna di causalità tra due entità separate dove la prima diventa causa e la seconda effetto»29. Il rovescio di tale concezione è in realtà il rovescio tanto del freudismo (anch’esso ideologia della barbarie30) quanto del marxismo. L’inconscio originario, ossia la vita, è l’affect irrappresentabile di fronte al quale «il lavoro curativo subordina costantemente il progresso cognitivo»31. Questa subordinazione fa sì che la vera natura di ogni intersog-gettività si manifesti, motivo per cui «la relazione tra l’analista e il paziente (…) si gioca nell’affrontare forze immerse in se stesse e ognuna in preda

26 Cfr. Henry, Io sono la verità, p. 336.27 Sul tema, oltre al già citato Radicalité et passibilité (pp. 165 sgg.), cfr. altresì R. Kühn,

Individu vivant et réalité ou le regard transcendantal, in Michel Henry. La parole de la vie, J. Hatem (éd.), Paris, L’Harmattan, 2003, pp. 97-115.

28 Henry, La barbarie, pp. 206 sgg.29 Ibidem, p. 207.30 Ibidem, p. 145.31 Ibidem.

71LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

al proprio pathos»32. E subito dopo Henry scrive: «Perciò la psicanalisi si separa dalle scienze umane e resiste alla riduzione galileiana, soprattutto alla sua riduzione linguistica in quanto, al cuore stesso della devastazione dell’u-manità perpetrata dal sapere oggettivista e dalle sue esorbitanti pretese, essa afferma e mantiene (…) il diritto invincibile della vita»33.

Inoltre, in Pathos-avec34, quando si interroga sulla possibilità paradossale di un effettivo ‘patire-con’ (ché ognuno può essere testimone soltanto della propria sofferenza), Henry torna di nuovo sulla psicanalisi35, la cui manife-stazione prescinde da ogni rappresentazione per consegnarsi alla ripetizione del transfert.

Detto altrimenti, la psicanalisi porta a manifestazione il fatto che la vita è incessantemente ripetizione che prescinde dal ‘fuori’ del mondo36 e da qui viene la sua ripetizione del transfert. O meglio, essa «ha organizzato la ripetizione del transfert perché in fin dei conti, quand’anche immaginasse di assegnare ogni compito al linguaggio e alla verbalizzazione, essa dovrebbe in ogni caso cercare questo inconscio là dove esso è e come esso è, ossia come forza bruta e affetto (affect) puro»37.

Questo affect è una Forza, o anche, è la stessa forza attraverso la quale si manifesta il fatto che «la natura delle relazioni (dei viventi) coincide con la propria natura»38.

Ciò detto, arriviamo anche al punto decisivo della questione: la psi-canalisi può mostrare la verità della relazione perché in essa la relazione accade a partire dalla vita, ovvero a partire dall’affect puro e dalla forza che quest’ultimo possiede, e ciò contro ogni terapia che consideri la malattia soltanto come dato di fatto oggettivo. Il che non significa che ogni relazione debba essere terapeutica ma che l’anima per cui le relazioni sono possibili è una sola e medesima. Di fatti, il ‘pathos-con’ non si manifesta attraverso una rappresentazione ma si manifesta nell’auto-affezione nella quale la vita fa prova di sé.

L’essenza della comunità non è qualcosa che è ma Quello – non ciò – che accade come incessante venuta a sé della vita e di ciascuno a sé. (…) Poiché l’essenza della comunità è l’affettività, essa non si limita ai soli esseri umani ma comprende tutto

32 Ibidem.33 Ibidem, pp. 145-146.34 Cfr. Henry, Fenomenologia materiale, pp. 171 sgg.35 Ibidem, p. 172.36 Cfr. ibidem, pp. 173 sgg.37 Ibidem, p. 174.38 Ibidem, p. 175.

72 CARLA CANULLO

ciò che si trova definito in sé dal Soffrire originario della vita e, quindi, dalla possi-bilità della sofferenza. (…) C’è un “pathos-con” che rappresenta la più ampia forma concepibile di comunità39.

Tale comunità non esclude il mondo e la sua visibilità; solo, non fa di tale visibilità la condizione di possibilità della relazione. Né, parimenti, la comunità ha la sua condizione di possibilità nella società. Al contrario, la concezione henryenne mira a una comunità cui ogni vivente partecipa per la vita che sente, vita che è al contempo di ciascuno e di tutti. Una vita – rove-scio pathétique del vivente – che tuttavia sarebbe una nuova ed ennesima astrazione se non accadesse nell’esperienza nella quale ogni vivente sente non soltanto con ma anche per o grazie all’altro. Ché il transfert della terapia psicanalitica insegna che se tale terapia consiste in esso, la sua ripetizione (ovvero: la ripetizione di questo transfert) è particolare perché la sua essenza è nient’altro che la vita40. Potremmo allora dire che la relazione terapeutica manifesta quello che è alla base di ogni relazione e che resta irrappresenta-bile, ossia quell’affect che è, al contempo, Forza.

3.2. Ciò che non si manifestava / ciò che si manifesta: la barbarie e la cultura.

Occorre un linguaggio barbaro, paradossalmente più greco del greco, per rompere la superficie liscia e cogliere quella Forza che si sottrae alla rappre-sentazione. Il medesimo scambio di diritto e rovescio fin qui individuato, dove i due lati sono contigui, si dà nella cultura e nella barbarie.

Cultura e barbarie hanno ciascuno il loro lato diritto e il loro lato rovescio: il lato diritto della cultura sono le diverse espressioni dell’estetica e dell’arte, espressioni del lato rovescio che è la vita in quanto Forza; la barbarie è la manifestazione dell’arresto di tale Forza (che resta comunque il suo rove-scio) e trova l’espressione privilegiata nella tecnica che, insieme alla scienza, oggettiva tale vita riducendola al rango di «cosa o oggetto rappresentabile», finendo con il naturalizzare l’uomo rendendolo «oggetto tra gli oggetti»41.

39 Ibidem, p. 179.40 In un testo pronunciato a Porto in occasione di un convegno di psichiatria, Henry

ripete questa genesi della comunità: «È nell’autodonazione della Vita che ogni Sé è dato a se stesso (…). Ma l’altro – l’altro Sé – è nella stessa situazione, ché è nell’auto-rivelazione della vita che egli è rivelato a se stesso. (…) In tal modo nasce e si forma nella sua possi-bilità fenomenologica una comunità» (M. Henry, Eux en moi: une phénoménologie, in Id., Phénoménologie de la vie, t. I, p. 205).

41 Henry ritorna con insistenza su questo argomento. La sua tesi, incessantemente riba-dita, è che «la cultura è la cultura della vita, nel senso in cui la vita costituisce al contempo il soggetto e l’oggetto della cultura. (…) “Cultura” indica l’auto-trasformazione della vita, il

73LA FILOSOFIA NELL’EPOCA DELLA BARBARIE

Se, inoltre, la cultura è energia e prassi radicate nella vita, la barbarie è l’esperienza dell’arresto di questa vita, è il fallimento dell’energia. Ancora, la cultura è un sapere pratico che si sa, mentre la barbarie è malattia della vita che affida la sua rappresentazione alla tecnica e alla scienza. Bref, men-tre la cultura è la prassi che si esprime in manifestazioni quali l’arte e la religione – la cui condizione di possibilità è la vita, la barbarie si fonda sul predominio della scienza che perde tali manifestazioni nella misura in cui rappresenta la vita a partire dall’oggettivazione. Di nuovo, tuttavia, se solo questa fosse la posta in gioco di Henry non usciremmo da un’opposizione sterile per certi versi anacronistica. Nessuno potrebbe negare il beneficio che la tecnica apporta alla vita ed è innegabile che la barbarie tecnologica abbia migliorato la vita stessa dei viventi, cosa che rende ogni passo indie-tro non solo anacronistico ma anche difficilmente accettabile persino dalla ‘società dei viventi’. Di nuovo, allora, la questione non è tanto il rifiuto della tecnica ma, più radicalmente, il modo in cui la condizione di possibilità della tecnica è concepita.

Per affermarsi, la tecnica deve cioè escludere la dimensione sulla quale, invece, l’arte si fonda, ossia la sensibilità. Solo perché l’uomo è un essere ori-ginariamente senziente, solo perché egli è sensibilità originaria nella quale il pathos ha la sua radice materiale, egli vive nel mondo. Il che equivale a dire che il pathos in quanto rovescio domanda quella sensibilità la cui condizione di possibilità è la chair pathétique che sarà il motivo centrale di Incarnazione. Tale carne, ne La barbarie, è chiamata Corpspropriation, ossia coappartenen-za originaria di corpo e terra42.

Per quest’originaria coappartenenza la tecnica è una prassi originaria che designa un «saper-fare (…) che porta in sé il proprio sapere e lo costitui-sce»43, saper-fare originario che, reciprocamente, non è altro dalla prassi e, dunque, dalla vita, ché «è nella vita che la prassi si conosce, è in essa che essa è il saper-fare originario che costituisce l’essenza originaria della tecnica»44. E poiché il corpo non è altro da questa prassi determinata, essendo ogni agire possibile soltanto grazie al corpo sul quale si fonda ogni esperienza, la condizione stessa della tecnica, unica scienza della barbarie, sta nel corpo.

movimento col quale essa non smette di modificare se stessa per giungere a forme di realiz-zazione e compimento più alte, e ciò al fine di accrescersi» (M. Henry, La question de la vie et la culture, in Id., Phénoménologie de la vie, t. IV, Paris, PUF, 2004, pp. 19-20).

42 Cfr. Henry, La barbarie, pp. 73 sgg. Stesso motivo in M. Henry, L’éthique et la crise de la culture contemporaine, in Id., Phénoménologie de la vie, t. IV, p. 37.

43 Henry, La barbarie, p. 70.44 Ibidem, p. 71.

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C’è perciò uno stretto legame tra il corpo e la terra sulla quale ogni prassi si esercita e «per tutto il tempo che essa si confonde con la prassi individuale spontanea, la tekhne non è altro dall’espressione della vita, la messa in opera dei poteri del corpo soggettivo e delle forme prime della cultura. Si tratta delle esigenze interne della vita che, anche, la suscitano (…), o meglio: che ne sono la modalità»45.

Il che tuttavia non impedisce all’uomo di rompere lo stretto legame di corpo/terra oggettivando la produzione e il rapporto con quest’ultima: in tal modo la tecnica si fa sapere della barbarie, la quale uccide ogni forma culturale che, invece, trova la sua espressione nell’arte e nella religione. Se la cultura è, allora, sapere della vita, la tecnica si fa sapere della scienza per il quale tutto diventa oggetto manipolabile. Con ciò, inoltre, la tecnica si fa «alchimia: essa è l’autocompimento della natura che sostituisce l’autocom-pimento della vita che noi siamo. Essa è la barbarie, la nuova barbarie del nostro tempo, quella barbarie che sostituisce la cultura»46.

Henry, perciò, non condanna la scienza, la quale «in quanto pathos obbedisce alla legge della cultura »47 ma condanna il fatto che, quando rifiuta tale pathos e la vita che grazie a esso si auto-affetta, la scienza perde se stessa e si contraddice nella misura in cui contraddice il pathos stesso. Tale contraddizione, tuttavia, non è formalmente logica: essa ha un peso, il peso della contraddizione della vita e dunque l’affermazione – foriera di morte – dell’oggettivazione di ciò che è vivente.

Al contrario della cultura, la barbarie rallenta lo slancio della vita fino ad arrestarlo. Eppure, neanche tale arresto è definitivo: affinché lo divenga, la barbarie ha bisogno della scienza galileiana che quantizza e determina lo slancio vivente, ciò che è unicamente in quanto Forza. Quest’ultima, che coincide con l’affect pur, non si manifesta nella barbarie e si manifesta nella cultura. Tuttavia entrambi i movimenti (non-manifestazione e manifestazio-ne) sono possibili perché la loro condizione di possibilità, il rovescio del loro lato diritto è il pathos vivente per il quale in entrambi i casi è possibile che la vita continui a esercitarsi o si arresti. Il rovescio della barbarie, la cultura, resta sempre possibile perché la vita, che la tecnica cerca di oggettivare, non può ‘morire’ e resiste alle sue negazioni. Infatti, anche la tecnica che intende oggettivare tutto non può frangere il proprio legame con la vita; anzi, «voler rompere questo legame significa in qualche modo accrescerne l’infrangibi-

45 Ibidem, p. 75.46 Ibidem, p. 84. Stesso motivo in Henry, Incarnazione, pp. 224 sgg. 47 Ibidem, p. 113.

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lità»48 e fare ancor più esperienza dell’impossibilità di separarsi dalla vita. Persino la debolezza della vita attesta dunque il suo potere, ché tale debo-lezza è «l’impossibilità in cui [la vita] si trova quando vuol condurre a buon fine il progetto (…) di volersi disfare di sé»49.

La vita non può separarsi da sé, così come il lato diritto non può sepa-rarsi dal rovescio. Ma l’impossibilità di tale separazione non è alcunché di necessitante né presenta, per così dire, i tratti di una verità analitica, del genere delle affermazioni cartesiane o leibniziane per le quali un triangolo non può non avere tre angoli: tali verità analitiche si manifestano nell’ordine estatico del mondo, al contrario della vita che si manifesta a partire da sé. E tuttavia, proprio nei riguardi della vita la barbarie e la cultura, l’una in modo negativo e l’altra per via positiva, manifestano un tratto fino a ora non detto, la sua irriducibilità.

Irriducibile è ciò senza cui un discorso non potrebbe neppure iniziare, nel nostro caso né la cultura né la barbarie né, come sopra abbiamo visto, la psicanalisi. Ora, la barbarie, negando la vita, non la distrugge ma, anzi, ne afferma l’irriducibilità perché ne manifesta un tratto fino a ora invisto, la sua impossibilità di separarsi da sé. Perché, tuttavia, questo legame è irriducibile? Qualifichiamo in tal modo quanto è irrinunciabile ma non irrifiutabile. È irrinunciabile perché, se vi rinunciassimo, verrebbe meno la ragione stessa del poterne parlare: nel caso della vita, se questa non si desse non potremmo neppure parlarne né sarebbe possibile parlare della cultura che la potenzia e svolge o della barbarie che la impoverisce fino a oggettivarla. Essa non è però irrifiutabile, e la barbarie della tecnica lo dimostra. Domanda, cioè, un’opzione che caratterizza la prassi stessa. In caso contrario, infatti, non sarebbe altro da un automatismo necessitante che però, lo abbiamo già detto, è la morte. La Vita, invece, non muore, e solo gli uomini possono decidere o voler morire50.

4. Alla fine, un nuovo inizio.

Michel Henry è stato letto al di qua delle opposizioni che egli incon-testabilmente propone, e dunque al di qua delle opposizioni tra il corpo che si fenomenalizza nel mondo e la carne che è automanifestazione del pathos vivente, o anche tra la verità del mondo, ekstatica, e la verità della vita, immanente. Anziché di opposizioni, abbiamo scelto di parlare di

48 Ibidem, p. 114.49 Ibidem.50 Cfr. Henry, Io sono la verità, p. 345.

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rapporto tra diritto e rovescio, poiché ogni ‘oggettivazione’, di fatto, non è altro dal manifestarsi di quella vita che, lungi dall’essere ‘qualcosa’, è pathos originario.

Per dire l’inoggettivabile che si sottrae al linguaggio Henry si fa barbaro rifiutando il linguaggio della scienza senza con ciò cadere in anacronistici rimpianti di una sorta di epoca d’oro in cui la vita era al centro di ogni esperienza umana. Occorre, invece, farsi barbari per cogliere quello che non si manifesta quando la koinè della scienza galileiana si sostituisce alla koinè della vita. Occorre farsi barbari per parlare un altro greco, il greco del pathos che umanizza l’uomo restituendolo alla vita.

Essere barbari per tornare al pathos vivente della vita irriducibile signi-fica tornare al rovescio della cultura e della psicanalisi, al pathos (parola greca!) della vita. Questo pathos non può essere scientificamente indagato: esso ha bisogno di una nuova lingua e di una modalità di espressione diver-sa dalla koinè galileiana. Sottraendosi alla scienza, tuttavia, il pathos non si destina al mutismo o all’inconoscibilità; al contrario, esso si consegna alla fenomenologia materiale e, anche, all’arte pittorica e narrativa. E contro l’op-posizione tra filosofia e arte, o contro la riduzione della riflessione sull’arte a momento secondario rispetto alla riflessione scientifico-teorica, il nuovo linguaggio che Henry inaugura narra attraverso l’arte ciò che ciascuno può vivere soltanto in prima persona. Di inizio in inizio, secondo inizi che non avranno mai fine grazie alla vita che in essi accade.

CARLA CANULLO

Università degli Studi di [email protected]