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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTA’ DI ECONOMIA Corso di laurea in Economia e commercio Tesi di laurea in MARKETING (Imprese industriali e commerciali) “Strategie di posizionamento e immagine di “Strategie di posizionamento e immagine di marca: aspetti teorici e casi empirici nel marca: aspetti teorici e casi empirici nel largo consumo” largo consumo” Relatore Prof. ALDO BURRESI TESI DI LAUREA DI

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE

FACOLTA’ DI ECONOMIA

Corso di laurea in Economia e commercio

Tesi di laurea in MARKETING (Imprese industriali e commerciali)

“Strategie di posizionamento e immagine di marca:“Strategie di posizionamento e immagine di marca: aspetti teorici e casi empirici nel largo consumo”aspetti teorici e casi empirici nel largo consumo”

Relatore Prof. ALDO BURRESI

TESI DI LAUREA DI

FABIO MORETTI

ANNO ACCADEMICO 1999/2000

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INDICE

PREMESSA 7

Capitolo 1

DALLA VISIONE AL POSIZIONAMENTO 12

1.1 – Le ragioni del posizionamento 121.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e visione:

una prospettiva. 131.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento. 20

1.2 – La strategia di posizionamento 231.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento. 231.2.2 – Definizione di posizionamento. 261.2.3 – I requisiti del posizionamento. 281.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento. 32

1.3 – Origine e natura del posizionamento 391.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento. 391.3.2 – Differenziazione e posizionamento. 44

1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come decisioni strategiche 50

1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente. 511.4.2 – Il concetto di marca. 561.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca. 63

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Capitolo 2

STRUTTURA E DINAMICA DEGLI SPAZI MENTALI: IL RAPPORTO CONSUMATORE-MARCA 71

2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla percezione e alla scelta della marca 71

2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo del processo di percezione, elaborazione, valutazione. 72

2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento. 812.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni 88

2.2 – Il consumatore e la marca 972.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del consumatore. 982.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca. 1052.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo dell’immagine

di marca. 1072.2.4 – L’auto-concetto. 112

2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il posizionamento 1142.3.1 – Le associazioni. 1142.3.2 – Tipi di associazioni. 117

Capitolo 3

IL POSIZIONAMENTO E LE STRATEGIE COMPETITIVE 127

3.1 – Il sistema di attività dell’impresa 1273.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale. 1273.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off. 1333.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di

attività. 136

3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le posizioni 1453.2.1 – Strategia difensiva. 1483.2.2 – Strategia offensiva. 1533.2.3 – L’attacco ai fianchi. 1553.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”. 158

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3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione 1633.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca. 1633.3.2 – L’entrata nel mercato. 1673.3.3 – Il riposizionamento. 181

3.4 – L’estensione di marca 1873.4.1 – Le ragioni dell’estensione di marca. 1883.4.2 – Aspetti problematici delle estensioni di marca. 1923.4.3 – L’approccio multimarche. 1963.4.4 – Le estensioni di marca verticali. 200

Capitolo 4

LA COMUNICAZIONE DEL POSIZIONAMENTO 206

4.1 – Il ruolo della comunicazione nel governo del posizionamento 2064.1.1 – La funzione comunicativa degli elementi del marketing mix. 2074.1.2 – Posizionamento e modelli comunicativi. 2174.1.3 – Lo stimolo delle percezioni. 224

4.2 – Il messaggio: nome, simbolo, slogan 2284.2.1 – Il primato della parola. 2304.2.2 – La scelta del nome. 2364.2.3 – I simboli. 2484.2.4 – Lo slogan. 252

4.3 – Posizionamento e persuasione 2564.3.1 – Persuasione, potere e comunicazione. 2564.3.2 – Tecniche di persuasione. 2594.3.3 – Dinamicità delle posizioni strategiche: la marca tra

cambiamento di prospettiva e adattamento. 269

Capitolo 5

IL POSIZIONAMENTO DEI PRODOTTI ALIMENTARI DI LARGO CONSUMO: ALCUNE EVIDENZE EMPIRICHE 272

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5.1 – Presentazione 2725.1.1 – Il mercato dei pasti destrutturati. 2775.1.2 – Il mercato dei prodotti a supporto del pasto. 2805.1.3 – Il mercato del cioccolato. 2815.1.4 – Il mercato del caffè. 285

5.2 – Il posizionamento e la capacità della marca di generare nuove categorie 286

5.2.1 – Ambiente concorrenziale e generazione di significati come determinanti della posizione competitiva. 286

5.2.2 – Market-creators. 2965.2.3 – Category-innovators. 3235.2.4 – Alcune evidenze empiriche per l’interpretazione della relazione

tra market creation capability e posizionamento della marca.340

5.3 – Analisi del trend e prospettive di sviluppo per il posizionamento343

5.3.1 – Il rapporto tra i trend e la strategia. 3435.3.2 – Dinamica del posizionamento e trend di fondo. 349

CONCLUSIONI 357

BIBLIOGRAFIA 366

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Alla mia famiglia

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PREMESSA

L’interesse per i concetti che ruotano attorno alla nozione di posizionamento è cresciuto notevolmente negli ultimi anni, sia da parte degli studiosi, che di coloro i quali, nelle imprese, traggono da esso utili indicazioni – a livello strategico ed operativo – per affrontare la multiforme e dinamica realtà del mercato. I primi trovano nel posizionamento una formidabile ed inesauribile fonte alla quale attingere e da cui prendere spunto per conferire nuove connotazioni a temi che, altrimenti, risulterebbero per molti aspetti sviscerati, ponendosi in una differente prospettiva rispetto ad essi in modo da integrarne e svilupparne i contenuti ormai acquisiti. Gli operatori d’impresa beneficiano, invece, di una sintesi rappresentativa della competizione che, ponendo le basi per l’avanzamento dall’orientamento al mercato conseguito, ha, in particolare, il merito di rendere più diretta e immediata la relazione con esso.

Una prima definizione che deriviamo da Valdani esprime il posizionamento come «lo spazio che un prodotto o una marca occupano in un dato mercato in relazione al modo in cui sono percepiti da un gruppo “rilevante di consumatori” rispetto ai prodotti con i quali sono in concorrenza»1. A ciò Kotler aggiunge un più spiccato riferimento agli aspetti percettivi del rapporto con il consumatore affermando che per posizionamento si intende «l’insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing mix più adatto per attribuire una certa posizione al prodotto nella mente del consumatore»2. Tuttavia, soprattutto da parte del management d’impresa, il termine viene spesso travisato rispetto al suo messaggio originale, mancando ancora una piena consapevolezza e conoscenza di ciò che il

1 E. VALDANI, Marketing strategico. Gestire il mercato per affermare il vantaggio competitivo, ETAS Libri, 1986, p. 283.

2 P. KOTLER, Marketing management. Analisi, pianificazione e controllo, ISEDI, 1986, p. 348.

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posizionamento strategico significhi e comporti per il nuovo rapporto impresa-mercato che tale concetto va a configurare.

L’argomento in questione è quanto di più vasto ed eterogeneo si possa trovare sebbene sia riscontrabile un senso comune alle sue articolazioni. Confluiscono, infatti, nel posizionamento concetti e significati appartenenti un po’ a tutte le aree del marketing. Nella sua più significativa accezione, quella per cui rappresenta, come sottolineano Guatri e Vicari, «la collocazione del prodotto in un sistema di percezioni, riguardanti l’offerta complessiva al consumatore» esso si lega a doppio filo con la differenziazione. In proposito, proseguono gli autori: «Ciò è possibile in quanto ogni prodotto ha un complesso di caratteristiche che lo differenziano più o meno dai prodotti concorrenti e che lo qualificano in un certo modo nelle considerazioni del consumatore, consentendogli di occupare una certa posizione relativamente ad altri prodotti»1.

Valdani si spinge oltre affermando: «Il concetto di posizionamento è il frutto dell’applicazione dei principi e della politica di differenziazione dei prodotti e delle marche in uno specifico segmento di mercato»2. L’autore coglie, inoltre, l’inscindibile relazione tra posizionamento e immagine evidenziando che «Il concetto di posizionamento è supportato dal profilo simbolico dell’immagine del prodotto che rafforza la realtà fisica di una marca in termini di significati, motivi, atteggiamenti, e reazioni espresse dal consumatore». Infatti, descrivendo il processo di posizionamento, Valdani sottolinea come «il prodotto e, più in generale, l’offerta dell’impresa ha valore per i benefici che promette/assicura al consumatore. Tali benefici hanno natura tangibile e intangibile e sono percepiti dal consumatore attraverso simboli e segni. L’impresa deve perciò costruire un’offerta il più possibile rispondente alle attese della clientela/obiettivo, distinta da quella dei concorrenti e fare in modo che l’immagine e il valore che ne risultano vengano percepiti e memorizzati, così da fidelizzare il consumatore».

Il posizionamento ha una valenza strategica che prescinde dalle possibilità che le imprese hanno di applicarne i principi a livello operativo.

1 L. GUATRI, S. VICARI, Il marketing, Giuffrè, 1986, p. 601.2 E. VALDANI, 1986, op cit., pp. 281-290.

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Se, cioè, taluni degli strumenti utilizzati per la generazione di una strategia di posizionamento possono essere appannaggio solamente di quelle imprese che dispongono di adeguate competenze e potenzialità (anche finanziarie), ciò non implica, tuttavia, che le altre non possano seguire, seppure in maniera più approssimativa ed intuitiva, le principali indicazioni offerte da questo concetto il cui valore non risulta, solo per questo, inficiato. Al contrario, cimentarsi con lo studio e l’analisi del proprio posizionamento costituisce, di per sé, un utile esercizio in grado di sviluppare la capacitò strategica dell’impresa.

L’evidente impronta strategica del posizionamento connota i diversi suoi aspetti che andremo ad analizzare e la relazione tra strategia e posizionamento è al centro del primo capitolo dal quale emergerà, inoltre, il fondamentale ruolo di sviluppo svolto dall’immagine di marca nel conferire valore alla particolare posizione che essa assume nel mercato. Se in passato il successo di un prodotto dipendeva soprattutto da tre fattori – qualità, marca, distribuzione –, oggi, con il raggiungimento di un livello di qualità accettabile da parte della maggioranza dei concorrenti, è soprattutto la conoscenza che il consumatore ha della marca, assieme al grado di aderenza di questa alle attese del primo, a costituire l’elemento discriminante tra il successo ed il fallimento dell’impresa nell’arena competitiva.

Strettamente legata alle problematiche dell’immagine di marca è la comprensione dei meccanismi percettivi e interpretativi che sono alla base delle scelte del consumatore, oggetto di studio del secondo capitolo. Una marca diviene tanto più forte e affermata, quanto più rispecchia la personalità di chi acquista, consentendone una identificazione ideale e gratificante: è attraverso il posizionamento strategico della marca e l’immagine ad essa associata che l’impresa può riuscire ad orientare la scelta del potenziale acquirente tra le diverse offerte presenti sul mercato. A tal fine, occorre riuscire a comprendere quali siano i meccanismi attraverso i quali avvengono i processi mentali di percezione, interpretazione ed assegnazione di significati dei messaggi comunicativi da

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parte della mente, nonché le ragioni che sono alla base del mutare degli atteggiamenti del mercato verso una data marca1.

Una volta completata l’analisi della marca e della sua relazione con le associazioni indotte nella mente dei potenziali acquirenti, si pone per l’impresa il problema di tradurre ciò in una condotta idonea a realizzarne gli obiettivi. Nel terzo capitolo, quindi, l’attenzione è rivolta alla determinazione della strategia competitiva che meglio si accorda con il posizionamento perseguito e con la situazione concorrenziale in cui l’impresa è inserita, con un particolare riguardo per le problematiche connesse ai diversi aspetti del riposizionamento.

Nel quarto capitolo, vedremo come una particolare attenzione vada posta alla comunicazione nelle diverse forme in cui essa può esplicitarsi nella realtà, nel tentativo di determinare la generazione e la successiva accettazione di un’idonea identità ed immagine di marca. Il concetto di posizionamento strategico comporta una nuova e diversa attitudine di pensiero in grado di ribaltare i canoni tradizionali del sistema comunicativo d’impresa, ponendo al centro dell’attenzione non il prodotto, ma la mente del potenziale consumatore.. Se è vero che tutto comunica e che non si può non comunicare, allora diviene subito manifesta tutta l’importanza che riveste per le imprese un simile concetto che, andando oltre la pura e semplice strategia pubblicitaria, investe i diversi aspetti nei quali si esprime la loro offerta.

L’analisi empirica di alcuni casi aziendali relativi a brand operanti nel largo consumo permette, infine, di comporre in un quadro d’insieme gli aspetti teorici sviluppati nei quattro capitoli precedenti. In particolare viene messa in risalto la relazione che sussiste tra la capacità dell’impresa di dare origine, attraverso una sagace strategia di posizionamento, ad una nuova categoria concettuale e la possibilità che da essa derivi un duraturo vantaggio competitivo differenziale e la leadership del relativo mercato.

Le strategie di posizionamento sono di natura tipicamente relativa e circostanziale, da ciò derivando i principali problemi che le imprese incontrano nel delinearle. Lungi dal costituire un riferimento costante per la

1 Scriveva Leucippo nel V sec. A. C.: «Nulla accade per nulla, ma tutto da un’origine e per necessità».

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competizione delle imprese tali strategie si sviluppano in itinere secondo le indicazioni offerte dai concetti che, di volta in volta, sono presi a riferimento dal potenziale acquirente nell’assegnare un valore alla marca e, più in generale, alla categoria cui essa viene ricondotta.

È con la consapevolezza della rilevanza delle problematiche che queste prime considerazioni aprono che ci accingiamo ad affrontare un tema, quello della relazione tra strategie di posizionamento ed immagine di marca, il quale si erge tra gli altri affrontati dal marketing come uno dei più attuali, interessanti e ricchi di spunti, cercando di offrirne una prospettiva che, per certi aspetti diversa, cerca di mantenere un approccio il più possibile aderente con la realtà dei fatti.

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Capitolo 1

DALLA VISIONE AL POSIZIONAMENTO

1.1 – Le ragioni del posizionamento

Lo studio e l’applicazione del concetto di posizionamento, lungi dal costituire e delineare un modello definitivo di comportamento per le imprese, rappresentano in realtà, almeno in prima battuta, un approccio mentale al problema della loro collocazione nel mercato, ma soprattutto nella mente dei consumatori.

In altre parole, il posizionamento è, prima di tutto, posizionamento nella mente dei clienti e, più in generale, delle persone. Occorre lasciare un’impronta (quella voluta) non solamente sugli acquirenti, ma anche sugli altri pubblici aziendali. Così, diventa senz’altro utile e prioritario generare e proiettare un’adeguata immagine di sé sui concorrenti, sui fornitori, e sugli altri pubblici aziendali (sindacati, mondo politico, media…). Come vedremo questa immagine è l’espressione dell’identità dell’impresa, e appare fondamentale, ai fini di un suo rafforzamento attraverso la leva della credibilità, riuscire a mantenere una certa coerenza di fondo, anche nell’evolversi e dispiegarsi nel tempo delle particolari strategie adottate.

Nondimeno, risulta molto importante creare un’immagine ed un’identità forti e nitide all’interno dell’impresa e provvedere alla loro implementazione nell’organizzazione e in chi al suo interno opera. Ciò consente di avere una linea direttrice chiara e definita verso cui far convergere gli sforzi aziendali, un importante punto di riferimento che contribuisce a consolidare la stessa proiezione all’esterno della visione desiderata.

Non si tratta, questa, di una rappresentazione mentale destinata ad un’applicazione limitata alla realtà d’impresa. La sua valenza è assai più

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estesa, venendo a toccare ogni situazione nella quale sia presente un soggetto che emana segnali e un altro che tali segnali riceve e interpreta. Poco importa che i messaggi siano o meno il frutto di una volontarietà da parte di chi li pone in essere: ognuno emette continuamente segnali, anche inavvertitamente, e di questo occorre tenere conto. Così, è possibile procedere al posizionamento non solo di un’impresa, di un prodotto o servizio, ma anche di un politico, uno spettacolo, una particolare decisione presa, ecc.… Con riferimento alle situazioni più svariate sorge, infatti, la necessità di portare l’attenzione su un aspetto o su un altro e fare in modo che si formi e si mantenga nell’interlocutore un’immagine ad esso coerente.

1.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e visione: una prospettiva.

L’azione portata avanti dalle imprese operanti nel mercato è andata affrontando nel tempo situazioni ambientali che, lungi dal farsi riconoscere in stereotipi assimilabili attraverso lo studio e l’analisi di fatti esperenziali e funzioni e modelli incontrovertibili, sono diventate sempre più complesse e sfuggenti a qualsiasi tentativo di ricavarne, sia da parte del mondo accademico che di quello imprenditoriale ad esso parallelo, una sistemazione paradigmatica e finalmente definitiva. L’affidamento troppo speranzoso di chi, negli anni Sessanta, vedeva nella pianificazione strategica la chiave che avrebbe portato le imprese nel cuore della competizione si è successivamente sfaldato fino ad infrangersi contro le turbolenze di un ambiente competitivo diventato sempre più caotico ed imprevedibile, ostile e refrattario ad ogni tentativo di inquadramento attraverso la lente della razionalità estrapolativa.

Quello che è seguito è stato un tentativo di reazione al mutamento attraverso una logica che, portata ad un’estrema sintesi, si è presentata come affatto differente rispetto alla precedente: l’impresa, sostenuta da un attento monitoraggio delle variabili in gioco, avrebbe dovuto essere stata in grado di agire in anticipo rispetto al cambiamento, agendo essa stessa sull’ambiente esterno in modo da determinarne, in maniera per essa

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favorevole, la direzione di movimento. Tale nuova impostazione del rapporto impresa/ambiente concorrenziale appare quindi solamente come una diversa forma di quella stessa velleità di controllo del mercato che avrebbe inteso eliminare. In effetti, le singole imprese, specialmente nel lungo periodo, non possono incidere nel mercato se non in maniera marginale ed in ogni caso comunque discutibile, dal momento che è molto difficile stabilire se l’azione delle imprese sia stata la causa o l’effetto di un determinato movimento di mercato.

Verso la fine degli anni Settanta, i sistemi di posizionamento anticipatorio hanno iniziato a mettere in mostra tutti i propri limiti nell’affrontare le crescenti turbolenze di un ambiente caratterizzato dal succedersi di eventi sempre più imprevedibili nel sorgere e nello svilupparsi. Le risposte non potevano più essere tempestive e incidevano perciò sulla realtà in maniera tardiva e inefficace. Il tempo ha così reso giustizia ad un mercato che, esso sì, è sovrano, pur nelle sue numerosissime e all’apparenza inspiegabili contraddizioni. Se contraddizioni vi sono, infatti, ciò non può essere che all’apparenza, posto che non si voglia ritenere invalido il principio di causalità intercorrente tra qualsivoglia date situazioni. Probabile appare, semmai, l’individuazione a posteriori di un errore di valutazione o di interpretazione di fenomeni peraltro niente affatto facili – ma non per questo impossibili – da comprendere già nelle loro linee essenziali. Quella che invece è possibile riconoscere e senz’altro va riconosciuta alle imprese è l’appartenenza a un ecosistema relazionale di cui esse stesse sono elementi vitali e del quale, però, non è ammissibile violare le norme di funzionamento, esistenza ed evoluzione. In tale sistema di relazioni – per sua natura aperto – gli organismi-impresa nascono, si sviluppano, muoiono e operano ciascuno portando il suo particolare contributo di conoscenza e di azione che va a modificare lo status quo del sistema stesso. Ma un’analisi che si basi esclusivamente sull’osservazione di variabili ritenute oggettive, per quanto numerose e definite con precisione nel loro dettaglio, poco ha da offrire alla comprensione dei complessi e sfuggenti fenomeni che caratterizzano quel magma di sommovimenti che è il mercato.

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Nasce da qui l’esigenza di un ripensamento con una prospettiva e visione potremmo dire dal dentro e dal basso del rapporto tra l’impresa e il suo ambiente di riferimento, alla quale se ne dovrebbe affiancare una dall’esterno e dall’alto il più possibile autonoma, disincantata e obiettivamente critica verso il variegato e pluridimensionale oggetto del proprio giudizio.

Il primo modo di guardare alla dinamica dei rapporti di mercato esprime tutta la rilevanza della partecipazione sistemica e organica da parte dell’impresa: solo chi è completamente immerso in una situazione può comprenderne appieno significati, evoluzione nei comportamenti e risvolti1. Il mercato deve permeare di sé l’impresa. Il contatto diretto e ravvicinato con la realtà non deve essere perciò quello di un corpo estraneo: dobbiamo fonderci il più possibile sia idealmente che materialmente con il vissuto, il vivendo ed il vivente2 in una simbiosi talmente spinta da giungere idealmente in una situazione di aspazialità e atemporalità nella quale non abbiamo bisogno alcuno di sforzarci per comprendere i cambiamenti che avvengono in un ambiente che ormai non è più esterno, dal momento che quegli stessi cambiamenti avvengono in noi. In questo modo è certo che ci stiamo muovendo nella direzione del mercato. Spostarsi con il mercato significa essere in grado di distinguerne ogni singolo movimento scorgendo fino le più minute onde e increspature all’interno della corrente poiché siamo parte integrante di essa. Quella che in questo modo abbiamo raggiunto non è una rappresentazione in scala del mercato, bensì l’essenza stessa di esso: dobbiamo essere noi stessi il mercato. Quest’impostazione presenta poi il notevole pregio di permettere e agevolare, all’occorrenza, un rapido riposizionamento, mettendo in evidenza quella qualità principe dell’evoluzionismo che è la reattività, intesa come la capacità di un adattamento rapido ed efficace alle mutate condizioni ambientali.

1 Un detto pellerossa, sicuramente estensibile a qualsiasi entità intelligibile, afferma: «Per comprendere veramente un uomo occorre camminare per due lune nei suoi mocassini».

2 Rispettivamente con le esperienze (tutte, percettibili e non) che generano il presente, quelle che sono da esso generate e ancora in itinere e quelle che ne costituiscono l’essenza.

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Non è più reale la questione se sia il consumatore a ruotare attorno alle imprese o semmai queste ad orbitargli intorno nel continuo cercare di coglierne la luce oscurando quella ricevuta emanata dalle altre. La questione si pone invece nella logica di un continuo avvicinamento da perseguire fino a che le due identità diventino una sola e unica, termine ultimo di un vicendevole implementarsi che, solo, può portare ad un vantaggio competitivo duraturo, valido sino a quando non avvenga un rigetto o prevalga una diversa forza attrattiva (la cui capacità di inserimento dipende dalle possibilità offerte dalla nostra incapacità di vivere e gestire tale connubio).

Per far sì che questo modo di vivere il rapporto impresa-ambiente sia effettivamente realizzato, l’intera organizzazione deve possedere determinati attributi ed essere pervasa da una mentalità in sintonia con l’ideale di fusione sopra delineato. Ogni sua parte costituente deve riuscire ad intuire – e, ancor meglio, a comprendere – quale sia la direzione intrapresa e per quali motivi la si è intrapresa. L’assenza di chiarezza in proposito inevitabilmente porta a problemi di messa a fuoco di ruolo e missione nella e dell’impresa con inevitabili conseguenze negative nel portare avanti l’azione strategica. Occorre, in particolar modo da parte di chi detiene la leadership decisionale, una spiccata propensione alla flessibilità soprattutto mentale consentendo il divenire viva creta nelle mani di eventi che siamo in grado di avvertire già e in parte di indirizzare. Sebbene la diffusione iniziale di un tale nuovo, coinvolgente modo di intendere il reale debba inizialmente seguire un andamento top-down, in seguito, l’organizzazione tutta, come fosse un organismo segnato in ogni sua parte da una medesima impronta genetica, deve rendersi capace di respirare in un moto unico e nutrirsi di valori condivisi in modo da potersi inserire senza alcuna remora nelle turbolenti correnti del mercato.

Riuscire a vivere emotivamente la frammentarietà e la precarietà dei diversi moti del mercato come un progresso desiderato costituisce la chiave per la soluzione di ogni problema di posizionamento. Possiamo dire con Gerken che «Solo mediante la pratica della partecipazione è possibile fluire con gli avvenimenti e accordarsi con le discontinuità dell’ambiente»1. Ed è

1 G Gerken, Addio al marketing, ISEDI, 1994, pag. 130.- 16 -

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sempre la partecipazione a sottrarre l’impresa dall’anonimato, conferendole quella credibilità che è tipica di chi è compartecipe di un evento o processo e si pone a fianco di chi – come il consumatore – è coinvolto in prima persona nell’affrontare il cambiamento. Quest’ultimo aspetto risulta decisivo nel conquistare la fiducia del mercato che, alla lunga, sempre premia chi mostra la capacità di mettersi in discussione insieme alle posizioni acquisite nel tentativo costante di raggiungere qualcosa di superiore. «Tramite l’apertura e la disponibilità ad identificarsi con gli scenari, i temi e le opinioni e la disponibilità a integrare la propria personalità nel flusso dei mutamenti e a lasciarsi formare – prosegue Gerken – si ha che tutti apprendono da tutti». In assenza di ciò vengono a determinarsi situazioni di dissonanza e contrasto col mercato che, oltre a non arrecare alcun vantaggio in termini di competitività, rischiano di minare il futuro dell’impresa aggredendone la struttura strategica.

Ai fini di un reale apprendimento occorre, a tutti i livelli, la mobilitazione dell’intelligenza dell’impresa, insieme al mantenimento dell’armonia tra cultura e strategia. L’idea che il campo di applicazione della strategia sia anche e in primis l’interno dell’azienda non deve rimanere un enunciato fine a se stesso: apertura e mobilitazione devono essere le parole d’ordine, fondamenta sulle quali costruire la competitività d’impresa. La capacità di azione deve divenire il più immediata possibile riducendo al minimo il rischio di paralisi derivante da una troppo lunga fase di analisi preliminare che spesso produce solo un ulteriore incremento del carico informativo. L’impresa sa già, nell’ottica della fusione, quello che deve fare: la volizione è già in itinere, deve solo esplicitarsi. L’intera organizzazione deve essere votata all’azione e a un sentire diffuso (dove per sentire va intesa l’accezione più incline alla percezione, alla sensibilità partecipe).

Tale visione, tuttavia, pure se vissuta e portata fino ai suoi termini estremi, non può essere sufficiente in quanto persiste, dal dentro, un angolo cieco. Se, nel contempo, riuscissimo ad avere una visione dall’esterno e dall’alto della situazione nella quale siamo immersi potremmo determinare dov’è che ci stiamo portando e giungere da subito laddove il mercato arriverà nel futuro, arrivando addirittura noi stessi ad “educare”, attraverso

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l’applicazione di una volontà creativa, il mercato, in modo che raggiunga quella posizione più rapidamente oppure che non ne raggiunga un’altra altrettanto plausibile e a noi invisa (questo potrebbe succedere perché nella sua instabilità, a volte, esso si rende suscettibile di prendere questa o quella via influenzato da minime e imprevedibili oscillazioni del momento). L’impresa deve cioè essere in grado di seguire nell’ambito del mercato una propria rotta, di sapere dove esattamente si trova, dove sta andando e perché. Non deve comunque essere dimenticato il limite derivante da un’inevitabile miopia a causa del quale più lontano guardiamo e più è facile incorrere in valutazioni errate.

Secondo l’intensità con cui sono perseguite e del risultato ottenuto nel raggiungere queste visioni, l’impresa inserita in un ambiente caratterizzato da turbolenze e incertezza è esposta a rischi diversi quanto a natura e portata. Possiamo dare una rappresentazione di ciò attraverso la matrice esposta nella figura 1.1.

Figura 1.1 – Relazione tra prospettiva dell’impresa e situazione competitiva

Ponendo sulla dimensione orizzontale la forza con cui l’impresa si sforza di penetrare l’intimo del mercato divenendone essenza (visione da dentro) e su quella verticale il modo con cui essa cerca di darsi una più

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Visione dall’alto

Elevata

Bassa

Visione dal dentro

Bassa Elevata

Disorientamento sclerotico

Deriva strategica Disorientamento miòpico

Perfetta simbiosi

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imparziale e spassionata visione dal di fuori, possiamo dividere la matrice che ne risulta in quattro quadranti corrispondenti a quattro diverse situazioni.

Un’impresa che non sia dentro appieno ai flussi del mercato, ma che abbia la pretesa di conoscere, attraverso una visione distaccata e oggettiva, non partecipe, la direzione da esso seguita, rischia di ritrovarsi, disorientata, da tutt’altra parte, per giunta con l’aggravio di un peso costituito da una cultura e un’organizzazione poco duttile e dinamica, sclerotizzata nel suo incedere alla deriva. Il pericolo è quello di non riuscire a rimettersi in rotta rimanendo esclusi dalla competizione o quantomeno ai suoi margini. Lo sforzo da compiere è dunque quello di immergersi appieno nelle correnti concorrenziali e recuperare una completa e cosciente fusione con l’ambiente competitivo.

Se in aggiunta ad una poco sensibile visione dal dentro non si riesce neppure a compiere uno sforzo di inquadramento delle varie forze che sommuovono l’ambiente di riferimento, la situazione diviene altamente critica e le possibilità di risollevarsi e non uscire dal mercato dipendono ora, oltre che dalla capacità di cambiare rapidamente e decisamente rotta (esigua, vista l’assenza di flessibilità e di perspicacia), dal fatto che la situazione di mercato non si allontani troppo dalle nostre attuali posizioni consentendoci il rientro. L’impresa, in alte parole, è in piena deriva strategica e, se anche dimostrasse una certa capacità ad operare, a lungo andare soffrirà le conseguenze delle carenze a livello di visione venendosi a restringere il tempo che essa ha a disposizione per riorientarsi alle condizioni di mercato in essere.

Nel caso in cui l’impresa abbia una completa visione dall’interno, ma manchi di proiezioni riguardo quella dall’esterno, essa si muoverà sì assieme al suo mercato, tuttavia non ne conoscerà il movimento complessivo e non saprà o non riuscirà ad intendere dove esso stia in realtà andando a parare. Se ad esempio la direzione presa portasse verso un globale suo restringimento a causa e in favore di altri mercati spinti da più potenti elementi, staremmo, in effetti, andando verso la dissoluzione assieme ad esso. La miopia, in questo caso, può portare all’impatto con scogli e vortici concorrenziali che, giungendo inaspettati e cogliendo

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l’impresa impreparata, ne mettono seriamente a repentaglio le prospettive future. Occorre pertanto cercare di mettere la testa fuori dell’ordinario e sapersi muovere attraverso le visioni.

Essere al contempo coscientemente visionari e parte attiva della fusione con il mercato è la caratteristica vincente che contraddistingue le imprese che realizzano una simbiosi perfetta tra moti e realtà del presente e del futuro, con la cultura, sempre aperta a nuovi contributi e foriera di adattamenti di tipo olistico, a fare da cerniera tra presente e visione.

Se la fusione tra impresa e ambiente di riferimento (visione dal dentro) e l’aspetto puramente prospettico-visionario (visione dall’alto) costituiscono un elemento fondamentale per affrontare la competizione, le condizioni imposte per il loro conseguimento risultano essere tuttavia sì necessarie, ma non sufficienti. L’impresa deve in realtà disporre, come sopra enunciato, di risorse idonee per percorrere questa strada e soprattutto di un’adeguata cultura, promotrice del nuovo e del cambiamento, che pervada l’intera organizzazione.

1.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento.

In passato, sapersi posizionare era importante, ma non determinante. Le imprese e chi le dirigeva dovevano confrontarsi con una mutevolezza dell’ordinario relativamente bassa. Una vera e propria necessità di ripensare la propria posizione strategica emergeva solo al verificarsi di eventi di rottura1. Fino ad alcuni decenni fa esisteva un numero inferiore di marche che potevano competere sulla base di reali differenze nelle rispettive offerte. Le imprese, di solito, potevano trovare qualcosa che fosse allora effettivamente superiore ai concorrenti e cercare una particolare e più appetibile posizione sull’arena competitiva. Tuttavia, ancora non si può parlare correttamente di vere e proprie strategie di posizionamento,

1 Pensiamo, per esempio, all’industria automobilistica degli anni Venti ed al successo della nuova organizzazione produttiva e della strategia di ampia diffusione adottate dalla Ford, la quale costituiva una sfida che fu affrontata con successo dalla General Motors attraverso un’estesa gamma di prodotti rivolti ai numerosi segmenti di un mercato ormai aperto e in espansione.

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mancando la coscienza di tutte le implicazioni che il in tali termini comporta.

Quella che oggi sta emergendo è invece l’incombente esigenza di pensare alla propria collocazione sul mercato o su un suo segmento e tenere sempre ben saldo il controllo della propria posizione, l’importanza del quale va continuamente aumentando. Si è costantemente esposti al pericolo che venga a mancare il terreno da sotto i piedi, magari quello stesso terreno che abbiamo sempre considerato come saldo e ormai una certezza acquisita. Tutto traballa, ma il rischio maggiore è quello di non avvertire o di sottovalutare le scosse.

Numerosi sono gli elementi che stanno determinando la nuova realtà con la quale si devono confrontare le imprese, tutti comunque riconducibili a quella globalizzazione che, come un titanico sistema di vasi comunicanti è potenzialmente in grado di livellare le posizioni competitive ad oggi raggiunte. Una notevole spinta in questo senso è data dalla sempre più diffusa e rilevante presenza delle nuove tecnologie le quali, annullando d’un colpo tutte le principali certezze spazio-temporali, costituiscono il vero condotto di collegamento di codesti vasi comunicanti attraverso il funzionamento del cui sistema si vengono a determinare equilibri e squilibri.

L’intero globo, poi, sta assorbendo a grossi sorsi una mentalità e un modo di pensare ed agire di matrice occidentale e liberista orientata dagli assetti sociali ed economici tipici dei paesi anglosassoni (in particolare degli Stati Uniti). Gli effetti di questo mutato paradigma socio-psicologico dovranno naturalmente fare i conti con le particolarità locali di tradizioni ed esperienze già radicate e con le resistenze dei diversi orgogli nazionali. I freni saranno più potenti laddove prevale ancora la coscienza del vissuto e delle proprie radici. Il percorso, tuttavia, salvo improvvisi e inattesi sconvolgimenti che mettano in discussione la stessa struttura economica (prima ancora che sociale) statunitense, subirà soltanto delle ulteriori articolazioni ed arricchimenti, rimanendo però segnato quanto alla direzione principale.

La convergenza circolare di questi fenomeni accresce ulteriormente la dinamicità che caratterizza ormai i più diversi settori nel loro divenire.

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Se la globalizzazione, alimentandosi dell’apporto delle nuove tecnologie che svolgono il ruolo di un fermento, dà la spinta alla crescente liberalizzazione dei mercati, quest’ultima, da parte sua, esprime nell’espandersi tutte quelle premesse che sono alla base della forza della prima. Il risultato di questo continuo rincorrersi e mordersi la coda è che i settori diventano realtà instabili e sempre meno definite, con confini labili e variabili che ne mutano aspetto e significato ad ogni istante. L’arena competitiva diventa un’entità quasi astratta, tanto evanescenti sono i suoi contorni. Vi confluiscono players della più diversa origine e natura attratti, a volte si direbbe, dalla sua stessa confusione e marasma. La leva del prezzo, inoltre, sta diventando un elemento essenziale di competizione in molti settori rappresentando allo stesso tempo una possibilità e un limite per le strategie d’impresa.

Ci stiamo progressivamente avviando verso un mondo del provvisorio, in cui tutto – pensieri e azioni, imprese, sentimenti, … – nasce dal niente come una bolla di sapone e nel niente può altrettanto facilmente tornare senza dare troppe spiegazioni né suscitare grossa indignazione o recriminazioni tanto da parte di chi tali eventi promuove, quanto da parte di chi li subisce. La velocità sarà sempre più la regina incontrastata del tempo futuro, vera raffigurazione e personificazione del nuovo spirito, nell’attesa che nuovi modelli comportamentali riescano a ridurne la portata o a dominarla occupandone il posto. I pericoli derivanti dalla velocità sono palesi. Se la mente non riesce a stare al passo con gli eventi, rimarrà in sua balia, venendole a mancare quell’importante freno stabilizzatore che è la ponderazione.

Nel mondo delle imprese le conseguenze avranno, e in parte stanno iniziando ad avere sin da adesso, una portata epocale. Quelle fra esse che oggi si sentono al sicuro, se non verranno prontamente erette barriere tanto imponenti, quanto forse a volte solo utili a ritardare il corso degli eventi, vedranno sgretolarsi o sparire sotto gli occhi la propria posizione competitiva. Diventa, infatti, quasi inimmaginabile concepire un mercato in cui si sia coperti dal rischio che arrivi qualcun altro, magari proveniente da qualche altra parte del globo, il quale, anche pur mancando di una rilevante tradizione, sappia fare quello che facciamo noi, probabilmente con risultati

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migliori e a costi inferiori. Sarebbe pura utopia pretendere che il mondo segua le nostre (cieche) presunzioni.

La libera concorrenza, se non opportunamente contrastata dalle imprese con azioni volte a renderle diverse e appetibili da un mercato che consente la floridezza soltanto a pochi eletti, condurrà alla riduzione dei margini di profitto nella maggior parte dei settori (a loro volta caratterizzati da un’elevata mutevolezza e sfuggenti ad una precisa definizione), fino a porre i più piccoli e deboli ai margini della competizione, in attesa di essere traghettati fuori dal mercato. Allora, distinguere fra politiche di differenziazione o di leadership dei costi non avrà più un senso dal momento che serviranno entrambe, e potrebbero non essere neppure sufficienti, ad assecondare i fini di sopravvivenza e continuo sviluppo delle imprese. La regola aurea diverrà l’elevazione e l’evidenziazione, con ogni mezzo disponibile, rispetto al gruppo di concorrenti, più o meno diretti, con i quali l’impresa si trova a competere per la conquista di una posizione di rilievo nella mente del consumatore.

1.2 – La strategia di posizionamento

1.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento.

Il risultato cui sta conducendo la crescente tendenza all’apertura dei mercati alla concorrenza è, come visto, quello di appiattire i significati e le percezioni delle imprese e dei prodotti in competizione, con la susseguente difficoltà ad emergere dalla densa e caotica massa informativa la quale riduce la capacità percettiva ed interpretativa del potenziale cliente.

Il rischio maggiore che incontrano le imprese diventa, allora, quello della banalizzazione dei concetti, dei valori e dei simboli che le rappresentano. Il pericolo è cioè quello di vedere scivolare la propria immagine da una condizione di marca con una propria definita identità a quella di commodity.

I commodity market sono, appunto, quelli che si caratterizzano per l’assenza di una differenziazione fra i competitori percepita da parte degli

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acquirenti. I prodotti assumono agli occhi di chi li compra più o meno la medesima veste e rilevanza, e, sebbene possano in realtà sussistere delle differenze qualitative anche ragguardevoli, esse non vengono rilevate dal consumatore – e, perciò stesso, potremmo affermare ed assumere che non esistano1 – il quale non fa distinzioni tra questo o quel prodotto. In situazioni come queste le decisioni di acquisto sono prese in conseguenza del prezzo, della disponibilità, o comunque di fattori sempre contraddistinti da un certo pragmatismo, piuttosto che in base all’immagine di marca o alla reputazione del produttore. Appare evidente come in questi mercati i margini di manovra per orientare le preferenze verso di sé si facciano ristretti. L’impresa scivola verso l’anonimato e il suo futuro si fa più incerto, diventando sempre più difficile risalire la china. Non bisogna, pertanto, permettere alle marche, anche quelle che appaiono ad una prima osservazione forti e solide nella propria posizione, di diventare commodity. A volte ciò accade per eccesso di sicurezza e troppa sufficienza da parte dei detentori della visione d’impresa (in queste situazioni vengono a mancare soprattutto il contatto e la visione dal dentro del mercato) i quali conducono ad una erosione del valore di marca tanto inavvertita quanto infine repentina nel manifestarsi in tutta la sua forza.

Esistono, tuttavia, casi in cui vengono seguite traiettorie opposte con il passaggio dallo status di commodity a quello di marca ben definita e di successo. Il modo con il quale avvengono queste mutazioni è sempre riconducibile all’adozione di adeguate strategie di affermazione della propria immagine che trovano nell’evidenziazione della propria diversità la leva principale.

1 A questa forse provocatoria conclusione giungiamo seguendo le tracce del pensiero hegeliano per il quale la verità di un’asserzione non è concetto assoluto, ma relativo, derivando dalla coerenza dell’asserzione stessa con il sistema di assunti di cui fa parte (in contrapposizione alla concezione aristotelica che vede la presenza, per definizione, di una sola verità).

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Il percorso che la marca compie nell’involvere alla condizione di commodity è illustrato nella figura 1.2. Nel mercato di marca l’elevata differenziazione operata sull’immagine consente, in considerazione del relativo valore aggiunto all’offerta, di poter richiedere un prezzo più alto ai potenziali acquirenti. L’erosione del valore di marca che conduce a scivolare verso il commodity market può essere dovuta a una diminuzione dell’impatto della differenziazione di immagine oppure agli effetti di azioni incentrate sul taglio dei prezzi, anch’essi indicatori di diversità e perciò da governare con estrema cautela ed accortezza.

Quello che differenzia la marca dalla commodity è costituito dal valore supplementare che l’acquirente riconosce – e nel riconoscere conferisce – all’oggetto della sua scelta o anche solo del suo desiderio. Il valore della marca va oltre la mera somma dei pesi degli attributi oggettivamente presenti nel prodotto o servizio, incorporando tutti quegli elementi che, pure apparentemente intangibili, vengono resi reali proprio in virtù del fatto che sono stati riconosciuti come valori dal cliente.

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Differenziazione dell’immagineAlta Bassa

Differenziazione di prezzo

Alta

Bassa

Branded market

Commodity market

Figura 1.2 – Da marca a commodity

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1.2.2 – Definizione di posizionamento.

Il posizionamento costituisce un concetto chiave per l’intera strategia d’impresa ed è riconducibile, in prima istanza, al problema della differenziazione dei propri prodotti e della propria immagine da quelli della concorrenza. Come già espresso, la sua importanza è accresciuta decisamente a causa del sovraffollamento di marche che caratterizza la competizione in molte categorie di prodotti e di servizi e che conduce ad un eccesso informativo con un sovraccarico non più gestibile da parte dei consumatori. In una società contraddistinta da una marcata e sempre crescente sproporzione tra l’informazione emessa e quella in grado di essere percepita e trattenuta e in mercati nei quali i prodotti sono sempre più uguali agli occhi dei consumatori – con la tendenza a divenire commodity – il principale problema è quello di riuscire a creare una differenza tra i prodotti. Il posizionamento costituisce, allora, un mezzo per uscire dalla condizione di confusione del mercato o almeno per cercare di gestirla nel modo migliore. Nel momento in cui il posizionamento diviene fattore particolarmente critico per il successo, esso, tuttavia, diviene anche, se possibile, maggiormente complicato e problematico da affrontare.

Il termine posizionamento fu coniato e utilizzato per la prima volta nel 1972 ad opera di due pubblicitari, Al Ries e Jack Trout, in una serie di articoli pubblicati sotto il titolo di “The Positioning Era” dalla rivista Advertising age. In essi venivano posti i primi principi di base della nuova nozione introdotta. Il contributo offerto dagli autori, proseguito attraverso successive pubblicazioni, è quello che più si inoltra sul terreno della mente e del posizionamento, pur mancando ancora di un’adeguata e strutturata sistemazione teorica.

Possiamo definire il posizionamento come il punto strategico, lo spazio-momento ideale, che una qualsiasi entità (un’impresa, una marca, una qualsiasi persona, o creazione od organizzazione di persone) occupa o cerca di occupare nella mente di un’altra entità allo scopo di indirizzarne il pensiero e l’azione1.

1 L’unico elemento determinante è che le entità, qualunque sia la loro natura, siano caratterizzate dalla presenta di due sistemi di percezione, volizione e azione da interrelare.

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Nell’originale definizione data da Ries e Trout il posizionamento è «La concezione di un prodotto e della sua immagine allo scopo di dargli, nel giudizio del consumatore, un posto favorevole e diverso da quello occupato dai prodotti concorrenti»1. Il suo ruolo è, quindi, quello di definire il modo con cui la marca o l’impresa vogliono essere percepite dagli acquirenti potenziali. Infatti, il posizionamento non concerne tanto quello che viene e può essere fatto al prodotto, quanto quello che viene fatto alla mente del potenziale cliente. Il prodotto viene cioè posizionato nella mente del cliente. Il problema consiste, allora, nel trovare un varco, una finestra, attraverso cui accedere alla mente, e il posizionamento, basato sulla convinzione che solo la comunicazione possa farlo al momento giusto e sotto le giuste circostanze, è un sistema organizzato in vista di tale finalità. La posizione deve essere chiara e facilmente riconoscibile dal pensiero dei consumatori. Nell’era del posizionamento inventare o scoprire qualcosa non solo è importante, ma diventa necessario e prioritario. Di più: il riuscire a penetrare per primi la mente del potenziale acquirente diventa elemento fondamentale, pena il dover affrontare seri problemi di posizionamento. Per aprirsi un varco bisogna avere l’abilità e la forza di sviluppare e portare avanti un pensiero capace di invertire, rovesciare, capovolgere l’ordinario rompendo le cristallizzazioni e sedimentazioni delle convenzioni. Altre volte, invece, è preferibile appoggiarsi in maniera sapiente ad esse per cercare di incanalarne il potenziale espressivo nella direzione voluta.

L’importanza che l’immagine ricopre nell’ambito delle strategie di posizionamento è rimarcata anche da Aaker, il quale, anch’egli proveniente dall’ambiente pubblicitario e che all’ambito pubblicitario tale concetto riconduce (rappresentando quest’ultimo aspetto limitativo forse il maggiore appunto che possa essere rivolto al pensiero dell’autore), quasi identifica immagine e posizionamento, distinguendo il secondo dalla prima in virtù del fatto che quello viene contestualizzato nella concorrenza2.

1 Citato in J. J. LAMBIN, Marketing strategico. Una prospettiva europea, McGraw-Hill, 1996, p. 196.

2 «Di recente a indicare l’immagine si sono spesso impiegati i termini “position” e “positioning”, con l’avvertenza però che implicano un contesto di riferimento, e che esso è dato, di solito, dalla concorrenza. È importante capire che livelli di

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Il posizionamento sfugge per sua natura a qualsiasi tentativo di inquadramento e riconduzione ad una stretta logica di pianificazione. Le critiche che alcuni autori muovono al posizionamento circa una sua presunta rigidità paiono non comprenderne la vera essenza e non tenere conto della sua multiformità, confondendola con le più tradizionali tecniche delle matrici a sostegno della teoria delle scelte di portafoglio. In effetti, non siamo di fronte a un modello nel quale occorra e sia sufficiente inserire gli input per ottenere delle indicazioni (peraltro solamente orientative). Il processo che conduce alla realizzazione di un posizionamento prende il via da concetti quali la visione, la cultura, la percezione, l’apprendimento, i quali, sintetizzati attraverso la fusione, guidano l’impresa verso la posizione competitiva e ne rappresentano gli essenziali requisiti.

1.2.3 – I requisiti del posizionamento.

Posizionare un prodotto o un’impresa non significa solo e semplicemente allestire una campagna pubblicitaria in grado di “parlare e farsi ascoltare” dal consumatore: anche se il trucco consiste nel trovare il varco giusto al momento giusto credere e affidarsi solamente a questo sarebbe pericolosamente fuorviante e riduttivo. Proprio per riuscire ad aprire una finestra praticabile nella mente del consumatore occorre tenere presente che, affinché un posizionamento risulti valido, esso deve presentare alcune caratteristiche basilari. Myers individua nell’unicità, nell’importanza/desiderabilità e nella credibilità – alla quale possiamo affiancare la coerenza – i tre requisiti indispensabili per una strategia di posizionamento efficace1.

UNICITÀ – L’unicità, discendente per linea diretta del carattere e dell’identità di marca, è il principio cardine di tutto quanto attiene alle

un’organizzazione possono essere considerati degli “oggetti” – la società stessa, i suoi prodotti o le sue marche –, che a ciascuno di essi è associata un’immagine, e che ciascuno di essi può essere posizionato rispetto alle alternative della concorrenza» (D. A. AAKER, J. G. MYERS, Management della pubblicità, Franco Angeli, 1991, p. 178).

1 J. H. MYERS, Segmentation and positioning for strategic marketing decisions, American Marketing Association, 1996, p. 171.

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strategie di posizionamento, e non potrebbe essere diversamente, dal momento che esso trova la sua ragion d’essere proprio nella ricerca della differenziazione dai concorrenti. In mezzo a tanti segnali fra i quali il consumatore rischia di trovarsi disorientato, occorre trovare almeno un punto su cui insistere per portare alla sua attenzione la nostra diversità, la quale deve poi riferirsi a quegli argomenti che sono veramente importanti ai suoi occhi, cogliendolo nel vivo per ottenere l’accesso alla sua mente. L’importante è, comunque, riuscire ad attraversare la confusione e il disordine in modo da essere notati tra i tanti e ricevere l’attenzione e l’interesse del nostro target.

Una volta ottenuto il riconoscimento della nostra unicità occorre dare ulteriore forza e rilievo all’identità e alla personalità di marca, in modo da rendere palpabile e partecipe la nostra presenza nel vissuto del consumatore divenendo parte essenziale di esso.

Naturalmente si tratta di un’impresa ardua, specialmente nei mercati maturi dove a contendersi l’attenzione e il consenso dei potenziali acquirenti sono numerosi competitors, ciascuno con le proprie peculiarità. Qui, trovare un lato distintivo e sostenibile diventa fattore decisivo per il successo; raggiungere uno stato di fusione con il mercato, nei termini che abbiamo visto, può risultare decisivo.

Sebbene la comunicazione svolga un ruolo di primissimo piano, essa non riesce tuttavia ad essere una panacea. Non è sufficiente, infatti, dire al consumatore che siamo diversi e migliori della concorrenza, ma occorre dargli l’occasione e il modo di appurarlo e crederlo con convinzione.

IMPORTANZA/DESIDERABILITÀ – Attribuire una eccessiva importanza all’essere unici e ricercare con ogni sforzo la diversità a volte può essere fuorviante e deleterio. Questo accade se si dimentica che l’unicità non è fine a se stessa. Offrire qualcosa che altri non offrono, per lo meno nei medesimi termini, ma che non risulta conforme ai desideri e alle aspettative del potenziale cliente ci riporta al punto di partenza, con l’aggravante che abbiamo gettato via tempo e risorse in una direzione che avremmo potuto facilmente riconoscere come un miraggio strategico. Anzi, potremmo trovarci ora nella necessità di doverci riposizionare, dal momento che il consumatore ormai potrebbe averci associato ad un’immagine sbagliata,

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quando non propriamente negativa ed estranea alle sue esigenze. Lasciare libero il passo alla creatività, elemento pur determinante, può perciò significare perdere terreno riguardo alla focalizzazione sulle effettive condizioni ed esigenze del mercato (questo non dovrebbe accadere se avessimo un adeguato orientamento alla visione dal dentro della relazione tra impresa e ambiente competitivo). Emerge, in questo modo la necessità di mantenere un certo realismo e pragmatismo nell’applicare una qualsivoglia strategia di posizionamento.

Occorre riuscire ad essere differenti in termini di qualcosa che sia rilevante e importante agli occhi dell’acquirente, divenire oggetto di desiderio per i potenziali consumatori, dei quali dobbiamo estrinsecare e fare emergere l’esigenza di ottenere quello che noi offriamo, e alimentare tale desiderio e stato di bisogno attraverso i mezzi che a ciò più si rivelino idonei secondo i casi e le circostanze.

COERENZA E CREDIBILITÀ – Attraverso la coerenza viene a stabilirsi e a compiersi una intima connessione tra il pensiero strategico e l’azione strategica dell’impresa di modo che l’una non contraddica l’altro, ma ne vada a rafforzare la portata e rinsaldare la direzione1. Se la coerenza costa a causa delle più proficue opportunità che impone di trascurare, essa trova anche un suo premio costituito dalla credibilità, virtù che, una volta riconosciuta dal mercato, si fa portatrice di un valore aggiunto supplementare ogni volta che poniamo in essere un’azione. La credibilità è un riconoscimento di merito che ci viene conferito, in seguito alla continuità e linearità della nostra condotta, anticipatamente rispetto al momento della reale valutazione

Al di là di un naturale margine di manovra concesso dalla riluttanza della persona a rinunciare a una infatuazione mentale o illusione (per non riconoscere in essa una propria sconfitta), prima o poi l’incongruenza tra

1 Non dobbiamo tuttavia riportare tutto sotto l’impronta della coerenza: se in questo contesto essa trova la sua ratio nell’esigenza di credibilità che il raggiungimento e mantenimento di una qualsiasi posizione richiede; in altri contesti, quale può essere ad esempio l’insorgere della necessità di un repentino e radicale cambiamento di rotta, diventa al contrario auspicabile il contributo creativo e di rottura dell’incoerenza (qui il riferimento è quello generale all’incoerenza all’interno del pensiero strategico non a quella che lega questo all’azione).

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quanto comunicato e quello che in realtà si è capaci di esprimere viene alla luce. Sostenere creduti, almeno in un primo momento, la propria unicità e diversità senza che esse siano effettive (mentre in realtà poggiano su basi poco consistenti, quando addirittura inesistenti e senza alcun serio fondamento) può condurre rapidamente a crisi di immagine che spesso si rivelano irreversibili. Di qui, l’importanza del mantenersi coerenti con quanto è effettivamente nelle nostre possibilità e non eccedere nel proiettare un’immagine poco sostenibile in quanto mancante di credibilità. Sono minori le possibilità di successo per un’impresa che occupa una posizione di per sé favorevole, ma senza avere le carte in regola per farlo, di quelle di un’impresa che sceglie una posizione magari meno attraente o anche distante da quella ideale, ma che lo fa sulle più solide basi della coerenza.

La particolare visione che caratterizza le strategie d’impresa, le peculiarità dei prodotti o servizi offerti, i punti di forza e di debolezza dell’organizzazione e della cultura di cui l’oggetto da posizionare è portatore costituiscono dei vincoli di cui tenere conto nello stabilire se un determinato spazio, il quali risulti occupabile ed astrattamente appetibile, risponda alle inevitabili esigenze dettate dalla coerenza.

In verità è possibile adottare una strategia che preveda, per l’immediato, di lanciare messaggi che sembrano, almeno in apparenza, non considerare il peso di questi elementi nella futura verifica da parte dell’acquirente della rispondenza ai valori promessi, proponendosi nel contempo di sviluppare in seguito quegli aspetti di cui è più forte la mancanza. Si tratta, però, di una scelta assai discutibile e rischiosa, da prendere con la consapevolezza che prima o poi il re i reali elementi di giudizio emergeranno e, allora, la situazione potrebbe risultare ormai insostenibile e difficilmente sanabile.

1.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento.

Una strategia consiste nel generare e nel dar corso, in maniera più o meno consapevole, a un comportamento atto a consentire il raggiungimento

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di un obiettivo. Questo non implica, tuttavia, che la valutazione degli esiti di una strategia si riferisca banalmente alla verifica di quanto degli obiettivi fissati in origine sia stato realizzato, potendo, tali esiti, venire a dipendere non soltanto dal modo in cui sono perseguiti, ma anche dal verificarsi o meno di eventi imprevisti e nuove circostanze generatrici di diversi scenari. La valutazione circa l’esito positivo o negativo della strategia adottata dall’impresa deve, infatti, essere misurata con il metro dettato dal giudizio di convenienza contingente del momento in cui gli effetti dell’azione si realizzano. Questo perché è evidente che alcuni degli esiti auspicabili in partenza possano non esserlo più in seguito al manifestarsi di una nuova scala valoriale e al verificarsi di diverse circostanze che gettano nuova luce e nuove ombre sul cammino della strategia, rendendo invece desiderabili esiti che in precedenza non lo sarebbero stati. Magari, il successo dell’azione intrapresa, pur conseguito tenendo conto degli iniziali criteri di giudizio, può derivare proprio dal mancato o diverso raggiungimento di quanto inizialmente desiderato, senza poi considerare il fatto che possono essere intervenuti in suo soccorso fatti meramente aleatori e assolutamente al di fuori della volizione strategica.

Ma la strategia deve essere anche uno strumento di riflessione e non soltanto un mezzo per portare avanti l’azione d’impresa. Attraverso essa, sia nella sua fase generativa che in quella attuativa, vengono infatti ad enuclearsi nuovi scenari ciascuno portatore di una diversa prospettiva attraverso la quale osservare le relazioni e le interdipendenze tra impresa e mercato. Il valore di questi momenti di introspezione circa l’evolversi della dinamica del rapporto impresa/mercato sta nel fatto che essi consentono di mantenere viva la sensibilità della rotta in cui ci muoviamo, mettendo in evidenza le necessarie correzioni da apportare. Affinché ciò possa avvenire non bisogna rimanere troppo legati a quanto si è precedentemente valutato e deciso. È vero, il darsi una strategia comporta sforzi così grandi che spesso l’impresa si può attaccare ad essa in quanto frutto di enormi sacrifici il senso dei quali potrebbe sembrare andare perduto nel distaccarsene, ma l’innamorarsi di un’idea e il lasciarsi affidati ciecamente ad essa diviene oltremodo pericoloso in un ambiente competitivo così turbolento e in evoluzione.

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Non bisogna dare alla strategia un’eccessiva fumosità la quale potrebbe facilmente trasformarsi in evanescenza. Essa deve sempre essere orientata all’azione, al vivere, alla pratica1. L’enfasi posta sull’aspetto strategico del comportamento d’impresa deve essere controbilanciata da un utilitarismo opportunistico e dal pragmatismo strategico.

A ben osservare una qualsiasi definizione riservata al concetto di strategia, non si può fare a meno di riconoscere in essa almeno un elemento che riconduca all’idea di posizionamento2.

Spesso, infatti, viene sottolineato come la strategia inerisca l’andare verso una direzione prestabilita e il perseguire il raggiungimento di un obiettivo di medio-lungo periodo verso il quale fare convergere tutte le linee guida aziendali. Allo stesso modo il posizionamento prevede il perseguimento di una posizione – nel mercato e, soprattutto, nella mente del consumatore – qui, però, solamente indicativa e figurativa: siamo ad un livello di mèta-volizione, inferiore come taglio, ma forse più adeguata e aderente ai processi ed alle dinamiche che si sviluppano nel reale.

Il rapporto tra questi due concetti va ad ogni modo oltre la mera e semplice relazione di continuità. In effetti, preso nella sua accezione più estesa e con un orizzonte di ampio respiro, si potrebbe affermare che il posizionamento sia, in ultima analisi, sinonimo di strategia costituendone il nucleo primordiale dal quale si generano per gemmazione tutte le articolazioni di questa e nelle cui sfumature sono già visibili le varie caratterizzazioni da essa assunte. Stabilire un posizionamento ideale che funga da costante riferimento e obiettivo per tutta la futura attività d’impresa viene così a significare imprimere a tale attività un determinato codice genetico riscontrabile in ogni sua successiva decisione ed espressione di volontà, pure se ancora in fieri.

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1 E questo è il senso della visione dall’alto che si affianca a quella dal dentro, come descritto nel paragrafo 1.1.1.

2 Per una disanima dei principali apporti teorici riguardo alla definizione di strategia vedi L. ZAN, Strategia d’impresa. Problemi di teoria e di metodo, CEDAM, 1985.

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Il posizionamento strategico necessita di un adeguato arco temporale per far sentire i suoi effetti sui sistemi valoriali ed interpretativi delle persone. L’orizzonte temporale di riferimento per lo sviluppo della marca è, quindi, quello medio-lungo, abbisognando, essa, di un esteso periodo di tempo lungo il quale costruire e proiettare la propria immagine. Conseguentemente, uno dei principali ostacoli alla creazione di valore da parte della marca è costituito dalla tendenza che molte imprese denotano ad avere maggiore attenzioni per il conseguimento di risultati nel breve termine evidenziando l’assenza o la scarsa rilevanza di disegni strategici di più ampio respiro sui quali costruire la propria competitività a venire.

Seppure ponendo l’accento sui problemi tattici sia possibile produrre risultati positivi, talvolta anche nel lungo periodo, tuttavia, esiste il reale pericolo che tali risultati siano conseguiti sfruttando e spremendo la marca, determinandone in tal modo un indebolimento. Quella che viene a mancare, in simili situazioni, è proprio la consapevolezza che la marca è una vera e propria risorsa – la più preziosa, in quanto riassume in sé tutte le considerazioni e gli elementi valutativi con cui un certo prodotto o servizio viene giudicato dal mercato – e come tale deva essere gestita, al pari di ogni altro asset d’impresa. Del resto, non basta riuscire ad evitare di danneggiare una marca, ma occorre alimentarla continuamente incrementandone il valore percepito, dal momento che il suo mancato sviluppo costituisce un serio pregiudizio per la capacità competitiva dell’impresa1.

Altrettanto sbagliato sarebbe sminuire a tal punto le problematiche tattiche rispetto a quelle strategiche da non accreditarle – andando oltre un inevitabile bisticcio di parole – di un proprio ruolo “strategico”. Del resto,

1 La miope propensione all’analisi prospettica basata sulla fusione che molte imprese denotano, come abbiamo visto, favorisce quelle attività in grado di produrre risultati tangibili e valutabili nel breve-medio periodo, mancando, rispetto al medio-lungo termine la capacità di esprimere una strategia di più ampio respiro.

A riguardo, un importante impedimento alla costruzione di una immagine di marca valida ed efficace, è dato dall’assenza di incontrovertibili modelli valutativi che ne esprimano appieno il potenziale strategico, in modo da offrire una sicura giustificazione per le dispendiose attività che il suo sviluppo richiede.

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attribuendo alla strategia un potere indipendente dai risultati tattici cadiamo in un errore di impostazione delle problematiche da affrontare che potrebbe esserci fatale. In realtà, la strategie dovrebbe seguire la tattica seguendo un approccio ed uno sviluppo bottom-up e, viceversa, il conseguimento di apprezzabili risultati tattici è lo scopo unico e finale di una strategia, dal momento che se così non avvenisse essa risulterebbe essere sbagliata indipendentemente dall’arguzia, dall’ingegnosità e dalla correttezza e ricercatezza formale con cui viene concepita e sviluppata. Una strategia, per quanto elaborata e teoricamente ineccepibile, non ha, cioè, alcun valore se non riesce a far conquistare alla marca quelle posizioni che, ponendola nel posto giusto al momento giusto e, soprattutto, sotto la prospettiva ideale (con riferimento alla relatività del contesto ambientale nel quale essa si trova ad operare), effettivamente servono per la sua affermazione nel sistema valoriale dei consumatori1. In definitiva, non si tratta di preparare piani per poi attendere gli eventi o cercare di far piegare ad essi le circostanza, ma, al contrario, di fare piani che, in sintonia con il concetto di mimesi e fusione profonda e ispirata tra impresa e mercato, si adattino alle circostanze.

Non esistono, aprioristicamente intendendo, strategie buone o cattive, discendendone la validità esclusivamente dai risultati conseguiti sul

1 La valorizzazione della strategia adottata è, inoltre funzione del sistema di percezioni e di preferenze proprio dei decisori d’impresa, dai quali vengono a dipendere tanto il successo, quanto l’insuccesso. In proposito, Ciappei e Poggi (C. CIAPPEI, A. POGGI, Apprendimento e agire strategico di impresa. Il governo delle dinamiche conoscitive nella complessità aziendale, CEDAM, 1997, p. 40) fanno giustamente notare che «L’aleatorietà del successo richiama la possibilità di non raggiungere gli obiettivi. Ma l’ambiguità del successo è assai più profonda e si connette sia alla possibilità di ingannarsi nella selezione degli esiti auspicati sulla base delle proprie preferenze, sia al problema, in parte connesso, del mutamento delle preferenze in corso d’azione».

Per l’attore, il successo è, quindi, un concetto estremamente variabile e relativo. Continuano gli autori: «Per l’attore il successo non sta tanto nel raggiungimento di un eventuale prefissato obiettivo, quanto nel vantaggio della propria azione valutato con i contingenti giudizi di convenienza empiricamente adottati al momento in cui i suoi effetti si producono (ex post)».

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campo1 e, poiché questi ultimi esprimono il modo con cui vengono raggiunti gli obiettivi tattici nell’arena competitiva, ne consegue che un adeguato livello conseguito di fusione con il mercato rappresenta un fondamentale prerequisito per conquistare una determinata posizione negli spazi mentali del consumatore (che costituiscono il naturale campo di battaglia della competizione tra le imprese). Solo una conoscenza intima e profonda di come funziona la dinamica degli spazi mentali con riferimento a un dato mercato ed ai potenziali acquirenti che ad esso fanno riferimento, infatti, consente ai decisori d’impresa di sviluppare una strategia appropriata ed efficace.

Paradossalmente, mentre la strategia si evolve partendo da una profonda comprensione della tattica, una buona strategia deve dimostrare di saper prescindere da tattiche superlative. In altre parole, se per conseguire una posizione di rilievo sul mercato è necessario affidarsi a delle tattiche straordinarie, ciò indica, di per sé, che la strategia di fondo non è affatto solida. La strategia, quindi, deve essere tale da mettere l’impresa nelle condizioni di seguire una tattica sufficientemente “facile” per conseguire gli obiettivi prefissati e si dimostrerà tanto migliore, quanto più riuscirà in questo intento.

Se da una parte la strategia di posizionamento deve seguire, attraverso il perseguimento di una simbiosi con il mercato, l’aspetto tattico e se, dall’altra, deve saper dimostrare di poter prescindere da tattiche eccellenti, qual è, allora, il vero ruolo della strategia? Una volta assunta una determinata posizione, se ciò non avviene in seguito ad un’approfondita analisi tattica della situazione, l’impresa, venendosi a trovare nella condizione di dover prendere decisioni immersa in mezzo ai flussi concorrenziali, potrebbe ritrovarsi a cambiare spesso idea e ad essere troppo sensibile alla tattica attenendosi ad una stretta visione “dal dentro” mancando, invece, di un’adeguata visione prospettica “dall’alto”. Viceversa, se la strategia dell’impresa è bene impostata sulla base di fondate considerazioni tattiche, una volta in posizione nell’arena

1 Le strategie – ed in particolar modo quelle di posizionamento – dovrebbero essere giudicate per la loro efficacia solo nel momento in cui vengono a contatto con il cliente e con la concorrenza.

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competitiva, dovrebbe essere la strategia a orientare e guidare la tattica informandola sugli obiettivi di pari grado che sono stati alla base della sua generazione e facendo prevalere una prospettiva “dall’alto” in grado di indirizzare quella “dal dentro”. A volte, infatti, può rendersi necessario saper trascurare le necessità tattiche per potersi dedicare al raggiungimento degli obiettivi strategici, dopodiché seguiranno, a corollario, gli effetti tattici ricercati.

Un problema che spesso pesa sulla strategia di posizionamento dell’impresa è costituito dall’assenza di una comunità d’intenti nel perseguirla. A monte della questione troviamo l’inadeguatezza della comunicazione interna e dell’organizzazione di ruoli e competenze, con il proliferare di centri periferici cui vengono demandate scelte strategiche anche rilevanti e che, sebbene possano offrire risultati incoraggianti nel breve periodo, a lungo andare sono fonte di incomprensioni e distorsioni rispetto a quell’unitarietà della direzione strategica che sempre deve fungere da riferimento per le diverse attività aziendali.

La strategia non è, in altre parole, qualcosa che posa essere esteso, tirato, contratto e mutato a piacimento senza intaccarne il significato: muovere un suo elemento dall’alveo concettuale di riferimento, aggiungerne di nuovi od eliminarne altri ha come conseguenza inevitabile alterarne le connotazioni e la natura, conducendo a qualcosa che è diverso rispetto alle originarie intenzioni. Di qui, la necessità di pensare in modo unitario e concorde rispetto al sentire del mercato, onde non incorrere in riposizionamenti che portino l’impresa fuori dal cuore della competizione, affievolendo o addirittura distorcendo il senso ed il valore dell’identità e dell’immagine di marca. Il governo di una strategia da parte dell’impresa dovrebbe essere sempre dominato da un solo obiettivo il quale, pur articolato in sotto-obiettivi, dovrebbe avere la priorità assoluta rispetto ad ogni altro possibile intendimento, informando di sé tutte le attività poste in essere dall’impresa (non seguire questa strada significa, in sostanza, andare contro il più basilare ed elementare dei principi: quello della concentrazione della forza).

Altro fattore determinante nel valutare le possibilità di successo di una strategia è dato dalla considerazione o meno della naturale norma

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derivata dalla fisica secondo cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. In caso ciò non avvenga, a dimostrazione dell’esistenza di una situazione di disorientamento miopico1, le possibilità che la strategia segua la strada tracciata ex ante sono minime, andando incontro a mutamenti del contesto concorrenziale non inclusi nell’analisi delle forze dalla quale deriva la sua determinazione. Una buona strategia di posizionamento, quindi, è quella che, oltre ad orientare la marca verso una posizione idonea ad affrontare la competizione, non trascura di anticipare le mosse reattive della concorrenza. Ad esempio, l’impresa che si trovi in una posizione di leadership e, pertanto, debba temere un attacco che si concentri sull’elemento di gracilità che inevitabilmente risiede nella sua stessa forza (risultando, anzi, amplificata tale debolezza all’aumentare della forza che la marca manifesta)2, si troverà a dove prendere, in anticipo, la difficoltosa decisione di indebolire (relativamente) la sua stessa posizione di forza per minimizzare l’efficacia potenziale di un’offensiva su quel fronte da parte dei competitori3.

Sintetizzando, vale la considerazione che qualunque azione un’impresa voglia intraprendere, tale azione non può mai essere separata dalla strategia che essa implica: l’azione è la strategia. La continuità tra azione, strategia e tattica, secondo cui la tattica aiuta a elaborare la strategia la quale, a sua volta, permette all’impresa un certo corso d’azione, costituisce un punto di riferimento fondamentale per quanto riguarda la competitività espressa dall’impresa stessa. Una volta decisa l’azione, poi, entra in gioco la strategia per dirigere la tattica: una barriera rigida tra strategia e tattica servirebbe solo a frustrare l’intero processo. Come evidenziano Ciappei e Poggi, azione e governo strategico vanno a comporre, in un processo ricorsivo basato sulla loro complementarietà (dove la prima è orientata e ordinata dal pensiero strategico ed il secondo cerca di compiersi attraverso essa), l’agire strategico, il quale «non si esaurisce nella sola azione, ma, quale compimento ed espressione di una

1 V. par. 1.1.1.2 V. par. 3.2.1.3 In effetti, spesso le imprese sono riluttanti ad indebolire deliberatamente la

propria posizione ritenendo remoto il rischio che esse stesse contribuiscono a rendere vicino con il suo mantenimento.

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strategia, comprende un vero e proprio sistema di governo che la ordina e la orienta»1.

1.3 – Origine e natura del posizionamento

Il concetto di posizionamento ha diretta attinenza con quello di differenziazione, ed in verità è nell’attuazione di tale linea direttrice che esso manifesta appieno la sua valenza e il suo potere.

Occorre, tuttavia, risalendo a monte alle origini del vantaggio competitivo, liberare il campo da ogni possibile equivoco circa la natura del rapporto intercorrente tra strategie di posizionamento e, appunto, vantaggio competitivo.

1.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento.

Porter afferma che il vantaggio competitivo può essere conseguito attraverso due strategie alternative: offrendo al consumatore un prodotto o servizio ad un costo più basso rispetto ai concorrenti, oppure offrendone uno che sia differenziato contando sul fatto che i potenziali acquirenti siano disposti, in virtù di tale differenziazione, a pagare per esso un prezzo superiore (naturalmente entro certi limiti)2. Quindi, inserendo il vantaggio competitivo (distinto nelle due origini che può avere) come prima dimensione di una matrice e ponendo nell’altra l’ambito competitivo scelto dall’impresa (l’intero settore o un suo particolare segmento), Porter individua tre possibili strategie di base: la leadership dei costi, la differenziazione e la focalizzazione3.

1 C. CIAPPEI, A. POGGI, 1997, op. cit., p. 1.2 M. E. PORTER, Il vantaggio competitivo, Edizioni Comunità, 1987.3 La strategia di focalizzazione è quella attuata in un particolare segmento di

mercato. Essa segue comunque la medesima caratterizzazione praticabile a livello di settore: anche a livello di segmento ci si può orientare verso il basso costo o verso la differenziazione.

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Figura 1.3 – Le strategie di base di Porter

Le imprese che intendono praticare una strategia di costi bassi vengono nettamente distinte da quelle che puntano ad una competizione basata sulla differenziazione. Secondo Porter, infatti, le due tipologie di strategia si escludono vicendevolmente e le imprese che non sanno o non riescono a darsi un’impronta decisa rimanendo «a metà del guado» ne risentono le conseguenze negative. L’autore individua il centro del problema asserendo che «L’impresa che si blocca in mezzo al guado ha probabilmente una cultura di impresa poco definita e opera in una situazione organizzativa e motivazionale conflittuale»1.

Il fatto che una simile situazione di stallo possa venire a determinarsi anche frequentemente non deve però implicare – ed in realtà non implica – che i decisori si trovino di fronte ad un bivio riguardo alla strategia di base da seguire. Nel mondo reale le possibilità offerte agli occhi di chi concepisce le strategie sono ben più fluide di quanto sostenuto da Porter, ed il fatto che sia pur sempre difficile comporre una forte differenziazione con bassi costi non deve portare ad una immediata conclusione circa la loro inconciliabilità. Il concetto stesso di posizionamento mostra come esistano delle alternative praticabili e spesso auspicabili, circostanze nelle quali

1 M. E. PORTER, 1987, op. cit.- 40 -

Fonte del vantaggio competitivo

Basso costo Differenziazione

Ambito competitivo

Intero settore Leadership dei costi Differenziazione

Un particolare segmento

Focalizzazione

Focus cost

Differentiation focus

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l’optare per la strategia di differenziazione o per quella di leadership dei costi non significa tralasciare l’aspetto posto in secondo piano. Occorre, invece, riuscire a miscelare entrambi i punti focali in modo da ottenere l’integrazione più congrua per affrontare l’arena competitiva. Ad esempio, chi potrebbe affermare che McDonald’s, offrendo un prodotto essenziale e a basso costo, non persegua una decisa differenziazione della propria immagine e una chiara collocazione sul mercato?

Se è vero che il vantaggio competitivo si basa sulla creazione di valore per il consumatore (sia perché la nostra offerta costa meno di quella dei concorrenti e presenta analoghi benefici, sia perché presenta benefici unici che consentono di rendere accettabili prezzi superiori), è altrettanto vero che il posizionamento risulta essere il prodotto finale degli sforzi e dei contributi sinergici e coerenti di tutte le aree aziendali. Ridurre i costi non significa necessariamente abbassare la qualità del prodotto, dal momento che, pur tralasciando la non banale considerazione che i minori costi possono essere il risultato di economie di scala, di apprendimento, o dell’utilizzo di nuove tecnologie, può essere lo stesso mercato di riferimento a richiedere la non presenza di attributi ridondanti in favore di risparmi di costo.

Possiamo esprimere la posizione della marca nell’arena competitiva attraverso le combinazioni che scaturiscono dall’adozione di strategie incentrate sulla creazione di un valore per il cliente o sul vantaggio di costo. Ponendo le prime sulla dimensione verticale di una matrice1 e le seconde su quella orizzontale otteniamo per risultato la determinazione di quattro tipizzazioni che corrispondono a quattro situazioni fondamentali in cui la marca può venirsi a trovare: commodity brand, benefit brand, productivity brand, power brand.

1 L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, Creating powerful brands in consumer, service and industrial market, Butterworth Heinemann, 1998, p.289.

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BENFITBRAND

POWERBRAND

COMMODITYBRAND

PRODUCTIVITYBRAND

Figura 1.4 – Classificazione delle marche su una base strategica

Una commodity brand non offre particolari vantaggi rispetto alle altre marche, né quanto alla differenziazione e ai bisogni soddisfatti, né quanto ai risparmi di prezzo. Essa presenta una scarsa caratterizzazione che, insieme ad elevati costi relativi, pone la marca stessa in una situazione difficile e pericolosa. La mancanza di una spiccata identità e di elementi che forniscano valore al cliente comportano la percezione della marca come qualcosa che offre una utilità relativa assai bassa; la sua collocazione sul mercato non le offre la possibilità di trovare uno spazio di azione adeguato e praticabile e neppure le conferisce una rilevante visibilità in mezzo al gruppo dei competitori. Il fatto poi che la marca non possa vantare bassi costi relativi impedisce che possa essere posizionata come una (v.) productivity brand. Il futuro della marca risulta perciò minato su due fronti: da una parte essa offre un valore inferiore (o nella migliore delle ipotesi pari) ai concorrenti che si differenziano; dall’altra, a parità di valore percepito, le verranno preferiti altri prodotti o servizi più a buon mercato.

Una benefit brand è tipicamente una marca che non offre particolari risparmi di costo, ma può vantare un buon servizio. Si tratta spesso di imprese che si focalizzano, per scelta o per necessità, su un determinato segmento, cercando di soddisfarne appieno le particolari esigenze

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Costo relativoAlto Basso

Vantaggio di

differenzia-zione – Valore

addizionale

Alto

Basso

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trascurate dai competitori che operano su un più ampio fronte1.In questa situazione, soprattutto al fine di erigere barriere all’entrata su un mercato che potrebbe farsi molto appetibile, è fondamentale riuscire ad accrescere ulteriormente la propria differenziazione incrementando continuamente il livello di soddisfazione arrecato al segmento di riferimento. Nel contempo resta importante, quand’anche non impellente, cercare di ridurre il gap dai migliori concorrenti riguardo ai costi relativi, a meno che la riduzione di prezzo abbia un impatto negativo sulla percezione della qualità della marca, nel qual caso va assolutamente ed accuratamente evitata.

Una productivity brand è una marca che fa del basso costo il suo punto di forza e la sua sopravvivenza non è per questo necessariamente a repentaglio. In effetti, esistono numerose imprese che prosperano incentrando i propri sforzi nel soddisfare le esigenze di chi ha come principio guida per le sue scelte l’economicità. Su un più lungo orizzonte temporale, comunque, l’insorgere di problemi derivanti dall’ingresso sul mercato di concorrenti che offrono analoghi prodotti o servizi più a buon mercato e magari dotati di una certa caratterizzazione pare ineludibile. Il controllo dei costi in ogni punto in cui viene esplicata la sua attività deve costituire per l’impresa un obiettivo totalizzante e chi la dirige deve ignorare ed evitare di rispondere alle possibili sirene di segmenti che siano al di sotto di una soglia critica.

Le power brand sono marche che offrono ai clienti molti ed importanti benefici in più rispetto agli altri competitori presenti sul mercato. Le imprese che godono di simili vantaggi hanno saputo instaurare un circolo virtuoso basato sulla loro capacità di affermare e sostenere la propria unicità. Grazie all’alto livello di soddisfazione dell’acquirente che raggiungono, esse possono, infatti, vantare elevate quote di mercato, le quali, portatrici di vantaggi riguardo alla scala e all’esperienza, consentono di trasferire parte di tali vantaggi ai clienti sotto forma di risparmi di prezzo. Quando la marca si trova in questa condizione la priorità è quella di accrescere continuamente il senso di soddisfazione dell’acquirente in modo

1 È proprio l’offerta di particolari e specifici benefici di cui il segmento target è portatore ad essere apprezzata ed a realizzare un legame con l’impresa il quale costituisce, per le benefits brands, l’asset più prezioso e importante da salvaguardare.

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da poter alimentare il ciclo di produzione del valore della marca; deve inoltre essere mantenuto uno stretto controllo dei processi all’interno dell’organizzazione di modo che detto circuito non subisca interruzioni dovute alle nuove complicazioni insite nel suo stesso accrescimento.

Una marca sviluppa valore attraverso il posizionamento se riesce a capitalizzare le sue caratteristiche uniche che altri trovano difficile emulare. La posizione raggiunta, insieme al terreno conquistato nella mente del consumatore, è il vero nucleo del vantaggio competitivo, non importa se conseguito spostandoci più sul lato dei costi o su quello della differenziazione. Il saper creare posizioni che costerebbero troppo ai concorrenti in termini di trade-off e di coerenza con la propria immagine fino ad allora sedimentata costituisce poi l’arma più potente a disposizione delle imprese per difendere posizione e vantaggio competitivo.

1.3.2 – Differenziazione e posizionamento.

Nonostante il posizionamento comporti la mobilitazione di tutte le possibili energie e strategie a disposizione dei decisori, il suo centro naturale è costituito dalla differenziazione.

La ragione che sta alla base di ciò è costituita dal crescente livello di rumorosità riscontrabile nel mercato. Il consumatore, bombardato da flussi informativi divenuti ormai esasperanti, non riesce più a distinguere i singoli messaggi emessi dalle imprese, i quali si confondono e perdono tra i rumori di fondo. Egli, ormai disorientato e frastornato, si dirige verso la sirena del momento, quella che, per prima o con un impatto maggiore, in qualche maniera è riuscita ad attirarne l’attenzione. Oppure, se deve procedere all’acquisto di prodotti tradizionali e di uso comune, si affida a quei pochi nomi che gli offrono una sensazione di stabilità e sicurezza, approdi affidabili in mezzo a improbabili novità. Altre volte, invece, se prevale il lato pragmatico dell’acquisto con la sola considerazione della mera funzionalità da soddisfare, si orienta verso una scelta guidata dalla convenienza: in fondo il denaro risparmiato, essendo misurabile e tangibile, rappresenta una concreta e affidabile certezza.

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I rischi che si corrono nell’apparire uguali agli altri competitori sono evidenti. L’impresa che non possa godere di una diversità agli occhi del mercato non potrà naturalmente pretendere di essere oggetto di scelta da parte degli acquirenti, i quali la preferiranno solamente se altri non cattureranno la loro immaginazione o se i vantaggi da essi offerti in termini di acquisto differenziato risultassero inferiori rispetto ai costi per esso percepiti. Rimanendo indistinte nel branco le imprese sarebbero cioè preferite solo se, venendo a mancare più forti criteri di scelta, potessero portare un senso di sicurezza derivante dalla conferma degli abiti comportamentali di cui si riveste il consumatore oppure se gli arrecassero una palpabile economicità. Ad ogni modo l’impresa non differenziata non potrà certamente praticare prezzi ingiustificabilmente superiori a quelli dei concorrenti nella ricerca di margini più alti.

Nel momento in cui la competizione non porta nessuna impresa a prevalere perché qualunque mossa si faccia essa viene rapidamente imitata dai rivali, occorre spezzare il gioco della libera concorrenza sfruttando le imperfezioni del mercato e cercando di conquistare quello che è il campo di battaglia decisivo: la mente del consumatore. Il fatto che i mercati stiano tutti progressivamente tendendo ad avvicinarsi a una condizione di libera concorrenza è il principale fattore di spinta delle imprese verso l’adozione di una differenziazione. Per sopravvivere bisogna creare le condizioni per uscire dall’anonimato e cercare di evitare la concorrenza pura. Grande rilievo assume, ora, l’immagine di marca insieme ad una politica di fidelizzazione della clientela che opponga alla sostituibilità l’onerosità materiale (elevando barriere di costo) e immateriale (elevando barriere di immagine) di trade-off derivanti da una scelta diversa.

Ancora, in favore dell’adozione di una strategia di differenziazione, gioca l’importante constatazione di una più agevole difendibilità di un vantaggio competitivo che si basi su di essa rispetto ad uno che poggi sulla leadership dei costi.

Il conseguimento di un’appropriata differenziazione viene così a rappresentare un obiettivo prioritario per l’impresa. Il problema è che sul mercato non può esserci spazio a sufficienza per tutti i players. Vero è che i confini e le dimensioni dello spazio competitivo sono in continuo

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mutamento e permettono, a chi li sappia interpretare, sempre nuove, inesplorate, opportunità di differenziazione. Ciononostante, la compressione esercitata dalla concorrenza limita notevolmente la libertà di movimento e di strategia. Con margini di manovra ridotti al minimo, si rischia di cadere in una guerra di posizione che potrebbe condurre al logoramento e allo sfaldamento delle strategie, oltreché delle strutture dell’organizzazione e del mercato.

E’ per rompere questa situazione o, muovendosi d’anticipo, per mettersi in posizione di superiorità, che le imprese si stanno rivolgendo sempre con maggior frequenza e impegno (soprattutto finanziario) a logiche espansive attuate attraverso strade alternative quali fusioni e acquisizioni. Divenire grandi consente di strozzare la concorrenza e guidare il mercato in virtù dei nuovi rapporti di forza instaurati. Spesso, anzi, pare che le imprese adottino simili aggressive strategie espansive per battere la concorrenza proprio perché riluttanti a seguirne altre, come quelle di riposizionamento, ritenute più aleatorie e rischiose e richiedenti comunque anch’esse ingenti risorse finanziarie. Di fronte a situazioni competitive contorte e ardue da affrontare attraverso le consuete armi del marketing la tentazione è, cioè, quella di risolvere la complessità facendone un nodo gordiano. In mancanza di una strategia vincente e decisiva per guadagnare quote di mercato e sopraffare le imprese rivali, un numero sempre più elevato di imprese dei più vari settori ricorre così alla fusione con i concorrenti o alla loro acquisizione.

Al di là dei vincoli intrinseci che possono derivare dall’estrema semplicità e stringatezza delle caratteristiche di un prodotto, non esiste altro limite alla differenziazione che quello della sensibilità e immaginazione umana. Tutto quello che rende i nostri prodotti o servizi migliori, o quantomeno differenti dagli altri, agli occhi degli acquirenti inducendoli ad esprimere una preferenza nei nostri confronti, può essere assunto come una base di lavoro per sviluppare una differenziazione di successo. Laddove si apre una nuova possibilità di differenziazione se ne apre poi una più grande per il posizionamento.

Nella realtà lo scontro che si genera tra marche concorrenti si sviluppa sul delicato terreno della mente del consumatore. Le scelte operate

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sulla considerazione di basi oggettive ed elementi e prestazioni misurabili, e quindi ponderabili attraverso la razionalità non sono molto frequenti. Le possibilità che si aprono alla differenziazione diventano viceversa tanto maggiori, quanto minore è la valutabilità obiettiva delle caratteristiche del prodotto o servizio. Si presenta, in quest’ultimo caso, l’opportunità di aprirsi un varco attraverso l’immaginario dei potenziali acquirenti.

La scelta, in effetti, è il frutto dell’influenza di fattori sociali, emozionali, psicologici ed estetici1, come appare in figura 3.1. E questi sono i fianchi da colpire con ogni mezzo per riuscire ad accedere alla mente. Conquistare e difendere questi punti strategici significa costruire un guscio valoriale attorno al vantaggio competitivo. Diventa, allora, fondamentale riuscire a comprendere la natura e gli effetti prodotti da tali fattori nella loro reciproca interazione e nel sistema percettivo e decisionale della mente.

1 R. M. GRANT, L’analisi strategica nella gestione aziendale, Il Mulino, 1994, p. 218.

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Per creare valore e diventare vettore di sviluppo, la differenziazione

e la marca, sua manifestazione nell’arena competitiva, devono riuscire a interpretare in modo originale il contesto in cui è immerso il cliente. Come vedremo più avanti (par 1.4) diventa necessario costruire valore attorno ad una identità forte ed essere in grado di interpretare per primi i mutamenti strutturali a livello socioculturale che avvengono nella società. È attraverso la fusione con lo spazio che è attorno che diviene possibile giungere a una comprensione profonda del mondo in cui vive il consumatore.

La differenziazione tuttavia non può più solamente avvalersi dei classici criteri di segmentazione per stili di vita, reddito, ecc. Accanto alla segmentazione per benefici apportati, che mantiene intatta la sua rilevanza e consente di attuare strategie di posizionamento incentrate sulle attività svolte e sulla loro relazione con i bisogni soddisfatti, irrompe un nuovo

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Fattori sociali Mente

Fattori psicologici

Fattori emozionali

Fattori estetici

Figura 1.4 – Fattori che influenzano la scelta

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criterio per la segmentazione legato alla particolare condizione di fascinabilità che sembra esprimere il consumatore dei nostri giorni. Possiamo riferirci ad essa definendola segmentazione per immaginari collettivi. Gli immaginari collettivi, a volte simili a miraggi di gruppo, altre a ondeggiamenti dell’idem sentire di ampi strati della società (quand’anche non tutta, presa nel suo complesso) che si muovono in modo coordinato o concatenato, paiono essere i veri vincitori di questo tempo di disorientamento e intima insicurezza nel quale le menti cercano una comune lenizione del disordine nell’identificazione di punti comuni su cui ritrovarsi. L’immaginario collettivo si nutre del luogo comune e nel luogo comune ritorna, ma proprio questa, non a caso, sembra essere la sua forza, essendo, esso, divenuto il centro della socialità. Lo stesso significato letterale di “luogo comune” esprime la constatazione che si tratti di un posto dove ritrovarsi, ognuno con le proprie problematiche (vere o presunte, comunque avvertite), per esorcizzare le rispettive debolezze di fronte alle sempre nuove avversità da affrontare. L’immaginario collettivo viene ad essere allora un sicuro approdo in mezzo al caos ipercomunicativo, e poco importa che per definizione abbia vita breve: dopo di esso ne seguirà un altro e poi un altro ancora. Nel momento in cui l’immaginario inevitabilmente va a sfumare, esso viene, infatti, sostituito da uno che meglio si adatta alla mutata visione del reale. La temporaneità è ormai divenuta parte del nostro vivere e l’illusione, pur consapevole di esserlo, di aver trovato anche solo per poco il senso di una qualsiasi cosa pare avere sulla mente un effetto catartico.

Gli immaginari collettivi si sviluppano lungo un orizzonte temporale più lungo rispetto al semplice trend1, che ha portata più limitata, spesso limitata a un anno o a una stagione, e l’impresa deve riuscire a far evolvere i significati e i valori della marca insieme all’evoluzione degli immaginari collettivi e dei mondi di riferimento, comunque nel rispetto della propria identità2.

1 Il riferimento al trend è, come vedremo nel capitolo quinto (par. 5.6), è qui generico e corrisponde a quelli che chiameremo “trend secondari” e “trend terziari”, mentre quello agli immaginari collettivi corrisponde, almeno in una prima approssimazione, a quello che indicheremo come “trend primario”.

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Tra i concetti di differenziazione e di posizionamento non esiste, però, una corrispondenza biunivoca. Mentre una scelta di differenziazione implica il perseguimento di un posizionamento, non è vero il contrario: possiamo posizionarci sul mercato o su un suo segmento anche senza adottare una politica che metta in risalto la nostra diversità e unicità. Sarà questo un posizionamento “periferico” che tuttavia, in alcuni contesti, può portare a risultati soddisfacenti soprattutto in assenza si risorse interne che possano rivelarsi risolutive, o quantomeno all’altezza dei maggiori concorrenti. Si pensi ad esempio a situazioni che ci vedono come piccoli players in un business dall’evoluzione ancora non ben definita e con una limitata visione dall’interno e dall’alto. In questo caso la priorità è quella di sopravvivere per cercare poi di cambiare i connotati all’impresa e al prodotti, incrementando i segni di distinzione e la distanza dai diretti competitori.

1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come decisioni strategiche

Le strategie che basano il posizionamento sull’aumento del valore dell’offerta non possono, tuttavia, costruire il proprio successo esclusivamente sulle funzionalità soddisfatte dal particolare prodotto o servizio. L’immagine viene allora ad essere l’asse portante per la conquista del vantaggio competitivo.

Possiamo definire l’immagine di marca come l’espressione che sintetizza in sé il prodotto o servizio così come viene percepita dal ricevente il messaggio, la quale assume forma e significato attraverso la rappresentazione che questi pone in essere nella sua mente. Essa deve essere forte, chiara e definita. La forza dell’immagine è strettamente connessa alla personalità di cui essa è portatrice. Pertanto, l’immagine deve possedere una propria personalità: non deve sembrare un qualcosa messo lì e attaccato al prodotto per caso, ma apparire evidente, inequivocabile e naturale (anzi, esserlo, in quanto espressione della fusione tra impresa e

2 Questo è un criterio valido da seguire anche nella prospettiva di un allungamento della del ciclo di vita della marca.

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mercato), quasi non ci fosse nemmeno il bisogno di indagarne e comprenderne natura ed origine. Il risultato ideale sarà ottenuto quando l’acquirente potenziale, avvertendo un qualsiasi stato di bisogno rientrante tra quelli cui intendiamo rivolgerci, identificherà assieme ad esso, in un unico e inscindibile processo, la sua naturale ed ovvia soluzione nella scelta della nostra marca.

La definizione e la chiarezza dei concetti espressi dall’immagine di marca attengono alla sua identificabilità ed all’impossibilità percepita dal cliente di compiere errori di valutazione circa la scelta del problem-solver più adatto alla sua particolare esigenza, e sono inscindibilmente legate al requisito di forza.

1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente.

La comprensione del reale ruolo svolto dall’immagine di marca nella relazione tra impresa e mercato deve confrontarsi con la confusione generata dalla sovrapposizione di concetti spesso fraintesi.

Dare una definizione del prodotto può, quindi, varcando la soglia dell’ovvietà, riportare le cose nella giusta prospettiva. Il prodotto, in estrema sintesi, altro non è che un problem-solver, nel senso che possiamo concepirlo come un mezzo atto a risolvere le problematiche avvertite, più o meno consapevolmente, dal consumatore, di qualunque derivazione e natura – funzionale, simbolica, ecc.… – esse siano. Di più: il prodotto è quello che il consumatore compra, indipendentemente da ciò che l’impresa offerente ritiene che esso sia o rappresenti. È il consumatore, in altre parole, ad attribuire il significato al prodotto, e il comprenderlo significa per le imprese fare un notevole passo in avanti verso l’orientamento alla fusione con il mercato, evitando di incorrere nell’assai frequente peccato di presunzione (frutto probabilmente di un disorientamento miopico) che da quell’orientamento invece allontana. La conseguenza che ne traiamo è che, se ad esempio viene a prodursi la decadenza e il fallimento di un prodotto, non sono i potenziali acquirenti a non avere capito il messaggio, ma è l’esatto contrario. La responsabilità della mancato convergenza tra

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l’immagine della marca e le aspettative del mercato viene ad essere imputabile alla carenza di sensibilità da parte dell’impresa.

Un’impresa la quale cada nell’errore di non pensare alla sua offerta in termini dei benefici apportati al consumatore, è un’impresa che corre seriamente il pericolo di perdere la sua posizione competitiva.

Figura 1.5 – Relazione tra prodotto e cliente.

Osserviamo la figura 1.4. Questa pur semplicistica rappresentazione del rapporto che intercorre tra chi esprime una domanda e chi a quella domanda vuole dare una interpretazione e una risposta, pone in evidenza il ruolo del prodotto quale elemento che deve muoversi e convergere verso il bisogno percepito. Anche nel caso in cui si voglia prospettare un movimento in senso contrario per il quale, a volte, sarebbe il cliente a muoversi verso il prodotto, si tratta, in realtà, del medesimo rapporto, che è, e permane, invariabile; tale diverso senso è soltanto apparente e deriva dal fatto che i bisogni, pur non essendosi manifestati apertamente, sono stati in qualche modo (più o meno inconsapevole) ugualmente avvertiti dall’impresa e raggiunti dall’azione strategica espressa nel prodotto. Il cliente sta solo seguendo una strada che era già esistente, ma non ancora visibile agli occhi suoi e dei più.

Da parte sua, il mercato emette continuamente segnali, che sì, possono risultare estremamente difficile da percepire da parte dell’impresa,

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PRODOTTIQuello che noi

vendiamo

CLIENTIQuello che i clienti

voglionoIncontro

Segnali

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ma non per questo devono portare a dubitare circa la loro esistenza. Sono del resto la complessità e l’apparente contraddittorietà dei modi con cui il mercato esprime i suoi bisogni ad accrescere il valore delle informazioni in essi contenute. Interpretarli in un senso e non in un altro può tuttavia condurre lontano dal cuore della competizione.

Può risultare conveniente, a questo punto, indagare il modo con cui il prodotto, proponendosi come problem-solver, riesce a fare breccia nella mente del consumatore. A tale fine rappresentiamo il prodotto come il risultato dell’aggregazione dei diversi elementi di soddisfazione dei bisogni. Secondo l’intensità e le peculiarità con cui tali elementi sono presenti possiamo osservare risposte diverse al medesimo bisogno.

Gli elementi di base che caratterizzano il core product – il nucleo dell’offerta – sono quelli che esprimono la ragione per cui l’impresa è sul mercato e rispondono alle primarie esigenze funzionali, estetiche, di prezzo delle quali l’azione dell’impresa vuole essere la risposta. Con l’espressione lateral product intendiamo tutte quelle attività di contorno che servono a dare una particolare caratterizzazione e attenzione ai bisogni secondari (per ordine, non necessariamente per importanza) dei potenziali acquirenti. Il terzo livello del prodotto – image – è costituito da tutte quelle attività che sono riconducibili all’affermazione dell’immagine del prodotto o, più in generale, della marca.

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Figura 1.6 – Livelli di efficacia del prodotto

I tre livelli di espressione del prodotto hanno un diverso impatto sul rapporto che l’impresa intrattiene con il mercato. A livello di core product la concorrenza porta spesso a situazioni nelle quali le differenze tra i vari competitor sono poco evidenti; qui i margini per la differenziazione sono quelli che derivano dalle attività o il riflesso delle scelte operate a un altro livello del prodotto (pensiamo, per esempio, allo stretto legame tra immagine da una parte e design e packaging dall’altra). Inoltre è questo livello che assorbe le maggiori energie dell’organizzazione e comporta i

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ConsegnaServizio pre-acquistoServizio post-acquistoGaranzia…

CORE PRODUCT IMAGE

LATERAL PRODUCT

FunzionePrezzoPackagingDesign…

UnicitàImportanza-desiderabilitàCoerenza-credibilità

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maggiori costi. Se l’azione strategica dell’impresa si arresta a questo livello incorre, come denota l’arrestarsi al primo stadio del vettore in figura 1.6, in una minore efficacia e nel rischio di trovarsi a competere in un ambiente dove i prodotti si avvicinano sempre più ad essere delle commodity con le relative difficoltà a distinguersi.

Figura 1.7 – I livelli del prodotto in una visione concentrica

A livello di lateral product, che contribuisce principalmente a una più

marcata caratterizzazione e, soprattutto, a livello di image, troviamo, invece, le attività che maggiormente contribuiscono ad arrecare valore e

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incisività al prodotto. È qui che prende spessore e vigore la forza di impatto della marca.

Ricollegandoci all’impostazione di De Chernatony e McDonald (figura 1.7) possiamo rappresentare il prodotto come un’insieme concentrico di circonferenze il cui nucleo è costituito dal core product e dove le circonferenze più esterne, rispettivamente riconducibili al lateral product e alla image, formano quello che gli autori chiamano product surround, la dimensione del prodotto che in maggiore misura contribuisce alla creazione del valore1.

La classificazione proposta non vuole comunque essere intesa come normativa, limitandosi a consentire un inquadramento meno nebuloso e più razionale e sistemico delle caratteristiche del prodotto. In realtà core product, lateral product ed image non sono distinguibili e riconoscibili facilmente, dal momento che ogni elemento costituente un determinato livello è intimamente legato a tutti gli altri. Il senso proprio di ogni prodotto deriva proprio dalla forma e intensità che assumono le relazioni che sussistono tra i suoi diversi elementi e tra questi ed i potenziali clienti.

1.4.2 – Il concetto di marca.

Per concetto di marca intendiamo un significato attribuibile alla marca derivante dai bisogni di base dei clienti (funzionali, simbolici, esperenziali) e scelto dall’impresa. La gestione del concetto di marca rappresenta il mezzo per mantenere il controllo, attraverso la definizione dell’identità di marca, sull’immagine di marca.

I passi logici della creazione e governo del concetto di marca, così come individuati da Park, Jaworski e MacInnis2, sono sintetizzabili come di seguito:

selezione di un concetto di marca; gestione nel tempo del concetto di marca attraverso le fasi di:

1 L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 6.2 C. W. PARK, B. J. JAWORSKI, D. J. MACINNIS, Strategic brand Concept –

image management, in “Journal of marketing”, ottobre 1986, p. 136.- 56 -

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- introduzione;- elaborazione;- fortificazione.

SELEZIONE DEL CONCETTO DI MARCA

La selezione di un concetto di marca deve opportunamente basarsi su un’attenta considerazione dei bisogni dei clienti, mettendo in atto, in questo modo, un posizionamento che tenga conto delle ragioni d’uso e delle attività dell’impresa. I bisogni possono essere ricondotti a tre fondamentali categorie: funzionali, simbolici, esperenziali.

I primi sono individuabili in quelli che spingono alla ricerca di soluzioni per problemi relativi al consumo, in grado, cioè, di risolvere un problema corrente, prevenire un problema potenziale, risolvere un conflitto o intervenire su una situazione divenuta frustrante per riformarla. Un prodotto in grado di offrire un beneficio funzionale è quindi un problem-solver orientato a dare risposta ad esigenze riguardanti il consumo e generate esternamente al sistema valoriale della persona.

I bisogni simbolici sono definibili come desideri di acquisto che nascono in funzione della soddisfazione di esigenze di auto-stima o di differenziazione della propria personalità, oppure in relazione alla posizione relativa riguardo ai ruoli assunti in un determinato contesto o alla partecipazione e appartenenza a gruppi sociali. Una marca il cui concetto risponda a un bisogno simbolico – che appare all’esterno, ma viene avvertito e imposto all’interno – svolge, infatti, il ruolo di dare evidenza a un ruolo, una posizione, un’immagine di sé.

I bisogni esperenziali esprimono il desiderio verso quei prodotti che arrecano piacere per i sensi e per la mente, offrendo stimoli per la cognizione dovuti spesso ad un’esigenza di varietà1. Una marca che si

1 È notorio che la soddisfazione non dipenda soltanto dal livello del consumo, ma anche dalla sua variabilità, ovvero dalla percezione dell’oscillazione e, in particolare, della crescita. La psicologia e la biologia dimostrano, infatti, come siamo molto meno sensibili al livello assoluto di uno stimolo sensoriale, piuttosto che alle variazioni rispetto al suo livello abituale o agli standard che derivano all’esperienza.

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orienti alla soddisfazione di questo genere di necessità, siano esse di stimolo o di varietà, sta rispondendo ad esigenze generate internamente.

Ogni marca può essere posizionata in base a ciascuno di questi bisogni e proiettare perciò un’immagine funzionale, simbolica o esperenziale. Risulta possibile, tuttavia, anche un posizionamento fondato su una loro combinazione. In questo caso aumentano però i problemi, dovendo la marca fronteggiare una minore definizione del proprio focus (rischiando di incorrere in vere e proprie crisi di identità da parte sua e di identificazione da parte del cliente). Aumenta inoltre il numero di avversari che creiamo con la nostra scelta di porci su più terreni di battaglia1. È indubbio, per concludere, che una siffatta scelta aumenti i costi di gestione della strategia di marca sia nella fase di introduzione, che in quelle di elaborazione e fortificazione.

Una volta stabilito, il concetto di marca viene utilizzato per guidare le decisioni relative al posizionamento. Il concetto deve rimanere il più stabile possibile per tutta la vita della marca incrementando così il livello di coerenza e credibilità della stessa. Questo ovviamente non significa che la particolare posizione assunta debba restare invariabilmente la stessa. Al contrario, il perseguimento dell’affermazione della marca impone che la specifica posizione da essa perseguita vari con le mutate condizioni del mercato.

Appare opportuno specificare che il concetto di marca non va a sostituire la nozione di posizionamento. Il suo ruolo è piuttosto quello di coadiuvarlo e conferirgli, allo stesso tempo, una maggiore flessibilità.

GESTIONE DEL CONCETTO DI MARCA

La relazione tra concetto ed immagine di marca deve essere gestita nel tempo in modo da consentire l’adozione di strategie di posizionamento che permettano alla marca di svolgere appieno il suo ruolo di tramite tra impresa e cliente.

1 Una importante implicazione della creazione di un concetto di marca consiste proprio nel fatto che è esso a determinare quali siano i concorrenti dell’impresa.

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Nella fase di introduzione l’obiettivo principale è quello di insediare l’immagine di marca in una posizione nel mercato in modo da darle già una prima connotazione che deve però permettere tutti quegli aggiustamenti (anche rilevanti) che si possono rendere necessari e che sono ancora particolarmente numerosi in questo passaggio e nei successivi. Gli sforzi di posizionamento nell’introduzione del concetto di marca dovrebbero, cioè, essere mirati a facilitare quelli nell’elaborazione e nella fortificazione. Le leve strategiche da attivare sono quella comunicativa e quella legata al porre in essere attività orientate alla interazione e transazione con il mercato (in verità una enucleazione e specificazione della prima). La prima vede coinvolto tutto il marketing mix nella prima proiezione e affermazione dell’immagine di marca oltre che nella differenziazione dai concorrenti. La seconda tende a favorire la familiarizzazione con la nuova marca e mette in campo una disponibilità a trecentosessanta gradi a farsi conoscere e a mettersi a disposizione, abbattendo le barriere e le resistenze che si possono frapporre fra impresa e cliente.

Il posizionamento di una marca con un concetto di funzionalità dovrebbe orientare il marketing mix a mettere in rilievo la particolare capacità e performance della marca nel risolvere gli specifici problemi connessi al consumo (l’originaria natura di problem-solver del prodotto viene qui fuori in tutta la sua portata). La performance della marca dovrebbe essere, qui, differenziata da quella delle marche concorrenti.

Le marche basate su concetti simbolici dovrebbero porre i maggiori sforzi nell’avvicinare e attirare l’attenzione dell’uditorio che ne costituisce il target per poi imporsi come oggetto di desiderio riguardo alla risposta alle specifiche esigenze di cui esso è portatore. Adottare un prezzo elevato e riuscire ad entrare nel ristretto ed esclusivo circuito distributivo dal cliente riconosciuto come naturale sbocco del particolare tipo di marca che va ricercando, potrebbe costituire un buon primo passo. L’importante, comunque, è che si metta implicitamente o esplicitamente in evidenza che la marca è qualcosa che distingue i clienti che rientrano nel target da quelli che non vi rientrano, invitando così i primi a fare parte di un qualcosa di

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speciale, un mondo a parte dove le proprie esigenze troveranno appagamento.

Le strategie adottate da marche che si appellano a bisogni esperenziali dovrebbero essere impostate in modo da porre in risalto la capacità della marca di esprimere quella stimolazione cognitiva e soddisfazione sensoria che sono alla base del concetto di marca.

Nella fase di elaborazione lo sforzo delle strategie di posizionamento, guidate dal concetto elaborato, va rivolto e focalizzato all’incremento del valore dell’identità di marca di cui l’immagine è espressione, in modo da stabilire e sostenere la percezione della sua superiorità su quella dei concorrenti. Per ottenere l’effetto desiderato, la strada da percorrere può essere quella di rivolgerci a un più specifico bisogno oppure migliorare uno o più attributi del prodotto tra quelli avvertiti come particolarmente importanti. Qualora si renda necessario procedere ad un aggiustamento riguardo alla posizione assunta nella prima fase, ciò non deve comunque coinvolgere il concetto di marca.

Sebbene tutti i concorrenti abbiano gli stessi obiettivi di rafforzamento e differenziazione, i risultati che essi conseguono, oltre che dalle diverse capacità e risorse a disposizione e dai conseguenti diversi livelli di fusione con il mercato raggiunti, sono determinati anche dai diversi concetti di marca che rappresentano le rispettive basi per la competizione. Rilevante è poi la constatazione che la strategia adottata in questo stadio si presenta come l’estensione di quella seguita nell’introduzione.

Una marca imperniata sul concetto della funzionalità ha la facoltà di scegliere tra una ulteriore specializzazione1 nel proporsi come problem-solver di una determinata esigenza (scelta che diventa particolarmente utile, se non necessaria, quando i prodotti diventano sempre più complessi e sofisticati, i bisogni specifici, il mercato frammentato), oppure una strategia

1 Stiamo concentrandoci su un segmento più ristretto, ma in grado di generare grandi profitti potenziali, anche se la marca non resterà isolata nella sua posizione felice per molto tempo, dal momento che la profittabilità del segmento attirerà sul mercato nuovi agguerriti concorrenti. Aumentare il valore dell’immagine percepita ed essere riconosciuti come coloro che fanno il mercato potrà comunque servire ad opporre resistenza all’erosione della quota di mercato.

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di generalizzazione con l’obiettivo di rendere la marca utile in tutta una serie di occasioni di uso per le quali in precedenza non lo era. Nel primo caso, l’impresa goderà, a corollario, del beneficio legato alla restrizione del numero di concorrenti presenti sulla sua stessa arena competitiva. Nel secondo, andrà incontro allo scenario opposto, anche se potrà disporre di un prodotto dalle caratteristiche più versatili. L’optare per l’una o per l’altra di queste strategie dipenderà allora dalla particolare struttura e dalle specifiche connotazioni del mercato preso in considerazione.

Una marca con un concetto simbolico ha per obiettivo, nella fase di elaborazione, il mantenimento dell’associazione e del legame con il gruppo che ne rappresenta il target di riferimento. La strategia di posizionamento adottata in tal senso e volta al mantenimento dell’esclusività della marca viene definita “market shielding strategy”. Si tratta di erigere barriere a ché il consumo della marca risulti difficoltoso a chi non appartiene al target magari agendo in modo tale da far nascere poi in questi ultimi il desiderio di entrare a far parte dello stesso mondo – di riferimento – cui si rivolge la marca allargando così su essi la propria sfera di influenza. Mantenere l’immagine è molto difficile, date le crescenti pressioni concorrenziali, tuttavia può rappresentare l’unica via per estendere la vita di una marca.

Le marche esperenziali, enfatizzando l’aspetto sensoriale/cognitivo, promuovono per propria vocazione e natura l’uso frequente. Il rischio è che questa frequenza arrivi a determinare una sensazione di sazietà o addirittura una situazione di overdose con un’inevitabile riflusso ed il seguente indebolimento dell’immagine di marca2. Si rende perciò necessario il mantenimento di un certo livello di controllo degli stimoli e del consumo. Per evitare di vedere ridurre il grado di stimolazione sotto livelli critici le marche il cui concetto si basa sui bisogni esperenziali possono seguire due diverse strategie principali. Da una parte possono allargare l’offerta attraverso il rendere disponibili prodotti o servizi accessori da usare congiuntamente alla marca. Oppure può essere creata una rete di marche ciascuna portatrice di qualcosa di diverso garantendo in questo modo una pluralità di stimoli differenti.

2 Si tratta, questa, di una situazione evidentemente difficilmente verificabile per una marca che si incentri su un concetto simbolico.

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Nel terzo (eventuale) stadio, la fase di fortificazione, l’obiettivo è quello di procedere al collegamento dell’immagine di marca elaborata con altri prodotti della stessa impresa appartenenti a differenti classi di prodotto. I prodotti multipli, almeno nelle intenzioni, si rafforzano vicendevolmente e conferiscono alla aggregazione di marca un senso di unità e coesione aumentandone il valore. Questo, tuttavia, non significa un’interruzione per la fase di elaborazione, la quale, al contrario, continua per tutta la vita della marca. L’adozione si una strategia di fortificazione presenta, inoltre, ulteriori vantaggi: i costi si comunicazione verrebbero ripartiti su una più ampia base; la presenza di immagini simili potrebbe aiutare a creare la percezione di una complementarità dei prodotti inducendo ad un utilizzo congiunto; le singole immagini potrebbero concorrere all’incremento del valore dell’immagine di impresa. I rischi sono quelli che derivano dal non costituire dei compartimenti stagni: una eventuale perdita di immagine di una marca potrebbe, per un’inevitabile associazione questa volta negativa, trasmettersi rapidamente alle altre, rendendo estremamente arduo qualsiasi tentativo di ripristinare l’originario valore di marca.

In questa fase le strategie di posizionamento dovrebbero enfatizzare il collegamento all’originale concetto e immagine di marca (“bundling strategies”) e l’impresa dovrebbe riuscire ad avere, se possibile, una ampiezza di visione ancora maggiore. Le marche basate su un concetto funzionale devono fare risaltare il collegamento con altri prodotti orientati alla performance. Un processo analogo vale per quelle che rispondono a problemi esperenziali dando una particolare enfasi alla complementarità tra i prodotti.

Maggiori appaiono le potenzialità di una bundling strategy se essa viene applicata a prodotti che rispondono ad esigenze simboliche. In questo caso, diventa possibile giocare con i collegamenti in modo tale da creare veri e propri stili di vita dei quali i singoli prodotti sono ognuno parte.

1.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca.

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L’approccio al concetto di marca, inserito nel contesto del posizionamento, viene sempre più riconosciuto come passaggio obbligato da affrontare da parte della strategia ai fini della generazione e dell’accrescimento del valore d’impresa e per il conseguimento del successo della marca nel mercato, andando a ribaltare, in questo modo, i rapporti di forza con la nozione di prodotto a lei simmetrica. La marca ha, cioè, conquistato quel ruolo di primo piano che prima non le era riconosciuto, distaccandosi ed elevandosi sopra la passata inclinazione a fare del prodotto la leva strategica principale e di riferimento per l’azione strategica.

Nel concetto di marca vengono così a convergere sia gli attributi tangibili dell’offerta dell’impresa (quelli che ineriscono al core product) che quelli intangibili e riconducibili al surround product, fra i quali spicca senz’altro l’identità di marca assieme all’immagine di marca, la sua proiezione nella mente del cliente così come viene da questi percepita.

Identità di marca ed immagine di marca non sono comunque sinonimi e perciò non vanno confuse. La prima attiene al momento della proiezione della visione della quale siamo portatori e della personalità che ci caratterizza. In primo luogo, questa proiezione avviene verso l’ambiente esterno nelle forme del target cui ci rivolgiamo, del comune sentire della realtà sociale, economica, culturale, di potere propria del contesto di riferimento. Ma importante è anche la proiezione che ne facciamo all’interno dell’impresa, nel tentativo di informare l’intera organizzazione secondo un codice genetico idoneo a farla pensare e muovere coerentemente con la visione proposta.

L’immagine di marca è, invece, un concetto che attiene al momento in cui l’identità proiettata dall’impresa giunge, attraverso un percorso in cui i significati originari di questa possono essere alterati in seguito ai condizionamenti della concorrenza, delle barriere percettive e delle circostanze, alla mente del ricevente il segnale. Questi, alla fine del processo appena descritto, implementerà un’immagine che non sarà necessariamente coincidente con il sistema valoriale e simbolico contenuto nel concetto di identità che è stato emesso.

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La relazione tra identità ed immagine di marca è illustrata in figura 1.8. Come sappiamo, core product e surround product sono tipicamente

portatori, rispettivamente, di attributi tangibili ed intangibili che esprimono, confluendovi, il concetto di marca cui essa farà costante riferimento e che assumerà le connotazioni di una vera e propria identità di marca. Quest’ultima, ben definita, costituisce il modo di essere della marca e va ad esprimere tutti i valori ed i significati che ne costituiscono il codice genetico tanto nei rapporti che l’impresa intrattiene con il mercato, quanto nei rapporti che si sviluppano al suo interno. L’immagine di marca, infine,

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CORE PRODUCT SURROUND PRODUCT

ATTRIBUTI TANGIBILI ATTRIBUTI INTANGIBILI

CONCETTO DI MARCA

IDENTITA’ DI MARCA

IMMAGINE DI MARCA

MENTE

FEEDBACK FEEDBACK

Figura 1.8 – Concetto, identità ed immagine di marca

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è la risultante della proiezione dell’identità nella mente dei potenziali acquirenti operata dall’impresa nel suo sforzo comunicativo ed espressivo generalmente inteso.

L’identità fa riferimento al particolare mondo di significati della marca ed in ciò si distingue dalle identità delle marche concorrenti. Con il tempo, attraverso la condivisione partecipata degli eventi che determinano il sentire dell’acquirente e il prendere parte al particolare immaginario cui egli si richiama, l’identità di marca viene a definire un’area di possibilità legittimate.

Sarebbe tuttavia pericolosamente riduttivo e fuorviante intendere la costruzione dell’identità di marca come circoscritta allo stabilire quale sia l’architettura giusta per gli attributi di cui sono portatori i prodotti e a quale prezzo questi vadano portati sul mercato. Il ruolo dell’identità è in realtà molto più importante, dovendo essa rendersi promotrice di un mondo che il cliente deve riconoscere come possibile e auspicabile attraverso il disegno dei contesti comunicativi, di quelli nei quali il prodotto vive e attraverso le storie che esso racconta.

L’identità di marca, in ogni caso, non trova solitamente modo, nell’immediato, di sviluppare e manifestare la propria forza ed esprimere appieno la capacità di generare tutto il valore di cui è potenzialmente portatrice. Essa si sviluppa nel tempo secondo un processo evolutivo che vede la marca attraversare tre fasi attraverso le quali diventerà sintesi dei nuclei ideali in cui è suddivisibile il prodotto1:

- Marca come sintesi di attributi di prodotto. In una prima fase il potere di cui dispone la marca è indirizzato (e solo sufficiente) a consentire la distinzione del prodotto di un’impresa da quelli della concorrenza attraverso l’adozione di un sistema di segni di riconoscimento. All’inizio sono perciò i prodotti a dare un senso alla marca.

- Marca come sistema di valori. Se all’inizio i prodotti contengono in sé elementi di differenziazione, successivamente, in seguito all’operare dell’azione strategica da parte dell’impresa, essa riesce a dispiegarsi

1 S.SAVIOLO, Gestire l’identità di marca nella moda. Il caso Artime – Sector No Limits, in “Economia & management”, settembre 1997, p. 52.

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attraverso l’affermazione di attributi intangibili quali ad esempio valori evocati, forme, prezzo. È questa la fase centrale dell’evoluzione della marca, nella quale essa acquista una propria personalità e organicità e viene associata a un insieme di elementi tangibili e intangibili. Sono appunto codesti elementi – ed in particolare quelli intangibili – a innescare un processo che ha come risultato ultimo (anche se non definitivo e da sviluppare senza soluzione di continuità) quello di creare sia per l’impresa sia per il cliente un valore che va oltre la mera somma degli attributi di prodotto. Il concetto di marca si fa, in questa fase, corposo, superando l’iniziale sua astrattezza e inconsistenza.

- Marca come vettore di sviluppo. Il risultato ultimo dell’evoluzione dell’identità di marca è quello in cui la marca si distacca completamente dal prodotto che le è sottostante per giungere a godere di vita autonoma, Non sempre le imprese raggiungono questo stadio di sviluppo della propria identità di marca, vedendo invece arrestata la sua evoluzione a una delle fasi precedenti.

La sequenza con cui una marca si muove da una fase all’altra non ha una valenza determinata in partenza, essendo il limite fra esse assai sfumato e valendo come fattore determinante la struttura e le caratteristiche proprie del settore o segmento in considerazione. Così, in alcuni settori si può verificare l’accesso diretto all’accezione valoriale della marca saltando il primo momento in cui essa rappresenta solamente il segno nel quale riconoscere un insieme di attributi. Ciò può valere, per esempio, nel settore moda, dove da subito riveste un’importanza primaria una comunicazione incentrata sull’espressione di mondi di riferimento capaci di essere riconosciuti come effettivamente desiderabili dal consumatore (invece che fondata sull’evidenziazione del complesso di attributi presenti nel prodotto).

Il passaggio alla seconda e alla terza fase diviene ancora più opportuno e auspicabile nei marcati maturi, dove ormai il livello di rumorosità è molto elevato e il consumatore si trova a dover scegliere tra prodotti che ai suoi occhi risultano essere sullo stesso piano, e dove l’affermazione di una forte personalità di marca può essere risolutiva nel

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determinare la scelta. Ad ogni modo, è in quei settori dove sono dominanti gli aspetti evocativi e quelli simbolici che l’identità di marca ha i maggiori margini di sviluppo e può apportare i più elevati incrementi di valore.

L’importanza del creare una personalità di marca forte e definita appare in tutta la sua evidenza se consideriamo i livelli di complessità che la mente si trova ad affrontare, esposta come è ad un eccesso di informazione sempre crescente. La mente, in genere, ama la semplicità e poco tollera un bombardamento di segnali che alla fine produce soltanto disorientamento1. Così, per ogni categoria di prodotti riusciamo a trattenere e ad associare al bisogno sottostante solamente un numero limitato di immagini corrispondenti ad altrettante marche. Compito dell’identità di marca diventa allora quello di far rientrare il nostro prodotto tra la ristretta schiera di eletti che hanno accesso alla mente del cliente attraverso il riconoscimento della loro funzione di adeguati problen-solver riguardo al bisogno che è alla base della scelta2. Per ogni segmento/mercato, il consumatore assegna la leadership soltanto a poche imprese. Questo non deve però sorprendere, essendo la caratteristica di qualsiasi rapporto di interlocuzione. Nessuno ha la capacità di esprimere un numero elevato di preferenze pariteticamente sopra tutte le altre, qualsiasi sia l’argomento della scelta da operare. Perciò, dobbiamo tenere in considerazione, per esempio, che anche i nostri distributori, nel caso non siano legati a noi da un rapporto di esclusiva, manifestano delle preferenze e tra esse dobbiamo cercare di ricadere3.

1 Solo in rare eccezioni il disorientamento potrebbe risultare un effetto gradito ed anzi ricercato per il suo particolare effetto ottundente i sensi.

2 Poco importa che non si tratti di un bisogno meramente funzionale o comunque avvertito distintamente come tale dal potenziale acquirente. Anche il bisogno di apparire e di esprimere una simbolicità attraverso l’acquisto non esimono dal riconoscere, sia pure solo implicitamente, all’acquisto stesso l’attribuzione di problem-solver. L’unica cosa che cambia è la diversa natura del problema e della soluzione per esso prospettata.

3 L’esempio è peraltro estensibile al caso di un rapporto di esclusiva, dal momento che si può sempre presentare la possibilità di troncare tale rapporto in favore della costituzione di uno nuovo con una marca ritenuta più appetibile proprio perché portatrice di una identità più forte.

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Il processo che porta all’ideazione e allo sviluppo dell’identità di marca si articola in momenti che, al fine della loro comprensione, possiamo distinguere, ma che in realtà si intersecano in una vicendevole convergenza verso il saper essere e il saper rappresentare.

Per la costruzione o il riposizionamento di una identità di marca, è innanzitutto fondamentale riuscire ad interpretare il contesto socioculturale e gli immaginari collettivi di riferimento, trovando, attraverso una fusione, la sintonia tra impresa e mercato, in modo da prospettare per l’identità un ampio potenziale di sviluppo.

La visione si pone, allora, come il risultato strategico di questa interpretazione svolgendo allo stesso tempo una funzione di informazione dell’azione strategica e di riferimento per tutta l’organizzazione. Dalla visione scaturisce direttamente la concezione di identità di marca, la quale, una volta progettata nei suoi aspetti tangibili1, viene proiettata verso il mercato esprimendo in tal modo il senso compiuto dell’idea cui siamo pervenuti. La progettazione dell’identità di marca si matura in tre momenti:

1. Diagnosi dell’identità di marca attuale.Questa prima attività, necessaria se il problema è quello di procedere a un riposizionamento, è volta a comprendere, attraverso un’analisi obiettiva, quale sia al momento l’essenza dell’offerta dell’impresa intendendo con ciò la sua ragion d’essere, i simboli e i codici comunicativi utilizzati per lasciare la propria impronta nella mente del target e se essi siano riconoscibili e condivisi. In questa prima fase, occorre verificare, inoltre, se l’identità di marca concorda o meno con gli attributi tangibili del prodotto, potendo ben verificarsi l’eventualità che la visione non abbia trovato in essa una consona espressione.

2. Visione prospettica del posizionamento.Può costituire la prima attività da portare a compimento nel caso in cui il problema sia quella di creare ex novo un posizionamento. Il passo logico che deve necessariamente precedere l'indagine della migliore posizione assumibile è rappresentato dal chiedersi a che punto stiano le visioni dal dentro e dall’esterno. Questa valutazione risulta spesso

1 È questa l’attività propriamente detta “di posizionamento”.- 68 -

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difficile per la mancanza di obiettività di chi la esegue e per le stesse cause che sono alla base degli effetti di disorientamento descritti in precedenza. I limiti in cui incorre, viceversa, ne aumentano ulteriormente l’importanza e la decisività.Domandarsi quale siano la visione e la missione che intendiamo portare avanti e quale sia il traguardo che, raggiunto, possiamo ritenere soddisfacente serve poi ad orientare la marca in una precisa direzione. È la visione a dettare i punti salienti, tangibili e intangibili, che debbono ritrovarsi nel prodotto. Occorre identificare quale sia il gruppo di clienti cui intendiamo rivolgerci, quali siano le occasioni d’uso (magari con possibilità di essere ampliate) su cui basare la nostra azione, e, soprattutto, quali siano le reali posizioni, attuali e potenziali, dei nostri concorrenti.Con la definizione e la creazione di una identità di marca coerente con la visione emergono le tematiche relative a come, operativamente, manifestarla in modo da ricrearla nell’immagine percepita.

3. Sviluppo e alimentazione iterativa del concetto di marca.La conquista di una posizione di rilievo non deve far ritenere acquisito tale risultato. Essa deve essere continuamente alimentata e riorientata. Assumono, allora, rilevanza le esperienze vissute dalla marca e l’implementazione della riflessione circa quanto esse ci possono insegnare. Il ruolo della cultura e dell’apprendimento d’impresa risultano fondamentali nel cercare di ricostruire i terminali e i collegamenti delle relazioni causa-effetto e nello scoprire nuovi sentieri di sviluppo per l’identità e per l’immagine di marca. Una valutazione del genere non può, naturalmente, prescindere da una considerazione circa l’adeguatezza delle competenze aziendali e da una loro ridefinizione nel caso in cui ciò appaia necessario. Inoltre, se da una parte la marca deve rendersi partecipe del processo di innovazioni dei valori del proprio contesto di riferimento, dall’altra deve mantenersi ancorata ad un gruppo di valori stabili, capaci di informare l’azione strategica in qualunque situazione l’impresa si venga a trovare, e attorno ai quali viene fatto ruotare il “senso profondo” dell’identità di marca1.

1 S. SAVIOLO, 1997, op. cit., p. 58.- 69 -

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Capitolo 2

STRUTTURA E DINAMICA DEGLI SPAZI MENTALI: IL RAPPORTO CONSUMATORE-MARCA

2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla percezione e alla scelta della marca

Ogni strategia richiede, al fine della sua generazione ed attuazione, l’analisi del terreno di battaglia, l’ambito nel quale andrà ad inserirsi. Abbiamo già rimarcato come il particolare obiettivo per le strategie di posizionamento è dato dalla conquista degli spazi della mente. Ne consegue la necessità, da parte degli strateghi d’impresa, di conoscere in maniera profonda quali siano i principali meccanismi che presiedono al suo funzionamento e che sono alla base del comportamento delle persone (e, in particolar modo, degli acquirenti potenziali).

Evitiamo, in questo contesto, di spingerci sul terreno dell’elucubrazione del significato da attribuire al concetto di mente, per spostare la nostra attenzione sul suo funzionamento. Innumerevoli sono, infatti, le teorie filosofiche, psicologiche ecc.… che affrontano la questione dell’attribuzione di una determinazione alla mente. Nessuna di esse, tuttavia, pare pervenire ad una soluzione finalmente definitiva. Meglio, allora, impegnarsi nella più concreta e proficua comprensione di ciò che la mente fa e di come essa funzioni, con l’avvertenza che neppure qui possiamo affidarci senza alcun tema di smentita a questa o a quella interpretazione dei meccanismi che la muovono. Il punto di partenza di un simile percorso di analisi non può non essere costituito da quel fondamentale mattone della conoscenza e fattore stimolativo del suo

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sviluppo che è la percezione. Le leggi dell’associazione e le altre leggi empiriche del mondo psichico che approfondiremo in questo capitolo, non possono, in ogni caso, mai essere trasformate in equazioni causali. Esse non sono mai in grado di farci comprendere perché da una particolare causa antecedente debba assolutamente risultare l’effetto che di fatto risulta, pur conservando un importante valore indicativo1.

2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo del processo di percezione, elaborazione, valutazione.

Tutte le scelte che una persona effettua delle scelte, anche quelle che sembrano immediate e operate per riflesso sono, in realtà, il frutto dell’interazione di informazioni contenute in macrosistemi mentali aperti e dinamici i quali contengono già in se stessi tutto quanto occorre a che una decisione sia presa. In ogni individuo coesistono, cioè, un sistema percettivo, un sistema interpretativo e un sistema valutativo. Lungi dal costituire compartimenti stagni inseriti in un circuito logico sempre uguale a se stesso, essi si sovrappongono ed intersecano ad ogni istante, promuovendo tra i propri elementi combinazioni sempre particolari e diverse (pur nell’ambito di una ricorsività che, comunque, tende a prevalere).

Il sistema percettivo presidia l’accesso ai circuiti elaborativi della mente stabilendo di volta in volta se un determinato stimolo debba o meno raggiungere tale livello e, nel caso in cui più stimoli si prospettino contemporaneamente all’attenzione del soggetto, assegna le priorità e determina la rilevanza relativa. La percezione, quindi, può essere resa non attiva o rigettata, oltre che in funzione dei peculiari limiti fisiologici degli organi preposti ad essa, per l’intervento di filtri che ne impediscono il passaggio al sistema interpretativo, permettendo a quest’ultimo di evitare

1 Gli ambiti di validità incondizionata che costituiscono il correlato oggettivo degli atti logici, etici, estetici, … rappresentano, nel loro insieme, i modi differenti in cui si declina l’identità del mondo. Ciò che in particolare gli atti conoscitivi hanno di mira è, in qualche modo, il livello primario dell’identità del mondo così come risulta dal fluire dell’esperienza.

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inutili dispendi di energie1. È su questo sistema che il posizionamento deve, in prima istanza, intervenire: riuscire ad ottenere l’attenzione dell’acquirente è una condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per conseguire una posizione di preminenza nella sua mente e divenire poi l’oggetto della scelta. Ma il superamento delle barriere percettive, come vedremo, si presenta impresa tutt’altro che agevole, dovendoci confrontare da una parte con una elevata numerosità ed intensità di segnali che perseguono il medesimo obiettivo, e dall’altra con le limitate possibilità che esprime il sistema percettivo delle persone.

Il sistema interpretativo è il centro del pensiero dell’individuo. Qui, avviene l’attribuzione ai segnali ricevuti di un significato, contestualizzato rispetto al patrimonio di esperienze della persona ed al sistema di valori che da questo deriva e di cui essa si fa portatrice nel muoversi e confrontarsi con le situazioni che le vengono a pararsi davanti. Non sempre l’interpretazione che un soggetto dà di un segnale è il frutto di un ragionamento puramente razionale, potendosi anzi sostenere che ciò costituisca un’eccezione alla regola. Più spesso, le conclusioni cui giunge il processo elaborativo sono originate da commistioni tra elementi razionali ed altri caotici e apparentemente illogici, difficilmente prevedibili a priori. Certe decisioni sono poi il frutto di ragionamenti “di comodo” attraverso i quali l’individuo semplifica a proprio arbitrio e attribuisce sensi non propri ai segnali ricevuti e ai processi che razionalmente dovrebbe seguire, in modo da porsi in condizione di non avvertire il peso delle conseguenze che il ragionare in quei diversi termini potrebbe fare emergere. E qui sta il nucleo del posizionamento: nell’abilità di individuare – attraverso la fusione – il particolare percorso seguito dall’individuo e nella capacità di inserirsi nel punto giusto del processo interpretativo in modo da procedere con esso verso la scelta.

Il sistema valutativo sovrintende al momento della verifica dei risultati conseguiti attraverso la decisione presa. Risulta tutt’altro che banale evidenziare come la reiterazione di un qualsiasi comportamento derivi dalla presa in considerazione del grado di successo conseguito

1 Quello interpretativo è, in effetti, il momento di organizzazione del pensiero che richiede il maggiore sforzo e in cui maggior si fa il consumo di energie

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attraverso le analoghe precedenti scelte. La soddisfazione e l’appagamento di un individuo, in altre parole, sono direttamente collegati alla percezione della giustezza delle scelte operate. È, questo, uno dei più potenti criteri di comprensione delle ragioni alla base del comportamento, anche se spesso si tende a dimenticarlo. Rimarcare quest’aspetto, sottolineando la relazione intercorrente tra il prodotto e la scelta portatrice di soddisfazione, costituisce, perciò, la condotta di base da tenere nella costruzione di una forte immagine di marca.

Un semplice modello che illustra i meccanismi attraverso i quali la mente, ricevuto uno stimolo, giunge a determinare un corso per l’azione dell’individuo, è espresso in figura 2.11. Essa, in sintonia con la fondamentale dicotomia soggettività-oggettività, prevede due principali linee direttrici seguite a partire dalla ricezione di un segnale. Ciascuna di queste linee è governata dall’intervento di uno specifico aspetto ricollegabile alla parte più marcatamente emozionale/soggettiva della persona, oppure a quella razionale/oggettiva.

1 Tale modello trova conforto, tra gli altri, in: J. TROUT, S. RIVKIN, Il nuovo positioning, McGraw-Hill, 1997, pp. 25-26; B. BUSACCA, S. CASTALDO, Il potenziale competitivo della fedeltà alla marca e all’insegna commerciale. Una metodologia di misurazione congiunta, EGEA, 1996, pp. 36-39; D. A. AAKER, J. G. MYERS, 1991, op. cit., pp. 295-310.

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Figura 2.1 – Modello di funzionamento della mente

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STIMOLI

RAGIONE EMOZIONE – FASCINAZIONE

MONDO OGGETTIVO

MONDO SOGGETTIVO

ATTEGGIAMENTO E COMPORTAMENTO

DECISIONE E AZIONE

FEED – BACK

ANELLI DI DIFESA Esposizione selettiva

Attenzione selettiva

Ritenzione selettiva

Comprensione selettiva

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Il processo che conduce il soggetto a prendere una determinata decisione e porre in essere un’azione prende avvio invariabilmente dalla ricezione di stimoli che, una volta decodificati e interpretati secondo il proprio personale sistema valoriale, vanno ad originare il comportamento dell’individuo. Tra gli stimoli prevalgono quelli di origine esterna: anche quando l’acquisto pare dettato da stimoli interni alla persona, è sempre possibile rintracciare un’influenza esterna che guida comunque la scelta, sia che agisca in maniera diretta, sia che lo faccia in modo mediato e indiretto1. L’influenza degli stimoli sul comportamento deriva, quindi, dall’interazione della struttura dei bisogni dell’individuo con l’ambiente, il quale offre incentivi a seguire una certa condotta e resistenze a seguirne altre. E poco importa che gli stimoli recepiti siano non concordi con la realtà, poiché quello che viene percepito diviene, per ciò stesso, realtà.

Non tutti gli stimoli che entrano in contatto con il sistema percettivo della persona raggiungono tuttavia il momento dell’elaborazione e dell’interpretazione. Di fronte ad una massa così imponente di informazioni in entrata, infatti, viene posto in essere un meccanismo difensivo basato sulla selezione e che impedisce l’accesso alla mente alle informazioni che, per qualsiasi ragione, siano ritenute indesiderate2. Il nostro sistema di selezione è strutturato in almeno quattro anelli di difesa:

- Esposizione selettiva. In forza di questo primo diaframma le informazioni non desiderate o indesiderabili vengono deviate non

1 Ad esempio, i consumi cosiddetti “alternativi” seguono la logica della contrapposizione a qualcosa con la quale, per definizione, chi li pone in essere si confronta; resta salva in tutta evidenza la considerazione che la contrapposizione è verso un elemento esterno e tiene comunque conto dei segnali che esso emette.

2 Come vedremo nel prossimo paragrafo, oltre al processo di selezione delle percezioni esiste un altro meccanismo attraverso il quale la mente cerca di difendersi dall’eccesso informativo: l’organizzazione delle percezioni. Essa avviene nel momento in cui le informazioni che hanno superato la selezione vengono processate e si estrinseca nella categorizzazione delle marche concorrenti.

La difesa basata sui meccanismi di perceptual selectivity e di perceptual organization è espressa in L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., pp. 89-93.

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esponendosi ad esse. Si tratta di una difesa che avviene a monte del processo comunicativo, prima ancora, cioè, che il segnale entri in contatto con il macrosistema percettivo.

- Attenzione selettiva. Impattando questa seconda barriera le informazioni non desiderate sono deviate non venendo prese in considerazione e non prestandovi attenzione, nonostante si resti esposti ad esse. In questo stadio le informazioni sono filtrate in modo da costruire o rinsaldare un supporto per le esistenti credenze e opinioni riguardo una marca, evitando i significati in contraddizione con esse in quanto costringerebbero a porre in essere un nuovo, più complesso e impegnativo processo di interpretazione, il quale potrebbe, alla fine, condurre ad una situazione di dissonanza cognitiva.

- Comprensione selettiva. È una caratterizzazione del momento elaborativo per la quale, superate le barriere dell’esposizione e dell’attenzione, il consumatore inizierebbe a interpretare il messaggio, ma, trovando che parte delle informazioni non si adattano e concordano bene con i suoi precedenti valori e credenze, distorcerebbe il messaggio iniziale fino a che esso non sia allineato più strettamente a tali diverse vedute.

- Ritenzione selettiva. Con il trascorrere del tempo ed il continuo reiterarsi dei processi interpretativi, la memoria inizia a farsi più confusa e nebulosa riguardo alla mole di significati che le si viene imposto di trattenere. In virtù della ritenzione elaborativa, allora, le informazioni che meno si adattano agli atteggiamenti esistenti, analogamente a quanto accade per la comprensione selettiva, possono filtrare (soprattutto attraverso l’esposizione e l’attenzione), ma poi non vengono ritenute.

Passando ognuno di questi anelli di difesa ci avviciniamo al momento in cui gli stimoli giungeranno alla mente e verranno elaborati, ma di per sé ciò non significa necessariamente che essi non incontrino una definitiva resistenza nell’anello successivo.

In seguito alle considerazioni appena espresse possiamo ritenere che, attraverso la selettività, il consumatore si ponga come scopo quello di

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ottenere informazioni sufficienti, e soprattutto rilevanti e non ridondanti, perché una decisione possa essere presa. Questa si chiama vigilanza percettiva.

Un ulteriore obiettivo che la persona si pone è dato dal mantenimento delle precedenti attitudini e credenze, e viene indicato come difesa percettiva. Come evidenziano Trout e Rivkin1, in seguito all’azione operata dagli anelli di difesa, vengono generalmente recepiti quei segnali che si accordano ai nostri interessi e attitudini preesistenti, in modo da sostenerli o rifiutarli. In pratica il ricevente tende ad ascoltare solo il proprio messaggio. Compito del posizionamento è allora quello di elevare le aspettative che gli acquirenti già hanno, non quello di crearne di diverse. Si badi bene: questo non implica che venga sminuita l’attività di sviluppo delle aspettative, ma evidenzia come spesso si compiano azioni che, per il fatto di proporre interpretazioni opposte rispetto a quelle effettivamente sentite, finiscono per produrre conseguenze disastrose per chi le mette in atto causando gravi problemi di riposizionamento.

La percezione dei segnali non ha sempre la stessa portata e lo stesso impatto, essendo influenzata da una pluralità di fattori determinanti che sono analizzati da Aaker2:

Esigenza – Lo stato di esigenza avvertita incrementa il peso del segnale e la probabilità che esso penetri gli anelli di difesa: è l’esigenza percepita stessa ad amplificare la forza del segnale inteso a darle soluzione.

Valori – I riferimenti utilizzati dal posizionamento che rispecchiano i valori profondi di una persona vengono recepiti prima e più facilmente degli altri, poiché offrono una gratificante convalida delle proprie strutture concettuali di riferimento.

Preferenze – Un segnale noto e già accettato in passato ha, inoltre, una velocità di percezione e una probabilità di superare i filtri superiori rispetto ad uno stimolo del tutto nuovo la cui esposizione deve invece essere prolungata.

Preferenze del gruppo – L’appartenenza a un gruppo sociale, o comunque l’identificazione con un gruppo di riferimento, induce

1 J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 26.2 D. A. AAKER, J. G. MYERS, 1991, op. cit., pp. 325-328.

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l’individuo ad una pressione autoindotta che può influenzare la percezione. L’identificazione con il gruppo sarebbe, per la persona la quale ritenga che esso percepirebbe il segnale in una certa maniera, una motivazione sufficiente a spingerla a percepirlo allo stesso modo1.

Il processo interpretativo degli stimoli può, una volta che essi sono pervenuti alla mente superando le barriere percettive, seguire due percorsi che, almeno in partenza, si presentano come distinti e alternativi. Da una parte i segnali possono essere incanalati dall’analisi razionale nella sfera oggettiva della persona, dove ha inizio il processo di interpretazione il quale mantiene una relazione di stretta causalità tra gli anelli della catena logica. Dall’altra parte i segnali provenienti dall’esterno possono stimolare maggiormente il lato emotivo/fascinabile dell’individuo, venendo così ad essere posti all’attenzione del particolare mondo soggettivo che lo contraddistingue. Qui, l’elaborazione si fa molto meno lineare seguendo, invece, le pulsioni e i salti che sono tipici della soggettività.

Come accennato, questi due percorsi non sono sempre nettamente distinguibili, potendosi avere delle commistioni e influenze reciproche. Così, una volta che gli stimoli entrano, attraverso la ragione o l’emozione/fascinazione rispettivamente nel mondo oggettivo o in quello soggettivo (che sono, vale la pena di insistere, compresenti nella persona), il fatto che seguano o meno un procedimento lineare (all’interno del particolare mondo di riferimento) dipende dal prevalere di due attributi distinti che possono caratterizzarlo e che sono riconducibili alla coerenza e alla convenienza.

La coerenza è definibile come la capacità (o il limite, secondo i casi) di mantenere una continuità tra quanto ci si propone e quanto si persegue in ognuno dei momenti in cui suddividiamo la volizione e la sua attuazione.

1 Numerosi esperimenti hanno dimostrato che, se una persona appartenente ad un gruppo di cui sente pressante il riferimento e il confronto viene posta di fronte ad un’opinione anche palesemente errata, ma fatta propria dalla maggioranza del gruppo, allora, frequentemente, quella persona tenderà a riformulare la sua opinione in modo da renderla conforme ed in linea con quella maggioritaria. Si tende cioè a ritenere che la maggioranza, proprio per il semplice fatto di essere preponderante, abbia ragione, evitando nel contempo di entrare in contrasto con la percezione dominante..

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Non sempre, tuttavia, la coerenza pare essere l’approccio mentale preferibile, dovendo il soggetto confrontarsi con problematiche che esulano da un orientamento lineare. Consideriamo e ci riferiamo, allora, alla convenienza come a quel fattore che, in considerazione dei vantaggi offerti relativi ad una maggiore gestibilità del bilancio psicologico del soggetto, fa prevalere l’interesse a vedere da un diverso punto di osservazione gli elementi oggetto dell’interpretazione originaria.

Venendo a prevalere la coerenza, il percorso seguito dall’elaborazione attraverso il particolare mondo interpretativo vissuto, sia quello oggettivo che quello soggettivo, è diretto come indicato dalla linea tratteggiata, ideale prolungamento dell’iniziale indicazione dei due filtri che portano gli stimoli alla mente. L’atteggiamento e poi il comportamento tenuti dal soggetto sono in questo caso l’esito ultimo di un tragitto che, pur nell’ambito delle differenti peculiarità riscontrabili nell’uno e nell’altro caso, discende per linea diretta da tali filtri. Ogniqualvolta, per esempio, un fattore emotivo spinge l’elaborazione oggettiva a trasferirsi nel mondo soggettivo la prevalenza dell’attributo coerenza opera una spinta in direzione opposta in modo da riprendere il percorso originario.

Quando invece a prevalere è la convenienza (avvertita) a riformulare le proprie idee e convinzioni cambiando prospettiva ed allontanandosi da quanto originariamente indicato per i segnali in entrata, allora i percorsi si incrociano dando luogo ad un circuito che attraversa e si muove, ora indistintamente, tra il mondo soggettivo ed il mondo oggettivo dell’individuo, secondo le opportunità interpretative che ad ogni momento si presentano più favorevoli (nella figura questo intersecarsi è rappresentato dalle frecce che conducono, con moto circolare, da una parte all’altra della sfera elaborativa).

È perciò all’interno del mondo oggettivo e di quello soggettivo che si forma l’interpretazione del segnale, la quale costituisce, poi, la base per la determinazione dell’atteggiamento seguito dal soggetto e del comportamento che egli si appresta a tenere.

L’atteggiamento derivante dal processo elaborativo e il relativo comportamento conducono ad una decisione che viene infine espressa nell’azione posta in essere. In questo modo l’azione è portatrice dell’intero

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sistema di percezione e di elaborazione dell’individuo. Attraverso l’azione, qualunque ne sia l’origine, vengono a prodursi degli effetti che, tramite il vaglio del sistema valutativo, producono informazioni di ritorno le quali vanno a modificare il senso dei nuovi segnali in arrivo, consentendo una più mirata selezione del filtro interpretativo e del particolare circuito da attivare nei mondi di riferimento dell’individuo.

2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento.

Ogni atteggiamento e comportamento espresso da una persona trae le sue origini dalle esperienze sensoriali che essa ha accumulato lungo la sua esistenza. Di più: non viene mantenuta una traccia dell’esperienza pura e semplice, ma ad essa restano associate, invece, le sensazioni ed impressioni generatesi nella persona stessa. Se in passato, cioè, in risposta ad uno stimolo è stato fatto seguire un determinato comportamento che ha dimostrato di essere valido sia come solutore della situazione venutasi a creare, sia in relazione al senso di soddisfazione ed appagamento dell’individuo, con tutta probabilità al futuro manifestarsi di uno stimolo analogo, il soggetto reitererà quel comportamento1.

A volte, poi, il timore nei confronti di una strada mai esplorata comporta la messa in atto di una condotta che, pur nella consapevolezza della sua assai probabile inadeguatezza e del fatto che essa rappresenta solamente un palliativo, offre il conforto dell’abitualità. All’insicurezza e al mettere in discussione i propri abiti comportamentali si preferisce in sostanza l’adozione di un modo di agire per certi versi fatalistico, ma che possiede la virtù di tranquillizzare la persona riducendone la dissonanza cognitiva per il fatto stesso di consentirle di nascondere la testa sotto il guscio protettivo del consueto.

1 Il consumatore deve ricevere un appagamento dal verificare che, attraverso l’acquisto, ha operato la scelta giusta, ovvero ha raggiunto un successo.

Se questo accadrà il consumatore molto probabilmente si fidelizzerà e potrà eventualmente indirizzare verso la scelta della nostra marca chi rientra nella sfera delle sue conoscenze attraverso l’ostentazione del proprio successo (questo vale a maggior ragione per gli acquisti che coinvolgono emotivamente l’individuo).

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Altre volte, invece, accade l’opposto: la nuova e differente situazione non viene affrontata mediante modelli del passato i quali, pur non offrendo una completa sicurezza, parrebbero essere per lo meno sufficientemente ragionevoli da suffragare la scelta. Si preferisce, al contrario, adottare d’impulso un comportamento del tutto nuovo la cui affidabilità, peraltro tutta da dimostrare, potrebbe venire screditata in partenza se solo si mettesse in atto un processo più razionale di valutazione. E proprio questo è il punto: nel bilancio psicologico il peso costituito dallo sforzo elaborativo appare, in questi casi, superiore al beneficio che si ritiene potrebbe da esso derivare. Intraprendere un processo di valutazione più approfondito potrebbe condurci ad una condizione di incertezza e, ciò che è peggio e ancora più temuto, mettere in discussione la stessa validità, ormai data per assodata, dei nostri comportamenti passati.

Nell’uno e nell’altro caso, il riferimento è al principio per il quale il livello di soddisfazione è strettamente legato alla conferma della validità delle scelte effettuate intesa come manifestazione di successo (che avrà poi bisogno di essere esternata per ottenerne una proiezione sugli altri assieme ad una loro confortante approvazione).

Le esperienze effettuate e la relazione con i comportamenti tenuti nelle diverse circostanze sono immagazzinate nella memoria, vero e proprio archivio da utilizzare e al quale attingere nell’affrontare le situazioni mano a mano che si presentano.

Stretta appare la correlazione tra apprendimento e memoria. Se il primo concerne l’acquisizione di nuove informazioni e la modificazione di quelle esistenti, la seconda è data dal sistema in cui quelle informazioni vanno ad innestarsi e nel quale sono conservate nel tempo. Il legame tra apprendimento e memoria è costituito dall’appercezione, ovvero il processo di comprensione che presiede all’inserimento delle percezioni umane nel complesso delle precedenti esperienze. L’esperienza passata, così come ci è consegnata dalla memoria, funge cioè da alveo nel quale l’apprendimento fa confluire le percezioni: si tratta, in sostanza, dell’associazione di vecchie idee con nuove idee. Afferma Nietzsche che «un uomo non ha orecchie per ciò a cui l’esperienza non gli ha dato

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accesso». In altre parole, impariamo qualcosa di nuovo in relazione a quello che già comprendiamo.

Non bisogna comunque credere che la funzione svolta dalla memoria consista semplicemente nel riportare all’occorrenza alla luce pezzi di informazione precedentemente immagazzinati. In realtà, essa si presenta come un sistema dinamico governato dal meccanismo dell’associazione, che interessa qualsiasi aspetto dell’elaborazione del pensiero. È proprio sfruttando il modo di funzionamento della memoria, l’associazione, che chi si occupa di posizionamento cerca di ottenere l’acceso alla mente del potenziale cliente e di trovarvi un punto strategico di appoggio che offra un vantaggio rispetto ai concorrenti.

La memoria non è un tutto unico, ma si struttura in una parte a breve ed una a lungo termine, diverse per capienza e tempi di ritenzione delle informazioni. Se lo stimolo contenente l’informazione (ovvero il messaggio) riesce a superare il buffer costituito dagli anelli di difesa, allora esso va ad insediarsi nella memoria a breve termine (detta anche “working memory1”) le cui capacità contenitive sono piuttosto limitate sia riguardo al volume di informazioni che è possibile immettervi, sia riguardo al tempo che è possibile trattenerle.

Le limitazioni riguardanti la capacità della memoria a breve termine determinano la quantità di informazioni che può essere processata in ogni momento, ed influenzano, inoltre, il modo in cui le informazioni stesse vengono processate. Le limitazioni relative al tempo di decadimento implicano che le informazioni contenute nella working memory declinino come la loro energia venga dissipata o persa. Si presume che il tempo di permanenza dei pezzi di informazione nella memoria a breve termine si riduca ad un poco elevato numero di secondi (qualche decina)2.

1 Cfr. W. L. WILKIE, Consumer behavior, John Wiley & Sons, 1986, pp.82-93.2 Comunque maggiore di quello relativo al contatto degli stimoli con i nostri

sensi, riconducibile ad una frazione di secondo.- 82 -

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La capacità limitata a pochi pezzi di informazione1 ha notevoli implicazioni per chi, nell’impresa, si occupa di studiare il modo di occupare una posizione nella mente di una persona, venendosi ad accrescere l’importanza del rientrare fra quei pochi nomi che vengono ricordati per la particolare categoria cui appartiene, per i potenziali acquirenti, il nostro mercato di riferimento2. Appare allora in tutta la sua evidenza il vantaggio che potrebbe essere conseguito dall’occupazione di una posizione fino allora inesistente, legato all’iniziale identificazione tra categoria e prodotto ed allo spiazzamento dei concorrenti3. L’immagine più potente che la marca può ingenerare in una persona si ha, infatti, quando questa utilizza il riferimento al nome del prodotto per indicare una categoria (per esempio, “Coca Cola” è divenuta nel tempo l’espressione generica per indicare una bevanda alla cola). In questo modo, la marca assume le connotazioni di leader, potendo beneficiare di tutte le potenzialità che l’essere parte dell’immaginario del cliente comporta . Una volta stabilita la leadership del mercato e una volta impressa la sua immagine e rinsaldate le associazioni che vanno a sostenerne la struttura, diventerà ben difficile per i concorrenti scalzare la marca dalla posizione conquistata, potendo questa godere dei vantaggi connessi al “giocare in difesa”.

La memoria a lungo termine contiene una quantità notevolmente superiore di informazioni che restano trattenute stabilmente al suo interno per un più esteso periodo di tempo. Ma tutto ciò che transita nella memoria

1 Sette al massimo per ogni categoria, affermò lo psicologo George Miller (citato in J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 24, ed in W. L. WILKIE, 1986, op. cit., p. 87). Di conseguenza trovarsi nell’ottava o in una successiva posizione nella graduatoria di riconoscibilità dei consumatori significa praticamente non esistere ai loro occhi e va a limitare notevolmente le possibilità di sviluppo della marca. Diventa in quel caso prioritario acquisire notorietà, e ciò può essere fatto solo mediante il dare nuovo corpo all’identità di marca e attraverso il suo ispessimento.

2 Il processo di categorizzazione sarà affrontato nel paragrafo 2.1.3.3 A condizione che si disponga delle necessarie risorse – anche finanziarie – per

dar seguito all’azione intrapresa. In mancanza di ciò, potrebbe essere preferibile non muoversi in quella direzione per evitare di offrire lo spunto per un’azione alle imprese meglio attrezzate di noi.

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a breve termine non si deposita necessariamente in quella a lungo. Le nozioni immagazzinate nella memoria a breve rischiano perciò di andare perdute se non interviene qualcosa a trasferirle a quella a lungo (e questo è quanto solitamente accade: si ritiene che oltre l’ottanta per cento delle informazioni contenute nella memoria a breve termine non vengano trasferite). La linearità e la velocità di trasferimento dalla memoria a breve a quella a lungo termine possono sopperire ai limiti di capacità della prima attraverso l’elevato grado di svuotamento e rinnovo che vanno a determinare.

Memoria a breve termine e memoria a lungo termine differiscono anche qualitativamente. La prima, infatti, pare essere prevalentemente di tipo uditivo, mentre la seconda associa ad esso l’elemento visivo. Questo significa, in altre parole, che la memoria a breve lavora più efficacemente con dati espressi sotto forma di parole – sia udite che scritte1 – piuttosto che di immagini. La constatazione e presa in considerazione della diversità di comportamento dei due tipi di memoria sarà molto importante nell’impostazione del messaggio con cui si intende comunicare l’identità di marca ed occupare una posizione.

La memoria a lungo termine pare, inoltre, contenere due distinte tipologie di memorie: le memorie episodiche e le memorie semantiche. Le prime riflettono il modo in cui ci ricordiamo di eventi o episodi della nostre passata esperienza personale e sono espresse in forma iconica, quasi fossero delle istantanee o dei filmati ripresi nel passato e pronti a riaffiorare. Le memorie semantiche riflettono fatti e altre informazioni cui ci riferiamo dicendo di avere imparato qualcosa, e ci forniscono una base per accrescere l’abilità ad usare il linguaggio2.

1 Appare opportuno evidenziare come, anche di fronte ad un testo scritto, il suono predomini l’immagine. In effetti, le parole scritte hanno bisogno «dell’intervento dell’orecchio» per assumere un significato: durante la lettura, per ritenere ciò che si legge nella memoria a breve termine, si effettua una traduzione registrando in base al suono. La traduzione appare poi più immediata in lingue come quella italiana, dove quanto scritto corrisponde a quanto letto, rispetto ad esempio all’inglese nella quale occorre un passaggio in più, dovendosi far accordare la parola scritta con quella udita. Cfr. par. 4.2.1

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Una importante caratteristica della memoria a lungo termine è data dal fatto che può essere rappresentata come un’organizzazione a rete. In questa trama ogni nodo indica una parola, un’idea, un concetto, ed i collegamenti tra essi sono governati dal meccanismo dell’associazione di idee (ad esempio, se stiamo esaminando come viene percepita una bevanda analcolica, dovremo tenere presente che l’idea di “ acqua ” non è collegata a quella di “ zucchero ”, mentre lo è il concetto di “dolce”).

L’organizzazione a rete entra in gioco nel momento in cui la working memory richiama certe informazioni da quella a lungo termine per poterle processare nel momento un cui si deve prendere una decisione della quale quest’ultima può fornire le basi di valutazione. Dal momento che alcuni nodi avranno la preminenza sugli altri, essi saranno quelli attivati per primi. Una volta attivato il primo nodo, saranno attivati anche gli altri ad esso connessi fintanto che il processo continua.

Il processo di memorizzazione avviene continuamente senza che ce ne accorgiamo. Le informazioni arrivano al cervello per restarvi il tempo necessario perché esso stabilisca una condotta coerente, ed a volte, come detto, passano alla memoria a lungo termine in funzione di una particolare rilevanza loro attribuita. Tuttavia, è possibile identificare alcuni fattori che paiono essere determinanti nell’attivazione della memoria e di cui tenere conto.

La semplicità è il carattere che maggiormente favorisce la memorizzazione, e la sua importanza aumenta di pari passo con l’eccesso di informazione e rumorosità ambientale, i quali non provocano altro che un disorientamento e un appiattimento in senso qualunquistico delle posizioni su luoghi comuni1. La mente non ama, in genere, inutili

2 La semantica si riferisce, infatti, allo studio dei simboli e del significato delle parole.

1 La banalizzazione è uno dei più grossi problemi che si devono affrontare nel processo comunicativo. I concetti che la marca vuole trasmettere rischiano di venire risucchiati dagli stereotipi che la persona pone in essere per attuare, lei stessa, quella semplificazione che non è stata fatta da chi emette il messaggio. Il problema sta proprio nel fatto che la semplificazione non è più, qui, frutto della volizione dell’impresa, potendo assumere connotazioni indesiderate e incontrollate, fino a divenire deleterie per

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complicazioni che conducono unicamente a problemi di gestione della massa di informazioni che le giungono e dai quali cerca di difendersi attraverso l’opera di filtro degli anelli di difesa. La strada che conduce un concetto complesso al diventare confuso (e per questo indesiderato) è assai breve. Così, i concetti espressi nella posizione della marca e nella sua comunicazione al target di riferimento devono essere il più possibile chiari e lineari, senza richiedere l’intervento di complicate e inutili elucubrazioni da parte sua. Quando appaia utile si può poi procedere a ridurre i concetti in più minuti e gestibili pezzi informazione, aumentandone in questo modo l’intelligibilità.

Nella ricerca della semplicità non sono, comunque, i fatti a dover essere cambiati, trattandosi, invece, di spostare il nostro punto di vista, in piena sintonia con il concetto di fusione.

Il livello di interesse che le persone mostrano nei confronti dello stimolo può costituire o meno l’elemento discriminante tra quanto è destinato a rimanere impresso nella loro memoria e ciò che invece verrà cancellato da essa in quanto percepito come superfluo. In effetti, si tende spontaneamente a ricordare quello che più ci interessa. Dal momento che ogni persona è portatrice di un proprio sistema di valori e di idee, uno stesso pezzo di informazione può attivare livelli di interesse diversi secondo i casi e le circostanze. Il punto principale da tenere in considerazione riguardo all’interesse inteso come attivatore della memorizzazione è che le associazioni tra stimolo ed interesse sono fortemente sedimentate nella mente ancora prima che gli stimoli stessi si manifestino. Questi non hanno la capacità di creare interesse dal niente, ma devono necessariamente rifarsi a nessi già presenti che per loro tramite vengono richiamati.

Semplicità ed interesse sono strettamente correlati. Se il concetto di noia è usualmente ricondotto ad una situazione di assenza di stimoli, una situazione analoga – e forse peggiorata dall’insorgenza nel consumatore di apatia e insofferenza – si crea nel caso opposto di un’eccessiva stimolazione e di un sovraccarico informativo. L’informazione tende, nell’aumentare, a divenire nient’altro che rumore, ridondanza, banalità,

l’immagine di marca.- 86 -

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andando a compromettere i propri contenuti e significati, ormai irriconoscibili.

Le emozioni, attraverso la contestualizzazione, costituiscono un altro importante fattore di attivazione della memoria. Le informazioni apprese nell’ambito di un determinato contesto emotivo, cioè, riemergono più facilmente quando vengono a ricrearsi le condizioni che caratterizzavano tale contesto. Semplificando la casistica più tipica, possiamo osservare come, per esempio, quanto appreso quando si è contenti venga ricordato meglio quando siamo nuovamente contenti, e quanto appreso quando siamo tristi venga ricordato meglio quando siamo tristi.

L’impatto emotivo della circostanza nella quale va ad inserirsi il segnale può essere così coinvolgente per l’intelletto che una cosa può essere udita o percepita anche solo una volta e poi rimanere nella nostra memoria per tutta la vita. Anzi, spesso il ricordo è più potente e completo della cosciente osservazione iniziale, e vengono immagazzinate in memoria maggiori e diverse informazioni rispetto a quanto era nelle nostre intenzioni. Così, anche a distanza di molto tempo, è possibile rimanere meravigliati nel constatare l’enorme e dettagliata mole di informazioni che siamo in grado ricollegare a un particolare evento della nostra memoria ed alle quali non avevamo allora prestato attenzione. Ad esempio, in caso di esperienze traumatiche viene registrato un numero molto più elevato di circostanze che connotavano quell’informazione.

Nell’ambito del posizionamento, tuttavia, occorre sgomberare il campo da ogni possibile equivoco ed evitare che il fare appello all’emozione porti il destinatario del nostro messaggio fuori strada. L’emozione deve essere aderente e confacente al senso pratico mai travalicandolo, mettendo invece in risalto il particolare vantaggio di cui il prodotto è portatore, vero fulcro dell’azione comunicativa. Emozioni e vendite possono essere in relazione tra loro, ma suscitare le prime in assenza delle seconde non può essere di alcun conforto per l’impresa.

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2.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni

Una volta che i segnali hanno superato gli anelli difensivi della selezione, esiste un ulteriore livello di schermo verso l’eccesso di informazioni: l’organizzazione selettiva o categorizzazione delle percezioni. Essa consente al consumatore di prendere una decisione di acquisto tra una pluralità di marche concorrenti sulla base della similarità che queste hanno con le categorie mentali concepite precedentemente e sedimentate, attraverso l’esperienza, nella mente dell’individuo. La categorizzazione delle percezioni consiste, in altre parole, nel processo mediante il quale la mente riconduce i continui, variabili e confusi stimoli che riceve in categorie discrete e distinte, gli elementi di ognuna delle quali si rassomigliano fra loro più di quanto non accada rispetto a quelli delle altre categorie. Valutando a quale categoria la marca sotto osservazione sia più simile, il consumatore può facilmente e rapidamente inserirla in uno dei gruppi che compongono la propria struttura cognitiva, godendo, a corollario, della possibilità di delineare inferenze evitando una ricerca approfondita e richiedente il dispendio di tempo ed energia.

La categorizzazione della marca si aggiusta nel tempo ad opera dell'esperienza e dell'apprendimento da essa originato. Una volta inserita in una categoria mentale, il consumatore, anche se manca di precise informazioni e ha scarsa esperienza della nuova marca categorizzata, può, avvalendosi di questo processo percettivo, tentare di predire quali saranno certe caratteristiche della marca stessa. Il naturale prerequisito perché il soggetto possa procedere alla formazione di categorie mentali valide per il sostenimento del momento elaborativo e interpretativo è proprio costituito dall’accumulazione di esperienza circa i prodotti e le marche. Via, via che impara a conoscere l’oggetto della propria attenzione e ne relaziona gli attributi chiave con le indicazioni dell’esperienza, l’individuo pone in essere un processo di apprendimento, che, attraverso uno sviluppo circolare e ricorsivo, andrà a modificare lo schema interpretativo di partenza riguardo a tali attributi affinandone la collocazione categoriale. Allora, la ricerca di informazioni verrà riorientata e gli anelli di difesa si attiveranno in una nuova forma.

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Naturalmente, non tutti gli aspetti della categorizzazione coinvolgono la sistemazione dei significati originati dall’apprendimento. Esistono, cioè, oltre a quelle acquisite, delle categorie per così dire innate.

La ricerca sulla categorizzazione abituale di oggetti concreti e astratti si è incentrata sulla velocità e facilità con cui un segnale viene giudicato come facente parte di una categoria, e sulla natura della percezione sottostante il processo verificato distinguendo tra percorsi puramente sensoriali ed altri in cui a prevalere sono gli elementi cognitivi1.

Medin e Barsalou2 distinguono le categorie che vengono a formarsi nella mente in sensory perception categories e general knowledge categories3. Le prime sono riconducibili ai processi sensori e percettivi e comprendono categorie come i suoni del parlato, i suoni non parlati, i colori e così via. Le seconde ineriscono all’analisi semantica, all’organizzazione della memoria ed al pensiero astratto, e tengono in considerazione generi naturali (per esempio gli uccelli), artefatti (esempio: automobili), eventi (esempio: andare al ristorante).

Un modo nel quale le sensory perception categories differiscono dalle general knowledge categories riflette l’astrattezza degli attributi che le definiscono, assai elevata nelle seconde, molto bassa nelle prime. Viene così a delinearsi una distinzione tra categorie sensoriali e categorie che possiamo invece chiamare concettuali.

Possiamo distinguere due diversi tipi di categorie: categorie all-in-one e categorie graduate. All’interno delle prime troviamo due sottotipi: nelle categorie "ben definite" tutti i membri condividono un comune set d caratteristiche ed un ruolo corrispondente indica quali condizioni siano necessarie e sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Nelle categorie

1 Naturalmente, in genere, al centro dell’analisi sarà una situazione nella quale, nonostante il prevalere dell’uno e dell’altro tipo di percezione, quest’ultima risulterà comunque da una loro interazione discostandosi dagli estremi appena delineati.

2 D. L. MEDIN, L. V. BARSALOU, Categorization processes and categorical perception, in Categorical perception. The Groundwork of cognition, edito da S. Harnad, Cambridge University Press, 1987, pp. 455-490.

3 Questa distinzione, utile come base di partenza, non appare però del tutto soddisfacente ed esistono del resto numerose eccezioni riguardo a ciascun tipo di categorie.

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“definite” – ma non “ben definite” – le caratteristiche non sono necessariamente condivise da tutti i membri ed il ruolo non è cruciale.

La natura della rappresentazione delle categorie sensorie e di quelle concettuali e il processo di categorizzazione dipendono dal fatto che si tratti di una categoria all-in-one o di una graduata.

La classificazione di una categoria è strettamente dipendente dalle connotazioni della sua struttura.

Riguardo alle categorie concettuali, Medin e Barsalou individuano tre fondamentali criteri di classificazione:- Classificazione per ruoli. Una volta che viene riconosciuto ed

assegnato un ruolo tipico per la categoria, l’appartenenza di un elemento ad essa viene testata attraverso un confronto con il ruolo stesso.

- Classificazione per prototipi. Il prototipo di una categoria contiene gli attributi caratteristici degli esemplari della categoria, senza però che questi ultimi siano conseguentemente ed inevitabilmente necessari né sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Il nucleo centrale di questo modo di categorizzare le percezioni sta nel fatto che spesso le persone le confrontano sulla base della similarità riconducendole al prototipo che hanno idealizzato nella propria mente per quella categoria. Capita, anzi, che a volte si proceda ad una categorizzazione per prototipi a causa dell’assenza di più forti criteri di ordinamento – per esempio quello basato sui ruoli – a disposizione della persona, sia perché effettivamente non ne esistono di chiari e definiti, sia perché essa può non dispone di adeguate capacità di discernimento e comprensione delle informazioni di cui sono portatori i segnali1. La facilità con cui si procede alla classificazione è molto variabile secondo la somiglianza del segnale percepito con gli attributi propri del prototipo. Si presentano anche situazioni nelle quali è facile cadere in errore a causa della vaghezza di

1 Altre volte manca poi la “volontà di vedere le cose”. Ciò può essere dovuto al desiderio di non impegnarsi troppo nella ricerca di un significato, oppure all’esigenza sentita di non andare contro a passate e ormai sedimentate interpretazioni del segnale (cosa che significherebbe rimettersi in discussione, potendosi anche presentare l’eventualità di dover riconoscere l’erroneità della propria condotta e con essa un proprio insuccesso).

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tale somiglianza. La tipicità, riferita al prototipo, viene perciò qui ad essere il principale fattore di inclusione od esclusione nella categoria.

- Classificazione per esemplari. Simile alla classificazione per prototipi, quella per esemplari avviene, tuttavia, sulla base della similarità rispetto alla memoria che si ha di elementi dei quali si ha una precedente esperienza. Non si effettua un confronto con un ruolo od un prototipo che è stato astratto dall’esperienza con un insieme di elementi che conosciamo, bensì con la memoria di uno specifico elemento di una categoria. Gli stimoli sono assegnati a quella categoria che presenta l’esemplare o gli esemplari più simili.

Le categorie sensorie possono invece venire classificate in base ai seguenti criteri:- Classificazione per ideali. La conoscenza che le persone hanno di una

categoria sensoria deriva dagli specifici attributi che esse ritengano dover essere idealmente presenti nei rappresentanti di quella categoria. La verifica della loro appartenenza alla categoria pare caratterizzarsi per il fatto che, ove non siano presenti tutti gli attributi ideali, allora l’elemento oggetto della percezione non entra a far parte di essa. La classificazione per ideali è analoga a quella per ruoli riguardo alle categorie concettuali.

- Classificazione per prototipi. A differenza degli attributi ideali, che devono essere tutti posseduti negli elementi della categoria, i valori ideali di una categoria rappresentano solamente l’esempio prototipo, e gli esemplari che ad essa appartengono possono variare ampiamente nel modo in cui approcciano l’ideale. Anche qui, gli attributi dei prototipi possono essere ideali oppure riflettere la tendenza centrale dell’esempio.

- Classificazione per limiti. Le persone determinano l’appartenenza alla categoria in base ai limiti di questa, e non alle caratteristiche o agli attributi ideali

Occorre precisare in che rapporto stiano le diverse categorie rispetto all’uso che ne facciamo. Così, ad esempio, è evidente che le categorie sensorie non siano fini a loro stesse, ma debbano essere intese nella

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prospettiva di una classificazione di ordine più elevato coinvolgente le categorie concettuali.

Le informazioni ed i significati che possono essere ricavate per inferenza dalla classificazione di uno stimolo in una categoria concettuale sono molto superiori rispetto a quanto può essere dedotto, sempre per inferenza, da quelle sensorie. Per esempio, classificare qualcosa come un auto ci consente di classificarne il particolar uso, il genere di produttore, come (secondo quali criteri) può essere venduta, ecc.…

A volte, soprattutto per quanto riguarda le categorie concettuali, è possibile assistere all’inverso procedimento della generazione. Mentre con la classificazione si passa dagli esemplari alle categorie, con la generazione si va, invece, dalle categorie agli esemplari. Quando per esempio progettiamo un viaggio, gli elementi che costituiscono il particolare concetto di viaggio che abbiamo in mente sono funzione di esso e da esso vengono generati.

Entrambi i tipi di categorie possono poi essere usati nella costruzione di categorie di livello più elevato. In questo modo i fonemi, tipicamente appartenenti alle categorie sensorie, possono essere utilizzati nella ideazione di nuove parole. Analogamente una categoria concettuale può dare inizio al processo con cui nasce un concetto di più alto livello.

Nell’acquisizione di una ricorsività nella categorizzazione delle percezioni intervengono diversi fattori determinanti sia riguardo alla sua velocità e spontaneità, sia riguardo alla costituzione di circuiti preferenziali che tendono a formarsi nel corso del tempo, dando anche origine a meccanismi di difesa e consolidamento dei circuiti medesimi.

Gli individui paiono avere una innata predisposizione verso certe strade e non altre seguite nell’apprendimento. A ciò va aggiunta l’influenza del particolare contesto socioculturale nel quale essi sono inseriti, dove l’affermarsi nel tempo, da parte della maggioranza delle persone, di determinati modi di comporre gli stimoli in entrata derivandone le relative conseguenze, tendono a diventare carattere comune a tutti, anche se sviluppati in gradi e forme differenti.

L’enfasi sulle inclinazioni innate ed ambientali deve essere comunque temperata dalla considerazione dell’importante ruolo svolto

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dall’esperienza nel processo di categorizzazione. Nel momento stesso in cui le persone assumono la consapevolezza dell’esistenza di una categoria, vengono a determinarsi, sulla base dell’esperienza e dell’osservazione di come ci si comporta nel contesto di riferimento, i primi schemi di categorizzazione che, sulla base dell’adeguatezza dimostrata nell’interpretare le percezioni, tenderanno a consolidarsi e divenire più stabili.

Per propria natura le categorie sensoriali sono meno flessibili di quelle cognitive, le quali vengono prontamente adeguate dalle persone in seguito al mutare degli obiettivi che si propongono e, superando gli scogli della sedimentazione, del contesto di riferimento.

Engel, Blackwell e Miniard1 evidenziano come sia possibile riscontrare tre principi generali che intervengono nell’organizzazione degli stimoli.

In base al principio della semplicità possiamo constatare come le persone presentino la forte tendenza a organizzare le proprie percezioni in strutture essenziali. Di fronte a segnali suscettibili di essere inquadrati secondo una pluralità di schemi interpretativi prevale la loro disposizione attorno a quello che risulta più semplice e diretto da decodificare.

1 J. F. ENGEL, R. D. BLACKWELL, P. W. MINIARD, Consumer behavior, Seventh Edition, 1991, pp. 40.

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Figura 2.2 – Il processo di semplificazione: un esempio.

A B C

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Così, per esempio, l’individuo cui venga chiesto di unire con un tratto i punti in A della figura 2.2 ben difficilmente lo farà nel modo complesso di cui in C, mentre invece, assai più verosimilmente, traccerà un cerchio come in B. L’attenersi a schemi interpretativi semplici consente alla persona di attivare un circuito logico meno dispendioso e problematico da gestire. Le posizioni che si vengono a determinare nella mente del potenziale acquirente tendono, perciò, ad essere articolate in modo più elementare di quanto generalmente vogliano intendere gli ideatori della strategia di posizionamento. Un errore che viene spesso compiuto, venendo a mancare la visione dal dentro da parte dell’impresa, è proprio quello di credere in posizionamenti che prima o poi si dimostrano essere eccessivamente sofisticati rispetto a quanto effettivamente i consumatori percepiscono e inquadrano.

Il secondo principio che interviene nella sistemazione degli stimoli è riscontrabile nei due principali elementi nei quali le persone tendono a organizzare le proprie percezioni: la figura (intesa in senso ampio), e lo sfondo. La prima rappresenta quegli elementi che, entro il campo percettivo, ricevono l’attenzione principale. Il secondo è dato dagli elementi rimanenti e meno significanti, i quali restano, per questo, nel background. L’esperienza ha un ruolo molto importante nel determinare la categorizzazione di un segnale fra quelli in primo piano o fra quelli di contorno: la familiarità dell’oggetto dell’attivazione percettiva – nel caso che ci interessa la marca1 – tende ad aumentarne la distinzione2.

Nella strutturazione dei segnali interviene poi il principio di chiusura, il quale si riferisce alla tendenza a sviluppare una completa percezione anche quando nel campo percettivo vengono a mancare alcuni

1 La familiarità della marca riflette il livello di esperienze, dirette ed indirette che si hanno rispetto ad un prodotto. Questo concetto ha, inoltre, implicazioni verso l’interferenza competitiva, soprattutto per quanto attiene alla pubblicità (per uno studio a riguardo v. R. J. KENT, C. T. ALLEN, Competitive Interference Effects In Consumer Memory For Advertising: The Role Of Brand Familiarity, in “Journal Of Marketing”, Vol. 58, Luglio 1994, pp. 97-105).

2 Di qui l’importanza rivestita dall’incrementare il numero, l’intensità e il coinvolgimento dei momenti di contatti tra marca e consumatore, nel tentativo di riunirli entro il medesimo mondo concettuale di riferimento.

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elementi. La ricostruzione dello stimolo viene fatta dalla mente nel momento in cui l’informazione viene processata in base ad un modello in precedenza acquisito che funge da riferimento. Quando una marca è riuscita a costruire ed incrementare una relazione stabile e rispettata con i consumatori, allora il concetto di chiusura può essere utilizzato con successo nella comunicazione pubblicitaria.

A differenza di quanto si possa in un primo momento ipotizzare, nella formazione dei gruppi mentali i consumatori usano per ogni marca un set di diversi attributi – e non uno solamente – che poi confrontano con quelli posseduti dalle marche concorrenti per procedere alla loro categorizzazione. I diversi attributi oggetto dell’attenzione vengono inoltre pesati in base all’importanza relativa che rivestono per il soggetto. Chi, nell’ambito del posizionamento, proceda all’identificazione delle categorie mentali prevalenti negli acquirenti potenziali, deve quindi, in prima istanza, individuare gli attributi chiave per la categorizzazione della marca e poi assicurarsi che, in relazione ad essi, questa sia percepita nella maniera desiderata.

Secondo gli studiosi di gestalt psychology, le persone vedono gli oggetti come un tutto unico, indistinto e integrato, anziché come un’insieme di specifici elementi. Ciò significa, con le parole di De Chernatony e McDonald1, che esse “Sentono e riconoscono un’armonia, piuttosto che una successione di singole note”.

Di questi principi che servono da guida per l’elaborazione di una struttura delle percezioni occorre tenere conto nel momento in cui si procede all’identificazione sia dei luoghi mentali strategici attualmente ricoperti dalle imprese che competono su un certo mercato, sia della posizione che, in considerazione di ciò, più conviene assumere.

La rappresentazione dell’insieme delle categorie risultanti dal processo di interpretazione dei segnali è figurata da Trout e Ries2 attraverso l’analogia con la cartografia. Si tratta, naturalmente, di un concetto prettamente simbolico che, tuttavia, presenta il pregio di illustrare efficacemente l’importanza dell’occupare una ben definita posizione.

1 L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 93.2 J. TROUT, A. RIES, Marketing è guerra!, McGraw-Hill, 1986, pp. 59-60.

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Nel marketing come in guerra, seguendo gli autori, diventa prioritario occupare o conquistare una posizione strategica. In questo contesto, le categorie vengono ad essere indicate mediante il riferimento alle montagne. Così esisterà una “montagna” ideale corrispondente ad ogni categoria ed il conflitto concorrenziale deriva appunto dalla contesa di quella montagna, postazione ottimale per attuare la difesa da parte di chi la occupa e, di riflesso, arduo obiettivo da raggiungere per lo sfidante2. In sostanza ogni persona si costruisce, per ogni categoria riconosciuta, una scala valoriale i cui gradini possono essere occupati e scalati dalle marche, ma solo a condizione di scalzare chi già li occupa. Di qui l’importanza di essere i primi a scalare la categoria: riuscire in quest’impresa, o addirittura individuare la presenza di una scala fino ad allora trascurata e farla propria, diviene una premessa indispensabile per conquistare la leadership di un nuovo settore che verrà, a quel punto, identificato con noi.

2.2 – Il consumatore e la marca

Dopo avere analizzato i principali meccanismi che presiedono al funzionamento della mente ed il processo per mezzo del quale, partendo da input quali sono le percezioni, l’individuo perviene alla determinazione di un corso per l’azione – nel caso che più ci interessa, il comportamento d’acquisto – si rende opportuno, a questo punto, approfondire il fenomeno del consumo nelle sue linee essenziali.

L’approccio seguito esula da una trattazione sistematica delle numerose varianti alla base del comportamento del consumatore, per

2 Ad esempio, la montagna “sistema operativo” è occupata dalla Microsoft che può, in base alla forza che la posizione le conferisce, mettere in atto strategie difensive che le conferiscono una probabilità di successo certamente superiore rispetto ai suoi diretti concorrenti.

Nel momento in cui il cliente utilizza il nome dell’occupante per indicare l’intera categoria, come può essere, ad esempio, per la Scottex con riferimento ai grossi rotoli di carta assorbente, significa che la montagna è, nella sua mente, saldamente occupata. Bisogna tuttavia riuscire ad evitare l’insidia della banalizzazione: il consumatore, nel derivare il nome della categoria dalla marca, deve aver bene presente che dietro quel nome c’è qualcosa di concreto e non si tratta, invece, di una mera espressione generica.

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incentrarsi su alcuni punti che contribuiscono, a monte del processo percettivo e interpretativo, alla determinazione della condotta delle persone nel momento in cui si trovano a dover compiere una scelta riguardo alle marche. In particolare, ci interesseremo di quali siano i probabili processi decisionali d’acquisto seguiti dagli individui e del momento in cui, entrando in contatto con il contesto sociale, la personalità del soggetto va a derivarne, per inferenza, delle conclusioni che ne influenzano il giudizio.

Non bisogna comunque mai scordarsi che è l’acquirente ad avere la “giusta” visione mentale della marca. Bisogna, dunque, cercare di pensare con la sua testa, fondersi idealmente con lui in modo da comprenderne e condividerne appieno le aspettative.

2.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del consumatore.

La scelta che la persona compie con l’acquisto è il risultato della ricerca e dell’analisi di un numero limitato di pezzi di informazione e non di tutti quelli potenzialmente disponibili. In effetti, gli acquirenti si devono confrontare con la limitatezza delle risorse economiche a loro disposizione e delle propria capacità di ricerca, di memorizzazione e di processo dei dati concernenti le marche presenti sul mercato. Di fronte agli ostacoli che si frappongono alla completezza e alla consapevolezza delle basi utilizzate per la scelta della marca, il consumatore si appella a quelle poche selezionate informazioni per le quali nutre fiducia e affidamento. Un’ulteriore spinta in tal senso è data dal naturale disinteresse alla ricerca insito in quegli acquisti che sono avvertiti come meno importanti e meno coinvolgenti dal punto di vista emotivo.

Le determinanti del processo mentale che conduce le persone all’acquisto sono assai numerose e variegate, spaziando lungo tutto l’arco delle manifestazioni comportamentali. Due, tuttavia, sembrano essere i motivi conduttori comuni a tutte questi fattori, uno costituito dal livello di coinvolgimento espresso da parte del consumatore nell’acquisto della

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marca, l’altro dalla percezione che egli ha delle differenze tra le marche in competizione.

Ponendo questi aspetti di fondo sulle due dimensioni di una matrice, come in figura 2.3, è possibile addivenire ad una categorizzazione dei differenti processi di decisione che si possono effettivamente verificare.

Figura 2.3 – I processi decisori del consumatore

Problem solving esteso – Questo processo viene seguito quando i consumatori presentano un elevato coinvolgimento nell’acquisto e nel contempo percepiscono sostanziali e significative differenze tra le marche che competono nella categoria cui appartiene il prodotto sotto osservazione. Appartengono a questo quadrante i prodotti e le marche ad elevato prezzo e quelli che sono percepiti ad alto rischio effettivo (a causa della loro complessità), o psicologico (poiché, ad esempio, mettono in discussione l’immagine che l’acquirente ha di sé o quella che comunque intende comunicare).

Il processo si caratterizza per la ricerca attiva, da parte del consumatore, di informazioni che consentano un confronto tra le marche. Una volta avvertita ed affermatasi un’esigenza, la persona avvia una ricerca

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Coinvolgimento del consumatore

BassoElevato

Differenza di marca percepita

Elevata

Bassa

Problem solving esteso

Tendenza a problem solving limitato

Riduzione della dissonanza

Problem solving limitato

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di informazioni delle quali sente di avere bisogno per procedere alla scelta, portando avanti, più o meno consciamente, uno screening a livello della propria memoria. In seguito a questo primo vaglio, se riterrà di avere a propria disposizione un livello sufficiente di informazione, procederà alla valutazione delle opzioni disponibili, altrimenti, molto più di frequente, inizierà uno scanning dell’ambiente esterno (porrà una maggiore attenzione a certe comunicazioni pubblicitarie, visiterà negozi, parlerà con i suoi amici…). In seguito all’accumulazione di nuove informazioni, il consumatore inizierà anche un processo di apprendimento circa la loro interpretazione, dando maggior rilievo ad alcune e non ad altre, in modo da rendere più focalizzata e meno dispersiva l’ulteriore ricerca.

Tuttavia, sarebbe troppo ottimistico aspettarsi che un simile processo avvenga così linearmente. In realtà, anche operando una scrematura delle informazioni che più sembrano interessarlo, l’acquirente che segue la linea del problem solving esteso, resta ugualmente esposto a un notevole fuoco di fila comunicativo, probabilmente finendo col perdere la cognizione del preciso punto dal quale è partito. Così, capita che le informazioni che riescono a coglierne l’attenzione e ad essere elaborate, non siano tutte conformi alle sue precedenti aspettative, mentre vengono invece filtrate grazie a meccanismi inferenziali e magari, ironia della sorte, all’erezione di barriere nei confronti del rumore ambientale.

Qui, in particolare, emerge la necessità di una visione aderente al sentire del proprio target, evitando i vari effetti di disorientamento. Sapere cosa il potenziale cliente veramente cerca aiuta l’impresa a superare la rumorosità ambientale per arrivare, rapidamente e per primi, ad occuparne gli spazi mentali. Occorre identificare quali siano gli attributi veramente importanti per il consumatore e focalizzarsi sulla loro comunicazione nella maniera più potente possibile attraverso un approccio multimediale estensivo (dal momento che varie e diverse saranno, per esso, le fonti dalle quali attingere informazioni). Il messaggio trasmesso deve avere talmente forza e deve essere così ben mirato da fungere da attrattore della persona verso la marca. Per quanto possibile, non deve essere palesato lo sforzo – peraltro notevole – che l’impresa compie nel conquistarsi la giusta finestra nella mente della persona, in modo da non rischiare di perdere la sua

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potenzialità fascinatrice. La persuasione, anche nel messaggio più aggressivo, deve cioè essere il più possibile celata.

Naturalmente, non è sufficiente riuscire a persuadere le persone ad acquistare il nostro prodotto. Soprattutto per i processi ricollegabili al problem solving esteso vale il concetto che vede il momento del post-acquisto come decisivo nella formazione e nel rafforzamento dell’immagine di marca. Se l’acquirente constaterà che i caratteri presenti nel prodotto o servizio rispondono alle aspettative che lo hanno condotto ad operare quella scelta, allora si potenzieranno le credenze e le aspettative collegate alla marca, cosa auspicabile sia riguardo ai futuri acquisti dello stesso consumatore, sia alla rete di relazioni attivata, intorno a lui, attraverso la soddisfazione. Nel caso in cui l’acquirente sia soddisfatto e deva procedere nuovamente al medesimo tipo di scelta, è assai probabile che il processo di ricerca si faccia molto più breve, ritrovando già nella memoria gli elementi che lo indirizzano verso una scelta dimostratasi adeguata e appagante già in precedenza1. Il processo di problem solving assumerà, in altre parole, una connotazione più di routine perdendo parte della sua iniziale rilevanza.

Jones e Earl Sasser Jr.2 riconoscono una sostanziale differenza tra i clienti soddisfatti e quelli completamente soddisfatti attribuendo solamente a questa seconda condizione la possibilità di assicurare una fedeltà duratura e, assieme ad essa, elevate performance di lungo periodo. Esisterebbe, cioè, una relazione diretta tra livello di soddisfazione del cliente e grado di fedeltà che questi manifesta, determinandosi, tuttavia, un notevole gap per livelli di soddisfazione che si discostino in alto da quelli ritenuti accettabili. Tale rapporto, inoltre, si acuisce con il livello di competizione caratterizzante il particolare mercato di riferimento, cosicché, in presenza di un’elevata concorrenza tra le offerte, diviene prioritario spingere il livello di soddisfazione del consumatore il più in alto possibile al fine di ridurre le potenziali defezioni ad un livello accettabile.

1 Abbiamo già rilevato (paragrafo 2.1.1) quanto sia importante il reiterarsi dei successi, anche piccoli, nella generazione della soddisfazione.

2 T. O. JONES, W. EARL SASSER JR., Why satisfied customers defect, Haevard Business Review, novembre-dicembre 1995, pp. 88-99.

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Gli autori individuano due generi di fedeltà – la fedeltà vera, di lungo termine e quella che possiamo chiamare una fedeltà falsa – l’orientamento verso l’uno o l’altro dei quali viene a dipendere essenzialmente dal fatto che si pervenga ad un livello di completa o ad uno di mera soddisfazione (evidentemente, i consumatori manifesteranno una solida e duratura fedeltà solamente se saranno completamente soddisfatti). Tra i fattori generanti falsa fedeltà, i principali sarebbero: limiti normativi posti alla competizione, alti costi di cambiamento da un’offerta all’altra, differenziale riguardo alle tecnologie proprietarie che limita le alternative, forti e persistenti programmi promozionali. Altre volte, inoltre, la fedeltà non può essere raggiunta a causa, oltre che della povertà del prodotto o servizio offerto, del fatto che l’impresa ha attratto i consumatori “sbagliati” o non ha saputo gestire il rapporto con quei clienti che sono andati incontro ad un’esperienza negativa.

Differenti livelli di soddisfazione riflettono differenti problemi e, perciò, richiedono differenti azioni da parte dell’impresa. Il livello di soddisfazione tra i clienti che costituiscono il target dell’impresa costituisce, in questo modo, un buon indicatore del livello di qualità percepita (effettiva) dell’offerta. Quattro sono i fattori che vanno ad influenzare la soddisfazione del cliente: gli elementi di base del prodotto o servizio (quelli che i consumatori ritengono debbano essere presenti nell’offerta di ogni competitore), i servizi elementari di supporto (in grado di conferire al prodotto o servizio principale una maggiore efficienza e facilità d’uso), un processo di recupero per fronteggiare il verificarsi di cattive esperienze, servizi e attributi straordinari al fine di meglio aderire alle particolari preferenze del cliente. Il livello di soddisfazione o insoddisfazione riscontrato nella maggioranza dei clienti dell’impresa è di aiuto nel determinare su quali di questi elementi andrebbe focalizzata l’attenzione1.

1 Tuttavia, tali elementi non costituiscono l’unica base di diagnosi dello stato di salute del business e far poggiare le decisioni strategiche solamente su essi può risultare fatale. Nonostante le indagini sul livello di soddisfazione dei clienti siano buoni indicatori di cambiamenti avvenuti nel mercato e possano offrire un chiaro senso degli attributi del prodotto o servizio preferiti dai consumatori, non rendono adeguatamente l’ampiezza e profondità dei loro bisogni consegnando validi significati direzionali per le

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Venendo a mancare il positivo supporto dell’appagamento delle aspettative riposte nell’acquisto iniziano i problemi per l’immagine di marca. Tale mancato appagamento può essere così frustrante da attivare sensazioni assimilabili addirittura al tradimento: vedere un grande sforzo – come quello prodotto dal consumatore nella ricerca di informazioni – non ricompensato, può originare, per reazione, una spinta in senso contrario di portata uguale o anche superiore.

Riduzione della dissonanza – Questo tipo di comportamento di acquisto della marca è caratterizzato da un elevato coinvolgimento e da una minore capacità di distinzione delle diversità esistenti tra i competitori. I consumatori paiono disorientati di fronte alla mancanza di evidenti differenze di marca e, conseguentemente, la scelta ricadrà su altri fattori come, per esempio, il consiglio del venditore o l’informazione passata da un amico.

Nel caso in cui la persona che segue questo processo riceva informazioni contrastanti con le proprie ragioni d’acquisto, soprattutto in un momento successivo, essa viene a trovarsi in una situazione di conflitto e sconforto: la dissonanza. La propensione, allora, sarà quella di ridurre questo stato di incertezza mentale ignorando l’informazione dissonante. Quest’obiettivo recondito può essere raggiunto evitando il confronto con persone o fonti di informazione portatrici di una diversa veduta, oppure cercando in maniera selettiva messaggi in grado di dare una conferma alle primitive credenze.

In questo tipo di processo di acquisto, il consumatore opera delle scelte senza avere salde convinzioni sulla marca, per poi mutare atteggiamento in seguito all’esperienza che trae dall’interazione con il bene o servizio. Successivamente, l’apprendimento si svolge, nella persona, ponendosi a supporto dell’originale scelta di marca, stando attenta a recepire l’informazione positiva ed ignorando quella negativa.

Una particolare attenzione deve essere riposta nell’elaborazione della comunicazione, la quale, quando il consumatore non riesce a percepire

strategie competitive d’impresa. È, alla fine, il realizzarsi dinamico e in divenire della fusione tra impresa e mercato che permette di avere un quadro d’insieme allo stesso tempo descrittivo e indicativo nel cui ambito possono poi essere ricondotte fonti di conoscenza e apprendimento circa il comportamento del consumatore.

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significative differenze tra le marche sul mercato od è carente per quanto riguarda la capacità di giudizio, deve ridurre la dissonanza rassicurando l’acquirente circa il momento del dopo acquisto che vedrà confermata la bontà della scelta effettuata.

Problem solving limitato – Questo particolare processo decisorio è caratterizzato dal fatto che ad una scarsa capacità di cogliere le differenze tra le marche, si aggiunge un basso livello di coinvolgimento nell’acquisto, cui viene data limitata rilevanza. Le persone, specialmente per quanto concerne acquisti che non comportano grosse ripercussioni su di esse e sui loro stati psicologici, avvertono lo sforzo derivante dalla ricerca di informazioni come eccedente rispetto ai vantaggi che il ricevere quelle informazioni fornisce. Il bilancio psicologico è, in altre parole, a netto sfavore dello sforzo cognitivo, e quanto arriva ad essere percepito ed elaborato dalla mente si presenta semmai, come il frutto di un’assimilazione passiva da parte del soggetto.

Gli atteggiamenti e le valutazioni, in questo caso, avvengono dopo e non prima l’acquisto, essendone l’effetto e non la causa. Poiché il consumatore recepisce e processa i messaggi in maniera eminentemente passiva, questi non vanno ad incidere in maniera rilevante sulla sua struttura valoriale e comportamentale. È solamente dopo che l’acquisto che può darsi luogo ad una valutazione sulla marca e sulla soddisfazione derivante dalla scelta, potendo anche formarsi delle credenze, quantunque in una forma debole, che potrebbero condurre alla ripetizione dell’acquisto, soprattutto in quanto portatrici, se accettate, di una riduzione dello sforzo decisionale. La debolezza si esprime nella maggiore possibilità che, indotto ad esempio da azioni promozionali, il consumatore si allontani da una marca la quale non riesca ad avere una posizione centrale nella sua mente per provarne un’altra, rompendo così il tenue legame instauratosi.

Per le marche la cui scelta è caratterizzata da un basso livello di coinvolgimento, inoltre, il rischio percepito connesso al cambiamento è avvertito in misura molto minore. Come conseguenza, in seguito alla noia e all’apatia che inevitabilmente si ingenerano con il reiterarsi della solita scelta, l’acquirente non trova sostenibili barriere al suo bisogno di varietà.

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Il messaggio, per le marche che si trovino in questa posizione, deve mantenersi semplice in modo da non aumentare la refrattarietà all’assimilazione di informazioni che presentano i potenziali acquirenti. Devono invece essere privilegiate la frequente ripetizione del messaggio e la creatività (incentrata su uno o più – in ogni caso pochi – punti focali, legati comunque alla particolare funzione per cui è nato il prodotto), in quanto, per questo tipo di processo decisionale, viene ricercata l’accettabilità della marca piuttosto che l’ottimalità della scelta. Importanti sono anche le prove del prodotto che il consumatore fa, da cui l’esigenza di una marcata attività promozionale.

La distribuzione deve essere attentamente curata garantendo un’ampia disponibilità del prodotto, dal momento che, a causa del basso coinvolgimento, il consumatore difficilmente si porrà alla ricerca di ciò che non ha trovato sul punto di vendita, rivolgendosi invece ad un’altra marca. All’interno del punto di vendita, poi, assume una notevole importanza la “presenza” del prodotto, che deve essere ideata in modo da incontrare nel modo più semplice e naturale i sensi del potenziale acquirente, sollecitandone l’attenzione.

Tendenza al problem solving limitato – Questa diversa situazione decisionale si viene a manifestare quando la persona, pur presentando la capacità di distinguere le differenze esistenti tra le marche, esprime un basso livello di coinvolgimento nel processo di scelta. Anche qui, evidentemente, la scarsa motivazione ben difficilmente consentirà l’intrapresa di un’estesa ricerca di informazioni a supporto della decisione. In conseguenza di ciò appare evidente come le pur sostanziali differenze tra le marche debbano essere valutate con estrema cautela nell’allestimento dell’attività comunicativa.

La selezione della marca avviene in modo analogo a quanto osservato per il problem solving limitato e le indicazioni per l’azione di marketing allora espresse possono essere estese al caso corrente.

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2.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca.

Abbiamo già rilevato1 come la costruzione di una personalità attorno al prodotto estensivamente inteso contribuisca ad ingenerare nelle persone una maggiore confidenza nei confronti della marca via, via che essa incrementa la propria notorietà. Nostro compito è ora quello di comprenderne a fondo i motivi, in modo da operare strategie di posizionamento il più possibile coerenti con l’identità di marca.

L’immagine che circonda la marca consente al consumatore di formare una visione mentale di ciò che il suo acquisto significa e comporta in termini di bisogni soddisfatti, valori apportati, stili di vita di riferimento reali ed ideali. Del resto, dall’osservazione della marche sulle quali ricade la scelta di una persona si possono desumere molte cose sul suo essere, sulle ragioni del suo comportamento, e sulla sua particolare gerarchia valoriale2.

L’immagine di marca, per sua natura, risulta essere più efficacemente sviluppabile in riferimento a quei settori e a quegli acquirenti per i quali è predominante l’aspetto emozionale rispetto a quello funzionale, essendo allora che il valore di marca risulta, proprio in forza di tale ragione, maggiormente sostenibile, godendo di un più ampio spazio di manovra consentito dal fatto che, in quel caso, le differenze si fanno più sentite ed evidenti agli occhi delle persone.

Le marche cospicuamente consumate si prestano particolarmente ad un posizionamento basato sui bisogni emozionali delle persone. Il procedimento associativo che prende origine a partire dall’immagine di marca, così come recepita dall’individuo, viene a basarsi sull’appropriatezza dell’immagine stessa rispetto alla situazione di consumo nella quale va ad innestarsi. I consumatori valutano i significati delle diverse marche e prendono una decisione di acquisto in funzione di quale tra esse risulta maggiormente coerente con l’identità loro e del proprio gruppo di riferimento.

1 V. Capitolo 1.4.1.2 Potremmo riferirci a questo potere chiarificatore e rivelatore della marca

affermando: «Dimmi che marca usi e ti dirò chi sei».- 105 -

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Viene così, ancora una volta, a delinearsi la validità dell’ipotesi della primarietà dell’importanza della conferma del sistema valoriale della persona e degli abiti comportamentali di cui essa si riveste. Una marca che risulti essere non in linea con quanto fino ad ora sostenuto, rischia, per ciò stesso, di essere respinta, se non altro a causa di un innato meccanismo di difesa che l’individuo pone in essere nel contrastare l’incongruenza, avvertita come un potenziale pericolo per la propria stabilità valoriale ed emotiva. Muovendosi all’interno di circoli sociali, gli individui recepiscono con favore quelle marche che meglio rappresentano e interpretano, attraverso i simboli di cui si fanno portatrici, la personalità e lo stile di vita propri del contesto socioculturale di riferimento. La situazione ideale è quella in cui la marca riesce, per mezzo della fusione, ad esprimere i movimenti in corso di determinazione prima ancora che il target ne acquisti consapevolezza, in modo da porsi come punto di riferimento e di attrazione (senza che questa funzione di traino possa essere messa in discussione).

Come evidenziato da De Chernatony e McDonald1, le marche sono parte della cultura di una società, e dal momento che la cultura cambia evolvendosi continuamente anche esse devono essere oggetto di un attento e pronto aggiornamento (è questo il motivo conduttore dal quale prende origine il concetto di fusione). Il ruolo ricoperto da una marca in un certo momento non deve pertanto essere considerato un punto di arrivo, ma soltanto un punto di transito tanto instabile quanto affidabile se ben interpretato.

2.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo dell’immagine di marca.

La percezione che i consumatori hanno dei prodotti e delle marche che tali prodotti sintetizzano ed esprimono ha una valenza che trascende l’approccio di marketing nella sua accezione più ristretta, per andare a coinvolgere, in senso più ampio, gli aspetti più tipicamente sociologici e psicologici.

1L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 115.- 106 -

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La tendenza che va sempre più diffondendosi negli individui posti di fronte al problema della scelta della marca è quella secondo cui i prodotti o servizi non sono visti solamente nell’ottica di cosa possono fare, ma in quella più intensa e pervasiva di cosa essi significhino. La scintilla che dà inizio a questo più astruso meccanismo interpretativo e di attribuzione di significati è costituita dall’interazione portata avanti da processi comunicativi che, sempre più veloci e consistenti, permettono a chi si trova alle estremità della fitta rete attraverso cui circola il messaggio di apprendere quali siano i significati che gli altri terminali della rete attribuiscono ai prodotti ed alle marche stesse. L’acquisto ed il consumo di una determinata marca e non di un’altra, se portato a conoscenza degli altri individui con i quali ci relazionamo, assume pertanto un ruolo rivelatore che nello stesso tempo ricerca l’accondiscendenza dell’interlocutore, diventando per ciò stesso comunicazione nel senso più puro del termine. La pubblicità insieme agli altri tipi di comunicazione di marketing sostiene, facendo da volano, la creazione ed il rafforzamento dei significati simbolici di cui si ricoprono le marche.

Il senso simbolico delle marche è fortemente influenzato dalle persone con le quali il consumatore interagisce. Attraverso le reciproche relazioni che si instaurano tra le persone, infatti, vengono a crearsi dei contenitori comuni di valori, concetti e significati i quali vengono condivisi e restano a disposizione di tutti coloro che operano all’interno della rete interpersonale così venuta a determinarsi. Seguendo questa logica, chi si trovi ad entrare in un gruppo sociale va a confrontare le proprie idee circa il senso da attribuire ai simboli di cui sono portatrici le marche con quelle che sono già presenti all’interno del gruppo. Nel caso vi siano delle discrepanze, fino a riscontrare delle contraddizioni nei confronti delle credenze personali di cui è portatore, il soggetto tenderà a riformulare queste ultime in modo da renderle conformi alle attese del gruppo. Per sentirsi parte di un gruppo, la persona non soltanto deve aderire alle credenze ed agli atteggiamenti di tale gruppo, ma anche rispecchiare questi atteggiamenti e credenze attraverso il dispiegamento dei giusti tipi di marche prescelte.

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Pertanto, la profonda conoscenza del funzionamento dei gruppi è, oggi più che mai, basilare per la comprensione dei modelli di comportamento dei consumatori, necessità tanto maggiore se consideriamo la crescente tendenza delle persone a muoversi nell’ambito di una pluralità di individui che siano accomunati da medesime derivazioni, interessi, contatti, modi di approcciare la realtà, ma soprattutto dalla pressante esigenza di autodifesa da un ambiente esterno ritenuto sempre più ostile1.

La tendenza all’acquisto originata da una influenza normativa di ordine sociale è sempre più diffusa. Le persone cercano con insistenza sempre maggiore di ottenere l’approvazione sociale o quanto meno di evitare la disapprovazione, soprattutto a livello del particolare e relativamente ristretto gruppo “socio-tribale” nel quale i trovano a vivere ed interagire2. La crescente tendenza all’instabilità e precarietà del vivere,

1 Quest’ultimo, in effetti, pare essere da sempre il primo e più potente principio di aggregazione degli individui.

2 Le aggregazioni sociali che si stanno affermando sono, nella nostra epoca, guidate da due principi opposti quanto a manifestazioni della propria presenza, ma, espressione, in ultima analisi, di un comune malessere.

Da una parte, per affrontare le crescenti condizioni di incertezza e precarietà della condizione esistenziale, gli individui tendono a convergere in gruppo attorno a pochi chiari e semplici criteri di concentrazione. Tali gruppi paiono mostrare moderne connotazioni tribali, quasi di trattasse, seguendo nuove logiche di sopravvivenza, di nuovi “branchi sociali”. I fattori di aggregazione possono essere dati dalla vicinanza di condizione sociale, da interessi comuni attorno ai quali si tende a fare quadrato, o anche, più semplicemente da legami familiari o comuni luoghi di aggregazione. La caratteristica che comunque accomuna questi gruppi è costituita dalla chiusura aggressiva nei confronti dell’esterno cui si accompagna una spiccata solidarietà interna (anche se poi, saltuariamente, esistono avvicinamenti tra più gruppi favoriti, generalmente, dall’interscambio di alcuni elementi e dalla constatazione di avere delle comunanze). Le persone tendono, pertanto, ad avere contatti con chi sentono appartenere allo stesso orientamento del proprio clan e a frequentare determinati ambienti in virtù di quanto richiesto implicitamente da quella particolare appartenenza rinsaldando, in questo modo, i principi che ne stanno alla base.

Dall’altra parte, apparentemente antitetica, troviamo la tendenza ad un’omogeneizzazione di pensieri e di valori che permeando le difese del gruppo, fa sì che gruppi pur distinti, ma aventi un’analoga origine e ragione d’essere, seguano comunque comportamenti simili.

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in un’epoca che pratica e sostiene la frammentazione della temporalità affermando l’elevazione sull’altro come principale pietra di paragone del valore della persona, è la causa che sta a monte di questo processo. Gli individui si affidano a simboli e meccanismi in grado di produrre approvazione sociale al fine intrinseco di acquisire sicurezza, quella stessa sicurezza che è minata dai meccanismi relazionali che ci si propone di mascherare.

La paura dell’esclusione e del rimanere soli di fronti a se stessi, come riemergesse l’atavica paura del buio e dell’ignoto, è il sentimento che fa da potentissimo propellente a tali meccanismi.

Tutti quanti dipendiamo da qualcosa e cerchiamo l’approvazione sociale. Quello che cambia è l’intensità con cui la ricerchiamo e la direzione verso la quale volgiamo il nostro interesse e i nostri sforzi; ci differenziamo, poi, nel fatto di essere consapevoli o meno di questi elementi che sono alla base del nostro agire e del nostro comportamento.

Dobbiamo distinguere, inoltre, la rappresentazione visuale della marca dall’espressione verbale con cui essa viene proiettata, soprattutto ad opera della pubblicità. Infatti, mentre la prima appare diretta e scevra da complicazioni lessicali, per la seconda vale il discorso contrario: l’espressione verbale, che comunque prevale e fa da sfondo anche alla comunicazione visiva1, è più scomoda per le credenze sedimentate e soggetta ad un più attento esame della logica tendendo, perciò, ad essere meno accettata.

Il simbolismo è utilizzato da tutte le persone come un valido strumento per la comprensione della complessità ambientale e, costituendo il vero linguaggio comune al gruppo sociale di riferimento, viene conseguentemente usato come strumento comunicativo di sé verso gli altri, nonché verso se stressi. Le marche, intese come simboli, possono cioè convogliare i messaggi degli individui circa se stessi e facilitarne l’espressività. Un ruolo fondamentale nel consentire l’emissione e la ricezione di un messaggio basato su un simbolo è svolto dagli immaginari collettivi e dai luoghi comuni, veri codici comunicativi universalmente riconosciuti ed accettati per validi. A volte, poi, la connotazione simbolica

1 Cfr. par. 4.2.1.- 109 -

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assunta da certe marche viene utilizzata come elemento rituale dedicato ad uno specifico momento della vita sociale (la ritualità costituisce uno schema comune alle società di tutte le epoche e di tutte le latitudini).

L’elemento comune a tutte le funzioni che vengono attribuite ai significati simbolici delle marche pare essere dato dalla sicurezza di conformità rispetto al gruppo sociale di riferimento1 che essi conferiscono. L’esprimersi attraverso un codice comunicativo generalmente accettato, per di più, non solo si pone a conferma di un’approvazione conseguita per il solo fatto di non essere deviante rispetto al modello di riferimento, ma conferisce anche a chi mette tale meccanismo un incremento di quella che potremmo chiamare auto-confidenza, ponendolo in una situazione di benessere psicologico sia di origine interiore, sia relativizzato alla propria posizione nel gruppo.

Così, in molti mercati, i consumatori guardano alle marche come a strumenti per comunicare qualcosa riguardo a se stessi o per meglio comprendere i propri gruppi di riferimento e decodificare i messaggi simbolici dell’ambiente nel quale si muovono. Dal momento che i simboli acquistano un significato secondo il diverso contesto sociale e culturale dal quale si alimentano e nel quale si sviluppano, occorre comprendere a fondo questi ultimi per addivenire alla loro corretta codifica e decodifica. Di più: bisogna riuscire, attraverso la fusione con esso, ad essere parte integrante del contesto di riferimento, in modo da essere adeguati, in ogni momento, alle diverse circostanze che si presentano con l’evolversi degli eventi e dei concetti che li determinano. Il contatto con l’ambiente nel quale l’impresa è inserita viene a costituire, in quest’ottica, un’esigenza ineludibile.

Perché una marca venga utilizzata come strumento comunicativo, essa deve soddisfare certe esigenze di visibilità collegate al fatto di essere frequente oggetto di scelta o di uso. È l’osservazione della reiterazione di una decisione a generare la convinzione che essa poggi sulla realtà di vantaggi e caratteristiche inconfutabilmente presenti nella marca. Il successo reitera il successo rafforzando i simboli che emergono dal prodotto e dei quali esso si può nel tempo arricchire. Se poi la ripetizione

1 Qualunque esso sia, sia la ristretta schiera di amici e conoscenze, sia la società nel suo complesso.

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dell’acquisto o dell’uso è fatta ad opera di un gruppo dai tratti chiaramente distinti, i significati della marca verranno assimilati ed accordati a quelli del gruppo attraverso il meccanismo dell’associazione simbolica, fino a condurre alla nascita dello stereotipo. Questo processo di omogeneizzazione dei significati dei simboli raggiunge il suo apice allorquando si perviene alla determinazione del luogo comune, potendosi, allora, dare seguito con maggiori possibilità di successo ad una segmentazione per immaginari collettivi1.

2.2.4 – L’auto-concetto.

Nell’affrontare la trattazione del rapporto tra consumatore e marca, occorre rilevare come ed in quali termini egli abbia coscienza di sé e della posizione che ricopre all’interno del suo mondo di riferimento. Il momento del confronto è fondamentale nella formazione e nell’arricchimento della struttura comportamentale della persona. La relatività dei concetti di spazio e di tempo si conferma anche all’interno della mente creando tuttavia un effetto di disorientamento. L’individuo necessita di pervenire alla consapevolezza della posizione e del ruolo che ricopre, qualunque sia la loro natura, all’interno della trama sociale2.

1 Naturalmente il prendere l’immaginario collettivo come base per l’individuazione di segmenti ha anche i suoi aspetti negativi, riconducibili all’accettazione dello status quo della mente dei potenziali clienti.

Tuttavia, occorre considerare che questa è una strategia molto meno rischiosa del tentare di cambiare la mentalità delle persone, il quale spesso si risolve in disastrose ritirate da parte di chi lo pone in essere. Molto meglio, allora, adeguare le proprie strategie di posizionamento a quello che è già presente nella mente del potenziale acquirente.

2 Lo stesso processo di socializzazione non è altro che un processo di apprendimento dei ruoli e di interiorizzazione dei valori propri di ogni ruolo. La definizione dei ruoli implica che alcuni comportamenti siano pretesi, altri vietati e altri ancora permessi. Ad ognuno di questi comportamenti corrispondono delle aspettative («risposte anticipate»). Un individuo, cioè, impara ad attendersi certe azioni da parte degli altri, che a loro volta si attendono dei comportamenti dalla persona in questione. Le aspettative, quindi, presuppongono un processo di apprendimento attraverso il quale

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In questo contesto, le marche svolgono un importante compito relativizzatore fungendo da pietra di paragone che, attraverso la sintetizzazione di concetti, valori e distanze in simboli di chiara ed immediata lettura, consenta al consumatore di determinare la propria posizione relativa. È nelle marche, più che in tanti altri fenomeni socioeconomici, che possiamo rintracciare i segni dell’evoluzione della società, e il saper riconoscere ed interpretare tali segni permette a chi si occupa di posizionamento di conoscere quale sia la direzione e la portata dei movimenti di mercato.

I consumatori preferiscono le marche che avvertono essere più strettamente vicine alla loro immagine così come percepita o desiderata. In effetti, ognuno è portatore di una concezione di sé ed acquista o usa una particolare marca solo se l’immagine di cui essa è depositaria risulta coerente e in armonia con la propria auto-immagine. Viene considerata, cioè, la questione se la marca comunichi il tipo di immagine giusto per incrementare il proprio auto-concetto o se, comunque, essa si mostri coerente rispetto ad esso, appartenendo allo stesso mondo di contenuti.

L’auto-concetto, che è il modo con cui il soggetto percepisce il proprio carattere e la propria identità, si forma a partire dall’osservazione e dall’analisi (spontanea ed automatica) delle reazioni prodotte dalle interrelazioni sociali. È attraverso l’esperienza e la coscienza delle relazioni intrattenute con il mondo esterno che le persone prendono coscienza del proprio auto-concetto attuale. Frutto dei processi di valutazione della posizione ricoperta e di quella ambita è il desiderio di muoversi dall’auto-concetto attuale ad un auto-concetto “ideale”1. Il mantenimento ed il rafforzamento della propria identità e immagine rappresentano importanti propositi nella scelta di una determinata marca. Se in seguito all’acquisto o all’uso di una marca il soggetto avverte una reazione positiva da parte del gruppo di riferimento, diventa assai probabile una sua reiterazione della scelta, un modo da dare conferma al riconoscimento del successo del proprio operato.

si acquisisce il proprio ruolo adottando dei modelli di comportamento, grazie alla capacità di «copiare» il comportamento degli altri.

1 Auto-concetto attuale e ideale sono entrambi validi indicatori riguardo alla selezione di una marca.

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Il comportamento degli individui varia, inoltre, in considerazione della particolare situazione di cui essi sono parte e nella quale deve essere contestualizzato il processo di scelta. In particolare, la scelta sarà suscettibile di seguire diversi orientamenti secondo quali sono gli occhi ad osservarci. Le persone vogliono offrire una immagine differente di sé al variare della situazione attraverso l’utilizzo di diverse maschere, ognuna costituita dalla marca appropriata per le aspettative presunte attribuite al particolare gruppo che in quella situazione funge da interlocutore.

Esiste, evidentemente, una stretta relazione tra il simbolismo della marca usata e l’auto-concetto dell’individuo, nel senso che il primo influenza il secondo creando le premesse per una scelta finalizzata all’elevazione di quest’ultimo.

2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il posizionamento

2.3.1 – Le associazioni.

L’associazione cognitiva è definibile come il processo analogico di concatenazione delle idee attraverso cui è possibile, da un significato originario, derivare una serie di significati che presentano con esso una qualche attinenza più o meno esplicita. Sulla base dell’associazione cognitiva la mente sviluppa incessantemente pensieri che, a causa della complessità della sua architettura e della velocità con cui gli impulsi si trasmettono tra i neuroni, vanno a organizzarsi secondo strutture concettuali sempre nuove e diverse.

Il posizionamento di una marca nella mente delle persone deve così necessariamente essere anch’esso impostato ed imperniato sul meccanismo dell’associazione, per il quale è associato alla marca tutto ciò che nella mente della persona vi è collegato1. Il posizionamento concerne il modo

1 Il posizionamento è tuttavia concetto che deve essere relativizzato mediante la considerazione, nell’ambito della trama di associazioni, delle posizioni occupate dalla concorrenza. In quest’ottica l’esigenza principale, oltre ad essere al centro di una fitta e forte rete di relazioni, diventa il rendersi distinti dai diretti concorrenti.

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con cui la marca viene percepita dal cliente, anche se spesso l’ottica viene rovesciata andando ad indicare il modo in cui l’impresa intende farsi percepire: è quanto avviene nella mente del consumatore ad essere importante e non tanto quelle che possono rimanere solamente delle mere intenzioni da parte dei competitori. L’immagine di marca viene ad essere il risultato dell’organizzazione in sistema delle associazioni e costituisce l’estrema sintesi delle informazioni, più o meno elaborate, di cui il potenziale acquirente si avvale nell’operare le proprie scelte. A parere di Keller, l’immagine di marca può essere considerata «un insieme di percezioni relative alla marca così come riflesse dalle associazioni connesse alla marca stessa detenute nella memoria del consumatore»1. Secondo l’autore, pertanto, le associazioni non sono altro che il contenuto di quella rete di nodi cognitivi la quale rappresenta tutto ciò che è conosciuto a proposito di un determinato oggetto. Il legame tra consumatore e marca diviene tanto più forte quanto più numerose e robuste sono le associazioni2. Di qui la necessità, per chi gestisce l’immagine di marca, di arricchire e rinsaldare continuamente la trama dei collegamenti tra i significati ed i valori di cui essa è portatrice e quelli riconosciutile dal mercato.

Il valore aggiunto della marca è, in ultima analisi, determinato dalle associazioni che essa è in grado di generare e gestire, le quali esprimono ciò che rappresenta per i potenziali clienti. Nel produrre valore, le associazioni intervengono sotto molteplici aspetti svolgendo diverse funzioni.

Innanzitutto, le associazioni costituiscono il meccanismo con il quale vengono riassemblati i pezzi di informazione sedimentati nella memoria. Il modificarsi delle associazioni e della struttura concettuale in cui vengono poste può portare a interpretazioni e ricordi parzialmente o del tutto diversi da quelli originari.

1 K. L. KELLER, Comceptualizing, measuring, and managing customer-based brand equity, Journal of marketing, gennaio 1993, p.3.

2 Un concetto di marca sorretto da un solo legame associativo è di per sé sintomatico di una situazione critica per il posizionamento: il venire meno di quell’unico legame avrebbe, di fatto, un effetto dirompente determinando la deriva strategica della marca stessa.

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Le associazioni possono, poi, essere prese come base per un posizionamento che, attraverso la differenziazione, può alfine offrire un vantaggio competitivo decisivo. È, anzi, il ricorso allo studio dei collegamenti tra i valori di cui è portatrice la marca e quelli percepiti dal consumatore ad offrire i più preziosi spunti per conseguire un posizionamento efficace. Il raggiungimento di una posizione privilegiata sulla particolare "collina” categoriale percepita dal consumatore rappresenta un passaggio decisivo nella conquista di una leadership potenzialmente duratura. Infatti, chi detiene una posizione di vantaggio può adottare strategie di copertura che, se attuate intelligentemente, rendono arduo il compito degli sfidanti per il conseguimento del predominio del mercato solo per il fatto che prima devono riuscire a scalzare l’impresa leader dalla prima posizione.

Non tutte le relazioni rintracciabili hanno in realtà la medesima importanza. Le associazioni riconducibili all’immagine di una marca sono spesso relative a caratteristiche del prodotto che costituiscono un particolare motivo per l’acquisto della marca da parte del consumatore, diventando talmente importanti da lasciare quasi senza rilevanza le altre che finiscono per confondersi e perdersi nello sfondo rimanendo in secondo piano. Mandato1, sottolinea come, al fine di meglio comprendere la natura dell’immagine di marca, sia opportuno approfondire le forme che essa può assumere, soprattutto con riferimento al loro grado di astrazione In particolare, l’autore, seguendo la dottrina economica, riconosce per le associazioni di marca tre macro-livelli. Il primo livello, quello che presenta il livello di astrazione più basso, è quello definito dagli attributi, ossia le caratteristiche tecniche dell’offerta. Il secondo livello è dato dai benefici, ossia l’insieme delle utilità connesse alla marca – di qualunque natura esse siano2 – e riconosciute dal mercato. Il livello nel quale il grado di

1 G. MANDATO, La comunicazione integrata nell’”impresa-rete”, Sinergie, maggio-giugno 1996, p. 107.

2 Tali utilità possono essere anche molto generiche (“ti fa risparmiare”, “ti rende più attraente”…). L’importante è che siano supportate da un adeguato sistema di attività che ne giustifichi la percezione come tali da parte del consumatore. Infatti, in questa fase, il giudizio dell’interlocutore dell’impresa perde di oggettività, venendo filtrato attraverso le esperienze e i parametri di valutazione individuali.

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astrazione è maggiore è quello degli atteggiamenti verso la marca, i quali costituiscono la base dell’immagine di marca1.

Le associazioni, infine, possono essere utilizzate come basi di appoggio per una estensione di gamma. In questo caso, si approfitta di una relazione nota ed affermata tra un valore della marca ed il cliente, per riproporre quel valore sull’estensione, godendo dei benefici di un’associazione già affermata e collaudata (anche se occorre guardarsi bene, come vedremo2, dalle trappole insite nelle estensioni di gamma).

2.3.2 – Tipi di associazioni.

I tratti comuni delle relazioni importanti per la marca sono rintracciabili nella forza del legame e nel fatto di essere condivise da molti, risultando altrimenti non praticabile l’analisi degli immaginari collettivi per l’individuazione dei punti focali della posizione-obiettivo. Esistono innumerevoli possibili associazioni3, ma l’impresa deve interessarsi a quelle che assumono il rilievo maggiore per i potenziali clienti, nonché a quelle che potenzialmente sono sviluppabili in seguito al mutare delle credenze e degli atteggiamenti che li caratterizzano. Appare comunque utile una disamina delle principali tipologie di associazioni che è possibile incontrare nella realtà4.

1 Gli atteggiamenti possono essere definiti come valutazioni di sintesi in cui i molteplici attributi e benefici connessi all’offerta dell’impresa vengono combinati con i valori individuali fino a formare un giudizio complessivo riguardante la marca stessa e il suo produttore.

2 Cfr. par. 3.4.3 Tante quante sono le caratteristiche ed i simboli collegati ad oggetti, persone,

luoghi, … presenti nell’immaginario delle persone.4 Per i tipi di associazioni v. D. A. AAKER, Brand equity. La gestione del valore

della marca, Franco Angeli, 1997, pp. 153-173.- 116 -

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ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO.

Basare la strategia di posizionamento sulle caratteristiche del prodotto costituisce la più naturale opzione per i decisori d’impresa. Non tutte le caratteristiche individuabili sono però sullo stesso piano quanto a importanza ed efficacia. Determinante è, in sostanza, il fatto che si tratti di un elemento significativo e non banale, in modo tale da riuscire ad accrescere, mediante il suo rafforzamento, il valore di marca.

La caratteristica di prodotto intorno alla quale costruire la propria posizione non deve essere necessariamente la stessa per le diverse marche presenti nella stessa categoria di prodotti. Spesso, anzi, è vero il contrario: risultando difficile, quasi improponibile, cercare di spodestare l’impresa leader usando il suo medesimo concetto critico, per trovare uno varco e un proprio spazio nella mente del cliente, occorre allora ricercare un approccio che segua una diversa prospettiva trascurata dai concorrenti, ma che sia in grado di offrire delle potenzialità di sviluppo. A causa dell’approccio generalista che spesso contraddistingue la strategia dell’impresa capofila, capita di frequente che le imprese cerchino spazio nell’estremità superiore o in quella inferiore del mercato di riferimento e, se tale spazio non risulta già occupato da qualcun altro, il progetto ha buone possibilità di andare in porto. Le più importanti opportunità si presentano qualora sia verificata l’esistenza di una consistente porzione di pubblico non adeguatamente soddisfatta dai concorrenti riguardo a un particolare attributo dell’offerta.

Onde evitare il frequente errore di impostare la propria strategia di posizionamento su un numero troppo elevato di caratteristiche del prodotto (scelta che, a causa delle limitate possibilità dell’individuo di processare le informazioni, conduce invariabilmente ad un’immagine sfocata e attaccabile dai concorrenti anche in presenza di buoni concetti di fondo), occorre, invece, concentrarsi su un nucleo ristretto di associazioni che inoltre non trascurino alcun aspetto o segmento potenzialmente sviluppabile. Una pluralità di caratteristiche, entro certi limiti, può essere assunta come sostegno per l’immagine d’impresa solamente se ciascuna risulta legata alle altre e si sostengono vicendevolmente.

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ASSOCIAZIONI RELATIVE A COMPONENTI ASTRATTE.

Un posizionamento basato su caratteristiche tangibili appare più vulnerabile di uno che si fonda su concetti astratti. Questo è tanto più vero quanto minore è il numero di associazioni tangibili basate sulle caratteristiche del prodotto, e in particolar modo quando tale numero si riduce ad uno. In quest’ultimo caso, il rischio derivante dall’effetto di spiazzamento generato da un’innovazione nei confronti della specializzazione dell’impresa è assai elevato. Si può inoltre incorrere nel rischio che i consumatori, non riuscendo a percepire il valore e la diversità di quell’unica caratteristica, non trovino motivo per preferirci ad altri offerenti.

Le componenti intangibili e astratte offrono maggiori possibilità di costruire associazioni forti ed arrivare ad occupare uno spazio nella mente del potenziale cliente. La caratteristica degli attributi intangibili è la generalità, che però non deve essere eccessiva per non cadere nel rischio opposto della banalità. Questo in quanto un vantaggio costruito sulla percezione e sul ruolo emozionale della marca è più difficile da contrastare. Una volta che la marca si è impossessata di un valore nella mente delle persone, quella specifica posizione non può essere conquistata da qualcun altro se prima non viene da lì scalzato il leader, il quale ha saputo evidentemente approfittare di un maggiore tempismo per imporre per primo la giusta associazione.

ASSOCIAZIONI RELATIVE A VANTAGGI PER IL CONSUMATORE.

Solitamente le associazioni che si incentrano sui vantaggi arrecati al consumatore corrispondono a quelle relative a caratteristiche del prodotto in quanto le seconde vengono studiate in modo che implichino le prime (e non potrebbe, del resto, essere diversamente). Nondimeno, può risultare rilevante la constatazione che a prevalere sia l’uno o l’altro tipo di associazione. Infatti, mentre le associazioni legate alle caratteristiche di

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prodotto si riferiscono all’aspetto razionale della decisione d’acquisto, quelle incentrate sui vantaggi per il consumatore fanno invece leva sulla parte psicologica ed emotiva dell’acquisto andando ad incidere su credenze ed atteggiamenti ed ottenendo, per questo, una risposta superiore.

Il vantaggio psicologico si presta, possiamo infine notare, non soltanto per i prodotti che soddisfano bisogni simbolici ed esperenziali, ma anche per quelli tipicamente funzionali.

ASSOCIAZIONI RELATIVE AL RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO.

Sono approssimativamente individuabili cinque categorie di prezzo nelle quali per la marca è possibile posizionarsi sui vari mercati: la categoria premium price, la categoria superiore, la categoria media, la categoria economica, la categoria minima.

Secondo la regola generale, una marca dovrebbe essere posizionata rispetto ad una sola categoria di prezzo per non rendere sfocata la propria immagine peculiare. Una volta stabilita la categoria di prezzo di riferimento, il problema sarà quello di riuscire a differenziarsi dalle altre marche presenti in quella fascia trovando un’associazione di interesse per il potenziale acquirente in una posizione difendibile.

Le possibilità di posizionamento rispetto al rapporto qualità/prezzo che più frequentemente si presentano sono quelle legate alle categorie estreme, perché generalmente il leader di mercato non trova conveniente scendere in forze su un segmento ristretto rischiando di disperdere le energie nel terreno dove invece è più forte e dove ritiene si giochi il suo futuro. L’importante è riuscire ad arrivare per primi su quelle estremità in modo da occupare la relativa posizione ed essere riconosciuti come il riferimento della categoria. Se poi chi detiene la maggiore quota di mercato commette l’errore di spostarsi dalla sua posizione per guerreggiare un conflitto in un territorio che non è il suo disperdendo, in questo modo, le proprie energie su un fronte troppo ampio, allora si presenta l’occasione per coglierlo di sorpresa sul suo stesso campo.

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Preferibile è l’attacco sul segmento alto, in modo da poter disporre dei vantaggi concessi dai margini superiori e dal forte sviluppo che spesso lo caratterizza, ottima risorsa di riserva per rispondere alla successiva reazione della concorrenza. Per posizionare una marca nella categoria premium price occorre valorizzare associazioni che elevino l’immagine di marca sulle concorrenti conferendole una connotazione superiore soprattutto riguardo agli attributi intangibili.

Come vedremo in seguito1, la stessa scelta del nome può essere, di per sé, indicativa di una particolare categoria di prezzo nella quale la marca si troverà ad essere collocata più per effetto dell’aspetto evocativo del nome stesso, che delle azioni a quello scopo appositamente mirate. Spesso, un nome adeguato riesce a conferire alla posizione una sostenibilità ben maggiore di quanto riesca a fare una qualsivoglia qualità del prodotto.

ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLE MODALITÀ D’USO.

L’associazione della marca a una particolare modalità d’uso costituisce un’ulteriore opzione per il posizionamento. Questa particolare possibilità che si apre all’impresa, solitamente viene seguita in sede di riposizionamento per bloccare od imitare le mosse di un avversario e non come iniziale scelta di fondo, a causa della convinzione che spesso si ha circa la superiorità complessiva del proprio prodotto (il che porta a voler sfidare il campione sul campo aperto o, nel caso opposto, ad aspettare con eccessiva fiducia il primo colpo dello sfidante), o per il timore di una prima scelta all’apparenza azzardata e rischiosa. In realtà non si tratta di una scelta marginale o di ripiego: se esiste una possibilità inesplorata legata ad un diverso utilizzo del prodotto o allo stesso utilizzo rivisitato in una chiave originale, allora potrebbe valere la pena di entrare per primi in quel varco occupando la relativa posizione.

Occorre, infine, rilevare come, spesso, l’associazione rispetto alla modalità d’uso rappresenti un ulteriore e secondario livello della strategia di posizionamento adottata dall’impresa, venendo in subordine rispetto ad

1 V. par. 4.2.2.- 120 -

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altri criteri ritenuti più incisivi. Lo scopo specifico di questa ulteriore articolazione della strategia primaria è l’espansione incrementale del mercato della marca. A volte si trascurano, però, i pericoli che derivano dall’adozione di una molteplicità di basi per il posizionamento. Potrebbe divenire difficilmente gestibile la coesistenza di criteri diversi per natura e implicazioni. Si rischia, in primis, di creare solamente confusione nella mente del consumatore, il quale, non riuscendo a collocarci in una categoria mentale ben definita, ci porrebbe in una sorta di limbo dal quale sarebbe poi veramente difficile riemergere anche con una riconquistata ben definita identità. Inoltre, aumentando il numero di criteri di posizionamento potremmo ritrovarci a competere in mercati diversi da quelli inizialmente preventivati, con avversari più forti e che godono del vantaggio della nostra sorpresa nel ritrovarceli di fronte. Non occorre infatti dimenticare come, attraverso il posizionamento, sia l’impresa stessa a scegliersi i concorrenti.

ASSOCIAZIONI RELATIVE ALL’UTENTE/CONSUMATORE.

Un’altra classica possibile base adottabile per la definizione di un posizionamento si incentra sull’associazione con un determinato tipo di utente o di consumatore. Se sussistono i requisiti per una sua valida applicazione, la scelta di questo criterio comporta il vantaggio di permettere una combinazione tra il posizionamento e la segmentazione. Come evidenzia Aaker1, “Identificare una marca con un segmento del target è spesso un modo efficace per rivolgersi a questo segmento”.

L’inconveniente connesso all’adozione di una strategia del genere è collegato strettamente ai vantaggi da essa offerti. Infatti, ciò che questo tipo di posizionamento da una parte concede, se lo riprende dall’altra sotto diversa forma. Occorre mettere molta attenzione nel seguire l’associazione nei confronti dell’utente/consumatore evitando di incorrere in eccessivi vincoli oltre a quelli insiti in una scelta del genere: creando una forte associazione, la marca pone essa stessa dei limiti alla propria espansione. Così, può succedere che da quella che sembra essere la forza di una marca,

1 D. A. Aaker, 1997, op. cit., p. 166.- 121 -

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ovvero il suo legame con un particolare segmento, nasca una debolezza costituita dallo steccato che viene di fatto eretto dall’impresa stesa nel momento in cui decide di dedicare la propria attenzione a certi soggetti escludendone altri. Un successivo tentativo di allargamento della propria base o di spostamento completo della marca dovrà pertanto fare i conti con i limiti dettati dall’originaria scelta.

ASSOCIAZIONI RELATIVE A PERSONAGGI, CELEBRITÀ, EVENTI.

Convinzioni e credenze si sviluppano intorno a persone od eventi oltre che attorno a marche ed imprese. Può capitare che ci si accorga che quei caratteri dei quali la nostra immagine è deficitaria siano in realtà presenti in una persona posta sotto i riflettori del pubblico, o siano ricavabili da un particolare evento. In tutti questi casi le imprese cercano, attraverso la realizzazione di un’associazione con essi, di appropriarsi del potere e dei valori insiti in questi individui o avvenimenti trasferendoli alla marca, per accedere, attraverso una corsia preferenziale, alla mente delle persone.

Parliamo di personaggi in genere, oltre che di celebrità, in quanto non è sempre necessario ricorrere a questi ultimi per ottenere l’attenzione del pubblico orientandone a proprio favore la risposta. Tutto quello che, per un motivo o per l’altro, costituisce un simbolo di qualcosa ed occupa un posto nella mente delle persone – potendosi anche trattare di un personaggio di pura fantasia – può costituire un valido appiglio e punto di riferimento per accedere ad essa con buone possibilità di rimanervi. Si tratta, in estrema sintesi, di sfruttare in proprio favore quanto da altri già realizzato.

ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLA PERSONALITÀ E ALLO STILE DI VITA.

Per il consumatore valutare l’aderenza di ognuna delle marche concorrenti ai propri valori individuali può diventare un compito molto

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lungo e impegnativo. Per questo motivo un più facile approccio è rappresentato dalla personificazione della marca, dal momento che molti caratteri presenti negli individui sono riscontrabili anche in essa. Una marca, come una persona, può essere associata ad una determinata personalità e ad un proprio stile di vita. Gli sforzi di chi si occupa della gestione della marca devono essere allora concentrati nell’integrare tutti i punti di interazione tra il consumatore e la marca, in modo da conferire a quest’ultima una personalità di tipo olistico.

Quando una marca presenta una personalità ben definita, i consumatori iniziano ad interagire con essa e sviluppano una relazione, proprio come avviene fra le persone. La marca che presenta una più spiccata personalità è, allora, quella che presenta le maggiori probabilità di attirare l’interesse dei propri interlocutori, rivestendo, quando essa è particolarmente forte, il ruolo di centro catalizzatore e di riferimento per quanto attiene ai valori che le vengono attribuiti e riconosciuti.

ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLA CLASSE DI PRODOTTO.

Alcune offerte, per loro natura caratterizzate da connotazioni sfumate che potrebbero farle ricadere in più categorie di prodotto, necessitano di un punto fermo in una di queste categorie cui fare riferimento e al quale collegare i propri attributi. La scelta migliore circa la posizione da perseguire per le marche che si trovino a cavallo di due o più categorie, in altre parole, consiste nel riferirsi soltanto a quella che consente alla propria immagine di assumere caratteri il più possibile riconoscibili, semplificando, in questa maniera, il processo di categorizzazione che avviene nella mente del potenziale acquirente.

Occorre, tuttavia, porre estrema cautela nello scegliere lo spazio nel quale intendiamo collocarci perché, coma abbiamo visto, nel fare questo andiamo a determinare i concorrenti con i quali ci confronteremo e che godono già di una loro posizione, probabilmente maggiormente definita rispetto alla nostra.

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Una particolare strada che può essere seguita è quella della negazione. Contrapponendoci al concetto di una marca affermata che presenta un qualche attributo diverso dal nostro, possiamo posizionarci come la marca da scegliere per andare realmente controtendenza in quanto portatrice di un concetto di fondo totalmente diverso, potendo ottenere maggiori risultati rispetto ad una più tradizionale strategia incentrata sul confronto con le marche simili alla nostra.

ASSOCIAZIONI RELATIVE AI CONCORRENTI.

Per le marche che non occupano la posizione di leader di una categoria di prodotto può risultare utile, oltreché comodo, basare il proprio posizionamento sul riferimento ad uno o più concorrenti più affermati. L’obiettivo è sfruttare un’immagine già presente e sedimentata nella mente del consumatore per costruire alla sua ombra una propria posizione ad essa collegata, presentandosi inoltre l’opportunità di sfruttarla come ponte per il raggiungimento di una nuova e in parte diversa posizione. L’associazione logica e la chiusura sono i meccanismi che vengono utilizzati nel fare questo. Un’altra ragione per utilizzare associazioni con la concorrenza sta nella maggiore semplicità e linearità del riferirsi a quanto il consumatore già conosce rispetto al proporgli una serie di caratteristiche da valutare ex novo, superando in un colpo numerosi passaggi che, a causa della loro molteplicità, comporterebbero un allungamento del processo ed il rischio di distorsione del messaggio iniziale.

Il posizionamento basato sul riferimento alla concorrenza può risultare particolarmente vantaggioso se l’associazione concerne una caratteristica del prodotto, in special modo il rapporto qualità/prezzo. Data la difficoltà che le persone incontrano a valutare e categorizzare un prodotto quando siamo nella sua fase di lancio, usando il legame con una marca affermata, è possibile facilitare questo compito.

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Una modalità di realizzazione di un posizionamento che sfrutti l’associazione con la concorrenza è data dalla pubblicità comparativa, laddove esiste questa possibilità1.

ASSOCIAZIONI RELATIVE A UN PAESE O A UN’AREA GEOGRAFICA.

All’interno dell’immaginario degli individui, anche un paese o, più in generale, un qualsiasi luogo geografico, può essere depositario di un insieme di contenuti e simboli che gli vengono attribuiti e che, per analogia, ritroviamo proiettati e presenti in tutti gli elementi che evocano quel particolare luogo. Ancora una volta è il meccanismo del luogo comune e della conformizzazione verso esso a guidare le percezioni delle persone su strade preordinate: si vede ciò che si vuole vedere.

Da queste considerazione segue l’opportunità per la marca di sfruttare, facendoli propri, tutti quegli elementi che sono in grado di evocare simboli già affermati ed abbastanza generali e lontani da garantire una certa stabilità nel tempo e nei contenuti2.

1 La pubblicità comparativa, come vedremo in seguito (par. 4.2.4 e 4.3.2), è inoltre uno dei più potenti strumenti a disposizione dell’impresa per procedere al riposizionamento dei propri concorrenti.

2 Naturalmente, sviluppandosi e moltiplicandosi i rapporti diretti delle persone con paesi diversi, certe mitizzazioni di concetti in precedenza lontani vengono ad attenuarsi per lasciare il posto ad un’interpretazione più oggettiva e distaccata.

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Capitolo 3

IL POSIZIONAMENTO E LE STRATEGIE COMPETITIVE

3.1 – Il sistema di attività dell’impresa

3.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale.

Una critica posta al posizionamento sostiene che esso sia troppo statico per i moderni mercati e per i cambiamenti tecnologici che si susseguono nel mondo odierno, poiché le imprese rivali sono in grado di emulare rapidamente qualsiasi posizione e vantaggio competitivo, con la conseguenza che le strategie incentrate su di esso sarebbero svuotate di ogni significato.

Quest’approccio alle problematiche della competizione è, in verità, troppo semplicistico e fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, delle ragioni profonde che stanno dietro al concetto di posizionamento e che ne costituiscono la ragion d’essere. In primo luogo, la critica riferita alla sua presunta staticità viene a cadere non appena prendiamo in considerazione il ruolo svolto dalla fusione, la quale, per propria natura, conferisce al rapporto tra impresa e cliente quella caratteristica di aderenza e simbiosi tra l’essenza della domanda e quella dell’offerta che rappresenta la sintesi ultima di ogni congetturabile dinamismo. È in virtù della fusione, conquistata quotidianamente sul terreno della mente, che viene garantito il mantenimento partecipato di una posizione esclusiva nel mondo concettuale di riferimento della persona. Si tratterà, semmai, di giungere in una posizione prima di chiunque altro, o, nel caso la categoria mentale sia già appannaggio di un concorrente, di raggiungere un grado di fusione più spinto, in modo da riuscire a prenderne il posto.

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Secondariamente, ma non meno importante, si confonde nel posizionamento la strategia intesa nel senso più puro con quella che Porter chiama efficacia operazionale1. In virtù della ricerca di un continuo miglioramento della performance competitiva, si è assistito ad un notevole proliferare di strumenti manageriali a livello operativo che, nonostante abbiano comportato perfezionamenti riguardo le diverse operazioni investite, si sono spesso rivelati deludenti per chi confidava di avere trovato in essi l’arma finalmente risolutiva nella conquista di un vantaggio sostenibile nei confronti della concorrenza. Il problema risiede evidentemente da altra parte: perdendo di vista l’acquirente potenziale come punto di riferimento invece effettivo, passo dopo passo gli strumenti manageriali hanno preso il posto della strategia creando confusione circa l’orientamento seguito e conducendo le imprese su posizioni sfocate e non in linea con le reali attese del mercato. Nel tentativo di conseguire avanzamenti in tutte le direzioni si è avuto, in altre parole, uno sviamento dalle posizioni vitali per l’impresa e per la marca.

I vantaggi o gli svantaggi competitivi che presenta una marca sono il risultato dell’insieme delle sue attività e non di una parte solamente di esse. Mentre le diversità tra i costi derivano dallo svolgere attività più efficientemente rispetto ai competitori, la differenziazione è generata dalla scelta delle attività e dal modo in cui queste sono realizzate.

Al fine del perseguimento della competitività, l’efficacia operazionale e la strategia sono entrambe elementi imprescindibili, pure se, a causa della loro differente natura, presentano comportamenti diversi. Per efficacia operazionale intendiamo lo svolgimento di attività simili, ma in modo migliore, rispetto ai concorrenti. In questo processo tutto ruota intorno al perseguimento dell’efficienza, che tuttavia non assume carattere totalizzante: ad essa si affiancano tutti quanti quegli strumenti che mostrano di essere in grado di migliorare l’utilizzo delle risorse a disposizione. All’opposto, il posizionamento strategico comporta il porre

1 Il concetto di “operational effectiveness”, inserito nella più ampia trattazione del rapporto tra attività e strategia dell’impresa, è affrontato in M. E. PORTER, What’s strategy, in “Harvard Business Review”, novembre-dicembre 1996, pp. 61- 88.

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in essere attività differenti rispetto ai nostri competitori, oppure attività simili realizzate però in maniera differente.

Se il conseguimento di un continuo miglioramento dell’efficacia operazionale costituisce un’esigenza ineludibile sulla strada della competitività, esso, tuttavia, non dimostra di essere sufficiente. Una prima ragione risiede nella rapida diffusione e imitazione delle migliori pratiche e tecniche manageriali/gestionali, in forza delle quali i differenziali competitivi conquistati vengono inesorabilmente erosi dai concorrenti che si accorgono, presto o tardi, della loro validità. In effetti, l’aspetto più permeante della competizione è costituito dalla relatività delle posizioni: un incremento assoluto in termini di efficacia operazionale può risultare vano in termini relativi comportando benefici inconsistenti per ognuno.

In sostanza, muovendosi i competitori presenti in un mercato nella stessa direzione e secondo le medesime modalità, le distanze relative restano le stesse. Va da sé che l’efficacia operazionale vada comunque perseguita per non lasciare vantaggiosi margini in mano ai rivali, ma, se essa rimane fine a se stessa, gli sforzi compiuti non conducono ad altro se non ad una guerra di posizione dove nessuna delle parti le quali seguono identiche traiettorie, ha possibilità di vincere.

Di qui, la propensione sempre più diffusa, da parte di imprese che non trovano una strategia migliore, a rompere il gioco competitivo attraverso il ricorso a fusioni ed acquisizioni, cercando di ottenere dalle alchimie finanziarie quello che non sono state capaci di trovare nella strategia. Quest’opzione, accanto agli indiscutibili vantaggi conseguibili in termini di posizionamento, presenta, nondimeno, rilevanti problematiche inerenti soprattutto il processo di integrazione tra le entità aziendali coinvolte arrischiando di generare, per il tramite di attività e culture diverse e incoerenti, strategie casuali e frammentate (in queste situazioni, al fine di favorire la trasformazione della complessità e delle difficoltà incontrate in un’opportunità di sviluppo unitario e coeso dell’impresa, diventa fondamentale un’opportuna gestione della comunicazione sia a livello interno che esterno1).

1 Per un approfondimento dei vantaggi derivanti da una gestione integrata e pervasiva dei flussi comunicazionali esterni ed interni in caso di fusioni, acquisizioni,

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Al centro del sistema competitivo stanno invece le strategie di posizionamento, le quali concernono l’essere differenti e si concretizzano nella scelta, deliberatamente operata, di un set di attività diverso dagli altri, in modo da offrire un valore integrato unico. Le problematiche principali che occorre risolvere per addivenire ad un posizionamento di successo sono sintetizzabili nei seguenti punti:

1. Individuazione nella mente dei potenziali acquirenti dello spazio mentale da occupare. Esso può consistere in un nuovo spazio da noi identificato ancora vergine e non occupato da altri, oppure in una categoria già presente e dalle connotazioni sufficientemente definite che vede, però, proprio per questo, le posizioni della scala valoriale occupate da altre imprese.

2. Specificazione delle caratteristiche della categoria di riferimento e delle posizioni che in essa sono riscontrabili. Dopo avere identificato il luogo mentale sul quale andremo ad operare occorre ora comprenderne a fondo la natura e le fattezze, in maniera tale da poterci muovere agevolmente al suo interno. In questa fase si procede alla selezioni delle particolari associazioni cui farà riferimento la marca.

3. Traduzione delle risultanze relative ai punti precedenti – e concepite in termini del target di riferimento – in un sistema integrato e coerente di attività. Il collegamento tra il momento investigativo degli spazi mentali e quello ideativo della rete di attività è costituito dall’individuazione e dallo sviluppo delle associazioni più idonee a comunicare l’identità di marca.

Le circostanze che originano la categorizzazione mentale e la loro natura sono state trattate nel secondo capitolo. Nostro compito è, adesso, quello di procedere alla determinazione dell’insieme di attività che definiscono una posizione strategica e all’utilizzo delle associazioni nel conferire un valore a tale posizione.

alleanze strategiche e, in generale di situazioni di crisi, potenziale o in atto, si veda: M. BROGI, R. FIOCCA, Dalla crisi alla svolta: il ruolo della comunicazione. Il caso New Holland, in “Economia & Management”, marzo 1986, pp. 31-43.

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L’essenza della strategia risiede nelle attività: occorre scegliere e realizzare attività che siano differenti da quelle dei rivali o che, pur essendo ad esse riconducibili, siano portate avanti in modo differente.

Porter enuclea tre possibili origini per una posizione strategica. Secondo l’autore1, possiamo, in altre parole, avere tre diversi tipi di posizionamento: il posizionamento basato sulla varietà, quello basato sui bisogni, quello basato sull’accesso.

Il primo si ha quando l’impresa si orienta verso la produzione di un sottoinsieme di prodotti o servizi di un’industria. La scelta si basa su varietà del prodotto o servizio, piuttosto che su segmenti riferiti ai clienti. Questo tipo di posizionamento comporta effetti positivi ricollegabili all’utilizzo di set di attività distintivi. Un’impresa che segua questa linea strategica potrà coprire un ampio schieramento di potenziali acquirenti, ma, per lo più, incontrerà soltanto un sottoinsieme dei loro bisogni.

Il posizionamento basato sui bisogni si avvicina al tradizionale modo di approcciare e indirizzarsi a un determinato segmento di consumatori. Questa diversa impostazione può essere seguita con successo quando esistono gruppi di persone con bisogni differenti 2 e quando questi bisogni sono raggiungibili attraverso il ricorso a un adeguato sistema di attività. Una variante del posizionamento basato sui bisogni si può avere allorché lo stesso cliente presenta diversi bisogni in differenti occasioni o per differenti tipi di transazioni. Requisito essenziale di questo tipo di posizionamento è l’elaborazione del set di attività più adeguato per soddisfare i diversi bisogni delle persone, il quale, per poter tradurre le differenze nei bisogni in posizioni significative, deve esso stesso differire in modo evidente e sostanziale da quelli dei concorrenti.

Il posizionamento basato sull’accesso si incentra sulla segmentazione di consumatori che sono accessibili in modi differenti. Sebbene i loro bisogni siano similari a quelli di altri consumatori, è differente la migliore configurazione delle attività per raggiungerli; se i bisogni sono simili, esistono, cioè, dei gruppi distinti sulle cui differenze occorre concentrarsi.

1 M. E. PORTER, 1996, op. cit., pp.65-68.2 Indipendentemente dalla natura (sensibilità al prezzo o ad altre caratteristiche

dell’offerta) dei bisogni espressi.- 130 -

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Il particolare tipo di accesso può essere funzione di qualunque variabile (come, ad esempio, la collocazione geografica, l’addensamento, una minore scala dimensionale, ecc.) che renda possibile l’esistenza di un approccio al cliente, tramite un sistema di attività ad hoc, migliore degli altri. Questo tipo di posizionamento appare meno frequente degli altri, non tanto per le minori potenzialità, quanto perché forse meno compreso.

Occorre rimarcare come il posizionamento non sia affatto sinonimo di ricerca di una nicchia, pur essendo, essa, una delle possibili soluzioni cui si possa addivenire. In effetti, qualunque ne sia l’origine, possono emergere sia posizioni ampie ed estese che posizioni ristrette sulle quali disegnare le proprie attività. Riemerge il concetto di focalizzazione1 così come espresso dall’approccio di Porter alle strategie di base. Le imprese che si focalizzano sono orientate a sottoinsiemi di consumatori che presentano bisogni particolari e che risultano essere sovraserviti da altre imprese che operano con strategie più ampie (quindi sopportando un aggravio di prezzo) o sottoserviti (lasciando non adeguatamente sfruttato un margine di prezzo che essi sarebbero disposti a sostenere). Un competitore operante su una più ampia base orienta, invece, le proprie attività verso i bisogni più comuni del target, ignorando quelli di cui sono portatori particolari gruppi di potenziali clienti. Le strategie di base – differenziazione, leadership di costo, focalizzazione – restano comunque utili per caratterizzare le posizioni strategiche al livello più semplice ed ampio. Sono poi le basi per il posizionamento – varietà, bisogni, accesso – a conferire un maggiore livello di specificità a queste generiche strategie.

Seguendo questo ragionamento, la strategia si pone come “la creazione di un’unica e rilevante posizione che richiede un differente set di attività2”. L’essenza del posizionamento è data dal fatto che esiste una pluralità di posizioni più o meno visibili e praticabili, le quali si caratterizzano, poi, per la dinamicità con cui mutano e si evolvono, in seguito ai cambiamenti che intervengono nell’ambiente esterno e, in particolar modo, nella mente dei potenziali acquirenti. Ognuna di queste posizioni si differenzia dalle altre per i diversi disegni di attività che

1 V. cap. 1.3.1.2 M. E. PORTER, 1996, op. cit., p. 68.

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vengono impiegati. Anzi, affinché si pervenga ad una differenziazione effettiva, occorre scegliere attività che siano realmente diverse da quelle dei rivali. Se esistesse un set di attività che consentisse di soddisfare tutti i bisogni e di accedere a tutti i consumatori, allora sarebbe l’efficacia operazionale a costituire il principale motore della competitività.

3.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off.

La scelta di una posizione unica che costituisca un valore per il cliente non è di per sé sufficiente a garantire la sostenibilità del vantaggio conseguito: gli imitatori, infatti, si muoveranno rapidamente nel mercato nel tentativo di approfittare, penetrandovi, del varco da altri aperto. Nel fare questo, l’imitatore segue tipicamente due strade tra loro distinte, tuttavia accomunate da quella che Ries e Trout chiamano, nel loro caratteristico linguaggio figurativo, la logica della risposta “anch’io, anch’io1”. Un competitore può riposizionarsi completamente creando un sistema di attività ad hoc in modo da andare ad incontrare la collocazione del concorrente di riferimento, oppure, molto più frequentemente, estendersi (in modo spesso caotico, disorganico e scomposto) dalla posizione correntemente ricoperta, pur mantenendola, nel tentativo di appropriarsi dei benefici connessi alla posizione di un rivale di successo (ed è quanto tipicamente avviene, attraverso l’innesto di nuovi contenuti, servizi e tecnologie nelle attività già in essere) 2.

Chi sia riuscito ad occupare una posizione strategica di superiorità si trova, allora, nella necessità di rinsaldare tale condizione attraverso l’erezione di adeguate barriere e l’attuazione di una difesa che avrà tanto maggiori possibilità di successo, quanto più elevato è il margine sulla concorrenza, in questo trovando conforto nel fatto che i concorrenti non sono in grado di copiare tutte le posizioni assumibili nel mercato senza esporsi al rischio, tutt’altro che irrilevante, di una perdita di focalizzazione circa le attività che attualmente svolgono, con una conseguente distorsione e indebolimento della propria identità ed immagine. Questo accade a causa

1 A. RIES, J. TROUT, Positioning, McGraw-Hill, 1986, pp. 79-80.2 Al problema dell’estensione di linea è dedicato il paragrafo 3.4.

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della presenza di trade-off che legano indissolubilmente ogni particolare posizione a tutte le altre, in moda tale da rappresentare un peso da sopportare qualora si decida di procedere ad un riposizionamento. I trade-off prendono origine dal fatto che spesso le attività sono tra di loro incompatibili e l’orientarsi verso l’una piuttosto che verso l’altra apre delle porte chiudendone altre.

I trade-off sono presenti nella competizione in maniera pervasiva e risultano essenziali qualsiasi strategia venga adottata. Il loro ruolo si esplica nel fungere da deterrente per avventate estensioni di linea e riposizionamenti, dal momento che, qualora non fossero attentamente valutati, potrebbero minare le strategie seguite e degradare il valore delle attività esistenti. L’insufficienza dell’efficacia operazionale a costruire vantaggi competitivi durevoli e sostenibili si accompagna all’impossibilità di trarne che deriva dall’assenza di trade-off. In mancanza di questi ultimi tutti gli sforzi compiuti nella direzione di una maggiore efficacia operazionale sfociano solamente in una continua corsa che nella migliore delle ipotesi, ha come unico traguardo raggiungibile non il prevalere sulla concorrenza, ma lo stare al passo con essa. La strategia avveduta deve tenere i trade-off1 e la loro incidenza sulla competizione nella massima considerazione, ritrovandosi la sua essenza nello scegliere cosa l’attore non deve fare.

Più precisamente, esistono valide ragioni per l’esistenza dei trade-off. La più ovvia discende dal fatto che l’immagine e la reputazione non si possono costruire da un giorno all’altro e tanto meno le si può modificare agevolmente una volta che i consumatori hanno posizionato la marca nelle scale categoriali all’interno della propria mente. Una marca cui è attribuito, a torto o a ragione, un particolare valore con il quale viene ad essere identificata rischia, modificando la propria collocazione strategica, di perdere credibilità e indebolire anche i suoi profili di forza, riuscendo solamente a creare confusione nel potenziale acquirente.

I trade-off non sono entità astratte, in quanto derivano dalle attività stesse dell’impresa. Se il perseguimento delle posizioni strategiche è

1 Se non esistessero trade-off, non ci sarebbe la necessità di una scelta e quindi di seguire una strategia: tutto verrebbe a dipendere dal grado di efficacia operazionale.

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strettamente correlato alle diverse attività che possono essere create e messe in sistema, queste ultime sono poi, a loro volta, foriere di possibilità e di limiti secondo il particolare assetto venutosi ad instaurare. Questo accade in virtù del mantenimento di un elevato grado di coerenza tra l’identità comunicata e l’immagine percepita da una parte, e quanto il consumatore si troverà poi a constatare una volta entrato in contatto con l’offerta, dall’altra. Ogni particolare posizione richiede differenti configurazioni di prodotto, nonché comportamenti e capacità da parte del management e degli altri assetti d’impresa che siano in sintonia con essa. Esiste, comunque, una relazione inversa tra la flessibilità che le diverse organizzazioni dimostrano di possedere e la consistenza dei trade-off, anche se molti di essi possono essere piuttosto elementari. Le difficoltà per l’impresa non sorgono, tuttavia, in seguito al superamento dei singoli trade-off, ma nel momento in cui essi costituiscono una rete di interdipendenze reciproche che risulta assai più difficile da districare.

Un’ulteriore origine per i trade-off scaturisce dall’interno dell’impresa e, in particolare dai sistemi di coordinazione, gestione e controllo. Nel definire con chiarezza il modo con cui si intende affrontare la competizione, chi idea la strategia sceglie di intraprendere una strada invece di altre, creando ad un tempo, nel far questo, le possibilità che si profileranno per l’impresa, così come i vincoli ed i rischi cui andrà incontro. Appare in tutta la sua evidenza il limite generale che affligge qualsiasi impresa e, più in generale, qualsiasi entità che abbisogni di una propria definita identità: non è possibile – e non paga se si incentrano i propri sforzi in questo – essere tutto per tutti, ovvero risulta vano tentare di proiettare un’immagine di sé buona per tutti gli interlocutori e per tutte le occasioni1. Il rischio è quello di non rappresentare, alla fine, niente di

1 Questo, di per sé, non inficia la considerazione che vede nella capacità di essere generaliste una dote che accomuna gran parte delle imprese leader di mercato. Non è possibile acquisire una certa rilevanza ed occupare spazi importanti nella mente dei potenziali acquirenti senza esprimere concetti in grado di corrispondere alle esigenze della maggior parte dei potenziali acquirenti. Il difficile, semmai, è riuscire s conciliare questa necessità con le specificità che pure emergono nell’ambito della categoria di riferimento: se un certo grado di genericità è implicito nella posizione di leadership, esso deve essere gestito in modo tale che non produca una diluizione dei

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importante per nessuno, a causa della confusione che viene in essi generata. Sempre esisterà, per ognuno dei concetti di cui vogliamo farci portatori, qualcuno in esso focalizzato a cui verrà riconosciuta dal mercato, proprio per questo, una maggiore credibilità. Si tratta, in ultima analisi, di un problema di concentrazione di forze: disperdere le proprie energie su un fronte mentale troppo ampio rischia di renderne troppo deboli e permeabili i confini. Una migliore strategia è, allora, quella che coniuga le forze e le capacità a propria disposizione con punti strategici da presidiare che siano circoscritti e ben determinati. La chiarezza della propria identità e delle essenziali linee direttrici, assieme alle potenzialità evocative della missione aziendale, costituisce un necessario quanto importante riferimento per chi, poi, è tenuto a mettere in pratica a livello operativo la strategia di posizionamento.

3.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di attività.

Se la strategia si incentra su un sistema di attività, questo non può essere ideato e strutturato sulla base di orientamenti generici o semplicistiche imitazioni di posizioni di successo, ma deve poggiare su più solidi argomenti, quelli costituiti dalle associazioni. Che senso avrebbe, infatti, impegnare i propri sforzi in direzione di attività che, frutto di una miope visione del mercato dall’interno verso l’esterno, risultino superflue quand’anche non deleterie e fuorvianti rispetto alla generazione delle associazioni realmente importanti per il potenziale acquirente? Nella ideale piramide strategica, quindi, le associazioni si trovano al di sopra delle attività d’impresa, in posizione immediatamente sottostante al concetto di marca, che ne costituisce la sommità e dal quale esse traggono origine.

valori su cui si fonda l’immagine di marca.- 135 -

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Evidenziando i collegamenti esistenti tra associazioni ed attività notiamo come le attività che l’impresa pone in essere siano, cioè, espressione, attraverso le associazioni che vengono evocate, del particolare concetto di riferimento attivato. Una volta che quest’ultimo viene individuato, quindi, occorrerà tracciare la particolare rete di associazioni che ad esso viene riferita dal consumatore, per poi tradurre il significato di tali associazioni in un’adeguata struttura di attività, la quale consenta di catturarne le potenzialità, sia in senso positivo, creando un valore aggiunto per il potenziale acquirente, sia in senso negativo, costruendo un sistema difensivo, imperniato su di essa, nei confronti dei possibili tentativi di imitazione da parte dei concorrenti. Appare in tutta la sua evidenza il ruolo di guida che le associazioni rivestono nei confronti delle attività. In altre

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CON-CETTO

ASSOCIAZIONI

ATTIVITA’

Figura 3.1 – La piramide strategica

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parole, è sulle prime che devono fare perno le seconde, dandone un’interpretazione tale da consentire una reale differenziazione della marca, o quanto meno una sua maggiore aderenza alle aspettative ed agli atteggiamenti del target.

Ciò non appare comunque sufficiente, dal momento che, nonostante le attività siano il frutto dell’analisi delle associazioni da sviluppare, occorre poi verificare quali siano quelle effettivamente generate dalle attività medesime. Questo momento del processo di posizionamento va oltre quella che può essere la consueta analisi dei risultati di una strategia, imponendo un confronto serrato con quanto precedentemente ipotizzato circa il rapporto marca/acquirenti potenziali. Nel tenere conto degli esiti riscontrati, non necessariamente si prospetta la necessità di una risistemazione della rete di attività tale da consentire l’aderenza ottimale delle associazioni effettive con quelle teorizzate, potendosi, invece, ritenere più opportuno incentrare i successivi sviluppi sulle risultanze dell’interazione concretamente realizzata con il mercato.

Le scelte di posizionamento, viste dal punto di vista delle attività poste in essere, concernono l’individuazione di quelle tra esse che verranno chiamate in causa, la configurazione delle singole attività e del modo in cui esse entrano in relazione l’una con l’altra. Rintracciamo, qui, una differenza sostanziale tra l’efficacia operazionale e la strategia: mentre la prima concerne il perseguimento dell’eccellenza nelle attività individualmente considerate, la seconda investe il modo in cui le attività vengono combinate.

La rete di attività che si viene a determinare costituisce una barriera all’imitazione tanto più forte, quanto più forti sono i legami tra le attività medesime portando l’impresa verso una posizione caratterizzata dall’unicità e dall’amplificazione dei trade-off.. La complementarietà delle attività integrate a sistema diviene poi fonte di accrescimento del valore di marca.

Possiamo riconoscere tre tipi di legame che, nonostante la loro diversità, non si escludono vicendevolmente in maniera automatica. Una prima classe di relazioni è costituita dalla semplice coerenza tra ciascuna delle diverse attività e la strategia. La coerenza fa sì che il vantaggio

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competitivo si accumuli e non venga eroso, permettendo una facilità di comunicazione della strategia sia verso il mercato – attraverso l’immagine proiettata – sia all’interno dell’impresa ai fini della sua implementazione.

Un altro tipo di relazioni si ha quando le attività si rinforzano, attraverso le associazioni, l’una con l’altra. Così, gli aspetti positivi presenti nella performance di una di esse si trasmette, per induzione, alle altre cui essa è collegata. Vale, tuttavia, anche il ragionamento inverso: i segnali negativi possono anch’essi riversarsi sui nodi alle altre estremità delle linee che li connettono. Bisogna quindi studiare con molta attenzione la struttura delle attività e le relazioni che intercorrono tra esse, in modo da conferirle un’adeguata adattabilità alle diverse circostanze che può venire a dover affrontare, minimizzando la possibilità di attivazione di associazioni negative e massimizzando la sensibilità a quelle positive.

Un terzo ordine di legami, l’ottimizzazione dello sforzo, va oltre il rafforzamento delle attività. Essa si esprime, innanzitutto, attraverso la coordinazione e lo scambio di informazioni tra attività, in modo da ridurre la ridondanza e minimizzare lo sforzo. Risultati analoghi possono essere conseguiti mediante la coordinazione con i fornitori ed i canali distributivi.

Il carattere che accomuna tutti i tipi di relazione che possono essere perseguiti in una struttura di attività, dalla quale, nella sua interezza, scaturisce il vantaggio competitivo, è dato dalla preminenza dell’insieme sulle singole parti. I legami tra le attività concorrono alla determinazione della superiorità competitiva attraverso la riduzione dei costi o il contributo alla differenziazione.

La rilevanza strategica della struttura di attività non è limitata solamente alla creazione del vantaggio competitivo, ma si estende anche alla sua sostenibilità. Le posizioni costruite su un sistema di attività sono molto più solide e sostenibili di quelle basate su attività prese singolarmente, a causa della stessa complessità che è insita nella sua articolazione. Ala minore imitabilità di un intero insieme di relazioni, fa cioè riscontro una più agevole difendibilità della posizione sia nei confronti dei concorrenti attuali che degli entranti potenziali. Il fulcro del valore difensivo di una qualsiasi struttura risiede, ancora una volta, negli inevitabili trade-off che i competitori si trovano a dover affrontare e gestire.

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Più specificamente, il vantaggio connesso al posizionamento sarà tanto più consistente quanto maggiore sarà il ricorso al secondo ed al terzo ordine di relazioni instaurabili tra le attività. Anche se gli avversari sono in grado di identificare le interconnessioni rilevanti, troveranno grandi difficoltà nel replicarle ed integrarle con le proprie attività esistenti. Oltre a ciò, non giova agli imitatori il prendere in considerazione la realizzazione di una replica solo parziale del sistema di attività (specialmente quando queste si caratterizzano per una spiccata complementarietà reciproca), poiché si perverrebbe a qualcosa di diverso che, oltre a non migliorare la performance, potrebbe anzi contribuire in maniera determinante al suo decadimento.

Un ulteriore fattore posto a freno delle possibilità di imitazione di posizioni che poggino su un ben strutturato insieme di attività sta nella considerazione che le relazioni tra esse creano incentivi e pressioni a che si migliori l’efficacia operazionale, dal momento che, se ciò non accadesse, la povera performance di un’attività contribuirebbe a degradare quella di altre ad essa collegate indebolendo, in questo modo, l’intera struttura1. È, quindi, la superiorità riguardo alla strategia ed all’efficacia operazionale a comporre i singoli giovamenti ad esse ricollegati in un vantaggio competitivo di difficile imitazione.

In virtù delle considerazioni appena esposte, appare evidente come le posizioni strategiche maggiormente appetibili siano quelle i cui sistemi di attività siano difficilmente imitabili a causa della presenza dei trade-off. Attività e ruoli dei trade-off devono, allora, essere adeguatamente interpretati e strutturati, al fine di conferire, a loro ed alla posizione che da essi risulta, una profonda connotazione strategica.

Nel caso in cui il problema da affrontare sia quello della necessità di pervenire ad un riposizionamento, la scelta della posizione migliore incontra delle ulteriori complicazioni derivanti dalla gestione delle associazioni già esistenti e consolidate riferite ad un prodotto con una storia di relazioni alle spalle. Alcune di esse possono rivelarsi ormai obsolete ed anacronistiche o non più in linea con l’immagine ideale e quella percepita

1 Analogamente il miglioramento della performance di un’attività pagherà anche in termine delle altre cui essa si relaziona.

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di cui il mercato è interprete. Altre, al contrario, possono presentarsi creando la necessità di una loro pronta assimilazione da parte dell’impresa. Inoltre, può verificarsi l’opportunità di procedere ad una ridefinizione e risistemazione dei collegamenti tra le associazioni stesse (e, di conseguenza, tra le attività). Occorre valutare, perciò, quali associazioni indebolire od eliminare e quali creare e rafforzare, riponendo particolare attenzione e cura a quelle caratterizzate da una reciprocità di rapporti, sia in termini di complementarietà, che di sostituibilità.

Di ogni attività in cui si estrinseca la posizione dell’impresa e della marca dobbiamo identificare e conoscere a fondo le possibili associazioni positive e negative da essa generate. Vale la regola generale per cui, con riferimento alle associazioni positive, debbano essere rafforzate le attività esistenti assieme ai legami intercorrenti tra di esse in modo da erigere difese più solide a sostegno del vantaggio competitivo, procedendo nel contempo ad uno sforzo creativo di nuove attività per meglio sfruttare il potenziale delle associazioni attuali e per portarne avanti di nuove. Valgono considerazioni opposte nel caso di associazioni negative, con l’esigenza di isolare ed abbandonare attività e legami esistenti qualora risultino costituire solamente dei pesi per le associazioni generatrici di valore1.

La posizione determinata dalla combinazione delle associazioni evocate dovrebbe essere tale da consentire, una volta espressa da un idoneo sistema di attività, il conseguimento di adeguati profitti e la possibilità di

1 È, questa, una scelta molto difficile da prendere e alla quale dare in seguito. Se da una parte non manca la consapevolezza che le attività portatrici di influenze negative per le associazioni siano da tagliare onde evitare che minino, contagiandolo attraverso quegli stessi legami che le riuniscono a sistema, il potenziale delle associazioni più costruttive e proficue per la marca, dall’altra prevale la fiducia un po’ fatalistica in un’inversione di tendenza che spesso poi non si verifica, aggravando in questo modo la situazione complessiva e rendendo, con il passare del tempo, sempre più problematica e spinosa l’intrapresa di un corretto riposizionamento. Viene a mancare, in queste situazioni, la necessaria risolutezza e determinazione a porre termine a una condizione di precarietà non accorgendosi che, per evitare il sostenimento di costi certi, ma minimizzabili entro limiti ancora accettabili, stiamo andando incontro al rischio di scivolare lungo discese ben più pericolose che potrebbero condurci fuori dal mercato.

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mutare prontamente posizione nel caso in cui ciò dovesse rendersi necessario o comunque opportuno e vantaggioso.

Aaker indica tre criteri interpretativi delle associazioni attraverso i quali può essere configurata una scelta di posizionamento1. Con la premessa che la selezione delle associazioni attiva tutte le leve del marketing, tali criteri sono ravvisabili, come rappresentato in figura 3.22, nell’autoanalisi, nello studio delle associazioni dei concorrenti, e in quello del mercato-obiettivo.

Lo scopo di un’autoanalisi indirizzata alla comprensione di ciò che rappresenta per il cliente l’offerta dell’impresa è quello di perseguire quella coerenza che abbiamo riconosciuto essere un requisito primario di ogni posizionamento3. Creare un’immagine non in linea con la posizione assunta nella mente dei potenziali acquirenti, venendo a mancare codesto fondamentale sostegno, può risultare strategicamente disastroso, oltreché dispendioso. In seguito al mancato riscontro dell’effettività dell’immagine proposta, risulta, cioè, minato il valore e la credibilità della marca, rendendo ancora più ardua la successiva opera di riposizionamento. Inoltre, proprio a causa delle associazioni, le quali, se da una parte sono foriere di potenziali vantaggi transitanti attraverso le relazioni, dall’altra possono trasmettere anche sentimenti ed atteggiamenti negativi, il deterioramento della posizione potrebbe propagarsi con un effetto domino ai prodotti o servizi collegati alla marca che di tale deterioramento è prima vittima.

1 D. A. Aaker, 1997, op. cit., pp. 204-214.2 Fonte D, A, Aaker, 1997, op. cit., p.206.3 V. cap. 1.2.3.

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L’analisi delle associazioni dei concorrenti è finalizzata all’individuazione ed allo sviluppo di evidenti punti di differenziazione, necessaria premessa del divenire oggetto prima di attenzione e poi di scelta da parte dei potenziali acquirenti. L’assenza di elementi distintivi, di qualunque natura essi siano, pare già indicare e prefigurare le difficoltà in cui incorrerà il prodotto o servizio appena lanciato. La mera imitazione di un prodotto affermato ha in sé i connotati del fallimento.

Vero è che a volte può risultare utile avvalersi di una molteplicità di associazioni comuni, con un unico elemento di differenziazione, il quale rivesta un ruolo significativo per il consumatore. In questi casi la cooptazione delle associazioni dei concorrenti si rende necessaria perché esse appaiono fondamentali agli occhi degli acquirenti e devono pertanto

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AUTOANALISI

Coerenza con:Caratteristiche del prodottoPercezioni del prodotto

ASSOCIAZIONI DEI CONCORRENTI

Differenze

MERCATO - OBIETTIVO

Fornire ragioni di acquistoAggiungere valore

ASSOCIAZIONI

Figura 3.2 – Le scelte di posizionamento

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essere presenti. In più, l’appoggiarsi e il riferirsi all’immagine di un qualcosa già presente nella loro mente rende il confronto con la nostra offerta più semplice e diretto, senza che la persona sia costretta a processare ed elaborare ex novo tutte le informazioni ad essa relative. Ad ogni modo, un’associazione può risultare talmente importante per il consumatore che si renda comunque necessaria una sua marcata evidenziazione.

Se la marca è in una posizione di leadership del settore – sia che essa sia conquistata sul campo, sia, a maggior ragione, che sia stata quella che per prima ha scorto il créneau nel quale andare ad inserirsi e abbia creato (occupandola) la relativa categoria mentale – la differenziazione ha, dal punto di vista della “paternità” della categoria concettuale di riferimento, un’importanza relativa: i concorrenti diventano, in quanto tali, degli imitatori della marca “originale”, ritrovandosi su un piano sottoelevato rispetto ad essa a cagione della loro stessa immagine e di altri fattori contingenti1.

L’analisi del ruolo delle associazioni per il mercato principale ha per obiettivo la costruzione di elementi di differenziazione in grado di accrescere la forza della marca e di valorizzarne le caratteristiche e gli attributi in modo da dare consistenza e spessore alla posizione ricoperta nel mercato stesso. Se la differenziazione crea visibilità, una posizione forte deriva dalla proposizione di valide ragioni di acquisto e dal conferimento di ulteriore valore al prodotto o servizio.

Le ragioni di acquisto possono essere esplicitate mediante il collegamento dell’associazione a caratteristiche specifiche, ma questa condizione pur necessaria, non dimostra essere sufficiente. Infatti, la ragione di acquisto deve risultare abbastanza forte e delineata da risultare davvero attraente per i potenziali acquirenti. La concretezza fine a se stessa, non accompagnata dalla rilevanza, non basta per innescare il meccanismo di valorizzazione della marca.

Sulle ragioni di acquisto si basa il concetto di unique selling proposition per il quale nel prodotto dovrebbe essere presente un vantaggio specifico ed unico abbastanza importante da incidere nella scelta di

1 Come, per esempio, una loro eventuale minore copertura distributiva.- 143 -

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acquisto del consumatore, la quale, una volta creata, dovrebbe essere mantenuta nel tempo.

L’altro elemento originante una posizione solida è costituito da associazioni che agiscono in modo indiretto, aggiungendo valore alla marca senza addivenire necessariamente ad una esplicitazione delle ragioni di acquisto razionali e facilmente interpretabili. Tali associazioni fanno leva essenzialmente sulle sensazioni collegate al prodotto ed al suo utilizzo, e sono portate avanti in particolare dalla pubblicità1, la quale incrementa il valore aggiunto fornendo un’esperienza indiretta dell’utilizzo del prodotto e delle sensazioni ad esso collegate. Seguendo questa linea, associazioni “di prestigio” e “di qualità” vanno a modificare effettivamente l’esperienza d’uso, aggiungendo valore alla marca.

La costruzione di una posizione basata sulla comprensione delle associazioni già esistenti e percepite dai consumatori e sulla creazione di nuove a partire di esse presenta maggiori possibilità di successo rispetto a quella fondata sui tentativi di modificarle.

3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le posizioni

La prima questione da affrontare in una competizione per le posizioni riguarda la scelta del particolare atteggiamento al quale dovrà improntarsi la strategia seguita, ovvero il modo in cui ci si porrà nell’affrontare il mercato. La ragione di ciò risiede nel fatto che esistono diverse linee primarie che possono essere seguite dal soggetto al centro dell’azione, anche se solo una di esse risulta, in definitiva, appropriata.

La scelta dell’approccio strategico alla competizione dipende fondamentalmente dalla posizione – sia con riferimento agli spazi mentali del consumatore, sia in termini dei rapporti di forza con i concorrenti – occupata in partenza dalla marca. L’essenza della competizione sta nel

1 Quando la pubblicità va a modificare l’esperienza d’uso del prodotto, allora viene definita “trasformativa”. Per essere efficace, la pubblicità trasformativa deve riuscire a costruire e mantenere delle associazioni tra sensazioni, prodotto ed esperienza d’uso.

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tentativo di prendere possesso del gradino più in alto possibile sulle scale valoriali che gli individui usano per esprimere in maniera sintetica, ma significativa, le posizioni relative nelle diverse categorie mentali concernenti i prodotti ed i servizi. Se questa considerazione appare piuttosto logica, spesso i decisori d’impresa commettono il grave errore di non tenerne adeguatamente conto, banalizzandone il significato tacciato di scontatezza e privilegiando quegli scenari che meglio loro suonano alle orecchie, salvo poi puntualmente pagare le conseguenze della propria miopia strategica.

Ries e Trout riconoscono l’esistenza di quattro principali modi di affrontare il mercato e la competizione, ciascuno dei quali si presta ad essere seguito in una specifica situazione concorrenziale nella quale si è inseriti: la strategia difensiva, quella offensiva, l’attacco laterale, la “guerriglia”1.

Non esiste una strategia di marketing più valida delle altre in termini assoluti. Il seguire l’una piuttosto che l’altra dipende dalle specifiche circostanze e dalle caratteristiche del mercato di riferimento, ma soprattutto dalla posizione qui ricoperta dall’impresa la quale dovrebbe essere oggetto di un attento e scrupoloso studio prima di prendere qualsiasi decisione di ordine strategico2. La strategia valida per una impresa leader, non lo è altrettanto, ad esempio, per una piccola impresa, e viceversa. Non sono, poi, tanto le dimensioni dell’impresa ad essere importanti, quanto, piuttosto, quelle dei propri rivali: occorre scegliere la strategia giusta su misura della concorrenza, non sulla nostra.

L’elemento comune che attraversa, permeandole, le quattro strategie di base è costituito dal principio della forza. Esso, derivato direttamente dalla teoria bellica, afferma che bisogna avere sempre forze maggiori del nemico nel punto – decisivo – che deve essere attaccato o difeso. Seguendo

1 Tali approcci costituiscono il tema centrale del già menzionato J. TROUT, A. RIES, Il marketing è guerra!, McGraw-Hill, 1986.

2 In realtà, è possibile prevedere, che, in ogni mercato caratterizzato da una certa numerosità di competitori, per la stragrande maggioranza delle imprese sia più indicata una strategia di guerriglia, con una solamente – la leader – a giocare in difesa, mentre due siano le imprese impegnate in una strategia offensiva, e tre o quattro portino attacchi ai fianchi.

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le indicazioni che esso ci offre, constatiamo come non sia sufficiente disporre di una quantunque valida idea imprenditoriale per ottenere un successo e, a maggior ragione, per renderlo sostenibile. Il punto determinante sta nella concentrazione di forze laddove viene sferrato l’attacco. Nel caso, per esempio, che una piccola impresa cerchi di aprirsi un varco del mercato poco coperto dall’impresa leader, se essa non dispiega risorse ed energie su quello specifico punto, gioco forza quest’ultima, nel momento che si muoverà alla risposta, sovrasterà la sfidante che non ha saputo sferrare il colpo con la dovuta decisione e razionale coerenza e costanza.

L’importanza del principio della forza discende dall’analisi della “matematica degli scontri a fuoco”, per la quale, in uno scontro a viso aperto, è inevitabile che prevalga la parte in causa che dispone di una preponderanza di forze: essa subisce, in seguito allo scontro, minori danni in termini relativi, venendosi prima ad esaurire, con la sua prosecuzione, le forze residue ancora a disposizione dell’altra parte, la quale potrà opporre una resistenza sempre più bassa1.

La questione che più rileva nel principio della forza sta comunque nella sua focalizzazione su un punto specifico dello spazio mentale che è teatro della competizione. La detenzione di abbondanti forze ammassate in punti (segmenti…) non cruciali, magari non prontamente dispiegabili all’occorrenza, costituisce un punto debole per l’impresa, lasciando scoperto settori nevralgici che potenzialmente potrebbero servire da corridoi per chi volesse attaccare la sua posizione. Se così non fosse, assisteremmo al mantenersi di un perpetuo status quo nel momento in cui una categoria mentale è stata scoperta ed occupata da qualcuno, ed i follower sarebbero irrimediabilmente costretti nelle zone marginali del mercato.

Il prodotto, per quanto valido sia, non consente, da solo, di sovvertire gli esiti del pronostico della competizione. Sbaglia, quindi, chi si affida alla

1 In proposito, risulta determinante l’avere a disposizione precise e corrette cognizioni circa le forza schierate in campo e quelle che i competitori tengono come riserva e schierano all’occorrenza. Anzi, spesso è proprio la disponibilità di nuove e fresche forze da schierare a fare la differenza, soprattutto con il protrarsi delle ostilità concorrenziali.

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bontà della propria offerta nella speranza, da questi trasformata in convinzione, che prima o poi il mercato si accorgerà, premiandola, della sua superiorità. Nella migliore delle ipotesi, se una superiorità veramente sussiste, ma ad essa non si accompagna una adeguata strategia di posizionamento, l’unica speranza è che il competitor non se ne accorga, altrimenti non avrebbe troppi problemi a farla propria, agli occhi del mercato, grazie alla reputazione ed allo spessore che la sua stessa posizione di preminenza gli conferisce. Chi detiene la leadership della categoria mentale di riferimento ha (gli viene attribuita), per definizione, l’offerta migliore. Siamo di fronte, ancora una volta, ad un tipico problema di immagine e di identità non adeguatamente proiettata e trasferita nei suoi tratti e valori essenziali ai potenziali acquirenti. Deficita, al solito, una appropriata visione strategica dall’alto, con il conseguente effetto distorsivo nel momento in cui l’impresa entra in contatto con l’arena competitiva. L’orientamento dall’interno verso l’esterno, anziché dall’esterno verso l’interno, trascura gli atteggiamenti e le prese di posizione sedimentate, a torto o a ragione, nell’immaginario delle persone, non rendendo possibile, per la strategia, il poggiarsi su quanto esiste già nella loro mente, unico vero riferimento affidabile.

3.2.1 – Strategia difensiva.

L’impresa può venire a trovarsi nella necessità/opportunità di attuare una strategia difensiva in seguito al verificarsi di due ben distinte situazioni. Nel caso in cui abbia per prima identificato un varco potenzialmente accessibile e vi si sia insediata occupando la categoria mentale (ancora in formazione o già costituita) ad esso relativa, essa beneficerà del vantaggio conquistato sui follower derivante dalla propria sagacia e tempestività d’intervento, potendo attuare con successo strategie di natura eminentemente difensiva.

La difesa deve, inoltre, essere la linea guida di quelle imprese che, in forza di una quota di mercato nettamente superiore ai concorrenti, si trovino in una posizione di leadership, nella posizione di sommità della

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categoria mentale di riferimento espressa dai consumatori1. Risulta problematico, infatti, per gli sfidanti scalzare il leader dal gradino più elevato della scala mentale, a causa della resistenza opposta dai soggetti in seguito al processo di sedimentazione che lo ha ivi rinsaldato.

In forza dell’adozione di una strategia difensiva da parte di chi venga a trovarsi in una delle suddette situazioni, si determina una modificazione della probabilità che chi la pone in essere prevalga nel gioco competitivo. La difesa da una posizione consolidata richiede, infatti, un minore impiego di risorse ed energie rispetto a chi tale posizione intende attaccare, il quale dovrà impegnarsi molto per sottrarre terreno2 al concorrente già affermato, dispiegando le proprie forze in modo tale da trovarsi in una situazione di preponderanza nello specifico punto dove si giocano gli esiti del confronto. In altre parole, è molto più semplice riuscire a catturare l’attenzione e a vendere ad un acquirente “libero”, cioè non ancora contattato da altri, che sottrarre clienti a chi detiene il possesso dei loro spazi mentali.

Un ulteriore importante argomento che gioca in favore delle strategie di difesa è dato dalla difficoltà dei challenger di attuare una politica di marketing aggressiva incentrata su un’azione allo stesso tempo massiccia e di sorpresa. I due termini sono in realtà antitetici: se sorpresa deve essere, assai improbabilmente potrà trattarsi di un’operazione in grande stile. La ragione è rintracciabile nell’attrito generato dalla macchina organizzativa, una volta che viene attivata: l’attrito sarà tanto maggiore quanto maggiori sono le dimensioni di quest’ultima. Così, se una piccola impresa (in termini

1 V. VISHWANATH e J. MARK (in Your brand’s best strategy, Harvard Business Review, maggio-giugno 1997, pp. 123-129) rilevano come la profittabilità di una marca dipenda, oltre che dalla quota di mercato detenuta, anche dalla natura della categoria in cui essa si trova a competere. In particolare, è importante verificare se all’interno di tale categoria il ruolo principale è svolto da premium brands o, viceversa, sono presenti principalmente marche di basso profilo che competono soprattutto sulla leva prezzo. Dalla loro indagine, infatti, risulta un notevole sbilanciamento in favore del primo caso per ciò che riguarda la profittabilità delle marche impegnate sui vari mercati.

2 Abbiamo visto (cap. 2.1.2) come gli spazi mentali e la memoria, soprattutto a breve, si caratterizzino per la loro limitatezza e per le difficoltà che i messaggi inviati incontrano nell’insediarvisi superando i diversi ostacoli che si frappongono tra il momento dell’emissione e quello in cui essi vengono interpretati e trattenuti.

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relativi, naturalmente) può cogliere di sorpresa, soprattutto nel breve termine, il leader, difficilmente questo accadrà per uno dei principali competitori, a meno che esso prenda in scarsa considerazione tutti quei segnali di avvertimento che dovrebbero altrimenti metterlo in stato di allerta. Chi si trova in cima alla scala categoriale opererà, solitamente, un attento monitoraggio dei principali concorrenti e non potrà non avvertire i movimenti e l’attrito prodotto dalle loro azioni aggressive.

Inoltre, non solo l’effetto sorpresa è mitigato dal rumore dell’organizzazione che lo mette in atto, ma il fattore tempo gioca anch’esso a favore di chi si trova nella condizione di poter attuare una strategia difensiva. Per organizzare i propri movimenti sul mercato il competitore dovrà prima dispiegare le proprie risorse affinché tutti le funzioni e i ruoli nel piano siano coperti. Anche solo considerando le problematiche connesse alla logistica, il defender può venire a disporre di tutto il tempo necessario per poter allestire una adeguata risposta, riuscendo, oltre a ciò, ad attutire e contrastare i messaggi del concorrente prima che il messaggio sia recepito dal pubblico cui è destinato.

Non saper valutare ed apprezzare i vantaggi di una valida posizione di difesa costituisce, poi, un altro grave errore strategico. Bisogna evitare, trovandoci in una delle situazioni ad essa propizie, di cedere al richiamo di avventate azioni di attacco nei confronti dei rivali che avrebbero solamente il risultato di portarci con le nostre stesse mani fuori da una posizione di favore, facendo noi quello che avrebbero dovuto fare i nostri concorrenti.

Questa osservazione vale anche a rovescio: le imprese che non detengono la maggiore quota di mercato ed una posizione di privilegio nella mente dei potenziali acquirenti dovrebbero guardarsi bene dal seguire una strategia difensiva nel senso più stretto del termine. La leadership non fa riferimento a quanto noi presumiamo di essere e rappresentare, ma va conquista sul campo rispecchiando i reali rapporti di forza. Non è possibile, al di là del consueto ricorso ad iperboli comunicative, indicare falsamente la propria marca come la capofila del mercato senza andare incontro al giudizio rivelatore dei consumatori. Esistono delle posizioni che per l’impresa risultano insostenibili e di ciò occorre prendere atto, incentrando i

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propri sforzi su quanto è effettivamente nelle sue possibilità, soprattutto a livello evocativo.

La difesa, comunque, non può e non deve implicare una staticità strategica nell’attesa di un attacco cui rispondere. La migliore strategia difensiva consiste, all'opposto, non nell’aggredire la concorrenza, ma nel trovare il coraggio di attaccare se stessi. Il leader della categoria concettuale di prodotto dovrebbe, cioè, impegnarsi nell’attaccare continuamente la propria posizione in modo tale da rafforzarla. Ricorrendo, sempre comunque in maniera accorta, a questo tipo particolare di riposizionamento, poniamo di fronte ai competitori un bersaglio in movimento, riducendo la possibilità che essi trovino in noi un riferimento costante e costringendoli, ogni volta, a ridefinire la propria offerta in funzione della nostra nuova proposta. Si tratta, all’atto pratico, di introdurre senza soluzione di continuità, nuovi prodotti e servizi che, cannibalizzando e sostituendo quelli precedenti, riducano lo spazio di manovra dei concorrenti, anticipandone in funzione preventiva le eventuali mosse e provocandone, per quanto è possibile, lo spiazzamento.

La possibilità di bloccare le mosse strategiche degli avversari attraverso una loro emulazione repentina e mirata rappresenta l’ulteriore strada percorribile dall’impresa leader, a condizione di non lasciare che il competitore consolidi la propria immagine e posizione. Dovrebbe, a riguardo, preoccupare maggiormente la possibilità che vengano lasciati a disposizione dei concorrenti degli spazi non immediatamente coperti dalla marca e che potrebbero essere potenzialmente forieri di futuri sviluppi, (anche se tutti ancora da verificare), rispetto all’impegnare risorse finanziarie nella loro pronta chiusura, con la consapevolezza che non tutte daranno i loro frutti. Dal momento che la posta in palio è troppo elevata, si tratta, in sostanza, di considerare il denaro speso nel tentativo di bloccare le iniziative dei competitori alla stregua di un premio assicurativo sul futuro del proprio posizionamento.

Frequentemente, gli attacchi della concorrenza sono portati sul versante del prezzo. Se l’impresa leader non si dimostra sprovveduta, tali tentativi troveranno forti ostacoli nella loro riuscita. Infatti, solitamente, chi detiene la maggiore fetta del mercato dispone di risorse – anche finanziarie

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– superiori a quelle degli altri ed in grado di consentirgli di intraprendere una valida opposizione in caso di una guerra di prezzi. Un punto importante da tenere in considerazione è rappresentato dal mantenere un adeguato livello di riserve di risorse di cui poter celermente disporre all’evenienza1. Questo può fare la differenza, dal momento che l’attaccante di solito immette una quota proporzionalmente maggiore di risorse nello scontro.

La ragione che sta alla base dell’opportunità per l’impresa leader di attaccare se stessa e di bloccare le iniziative dei concorrenti risiede nelle particolari connotazioni del terreno su cui si gioca la competizione. Come abbiamo visto, imprimere qualcosa di nuovo nella mente delle persone è, per gli sfidanti, ancora più complicato che per il leader, dal momento che devono prima riuscire a scalzare chi occupa la posizione target nella categoria di riferimento per poi poterne prendere il posto. Dovendo, inoltre, impegnarsi a lungo in questo proposito e lasciando necessariamente trascorrere del tempo prima che i nuovi concetti vengano metabolizzati, può accadere che la marca attaccata trovi la risposta più opportuna per rispondere entro ragionevoli termini.

A favore del leader di mercato gioca, poi, la natura stessa del concetto di leadership. Essere l’oggetto delle preferenze della maggioranza delle persone costituenti il mercato, suggerisce agli altri, più o meno implicitamente, la sensazione della correttezza delle preferenze stesse. L’immagine trasmessa, quando non è affetta da immobilismo, non fa altro che rafforzare se stessa per il solo fatto di appartenere alla marca cui viene associata la categoria, le caratteristiche della quale finiscono, in questo modo, per muoversi con essa.

Molte volte, tuttavia, succede che, a causa di una sorta di complesso di superiorità, l’impresa leader non appresti simili azioni di bloccaggio delle opzioni strategiche altrui, salvo poi, invariabilmente e ormai troppo tardi, correre ai ripari ponendo rimedio ad una situazione competitiva che risulta compromessa. Anche quando si percepisca la necessità di attaccare le proprie posizioni, possono venire a mancare il coraggio e la forza

1 Non trascurabile è poi la considerazione che una strategia di gestione “ad impulso” delle risorse consente di risparmiare del denaro, impiegandolo in una pluralità di momenti successivi.

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necessari per abbandonare strategie e prodotti che, nel breve termine, non sembrano richiedere particolari correzioni di rotta, mentre sembrano d’altro canto offrire conforto quanto ai risultati ottenuti. Se nel breve periodo attuando questo genere di scelta vengono sacrificati i profitti, l’interesse a farlo è di ordine superiore e consta nella protezione offerta alla quota di mercato della marca.

3.2.2 – Strategia offensiva.

Come abbiamo visto, l’adozione di una strategia competitiva di tipo offensivo non si addice all’impresa leader del mercato. Essa può essere, invece, seguita con successo dai suoi più immediati concorrenti. Ma fino a che punto si possa scendere nella scala categoriale di riferimento e fra i detentori di quote di mercato significative, non è dato stabilire in maniera puntuale e completamente affidabile. Non esistono, cioè, metri sicuri di giudizio, restando l’analisi più delicata affidata alle capacità interpretative di chi è a ciò preposto. Indicativamente, potremmo riconoscere quelli che più verosimilmente hanno la possibilità di attuare questo genere di scelta nei più diretti competitori dell’impresa leader, ovvero la seconda e, eventualmente, terza impresa del mercato.

Molto dipende dalla peculiare struttura del settore sotto osservazione: in alcuni settori potremmo riconoscere, causa la frammentarietà delle quote di mercato, una pluralità di imprese capaci di lanciare offensive con buone probabilità di successo, mentre in altri potremmo non trovarne nemmeno una. Altro fattore molto importante da tenere in considerazione è dato dalla forza e dalle risorse di cui l’impresa dispone. Le guerre di marketing offensive assorbono molte energie umane e materiali, dal momento che andiamo ad affrontare un nemico che parte da una posizione vantaggiosa e che, con tutta probabilità, ha dalla sua ingenti mezzi a disposizione comprensivi di riserve da schierare in caso di necessità. Lo scopo di una strategia offensiva deve essere in primo luogo quello di scalzare chi “detiene” la categoria concettuale per poi andare ad occupare il primo

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gradino nella scala delle preferenze dei potenziali acquirenti1 prendendone il posto. Questo obiettivo prevale su quello, in un certo fittizio, dell’incremento della quota di mercato. La principale preoccupazione di chi adotta una strategia offensiva non deve riguardare quest’ultimo aspetto, ma, piuttosto, la riduzione della quota di mercato dell’impresa leader, senza la quale non si potrà avere un ribaltamento delle rispettive posizioni. Il bersaglio da colpire si trova nella mente delle persone, mentre le armi più efficaci sono quelle legate alla percezione dell’identità di marca ed al suo divenire immagine (quindi, in primo luogo, la comunicazione in tutte le sue espressioni e manifestazioni).

In effetti, la prima e più importante valutazione da fare è quella riguardante le forza di cui dispone l’impresa leader, la quale discende dalla particolare posizione occupata. Questo, prima ancora dell’analisi della propria posizione strategica: non serve a niente sapere che siamo particolarmente competitivi riguardo un certo aspetto dell’offerta, se il leader ha proprio in esso uno dei suoi punti di forza. Se la strategia offensiva è di per sé molto rischiosa e difficile da mettere in pratica, le probabilità di successo aumenteranno in seguito ad una scrupolosa analisi dell’impresa leader. La ricerca di una differenziazione che consenta di emergere deve portarci alla larga dai punti di forza del nostro concorrente obiettivo per concentrarsi sui punti di debolezza.

Il nucleo delle strategie offensive è espresso dalla ricerca di una differenziazione che consenta, non essendo possibile ottenere una superiorità assoluta, di raggiungerne una relativa nel punto decisivo, facendo un buon uso delle risorse a propria disposizione. A livello operativo, affinché la superiorità relativa sia veramente tale, le forze schierate in campo devono essere applicate su un fronte ristretto (il più stretto possibile) dello spazio mentale di riferimento. Quest’indicazione deriva direttamente dalla strategia militare. Attaccando lungo un fronte limitato facciamo leva sul “principio della forza”: concentriamo le nostre forze per ottenere una superiorità numerica localizzata in un punto

1 Abbiamo visto (cap. 2.1.2 e 2.1.3) come le perone siano in grado di riconoscere per ogni categoria solo un numero limitato di componenti che pongono in una scala graduata sulla cui sommità sta l’impresa leader, quella con la quale viene identificata l’intera categoria e che detta pertanto i caratteri da detenere per poterne fare parte.

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decisivo. Conseguentemente, è senz’altro preferibile ed ha superiori possibilità di successo, una pressione esercitata attraverso una sola marca o prodotto, piuttosto che mediante un’intera linea, perché in quel modo avremmo una dispersione di risorse su uno spazio troppo ampio, lasciando al principale concorrente la possibilità di rispondere nel modo a lui più congeniale, con una controffensiva su tutta la linea e l’impiego più consistente, razionale ed omogeneamente schierato delle proprie forze1.

Devono essere ricercati ed attaccati i punti deboli insiti nella posizione del leader, ed in particolar modo quelli collegati alla sua forza, in quanto più difficilmente difendibili senza intaccare gli elementi su cui poggiano le relative associazioni di successo e lo stesso sistema di attività dell’impresa. L’offensiva, in altre parole, ha possibilità di successo tanto maggiori, quanto più vengono sfruttati i potenziali trade-off negativi che sono collegati alla stessa posizione di leadership.

In ogni forza esiste una debolezza. Il problema è trovarla. Una marca che faccia sua la quota di mercato oltre certi limiti fisiologici di gestibilità, sarà più debole e vulnerabile che nel caso di una superiorità meno marcata ed evidente. A volte, inoltre, i problemi per una marca possono essere generati a partire da considerazioni spicciole apparentemente tanto ovvie da risultare, agli occhi dei più, banali.

1 L’azione incentrata su un solo prodotto e su un fronte minimo mira a conquistare velocemente più attenzione possibile aumentando di spessore col suo stesso incedere. Se il fronte attaccato simultaneamente è, però, costituito da un’intera linea di prodotti, il rischio incombente è quello di perdere, con il tempo, tutto il terreno guadagnato e anche molto di più.

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3.2.3 – L’attacco ai fianchi.

La strategia basata su un deciso quanto inatteso attacco laterale è, forse, quella che, presentando in caso di successo i più vistosi risultati, comporta per chi la adotta i rischi più elevati. La decisione di attuarla non può essere presa molto alla leggera dal momento che la posta in palio è altissima, e dovrebbe essere presa in considerazione solamente da chi abbia la piena padronanza degli strumenti e dei principi strategici, ed una adeguata visione – dal dentro e dall’alto – della competizione in atto1.

In particolare, occorre che l’offensiva sia concentrata su una linea o un’area che l’avversario lascia sguarnita o, comunque, con un debole presidio. Per quanto ovvia, questa osservazione deve sempre essere tenuta presente, poiché sarebbe insensato ed autolesionistico lanciare un’offensiva ai fianchi contro un prodotto affermato ed in punti in cui esso è particolarmente forte.

L’attacco laterale, solitamente, consiste nel tentativo di creare e proiettare nella mente dei potenziali acquirenti una nuova categoria concettuale cui fare riferimento. L’elemento di rottura non necessariamente è rappresentato da un nuovo prodotto, dovendo, tuttavia, essere presente nell’offerta un qualche elemento di novità tale da richiedere il suo inserimento in una nuova e diversa categoria.

Possiamo ravvisare nella strategia di attacco ai fianchi le caratteristiche tipiche della segmentazione e della ricerca di una nicchia. Il punto cruciale è, come detto, che il segmento del quale ci accingiamo a prendere possesso non risulti già occupato da altri (altrimenti si tratterebbe di una tradizionale e molto impegnativa strategia offensiva).

1 L’attacco ai fianchi, non esistendo ancora un mercato ben definito per il nuovo prodotto o concetto introdotti, richiede un elevato grado di intuito ed una capacità di previsione molto sviluppata ed articolata, onde evitare di aprire ad altri la strada per lo spazio mentale individuato.

Nel caso ciò non sia, come nel caso non si disponga delle risorse necessarie per portare avanti la strategia fino in fondo con tutte le possibili situazioni che potremmo essere costretti ad affrontare, è senz’altro preferibile non intraprendere alcuna iniziativa, la quale finirebbe solamente per favorire la concorrenza aprendo degli spazi che probabilmente non avrebbe altrimenti scorto.

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L’attacco laterale è, per sua natura, un attacco di sorpresa, a differenza della strategia difensiva e di quella offensiva dove l’attrito prodotto dalle organizzazioni nel mettere in pratica la condotta prefissata conferisce all’azione in essere una certa prevedibilità e una possibilità di risposta con un certo anticipo sugli eventi. L’elemento sorpresa permette, superando le linee della concorrenza, di sfaldarne le posizioni, creando una forza di slancio difficile da contrastare se si è stati veramente colti alla sprovvista e comportando effetti negativi per il morale nell’attesa che ci si riorganizzi.

Il momento più propizio per dare forza alla nuova posizione venuta a determinarsi è quello iniziale, quando il nuovo prodotto o concetto gode ancora del beneficio incontrastato della novità. Una volta che l’azione ai fianchi della concorrenza è stata portata avanti con esito positivo, la successiva condotta deve essere improntata al rafforzamento del successo senza permettere che si distolga l’attenzione dalle determinanti strategiche che lo hanno originato. Il tempismo è fondamentale: il successo deve essere rafforzato da subito, senza aspettare che i competitori si riorganizzino e preparino una controffensiva, in modo tale che le loro mosse giungano sempre in ritardo sulle nostre e sulla costituzione di una solida posizione nel varco venutosi ad aprire.

Perché assuma rilievo e spessore, una strategia offensiva di tipo laterale deve influenzare in modo sostanziale le possibilità di scelta dei potenziali acquirenti. L’effettuazione di troppi test di mercato risulta inoltre deleteria, oltreché ridondante: da una parte, infatti, i concorrenti avrebbero l’occasione di accorgersi, attraverso il rumore inevitabilmente generato dai nostri movimenti, delle nostre intenzioni, potendo correre in tempo ai ripari ed anticipare le nostre azioni; dall’altra, i potenziali clienti non possono sapere, oggi, quello che decideranno di acquistare domani, se le loro scelte stanno per subire un cambiamento radicale.

Esistono attributi che più di altri possono essere alla base di un attacco ai lati alle posizioni dei competitori. Quello che per primo viene solitamente preso in considerazione è il prezzo basso. Perché sia un’opzione praticabile, occorre, ove possibile, ridurre i costi relativi al prodotto preso in considerazione, ed un’attenzione particolare va riposta

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nel farlo in quei punti dell’offerta nei quali il consumatore non ha grandi capacità di discernimento. In effetti, il rischio è quello di evidenziare, attraverso la riduzione di prezzo, una diminuzione della performance, potendo arrecare, in questo modo, un danno effettivo all’immagine di marca. Tale pericolo, naturalmente, è tanto maggiore, quanto più il valore di marca poggia su attributi intangibili e connessi al processo mentale di fascinazione a livello di macrosistema interpretativo. La leva del prezzo opera anche quando esso viene elevato, aggiungendo, il prezzo alto, credibilità al prodotto attraverso la scrematura e la naturale tendenza delle perone ad associare prezzo e qualità. A corollario di una strategia di prezzi alti sta l’ulteriore vantaggio di conseguire margini superiori che possono contribuire, reimpiegati, ad alimentare il circolo virtuoso di rafforzamento della posizione di marca. Anche la distribuzione e l’aspetto differenziato del prodotto1, essendo notevoli vettori comunicativi, sono in grado di offrire un rilevante contributo a possibili attacchi ai fianchi dei concorrenti cogliendoli di sorpresa.

3.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”.

Le imprese che si possono permettere di seguire strategie difensive, offensive o di attacco ai fianchi della concorrenza sono un’esigua minoranza di tutte quelle presenti sull’arena competitiva. Questo a prescindere dalle dimensioni assolute che le caratterizza, contando, invece, quelle relative2 ed i reciproci rapporti instauratisi. Per tutte le altre la migliore strada da intraprendere pare essere quella di un’attività “di guerriglia”, caratterizzata dal mimetismo e dal continuo rovesciarsi dei ruoli nelle azioni tattiche in cui questa strategia va a comporsi3.

1 Ma, in genere, qualsiasi associazione in grado di differenziare la marca e di contribuire alla costruzione o ridefinizione di una categoria concettuale.

2 Imprese che sembrano avere dimensioni minime, quasi irrisorie, per un determinato settore potrebbero essere dei giganti per risorse umane ed economiche a disposizione in un altro: ancora una volta regna sul mercato il principio della relatività.

3 Mao-Tze-Tung sintetizzò perfettamente l’azione di guerriglia ed il logoramento che ne costituisce il cardine in questo modo: «Il nemico avanza, noi ci ritiriamo. Il nemico si accampa, noi lo molestiamo. Il nemico so stanca, noi lo attacchiamo. L

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Una prima fondamentale regola per chi si trovi nella situazione di dover seguire una strategia di guerriglia consiste nel trovare un segmento di mercato sufficientemente piccolo da poter essere difeso con successo. Non importa la natura e l’origine delle piccole dimensioni del segmento, potendo risultare da una segmentazione geografica, in base al prezzo… come da un qualunque altro aspetto che una grande impresa troverebbe difficile o inopportuno attaccare in forze. Il principio che sta alla base della forza delle azioni di guerriglia consiste, invece, nel ridurre le dimensioni dello spazio mentale entro il quale avviene il confronto concorrenziale in modo da ottenere un vantaggio relativo di forze nel punto critico per il nostro fare competizione. La differenza tra un attacco ai fianchi della concorrenza ed un’azione di guerriglia sta nell’obiettivo perseguito: il primo ha come presupposto il diretto e deliberato attacco alla posizione del leader nel tentativo di sorprenderlo e ridurne a proprio vantaggio la quota di mercato e con essa la sua posizione di dominio; la seconda, invece, non mira a disturbare la posizione di un concorrente, ma al mantenimento del proprio spazio vitale.

Questa porzione di mercato andrebbe difesa a qualunque costo, essendo le credenziali derivanti dalla leadership di un segmento, per quanto piccolo esso sia, la migliore garanzia per la sopravvivenza e per il futuro dell’impresa. Una volta che perde il primato dello spazio mentale in precedenza occupato, infatti, la marca inizia una rapida discesa lungo il declivio dell’anonimato ritrovandosi ben presto ai margini della competizione.

Né andrebbe commesso l’errore, opposto, di cercare di trasformare, quantomeno per eccesso di confidenza se non per un vero e proprio peccato di presunzione, una strategia di guerriglia in un attacco ai fianchi con un inevitabile conseguente sacrificio della flessibilità.. Cercare di aumentare la sua quota di mercato avvicinandosi ed andando a recare dei disturbi alla posizione del leader, significa, per l’impresa guerrigliera, dare inizio ad un confronto che, a causa della notevole sproporzione tra le risorse (finanziarie, umane, organizzative) di cui dispongono le due contendenti, appare il più delle volte già segnato. Per attaccare i concorrenti, le imprese

nemico si ritira, noi lo attacchiamo.».- 158 -

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devono uscire da quello spazio concettuale che costituisce il loro peculiare territorio, andando, così, allo scoperto ed esponendosi ai rischi che questa scelta comporta. Le forze di cui dispone un’impresa guerrigliera, soprattutto all’inizio, sono generalmente alquanto limitate rispetto ai maggiori concorrenti presenti sul mercato, presentandosi la necessità di tenerle concentrate nel segmento di cui può disporre. Solitamente, quando quest’ultimo viene abbandonato siamo di fronte ad una scelta di ampliamento di linea, che, come meglio vedremo nel paragrafo 3.4, se in generale costituisce una scelta rischiosa (in quanto un solo nome non può sostenere una pluralità di concetti), diventa quasi certamente una manovra autolesionista nel caso in questione: allargare le sue forze significherebbe, per l’impresa guerrigliera, andare incontro ad un sicuro disastro.

La fisionomia di un’impresa guerrigliera non deve cambiare in seguito agli eventuali successi ottenuti: nel preciso momento in cui pone in essere comportamenti simili a quelli del leader, perde in focalizzazione abbandonando quei principi e quegli orientamenti che hanno consentito la differenziazione e la connotazione originaria di punto di riferimento per un determinato segmento portandola al successo. La forza di un’impresa che segua questo genere di strategia di posizionamento dovrebbe, invece, risiedere nella sua flessibilità e capacità di un pronto adeguamento ed interpretazione della realtà in movimento, e nelle possibilità offerte dalla mimesi.

La strategia di guerriglia impone alle imprese che la seguono di tenersi preparate ad una pronta quanto inattesa ritirata dalla posizione attualmente coperta per andare ad occuparne un’altra nel caso ciò si rendesse necessario od opportuno. Nel momento in cui la competizione sta volgendo a nostro sfavore, non occorre esitare ad abbandonare la nostra posizione, evitando di subire danni maggiori e tenendo in serbo le risorse rimaste per occuparne di nuove. L’agilità dell’organizzazione risulta essere, in questi casi, un fattore decisivo per la riuscita della ritirata strategica. Viceversa, l’impresa deve tenersi pronta, grazie alla propria flessibilità, ad entrare in quei mercati di cui possa intravedere potenziali valide possibilità di sviluppo (magari ricoprendo spazi che le marche superiori hanno abbandonato lasciandoli sguarniti perché, per esse, non più appetibili).

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Una strategia di guerriglia può concretizzarsi nell’adozione di diverse tipologie di tattiche. Una tipica tattica soventemente seguita consiste nell’attaccare a livello locale un prodotto o sevizio diffuso ad un livello geografico superiore grazie al più stretto legame con il territorio. La focalizzazione deve però essere completa, oltreché consapevolmente portata avanti. Tutti gli elementi dell’azione di marketing devono essere convergenti e protesi a valorizzare il peculiare posizionamento prescelto. Il sistema di attività e le associazioni ad esso correlate abbisognano ancora più, rispetto alle altre strategie competitive, del mantenimento di una coerenza con il concetto espresso dalla posizione occupata. A riguardo, molta attenzione va riposta nell’evitare la tentazione di fare della marca locale, per quanto affermata sia, un competitor nazionale o sovranazionale se il radicamento all’area coperta costituisce il suo principale asset strategico. Il rischio, in caso contrario è doppio: la perdita di tale asset, il cui valore andrebbe a diluirsi non rappresentando più un motivo di scelta riconosciuto neppure dal target precedentemente raggiunto, ed il rischio competitivo legato all’affrontare avversari con posizioni consolidate sul loro terreno disponendo, nel contempo, di risorse inferiori ed in ulteriore probabile decadimento.

Altri esempi di strategie di guerriglia consistono nel rivolgersi a uno specifico segmento della popolazione riconosciuto isolando quella particolare categoria attraverso una appropriata segmentazione demografica, oppure nel concentrarsi su piccoli mercati caratterizzati dalla presenza di prodotti del tutto particolari che posizionano gli eventuali concorrenti come evidenti imitazioni ed i cui volumi di vendita non sono mai tanto grandi da stimolare gli appetiti dei grandi marchi generalisti (può essere, questo, il caso della Land Rover per quanto riguarda la categoria dei fuoristrada), o, ancora, nel concentrarsi in uno specifico settore aprendosi un varco stretto e profondo piuttosto che largo e poco profondo1.

Un caso particolare, e assai ricorrente nelle economie caratterizzate da un elevato tenore di vita, è poi quello in cui le azioni di guerriglia vengono portate all’estremità alta del mercato potendo contare sulla ricerca

1 In questo caso, l’estensione da evitare è quella verso altri settori, dal momento che potrebbe accompagnarsi ad una perdita di focalizzazione.

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di prodotti superiori da parte di una porzione considerevole (quanto a peso specifico) di potenziali acquirenti. Spesso potenziali imprese guerrigliere sul terreno della parte alta sono renitenti a mettere entrambi i piedi oltre la soglia che delimita il segmento medio da quello superiore perché ritengono di non avere il prodotto adatto per sostenere un elevato rapporto qualità/prezzo. Altre volte, e questo è ancora peggio, vengono adottate soluzioni intermedie che, in assenza di un pubblico pronto ad accettarle, finiscono nel sommare i lati negativi – e non quelli positivi – delle posizioni più forti. Entrambe le opzioni sembrano trascurare il nesso di causalità che lega l’elevata qualità e l’elevato prezzo all’immagine e questa alla domanda: i primi elementi generano il secondo che, a sua volta crea il terzo. Sono i prezzi alti, inscindibilmente correlati ad una pari qualità, a conferire alla marca la visibilità perché possa iniziare a raccontare al potenziale acquirente, seducendolo, il particolare mondo di riferimento di cui essa costituisce, ponendosi come tale, l’accesso. Poi, una volta entrato in codesta nuova prospettiva, viene il momento in cui il consumatore riconosce al prodotto o servizio una qualità degli attributi costitutivi tale da giustificare il prezzo superiore, ed anzi finisce egli stesso per ritenere tutto questo necessario e desiderabile. Il fattore tempestività è, ancora una volta, determinante: occorre essere i primi a creare questo tipo di associazioni occupando lo spazio mentale relativo all’estremità alta della categoria concettuale di riferimento. Certamente, questo tipo di strategia è piuttosto rischioso, ma, proprio per questo, perché non vada sprecato il coraggio necessario ad intraprenderla, una volta che il dado sia tratto, occorre dare un seguito deciso e perseverante alla strada imboccata.

Una scelta intelligente per ovviare ad una carenza riguardo alle risorse ed alle possibilità e limiti connessi al principio della forza, è costituita dal ricorso ad alleanze strategiche1, mediante le quali le imprese operanti in un settore cercano nell’aggregazione quello che altrimenti da sole non potrebbero mai conseguire. Basilare è, per potere dar vita ad un’alleanza che non sia un’accozzaglia immotivata di entità economiche,

1 Un caso tipico è quello relativo ad imprese che praticano una strategia di guerriglia di tipo geografico, con la coalizione di numerosi operatori a livello locale, per opporre una più forte resistenza ai competitori più potenti.

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l’individuazione di chi sia la concorrenza, ossia il comune avversario che si intende contrastare.

3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione

3.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca.

Le strategie di posizionamento devono tenere conto non solo degli spazi mentali occupati dall’impresa e dai suoi concorrenti, ma anche del momento evolutivo-temporale nel quale è inserita la marca. Differenti attività di marketing vanno poste in essere secondo la particolare fase del ciclo di vita attraversata dalla marca.

1) Sviluppo e lancio di nuove marche. La questione più importante che attiene al lancio di una nuova marca è rappresentata dall’edificazione di un’immagine coerente con il tipo di posizionamento cui essa viene destinata. Generalmente, infatti, la marca giunge sul mercato ancora spoglia di una propria personalità definita e distinta sulla cui base incentrare la differenziazione. Anche nel caso si tratti di un’estensione di linea e si possa riparare sotto l’ombrello percettivo della marca di origine, la nuova marca deve lottare per affermare l’unicità della propria personalità, pena la dissoluzione del valore di cui si fa portatrice. Poter contare su vantaggi relativi alla funzionalità, piuttosto che su elementi di differenziazione meno apprezzabili direttamente, consente di avere una più solida base di partenza sulla quale poi edificare, attraverso un’idonea rete di attività, il sistema di associazioni ideale per la particolare posizione occupata. Ciò non toglie che le particolari connotazioni dell’immagine di marca, così come viene percepita dal target di riferimento, costituiscano, poggiando su affidabili e riconosciuti attributi funzionali, il punto che più rileva ai fini del conseguimento di una posizione stabile e focalizzata da parte della marca.

Gli attributi che maggiormente contribuiscono al conferimento di una sostenibilità nel tempo della posizione strategica ricoperta dalla marca sono, quindi, quelli che ineriscono l’immagine percepita dai potenziali

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acquirenti, potendo essa costituire la caratterizzazione ed il vantaggio meno erodibile dall’imitazione. Una posizione che si basi essenzialmente su elementi funzionali presenta delle evidenti debolezze che ne lasciano intuire il prossimo decadimento. Analogamente, il concentrarsi sul prezzo espone l’impresa ad attacchi che, se portati da concorrenti che dispongono di ingenti e superiori risorse, possono impegnarla in una guerra al ribasso in grado di condurla fuori dal mercato.

Se il lancio di nuove marche, come abbiamo visto per il caso di una strategia di attacco laterale, comporta rischi molto elevati, spingendo le imprese ad intraprendere lunghe ricerche volte a diminuire la probabilità di incorrere in un costoso insuccesso, occorre constatare come spesso si perda del tempo prezioso in questo genere di attività, rischiando di lasciarci sfuggire importanti occasioni di sviluppo per carenza di tempestività, o, ancora peggio, fornendo ai rivali preziosi segnali circa nuove possibili strade percorribili.

La possibilità di incorrere in un fallimento lanciando sul mercato una nuova marca deve essere temuta ed attentamente valutata, ma non può costituire un capro espiatorio per giustificare la mancata adozione di una strategia potenzialmente valida, occorrendo cercare, semmai, di apprendere dagli errori di valutazione commessi1.

2) La fase di crescita. Una volta lanciata sul mercato, l’immagine della marca deve essere sviluppata tenendo conto della particolare personalità di cui essa è espressione. La personalità di marca può essere meglio intesa identificando il particolare processo di personificazione attraverso cui si giunge alla determinazione del suo carattere e del significato che essa assume per i potenziali interlocutori. Già al momento del lancio, tuttavia, deve esserci la piena consapevolezza della peculiare configurazione con cui la marca soddisferà le dimensioni funzionale, simbolica ed esperenziale dei bisogni dei potenziali acquirenti.

Una volta che il cammino della marca ha preso slancio e le vendite aumentano, bisogna porre come priorità la difesa della marca dai

1 I vantaggi dell’uscire con successo dal lancio di una nuova marca, e, in particolare, quelli correlati al rappresentare il pioneer di una categoria di prodotto (il più considerevole dei quali è quello per cui il nome della marca diviene talmente generico da essere utilizzato per indicare l’intera categoria), verrà analizzato nel paragrafo 3.3.2..

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competitori posti in posizioni di taglio inferiore. La dimensione funzionale deve essere rafforzata assieme al carattere che, caso per caso, più incide nella qualifica di problem solving, ma sono soprattutto le altre dimensioni, adesso, ad offrire il maggior potenziale di sviluppo e rafforzamento della marca. Occorre porre una particolare attenzione a mantenere la coerenza tra l’immagine percepita ed il nucleo originale di significati dell’identità di marca, intervenendo soprattutto per fortificare il sistema di associazioni generato. Un particolare accorgimento consiste nel comunicare il posizionamento della marca al segmento target ed al non-target, lavorando nel contempo selettivamente con la distribuzione in maniera tale da renderne difficoltoso l’accesso per quest’ultimo, sostenendo, in tal modo, l’immagine percepita.

3) La fase di maturità. Quando il ciclo di vita della marca raggiunge la sua fase di maturità, la pressione esercitata su di essa dalla concorrenza si fa particolarmente forte. Numerosi competitori saranno presenti sul mercato e ciascuno di essi cercherà di guadagnare quote di mercato ai danni dei propri rivali, avversando con i mezzi a loro disposizione la fedeltà alla marca leader.

Un’opzione assai frequentemente seguita è quella dell’ampliamento di marca che, però, come vedremo nel paragrafo 3.4, sfruttando un’unica immagine per esprimere diversi significati, deve essere intrapresa seguendo un’estrema cautela in ordine di evitare una perdita di focus nella posizione della marca di partenza in quanto ciò potrebbe avere conseguenze disastrose per la capacità competitiva dell’impresa.

4) La fase di declino. Una volta iniziata la fase di declino, bisogna valutare molto attentamente quale sia la strategia più opportuna tra le due che, tipicamente, si presentano come quelle più proficuamente praticabili.

È possibile “riciclare” la marca trovando nuovi usi per essa, sia attraverso la dimensione funzionale, sia sviluppando quella simbolica od esperenziale. Il riposizionamento, che peraltro può essere intrapreso a qualunque stadio del ciclo di vita, assume qui una rilevanza ancora superiore essendo i suoi esiti determinanti per le sorti della marca.

Nel caso si convenga che non ci sia ulteriore spazio di utilizzo delle suddette dimensioni occorrerà impegnarsi nel governare la marca nella fase

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di declino eventualmente procedendo alla sua soppressione, nel qual caso, specialmente se essa è collegata ad altre marche ancora sviluppabili, bisogna cercare di minimizzare l’effetto scomparsa rendendola più morbida possibile.

Secondo il particolare stadio del ciclo di vita in cui si trova la marca, esistono diverse implicazioni finanziarie, come appare nella matrice 3.3, che finiscono per coinvolgere la profittabilità di medio-lungo termine e delle quali, perciò, l’impresa deve tenere conto. Se nei primi stadi la marca necessita di un ingente supporto, nella fase di maturità dovrebbe generare denaro.

Nella prima fase (quadrante A), l’attività promozionale a sostegno del lancio della marca necessiterà dell’apporto di notevoli risorse finanziarie, cui non si accompagnano considerevoli guadagni in termini di quota di mercato, al fine di superare gli ostacoli frapposti dagli anelli di difesa percettivi dei potenziali acquirenti, dalla concorrenza e degli

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Quota di mercato

CFlusso di cassa netto

positivo nel lungo termine

BZero net cash flow

DFlusso di cassa netto molto positivo nel

breve termine

AFlusso di cassa netto

negativo

Investimento sulla marca

Alta

Bassa

Basso Alto

Figura 3.3 – Management finanziario della marca

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operatori a valle con i quali l’impresa dovrà costruire o rinsaldare i rapporti veicolandoli nella direzione desiderata. L’impresa deve resistere alla tentazione di recuperare parte degli ingenti investimenti in R&S attraverso risparmi nell’attività promozionale, essendo quello il punto nel quale si gioca il futuro della marca.

Al crescere dell’accettazione del mercato e dell’efficienza della distribuzione, aumenterà anche la quota di mercato: l’impresa verrà a trovarsi nella posizione delineata dal quadrante B, nel quale gli investimenti iniziali cominciano ad essere recuperati. Questa situazione di transito (verso il quadrante C od il quadrante D) segna il passaggio dalla fase di sviluppo iniziale della marca a quella del suo successivo mantenimento.

In D succede che i decisori, ossessionati dal profitto di breve termine, taglino drasticamente gli investimenti in sviluppo e promozione, ottenendo elevati flussi di cassa nell’immediato, ma compromettendo la posizione della marca che, esaurita la spinta precedentemente acquisita, intraprenderà ben presto con elevate probabilità una rapida discesa.

Benefici di lungo termine possono essere conseguiti mantenendo un adeguato supporto di marketing di modo che la marca – affrontando un mercato la cui crescita rallenta e nel quale la concorrenza, dato il livello di saturazione, si fa sempre più agguerrita – resti in ogni caso collocata nel quadrante C. Attraverso lo sfruttamento delle economie di scala e gli effetti della curva di esperienza, la marca dovrebbe comunque rimanere in buona salute. Nonostante il sostegno, può accadere che l’impresa, sentendo affievolito il supporto del mercato diventato meno attrattivo mentre la concorrenza si fa pressante ed i consumatori perdono interesse, diminuisca il livello di risorse dedicate al perseguimento della posizione strategica con il conseguente decremento della quota di mercato e, almeno per un breve periodo di tempo, lo scivolamento nel quadrante D. Spesso, è quindi l’insufficiente alimentazione della marca a determinare la perdita della posizione ricoperta in favore della concorrenza.

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3.3.2 – L’entrata nel mercato.

Il momento in cui la marca fa il suo ingresso nell’arena competitiva è quello che forse maggiormente contribuirà a determinarne le sorti. Nessuno costringe un’impresa ad entrare in un mercato, ma, nel momento in cui essa intraprende questa scelta, deve essere forte di una strategia di posizionamento adeguata al confronto con le caratteristiche e le esigenze dei potenziali acquirenti e con ciò che richiede la lotta con la concorrenza per la conquista degli spazi mentali.

Le configurazioni che la posizione può assumere in seguito all’ingresso nel mercato, a parità di circostanze, sono generalmente diverse secondo che l’impresa si presenti come pioneer o come follower.

Ordine di ingresso in un mercato e quota di mercato vengono spesso messi in una relazione di ordine causale: il first-mover avrebbe quote di mercato più elevate rispetto ai suoi più vicini follower, i quali, a loro volta, goderebbero di un vantaggio verso gli ulteriori successivi entranti. Tuttavia, se essere il first-mover offre un’opportunità indiscutibile di sfruttamento dei vantaggi relativi all’ordine d’entrata, qualora si mantenga, attraverso la fusione, un’adeguata visione degli eventi in atto, i fattori coinvolti nel conseguimento di tali vantaggi sono considerevolmente più complessi del semplice ordine di entrata. Allo steso modo, una partenza da capofila del mercato di riferimento non è di per sé sufficiente per produrre sostenibili vantaggi di differenziazione e di costo sui rivali in grado di generare una dominante e duratura quota di mercato.

L’impresa può raggiungere lo status di first-mover in differenti modi. Ad esempio, può essere la prima ad offrire un nuovo prodotto, usare un nuovo processo od entrare in un nuovo mercato. In ognuna di queste situazioni, che paiono intersecarsi vicendevolmente, l’iniziativa viene presa in seguito all’individuazione di un créneau ritenuto praticabile, sulla cui base viene poi sviluppata una coerente strategia di approccio.

Nel delineare caratteristiche e natura dei vantaggi che spettano al first-mover è possibile, ed anzi conveniente, fare riferimento a due ordini di prospettive: quella economica-analitica e quella comportamentale.

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La teoria economica e le analisi ad essa associate usano un approccio basato sui concetti di barriere all’entrata per spiegare questo genere di vantaggio. La barriera all’entrata, consistente in costi che il potenziale entrante, a differenza del competitore già insediato sul mercato, deve sopportare, implica l’impiego di risorse addizionali per competere efficacemente nel mercato. Tra le possibili barriere all’entrata riconosciamo quelle originate da economie di scala, effetti di esperienza, asimmetria informativa, differenze tra il primo e l’ultimo entrante negli effetti marginali della pubblicità. Inoltre, l’imitabilità può risentire di una relativa incertezza riguardo alla comprensione ambigua o addirittura errata delle ragioni specifiche del successo della marca pioneer.

Come evidenzia Von Hippel, i vantaggi conferiti grazie alla precedenza temporale acquisita favoriscono l’impresa leader in due modi, sostanzialmente1. Durante il periodo in cui non c’è competizione, il first-mover è, per definizione, un monopolista, e può utilizzare questa posizione per guadagnare profitti più alti di quanto sarebbe possibile in un mercato competitivo e/o incrementare la dimensione complessiva del mercato stesso. In seguito all’entrata dei competitori, il first-mover, avendo stabilito una posizione di mercato ed economie da apprendimento, ha la possibilità di mantenere una quota di mercato dominante e margini superiori rispetto agli imitatori.

La prospettiva economica, che pure offre tanti spunti per cogliere l’essenza del vantaggio che la marca pioneer consegue, deve comunque essere contestualizzata: le diverse contingenze di mercato hanno, cioè, un’influenza in senso moderatore delle varie forme con cui si esprime tale vantaggio.

Altri sono gli aspetti posti in rilievo dalla prospettiva comportamentale. La visibilità e la reputazione garantite da un’immagine consolidata fanno sì che il first-mover trovi una minore resistenza da parte dei potenziali acquirenti, il rischio percepito dai quali tende ad essere

1 E. VON HIPPEL, Appropriability of innovation benefit as a predictor of the functional locus of innovation, Working Paper # 1084-79, Massachusetts Institute of Technology, 1984 (citato in: R. A. KERIN, P. RAJAN VARADARAJAN, R. A. PETERSON, First mover advantage: a synthesis, conceptual framework, and research propositions, Jorunal of Marketing, ottobre 1992, p. 34).

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minore nei riguardi della marca conosciuta. Inoltre, qualora gli entranti introducano nel mercato nuovi concetti attraverso la marca, il leader ha la possibilità, riproponendo quegli stessi concetti sotto le proprie insegne, di intraprendere una tipica azione di copertura che, se ben portata, gli consente di appropriarsene ai danni dell’innovatore. Questa “ingenerosità” del mercato discende direttamente dal processo di sedimentazione delle percezioni e dalla familiarità che il reiterarsi del contatto appagante e stimolante con la marca induce.

Un importante ruolo nello sviluppare un vantaggio di origine comportamentale è svolto dall’apprendimento nella formazione delle conoscenze e delle preferenze di marca da parte del consumatore1. Quando il potenziale acquirente conosce poco circa l’importanza degli attributi del prodotto e la loro combinazione ideale, il first-mover può riuscire ad influenzare con successo il modo in cui gli attributi sono valutati, definendo esso stesso la loro combinazione ideale. La naturale posizione di leadership che viene solitamente attribuita all’impresa pioneer, le offre l’opportunità di costruire a suo vantaggio la struttura delle percezioni del mercato. La marca viene così ad assumere un nome generico che conferisce, grazie al seguito originato, all’intera categoria di riferimento. Quando la marca è in grado di divenire talmente generica da improntare di sé l’intera categoria di prodotto, essa assurge alla dimensione di prototipo sulla cui base avviene la valutazione di tutti i soggetti partecipanti alla competizione, ben poco potendo fare i nuovi entranti per rimuovere questa percezione se non rapportarsi ad essa in maniera congrua con la struttura percettiva venutasi a determinare o tentare un riposizionamento dell’avversario2.

1 Il consumo, infatti, è, primariamente, un’esperienza di apprendimento.2 Attraverso il riposizionamento dell’avversario l’impresa persegue un vantaggio

competitivo non rispondendo alle esigenze dei potenziali acquirenti, ma cercando di influenzarne le preferenze in proprio favore. Solitamente si mira a demolire i punti sui quali poggia l’immagine del concorrente diretto (spesso, dove la legislazione lo consente, si ricorre ad aggressive campagne di pubblicità comparativa ai limiti, a volte, della denigrazione).

Il riposizionamento si propone di diminuire l’impatto della distintività della marca leader, sviluppando e stabilendo per essa una posizione più desiderabile dal punto

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Naturalmente, questa concezione del vantaggio che spetta al first-mover deve fare i conti con quanto avviene nella realtà. Non sempre tale vantaggio viene adeguatamente sfruttato e sviluppato, restando gli attributi ideali della marca dei valori vacanti il cui appannaggio conferirà il conseguente giovamento a chi saprà individuare il giusto créneau meglio e prima degli altri. Né bisogna credere che i rapporti di forza instauratisi con il conseguimento di una posizione di scopritore (potremmo dire, anzi – a seguito ed in considerazione delle associazioni tra categoria e marca sopra discusse – di creatore) della categoria stabiliscano delle atteggiamenti e dei rapporti di forza inalterabili, ben potendo accadere che, per un proprio errore strategico o per l’opera di riposizionamento o di spiazzamento posta in essere da un concorrente, l’impresa leader presti il fianco ad un attacco mirante ad occuparne la posizione. Nel momento in cui l’impresa first-mover non sceglie od esce dalla “corretta” posizione, si porrà in una condizione di svantaggio relativamente agli entranti successivi, i quali, grazie a quanto appreso dallo scorretto posizionamento del pioneer circa le preferenze dei consumatori, potranno meglio posizionare le proprie marche.

Perciò, sebbene il first-mover possa avvantaggiarsi della relazione di causalità diretta che intercorre tra ordine di entrata e quota di mercato, per i follower esistono le possibilità offerte dal posizionamento e da una forte comunicazione dei concetti che esprime la propria marca1, anch’essi fattori che si correlano positivamente all’acquisizione della quota di mercato.

Le possibilità di inserimento in un mercato come pioneer, si possono presentare per un’impresa in seguito a mutamenti ambientali (ad esempio relativamente alla tecnologia o alle esigenze dei consumatori). Tuttavia, sebbene i cambiamenti ambientali costituiscano un’opportunità per svilupparsi in una posizione di first-mover, la fruibilità dei vantaggi ad essa connessi dipende dal grado di concordanza tra quanto è necessario in termini di competenze e di risorse per capitalizzare le opportunità

di vista del concorrente che lo attua.1 Cui si affianca, solitamente, la scelta di un prezzo elevato, segnale di un attacco

dal segmento alto.- 170 -

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ambientali e per sfruttare, traendone il massimo profitto, il meccanismo di incremento del vantaggio del first-mover e quanto è effettivamente a disposizione dell’impresa. In definitiva, l’impatto ultimo dell’essere l’impresa pioneer dipende dall’abilità dell’impresa, dalle posizioni, dai competitori e dai mutamenti ambientali.

Andando oltre fuorvianti asserzioni circa un’improbabile relazione di natura deterministica tra l’ordine di entrata nel mercato ed il vantaggio che spetta al first-mover, occorre analizzare, facendo riferimento alla figura 3.41, quali siano, invece, i fattori che più contribuiscono a crearlo.

La sostenibilità del vantaggio posizionale relativo alla condizione di marca pioneer dipende da tre requisiti:

1. Anche in seguito all’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, i consumatori devono continuare a percepire la presenza di consistenti differenze relativamente ad attributi importanti del prodotto o servizio offerti dal first-mover rispetto a quelli presentati dai successivi entranti. La marca pioneer deve, quindi, concentrare su di sé l’attenzione dei potenziali acquirenti, consolidando la propria base di fedeltà. La dimensione complessiva del first-mover advantage discende dall’effetto netto prodotto dai rispettivi aspetti positivi e negativi della differenziazione in termini dei criteri chiave di acquisto.

2. La positiva differenziazione della marca pioneer in termini dei criteri chiave di acquisto deve porsi come l’immediata conseguenza delle barriere all’entrata poste nei confronti dei potenziali concorrenti2. La sostenibilità del vantaggio competitivo dipende in larga misura dalla creazione delle condizioni per l’inimitabilità della posizione strategica e degli attributi da essa espressi e che il potenziale cliente ritiene importanti e riscontra nella marca.

1 Fonte: R. A. KERIN, P. RAJAN VARADARAJAN, R. A. PETERSON, op. cit., 1992, p. 39.

2 Torna ad essere al centro dell’attenzione il concetto di trade-off così come rimarcato nel capitolo 3.1.2.

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Attrattività opportunità ambientali

First-mover

- Competenze distintive- Risorse

First-mover

- Competenze distintive- Risorse

Strategia competitiva

Vantaggio competitivo

First-Mover Positional Advantage

CostoDifferen-ziazione

Fattori economici

Fattori di prevenzione

Fattori tecnologici

Fattori comportamentali

Last Entrant Advantage

Incertezza della domandaScala di entrataEfficient scale-to-market sizeIntensità pubblicità

Tempo di risposta

Economie di scopo

Moderatori Moderatori Moderatori

Caratteri-stiche dell’inno-vazione tecnologi-caMutamento tecnologi-co e disconti-nuità

Investimen-to preventivo

Evoluzione del mercato

Natura del prodottoTipo di mercato

Evoluzione del mercatoAsset correlati

Costi di imitazioneEffetti del free-riderEconomie di scopoApprendimento dagli errori del pioneer

Dimensione complessiva del First-Mover Advantage

Performance della quota di mercato

Performance della profittabilitàAssoluta

RelativaReturn on assetsReturn on sales

Moderatori

Figura 3.4 – First-Mover Advantage: una struttura concettuale

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3. La posizione strategica in termini di differenziazione derivante dall’essere i primi ad entrare in una categoria viene minata alla base nel preciso momento in cui gli importanti attributi su cui essa poggia non vengono più visti come criteri di acquisto e di scelta significativi da parte dei consumatori perdendo, gradualmente o repentinamente, importanza. Il conseguimento di una consona e profonda fusione pare essere, una volta di più, il principale obiettivo da perseguire con pazienza, sensibilità e perseveranza, poiché si conferma come l’unico a consentire un elevato livello di aderenza tra impresa e mercato.

I fattori sottostanti ai vantaggi di costo o di differenziazione possono essere raggruppati in quattro categorie: a) fattori economici, b) fattori preventivi, c) fattori tecnologici e d) fattori comportamentali. Il grado in cui l’impresa first-mover riesce a sfruttare le potenzialità competitive offerte da questi fattori risente, tuttavia, del verificarsi o meno di talune circostanze che producono effetti moderatori del vantaggio competitivo.

A) FATTORI ECONOMICI

I fattori economici, relativi in gran parte ai vantaggi di costo, si esprimono, essenzialmente, sotto forma di economie di scala e di esperienza. Attraverso investimenti preventivi in capacità l’impresa first-mover può conseguire vantaggi di lungo termine sui successivi entranti, da sfruttare nel momento in cui essi si espongono ad onerosi investimenti per raggiungere costi comparabili. Se lo sfidante avverte la sconvenienza della grande scala, cercherà allora di penetrare, con una piccola scala, in una nicchia del mercato inadeguatamente coperta dall’impresa pioneer.

Esistono, comunque, molti elementi moderatori dei vantaggi conseguibili attraverso i fattori di natura economica. Gli investimenti in capacità possono essere difficilmente calibrati in presenza di incertezza riguardo alla domanda futura ed alla scala ideale: a parità di altre condizioni, esiste una relazione inversa tra l’incertezza della domanda ed i vantaggi di costo relativi alle economie di scala conseguibili.

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La “minima scala efficiente”, il più piccolo volume per cui i costi unitari sono ad un minimo, se piccola rispetto alle dimensioni del mercato, non costituisce una significativa barriera all’entrata. Perciò, più è piccolo il rapporto tra minima scala efficiente e grandezza del mercato, minore sarà il vantaggio di costo per l’impresa pioneer.

È da rilevare, inoltre, come esista un’asimmetria nei costi connessi alla comunicazione. In seguito ai successivi ingressi nella categoria concettuale, i nuovi competitori devono impegnare ingenti risorse creative e finanziarie nella generazione e reiterazione dei messaggi pubblicitari. Infatti, con il moltiplicarsi dei messaggi, aumenta il livello di rumorosità con cui ha a che fare il potenziale acquirente, diminuendo, di conseguenza, il valore e la portata di ciascun messaggio. Mentre il first-mover avrà, generalmente, già tracciata l’opzione – di consolidamento della propria posizione e della base di consumatori che la costituisce – da seguire, i follower dovranno sovrastare la rumorosità catturando l’attenzione dei consumatori attraverso messaggi creativi e altamente ripetuti, in modo da sottrarli al leader. A seguito di queste considerazioni abbiamo che la possibilità per il first-mover di conseguire un vantaggio di costo dovuto ad asimmetrie nei costi di marketing è minore in mercati a bassa intensità di pubblicità che in mercati dove tale intensità è più elevata.

Una notevole importanza è ricoperta, poi, dal tempo di risposta: maggiore è il tempo che trascorre dall’entrata del first mover prima che un follower si ponga in competizione con esso, maggiori sono le probabilità per il primo di raggiungere elevati vantaggi di costo e differenziazione. Un più lungo tempo di risposta permette all’impresa pioneer di consolidare la propria posizione nella mente del target di riferimento attraverso la prolungata esposizione che conduce ad una maggiore possibilità di ritenzione nella memoria delle persone. Nondimeno l’allungarsi dei tempi di risposta incrementa il gap di esperienza cumulata e l’investimento di marketing che lo sfidante deve intraprendere per poter sottrarre clienti all’impresa first-mover, andando ulteriormente in suo favore. Naturalmente queste considerazioni producono effetti moderatori del vantaggio posizionale nel caso in cui i tempi di risposta sono brevi.

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L’ultimo elemento moderatore considerato, quello costituito dalle economie di scopo, assume rilevanza soprattutto nel caso di imprese multibusiness: i vantaggi conseguibili in forza delle economie di scopo dipendono dalla presenza, nell’impresa first-mover e nelle successive entranti, di una struttura multibusiness, e saranno positivamente correlati al grado di interrelazione tra i diversi business gestiti.

B) FATTORI PREVENTIVI

Diversamente dai fattori economici, quelli preventivi forniscono una base per il conseguimento sia di vantaggi di costo rispetto ai successivi entranti (ad esempio stipulando contratti che assicurano la fornitura di materie prime a costi inferiori), sia di vantaggi di differenziazione (per esempio, preventiva occupazione di spazi percettivi, geografici o canali di marketing).

L’asimmetria di costo relativa agli input può essere imputata ad una superiore informazione del first-mover, il quale può acquisirli o può concludere contratti, in modo da garantirsi vantaggi di costo sui futuri entranti.

Attraverso la selezione delle nicchie più promettenti in termini di segmenti di mercato o, comunque, di spazio percettivo o geografico, l’impresa pioneer può, inoltre, conquistare un significativo vantaggio di differenziazione. La prevenzione spaziale riduce i margini di manovra dei nuovi entranti, i quali, collocati su posizioni poco attrattive e apportatrici di minori quote di mercato, si trovano a dover operare su spazi ristretti ed in condizione di inferiorità di forze, subendo, così, l’efficacia delle manovre difensive attuate dal leader.

Anche i fattori preventivi incontrano degli elementi che ne vanno ad attenuare l’impatto sul mercato. All’aumentare dell’incertezza circa la domanda futura, diminuiscono i vantaggi conseguibili mediante investimenti preventivi. La rilevanza del vantaggio di differenziazione è, inoltre, direttamente correlata alla complessità tecnica e concettuale dei

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prodotti1 e all’esistenza ed alla novità della categoria creata con l’entrata del prodotto nel mercato.

C) FATTORI TECNOLOGICI

I fattori tecnologici di cui può beneficiare il first-mover sono riconducibili alle innovazioni di prodotto e di processo ed alle innovazioni organizzative. Le prime contribuiscono al miglioramento della performance applicativa o concettuale del prodotto generando vantaggi di differenziazione cui si può accompagnare, eventualmente, la determinazione di un potenziale gap di costo nei confronti degli entranti successivi. Questo meccanismo può essere alla base della sostenibilità del vantaggio competitivo attraverso il rafforzamento della dipendenza intertemporale della domanda (che tende a percepire la nostra identità come quella della marca di riferimento) e della dipendenza intertemporale dei costi (risultante dagli effetti della curva di esperienza che rimane di spettanza dell’impresa pioneer). La continuità del mutamento tecnologico va a rafforzare, inoltre, il vantaggio di cui gode a riguardo il first-mover.

L’innovazione organizzativa, assieme alla gestione delle risorse umane, può determinare un vantaggio competitivo di imperfetta imitabilità attraverso una maggiore produttività ed un approccio creativo alla strategia di marketing.

Gli elementi moderatori dei fattori tecnologici sono riconducibili alle diverse caratteristiche che può assumere il cambiamento. La natura della tecnologia sottostante il cambiamento risulta essere, in proposito, determinante: le innovazioni di processo conferiscono vantaggi, sia di costo che di differenziazione, generalmente più duraturi rispetto a quelle di prodotto, così come la fonte di conoscenza sottostante tacita è meno imitabile di quella codificata. I sistemi di protezione legale

1 Anche l’ingombro costituito dagli stock accumulati dai membri del canale distributivo e la profondità ed ampiezza della linea di prodotto possono, determinandone la riluttanza a modificare le proprie attività, rappresentare, almeno in prima battuta, un ostacolo per l’affermazione dei successivi entranti.

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dell’innovazione sono meno efficaci all’aumentare del tasso di cambiamento con cui essa si manifesta.

L’elevato tasso di mutamento tecnologico ed il livello di discontinuità che possono venirsi a determinare mediante l’azione dei nuovi entranti contribuiscono a sovvertire i rapporti di forza in campo neutralizzando i vantaggi del first-mover relativi all’esperienza, il quale rischia di vedere d’un tratto dissiparsi il valore dell’apprendimento cumulato. Ne risulta una relazione inversa tra il tasso di cambiamento tecnologico ed il vantaggio di costo dell’impresa pioneer basato sull’esperienza. Per ragioni analoghe, la sostenibilità dei vantaggi di costo e di differenziazione è maggiore in presenza di una continuità tecnologica piuttosto che al verificarsi di discontinuità, per loro natura meno prevedibili e gestibili.

D) FATTORI COMPORTAMENTALI

Questa classe di elementi determina la possibilità di conseguire vantaggi di differenziazione. I costi di cambiamento, occorrenti nel momento in cui, nell’ambito di una relazione, si passa dalla scelta di una marca first-mover a quella di un nuovo offerente, siano essi sia di natura contrattuale che extracontrattuale, comportano l’impegno di maggiori risorse da parte dell’entrante nel tentativo di sottrarre, attirandola a sé, parte della quota di mercato di cui dispone il leader. Lo scoglio più difficile da superare da parte dell’entrante e, viceversa, la maggiore garanzia circa la sostenibilità del vantaggio competitivo per la marca pioneer, è rappresentato dalla “prototipicità” e dal vantaggio reputazionale ad essa inerenti. La marca first-mover ha la possibilità di incrementare la percezione di importanza e desiderabilità degli attributi che la caratterizzano, generando una struttura di associazioni in grado di rappresentare un prototipo ideale che fungerà da riferimento nelle valutazioni che il consumatore sarà chiamato a considerare successivamente all’ingresso nel mercato di nuove e diverse offerte. Attraverso i suoi sforzi, soprattutto comunicativi, il first-mover ha

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l’opportunità di influenzare con successo la percezione dei potenziali acquirenti stabilendo a suo vantaggio la struttura concettuale di riferimento per il mercato e diventando lo standard comparativo (marca prototipo) con il quale si dovranno misurare i nuovi competitori. Come abbiamo notato in precedenza, la possibilità di costruire, attraverso le esperienze e le credenze, una reputazione che sia alla base di un vantaggio duraturo di differenziazione in termini di immagine percepita, è tanto più rilevante, quanto maggiore è il periodo di tempo nel quale non esistono valide alternative di scelta.

Il gap temporale con cui le diverse marche entrano nell’arena competitiva è la causa dell’asimmetria informativa e circa l’esperienza di consumo intercorrenti tra il first-mover e gli altri competitori. Da un lato, infatti, essendo rimasti esposti per un tempo maggiore ai messaggi del leader di categoria ed avendo acquisito una più elevata quantità di informazioni relative al momento dell’utilizzo, i consumatori hanno una superiore familiarità con esso piuttosto che con i successivi entranti. Quando i potenziali acquirenti non ricevono un adeguato livello di informazione riguardo ai nuovi concorrenti, o quando esse non sono in linea con le attese in parte derivanti dal modello di riferimento, allora propenderanno per il mantenimento di una certa fedeltà nei confronti della marca first-mover.

I numerosi e rilevanti vantaggi di differenziazione offerti dai fattori comportamentali possono essere parzialmente mitigati da alcuni elementi moderatori. Dal momento che il rischio percepito dal consumatore, e, quindi, l’importanza attribuita alla ricerca di informazioni, varia a seconda che riguardi prodotti la cui valutazione preceda o necessariamente segua il momento dell’acquisto, quanto più essa è rilevante, tanto meno l’asimmetria informativa costituirà una stabile base per il vantaggio competitivo. Considerazioni analoghe valgono nel caso in cui i potenziali acquirenti non sostengano elevati costi di ricerca e valutazione delle diverse marche ed il rischio percepito in relazione ad un acquisto errato sia poco rilevante1.

1 Ciò, ad esempio, può avvenire in seguito ad un’elevata frequenza di acquisto, a causa della banalizzazione del consumo che ne consegue, per cui è possibile assumere

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Il vantaggio di differenziazione derivante dai costi di cambiamento di natura non contrattuale, è superiore nel mercato dei beni industriali rispetto a quello dei beni di consumo, a causa dell’esperienza riguardo ai diversi prodotti e processi che, nel primo caso, gli operatori sono capaci di accumulare e sviluppare nel tempo. Inoltre, i costi di cambiamento, e quindi i vantaggi per l’impresa pioneer, sono maggiori in quei mercati nei quali gli acquirenti investono in asset cospecializzati, caratterizzati da una dipendenza bilaterale che eleva le barriere costituite dai trade-off.

Infine, a causa della difficoltà di organizzare in struttura le attività per renderle adeguate ai mutamenti che si producono nelle associazioni in seguito alla rapida e caotica dinamica evolutiva del mercato, quanto maggiore è il passo di tale evoluzione del mercato, tanto meno sostenibili e duraturi saranno i vantaggi di costo e differenziazione attribuibili al first mover.

I risultati ultimi in cui può essere espressa la performance del first-mover advantage, possono essere analizzati in termini di quota di mercato e di profittabilità. La dimensione complessiva del first-mover advantage risente, come appare in figura 3.4, degli effetti prodotti da una molteplicità di fattori.

La strategia competitiva rileva sia riguardo alla specifica posizione raggiunta in seguito alla costruzione del sistema di attività creato per rispondere al meglio alle associazioni ritenute rilevanti, sia in rapporto ai tempi di entrata nel mercato, i quali, in particolare, conferiscono all’impresa il diritto di priorità rispetto a quella particolare posizione divenendo causa prima della differenza di performance con i successivi entranti.

Il competitore che entra nel mercato influenza i vantaggi conseguibili dal first mover, potendo raggiungere buoni risultati in termini di costi e differenziazione in diversi modi. In primo luogo può godere del cosiddetto “vantaggio dell’ultimo arrivato” in base al quale va incontro a costi molto

che il vantaggio di differenziazione ottenibile a causa dell’avversione al rischio dei potenziali acquirenti sia, a parità di condizioni, maggiore per prodotti caratterizzati da una moderata frequenza di acquisto.

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inferiori a quelli sopportati dal pioneer per creare la categoria e successivamente svilupparla “educando” il mercato. L’imitazione costa meno della creazione: l’entrante si va ad inserirsi in un qualcosa di già esistente, beneficiando di conoscenze e processi da altri testati potendo, quindi, concentrarsi sull’individuazione della posizione più idonea per attaccare la quota di mercato del leader. Sebbene il first mover possa mantenere un vantaggio riguardo ai costi, i successivi entranti, soprattutto i primi, possono tuttavia riuscire a compensare almeno in parte tale vantaggio attraverso una strategia di differenziazione atta a mettere in luce l’unicità dell’identità di marca di cui sono portatori incontrando le aspettative del mercato o creandone di nuove e più favorevoli, oppure attuando un’opera di riposizionamento dell’avversario in modo da togliere valore alla posizione da esso occupata.

3.3.3 – Il riposizionamento.

Riferendoci costantemente al concetto di posizionamento dobbiamo, tuttavia, rimanere consapevoli che tale attività, intesa in senso stretto, sta ad indicare, tipicamente, le situazioni in cui dobbiamo stabilire la posizione iniziale di un nuovo prodotto o di una nuova marca. In realtà, i casi nei quali le idee legate a questo concetto vengono più frequentemente utilizzate sono quelli nei quali si tratta di correggere, apportandole le modifiche necessarie, la posizione di una marca già presente sul mercato. In genere, cioè, il problema è quello di ideare ed applicare una strategia di riposizionamento.

La velocità con cui si presentano i mutamenti tecnologici, il rapido e sempre più imprevedibile spostamento degli atteggiamenti dei consumatori, l’aumento della competizione originato dalla globalizzazione non fanno che rendere ancora più ricorrenti ed impellenti le situazioni nelle quali necessita ricorrere ad un’azione di riposizionamento. Le imprese che, mancando di un’adeguata visione e presenza, perdono di vista il mercato di riferimento si lasciano rapidamente sfuggire le posizioni occupate, sia che

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ciò avvenga ad opera della percezione dei potenziale acquirenti, sia che tale posizione venga loro “soffiata” da concorrenti più attenti e reattivi.

La frammentarietà dei mercati e i sempre più intrecciati rapporti concorrenziali che troviamo tra gli attori sull’arena competitiva rendono frequente il presentarsi di opportunità od esigenze di mutamento della posizione occupata, dando vita ad un nuovo, diverso, sistema di relazioni e di potere. In genere, tuttavia, si tratterà di semplici aggiustamenti che non necessitano di una profonda riformulazione strategica. In tal senso spinge la consapevolezza che, soprattutto quando la marca fruisce di un elevato grado di rilevanza e presenza nella mente dei potenziai acquirenti, riposizionamenti troppo frequenti finiscono per generare principalmente disorientamento nel pubblico aziendale, ponendola in una situazione spesso peggiore rispetto a quella di partenza. Inoltre, il riposizionamento è attività molto onerosa e impegnativa, trattandosi di far mutare percezioni ed atteggiamenti che possono essere anche molto radicati: quanto più profondo è il radicamento e quanto maggiore è la distanza mentale che la marca deve percorrere per collocarsi sulla nuova posizione, tanto maggiori dovranno essere le risorse finanziarie, umane ed organizzative messe in campo affinché il riposizionamento abbia successo.

Esistono, fra le innumerevoli circostanze dalle quali può divenire un’esigenza, delle situazioni paradigmatiche che esprimono il bisogno di attuare un riposizionamento. Le principali cause originanti il passaggio del riposizionamento da semplice opportunità a necessità sono date da:

- Cambiamenti negli atteggiamenti del consumatore;- Cambiamenti della tecnologia la quale va a superare i prodotti;- Deviazioni dei prodotti o delle marche dalla percezione consolidata

nella mente del consumatore.

La prima situazione si verifica allorché si verificano degli spostamenti all’interno delle scale valoriali delle persone in generale e dei consumatori in particolare, oppure quando si modifica la stessa struttura o la natura di tali scale, le quali vanno ad assumere significati in parte o del

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tutto differenti da quelli precedentemente loro associati. I sommovimenti prendono corpo procedendo a partire dai mutamenti sociali di fondo, articolandosi e caratterizzandosi man mano che le nuove concezioni delle cose e dei rapporti tra esse vengono sovrapposte sostituendole a quelle precedenti ed a loro corrispondenti. Vengono, in altre parole, create delle associazioni non necessariamente nuove in senso assoluto, potendo risultare in particolari rielaborazioni di concetti già espressi, che si correlano in modo da dare forma a diverse strutture capaci, a loro volta, di generare ulteriori associazioni.

Di fronte ad un cambiamento in moto perpetuo, l’impresa che abbia dalla sua un’adeguata visione dall’interno e dall’alto del proprio ambiente di riferimento conseguendo un elevato grado di fusione con il mercato non abbisogna di un particolare momento in cui procedere al riposizionamento. La ridefinizione della propria posizione si presenta, per essa, come un’attività spontanea ed avviene quasi in tempo reale seguendo, in sostanza, i principi dell’omeostasi. L’adeguamento dell’impresa e della posizione da essa ricoperta avvengono, perciò, quasi impercettibilmente.

Pochi competitori sono, però, in grado di presentare una partecipazione così sensibile con il mercato e di darne un’interpretazione a tal punto pregnante, ed anche in presenza di una elevata sensibilità non è detto, poi, che dispongano delle risorse necessarie per dare ad essa un seguito. Generalmente, pertanto, i cambiamenti negli atteggiamenti dei consumatori vengono interpretati non correttamente o, comunque, con un certo ritardo. La rilevanza del fattore tempo deriva dalle possibilità che offre o che toglie, secondo i casi, di operare un efficace riposizionamento. Non è sufficiente, per il successo del riposizionamento, avere individuato un nuovo créneau nel quale andare ad inserirsi, se esso risulta già occupato da qualcuno, avendogli, l’esser giunto primo in quella posizione, molto probabilmente consegnato l’opportunità di essere identificato genericamente con la categoria e di appropriarsi delle principali associazioni ad essa collegate.

La seconda determinante del riposizionamento, costituita dalla presenza di cambiamenti tecnologici che vanno a superare i prodotti, diviene ogni giorno più importante rendendo prioritario assumere un

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atteggiamento aggressivo verso la propria posizione ed i propri prodotti, mediante una cannibalizzazione autoindotta che, sola, pare offrire ragionevoli speranze di sopravvivenza. Chi non è in grado di competere per le prime posizioni del mercato deve perciò cercare delle nicchie nelle quali concentrare le poche forze a sua disposizione1, per non limitarsi ad aggrapparsi alla mera imitazione che strategicamente ha ben di per sé in genere poco da offrire se non il mantenersi, precariamente, in vita.

Quando il mercato è maturo e la tecnologia cambia, quindi, per molte imprese può divenire necessario puntare su un focus più adeguato alle nuove esigenze ed alle risorse aziendali, anche se il cambiamento del focus è una delle attività di marketing strategico più rischiose. La gestione delle risorse è, in proposito, determinante, dovendo procedere al loro adeguamento in maniera tale che, mentre viene rallentato il supporto al prodotto originale, si utilizzino le risorse a disposizione per ridare al prodotto o alla marca una posizione confacente alle nuove istanze di sviluppo.

Il terzo ordine di problemi che può fare emergere la necessità di concepire ed operare un riposizionamento ha un’origine interna ed è costituito dalla deviazione dei prodotti o, peggio, del concetto di marca, dalla posizione consolidata nella mente del consumatore. Capita, cioè, che vengano attuate delle modifiche al sistema di attività e/o al sistema di associazioni su cui si basa la posizione strategica senza che ve ne sia una reale esigenza. È, in questo caso, l’impresa stessa che crea le premesse per i propri problemi di immagine. La causa ultima è riconducibile, di solito, all’errore di seguire una visione dall’interno verso l’esterno, piuttosto che il contrario, seguendo una strategia magari ideale dal punto di vista dell’organizzazione produttiva e dell’economicità di gestione (almeno fino al momento in cui i prodotti sono collocati laddove dovrebbero venire acquistati) che, però, risulta essere disastrosa dal punto di vista dell’aderenza alle vere esigenze dei potenziali acquirenti e dalla concordanza con l’immagine consolidata e ormai acquisita che essi hanno della marca. Altre volte, invece, non è la visione dall’esterno verso

1 Cfr. par. 3.2.4.- 183 -

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l’interno a venire meno, ma c’è un vero e proprio errore di valutazione circa cosa il consumatore realmente desideri.

In ogni caso, il risultato ultimo è quello di operare uno spostamento non dovuto dalla posizione d’origine generando uno spiazzamento negli acquirenti abituali1 che non viene assolutamente compensato dal coinvolgimento di nuovi compratori i quali non trovano motivo, non avendolo, per concedere alla marca le loro preferenze. Auspicabile pare, perciò, un ritorno quanto più rapido possibile alle precedenti basi competitive, nella speranza che nessuno tra i nostri concorrenti abbia nel frattempo occupato la posizione che abbiamo lasciato scoperta.

Il paradosso di ogni riposizionamento è che si tratta di una questione niente affatto semplice, essendo numerosissimi e interrelati gli elementi da prendere in considerazione, mentre, nello stesso tempo, la soluzione deriva da un ragionamento in cui la semplicità, portata all’estremo, si rivela spesso come la giusta chiave di lettura. Infatti, dovendo attraversare tutti i corsi che le percezioni fanno nella mente delle persone per giungere a comprenderne le ragioni ed il punto di approdo, notiamo come, di fronte alla complessità sempre più imperante in ogni momento della vita, sono proprio le soluzioni più semplici e lineari ad essere preferite. La mente non ama la confusione (questa è la ragione per l’esistenza delle scale valoriali sulle quali vengono ordinate perone, cose, idee e percezioni) e tenerlo sempre presente è il primo passo per fondersi idealmente con essa.

Alla base del posizionamento sta il concentrarsi su un’idea (anche solo una singola parola) che definisca l’impresa nella mente dei potenziali acquirenti. Un’impresa che abbia una marca ed una posizione ben identificate gode di un valido punto sul quale incentrare la propria struttura

1 Nel paragrafo 3.4 vedremo come i consumatori si aspettino un’impresa altamente specializzata ed un orientamento molto ristretto e dedicato alle particolari esigenze della categoria servita, soprattutto se essa ha conquistato una nicchia ed il suo nome è largamente conosciuto. Perciò il consumatore diventa sospettoso s si verifica un allargamento, ai suoi occhi ingiustificato, si questo orientamento.

Come conseguenza si ha, spesso, l’insuccesso delle estensioni (perlomeno in relazione alle performance attese) e, quello che è peggio, una riduzione della quota di mercato delle marche originali

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di attività per sfruttare le associazioni che il concetto evocato è in grado di generare. La strategia deve essere focalizzata e non disperdersi in direzioni che divergano da tale concetto. Capita, in effetti, che ci sia, da parte delle imprese, un’ansia di movimento la quale viene concretizzata attraverso azioni intraprese seguendo solamente il fascino di un’idea, senza che questa si riveli in sintonia con quelle dei consumatori e con la posizione ricoperta dalla marca. Altre volte, il timore dell’allontanamento da una posizione dietro la quale ci si trincera, costituisce un ostacolo per procedere ad un riposizionamento che, non solo può costituire una rilevante opportunità per l’impresa, ma può essere necessario per togliersi da una situazione che diverrà, col tempo, sempre più critica. A questo riguardo, il grosso sforzo e l’impegno perseverante che l’azione di riposizionamento richiede, costituisce indubbiamente anch’esso un rilevante freno alla sua intrapresa.

Attraverso il riposizionamento viene spostata la prospettiva con la quale il mercato si pone rispetto al concetto di marca, portando il campo di battaglia in un’area ad essa più favorevole, laddove risiede la forza di cui dispone od è collocato il valore che i potenziali acquirenti ricercano. Dalla nuova posizione identificata possono, inoltre, emergere nuove opportunità in riferimento ad attività che le si concordano incrementandone il valore e la rilevanza e che, altrimenti, non avrebbero potuto essere scorte. Di più: sebbene il ruolo della comunicazione sia determinante, comunicare la nuova posizione non è sufficiente, occorrendo anche divulgarla attraverso nuove coerenti attività in grado di attivare le associazioni connesse al concetto che identifica la posizione medesima.

Le basi nelle quali ricercare gli elementi del riposizionamento sono le stesse viste per la determinazione della posizione iniziale. In primo luogo, occorre posare la propria attenzione su quanto i potenziali acquirenti percepiscono. Il lato della percezione che ci deve interessare è quello che investe sia la generica categoria di riferimento, sia la nostra impresa, in particolare. Sapere quali associazioni evoca nella mente dei consumatori la marca1 ci permette di dare loro uno sviluppo, affiancandogliene eventualmente di ulteriori e cercando di indebolire ed eliminare quelle

1 Il problema è sempre quello di trovare dei collegamenti con quanto già esiste nella mente degli individui.

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negative o fuorvianti. L’analisi della strutturazione della categoria e del comportamento della concorrenza, identificandone la strategia di posizionamento seguita ed il grado di aderenza alle aspettative del mercato, costituisce un momento di primaria importanza nella determinazione della nuova posizione, dal momento che ad ogni posizionamento strategico corrisponde implicitamente un diverso insieme di concorrenti con cui confrontarsi. Ulteriori elementi di supporto alla decisione di riposizionamento possono essere forniti dalla stessa storia delle strategie competitive seguite nel tempo dalla marca e, per quanto possibile, dai suoi avversari: analizzandone le ragioni di successi e sconfitte, potrebbero alfine emergere degli elementi significativi e ricorrenti da tenere in seria considerazione.

3.4 – L’estensione di marca

L’estensione di marca costituisce uno degli argomenti su cui più si dibatte, sia a livello accademico, sia a livello operativo, tra quanti si cimentano con le problematiche della gestione delle strategie di posizionamento e dell’immagine di marca.

In effetti, le ragioni che stanno all’origine del confronto delle diverse opinioni e dei riscontri che vengono osservati nella realtà dei mercati sono di primaria importanza per le imprese. Forte è la tentazione per chi si occupa dello sviluppo di una marca, di un facile abbandono all’estensione. Altrettanto forti, tuttavia, sono le argomentazioni di chi si oppone ad un ricorso indiscriminato all’estensione di linea, risultando, anzi, generalmente più rilevanti queste ultime.

Pertanto, ai fini della comprensione di questo cruciale momento della competizione, si rende necessaria un’analisi che, partendo dalla considerazioni delle ragioni che possono stare dietro ad una siffatta scelta, coinvolga tutti gli aspetti da tenere in conto per giungere alla soluzione migliore secondo le singole e diverse circostanze concorrenziali nelle quali la marca è inserita. Approfondendo lo studio dell’estensione di linea ci troveremo ad affrontare un argomento, il nome della marca, che

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esamineremo più da vicino nel prossimo capitolo dedicato alla relazione tra strategie di posizionamento e comunicazione, ma che inevitabilmente fa avvertire la sua notevole influenza nel momento in cui i valori espressi dall’identità di una marca vengono trasferiti ad un’altra.

3.4.1 – Le ragioni dell’estensione di marca.

Attraverso l’estensione di marca le imprese cercano di utilizzare il valore di cui essa è portatrice per trasmetterne e diffonderne gli elementi caratterizzanti a nuove marche e prodotti operanti in aree di business o mercati diversi da quelli di origine. Si tratta di una scelta che ritroviamo nella stragrande maggioranza dei lanci di nuovi prodotti, risultando assai preferita rispetto all’ideazione e immissione di una nuova marca nell’arena competitiva.

L’attrattiva che l’estensione presenta rispetto alle alternative disponibili è difficilmente eludibile da parte delle imprese. Alla base di questa opzione strategica stanno, soprattutto, ragioni di convenienza economica: l’introduzione di una nuova marca su un determinato mercato comporta investimenti notevolmente superiori rispetto all’estensione del significato originario della marca ad altri prodotti ad essa collegati, e, del resto, non esiste investimento che, per elevato che sia, garantisca l’ottenimento di una posizione dominante o, comunque di un successo, nella particolare categoria concettuale di riferimento. Anzi, ad una prima generica considerazione, l’estensione di marca parrebbe affiancare all’indubbia relativa economicità, una maggiore probabilità percepita di conseguire gli obiettivi di mercato prefissati, in virtù degli effetti benefici indotti dalla marca madre.

Attraverso questa strategia, l’impresa cerca di sviluppare appieno il potenziale racchiuso nella propria immagine di marca, l’asset (intangibile) che più di ogni altro contribuisce a realizzare una performance superiore. È, in particolare, l’utilizzo del nome e dei simboli che ad esso sono collegati a costituire la risorsa strategica che consente di penetrare nuove categorie. Tuttavia, come vedremo nei prossimi paragrafi, quello che ad un primo

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sguardo può sembrare un promettente sbocco per l’impresa, si rivela spesso un segnale fallace e ingannevole per essa, tanto più pericoloso per il suo futuro, quanto più l’illusione non si accompagna ad un’attenta e profonda sensibilità di analisi. Ancora una volta, la mancanza di un’adeguata visione strategica può indurre la marca, e l’impresa che essa rappresenta, a seguire direzioni errate arrecando inevitabilmente, per giunta, un serio danno alla posizione di partenza, con l’ulteriore rischio di non lasciarle la possibilità di tornare sui propri passi senza pagarne le conseguenze. In altre parole, se un nome di marca può non recare alcun vantaggio per l’estensione, nelle ipotesi peggiori si possono creare delle associazioni negative coinvolgenti il valore originale della marca.

Determinante, nella spinta all’estensione di linea, è il ruolo ricoperto dalle associazioni nel contesto competitivo e nel favorire il posizionamento e la sua comunicazione. Molto frequentemente, infatti, le decisioni di acquisto sono prese tenendo in considerazione un numero limitato di attributi del prodotto, rendendo ardua l’identificazione di un punto su cui basare una differenziazione che sia allo stesso tempo credibile e difendibile, soprattutto se abbiamo di fronte concorrenti di un certo livello.

Attraverso l’estensione l’impresa intende, quindi, trasferire l’associazione a nuove classi di prodotto. I punti sui quali viene riposta la maggiore attenzione sono riconosciuti da Tauber in alcune tipologie principali1:

1. Proposizione dello stesso prodotto, ma in forma diversa. La natura dell’offerta resta ancorata al concetto originale, variando la particolare connotazione con cui verrà raggiunto il consumatore. Viene fatto questo nel tentativo di presentare nuove e diverse occasioni d’uso per il core value del prodotto.

2. Introduzione di un sapore, ingrediente o comunque un componente diverso, alterando parzialmente l’attesa così come sedimentata dall’esperienza passata del consumatore.

1 E. M. TAUBER, Brand leverage: strategy for growth in a cost-controlled world, Journal of advertising research, agosto-settembre 1988, pp. 26-30; citato in D. A. AAKER, op. cit., 1997, p. 272 ed in L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, op. cit., 1998, p. 315.

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3. Prodotti che vanno insieme. Il perno dell’estensione è, in questo caso, rappresentato dalla complementarietà che, attraverso un’offerta parallela e congiunta, vorrebbe, almeno nelle intenzioni di chi la pone in essere, conferire un valore più elevato agli elementi coinvolti, la posizione dei quali andrebbe a rinforzarsi vicendevolmente.

4. Servizi per il cliente. Vengono messi sul mercato dei servizi che, sfruttando il collegamento con le associazioni dell’offerta primaria, si pongono nel suo stesso mondo concettuale di riferimento. Fondamentale è, in questo caso, rimanere coerenti con le associazioni generate dalla marca di provenienza.

5. Expertise. L’estensione di marca può derivare dallo sfruttamento dell’esperienza accumulata in una categoria di prodotto per il suo utilizzo in un’altra categoria richiedente conoscenze in linea con essa. Occorre, tuttavia, mantenere un certo controllo nel non cedere alla tentazione di provare a penetrare in certi mercati nei quali la presenza di expertise è condizione necessaria, ma non sufficiente per il conseguimento della competitività. Se l’esperienza appare, infatti, come un potente fattore attrattivo, occorre primariamente considerare la rete di associazioni cui essa deve dare espressione evitando di commettere l’errore di ragionare dall’interno verso l’esterno e non viceversa, analizzando il problema dell’estensione di linea dal punto di vista del potenziale acquirente e, risalendo all’origine, determinare la fattibilità di un’estensione1.

6. Vantaggio/attributo/caratteristica unici. Simile all’estensione del secondo tipo – che pare, anzi, generare –, deve tenere conto delle associazioni connesse all’attributo dal quale trae origine e della loro compatibilità con lo spazio che l’impresa si accinge ad approcciare.

1 Se, in particolare, la marca occupa una posizione forte nella mente del consumatore ed il nome che la esprime diventa talmente noto e generico da rappresentare in sostanza un sinonimo della categoria di appartenenza affiancandosi indissolubilmente al prodotto che personifica, allora l’estensione va contro la percezione di tali importanza e generalità indebolendo la posizione originaria in quanto rende sfocata l’immagine della marca nella mente stessa. L’errore è, in altre parole, quello di banalizzare il mondo concettuale costruito intorno alla marca e all’immaginario collettivo che il consumatore scopre e riconosce ora essere illusorio.

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7. Immagine associata1. La forte caratterizzazione conferita da un’immagine associata alla marca dalla quale parte l’ampliamento concettuale può costituire un’importante opportunità di sviluppo, a condizione di non tentare di ricollegarla ad elementi con i quali non mostra di avere alcuna attinenza.

Accade in molte circostanze di riscontrare la debolezza di un posizionamento basato sulle caratteristiche specifiche di un prodotto. Da una parte, infatti, i concorrenti possono convergere sulla posizione attraverso l’offerta di attributi analoghi (quand’anche non identici). Dall’altra, l’immagine peculiare della marca è sempre più rilevante per la sostenibilità della posizione e del vantaggio competitivo, rendendo evidente la necessità di impostare la strategia competitiva sulla base di un’elevata qualità percepita, la cui costruzione comporta spesso difficoltà maggiori rispetto all’incremento della qualità effettiva2.

La consapevolezza dell’importanza dell’immagine della marca che i potenziali acquirenti hanno è alla base del ricorso al collegamento con marche prestigiose e consolidate. La reputazione di cui esse dispongono fornisce un’indicazione di qualità inequivocabile e ben più rilevante della maggior parte degli specifici attributi del prodotto o servizio. Perché il nesso possa funzionare, occorre, però, che gli elementi alle sue estremità e le rispettive categorie di appartenenza risultino compatibili e coerenti. In caso contrario, infatti, si potrebbe addivenire ad un indebolimento della marca principale, oltre che all’evidenziazione dell’inconsistenza delle basi competitive di quella che va a ripararsi sotto l’ombrello della sua immagine. Quando poi una marca viene sfruttata per permeare di sé un grande numero di prodotti, si produce l’effetto di diluirne il valore in maniera eccessiva, riducendo la sua qualità percepita e arrecando loro un contributo ormai sbiadito e svuotato del significato originario.

1 “Designer image or status”, nelle parole di Tauber.2 Una volta che il pubblico si è fatto un’idea sull’immagine di una marca, come

abbiamo visto nel secondo capitolo, risulta assai problematico il tentativo di far mutare, attraverso una riqualificazione dell’immagine percepita, l’atteggiamento acquisito e ormai sedimentato.

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3.4.2 – Aspetti problematici delle estensioni di marca.

L’esito ideale di un’estensione di marca dovrebbe essere il rafforzamento dell’immagine dei prodotti o servizi coinvolti, andando tale estensione ad assumere una connotazione positiva e costruttiva. Il realizzarsi di questa situazione ottimale è tuttavia lontano dal presentarsi così frequentemente da costituire una regola. In alcuni casi, troviamo come la marca d’origine sia da impedimento all’estensione, in altri, peggiori, è quest’ultima ad arrecare conseguenze negative alla marca principale, compromettendone valori e posizione competitiva.

A volte, l’estensione di marca poggia sul mero conferimento ad un prodotto di un nome con un’immagine affermata e che gode di una sua rilevanza, allo scopo di trasmettergli visibilità e credibilità. Quella che ne risulta è, in definitiva, una manovra opportunistica dalla quale con tutta probabilità non sortiranno effetti positivi di lunga durata.

Nonostante il presumibile successo iniziale, la posizione conseguita seguendo questa strada presenta un’elevata vulnerabilità, rivelandosi, con il dispiegarsi nel tempo delle forze concorrenziali e con la constatazione dell’assenza di reali valori che diano spessore alla marca, assai poco sostenibile. Se nell’immediato, infatti, il collegamento al nome originale che gode di una propria notorietà facilita la comprensione del concetto proposto1, con il passare del tempo l’effetto novità svanisce e subentra la confusione: dopo un po’ il consumatore disperde il messaggio dell’estensione nel rumore ambientale e non è nemmeno più sicuro che il prodotto ad essa relativo esista effettivamente, essendo la visibilità del prodotto confusa a quella degli altri prodotti dei quali la marca primaria consta; anzi, buona parte dei problemi di messa a fuoco che i consumatori

1 Non è solo il consumatore a presentare, nell’immediato, un elevato grado di ricezione del messaggio portato dall’estensione, venendo anche incoraggiato ad un acquisto di prova. Anche i distributori, possono, inizialmente, accettarla di buon grado confidando sulla reputazione della marca ombrello, salvo poi ritirare il sostegno non appena si accorgono che il mercato, dopo l’attenzione del primo momento, perde il suo interesse per la marca estesa. È questo il momento in cui iniziano i guai seri per l’impresa.

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hanno paiono essere direttamente imputabili alla pratica dell’ampliamento di linea.

Proprio perché i nomi da estensioni di linea non occupano una posizione indipendente nella mente del consumatore, essi non richiedono pressoché nessun sforzo ritentivo da parte del consumatore e tendono ad essere dimenticati con estrema facilità. Un fattore decisivo nel conferimento di valore dal nome della marca di origine al nuovo prodotto è poi dato dal fatto che la categoria concettuale di riferimento sia o no consolidata.

Il punto cruciale da considerare per valutare se un nome sia effettivamente in grado di creare valore è costituito dalle associazioni che esso genera: mentre alcune possono apportare benefici significati alla marca quale essa risulta dall’estensione1, altre possono lasciarla del tutto indifferente, quando poi non producono risultati che ne deteriorano il valore.

Ogni volta che una strategia di estensione di marca viene posta in essere l’impresa deve perciò tenere conto di tutti i più sottili vincoli che l’ampliamento di significati comporta e prendere le dovute misure cautelative e/o correttive. Una tecnica che in talune circostanze permette di ridurre o eliminare le associazioni negative consiste nell’aggiungere alla marca un ulteriore nome che possiede le connotazioni giuste per riequilibrarne i significati. Lo stesso effetto può derivare dall’elaborazione del concetto originario del prodotto. Bisogna comunque porre attenzione a che non aumenti invece il livello di confusione ed al fatto che un particolare nome preso come base per l’estensione possa far pensare ad un prodotto anche molto differente e distante da quello nelle nostre intenzioni offerto.

La coerenza diviene attributo fondamentale quando si attua un ampliamento di linea. In assenza di un adeguato grado di coerenza, infatti, le associazioni desiderate non verranno trasferite da un prodotto all’altro, ma saranno in grado di produrre effetti fuorvianti che potrebbero investire

1 Ad esempio, un nome che richiama una caratteristica del prodotto la quale non rientri tra quelle prese in considerazione ai fini della scelta, attraverso il processo associativo, dal potenziale acquirente, contribuisce solo apparentemente ad accrescerne il valore per il mercato.

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anche la marca di riferimento: è l’estensione, in altre parole, che deve adattarsi al prodotto, e non il contrario. Il potenziale acquirente deve trovarsi a suo agio con il concetto della marca in estensione, affinché si realizzino gli effetti desiderati.

Diverse possono essere le basi sulle quali impostare la coerenza, tutte ricavabili dalle particolari associazioni comuni che vengono attivate.

Una base di coerenza può essere rintracciata nei collegamenti tra le due categorie relate. Tra tali categorie possono sussistere diverse relazioni in funzione dell’accettazione dei concetti sottostanti:

- Trasferibilità delle capacità e delle risorse, in base alla quale si ha la percezione che la marca possieda le risorse e le capacità necessarie per sviluppare l’estensione;

- Complementarietà, secondo cui l’estensione viene associata con la categoria associata alla marca.

La coerenza può basarsi anche su attributi funzionali relativi alle prestazioni del prodotto, o su caratteristiche intangibili come lo status o il prestigio. Le possibilità che il prestigio offre per l’estensione di marca si presentano, poi, notevolmente più ampie rispetto a quelle che derivano dagli attributi funzionali in virtù del maggior potere evocativo e della inferiore imitabilità. Esistono, oltre a ciò, altre numerose potenziali basi di coerenza (ad esempio la tipologia di utenti, il luogo di provenienza, i simboli…), la scelta delle quali non può prescindere dalle peculiari circostanze competitive nelle quali la marca si trova ad operare.

I deterioramenti più grandi che l’immagine di marca possa subire, oltre a quelli che traggono origine dalle azioni di riposizionamento della concorrenza poste in essere dai nostri competitori, sono quelli provocati dalle nostre stesse azioni. Una strategia di estensione della marca può arrecare seri danni all’integrità della marca originale: attraverso la creazione di associazioni indesiderabili vengono modificate quelle in essere ed intaccata la qualità percepita.

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L’estensione, per sua natura, crea generalmente nuove associazioni le quali devono accordarsi con quelle già presenti ed attive. Può essere, quindi, che alcune tra le nuove associazioni risultino potenzialmente dannose per la marca originale, anche in relazione alla categoria nella quale essa è contestualizzata. Il trasferimento delle associazioni negative non sembra, tuttavia, avvenire in maniera sistematica. Piuttosto, ricorrono alcuni fattori nel determinarlo o nel contrastarlo. Ostacolano tale trasmissione una particolare forza che caratterizza le associazioni originarie, così come l’esistenza di una netta differenza tra la marca originaria e l’estensione ed il caso, in parte opposto, nel quale tale differenza non è così estrema da fare apparire incongrua l’operazione.

Le associazioni di marca create da un’estensione possono rendere sfocata un’immagine che faceva della nitidezza e della caratterizzazione i propri punti di forza assurgendo a risorsa strategica dell’impresa. Questo, in particolare, accade nel caso in cui la marca fosse riuscita ad “impossessarsi” della categoria mentale di riferimento, venendo quest’ultima ad essere identificata, per il tramite delle associazioni instauratesi, con la prima1. Altre volte, si può invece determinare un’utile associazione tra la categoria ed un particolare tipo di prodotto2. Occorre, pertanto, sviluppare una spiccata capacità di giudizio in merito alla coerenza complessiva del sistema di associazioni così come risulta dal processo di estensione.

Un secondo modo, tipico, attraverso cui l’estensione può sottrarre valore alla marca si ha quando ne viene intaccata la qualità percepita. Il problema sorge in quanto l’eccellenza della qualità percepita costituisce per la marca un asset fondamentale e la base di un duraturo vantaggio competitivo.

Emblematico di questa situazione critica è il caso nel quale la marca viene associata ad un bene con un prezzo marcatamente inferiore, venendosi seriamente ad amplificare il rischio di sminuire l’immagine e la

1 Possiamo individuare il momento nel quale questo avviene quando il nome della marca assume una connotazione generica volta ad esprimere l’intera categoria.

2 Pare esserci, comunque, un maggiore spazio di manovra nel caso in cui l’associazione di marca non è collegata al prodotto, in modo da non incidere sulle associazioni esistenti.

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qualità percepita della marca di origine. I consumatori, infatti, risultano disorientati dallo svincolamento della marca dalla posizione occupata nel proprio mondo concettuale perdendo fiducia sulla sua capacità di mantenere in essere le associazioni promesse attraverso l’immagine proiettata. Molto dipende anche dalla forza relativa della marca originaria e dell’associazione generata: una marca molto forte cui viene dato seguito attraverso un’estensione debole avrà maggiori probabilità di superare il rischio senza incorrere in danni troppo elevati.

3.4.3 – L’approccio multimarche.

È possibile porre un argine alla diffusività connessa alle associazioni negative cui si può dar vita nell’ambito dell’estensione di linea attraverso un approccio multimarche alla competizione. In base a tale strategia l’impresa viene ad essere un contenitore che racchiude in sé una molteplicità e varietà di significati. L’impresa, in altre parole, si affaccia sul mercato non attraverso una unica marca dal cui valore attingere nel momento in cui viene attuata un’estensione, ma proponendosi come un gestore di marche virtualmente indipendenti e sovraordinato ad esse1.

La scelta se adottare una strategia di estensione della marca o competere attraverso una molteplicità di marche ben distinte l’una dall’altra (quanto, soprattutto, all’immagine percepita dai potenziali acquirenti) è, sostanzialmente e con le dovute cautele, una questione di prospettiva2. Le imprese, attraverso ragionamenti condotti troppo spesso dall’interno verso l’esterno, considerano di frequente le marche solo dal punto di vista

1 È, questo, ad esempio, l’approccio seguito dalla Procter & Gamble. La P&G posiziona attentamente ogni prodotto in modo che vada semrpe ad occupare uno spazio specifico nella mente del potenziale acquirente.

2 Non bisogna dimenticare che la scelta di operare un’estensione di linea non è, in sé, l’unico fattore determinante il risultato ultimo della competizione. Non è, infatti, sufficiente tracciare una linea lungo la quale procedere, occorrendo poi anche perseguirla con perseveranza e convinzione. Per dare una valutazione equa della strategia adottata è opportuno tenere in considerazione, ad esempio, il budget pubblicitario messo a sua disposizione, il basso livello del quale potrebbe essere di per sé una forte concausa della mediocre performance conseguita.

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economico. Così, sono disposte e pronte, in nome di un risparmio in termini di costi e di accettazione commerciale, a trasformare una marca fortemente focalizzata – in grado, cioè, di identificare, da sola, un certo tipo di prodotto o un0idea – in una che rappresenti allo stesso tempo una pluralità di prodotti o di idee, incuranti del fatto che un nome non può, in generale, sostenere con successo più di un concetto. Questo sta a significare che due prodotti sono tanto meno rappresentabili da una stessa marca, quanto maggiore è la differenza che corre tra loro e la distanza che li separa.

Anche se lavorare solo su un’unica marca, eventualmente estesa, può comportare dei risparmi in termini di costi di marketing1, l’esperienza ha dimostrato che le marche multiple possono tradursi in maggiori quote complessive di mercato. Un punto importante, nello sviluppare una struttura a marche multiple, consiste nell’intraprendere un approccio di tipo complementare: bisogna, cioè, sistemare le marche in modo che siano complementari l’una con l’altra, piuttosto che reciprocamente competitive. Il fatto che ogni marca vada ad occupare una determinata e diversa posizione permette di coprire un più ampio fronte attraverso i principali segmenti del mercato di riferimento, bloccando in partenza i possibili spazi di manovra di cui dispongono i concorrenti: il riposizionamento viene in questo caso attuato oggi anche in funzione di prevenire le possibili offensive di domani facendoci trovare già posizionati e pronti ad affrontarle.

Perché un approccio al posizionamento basato su marche multiple complementari tra di loro possa funzionare, occorre la simultanea presenza di tre elementi:

- Nomi diversi;- Posizioni diverse;- Target diversi.

1 La gestione delle singole marche facenti parte della stessa architettura multipla deve essere affidata a strutture separate, nell’ambita di un disegno e di una coordinazione unitaria che deve mantenere il controllo su tale architettura e sulla differenziazione conseguita.

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Nel caso in cui uno o più di essi non sia posseduto dall’impresa, occorrerà svilupparli in maniera opportuna e coerente con le associazioni indotte dagli elementi invece presenti.

Più la marca viene variata rispetto al suo significato originale, più la mente avrà problemi di messa a fuoco, aumentando la vulnerabilità ad eventuali attacchi da parte della concorrenza. L’errore strategico è ancor maggiore se a compierlo è chi dovrebbe condurre una guerra difensiva. Quando l’impresa leader perde il proprio focus per spostarsi su una posizione troppo generalista ed a bassa definizione, allora il gioco competitivo volge in favore del concorrente specialista che meglio esprime i concetti associati alla categoria che rappresenta. Il competitore specialista ha dalla sua le possibilità offerte dal focalizzare l’attenzione su un unico prodotto, un vantaggio, un messaggio. Inoltre può, meglio di qualunque generalista, riuscire a farsi percepire come l’operatore più qualificato ed esperto per la categoria, rinsaldando in questo modo la propria posizione. Se poi il leader generalista lascia disponibile la posizione occupata, si presenta, per lo specialista, l’opportunità di divenire, in virtù della superiore credibilità riconosciutagli, il “generico” della categoria, che verrebbe, così, ad essere identificata con il suo nome.

I vantaggi offerti dal seguire l’opzione multimarche derivano dalla creazione di compartimenti stagni sviluppabili separatamente seguendo strategie ad hoc in modo da non coinvolgere le marche sorelle e limitando al massimo il ricorso alle estensioni. Ci si accorge dell’efficacia e dell’avvedutezza dell’approccio multimarche soprattutto quando si verifica un qualche evento di notevole impatto negativo che, in presenza di forti associazioni tra le marche, provoca danni tanto più estesi e difficilmente riparabili quanto più numerosi sono i prodotti ed i significati coperti dalla marca.

Ancora più frequenti sono i problemi relativi al processo di cannibalizzazione cui un’estensione di marca può dare avvio. È importante, in proposito, distinguere tra quanto è frutto di una strategia deliberata e quanto, invece, una conseguenza imprevista. Una strategia idonea, in certe circostanze, ad affrontare la concorrenza – ed una specificazione di quanto

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abbiamo in precedenza discusso1 circa l’opportunità di attaccare se stessi – consiste, appunto, nel creare un processo di cannibalizzazione in maniera da anticipare le mosse della concorrenza ed occupare posizioni strategiche che, senza l’apparizione dei nuovi prodotti, sarebbero risultate pericolosamente scoperte. Altra situazione è, invece, quella nella quale ci ritroviamo in seguito ad eventi da noi provocati attraverso l’estensione, ma non desiderati né auspicati in partenza: in questo caso, se un’estensione di marca guadagna spazio e vendite a scapito della marca originaria diventa piuttosto improbabile che le nuove vendite addizionali compensino il danno inferto al valore di quest’ultima. È interessante notare come i problemi di cannibalizzazione siano direttamente proporzionali al grado di sovrapposizione dei segmenti coinvolti nell’estensione di linea coinvolgendo implicitamente il livello di coerenza nei termini in cui lo abbiamo in precedenza delineato2.

Nondimeno la separazione tra marche portatrici di identità, concetti ed immagini diverse ha un forte impatto propositivo: ognuna di esse non risente dei vincoli posti dalle associazioni che fanno riferimento alle altre, potendo sviluppare le strategie che più sembrano adatte alla competizione nella particolare categoria di riferimento.

L’approccio multimarche alla strategia competitiva consente di avere una maggiore predisposizione alla creazione di nuovi nomi per sfruttare valori potenziali legati a posizioni ancora non occupate o non sfruttate adeguatamente. Mediante un nome nuovo per la marca è possibile disporre di un veicolo attraverso il quale generare nuove e distinte associazioni senza trascinarsi dietro quelle vecchie. Inoltre, se si opera con tempestività, si può godere del vantaggio del “first mover”, ovvero compiere la prima mossa penetrando una categoria con un prodotto il cui nome spiega la sua funzione e, con l’accrescersi della notorietà, diviene abbastanza generico da stare ad indicare la stessa categoria di appartenenza.

Anticipando quanto verrà espresso nel prossimo capitolo a proposito della scelta di un nome, possiamo indicare i fattori dei quali si impone un’attenta valutazione nella creazione di un nome nuovo ed unico:

1 V. cap. 3.2.1.2 V. cap. 3.4.2.

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- Forza delle associazioni legate al nome e loro utilità descrittiva dell’identità di marca comunicata;

- Forza ed utilità del nome in funzione della formazione di una fedeltà di marca e di un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo;

- Costi che il nuovo nome comporta riguardo alla sua creazione e consolidamento, alla sua visibilità ed alle associazioni che esprime

3.4.4 – Le estensioni di marca verticali.

L’estensione di marca può seguire il solco tracciato da esigenze e condizioni di mercato tra loro anche molto diverse. A riguardo, è possibile individuare nelle estensioni orizzontali e in quelle verticali le forme “pure” entro le quali rientrano le variegate situazioni che si vengono a verificare nella realtà. Le prime corrispondono alla volontà dell’impresa di sfruttare spazi e possibilità che si vengono a creare a lato dell’offerta esistente e che si ritiene possano proficuamente essere occupati attribuendo nuovi e diversi contenuti alla marca. In realtà, non si tratta, a rigore, di vere e proprie estensioni, ma di operazioni di arricchimento dell’offerta attraverso un assortimento diversificato, salvo che la marca non debba percorrere distanze molto lunghe dalla posizione originaria.

Le estensioni verticali di linea, spostamenti della marca verso mercati apparentemente attraenti sopra o sotto la sua posizione corrente, rispondono ad esigenze diverse1. Anche se spesso la tentazione offerta da segmenti emergenti di tipo premium o “value” diviene irresistibile, in realtà, numerosi sono i pericoli connessi ad una siffatta strategia e di essi occorre tenere accuratamente conto nel valutarne la fattibilità. In particolare è l’immagine di marca a rischiare di essere distorta, determinando un impatto negativo su quella di origine.

1 Per una approfondita trattazione dell’argomento si veda D. A. AAKER, Should you take your brand to where the action is?, Harvard Business Review, settembre-ottobre 1997, pp. 135-143.

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Il movimento verticale rivolto verso il basso, verso il territorio dei segmenti “value”, solitamente si riconduce ad opportunità relative al basso costo che emergono entro l’attuale canale distributivo della marca. Questo tipo di estensione verticale promette incrementi di volumi di vendita ed economie di scala, assieme ad una maggiore protezione contro private labels e competitori dal lato del prezzo in genere. Il rischio per la marca è quello di perdere la statura cumulata grazie alla posizione di prezzo relativamente superiore cui si connette la percezione di una qualità superiore. Per ovviare a tale pericolo, una strada percorribile è, al solito, quella che vede l’introduzione di una marca del tutto nuova, la quale, tuttavia, incontra degli impedimenti di rilevante portata nell’onerosità dell’operazione che ne deve affermare l’identità e nel fatto che andrà presumibilmente a scontrarsi contro forti barriere distributive1.

Un’opzione alternativa al lancio di una nuova marca è data dal riposizionamento dell’intera marca su un nuovo mercato ed il modo più semplice per farlo in un movimento verso il basso è attraverso un taglio del livello del prezzo. Anche questo genere di strategia presenta i suoi rischi: se da una parte comporta immediate e pesanti ripercussioni finanziarie potendo dare il via a dure guerre di prezzo, dall’altra può arrecare seri danni all’immagine di marca rinforzando eventuali convinzioni da parte dei potenziali acquirenti circa una sua carenza di differenziazione e di qualità in genere. Pertanto, l’impresa, nel ridurre il prezzo, dovrebbe cercare di alimentare nel consumatore circuiti mentali tali da razionalizzare da parte sua l’utilità del taglio dei prezzi, in modo da ricondurlo nell’ambito di una serie di attività incentrate su una logica giustificativa ed anzi auspicabile anche da parte sua, riconoscendo implicitamente che gli aspetti qualitativi dell’offerta non sono stati toccati2. Inoltre, la valutazione sull’opportunità

1 I distributori dovranno essere convinti che la marca ancora non insediata in alcuna posizione del mercato ha buone possibilità di sopravvivenza e di sviluppo e aggiunge valore alla loro linea per accettarla e, inoltre, per assumere un atteggiamento collaborativo nei suoi confronti. In questo contesto, la nuova marca sarà probabilmente meglio accettata se avrà dietro un’impresa di riconosciuta forza e capacità di affermazione nel mercato.

2 Il rischio di un danneggiamento dell’immagine di marca può essere mitigato fornendole un supporto promozionale nel momento stesso in cui avviene la riduzione di

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di una simile manovra deve tenere conto dello stato della forza di cui dispone la marca: un’immagine debole non può sostenere tale operazione rendendo la rivitalizzazione irrealizzabile. Un ulteriore modo per spostare verso il basso il posizionamento di una marca consiste nel creare del valore e della differenziazione di modo che la marca non sembri più overpriced.

Se il corpo dei clienti di riferimento della marca è disponibile a pagare un premium price, appare inappropriato e senza possibilità di ritorno di adeguati benefici lo spostamento dell’intera marca su una posizione di mercato più bassa al fine di attirare nuovi acquirenti (si tratterebbe, nella migliore delle ipotesi di cambiare un gruppo di consumatori con un altro, con l’aggravante di una probabile riduzione dei margini che dovrebbe essere coperta con un ampliamento dei volumi di vendita il cui grado di plausibilità è tutto da dimostrare). In queste condizioni, la scelta da vagliare dovrebbe essere quella di una sottomarca: una marca con il suo proprio nome che usa quello della marca madre per sostenerne il valore.

Il vantaggio principale offerto da una sottomarca è quello di coadiuvare la differenziazione della nuova offerta da quella della marca madre mentre si utilizza la forza di quest’ultima per influenzare la percezione da parte dei consumatori. d’altra parte, la credibilità ed il prestigio della marca di origine vengono salvaguardati evitando, a corollario, i rischi di cannibalizzazione.

Diversi tipi di relazioni vengono a stabilirsi tra sottomarca e marca madre secondo che prevalga la prima nel guidare i consumatori all’acquisto1, che abbiano pressoché la stessa influenza, o che sia la marca madre ad avere la maggiore influenza, con la sottomarca che svolge

prezzo in modo da far avvertire che, nonostante esso, la marca resta in pieno sviluppo e riceve le tutte le attenzioni del caso senza che vi sia un disimpegno da parte dell’impresa madre. Quest’attività di sostegno, tuttavia, si scontra con la tendenza diffusa di chi si occupa di gestire la transizione a cercare di mantenere fermi i margini nonostante l’abbassamento del prezzo. In assenza di tali investimenti sulla sua immagine, in effetti, la marca rischia di rimanere percepita solamente in funzione del prezzo.

1 Se è la sottomarca a prevalere sulla marca originale l’impresa ha la possibilità di ridurre il rischio di cannibalizzazione e di minimizzarne i danni attraverso una loro gestione attiva e coerente.

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essenzialmente il ruolo di descrittore che avverte i potenziali acquirenti che si tratta di una leggera variante sullo stesso prodotto o servizio che essi ben conoscono1. Comunque, non si tratta di una ripartizione rigida e, per ognuno di questi tipi di relazione, è possibile riscontrare l’esistenza di diverse gradazioni di intensità della caratterizzazione loro propria.

L’obiettivo che sta dietro la scelta strategica di spostare una marca dalla parte principale del mercato verso l’alto è costituito dall’ottenimento di margini superiori, ma, spesso, risulta essere ancora più importante il contributo che il segmento superiore offre alla rivitalizzazione di interi gruppi di prodotti altrimenti “stanchi”. Affinché una marca posizionata nella parte media del mercato possa essere in grado di alterare la propria immagine in misura sufficiente per poter competere nei segmenti alti, essa deve disporre di un elevato grado di credibilità presso i consumatori, poiché, inevitabilmente, essi si porranno la questione se una marca con determinate caratteristiche contenutistiche ed espressive dispone della capacità e della conoscenza necessarie per competere ad un livello superiore ed offrire i benefici funzionali ed emozionali promessi2. Come per i movimenti verso il basso, una strada per accedere agli high-end market è costituita dal lancio o dall’acquisizione di una nuova marca, in modo da evitare il confronto con le associazioni generate attorno alla marca

1 Questa è l’opzione più rischiosa, rimanendo la marca madre vulnerabile alla cannibalizzazione a causa delle minime distinzioni avvertite tra l’una e l’altra marca collegate. Tale rischio è massimo quando la sottomarca è una mera riproduzione della originale con una qualità inferiore e senza ulteriori elementi distintivi. Viceversa, tale rischio viene minimizzato quando la sottomarca segnala ed esprime una differente applicazione o si rivolge ad un target leggermente diverso, tuttavia mancando di una propria spiccata identità.

2 Una volta che una determinata percezione della marca si è sedimentata nella mente del consumatore risulta compito arduo il modificarla, soprattutto verso l’alto. Paradossalmente, una marca nota poi caduta nel dimenticatoio e che ha per questo indebolito le associazioni con il mercato di riferimento avrà maggiori possibilità di successo nel riposizionamento verso l’alto di una che appare più viva e radicata nel sistema percettivo e valoriale dei consumatori, la quale dovrà per questo affrontare maggiori resistenze da parte loro per quanto riguarda l’attribuzione ed il riconoscimento di significati.

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principale. Anche qui, tuttavia, rimarchevoli sono gli aspetti negativi della questione, con elevati costi di insediamento gli esiti dei quali sembrano, in questo caso, essere addirittura maggiori, vista la difficoltà di scalzare gli eventuali concorrenti già presenti e radicati nei segmenti alti.

Il riposizionamento di un’intera marca da un mainstream o da un value market verso un mercato superiore è, in effetti, impresa molto ardua, se non impossibile. Tali marche, infatti, difettano per quanto riguarda quelle associazioni elevate – immagine, personalità, qualità percepita – che costituiscono la base di quel genere di competizione e servono per convincere il consumatore che il prodotto o servizio valga il premium price. Altrettanto rilevante è la considerazione circa i possibili rischi che corre, nonostante l’eventuale apparente successo conseguito, l’ampiezza della base di clienti propria della marca nella sua posizione di origine – il suo maggiore asset – la quale potrebbe risultare sacrificata dalla nuova strategia seguita determinando ripercussioni negative in termini di loyalty. Gli attuali acquirenti di riferimento, in altre parole, potrebbero perdere il feeling con la marca e allontanarsene nel momento in cui essa si trasforma in qualcosa di diverso al fine di attrarre un nuovo mercato.

Per l’utilizzo di sottomarche (così come per le relazioni intercorrenti tra la marca madre e la sottomarca1) valgono le considerazioni fatte nel caso di estensione verticale verso il basso: il ruolo che esse svolgono è quello di ausilio nella differenziazione della nuova offerta premium rispetto alla marca originale, il valore della quale viene nel contempo sfruttato per influenzare le decisioni d’acquisto. Va in particolare posta attenzione al potenziale acquirente che lo spostamento della marca vuole andare ad attirare con la nuova offerta. A volte, può risultare opportuna una strategia

1 Vale la specificazione di Aaker (D. A. AAKER, 1997, op. cit., p.143) secondo cui la situazione più sicura e favorevole per la sottomarca si ha quando essa svolge essenzialmente il ruolo di descrittore continuando la marca madre ad avere la maggiore influenza sui comportamenti d’acquisto. In questo modo, infatti, la sottomarca risulterebbe posizionata contro la marca madre piuttosto che contro i competitori già presenti su quel mercato. Edizioni speciali, versioni “professionali” o “gold”, accompagnate da un premium price, segnalano che la nuova arrivata presenta le stesse caratteristiche in grado di orientare la scelta verso la marca madre con in più degli attributi rafforzativi tangibili.

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che collochi la marca sul versante “basso” del mercato di livello superiore: una simile proposta, pur rimanendo premium, non le fa a percorrere troppo spazio nella mente dei consumatori, potendo richiamare l’attenzione di quelli tra essi che vogliono considerarsi “indipendenti” rispetto alle marche dominanti il segmento alto ed a coloro che, comunque attratti da quest’ultimo, altrimenti, con la propria domanda, non ne incontrerebbero l’offerta sul versante alto1.

1 Non bisogna poi trascurare il fatto che più grande è il salto effettuato, più esso si dimostrerà arduo. Devono, cioè, essere mantenute distanze plausibili tra la sottomarca e la marca di origine, al fine di garantire un adeguato livello di coerenza e continuità tra esse. La distanza percorribile da una marca dipende, infatti, strettamente dal suo grado di presenza nella mente dei consumatori (v. nota 1 a p. 192).

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Capitolo 4

LA COMUNICAZIONE DEL POSIZIONAMENTO

4.1 – Il ruolo della comunicazione nel governo del posizionamento

Nel paragrafo 1.2.2 abbiamo definito il posizionamento come l’occupazione (realizzata o perseguita) di uno spazio mentale da parte di una qualsivoglia entità, caratterizzata da un proprio sistema percettivo interpretativo e volitivo, nei confronti di un’altra entità ad essa omologa allo scopo di determinarne il pensiero ed il corso d’azione. Appare evidente come, affinché un posizionamento possa prodursi, tra le due parti debba occorrere un’interazione di una qualche natura, la quale si risolve, evidentemente, in una forma di comunicazione – in senso ampio – in grado di determinare tra loro uno scambio condiviso di percezioni e di significati.

È il processo comunicativo, quindi, a promuovere lo sviluppo del contesto relazionale in cui sono inseriti gli individui. Per suo tramite i segnali in uscita e quelli in risposta vengono recepiti ed interpretati secondo i codici riconosciuti maggiormente confacenti alla situazione in atto e conformi ai valori che con il tempo si sono affermati. Attraverso la comunicazione – in tutte le sue forme –, il posizionamento prende corpo assumendo le connotazioni che, di volta in volta, essa suggerisce. Di conseguenza, è inevitabile, nell’ambito di un’analisi delle strategie di posizionamento, approfondire gli schemi di funzionamento della comunicazione e le ragioni che ne stanno alla base.

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4.1.1 – La funzione comunicativa degli elementi del marketing mix.

La promozione è, fra le attività del marketing mix, quella che per propria natura offre il maggior contributo a che il messaggio indicato dall’identità di marca, così come definita dai decisori d’impresa, venga trasposto nella mente dei potenziali acquirenti condizionandone il comportamento in senso ad essa favorevole1. Appare, in altre parole, naturale che l’attività proiettiva dei significati della marca sul consumatore sia, in primis, di carattere prettamente comunicativo.

Ciononostante, non bisogna cadere nell’errore di ridurre a questo il significato del processo comunicativo, il quale, lungi dal risolversi nell’elaborazione del messaggio pubblicitario, assume invece rilievo in riferimento a tutti quegli aspetti dell’offerta che la persona percepisce e perciò stesso processa ed interpreta. Così, è possibile riscontrare un carattere comunicativo in molti degli elementi costituenti l’offerta dal punto di vista del prodotto, della distribuzione e del prezzo.

ASPETTI EVOCATIVI DEGLI ATTRIBUTI DI PRODOTTO

Numerose sono le dimensioni percettive con le quali ogni prodotto viene valutato dal potenziale acquirente. Tali dimensioni, rintracciabili a livello di core product, di lateral product o, in modo ancor più marcato, di image2, si riferiscono agli attributi con cui viene determinato, nella mente del consumatore, il concetto espresso dalla marca. Il tramite con il quale la percezione degli attributi del prodotto, passando attraverso il momento elaborativo, diviene significato è costituito dalle ormai note associazioni generate dalla marca. Esse danno origine, attraverso il recepimento di un segnale ed il suo accostamento analogico ad un oggetto di un diverso contesto, all’immagine del prodotto che si forma nell’interlocutore dell’impresa.

1 A riguardo, Gerken (G. GERKEN, 1994, op cit., p. 302) nota che «In fondo la marca è nata praticamente con la pubblicità di marca».

2 V. par. 1.4.1.- 206 -

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Ogni aspetto legato alla funzionalità del prodotto o alla sua forma e connotazione estetica deve essere attentamente analizzato in quanto rappresenta un elemento in grado di evocare – attraverso l’esposizione all’attenzione dei sistemi sensoriali della persona1 – immagini, espressioni, concetti che, se da una parte possono dimostrarsi fondamentali nell’incontrare i punti della personalità del potenziale acquirente più propizi per la marca, dall’altra si dimostrano assai pericolosi qualora non risultino in armonia con il sentire del soggetto. Il design ed il packaging del prodotto sono, a riguardo, determinanti nel trasmettergli l’identità desiderata. Il conferimento di una certa caratteristica contenutistica o espressiva al prodotto e alla confezione deve, perciò, essere valutato, oltre che secondo i dettami delle peculiari caratteristiche del bisogno da soddisfare, in relazione al grado di concordanza e coerenza con il concetto di cui vuole essere rappresentazione in modo tale da rientrare nel mondo concettuale di riferimento del target, in quanto è da quest’ultimo che prendono forma le attese che esso esprime.

Anche i servizi che affiancano il nucleo primario dell’offerta, ma, più in generale, qualsiasi elemento della rete di attività posta in essere per dare estrinsecazione alle associazioni evocate dal concetto di marca, costituiscono dei vettori comunicativi da tenere nella dovuta considerazione nell’edificazione della struttura concettuale della marca. Trascurare aspetti dell’offerta ritenuti di scarsa rilevanza può influenzare, attraverso i legami con cui sono ad essi interrelati, altre più importanti componenti determinando pericolose deviazioni dalla posizione strategica ideale.

In questo contesto, la ricerca della qualità va perseguita in termini relativi. Il riferimento costante deve essere quello alle attese del consumatore – manifeste e latenti – piuttosto che al livello qualitativo assoluto, il quale può non essere effettivamente desiderabile e preferito. La conoscenza delle profonde motivazioni al consumo e l’orientamento al mercato, spinte al massimo dalla ricerca di una fusione con esso,

1 In proposito, è importante valutare l’impatto che i diversi aspetti del prodotto hanno sui sensi della persona. Utilizzare colori, forme, materiali ecc. … non conformi al messaggio trasmesso ed alle associazioni da esso indotte conferisce sfocatura o, ancor peggio, contraddittorietà all’immagine di marca.

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assurgono, allora, al ruolo di guida primaria del comportamento strategico d’impresa. Questo non significa, tuttavia, che deve esserci una mera aderenza a tali attese, dovendo svolgere, la marca, anche una funzione che le elevi ed orienti sotto il profilo ideale rendendosi ambita. È importante che la marca non esprima tutto: deve fare immaginare ed agognare l’appartenenza ad un nuovo, desiderato, mondo di significati che funge da esemplare e immaginario riferimento per le attese e le aspirazioni della persona.

La distanza mentale tra il potenziale acquirente e i concetti espressi dalla marca non deve essere, però, eccessiva, lasciando prefigurare la reale possibilità di essere colmata. La situazione ad elastico che si viene a creare tra distanza e raggiungibilità, se ben gestita, giustifica, infatti, l’esistenza di un premium price fruibile dall’impresa e accettato dal mercato.

IL CONTRIBUTO DELLA DISTRIBUZIONE ALL’IMMAGINE DI MARCA

Criteri analoghi a quelli indicati per il prodotto valgono per la distribuzione, il cui ruolo comunicativo (il quale le consente di colmare la distanza psicologica oltre che quella fisica tra i diversi terminali della catena distributiva) non deve assolutamente essere sottovalutato. Particolare è, semmai, la maggiore rilevanza espressiva che essa assume riguardo ai segmenti alti del mercato, dove costituisce l’anticamera che introduce il potenziale acquirente alla qualità percepita. Ogni possibile riferimento ed associazione evocabile assume in quel caso un valore rilevante la cui considerazione diviene elemento ineludibile per una comunicazione integrata efficace. L’ambiente di vendita (che assume le forme di una vera e propria scenografia nella quale il cliente si trova a

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muovere1), la particolare ubicazione dei punti di vendita2, gli eventuali altri prodotti cui l’offerta dell’impresa viene ad essere affiancata e tutto ciò che sia in grado di essere associato al concetto espresso dalla marca costituisce un aspetto da curare attentamente perché si producano le associazioni mentali desiderate e non altre, in modo da aumentare il valore della marca stessa e la sua desiderabilità e spessore.

Nella scelta del particolare assetto da dare al canale distributivo, perciò, rilevano non solo le caratteristiche estrinseche (di natura essenzialmente quantitativa) della domanda – caratteristiche e dimensioni del mercato e comportamento d’acquisto, caratteristiche fisiche e tecniche dei prodotti, ampiezza di gamma, dimensioni dell’impresa e risorse finanziarie a sua disposizione, ecc. –, ma anche quelle intrinseche determinate dalle associazioni relative al peculiare mondo concettuale di riferimento vissuto dal consumatore con il quale l’immagine di marca si deve confrontare. È la reputazione detenuta o perseguita a spingere, tuttavia e in generale, alla ricerca di un maggiore controllo del canale distributivo.

Ponendo nelle due dimensioni di una matrice, come in figura 4.1, il livello dell’immagine di marca percepita e il grado di coinvolgimento di cui il consumatore è portatore, è possibile ottenere un’indicazione circa le strategie distributive di fondo seguite dall’impresa.

La combinazione di un’elevata immagine di marca percepita con un forte coinvolgimento dei potenziali clienti nel processo di acquisto consente e suggerisce l’impostazione di una strategia distributiva

1 Forme, colori e luci che caratterizzano l’arredo interno ed esterno, criteri espositivi, abbigliamento (persino le acconciature) del personale, presenza di eventuali servizi collaterali offerti, e tutto quanto altro possa, toccando i punti fermi presenti e consolidati nell’immaginario del particolare profilo del cliente cui ci rivolgiamo (ricorrendo a piene mani all’armamentario di luoghi comuni che lo contraddistingue), deve essere studiato in modo da provocare le reazioni desiderate in termini di acquisizione di diversità, rilevanza, stima e familiarità da parte della marca.

2 Per esempio, un punto di vendita situato in una zona centrale e nell’ambito di un insieme di attività commerciali di alto profilo goderà, a tutta evidenza, di un benefico vantaggio e ritorno in termini di immagine percepita, sfruttando il contributo catalizzatore di quelle relative a soggetti già appartenenti al mondo concettuale di riferimento ed in esso consolidate.

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altamente selettiva che, calibrata opportunamente, può spingersi fino ad arrivare alla definizione di rapporti di esclusività. Appartengono a questa categoria le marche di prestigio (ad esempio gioielli, auto ed orologi di lusso, alta moda…), le quali, mentre da una parte sono orientate alla soddisfazione di bisogni simbolici puri, dall’altra consentono all’impresa il conseguimento di elevati margini di profitto. Gli attributi di notorietà e di stima sono in esse considerevolmente sviluppati sia grazie ad una qualità effettivamente superiore e mantenuta tale nel tempo attraverso uno sviluppo continuo, sia in virtù del crearsi attorno alla marca di un guscio protettivo dovuto ad un processo di elevazione e mitizzazione che, alimentata dal luogo comune e da referenze ritenute tout court significative ed affidabili, a ben guardare pare, a volte, trascendere i reali meriti effettivi. La diversità è poi il frutto naturale della posizione, sopraelevata rispetto al mero bisogno da soddisfare, acquisita nella mente del pubblico. La familiarità, infine, è insita nella stessa essenza di luogo comune di riferimento per l’apice della categoria concettuale di appartenenza.

Figura 4.1 - Strategie distributive di fondo

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Coinvolgimento del consumatore

BassoElevato

Immagine di marca percepita

Elevata

Bassa

DISTRIBUZIONE SELETTIVA – ESCLUSIVA

DISTRIBUZIONE SELETTIVA DIMINUITA (RIDOTTA)

DISTRIBUZIONE INTENSIVA

INNALZATA E SCREMATA

DISTRIBUZIONE INTENSIVA

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La distribuzione esclusiva, di cui il franchising è un caso particolare, rappresenta l’ipotesi estrema della distribuzione selettiva e costituisce una base indispensabile per il sostenimento e lo sviluppo della marca-mito. Se essa deve essere ben presente all’interno dell’immaginario percettivo del mercato, è altrettanto vero che la facile accessibilità (in senso ampio) della marca si oppone alla sua valorizzazione. Il bisogno e la soddisfazione non dovrebbero mai essere completamente appagati, lasciando spazio perché il desiderio accresca in spessore.

Oltre a vantaggi in termini di immagini, la distribuzione selettiva spinta, permette una riduzione dei costi relativi a quest’attività e una migliore collaborazione da parte dei distributori in termini di maggiore accettazione e promozione dei prodotti e di gestione delle informazioni di ritorno. Il rischio che fa da contraltare a questa strategia è costituito da una minore copertura del mercato che potrebbe risultare insufficiente, la quale, trattandosi fondamentalmente di una questione di presenza e visibilità, deve essere perseguita assicurandosi che il consumatore sia in grado di identificare con facilità e immediatezza il distributore.

La situazione opposta al caso della distribuzione esclusiva si ha quando ad una bassa immagine di marca percepita si combina un ridotto coinvolgimento del consumatore ed inerisce tipicamente le marche operanti nei commodity market, dove cioè troviamo prodotti di natura essenzialmente funzionale associati a margini ridotti. In questi casi la strategia distributiva diventa intensiva nel tentativo di assicurare la massima copertura dell’area di vendita rendendo facilmente disponibile il prodotto nel momento in cui si avverta il bisogno ad esso correlato. Vantaggi e svantaggi legati a questa opzione sono speculari a quelli visti per la distribuzione esclusiva: da una parte si ha una banalizzazione e un’omologazione dei contenuti dell’immagine di marca, dall’altra, ad elevati costi di distribuzione si aggiungono problemi di controllo della fase di commercializzazione, in ogni caso venendosi a determinare una gestione più difficoltosa del posizionamento perseguito. In effetti, questa particolare strutturazione dell’assetto distributivo ben poco ha da offrire ala marca in termini di immagine proiettata e percepita, dovendosi procedere in prospettiva ad un rafforzamento dell’immagine stessa, il quale

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evidentemente passa anche attraverso una maggiore selettività della distribuzione.

Tra queste situazioni distributive estreme passano innumerevoli varianti intermedie tra cui possiamo identificare due idealtipi di transito che è possibile riscontrare nella realtà.

L’esigenza di accrescere i volumi di vendita associati ad un’immagine forte, ma ad un basso coinvolgimento del potenziale acquirente, talvolta spinge l’impresa a diminuire il livello di selettività allontanandosi progressivamente dal limite dell’esclusività. È questo il caso dei prodotti di marca venduti a basso prezzo, per i quali la natura prevalente del principale vantaggio richiesto è ancora quella simbolica, ma l’entità del margine di profitto offerto dal prodotto viene a ridursi. Una scelta in questo senso, specialmente se rilevanza, stima e diversità poggiano in maniera accentuata su fattori legati all’immagine, può essere molto pericolosa per l’impresa togliendo valore e focus al suo posizionamento ed erodendone il valore aggiunto. In realtà, spostando verso il basso l’immagine percepita della marca, si finisce per porla su uno spazio mentale, quello dei prodotti che soddisfano il bisogno sottostante sulla base di un buon rapporto qualità/prezzo, che non le è proprio, costringendola a competere su un terreno in cui sono già insediati e radicati concorrenti in grado di praticare con successo strategie difensive.

Altre volte il punto di partenza dell’evoluzione di questo genere di strategia è quello della distribuzione intensiva con un progressivo innalzamento a livello di immagine. Il riferimento è tipicamente ai prodotti funzionali specializzati (per esempio impianti hi-fi, personal computer, utensileria…), per la maggior parte dei quali prevale un elevato coinvolgimento del consumatore cui si accompagna un’immagine percepita di marca di basso profilo. Fanno eccezione i leader di categoria che si muovono nella prospettiva di testare l’ingresso nel quadrante superiore sinistro (senza tuttavia andare a collocarvisi perché, paradossalmente, andrebbe perso, agli occhi dei potenziali acquirenti, il momento del confronto diretto con i concorrenti di più basso livello il quale, per questo genere di prodotti, risulta un fattore determinante nella conquista di una

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preferenza concessa dal mercato). In questo contesto, notorietà, familiarità e stima sembrano essere elementi preponderanti rispetto alla diversità.

IL PREZZO E LA PERCEZIONE DEL VALORE DI MARCA

Le decisioni di prezzo devono anch’esse essere coerenti con la strategia di posizionamento1 (e non potrebbe essere diversamente) seguendo quella che Lambin definisce una “coerenza esterna” la quale, tenendo nella dovuta considerazione le implicazioni imposte da domanda e concorrenti, si aggiunge ad una coerenza di più stretta natura interna concernente i vincoli di costo e di redditività2.

Il prezzo, in effetti, influenza pesantemente la percezione globale del prodotto e della marca costituendo, perciò, un elemento strategico imprescindibile dell’immagine di marca e del posizionamento adottato dall’impresa. Inoltre, in un’ottica competitiva pura, il prezzo obbliga al confronto tra i competitori sul mercato essendo punto di inevitabile contatto tra le rispettive offerte. Di più: la sensibilità del posizionamento di fronte a variazioni di prezzo pare essere, causa la sua grande visibilità, superiore a qualsiasi altra sua determinante, generando repentini quanto forieri di conseguenze mutamenti nelle percezioni valoriali dei potenziali acquirenti.

1 Così, per esempio, ad un posizionamento di qualità deve corrispondere un prezzo elevato, oltre che un packaging adeguato ed una distribuzione maggiormente orientata alla selettività (la strategia di prezzo deve inoltre dare spazio ai margini di distribuzione necessari a realizzare gli obiettivi di copertura del mercato prefissati), in modo, tra l’altro, da permettere di finanziarie la strategia promozionale e pubblicitaria.

2 J. J. LAMBIN, 1996, op. cit., p. 409.- 213 -

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I fattori che concorrono a determinare la sensibilità al prezzo presentata dai potenziali acquirenti considerando l’impatto che esso ha sulla domanda, sono così identificati da Nagle3:

Esistenza di qualità distintive importanti per l’acquirente. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando il prodotto presenta attributi unici. Viene, cioè, sacrificato qualcosa dal punto di vista economico per ottenere un plus distintivo il cui valore è evidentemente superiore per il consumatore.

Conoscenza dell’esistenza di sostituti. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando non sono al corrente dell’esistenza di sostituti. La deficitarietà di informazione può derivare dall’effettiva sua assenza, da una conoscenza insufficiente da parte del consumatore-valutatore, od anche dalla confusione generata dalla rumorosità ambientale (eccesso di informazione).

Difficoltà di confronto di prezzo. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando le prestazioni dei prodotti sono difficilmente comparabili. Questo genere di carenza informativa va solitamente a vantaggio della marca che ha l’immagine più nitida nella mente di chi sceglie.

Valore della spesa. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando essa rappresenta una porzione minima del loro reddito complessivo. La considerazione di questo aspetto della sensibilità dimostrata dalla domanda permette di intraprendere strategie di premium price con una competizione sui segmenti alti anche per categorie di prodotto altrimenti considerate povere rispetto ai cosiddetti beni di lusso.

Valore del prodotto finito. Gli acquirenti sono tanto meno sensibili al prezzo quanto più piccolo è il vantaggio finale offerto dal prodotto. Questa determinante offre la possibilità di analizzare la sensibilità al prezzo rispetto all’insieme di utilità percepite collegate all’acquisto del prodotto ed al livello di soddisfazione da esse generate.

3 T. T. NAGLE, The strategy and tactics of pricing, Englewood Cliffs, Prentice Hall, Inc, 1987 (citato in J. J. LAMBIN, 1996, op. cit., p. 419).

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Effetto del costo condiviso. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando il costo del prodotto è condiviso con altri,

Effetto dell’investimento. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando il prodotto è utilizzato come complemento di un altro prodotto principale, acquistato in precedenza, il quale costituisce un investimento già effettuato. L’idea di un completamento dell’investimento pare essere, in questo caso, una scelta dovuta per incrementarne – o quantomeno per difenderne – il senso ed il valore.

Effetto del rapporto qualità/prezzo. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando il prodotto è associato ad un’immagine di qualità, prestigio, esclusività. Il beneficio avvertito e ricollegato all’acquisizione di una migliore immagine oscura, per i consumatori che avvertono come primari i bisogni simbolici, il maggiore onere da sostenere.

Effetto-scorta. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando non hanno la possibilità di immagazzinare il prodotto.

Nel procedere a riduzioni o ad aumenti di prezzo occorre tenere in grande considerazione la particolare situazione nella quale la modificazione del prezzo va a inserirsi e le probabili conseguenze che essa determinerà.

In primo luogo il prezzo è, spesso, la variabile ultima e definitiva presa in considerazione dagli acquirenti, quella, in altre parole, in grado di determinare in un senso o nell’altro il risultato dell’attività di interpretazione dei segnali in entrata e della loro integrazione con le esigenze percepite, di qualunque natura, consapevole o meno, esse siano. L’incidenza del prezzo quale indicatore di valore e volano attrattivo per il consumatore fa comunque i conti con le peculiarità che il mercato di riferimento presenta. Quello che per certi prodotti vale con riferimento ad un determinato contesto temporale, spaziale, simbolico, può non valere in altre situazioni divenendo, anzi, un ostacolo in più per la proiezione dell’immagine di marca desiderata1. Ancora una volta lo studio delle

1 Il fatto che non esistano prove definitive circa l’assoluta correlazione intercorrente tra prezzo e qualità è affrontato, assieme all’analisi dei contributi offerti in proposito da altri studiosi, in V. A. ZEITHAML, Consumer perceptions of price, quality, and value: a means-end model and synthesis of evidence, Journal of marketing, luglio 1988, pp. 2-20.

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associazioni evocate costituisce l’elemento discriminante al quale fare riferimento nell’individuare il prezzo che maggiormente può concorrere, attraverso la coerenza e l’evocatività, ad aumentare il valore percepito della marca.

Secondariamente, ma non meno importante, occorre considerare il contesto concorrenziale in cui opera l’impresa. In senso generale, la struttura del mercato influenza pesantemente la struttura dei prezzi praticabili dall’impresa, secondo che essa si trovi di fronte a competitori numerosi ed agguerriti o ad una schiera meno fitta, anche se magari più influente in termini relativi, di concorrenti. Del resto, pensare una strategia di prezzo solamente con riferimento alle condizioni interne di produzione o alla comunicazione di un determinato posizionamento che essa andrebbe a promuovere, trascura l’importante considerazione delle reazioni da parte della concorrenza che ogni mossa va a determinare. Operare in un mercato tendente ad essere perfettamente concorrenziale presenta diverse implicazioni e differenze rispetto, per esempio, all’essere inseriti in una situazione oligopolistica, sia nei ristretti termini del prezzo di fatto praticabile per poter essere competitivi, sia riguardo ai condizionamenti che la definizione di un prezzo piuttosto che un altro produce in merito ai possibili scenari che si aprono per l’impresa1.

Il ruolo delle strategie di prezzo nel conseguimento del posizionamento, inoltre, è accresciuto a causa dell’accorciamento del ciclo di vita della marca (dovuto in gran parte all’accelerazione del progresso tecnologico) che impone di conseguire una redditività soddisfacente molto in anticipo rispetto a quanto accadeva in passato2 e della sempre maggiore frammentazione e rumorosità del mercato, tra la proliferazione di nuove

1 Una non attenta o presuntuosa considerazione delle forze in campo che costituisca la base di una scelta di prezzo particolarmente aggressiva potrebbe dare il via, ad esempio, ad una guerra di prezzo che, nel caso i concorrenti disponessero di elevate risorse e riserve da dispiegare al bisogno, avrebbe esiti controproducenti, quand’anche non disastrosi, per l’impresa.

2 Aumentano notevolmente anche i rischi, data la delicatezza della definizione del prezzo di introduzione, visti i problemi in cui l’impresa successivamente incorre nel correggerlo.

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marche e prodotti sempre meno – in senso relativo – differenziate tra di loro, il continuo e crescente ricorso ad estensioni di linea.

4.1.2 – Posizionamento e modelli comunicativi.

Per comunicazione d’impresa intendiamo, come abbiamo accennato nel par.1.4.3, quanto collega l’identità di marca trasmessa (più o meno intenzionalmente) con l’immagine che ne risulta proiettata nella mente del target prescelto, risultando determinante quanto viene recepito al termine del processo di interazione. Possono, infatti, verificarsi disastrose quanto inattese discrepanze tra quello che l’emittente aveva inteso comunicare e quello che è stato effettivamente percepito dal ricevente. Il focus deve allora essere posto non tanto sul momento dell’emissione del messaggio, quanto sul messaggio ricevuto in modo da assicurare l’aderenza degli effetti alle intenzioni.

Il percorso che ha portato all’identificazione di modelli comunicativi anche molto semplici non ha subito un accelerazione rimarchevole fino all’ultimo secolo. Solamente nel 1949 Shannon e Weaver offrirono un primo, all’apparenza banale secondo il nostro odierno punto di vista, modello di comunicazione, definendo quest’ultima come «il trasferimento di informazioni da un emittente ad un ricevente a mezzo di messaggi»1.

Il noto modello di Shannon e Weaver è illustrato in figura 4.2. Il percorso comunicativo che porta i segnali trasmessi ad essere percepiti e poi interpretati, inizia con l’emissione di un messaggio da parte di un soggetto che si avvale, a tal fine, di un codice semiotico attraverso il quale rappresentare simbolicamente (le parole sono i simboli per eccellenza) i significati che intende esprimere. Per la riuscita del processo comunicativo è essenziale che l’emittente e il ricevente facciano riferimento ad un comune codice interpretativo, in modo da risultarne favorita la generazione di associazioni evocate e condivise e, quindi, il posizionamento stesso. Infatti, una volta che il messaggio, attraverso il particolare canale adottato,

1 C. E. SHANNON, W. WEAVER, La teoria matematica delle comunicazioni, Etas Kompass, 1971 (citato in N. DAMASCELLI, Comunicazione e management, Franco Angeli, 1993, p. 11).

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perviene alla soglia dell’attenzione del ricevente, questi sarà chiamato alla sua decodifica, la cui facilitazione deve essere perseguita con ogni mezzo. La maggiore garanzia di riuscita si ha, allora, nel momento in cui la marca raggiunge un livello spinto di sintonia (fusione) con il mercato, ideale presupposto per la creazione ed il consolidamento di un rapporto effettivamente dialettico e reciprocamente vantaggioso in termini rispettivamente di aspettative percepite e di attese soddisfatte.

Questa fondamentale razionalizzazione del processo comunicativo trascura, tuttavia, numerosi importanti aspetti che invece occorre considerare al fine di una sua più definita e puntuale contestualizzazione. In particolare, vanno indagate le ragioni che stanno dietro la comunicazione posta in essere: carattere, motivazioni, attese, atteggiamenti, cultura degli attori, natura e comportamento dell’ambiente nel quale la comunicazione di

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MESSAGGIO

EMITTENTE

CANALE

MESSAGGIO

RICEVENTE

Codifica

Decodifica

Rumori (disturbi)Codice

Figura 4.2: Il processo di comunicazione secondo il modello di Shannon e Weaver

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svolge (partecipe o neutrale, favorevole o avverso) e dei soggetti in esso presenti sono tutti elementi in grado di conferire significati differenti al messaggio.

Un particolare impegno occorre nell’identificare il tipo di codice utilizzato nello scambio di segnali: se il porre attenzione alla concordanza degli specifici codici linguistici di cui sono portatori l’emittente ed il ricevente può sembrare sufficientemente ovvio da non necessitare di un’ulteriore approfondimento, la concordanza dei codici culturali pare esserlo molto meno. Per guadagnare l’accesso alla mente degli interlocutori privilegiati occorre, ai sensi di quanto suggerito dalla ricerca di una “fusione spinta” con essi, parlare attraverso i loro stessi simboli e portati culturali, in modo da immettere nel macrosistema interpretativo dei concetti che, basati su assunti ormai affermati e sedimentati, presentano un rischio di rigetto assai inferiore rispetto all’immissione e sostegno di altri significati spesso distanti da quelli che invece paiono essere i fondamentali sostegni alla base del sistema valoriale dell’individuo, quand’anche non apertamente contrastanti con esso. La perdita di tali sostegni, infatti, porrebbe il soggetto in una posizione di precarietà ed insicurezza che egli ha tutto l’interesse di evitare.

Pertanto, la comunicazione deve preferibilmente basarsi su ciò che è già presente nella mente dei potenziali acquirenti in maniera tale da sviluppare, in senso favorevole per la marca, concetti che, accordando valori e bisogni riconosciuti dal consumatore, ma ancora inespressi ed a livello meta-cosciente, ne aumentino le probabilità di successo. In proposito, Trout e Rivkin sostengono l’inutilità degli sforzi di cambiare la mente in termini di ciò che più aggrada l’impresa, dal momento che la mentalità del mercato è – e deve sempre essere considerata – un qualcosa di dato, indirizzabile solo fino a un certo punto1. Voler essere qualcosa che non le viene riconosciuto, a causa della presenza di associazioni evocatrici di concetti inconciliabili con l’immagine proposta, porta l’impresa ad una perdita di focalizzazione generando seri problemi di posizionamento (in particolare, è questo tipicamente il caso delle estensioni di linea2). Fare

1 J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., pp.45-50.2 Cfr. cap. 3.4

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mutare l’atteggiamento verso la marca risulta essere, così, una mera perdita di tempo e di risorse preziose: quando il mercato decide cosa pensare di un prodotto, niente può cambiare questa convinzione.

La difficoltà incontrata nel fare accettare nuovi significati che non si pongono in derivazione diretta ed in sintonia con i concetti di fondo che caratterizzano il sistema di convinzioni dei potenziali acquirenti, trae origine dall’atavica resistenza degli individui al cambiamento. Dal momento che le convinzioni delle persone forniscono il fondamento cognitivo di ogni atteggiamento, per riuscire a modificare quest’ultimo occorrerebbe intervenire all’origine attraverso l’eliminazione delle convinzioni precedenti per poi introdurne di nuove. Si tratta, a tutta evidenza, di un impegno che richiederebbe sforzi titanici e sarebbe difficilmente produttivo di risultati apprezzabili, poco importando che le considerazioni volte a far mutare l’atteggiamento siano plausibili e veritiere, se esse vanno a scontrarsi contro argomenti e concetti già sedimentati: le persone sembrano dare ascolto solo a ciò per cui hanno orecchie, misurando e valutando tutte le informazioni in entrata con il metro della conformità a quanto risulta già presente nel proprio bagaglio conoscitivo ed interpretativo1.

Di qui l’importanza dell’usare come base di lavoro per il posizionamento quanto è attualmente riscontrabile nel mondo concettuale di riferimento del target cui ci rivolgiamo e risiede nella cosiddetta “memoria semantica”, la zona del cervello nella quale, secondo gli psicologi, è collocata la forma di memoria più durevole, quella che consente di discernere tra i diversi elementi presenti nel mondo esterno. È spesso sulla base di queste considerazioni che si procede al recupero di vecchie idee ed associazioni in grado di attivare circuiti di significati coerenti con quanto è presente nella mente dei consumatori da una parte, e con la particolare strategia competitiva seguita dall’impresa dall’altra.

1 L’individuazione delle associazioni in grado di legare vecchi e nuovi concetti all’interno degli spazi mentali rappresenta il momento principale nell’elaborazione della strategia comunicativa.

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Nel 1967 ritroviamo, ad opera di Watzlavick, un momento di rottura nell’approccio agli studi sulla comunicazione2. L’autore pone in evidenza una proprietà del comportamento fino ad allora non sufficientemente considerata: il fatto che il comportamento non ha il suo opposto. Non esiste un non comportamento, o, in altre parole, non si può non tenere un comportamento qualunque sia la sua natura e la sua origine. Fare o dire una cosa hanno un significato il cui valore informativo non eccede quello relativo al non fare o non dire quella cosa. Sotto questa prospettiva di analisi, risulta perciò evidente come in ogni azione sia riscontrabile un messaggio – quindi un’informazione vera e propria – in grado di farci comprendere le ragioni ultime che l’hanno determinata. Non esistono, in conseguenza di ciò, comportamenti giusti o sbagliati in partenza. Starà semmai all’abilità ed alla sensibilità dell’osservatore comprendere la reale natura e portata di una condotta derivandone, attraverso il messaggio sottostante, le caratteristiche essenziali3.

Se ogni comportamento esprime un suo significato, ne consegue, per sillogismo, che tutto è comunicazione. Conferendo all’intero concetto di comportamento, inserito in una situazione di interazione sociale, il valore di messaggio si ha per contrasto che, per quanto ci si sforzi, non è possibile non comunicare. Attività ed inattività, parole e silenzio hanno, in senso oggettivo, il medesimo valore comunicativo: non esiste una manifestazione del proprio pensiero che sia “più vera” di un’altra. Varierà, più o meno consciamente, questo sì, l’intensità con cui il messaggio viene immesso nel circuito comunicativo stando a sottolineare la rilevanza assunta per l’individuo, ma questo non inficia la considerazione iniziale aumentandone, anzi, la portata. Ogni comportamento, poi, avendo la valenza di messaggio, non esaurisce i propri effetti induttivi sull’interlocutore più immediato, ma

2 P. WATZLAVICK, J. H. BRAVIN, D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971 (citato in N. DAMASCELLI, 1993, op. cit.).

3 Afferma Oscar Wilde che «Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze». Quanto sia vera e profonda questa constatazione, la quale dovrebbe rimanere ben presente nella mente di chi si occupa di comunicazione e, più in generale, di marketing, è stato riconosciuto dagli studi di psicologia solo molto tempo più tardi e non cessa tuttora di mostrare le infinite sfaccettature che assume e le implicazioni che comporta.

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influenza gli altri terminali delle interrelazioni, i quali non possono non assumere a loro volta un atteggiamento in risposta allo stimolo ricevuto, finendo, attraverso la comunicazione, per influenzarsi vicendevolmente.

In seguito al fondamentale contributo di Watzlavick è possibile riformulare il concetto di comunicazione intendendo per essa qualsiasi evento, oggetto, condotta che modifica il valore di probabilità del comportamento futuro di un organismo. Le implicazioni a livello di impresa, divenute impellenti a seguito di questa nuova definizione di comportamento, sono notevoli e offrono importanti indicazioni prescrittive, rendendo necessaria un’attenta e consapevole determinazione e formulazione delle strategie comunicative più opportune ed una chiara definizione degli obiettivi per la comunicazione.

Un aspetto fondamentale della comunicazione è costituito dal fatto che essa è sempre a due vie. Infatti, se da una parte l’emittente trasmette un messaggio al ricevente, quest’ultimo è sempre in grado1 di rispondere emettendone a sua volta uno verso il primo emittente in modo da renderlo consapevole dell’effetto su di lui indotto dal messaggio originario, ed influenzandone in questo modo il comportamento negli stessi termini nei quali lo era stato il suo. Parole e comportamenti vengono così a costituire il motore del processo comunicativo.

L’impresa deve tenere nella dovuta considerazione questa rappresentazione dello schema comunicativo: solo attraverso lo sviluppo di una spiccata capacità di “ascoltare” e di “leggere” i messaggi ricevuti interpretandoli e rispondendo nella maniera più consona, infatti, è paventabile il raggiungimento di un adeguato livello di fusione con il mercato, strada obbligata da percorrere per conferire spessore e sostenibilità al vantaggio competitivo. È il momento dell’interlocuzione con i potenziali acquirenti a fornire all’impresa i più rilevanti elementi di apprendimento circa le loro esigenze ed aspettative, consentendo, indispensabile premessa, di ottenere una comunicazione in uscita più mirata ed efficace.

1 L’interazione tra le parti del processo comunicativo si attua sempre, anche quando, all’apparenza, una risposta non pare concessa al ricevente, come nel caso della comunicazione radio televisiva.

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Non sempre la comunicazione procede linearmente e senza alterazioni dall’emittente al ricevente evitando l’intralcio posto dalla rumorosità contestuale, la quale viene amplificata dalle carenze riscontrabili nell’orientamento al mercato proprio dell’impresa. Molti fattori, in effetti, sono potenzialmente in grado di influenzare la trasmissione dei messaggi. Alcune alterazioni sono connesse a problemi di linguaggio: esse occorrono quando le parole usate per esprimere un concetto non riescono ad estrinsecarlo al meglio, oppure quando l’interlocutore volontariamente sottace parti importanti del ragionamento, oppure, ancora, allorché si ricorre ad una interlocuzione di scarsa comprensibilità e fruizione per chi riceve il messaggio.

In altri casi, la comunicazione subisce delle distorsioni perché alcune parole risultano incomprensibili alle orecchie del potenziale acquirente, vuoi per scarsa conoscenza dei vocaboli, vuoi per l’inadeguatezza della sua cultura. Si determina, allora, una situazione ampiamente richiamata in precedenza: la mancata fusione con il mercato determina la disomogeneità del codice culturale che interviene nel raccordare i significati espressi dalle parti coinvolte nel processo comunicativo.

Altri fattori intervengono nell’influenzare quantità e qualità delle informazioni effettivamente scambiate: la capacità di ragionamento astratto, la potenzialità di ideazione, l’organizzazione del ragionamento, la presenza di elementi inconsci evocati in chi ascolta, tramite le associazioni, dalle parole utilizzate nel messaggio. Caratteristica comune di tutte queste alterazioni è, comunque, il loro legame con la personalità ed il vissuto dell’interlocutore nelle loro diverse e multiformi sfaccettature. Se a tutto questo aggiungiamo il contributo, pur rilevante, alla confusione cagionato dagli elementi situazionali di contorno e dalla molteplicità dei messaggi inviati in una stessa direzione, abbiamo come risultato un quadro altamente frammentato e caotico per muoversi nel quale chi si occupa di posizionamento e di comunicazione in generale, deve possedere notevoli doti di sensibilità e perspicacia orientando la marca verso quell’ideale sintonia con il mercato che, sola, può determinarne un vantaggio competitivo differenziale sostenibile.

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4.1.3 – Lo stimolo delle percezioni.

Stante la stretta relazione tra posizionamento, immagine di marca e associazioni generate ed il rilievo da queste ultime assunto nei tre livelli identificabili con riferimento al particolare grado di astrazione di cui sono portatrici (attributi, benefici, atteggiamenti)1, occorre sottolineare come, per tali livelli – i quali ruotano attorno alle percezioni dei consumatori – si renda necessario un approccio comunicativo integrato. Come fa notare Mandato, i messaggi che l’impresa invia ai potenziali acquirenti devono basarsi in maniera integrata sugli attributi fisici dell’offerta, sui benefici che essa apporta (fondamentale è, a riguardo, la capacità di dare una risposta alle attese dei consumatori) e su uno sforzo in grado di far convergere, attraverso la fusione, i valori condivisi dal cliente con la marca verso atteggiamenti ad essa favorevoli2. Diverse strategie di promozione e sviluppo del posizionamento assunto, cui corrispondono diversi schemi associativi chiamati in causa, possono essere adottate con riferimento alla situazione competitiva in cui l’impresa è inserita ed ai particolari obiettivi affidati alla comunicazione3.

Gerken rileva come, in una società contraddittoria e in via di frammentazione come la nostra, le determinanti dell’efficacia comunicativa siano rintracciabili nella prossimità e nella simpatia, nella credibilità (senza l’intervento mediatore della quale «le promesse di soluzione dei problemi e del posizionamento non possono venire trasportate efficacemente»), nell’attualità dei concetti espressi (capace di divenire «interpretazione sociale dello spirito del momento») e nella rilevanza della vita reale nella comunicazione (sostenendo giustamente, in proposito, che «le promesse relative al prodotto portano a una risonanza positiva fintanto

1 V. par. 2.3.1.2 G. Mandato, 1996, op. cit., pp. 107-108.3 Tuttavia, nell’ambito di tale integrazione, le diverse componenti che la

determinano non hanno tutte la stesso rilievo e, conseguentemente, non presentano il medesimo peso, potendosi ritenere per certa l’esistenza di una certa preminenza degli ultimi due livelli rispetto agli attributi fisici del prodotto. Saranno quindi benefici apportati e atteggiamenti di riferimento ad avere la maggiore influenza nella generazione delle associazioni dalle quali prendono corpo l’immagine di marca ed il particolare posizionamento assunto.

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che seguono un bisogno di informazioni autentico e situativo, e non bisogni di consumo generali e categoriali»)1.

Gli obiettivi della comunicazione pubblicitaria possono essere riferiti ai tre fondamentali livelli di risposta del mercato: cognitiva, affettiva e comportamentale. La prima inerisce l’insieme delle conoscenze e delle opinioni trattenute nella memoria2, le quali vanno ad influenzare l’interpretazione degli stimoli ed il comportamento. Quantità, disposizione e capacità evocativa delle informazioni disponibili dipendono dalla particolare capacità percettiva e dallo stile cognitivo dell’individuo preso in considerazione. Obiettivi di informazione, familiarizzazione, richiamo vengono posti per innalzare i livelli di notorietà e conoscenza connessi a questo tipo di risposta.

La risposta affettiva rimanda ad uno spazio mentale non più solamente dominato dalla conoscenza, ma dove troviamo una pregnante presenza di elementi di natura eminentemente estimativa quali sentimenti, preferenze, intenzioni, considerazioni e giudizi positivi o negativi sulla marca. Con riferimento al sistema di valori, atteggiamenti, preferenze gli obiettivi comunicativi ruotano tutti attorno alla valorizzazione dell’immagine di marca ed alla persuasione.

La risposta comportamentale concerne il comportamento di risposta degli acquirenti in termini di acquisti effettuati e di informazioni di ritorno. L’individuazione e la descrizione dei comportamenti d’acquisto è utile per disegnare il profilo del consumatore evidenziando punti di aderenza e carenze della posizione attualmente ricoperta dalla marca rispetto alle attese esplicitate attraverso tale risposta.

I tre livelli di risposta gerarchicamente intesi costituiscono altrettanti fasi attraversate in successione all’interno del più generale modello di apprendimento, il quale, come riconosce Lambin, consente di definire una scala di obiettivi cui corrispondono particolari effetti3:

1 G. GERKEN, 1994, op. cit., p. 303.2 Cfr. cap. 2.1.2.3 J. J. Lambin, 1996, op. cit., pp. 467-469.

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- Promuovere la domanda globale per la categoria di prodotti. Questo obiettivo è quello tipico che si pone il leader di mercato, il quale, forte della maggior quota di mercato, ha tutto l’interesse a fare espandere la domanda globale. Affinché venga attuata una strategia comunicativa idonea al perseguimento del fine prefissato e concorde con il posizionamento della marca occorre risalire a monte della ragion d’essere di quest’ultima rivedendo la sintonia tra bisogno avvertito e risposta offerta. Il messaggio si incentrerà sul vantaggio di base offerto dal prodotto ed il livello di genericità sarà tanto più spinto quanto più il bisogno sottostante ha una propensione ad essere dimenticato e trascurato.

- Creare e mantenere la notorietà della marca. Le strategie incentrate sulla notorietà si collocano tipicamente nell’ambito della risposta cognitiva ed hanno come denominatore comune l’ispessimento del valore di marca. La notorietà, in altre parole la fama acquisita dalla marca presso i potenziali acquirenti in un dato ambiente e in un dato momento per meriti reali o presunti, costituisce, consentendo una maggiore visibilità e favore da parte del mercato, un importante elemento nella costruzione della familiarità (qualcosa di più radicato e profondo della semplice conoscenza che spinge il consumatore, in forza della fusione creata, a comprendere pienamente quello che la marca rappresenta, fino a considerarla parte integrante ed attiva del proprio mondo concettuale di riferimento) e della stima (la considerazione in cui è tenuta la marca da parte dei consumatori) nei confronti della marca stessa1. Lo sviluppo di questo attributo della marca può riferirsi alla notorietà-riconoscimento, alla notorietà-ricordo o ad entrambe: mentre in base alla prima viene agevolato il riconoscimento al momento dell’acquisto o addirittura viene indotto quello del bisogno sottostante, attraverso la seconda si cerca di creare l’associazione tra lo stato di bisogno e la marca prima ancora della fase dell’acquisto..

- Creazione e mantenimento di un atteggiamento favorevole nei confronti della marca. Quest’obiettivo si pone nell’ambito della

1 Ai fini del posizionamento il punto cruciale è, infatti, la determinazione di una diversità “rilevante”.

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risposta affettiva e si estrinseca in attività che consentano di evidenziare agli occhi del target la presenza e l’importanza dei punti di differenziazione al centro della strategia di marca, rafforzare le associazioni tra il posizionamento e l’immagine di marca da una parte e la percezione dei bisogni soddisfatti dall’altra, eliminare gli eventuali atteggiamenti negativi che possono prodursi in seguito ad errori di avvicinamento al potenziale acquirente o ad eventi improvvisi e potenzialmente deleteri che possono verificarsi. Il punto cruciale nel dare uno sviluppo agli atteggiamenti dei pubblici cui ci si rivolge è rappresentato dal lavorare attorno ai concetti già presenti nelle loro menti, poiché sono essi a possedere maggiori livelli di accettazione e fungono da riferimento per qualunque nuovo messaggio in entrata. Inoltre, non bisogna cercare di modificare la percezione della marca in direzioni non plausibili e non sostenibili da essa, ma mantenere una adeguata coerenza tra ciò che è e ciò che può essere.

- Stimolo della decisione di acquisto. L’interazione d’acquisto si pone a metà strada tra la risposta affettiva e quella comportamentale, dovendosi tuttavia distinguere il caso in cui il consumatore manifesti un interesse e un coinvolgimento nell’acquisto, da quello in cui questo non avviene, venendosi a creare, nella prima situazione, valide premesse per un proficuo utilizzo delle strategie comunicative. Affinché l’interazione di acquisto si manifesti, occorre, poi, che uno stato di mancanza, palese o latente, sia avvertito dai potenziali acquirenti, in modo che si coniughino bisogno ed intenzione, altrimenti inattivi1.

- Facilitazione dell’acquisto della marca. Per il conseguimento di quest’obiettivo è necessaria un’armonizzazione del marketing mix attorno al concetto espresso ed alla posizione occupata nei termini analizzati nel cap. 4.1.1. All’occorrenza la comunicazione può contribuire a eliminare o quantomeno a ridurre i problemi in essere attraverso, per esempio, la difesa del prezzo praticato o quanto altro sia

1 Quindi, può succedere che, mancando un’esigenza da seguire, i messaggi non producano alcuno degli effetti auspicati, almeno nell’immediato e comunque fintanto ciò non accade.

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in grado di creare associazioni meno dissonanti con l’immagine di marca proiettata.

4.2 – Il messaggio: nome, simbolo, slogan

Il cuore del processo comunicativo è costituito dal messaggio, il quale va a raccordare i significati quali sono emessi dal soggetto che lo avvia con quelli recepiti dall’interlocutore. Dall’intersezione dei segni e dei richiami proiettati con quelli percepiti scaturisce il senso ultimo attribuito al messaggio, ben potendo accadere che esso contenga molto poco di quanto era nelle intenzioni originarie dell’emittente.

Tuttavia, le informazioni in transito tra i soggetti al centro di tale processo non paiono avere, per essi, tutte la stessa importanza e non si rivestono di contenuti semantici oggettivi. Più generalmente, anzi, i significati vengono a dipendere strettamente dalle etichette contenutistiche preattribuite a seguito dell’identificazione della controparte e del contesto comunicativo nel quale l’azione si svolge. In altre parole, emerge, ancora una volta, il rilievo della categorizzazione dei significati attorno a luoghi mentali comuni che hanno nella memoria e nel radicamento ai concetti, esperienze e ricordi sedimentati punti di riferimento attorno ai quali fare ruotare i nuovi significati in modo che tendano a convergere verso di essi.

È con questo mutevole ordine di rapporti che il posizionamento strategico si deve confrontare, solo potendo contare sulla comunione con il sentire dei potenziali acquirenti eventualmente conseguita attraverso la ricerca della fusione con il mercato ed il mantenimento del contatto con esso. Posizionamento, alla resa dei conti, significa semplicemente, nelle parole di Trout e Rivkin, «concentrarsi su un’idea, o anche una singola parola, che definisca l’azienda nella mente dei consumatori»1. In questo contesto, gli strumenti fruibili da parte della marca per relazionarsi ai mondi concettuali di riferimento dei consumatori sono riconducibili ai tre fondamentali elementi riscontrabili nella definizione di un messaggio ad essi diretto: il nome, il simbolo, lo slogan2. Tali elementi della comunicazione impresa-mercato necessitano di una strutturazione che, non

1 J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 62.- 228 -

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solo sia in grado di attivare le associazioni desiderate (quelle che determinano una reazione positiva nei confronti della marca), ma mantenga tra loro uno stretto legame ed una coerenza in grado di conferire un elevato valore alla loro interazione, di modo che il valore dell’insieme semiotico considerato risulti superiore a quello della somma delle sue parti rendendolo fortemente rappresentativo del senso dell’offerta dell’impresa.

Pertanto, di seguito approfondiremo i singoli succitati elementi del messaggio di posizionamento, accomunati dalla ricerca dell’attivazione delle associazioni opportune per giungere alla desiderata collocazione nel mercato principalmente attraverso i concetti espressi ed esprimibili dalla parola.

4.2.1 – Il primato della parola.

Chi si accinga ad affrontare il tema dell’immagine, da qualsiasi prospettiva lo faccia, non può esimersi dal confrontarsi con la massima attribuita a Confucio secondo la quale «un’immagine vale mille parole»1. Sono usualmente i pubblicitari a farla propria in un senso interessato che risulta spesso fuorviante. In effetti, è la parola e non l’immagine – intesa in senso proprio2 – a guidare la mente ed a trasmettere un significato. Il posizionamento ha una natura prettamente verbale mai basandosi

2 Si tratta, è sempre il caso di precisare, di elementi di natura eminentemente comunicativa, dovendo comunque tenere presente che la comunicazione si esprime attraverso tutti i canali con i quali impresa e mercato si incontrano e che in essi, del resto, non si esaurisce lo sforzo dialettico della marca (anche se rappresentano l’estrema sintesi dei concetti che essa esprimerà nelle più diverse forme).

1 In realtà, è stato dimostrato come essa sia stata originata da un errore di traduzione. L’espressione verace affermerebbe, infatti, che «un’immagine vale mille pezzi d’oro».

2 È semmai l’immagine prodotta dall’elaborazione di tutti gli stimoli in entrata e dall’interazione che essi hanno con quanto risulta sedimentato nella memoria e nel sentire degli individui a governare i circuiti mentali attraverso cui prendono corpo gli atteggiamenti e i comportamenti.

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esclusivamente sulle immagini. Come riconoscono Trout e Rivkin, “la mente lavora con l’orecchio”1.

Di più: le stesse espressioni che estendono il significato del presente al passato ed al futuro dipendono strettamente dalla possibilità di utilizzare un relativizzatore costituito dal linguaggio. La parola e la sua elaborazione (il processo attraverso il quale essa si riveste di un significato) rappresentano rispettivamente, cioè, la pietra di paragone ed il momento di confronto tra due o più entità allorquando esse, da concetti evanescenti, assumono la forma e prendono il corpo e la natura di un significato compiuto. Proprio attraverso il processo elaborativo/di emissione e ricettivo/elaborativo la parola si stacca dalla semplice natura di segnale per consegnare all’intelletto del ricevente un significato proprio che, secondo la contestualizzazione da egli fatta, va ad esprimere un intero e compiuto sistema di significati.

1 J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 107.- 230 -

EMITTENTE RICEVENTE

SEGNALI

SEGNALI IN RISPOSTA

Mondo concettuale di riferimento -

EMITTENTE

Mondo concettuale di riferimento - RICEVENTE

Figura 4.3 – Processo comunicativo.

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La riuscita o meno del processo comunicativo, così come illustrato in figura 4.3, dipende dal fatto che le parti facciano riferimento allo stesso sistema concettuale di riferimento, di modo che da una parte il segnale sia emesso in un codice facilmente (e naturalmente) interpretabile dal ricevente e dall’altra questi sia nelle condizioni di emettere una risposta congruente con il messaggio originale.

Entrambi i mondi concettuali di riferimento costituiscono allo stesso tempo un filtro per le informazioni che vengono riconosciute come estranee e non attinenti al particolare contesto, e un volano che dà un senso ed un’interpretazione alla informazioni che riescono a filtrare.

Le parole, unità elementari del linguaggio, esprimono concetti che, andando oltre la mera letteralità, diventano realtà attraverso l’elaborazione. Una parola può riuscire ad esprimere, attraverso le invisibili associazioni che per suo tramite avvengono nella mente, un intero mondo di significati altrimenti non raggiungibile nelle medesime particolari fattezze.

La capacità di esprimersi attraverso le parole richiede la padronanza del tempo umano. Esse, infatti, rappresentano oggetti, immagini, sentimenti della memoria che rimangono immutati, operando una distinzione tra quello che è permanente e quello che varia nell’esperienza del tempo. Le parole descrivono caratteristiche del mondo che vengono giudicate stabili, anche se poi, secondo le contestualizzazioni in cui si muovono e la prospettiva in cui le pone l’esperienza, può cambiare il senso soggettivamente attribuito a tali caratteristiche.

Le parole che rappresentano una nozione astratta sono quelle in cui è più forte il livello di “permanenza” (si pensi in proposito al concetto di Dio, di natura…). Ciò che è meno astratto è destinato a rimanere permanente solo per un certo periodo1. Ma anche le parole più astratte – e quindi “più permanenti” – cambiano in qualche modo nel tempo: nessuna parola o frase può essere detta due volte e conservare identico significato in ogni sua

1 Questa concatenazione di permanenza e temporaneità, solo in apparenza incongruente, non deve spaventare, poiché la ritroviamo alla base di ogni fatto umano e non, tanto importante risulta essere la relatività delle cose.

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parte, perché sarà cambiato il contesto originale in cui era stata pronunciata, anche ad opera delle espressioni rese manifeste1.

Il valore di un’immagine risulta essere relativamente basso quando ad essa non si accompagna il suono. Viceversa, una volta che esso le si accompagna, l’immagine assume tutta un’altra connotazione ed il messaggio, fruendo di una maggiore comprensibilità descrittiva, aumenta in consistenza ed impatto (non a caso il linguaggio è la base della dialettica). L’immagine, di per sé, non sembra trasmettere alcun significato particolare: anche quando ciò possa apparire, si tratta, in realtà, dell’attivazione di un collegamento di natura associativo tra l’immagine cui l’individuo è esposto ed un significato pregresso presente nella sua memoria e adesso evocato per conferire un valore all’immagine stessa. In altre parole, come sopra asserito, chi si occupa di comunicazione fa ricorso a quanto già si trova nella mente del target di riferimento in modo da cercare di attivare i significati e le interpretazioni attribuite ai ricordi e alle sensazioni sedimentatevisi, essendo questa la strada più veloce e sicura per ottenerne l’accesso e raggiungere la posizione-obiettivo. Naturalmente, un messaggio che sia ad un tempo visivo ed uditivo risulta in genere più efficace di quanto non faccia invece uno incentrato solamente sull’uno o sull’altro elemento sensoriale2.

Il potere evocativo delle parole va oltre il particolare riferimento all’esperienza che le persone hanno della marca, potendo benissimo essere proposta un’associazione che questa presenta con un qualsiasi elemento di cui l’interlocutore ha conoscenza (diretta o derivata) ed è in grado di valutare, più o meno consciamente, il senso. Non è quindi necessario che il consumatore abbia un’esperienza diretta con la marca, salvo, naturalmente il mantenimento di una certa plausibilità delle diverse associazioni

1 Lo stesso non parlare produce delle conseguenze prima all’interno della persona la quale elabora anche il senso dell’assenza di comunicazione ad esempio accrescendo l’indolenza verso l’impossibilità verificatasi di esprimersi, poi, per suo tramite, nell’ambiente in cui essa si trova ad interagire

2 Non pare comunque ancora chiaro quale dei due elementi sia più incisivo quando utilizzato da solo. Tuttavia, è stato dimostrato come si ricordino meglio le parole percepite in forma uditiva rispetto a quelle percepite in forma visiva.

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proposte. A volte, poi, il riferimento è a significati che, assenti nel singolo soggetto o comunque da questi ritenuti inattendibili, sono invece rintracciabili nella più vasta memoria collettiva o nel comune sentire di un gruppo sociale cui viene fatto riferimento ed affidamento quale valido interprete di segnali.

Le ragioni della particolare rilevanza che le parole hanno sono rintracciabili nella diverse connotazioni che può assumere la memoria. Esistono, a riguardo, due tipi di memoria: la memoria iconica, la quale immagazzina immagini visive, e la memoria ecoica, che immagazzina immagini uditive. La prima autoregistra automaticamente informazioni visive quasi complete che però svaniscono assai rapidamente se il senso espresso da esse non viene archiviato nella memoria a lungo termine (si parla di una permanenza nell’ordine di un secondo). L’immagine uditiva (anch’essa quasi completa), registrata allorquando l’orecchio percepisce informazioni di tale natura, permane invece assai più a lungo – quattro o cinque secondi – nella memoria ecoica. Ne segue che, a parità di tutte le altre determinanti del tempo di ritenzione nella memoria e dell’importanza delle informazioni ivi immagazzinate, la memoria ecoica ha una durata superiore rispetto alla memoria iconica.

Ad ulteriore supporto del “primato” dell’orecchio rispetto all’occhio, stanno ulteriori considerazioni. Esistono due generi di parole, quelle parlate e quelle scritte, ed è stata misurata una velocità di comprensione superiore nelle prime rispetto alle seconde (140 millisecondi per comprendere una parola parlata contro 180 millisecondi nel caso di una parola scritta)1. Il gap viene attribuito all’opera di traduzione che il cervello deve compiere per riportare le informazioni visive a suoni comprensibili dalla mente. La lingua scritta viene registrata nella mente in una forma interna di lingua orale: conseguentemente, le parole scritte necessitano di essere riportate al loro equivalente parlato per essere comprese2. Linguaggio e scrittura sono due sistemi di segni ben distinti: il secondo è un mezzo secondario ed esiste unicamente come rappresentazione del primo.

1 Cfr. J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p.110.2 Una semplice evidenza empirica è riscontrabile nei lettori alle prime armi, i

quali muovono le labbra mentre seguono la lettura con il pensiero.- 233 -

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Oltre al fatto che la mente trattiene più a lungo le parole parlate consentendo di mantenere più facilmente il filo del pensiero, l’ascolto di un messaggio risulta più efficace rispetto alla sua lettura anche per l’impatto emotivo che può fornire il particolare tono assunto della voce, risultando quest’ultimo in grado di elevare la rilevanza della comunicazione grazie alla maggiore attivazione recettiva che comporta. Tono e ritmo dell’eloquio possono, in effetti, favorire notevolmente l’assimilazione dei concetti espressi e l’apprendimento.

Quanto detto a proposito dei processi osservati per le parole scritte vale anche in caso di stimoli puramente visivi, sviluppandosi il pensiero ad un livello molto profondo del cervello nel quale tutto viene ricondotto a suono ed esperienza emergente. In sostanza, è l’orecchio a guidare l’occhio e non il contrario, risultando il pensiero un processo di manipolazione dei suoni e di attribuzione di significati basato sulla loro interpretazione. Si vede ciò che si sente, ossia ciò che ci si aspetta di vedere in base al messaggio sonoro. Viene, così, ribaltata l’asserzione “confuciana” dalla quale siamo partiti: “una parola vale mille immagini”.

A livello di messaggio, perciò, sebbene il fattore visivo svolga un ruolo di primo piano e le immagini diano maggiore spessore ed incisività alle parole, l’elemento trainante è costituito dal fattore verbale e di questo bisogna costantemente tenere conto nella definizione della strategia comunicativa e nella sua estrinsecazione a livello operativo. Più in dettaglio, alle parole scritte è attribuito il compito di sintetizzare e convogliare in sé il significato del messaggio di vendita contrapponendo la focalizzazione all’eccesso e ad una ridondanza in grado solamente di accrescere il livello di confusione cui è esposto il potenziale acquirente1. I titoli utilizzati in pubblicità, poi, oltre ad avere una forma piacevole, devono avere anche un suono facile e gradevole, in modo da facilitare la memorizzazione. Inoltre, le immagini necessitano di qualcosa che dia una breve, ma efficace descrizione riuscendo a fermare l’attenzione del pubblico su di esse ed evitando che quanto percepito passi nella mente

1 A riguardo, la chiarezza di contenuti e l’assenza di contraddizioni e riferimenti evanescenti appaiono essenziali per conferire agli argomenti portati avanti un senso maggiormente comprensibile ed assimilabile da parte del mercato.

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attraverso i sensi senza che di ciò rimanga in essa traccia tangibile1. La distrazione da parte del target di riferimento nel momento in cui viene esposto all’immagine determina, infatti, ingenti perdite di risorse per la marca, oltre che deleteri problemi di comunicazione che conducono a posizionamenti indesiderati poi difficili da correggere.

4.2.2 – La scelta del nome.

Al di là delle apparenze estetiche e delle funzionalità riconosciute al prodotto, l’identità di marca può assumere connotazioni assai differenti secondo il nome con cui essa si presenta al mercato. Esso, tra gli elementi che sono coinvolti nella costruzione dell’immagine di marca e ineriscono le strategie di posizionamento, è di gran lunga quello più durevole2. Il nome, nelle parole di Trout e Ries, è «il gancio che tiene ancorata la marca sulla scala dei prodotti nella mente del consumatore»3. Il nome, essenza del concetto di prodotto, gli conferisce un’identità attraverso la creazione di una singolarità ed è il primo punto di contatto tra il messaggio e la mente del consumatore. L’efficacia del messaggio non dipende tanto dal fatto che esso si dimostri bello o brutto dal punto di vista estetico, quanto piuttosto dal fatto che sia appropriato o meno.

Nel constatare come «Si compra il nome assieme all’oggetto», Botton, Cegarra e Ferrari ne evidenziano la valenza espressiva ed evocatrice: «Su un piano generale, i nomi incitano, permangono, memorizzano. Valgono sia per le virtù loro proprie, sia per quelle acquisite attraverso prolungate associazioni della memoria. Custode del ricordo, il nome suscita l’attesa, crea un attaccamento, un desiderio di ritrovare.»4

1 Scrisse Oscar Wilde: «Non c’è che una cosa peggiore dell’essere portato per bocca; ed è passare sotto silenzio».

2 Confezione, prezzo, pubblicità, ecc., si possono, solitamente, cambiare molto più facilmente del nome, a causa del suo portato di associazioni sedimentate nella mente del consumatore.

3 J. TROUT, A. RIES, 1986, op. cit., p. 103.4 M BOTTON, J. J. CEGARRA, B. FERRARI, Il nome della marca. Creazione e

strategia, Guerini e Associati, 1992, p. 42.- 235 -

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La capacità associativa ed evocativa delle quali un nome è portatore e che ne determinano la valenza devono essere attentamente studiate e registrate durante la fase di lancio di un nuovo prodotto, in modo tale da facilitarne la comprensione e la penetrazione dei contenuti evitando le possibili distorsioni del messaggio originale1. Successivamente, con l’acquisizione da parte della marca di un certo livello di notorietà e familiarità, il nome costituisce un elemento rafforzativo dell’immagine che essa ha presso il mercato e della posizione strategica occupata. Il nome, anzi, finisce spesso per divenire l’asset più importante di un’impresa ed il suo valore trascende il mero ed eventuale significato linguistico (concreto o astratto che sia) risultando, invece, dal rilievo assunto dalle associazioni che è in grado di generare. Una volta consolidato, il nome può costituire una formidabile barriera all’entrata in grado di opporre alla concorrenza una difesa più efficace e meno dispendiosa rispetto, per esempio, ad un brevetto2. Nel caso, poi, in cui emergano problemi di posizionamento, la modificazione del nome può rappresentare, per quanto ciò possa sembrare forse troppo semplicistico, la soluzione più idonea per ridare vigore alla marca incrementando gli atteggiamenti favorevoli verso di essa3.

Il principale problema che si deve affrontare nella scelta di un nome è dato dalla gran quantità di nomi (parole) già presenti sul mercato e perciò non disponibili. Con l’eccesso di informazione che caratterizza il presente e

A quest’opera si rimanda per un’analisi approfondita delle tematiche relative alla creazione ed allo sviluppo del nome della marca.

1 Stante la dimensione globale che i mercati vanno sempre più assumendo, ad esempio, è accresciuta l’importanza di pensare al nome in termini multilinguistici, in modo da estendere al massimo la comprensibilità dell’identità di marca ed evitare di cadere in errori comunicativi che possono risultare molto costosi.

Conseguentemente, occorre valutare alcuni aspetti che coinvolgono la nominazione, assicurandosi la presenza, nel nome, di adeguati livelli di accettabilità, significato realmente esistente, pronunciabilità e, nel contempo, che non sussistano eventuali connotazioni negative legate ad esso secondo la cultura ed il sentire del posto.

2 Quando, poi, l’innovazione risulta strettamente legata al nome, proteggere il nome può bastare per proteggere anche l’innovazione.

3 Non bisogna mai sottovalutare l’importanza di un nome, dal momento che esso può incidere pesantemente, in senso negativo o in senso positivo, sulla realizzazione del proprio obiettivo.

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pare in continuo aumento, diventa sempre più difficile trovare un créneau valido non occupato già da qualcuno attraverso il quale accedere alla mente dei potenziali clienti. Se in passato era possibile presentarsi ai consumatori anche con un nome di impatto modesto, oggi ciò non è più possibile e le imprese trovano quindi notevoli difficoltà ad aprirsi un varco nella loro mente. In ogni situazione la marca venga a trovarsi, la questione fondamentale è proprio questa: occorre trovare un nome che dia il via al processo di posizionamento o sia in grado di portare ad un appropriato riposizionamento, secondo i casi.

In generale, i nomi direttamente connessi al vantaggio correlato al prodotto, mostrando con immediatezza al potenziale cliente quale sia il suo beneficio maggiore, sono quelli che si dimostrano più efficaci. Unendo la marca al termine usato per definire la necessità, infatti, viene ad instaurarsi un rapporto di reciproca influenza che produce le relative associazioni ogniqualvolta uno dei termini coinvolti è chiamato in causa. Il processo di posizionamento ha, in sostanza, termine lì: richiamando la necessità, il nome e la posizione diventano quasi sinonimi fissando una categoria concettuale nella mente.

L’assunzione da parte di un nome di connotazioni generiche è fenomeno di per sé desiderabile, purché la genericità non sia portata agli eccessi potendo determinare problemi di difesa della posizione1. Difatti, una volta che la marca esce allo scoperto con un nome efficace, ma talmente generico da non poter costituire una barriera all’imitazione, in seguito alla sua diffusione presso i concorrenti il valore di origine e la differenziazione basata sulle associazioni evocate vengono erosi fino a divenire pressoché irrilevanti. Esiste, inoltre, genericità e genericità riguardo a un nome, secondo il grado di concordanza e aderenza tra quanto si vuole trasmettere e quanto risulta sedimentato nella memoria e negli atteggiamenti delle persone. Un nome generico non mantiene perennemente lo stesso significato: quello che poteva andare bene in passato, non necessariamente incontrerà i favori del mercato oggi e ancor

1 Ciò può succedere quando il nome si “avvicina” così tanto al prodotto da diventare il nome generico dell’intera categoria, invece di rimanere il nome di una marca specifica il nocciolo della questione è proprio questo: trovare dei nomi che sono quasi, ma non del tutto, generici.

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meno è ipotizzabile per il futuro. I concetti e le parole che li esprimono variano, cioè, nel tempo seguendo i movimenti che avvengono nei livelli più profondi della mente e della società in generale1. L’obsolescenza è un pericolo che incombe su qualsiasi marca e rischia, col passare del tempo, di divenire realtà salvo che non si provveda ad aggiornarne appropriatamente l’immagine, anche attraverso modificazioni concernenti il nome.

Un utile punto di partenza per la ricerca che porterà all’individuazione di un nome generico, è dato dalla semplice analisi del funzionamento del nuovo prodotto, in modo da darne una descrizione semantica alternativa più aderente con i concetti interpretativi di cui è portatore il target di riferimento. Molta cura deve essere posta in questa fase, onde evitare di cadere in nomi generici che, lontani dai luoghi mentali comuni espressi dai consumatori, produrrebbero con tutta probabilità, per il tramite di deleterie associazioni negative, deviazioni dall’immagine di sé che la marca vuole trasmettere. È, ancora, una volta, il caso di affidarsi a quanto risulta già presente nella mente dei potenziali acquirenti nella ricerca di quell’orientamento spinto al mercato che prelude alla fusione della marca con esso.

Vista l’influenza che l’impatto sonoro delle parole ha sui processi di interpretazione e memorizzazione dei segnali, il nome deve essere scelto tenendo conto di alcune generali, ma fondamentali caratteristiche che deve presentare. Primariamente, oltre che pertinente al prodotto che rappresenta, il suono prodotto dal nome deve essere gradevole all’udito, poiché ne risulterà favorita la ripetizione verbale e mentale da parte del consumatore.

Un suono brutto potrebbe essere rifiutato in partenza generando, anche a torto, associazioni negative difficili da ribattere proprio perché le persone evitano l’esposizione. Si badi bene: non si intenda per bellezza l’accezione estetica del termine. Si tratta, piuttosto, di una questione di appropriatezza o meno di un nome rispetto al messaggio che si vuole trasmettere, appropriatezza che va a dipendere strettamente dal sistema di significati radicato nella mente dei potenziali clienti. Un nome brutto e non appropriato provoca, per il tramite delle associazioni pregresse sedimentate

1 Il grado di “permanenza” delle parole e delle caratteristiche della realtà che esse si propongono di descrivere è stato affrontato nel paragrafo 4.2.1.

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nella memoria e basate sui canoni interpretativi comuni del mondo di riferimento dell’individuo, una serie di reazioni a catena che servono solamente a confermare la sua prima impressione orientata al prototipo mentale che più gli si avvicina, quella negativa.

Come sappiamo1, ogni persona ha, schematizzati all’interno della propria mente, dei modelli interpretativi cui fa costante riferimento nel valutare quanto si trova ad affrontare nel suo percorso esperenziale. Basandosi sul raffronto dell’elemento sotto osservazione con gli attributi dei prototipi di significato sulle basi dei quali procede alla categorizzazione delle percezioni, l’individuo stabilisce un ordine tra esse, e poco importa che compia un errore di valutazione, dal momento che, una volta stabilito il valore attribuibile ad un oggetto mentale, tale valore diviene per ciò stesso valido e reale fino a quando non sia riconosciuta l’evidenza contraria (cosa che suole avvenire, peraltro, solo in seguito ad un processo lento, travagliato e niente affatto scontato).

Un nome talmente generico da non poter rientrare nella categoria mentale di appartenenza del prodotto corre seriamente il pericolo di rendere la marca anonima, facendo perdere traccia di ogni possibile focalizzazione. Il consumatore si trova di fronte, in quel caso, un soggetto la cui identità appare molto sfumata e si rivolgerà con tutta probabilità a un competitore che ne ha una più distinta.

Spesso, per sopperire al problema della disponibilità dei nomi le imprese fanno ricorso all’utilizzo di acronimi o parole che non sono depositarie di alcun significato. Questa pratica generalizzata non è, nella maggior parte dei casi, condivisibile, divenendo opportuna e plausibile principalmente quando viene posta in essere dall’impresa leader, l’unica a poterselo permettere dato l’elevato grado di notorietà conseguito e accumulato (anche se può benissimo valere anche per esse l’inopportunità a procedere in questo senso).

Oltre che costituire una soluzione al problema della carenza di nomi disponibili e per superare l’obsolescenza nella quale la marca può cadere, utilizzare una sigla come sintesi di un nome può anche rappresentare un

1 V. par. 2.1.3.- 239 -

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modo per semplificarne l’accesso1. La ragione sta nel vantaggio fonetico offerto dall’acronimo (o, comunque, da un’abbreviazione) rispetto ad un nome la cui pronuncia può risentire pesantemente del numero e dell’accostamento delle sillabe (è noto come i nomi brevi siano quelli più immediatamente evocabili, constatazione suffragata dalla pratica di usare dei diminutivi per i nomi lunghi o complessi). Tuttavia, in assenza di vantaggi fonetici apprezzabili la maggior parte delle persone non userà le iniziali: se c’è la possibilità di scelta tra una parola ed un gruppo di iniziali che presentano la medesima lunghezza fonetica, viene preferito l’uso della prima rispetto al secondo proprio perché dotata di un suo significato.

La notorietà pregressa, quale può essere quella di cui dispone un leader, contribuisce notevolmente alle probabilità di successo di un nome costituito da una sigla o da una sua abbreviazione. Il riferimento alla marca e le associazioni sono, in quel caso, già costituiti e consolidati rendendo immediato il riconoscimento da parte dei consumatori. In ogni caso, può essere utile mantenere un rimando al nome originale di modo che quest’ultimo risulti riconoscibile nel tempo, anche da coloro che lo avrebbero altrimenti conosciuto.

In generale, i nomi espressi da parole prive di un proprio significato hanno un impatto minore rispetto al caso opposto, a causa della minore portata e del minor numero di associazioni evocate. La loro adozione fa riferimento alle stesse situazioni nelle quali viene scelto l’acronimo o l’abbreviazione, così come l’appropriatezza del loro uso risente degli stessi

1 Può accadere, infatti, che il significato originario del nome non sia più coerente con il business in cui l’impresa opera, a causa di diversificazioni effettuate, fusioni…e quanto altro sia potenzialmente in grado di rendere meno focalizzata la posizione della marca. In tutti questi casi il nome non rispecchia più l’identità di marca e il management cerca nell’acronimo di rompere i legami fuorvianti con il passato conferendole un ruolo ed una posizione nuova.

Il problema è che da una parte chi aveva già familiarità con la marca d’origine mantiene ancora a lungo le associazioni con essa, mentre dall’altra chi la conosce per la prima volta, se essa non detiene la leadership della categoria di riferimento, non la riconosce e ne determina la caduta nell’anonimato. È successo che i decisori d’impresa hanno scambiato la causa – il successo e la leadership conseguita – con l’effetto – la notorietà e la rilevanza conseguenti alla leadership –.

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loro condizionamenti. L’assenza di significato di un nome è, nel caso in cui esso non si ponga come l’iniziatore di un’intera categoria, un difficile ostacolo da superare perché un nuovo prodotto abbia successo. In effetti, essendo presenti sul mercato competitori già affermati che hanno instaurato solide relazioni con il relativo pubblico, un nome privo di significato non conferisce in genere alcuna distintività allo sfidante, relegandolo nella zona grigia dell’anonimato. Viceversa, le migliori possibilità di sviluppo si hanno quando l’impresa riesce ad essere la prima ad avere l’accesso alla mente del consumatore ponendosi come l’inventrice di una categoria di prodotto completamente nuova: quando il mercato muove i primi passi, infatti, il fatto che il nome abbia un senso proprio o meno riveste un’importanza secondaria.

Nel caso in cui si vengano a determinare delle associazioni negative generate da un nome inadeguato o in cui emerga la necessità di ricorrere a nuove associazioni incompatibili con il vecchio nome, può rendersi opportuno, per la marca, porre in essere un processo di riposizionamento di se stessa o della concorrenza. In questo caso, può rivelarsi utile polarizzare la situazione in senso favorevole all’impresa, in un’ottica di medio-lungo termine, rigirando i nessi a prima vista sminuenti ed evidenziandone, invece, il potenziale valore per il consumatore. Alternativamente, si può cercare di girare attorno al nome riposizionando il concetto usando le stesse parole per ottenere il significato opposto. Una tattica più aggressiva può prevedere il “riposizionamento dell’avversario” attraverso l’utilizzo di argomenti, concetti, valori difficilmente controvertibili e abbastanza plausibili da poter essere accettati dal potenziale acquirente, sui quali, arrivando noi per primi, la parte riposizionata non ha potere di azione1.

Sostituire il nome con il quale un prodotto si è presentato al mercato anche per molto tempo non è una decisione semplice da prendere. In genere, anche senza considerare l’attaccamento che i decisori d’impresa tendono ad avere verso una marca al cui sviluppo hanno a lungo prestato le loro attenzioni, si manifesta la propensione a ricercare le cause

1 In proposito, è fondamentale il tempismo: l’efficacia dell’azione dipende strettamente dal fatto che siamo noi, e non i nostri concorrenti, a fare la prima mossa occupando una posizione elevata dalla quale poi sarà difficile scalzarci.

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dell’insuccesso in elementi più tangibili o ad attribuirlo a incontrollabili disturbi esterni, trascurando, in questo modo, il vero problema: l’erosione del valore di marca. Una massiccia dose di obiettività è la principale attitudine richiesta al management soprattutto nei momenti in cui emergono problemi che investono la comunicazione e la proiezione dell’immagine di marca.

Recuperare un nome vecchio e non usato da tempo, ma che mantiene un’elevata notorietà ed una larga diffusione ed è appropriato alla posizione desiderata, può costituire una valida opzione da tenere in considerazione. Alternativamente, il nome inidoneo ad esprimere l’identità di marca è sostituibile attraverso il ricorso ad una sottomarca in modo da deviare l’attenzione del potenziale acquirente dagli attributi che maggiormente contribuiscono a creare le associazioni negative, rendendo il percorso cognitivo da questi seguito più libero ed evitando la confusione che nasce dall’unire un nome dotato già di un proprio significato ad un nuovo prodotto o servizio esprimente un concetto molto diverso.

Certe volte, allacciandoci a quanto argomentato nel paragrafo 3.4, è la stessa impresa già detentrice di una marca ad essere, nel momento in cui si appresta a lanciare un prodotto completamente nuovo, la principale cagione dei propri problemi. Ciò avviene perché, volendo approfittare di economie legate all’affermazione consolidata di un prodotto già presente sul mercato (all’apparenza facili da conseguire utilizzando un collegamento diretto che riporti ad esso), l’impresa usa il medesimo nome o una sua minima variazione per lanciare il nuovo prodotto.

Il fatto è che, in realtà, ogni prodotto deve essere ideato e gestito in modo che il mercato gli riconosca ed attribuisca una propria distinta identità, diversa dalle altre offerte con le quali esso si trova a competere. Solitamente, una marca che si distacchi del tutto da quelle dei concorrenti e dagli altri prodotti offerti dall’impresa necessita, invece, di un proprio spazio di movimento e di crescita, non intralciata dalle associazioni derivanti da questi. Il motivo ultimo sta nel fatto che un nome il quale sia già conosciuto, lo è diventato perché rappresentava qualcosa, aveva, cioè, una sua collocazione nella scala valoriale che il consumatore stabilisce nella propria mente riguardo alla categoria di riferimento. Affinché non

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sorgano conflitti con esso, è generalmente opportuno che il nuovo prodotto sia posto su una nuova, differente, scala. L’estensione del valore della marca conosciuta alla nuova che ne andrebbe a sfruttare la forza, se pure sembrerebbe essere sostenuta da una sua logica, si scontra, perciò, con i processi mentali di percezione, interpretazione, valutazione. Uno stesso nome non può rappresentare due prodotti diversi: almeno uno di essi, se non entrambi, ne uscirebbe indebolito perdendo in favore dei competitori le relative posizioni conquistate precedentemente.

Volendo razionalizzare il percorso che porta alla selezione del nome con il quale l’impresa presenterà la propria offerta al mercato, possiamo rintracciare dei punti focali che costituiscono altrettanti momenti critici cui prestare la massima attenzione.

Il processo di generazione e selezione delle alternative deve essere sistematico e, per quanto possibile, obiettivo. Esso deve essere preceduto da un’analisi mirante a comprendere quali siano le parole e le frasi che meglio esprimono e descrivono le associazioni giudicate utili per la marca (questo elenco può, in seguito, essere ampliato attraverso una ricerca dell’associazione tra parole). Alternative possono emergere, seguendo Aaker, utilizzando le associazioni determinate in modo da combinarle in frasi, creando parole che sono il frutto della combinazione di altre parole, immaginando simboli da attaccare ad ognuna di tali parole, usando rime e consonanze o ricorrendo ad effetti umoristici, aggiungendo prefissi o suffissi, ricorrendo all’accostamento con parole di diversa natura, ma in grado di funzionare come fonte di alternative descrivendo il carattere della marca (animali, fiori e piante, personaggi, aggettivi, professioni, …), ricorrendo a metafore1.

In particolare, alcuni criteri possono essere utilizzati per valutare l’adeguatezza di un nome ad esprimere l’identità di marca:

- Facilità di interpretazione, memorizzazione e ricordo. Il fatto che l’interpretazione risulti più o meno agevolata dipende essenzialmente dal grado di fusione con il mercato che l’impresa è riuscita a conseguire,

1 D. A. AAKER, 1997, op. cit., p. 243.- 243 -

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attraverso il ricorso ad elementi espressivi coerenti con quanto risulta già presente nella mente dei potenziali acquirenti ed è potenzialmente sviluppabile, per il tramite delle associazioni, seguendo la traccia visibile del loro particolare mondo concettuale di riferimento.Altro aspetto importante del nome è dato dalla sua memorabilità. In genere, come abbiamo visto nel par. 2.1.2, il ricordo risulta favorito da un nome abbastanza insolito e diverso da attivare l’attenzione, ma non troppo eccentrico1, in modo da non oltrepassare la soglia dell’accettazione semantica comunemente riconosciuta e non fare scattare una opposta reazione repulsiva. Qualcosa nel nome – come, per esempio, una rima, un’allitterazione, un gioco di parole, una trovata scherzosa – potrebbe, poi, renderlo interessante favorendone l’accettazione. La sollecitazione di un’opportuna immagine mentale (preferibilmente concreta e facilmente rintracciabile nella memoria esperenziale delle persone, piuttosto che astratta), la presenza di un significato intenso e non evanescente e la semplicità di un nome permettono di permeare più agevolmente gli anelli di difesa che si frappongono al raggiungimento di una particolare posizione nella mente dei consumatori. Inoltre, non bisogna dimenticare la forza e la portata che ha l’impatto emotivo delle parole: i nomi che inducono emozioni positivamente accolte dai potenziali acquirenti comportano, generalmente, un atteggiamento più favorevole nei riguardi della marca2.

- Capacità di richiamare alla mente la categoria di appartenenza del prodotto. Il consumatore deve essere posto in condizioni di riconoscere immediatamente e con semplicità la categoria concettuale di riferimento cui appartiene la marca. Se da una parte egli è in grado di memorizzare solamente pochi pezzi di informazione per ogni scala di significati, ciò

1 A meno che l’eccentricità rappresenti una caratteristica imprescindibile del target cui l’impresa si rivolge.

2 Come abbiamo visto, infatti, l’emotività incide sulla memoria. Le percezioni avvertite, interpretate e memorizzate in un particolare contesto emotivo tendono, infatti, a fare riemergere i sentimenti positivi o negativi (secondo il caso) legati a tale contesto nel momento preciso in cui stimoli analoghi a quelli che le originarono si ripresentano nel tempo.

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implicando la necessità per l’impresa di riuscire a collocarsi tra essi, dall’altra, una volta presente in codesta scala, ogni riferimento alla generica categoria o ad una delle marche che occupano le sue prime posizioni comporta il richiamo automatico all’altra metà di questo schema rappresentativo, costituendo il fondamentale vantaggio offerto dalla notorietà conseguita. Spesso, quindi, il nome riesce ad essere determinante nel creare un’associazione con la categoria di cui fa parte il prodotto o servizio.Il risultato più favorevole alla marca si ha, come detto, quando il nome diviene talmente generico da costituire il riferimento comunemente accettato per l’intera categoria, senza però essere troppo generico rischiando di disperdere il proprio valore e le proprie potenzialità. In quest’ultimo caso, infatti, si viene a creare una situazione per la quale diviene molto difficile e comunque sconsigliabile estenderlo ad altri prodotti appartenenti a categorie differenti.

- Capacità di sostenere un simbolo o uno slogan. Come vedremo1, simbolo e slogan rivestono, assieme al nome, con il quale devono essere saldamente legati sfruttando le reciproche sinergie, un ruolo fondamentale nella comunicazione dell’immagine di marca e nel perseguimento di una strategia di posizionamento. Un nome che non si accordi, quanto a significati ed associazioni evocate, con il simbolo e con lo slogan costituisce un elemento di debolezza nella creazione del valore di marca. Di conseguenza, occorre pensare l’uno e gli altri in modo organico e coerente, cosicché riescano a rafforzarsi vicendevolmente.

- Capacità di evocare le associazioni desiderate evitando quelle indesiderabili. Il nome ha senso solo in quanto consente alla marca di esprimere l’identità di cui è portatrice attraverso l’attivazione delle associazioni idonee all’incontro delle aspettative del mercato con le caratteristiche dell’offerta dell’impresa. Occorre, pertanto, analizzare con estrema attenzione tutte le particolari associazioni, positive e negative, che la marca è in grado di generare attraverso il nome. Le prime andranno sviluppate mai perdendo di vista quale è il nucleo di

1 Cfr. par. 4.2.3 e 4.2.4.- 245 -

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esigenze da soddisfare1; le seconde andranno corrette cercando di eliminarle o, perlomeno, di ricondurle ad incongruenze meno gravi. Essendo frequentissima la situazione che vede le associazioni positive interrelate a quelle negative e viceversa, gli sforzi andranno nella direzione di una linea di posizione tale da minimizzare queste ultime, pur rimanendo consapevoli che non si potrà il più delle volte eliminarle del tutto senza snaturare la posizione raggiungibile più idonea per l’impresa per affrontare la competizione. È da rilevare come non sia la forza assoluta dell’associazione a rilevare, quanto piuttosto la sua coerenza al contesto in cui si sviluppa. Un’associazione troppo forte del nome con una caratteristica del prodotto può essere anche molto limitante in chiave futura: mercato, tecnologia, aspettative ed esigenze dei consumatori possono evolversi così velocemente ed in modo tale da rendere obsoleta e non più desiderabile la caratteristica intorno alla quale ruotava l’intero sistema di associazioni della marca. In assenza di un basso livello realizzato di fusione e di orientamento al mercato può allora capitare che la distanza tra la posizione occupata e quella ideale si faccia talmente grande da poter essere difficilmente colmata senza il ricorso ad un cambiamento di nome ed una strategia di posizionamento completamente nuova.

- Distintività. Il nome con il quale il prodotto o servizio entra in contatto con il mercato non deve, in generale, confondersi col nome dei prodotti concorrenti2. È importante, quindi, cercare di capire in anticipo se si verificheranno associazioni con un prodotto concorrente e, nel caso in

1 Molte volte, al contrario, le imprese tendono a dare una eccessiva enfasi ai punti di aggancio con il consumatore che la marca ha posto in essere e, allontanandosi dal cuore del proprio posizionamento, forzano tali associazioni ottenendo per tutta risposta una progressiva disaffezione da parte del target che non si riconosce più nell’offerta di cui la marca è sintesi. In questa maniera, si compie un errore attribuibile all’emergere di una miopia strategica che espone la vecchia posizione detenuta all’occupazione da parte dei concorrenti più avveduti.

2 Può capitare che sia vantaggioso per un prodotto confondersi con gli altri. Questo è tipicamente il caso di marche di rango inferiore che mirano a mescolarsi con le marche di prestigio, come avviene per le private labels, la cui confezione (quand’anche non il nome) richiama quella dei concorrenti più noti ed affermati.

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cui ciò possa accadere, quali siano questi prodotti, di che tipo siano e che portata abbiano tali associazioni e se non sia il caso di procedere ad un riposizionamento basato su basi alternative in modo da fare propri eventuali spazi non sfruttati dalla concorrenza.

- Difendibilità legale. Questo punto può costituire l’ultimo baluardo posto a difesa della posizione occupata, soprattutto per quelle imprese che, prima delle altre, hanno saputo individuare un créneau nella mente dei potenziali acquirenti utilizzandolo per ottenere l’accesso ad una posizione privilegiata all’interno di essa, spesso dando vita ad una nuova categoria concettuale i cui contorni erano fino a quel momento tenui e sfumati e alla quale esse hanno avuto il merito di dare una forma ben distinta ed individuabile. La bassa difendibilità legale rappresenta l’altra faccia della medaglia che mostra da una parte i vantaggi di un nome generico e descrittivo. Dopo la considerazione dei nomi inadatti, l’indagine dei nomi inutilizzabili perché legalmente protetti è quella che maggiormente contribuisce alla riduzione del numero di nomi tra i quali operare la scelta finale. Ad essa segue l’analisi degli specifici punti di forza e di debolezza delle varie, rimanenti, alternative di scelta.

4.2.3 – I simboli.

Nonostante tutti gli sforzi effettuati può accadere che non venga conseguito, da parte dell’impresa, un adeguato livello di differenziazione. Spesse volte, infatti, per ogni categoria di prodotto presente sul mercato le alternative disponibili coprono già quasi tutti gli spazi praticabili per affermare una propria, distinta, identità. Le differenze diventano allora difficili da comunicare in modo efficace e credibile. Il ricorso ad un simbolo in grado di dare rappresentazione all’identità trasmessa ed incrementare il valore di marca può, in questi casi, costituire la vera caratteristica differenziale sulla cui base sviluppare il posizionamento strategico e la visibilità della marca stessa1.

1 In alcuni mercati, a dire la verità, i competitori sembrano non avvertire ancora tutta l’importanza dell’avere un simbolo distintivo confidando, invece, nelle qualità intrinseche della propria offerta e nel fatto che il potenziale cliente saprà riconoscerle e

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Attraverso la notorietà conseguita e le associazioni evocate, il simbolo va ad incidere sulla qualità percepita e sulla fedeltà del consumatore. Questo elemento comunicativo di cui dispone l’impresa si interrela al nome, del quale può essere, direttamente o indirettamente, un supporto o la naturale continuazione ed estensione. Di qui la necessità di un loro sviluppo armonico e coerente che impedisca il formarsi di percezioni contraddittorie o addirittura contrastanti riguardo al prodotto o servizio preso in considerazione.

I simboli possono essere di qualsiasi tipo, purché si rivelino adatti a favorire il particolare posizionamento perseguito dall’impresa. Tra quelli più ricorrenti troviamo forme geometriche, cose, forme particolari, logo, personaggi, scenari, personaggi dei fumetti, … La scelta dipenderà, oltre che dalla considerazione delle associazioni evocabili, dalla familiarità che i potenziali acquirenti hanno con i diversi simboli tra i quali essa deve essere operata. Al limite, simbolo e marca possono essere una solo cosa, ma questo, similmente a quanto avviene riguardo ai nomi, solamente quando la marca stessa sia già affermata e detenga la leadership del mercato contando sul favore riconosciutole e consolidato nel tempo.

Il valore del simbolo dipende strettamente dalle associazioni che esso è in grado di generare. Attraverso di esso, infatti, è possibile esprimere significati anche molto complessi che altrimenti ben difficilmente l’impresa sarebbe in grado di comunicare in forma sintetica ed incisiva al tempo stesso. Il soggetto esposto al messaggio contenuto in un simbolo pare recepirne più agevolmente i contenuti rispetto ad un lungo messaggio linguistico. Non bisogna, tuttavia, cadere nell’errore di ritenere che risulti assente il contributo delle parole, dal momento che ogni associazione generata fa comunque riferimento a concetti difficilmente esprimibili senza di esse. È, semmai, l’esatto contrario: il valore della parola della quale il simbolo produce il riferimento risulta da esso maggiormente sottolineato, dovendo, il soggetto cui la comunicazione è destinata, mettere in moto un processo di interpretazione che nei significati e nelle risultanze prodotte

premiarle. Il numero di tali situazioni sembra, comunque, destinato progressivamente a ridursi, mano a mano che le imprese diventeranno coscienti dell’importante ruolo comunicativo svolto da nome, simbolo, slogan.

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dalle parole stesse ha il proprio fulcro. Dietro un simbolo si cela ed opera un intero mondo di parole e di associazioni generabili: si tratta di individuare quello più confacente alle peculiari esigenze di posizionamento dell’impresa.

Nel costruire un sistema di associazioni – quello più idoneo ad evidenziare il posizionamento scelto – attorno ad un simbolo occorre tenere conto di quelle, tra esse, che attualmente caratterizzano l’immagine di cui la marca dispone. In effetti, poiché le associazioni dalle quali partiamo possono essere anche molto radicate, cambiare radicalmente il tipo di percezione che il target di riferimento ha dell’impresa è attività niente affatto semplice e che richiede lo sviluppo di un programma a medio-lungo termine. Inoltre, non va compiuto l’errore di seguire pedissequamente l’esempio portato dall’impresa leader: cambiare i propri obiettivi strategici in tema di associazioni, mentre da una parte è rischioso perché ci pone di per sé in un taglio inferiore di imitatore, dall’altra potrebbe compromettere irrimediabilmente quelle, tra le attuali, che risultano più coerenti con la percezione che il mercato ha di noi e che costituiscono, invece, la necessaria base di partenza per ogni programma di posizionamento.

Le associazioni evocate attraverso i simboli trovano la loro ragione nel transfer di percezione che le persone attraversano. Soprattutto quando viene usato il riferimento ad un personaggio esse tendono a trasferire la sensazione provata nei confronti del personaggio stesso sugli oggetti che si collegano significativamente ad esso. Provando disagio di fronte all’incoerenza, l’individuo tende a rafforzare le associazioni più deboli (nel nostro caso quelle relative al prodotto o servizio) modificandole ed elevandole al rango di quelle inerenti al simbolo. Naturalmente, grande attenzione andrà posta al mantenimento di quanto implicitamente promesso attraverso il riferimento utilizzato: un’esperienza insoddisfacente potrebbe stimolare un atteggiamento negativo verso la marca, tale da contrastare, se non modificare profondamente l’influenza positiva esercitata dal simbolo.

Il simbolo, la cui prima funzione è stata quella di indicatore della marca, può anche migliorare l’associazione che essa ha con la categoria concettuale di appartenenza attraverso la creazione di un legame visibile con essa. Tuttavia, occorre operare in modo da renderlo unico, poiché vi è

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il rischio concreto e sempre incombente che il valore di una marca possa essere sfruttato, attraverso l’ideazione di un simbolo analogo, da qualche imitatore (si pensi, a riguardo, al valore simbolico della confezione ed alla sua imitabilità). Essendo la difendibilità legale tutt’altro che completamente affidabile, la strada che più proficuamente può essere percorsa è, a tal proposito, quella del potenziamento dell’unicità del simbolo e delle associazioni da esso evocate. Esistono, però, dei seri fattori che contribuiscono a limitare le possibilità offerte da quest’opzione. In primo luogo, c’è il rischio, nello sviluppare associazioni originali ed uniche, di crearne di incongruenti (e perciò indesiderate) con la radicata percezione che il mercato ha della marca, con il risultato di perdere focus riguardo alla posizione attualmente detenuta senza poi riuscire a godere dei vantaggi promessi dalle nuove associazioni.

In secondo luogo, se l’unicità ed il risalto necessari a fornire un rilevante supporto mnemonico risultano favoriti dall’adozione di immagini particolari, inconsuete, in grado di creare delle interessanti e significative incongruenze (un simbolo che rompa con la tradizione semiotica del mercato ha maggiori probabilità di essere notato), d’altra parte ciò va a scapito della semplicità e dell’immediatezza del messaggio: l’associazione tra un simbolo e un prodotto, se il primo riflette o ricorda il secondo, viene colta più facilmente correndo, tuttavia, il rischio di passare inosservata tra la molteplicità di segnali analoghi che ne rendono più ardua la distinzione.

Inoltre, un simbolo che si discosti dagli elementi contenutistici tipici del mercato di riferimento risente maggiormente del modificarsi del contesto in cui viene applicato, denotando una inferiore capacità di trasposizione dei propri significati nel caso in cui si voglia procedere, per esempio, all’introduzione di nuove versioni del prodotto che ne vadano ad ampliare la gamma. Esiste un trade-off molto importante da tenere in considerazione: se il simbolo (e la marca) possiede delle associazioni estremamente forti, le sue capacità di adattamento, di riposizionamento e di estensione possono ridursi notevolmente. Un simbolo che si caratterizzi per un’associazione debole con la categoria d’appartenenza, ha, comunque, una flessibilità strategica più elevata. L’upgrading del simbolo non è attività così saltuaria come si potrebbe credere, e neppure senza rischi. I problemi

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per la marca possono nascere perché, con questa decisione, si da l’inizio a un processo d’identificazione ex novo, con le incognite ed i pericoli del caso. D’altra parte, si tratta di una scelta che a volte diventa necessaria a causa dell’obsolescenza che può investire il simbolo o, comunque, per l’insorgere di associazioni indesiderate e negative per la soluzione delle quali il suo cambiamento, decisione spesso molto sofferta, pare essere l’unica soluzione.

Il simbolo e le associazioni che esso genera devono essere protetti e salvaguardati nel tempo, evitando di inserirli in situazioni che potrebbero minarne l’equilibrio e di porre in essere delle azioni che modifichino il contesto in cui sono inseriti arrischiando di distorcerne il significato originale. Se, ad esempio, la concessione del simbolo in licenza permette di aumentarne l’esposizione e la notorietà, si corre, nondimeno, il pericolo di allargare, con i contesti in cui esso viene attivato, anche la possibilità che si determinino delle associazioni negative o comunque indesiderate che ne vadano ad erodere il valore proprio a causa dell’inadeguatezza di tali contesti ad esserne espressione (senza considerare il rischio di una sovraesposizione causa di noia, quand’anche non di irritazione, da parte del pubblico).

4.2.4 – Lo slogan.

Il terzo elemento espressivo che prendiamo in considerazione ai fini della costruzione del messaggio comunicativo sulla cui base viene costruito un posizionamento o un riposizionamento, lo slogan, è quello più versatile e che maggiormente si presta, nel tempo, ai ripensamenti ed agli aggiornamenti che possano rendersi necessari. Se la combinazione di nome e simbolo è in grado di rafforzare, agendo sinergicamente, il valore di marca, essa, tuttavia, trova delle limitazioni quanto all’incisività dei concetti esprimibili. È allora lo slogan a coprire gli eventuali vuoti comunicativi, divenendo il collante dei diversi processi psicologici attivati dalla marca e consegnando al messaggio un rilievo e una valenza che trascendono e contribuiscono a riunire al tempo stesso gli apporti degli altri

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elementi che costituiscono la strategia di posizionamento. Simbolo e slogan possono diventare asset importanti e devono essere saldamente legati al nome. Quando un nome è in grado di sostenere simboli e slogan efficaci, il collegamento di questi elementi evocativi con esso viene notevolmente facilitato.

Uno dei vantaggi che presenta lo slogan rispetto al nome ed al simbolo è costituito dalla rilevanza molto minore – e spesso dalla diversa natura – dei vincoli, legali e non, in cui occorrono invece questi ultimi. Particolare attenzione deve essere posta per quanto riguarda la pubblicità comparativa, laddove tale strumento non risulta vietato. Essa rappresenta il principale mezzo con il quale l’impresa può procedere al “riposizionamento dell’avversario”, la modificazione diretta, attraverso un nostro messaggio, delle associazioni che lo legano al mercato. Abbiamo già osservato come, nel momento che una scala di valori è già stata creata nella mente e le prime posizioni lungo essa siano già occupate, l’unico modo per avere accesso alla preferenza dei consumatori è quello di spostare una marca dal gradino occupato per poi cercare di prenderne il posto1. Una volta constatata la difficoltà ad aprire un nuovo créneau, in altre parole si pone per la marca la necessità di riposizionare la concorrenza nella mente del potenziale acquirente. Per farvi entrare una nuova idea o prodotto è necessario prima liberare il campo da quelli vecchi. Il riposizionamento della concorrenza è incentrato sulla costruzione di un collegamento con i concetti sedimentati nella mente dei potenziali clienti e da loro accettati. Per ogni esistente categoria, il cliente conosce già i vantaggi derivanti dall’uso di un determinato prodotto ad essa appartenente. Per far sì che il nuovo prodotto posa salire in alto nella scala di riferimento nella mente dei consumatori, è indispensabile collegarlo con quelli in essa presenti.

Secondo la particolare posizione di partenza dei contendenti, si avranno differenti strade percorribili. Ad esempio, se l’attacco è portato

1 Ciò dipende dal fatto che le persone hanno memoria solo per le prime posizioni della categoria concettuale in considerazione: la forza del posizionamento di un’impresa dipende, allora, dal riuscire a mantenere o a conquistare uno spazio di rilievo nella loro mente divenendo uno dei terminali di arrivo nell’associazione tra il bisogno e la categoria da esso promossa da una parte, e le marche riconosciute come solutrici dell’esigenza percepita.

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con un offensiva frontale diretta al leader di mercato, occorrerà trovare preventivamente una “debolezza nella sua forza”. Questa apparente contraddizione sta a significare un importante concetto: esiste sempre un punto debole nella posizione della marca leader che discende direttamente dalla sua stessa leadership ed è per essa difficile da eliminare, nel caso in cui riesca a riconoscerlo, proprio perché è insito nella sua forza. Una posizione comporta praticamente sempre una edificazione di associazioni attorno ad un focus, lasciando inevitabilmente scoperti spazi mentali attaccabili e occupabili dai competitori più accorti e sagaci.

Riposizionare la concorrenza significa dire qualcosa sul suo prodotto piuttosto che sul nostro, di modo che il potenziale cliente cambi la sua percezione ad esso relativa, aprendosi, in tale maniera, nuove prospettive per il posizionamento della marca che attua l’offensiva. Evocando le marche presenti al suo interno ed illustrando, evidenziandone il reciproco valore, le forze in campo e le associazioni indotte dai diversi competitori, una simile azione presenta l’ulteriore vantaggio di stimolare l’attenzione e l’interesse verso l’intera categoria concettuale di riferimento. Attraverso il riposizionamento della concorrenza viene comunicata ed enfatizzata la differenziazione tra i prodotti o servizi, ma ciò non significa che si tratti semplicemente di prendere quello dell’avversario come riferimento e di dire all’interlocutore che il nostro è migliore rispetto ad esso, perché un approccio del genere risulta troppo banale per essere ritenuto valido ed affidabile.

Lo slogan, attraverso l’induzione portata dalle parole che lo compongono e dalle sensazioni evocate, fornisce alla marca delle associazioni addizionali, andando ad arricchire rielaborandoli i concetti espressi dal nome e dal simbolo. Ma il suo rilievo ed il contributo offerto al posizionamento della marca sanno anche essere indipendenti rispetto agli altri fondamentali elementi nei quali si estrinseca il messaggio comunicativo, dimostrando la capacità di generare un suo proprio valore concretamente sfruttabile.

L’efficacia di uno slogan è visceralmente legata alla sua pertinenza al mondo concettuale di riferimento del consumatore ed alla particolare percezione che egli ha della categoria di prodotto e della specifica marca in

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considerazione. Il costante riferimento deve essere posto a quanto è già presente nelle convinzioni dei potenziali clienti: esistono argomenti che ad una marca non è concesso di supportare, nonostante siano idealmente corretti ed opportuni da sviluppare. Ciò che non viene riconosciuto dal mercato è, solo per questo, inesistente e inutilizzabile, salvo riuscire a spostare la prospettiva su un diverso punto focale (ma siamo, qui, nel pieno processo di riposizionamento). In termini di riposizionamento, è essenziale riuscire a trovare un modo per collegarsi a quanto la mente ha già assorbito: il messaggio di riposizionamento deve necessariamente prendere il via da quel punto di partenza naturale che è la percezione sedimentata.

La ragione ultima dell’importanza dell’avere una posizione definita è rintracciabile nella distanza percepita tra la marca ed i vari concetti che le possono essere associati. A riguardo, se è vero che le distanze mentali possono essere percorse, ciò non implica necessariamente la copertura di qualsiasi possibile posizione, poiché, come sappiamo, il punto di approdo non deve risultare già occupato da qualcun altro. Il semplice avvicinamento può, anzi, essere deleterio per la marca, dal momento che, mentre da una parte si lascia una posizione focalizzata e probabilmente percepita come alternativa da una parte dei consumatori la quale offriva comunque una sua certezza e definizione (anche se di taglio inferiore e meno profittevole della posizione ideale), dall’altra si rischia seriamente di rimanere esclusi dalla posizione obiettivo senza avere punti focalizzati su cui ripiegare, nella pericolosa assenza di una identità di marca riconosciuta dal mercato.

Lo slogan, inoltre, deve essere specifico, non generico e valido per tutte le occasioni. L’appropriazione che le persone tendono a portare avanti nei confronti dei messaggi percepiti deve in ogni caso ricondurre al prodotto o servizio, al sistema di attività che lo contraddistingue e alle associazioni connesse a tali attività. Insistere su un messaggio pregnante, ma non in grado di attivare le associazioni con il prodotto finisce col produrre solamente un incremento delle spese pubblicitarie, senza che si abbiano i risultati attesi in termini di posizionamento. Al contrario, un adeguato livello di specificità rafforza il legame con la marca e l’importanza percepita della comunicazione: il target viene posto di fronte

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ad un messaggio che travalica le soglie dell’ovvietà attivandone l’attenzione e la ricettività1.

Specificità e pertinenza sono, poi, alla base di quella forma di ricordabilità che rende pienamente fruibili, da parte del consumatore, le associazioni connesse alla particolare posizione ricoperta dalla marca. Il ricordo, in altre parole, si fa nitido e vivo nella memoria della persona, di modo che gli sforzi comunicativi (ed eventualmente creativi) non risultino fini a se stessi, ma vengano incanalati in direzione della generazione di valore per la marca.

4.3 – Posizionamento e persuasione

4.3.1 – Persuasione, potere e comunicazione.

Le persone intraprendono un processo di comunicazione con lo scopo principale di ottenere che l’interlocutore modifichi il suo comportamento adeguandolo alla volontà di chi a tale processo dà inizio. Operando in questo senso la comunicazione pare orientarsi anche ad altri scopi, tutti, però, di una qualche matrice manipolativa, sia che si tratti di modificare atteggiamenti, che valori o credenze della controparte2. Del

1 A livello di interpretazione succede che “un” messaggio diventa “quel” messaggio, aumentando così in rilevanza e valore.

2 Fiocca (R. FIOCCA, Relazioni, valore e comunicazione d’impresa. La comunicazione integrata nell’economia delle imprese, EGEA, 1993, p. 45) definisce comunicazione «tutto ciò che, esplicitamente o implicitamente, incide (modificandoli o rinforzandoli) e sugli atteggiamenti delle persone», rendendone la vastità del campo di applicazione. Non si tratta di una definizione eccessivamente generica, ipotizzando, l’autore, che la comunicazione crei valore economico arrecando benefici diretti per l’impresa, se gestita correttamente ed in maniera intelligente, sia in termini di capacità competitiva, sia sul versante reddituale. Di più: per Fiocca «Il valore dell’impresa si evince dalla capacità dell’impresa stessa di adattarsi, in modo continuo e articolato, ai fabbisogni espressi dalle domande (di mercato, di lavoro, di capitali); fabbisogni che hanno la peculiarità di essere individuali e mutevoli nel tempo (p. 10)». Ritroviamo, in queste parole, concetti riconducibili a quell’ideale di fusione con il mercato che abbiamo riconosciuto essere il punto di fuga verso cui far convergere le prospettive

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resto, alla fine, non si può fare a meno del constatare come atteggiamenti, valori, credenze altro non costituiscono che la necessaria premessa all’adozione di determinati comportamenti. Nel dare avvio al processo comunicativo, la naturale convinzione di cui l’emittente è portatore è quella di andare a mutare il corso degli eventi in senso a lui favorevole1 attraverso la modificazione del comportamento di chi riceve le informazioni

Se è vero che la comunicazione presenta sempre, tra i propri fini, la modificazione del comportamento dell’interlocutore, allora risulta anche evidente che la problematica della comunicazione coincide con la problematica del potere. Quest’ultimo è inclusivo di due significati simili, ma non identici. Da una parte, infatti, il potere implica mancanza di ostacoli a fare, assumendo, quindi, una veste eminentemente negativa riguardo alla possibile frapposizione di intralci. Dall’altra, esprime la capacità di ottenere che il comportamento dei terzi si adegui alle intenzioni

strategiche aziendali, allo stesso modo in cui traspare il rilievo in cui l’autore pone i fenomeni associativi e la loro funzione di connettori di significati tra le parti coinvolte nel processo comunicativo: «Le capacità di adattamento dell’impresa si realizzano nelle relazioni. E la comunicazione è l’elemento centrale (il vettore) di tali relazioni (p. 10)».

In un’opera successiva (R. FIOCCA, E. CORVI, Comunicazione e valori nelle comunicazioni d’impresa, EGEA, 1996, p. 19), la relazione riconosciuta tra comunicazione e valore emerge ancora più chiaramente: «L’obiettivo ultimo della comunicazione è la creazione e la diffusione del valore d’impresa». Allo stesso modo, gli autori (p. 22) evidenziano il nucleo centrale del problema della simbiosi dell’impresa con il mercato: «Allorché si afferma che l’obiettivo finale della comunicazione nei confronti del sistema-ambiente e del sistema-impresa è rintracciabile nella modifica degli atteggiamenti, che consentono lo sviluppo di comportamenti funzionali alle finalità dell’impresa, si intende sostenere che la comunicazione consente all’impresa di intrattenere migliori relazioni con l’ambiente. Migliori relazioni con l’esterno e al suo interno significano maggiore sintonia, superiore capacità di rispondere ai bisogni e alle esigenze dell’ambiente di riferimento e più elevate possibilità di assolvere al meglio il ruolo dell’impresa come unità economica. La comunicazione è quindi un meccanismo di avvicinamento dell’impresa ai mercati e, più in generale, ai sistemi ambientali; essa rappresenta il vettore principale dei flussi di relazioni che inseriscono l’impresa nell’ambiente in modo unitario e sistemico, e crea valore avvicinando reciprocamente domanda e offerta».

1 Favorevole nel senso di andare nella direzione desiderata, qualunque essa sia.- 256 -

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dei detentori del potere; in questo caso presenta una connotazione positiva che favorisce questi ultimi. Ciò che più conta, ed accomuna entrambe le prefigurazioni date di potere, è che esso comporta l’adeguamento del comportamento dell’interlocutore all’interesse del detentore del potere. È nella capacità di persuasione (o di dissuasione, secondo l’angolo visuale da cui si guarda la questione) che si esprimono le posizioni di forza relativa ed il potere.

Coincidendo le problematiche della comunicazione con le problematiche del potere, occorre analizzare preventivamente la coniugazione della prima con il secondo, la quale può dare luogo a tre situazioni che possiamo ritenere pure:

- al potere inteso come coercizione corrisponde un modello comunicativo che si risolve in un ordine imperativo;

- il potere si esprime in una attività di convinzione attraverso la formulazione di una spiegazione razionale (convinzione);

- il potere viene esercitato attraverso un’opera di persuasione.

Possiamo assumere, ai nostri fini, che il potere venga esercitato mediante il ricorso alla convinzione ed alla persuasione, escludendo quindi il caso della coercizione. “Convincere” una persona significa fare appello alle sue capacità di razionalizzazione in modo da dimostrare la validità della base delle asserzioni espresse, la quale verrà in seguito assunta per data al reiterarsi delle medesime condizioni. “Persuadere” una persona, invece, vuole dire modificarne gli atteggiamenti ed i comportamenti abituali in questo caso attraverso una strategia comunicativa volta a sfruttare gli elementi simbolici, più che quelli logici, facendo appello a emozioni ed agli avariati aspetti – anche irrazionali – della psiche.

Oggi, tuttavia, la psicologia tende a superare questa distinzione considerando che non esistono messaggi totalmente razionali o totalmente emotivi. Un incremento delle caratteristiche logiche di un messaggio non implica un decremento delle sue caratteristiche emotive, e viceversa. Anzi, il messaggio più persuasivo è probabilmente quello in cui coesistono il massimo di logicità e di emozionalità.

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In seguito alle considerazioni testé espresse, potremmo dare una possibile definizione del processo di persuasione intendendolo come l’atto di manipolare simboli – verbali e non verbali – in modo da produrre cambiamenti nel comportamento valutativo o negli atteggiamenti di coloro che tali simboli sono chiamati a interpretare.

Nel più elementare modello di persuasione un individuo tenta di far percepire ad un altro due diversi stimoli collegati da una relazione: il primo, lo “stimolo-oggetto”, costituisce l’oggetto della persuasione, la tesi controversa; il secondo, lo “stimolo motivazionale”, riguarda una tesi che non incontra l’ostilità aperta dell’interlocutore e sulla quale, anzi, è presumibile che ci sia, o possa essere trovato, accordo. In questo contesto, al persuasore spetta il compito di costruire una specie di sillogismo, ovvero trovare l’accordo sullo stimolo motivazionale e mostrare come da esso discenda necessariamente lo stimolo-oggetto.

La realtà, tuttavia, si presenta assai più variegata e complessa di quanto riesca ad esprimere questo paradigma di base, dal quale, peraltro, conviene comunque prendere le mosse. Solitamente, infatti, esiste una pluralità di stimoli motivazionali e dovranno, di conseguenza, essere enunciate più tesi e affermazioni che, corroborate dalle rispettive prove e testimonianze (dati, fatti storicamente provati, …), dovrebbero portare l’interlocutore a riconoscere la necessità di aderire a quella che gli è stata provata.

4.3.2 – Tecniche di persuasione.

Le più comuni tecniche di persuasione possono essere derivate (e quindi sviluppate) direttamente a partire dalla considerazione della teoria della gerarchia dei bisogni1 e di quella della dissonanza cognitiva.

1 Secondo Maslow (v. A. H. MASLOW, Motivation and personality, Harper & Row, 1954, citato, tra gli altri, in N. DAMASCELLI, 1993, op. cit., p. 88) i bisogni umani si dispongono secondo una precisa gerarchia (una scala gerarchica “di prepotenze”), in base alla quale il passaggio al livello superiore nella ricerca della soddisfazione dei bisogni, avverrebbe solo in seguito al soddisfacimento di quello attualmente percepito come attuale ed incombente.

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Damascelli individua quattro tipiche tipologie di intervento comunicativo orientato alla persuasione1:

A. Tecniche di persuasione basate sul fattore paura/bisogno di sicurezza.

B. Tecniche di persuasione basate sul bisogno di appartenenza.C. Tecniche di persuasione basate sul bisogno di stima e autostima.D. Tecniche di persuasione basate sulla dissonanza cognitiva.

A – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL FATTORE PAURA/ BISOGNO DI SICUREZZA.

Accordandoci a quanto già illustrato in particolare nel secondo capitolo2, non possiamo non riconoscere come, nell’epoca del provvisorio e della precarietà, le situazioni sociali si fanno talmente instabili da generare una generale apprensione e paura in chi si trova ad affrontarle. Il più potente fattore scatenante, in proposito, è costituito dal cambiamento, il quale sconvolge l’ordine degli schemi mentali pregressi attorno ai quali la persona edifica i propri schermi difensivi: una volta aperto un varco nelle

L’uomo, nella visione dell’autore, tende a soddisfare prioritariamente i bisogni fisiologici, e quindi, rispettivamente, il bisogno di sicurezza e protezione, quello di socialità e appartenenza al gruppo), quello di stima, quello di autorealizzazione. La struttura dei bisogni presenterebbe, inoltre, un’evoluzione in funzione dell’evoluzione dell’individuo.

In realtà, comunque, sussiste sempre una certa coesistenza tra le diverse categorie di bisogni, l’importanza particolare delle quali può variare secondo le caratteristiche dei singoli individui, delle loro esperienze cumulate nel tempo e delle interpretazioni ad esse date, dei diversi aspetti circostanziali.

In una successiva rielaborazione, Maslow aggrega i bisogni fisiologici e di sicurezza nella comune categoria dei bisogni da deficit (quelli che spingerebbero l’individuo a colmare le carenze organiche e psicologiche) ed i bisogni di appartenenza, di stima, di autorealizzazione in quella dei bisogni collegati con la crescita dell’individuo (quelli che lo spingono a migliorare e realizzare se stesso).

1 N. DAMASCELLI, 1993, op. cit., pp.96-103.2 Cfr. par. 2.3.

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sicurezze su cui confidava, si apre per essa uno scenario sconfortante ed inizia la ricerca di una rapida ritirata entro un guscio protettivo alimentato da nuovi, e in genere di taglio inferiore, convincimenti ed atteggiamenti tendenti (e miranti) ad una rinnovata abitudinarietà in grado di ricreare un certo equilibrio, seppure ad un livello più basso. Si tratta, a ben vedere, di ricorrere a concetti ben noti e presenti da molto tempo nell’armamentario semantico di cui hanno fatto uso gli uomini nei secoli (spesso, ad esempio, capita di imbattersi in messaggi incentrati su di un’allegoria la quale, costituita da elementi tipici – la metafora, la personificazione, il conflitto morale –, svolge oggi per la pubblicità una funzione analoga a quella che ricopriva nella letteratura medievale1).

La percezione, più o meno conscia, della paura e l’importanza del bisogno di sicurezza costituiscono l’elemento portante della persuasione che si basa proprio su quest’ultimo elemento. D’altra parte, il bisogno di sicurezza occupa il secondo gradino nella scala gerarchica dei bisogni di Maslow, subito dopo i bisogni fisiologici. In virtù di queste considerazioni è facile, allora, comprendere le ragioni del successo di quei messaggi che, anziché contrastare le paure, si incentrano sulla loro esagerazione, confermando il pubblico nelle sue insicurezze latenti ed enfatizzando gli elementi rassicurativi che la marca è in grado di evocare. L’efficacia di questo genere di argomenti comunicativi è dovuta essenzialmente al fatto che essa fa appello a un fondamentale aspetto irrazionale della personalità umana: è molto più facile rimanere persuasi degli aspetti negativi di una vicenda e che tutto vada male, piuttosto del contrario.

Tipico esempio di una strategia comunicativa di matrice persuasiva che fa leva sul bisogno di sicurezza è il ricorso a testimonial, i quali, soprattutto con riferimento ai nuovi marchi o prodotti, incoraggiano il potenziale acquirente alla prova sulla base dell’associazione con il successo che la presenza del testimonial genera. In particolare, si riduce il rischio percepito di un eventuale insuccesso, dal momento che il consumatore si sentirà spalleggiato dalla stessa aura di approvazione generalizzata che

1 Per uno studio sulla relazione tra l’allegoria e la strategia pubblicitaria si veda: B. B. STERN, Medieval allegory: roots of advertising strategy for the mass market, Journal of marketing, luglio 1988, pp. 84-94.

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circonda il personaggio al centro del messaggio: la riprovazione connessa ad un errore diverrà assai più improbabile in quanto numerose sono le persone che percepiscono positivamente il portato valoriale e simbolico del testimonial e che cercheranno, nel possibile, di imitarne il comportamento. Il fallimento della prova, così, passerà da una scelta personale scorretta (origine di demerito) ad un errore condiviso, perciò plausibile e senza dubbio più accettabile.

Significato analogo ed equivalente è quello derivante dall’adozione di un tono comunicativo fortemente aggressivo (ad esempio portato avanti, nel tentativo di riposizionare la concorrenza, dalla pubblicità comparativa) che, al limite, manchi di rispetto per gli interlocutori1, le tesi dei quali vengono svilite e ridicolizzate. In questo caso, il meccanismo attivato è quello che spinge le persone più timide ed insicure a schierarsi dalla parte di chi dileggia o comunque a rimanere neutrali nel timore di ritrovarsi dalla parte di chi subisce un così cruento attacco psicologico e morale. E, d’altra parte, per vincere paure e insicurezze, potrà emergere la tendenza a schierarsi dalla parte di chi appare più forte e sicuro.

B – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL BISOGNO DI APPARTENENZA.

A volte, la strategia persuasiva viene impostata facendo leva soprattutto nella tendenza al conformismo di gruppo. In effetti, trovarsi inseriti in un gruppo e trovarsi in posizione minoritaria significa per gli individui essere sottoposti a forti pressioni intese a ripristinare la conformità con le opinioni ed i comportamenti della maggioranza. Andare contro corrente all’interno di una comunità, la quale richiede comportamenti rientranti nei canoni di accettabilità affermati in relazione alle specifiche circostanze e al tempo in cui si svolgono, non è affatto cosa

1 Naturalmente, deve risultare che questo è quanto essi si aspettano necessitando di un qualcosa che li istighi e li forzi ad un comportamento che, altrimenti, non avrebbero il coraggio e la forza di seguire. Spesse volte, infatti, il bisogno di sicurezza diviene bisogno di avere una sorta di padre-padrone cui affidare la propria sorte e che sollevi dalle problematiche – stressanti e potenzialmente sconvenienti per gli equilibri, di qualunque livello essi siano, così faticosamente conseguiti – del pensare.

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semplice, specialmente se si parte da una posizione di debolezza relativa e se uno dei motivi di fondo che spingono alla partecipazione al gruppo esercitante la pressione è dato dal bisogno di sicurezza. Infatti, il pericolo percepito è proprio quello di mettere in crisi la stabilità del sottile equilibrio raggiunto.

Tuttavia, considerazioni analoghe valgono e possono essere traslate in presenza di un sottogruppo che abbia coscienza di sé e della posizione ricoperta all’interno del gruppo di rango superiore manifestando un autonomo pensiero ed un’autonoma volizione. Con riferimento all’appartenenza siamo in presenza, cioè, di un concetto ed un sentimento di natura ricorsiva, che si ripresenta a qualsiasi livello di aggregazione sociale ogniqualvolta ne sussistano le condizioni.Solo in quest’ottica, infatti, è possibile spiegare il fenomeno delle “minoranze attive” descritto da Moscovici, in forza del quale piccoli gruppi di persone riescono a modificare, attraverso i loro comportamenti, idee, artefatti comunicativi (verbali e non verbali) le opinioni ed il modo di pensare (in una parola, la cultura) della comunità di livello superiore della quale sono parte integrante1.

Lo stile di comportamento tenuto dalla minoranza attiva risulta essere determinante per il conseguimento e l’affermazione di quel mutamento culturale da essa portato avanti e permette la trasmissione di concetti ad un tempo efficaci ed originali2. Affinché la minoranza eserciti

1 S. MOSCOVICI, Psicologia delle minoranze attive, Boringhieri, 1981 (citato in: A. S. DE ROSA, A. H. SMITH, strategie comunicative da «minoranza attiva» nello scenario dei pubblicitari: il caso Benetton – Toscani, in “Micro & Macro Marketing”, aprile 1997, pp. 104-107.

2 La risposta cognitiva delle persone esposte a comunicazioni originali e minoritarie risulta, in effetti, particolarmente elevata: le posizioni espresse dalle minoranze dissenzienti, in altre parole, sono in grado di ricevere una maggiore attenzione e costituire oggetto di una più profonda riflessione critica, favorendo un eventuale cambiamento di opinione (il quale si dimostra più stabile di quello prodotto da una fonte maggioritaria). Tale cambiamento avviene in forma indiretta, a livello latente, quindi, ritrovando una certa stabilità, anche ad un livello cosciente. Le minoranze dissenzienti, infatti, producono e manifestano uno strano potere: persistendo nella difesa allo stesso tempo oltranzista, ma ragionata, flessibile e attenta delle proprie posizioni, determinano a livello profondo una modificazione degli atteggiamenti la

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un’influenza che sfoci in un cambiamento significativo a livello di cultura e di senso comune (cioè a livello di luogo comune e di rappresentazioni ingenue della realtà), è necessaria la presenza di precisi elementi all’interno della sua strategia comunicativa:

- deve porsi all’attenzione del pubblico facendosi notare e calamitando l’interesse verso le proprie iniziative e le proprie idee;

- deve minare le certezze, gli schemi mentali e le convinzioni sedimentate nella memoria del gruppo di livello superiore, insinuando l’ombra del dubbio e creando le premesse per lo sviluppo di dibattiti e discussioni al suo interno3;

- deve dimostrarsi coerente nelle proprie convinzioni e nei propri comportamenti;

- deve rimanere fedele alle proprie posizioni originarie;

quale, tuttavia, corrisponde spesso – ad un livello manifesto – all’espressione di critiche e valutazioni negative.

Pare, inoltre, che le fonti minoritarie stimolino, nell’ambito di una situazione problem-solving, la formazione di risposte cognitive più articolate, creative e ragionate, ma anche più poliedriche, e conflittuali di quelle indotte da una fonte maggioritaria. Le minoranze attive, in effetti, stimolerebbero un pensiero di tipo «divergente» che porterebbe ad interpretazioni nuove, originali e relativamente diversificate dei problemi oggetto di discussione.

Infine, si può ipotizzare che le fonti minoritarie facilitino il ricordo delle informazioni presentate attraverso una comunicazione: le informazioni trasmesse da un gruppo minoritario che si oppone ad alcune delle norme e delle idee della comunità verrebbero ricordate più facilmente di quelle inviate da un gruppo maggioritario che incarna i modelli culturali radicati nel senso comune.

3 Una particolare tattica utilizzabile dal gruppo minoritario attivo consiste, appunto, nel creare un conflitto per poi gestirlo a proprio vantaggio attraverso l’adozione coerente di stratagemmi retorici volti a spostare l’ago della bilancia verso una maggiore accettazione delle proprie posizioni. Essenziale, a riguardo, è il passaggio più diretto possibile tra la comunicazione e l’azione, tra il dire e il fare, di modo che mentre da una parte vengono con risolutezza e prontamente confutate le critiche, dall’altra si dimostra la fondamentale coerenza e limpidezza della propria condotta strategica.

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- deve mostrare di credere fermamente in quello che propone all’attenzione altrui;

- deve manifestare sicurezza, competenza ed autonomia;- deve mostrare una certa flessibilità, cioè deve presentarsi non

dogmatica, bensì disponibile all’ascolto e all’analisi delle valutazioni critiche che vengono mosse dalla controparte.

Accanto allo stile comportamentale, un altro fattore determinante è rappresentato dal grado di sintonia (o fusione) raggiunto con il mercato e con lo “spirito del tempo”, il complesso degli assunti e dei valori che orientano, in un dato momento, il modo di pensare ed i comportamenti di una società, confermando l’importanza rivestita dalla relativizzazione dei concetti di cui si alimenta il pensiero umano.

Rispettate queste condizioni, il gruppo minoritario si dimostra capace di imporre, almeno parzialmente, le proprie idee e di generare e sviluppare atteggiamenti favorevoli nei suoi confronti. Per la marca, tutto questo si riversa nell’accrescimento del suo valore per il tramite della maggiore visibilità a della comprensione più spinta dei suoi significati da parte dei potenziali acquirenti cui il messaggio comunicativo si rivolge.

C – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL BISOGNO DI STIMA E AUTOSTIMA.

L’uomo, animale sociale, non può non vivere al centro di una rete di relazioni e quindi tende inevitabilmente e costantemente a misurare se stesso con gli occhi e con il metro del gruppo si appartenenza. Ogni persona, tuttavia, avverte come pressante il timore dei propri difetti (reali o immaginari) e di non essere all’altezza di quanto viene richiesto dal gruppo. Di qui il bisogno di essere continuamente rassicurati sull’adeguatezza delle proprie qualità e dei comportamenti posti in essere.

Talvolta succede che nell’esaltare doti delle quali è cosciente di non poter disporre nella misura desiderata, mentre il soggetto loda le virtù del proprio pubblico di riferimento, contemporaneamente esso attacchi con

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accanita violenza verbale e disprezzo gli “altri” facendoli divenire un utile parafulmine su cui scaricare le proprie ansie irrisolte e la propria aggressività da mancato raggiungimento di un obiettivo. Questa tecnica basata sia sulla lode e la rassicurazione, che sull’odio ed il disprezzo per gli “altri” consente di raggiungere un duplice obiettivo: quello di elevare la coesione del gruppo indirizzando un odio che supera ogni razionalità verso l’esterno del gruppo stesso, e quello di rassicurare e elevare il senso di soddisfazione dei membri del gruppo legato direttamente alla sua appartenenza.

D – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SULLA DISSONANZA COGNITIVA.

Secondo la teoria della dissonanza cognitiva, due elementi cognitivi (dove per “elemento cognitivo” si intende ogni cosa che possa essere conosciuta, comprese le credenze e gli atteggiamenti) sono in relazione dissonante se, considerati a sé stanti, il contrario di un elemento è conseguenza dell’altro; sono invece in relazione consonante se un elemento è la conseguenza dell’altro.

Esiste una serie di situazioni tipiche nelle quali si verifica dissonanza e di cui occorre tenere la dovuta considerazione nel momento in cui si delinea la strategia comunicativa che la marca userà per dare sviluppo al proprio posizionamento:

- Una volta che la persona opera una scelta, da quel momento in poi tutti gli elementi a favore delle alternative scartate e tutti gli elementi a sfavore dell’alternativa seguita si pongono in posizione dissonante rispetto alla scelta ormai fatta. Inoltre, maggiore è l’importanza percepita della decisione in questione, più forte sarà la dissonanza. L’individuo tende, allora, a ridurre la dissonanza minimizzando o negando le informazioni dissonanti e ricercando e valorizzando quelle che, invece, gli offrono delle conferme circa la validità della scelta fatta.Nello studiare la strategia comunicativa l’impresa deve perciò tenere in piena considerazione la possibilità che i propri interlocutori siano

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talmente coinvolti nelle scelte da loro compiute che coglieranno qualsiasi occasione per ignorare, rifiutare o negare i messaggi che si collocano in posizione dissonante con tali scelte.

- Se si ottiene, con le minacce o con le blandizie, che una persona di comporti in modo difforme rispetto alle sue credenze, convinzioni, valori, si crea in essa una situazione di dissonanza. Se, invece, egli non accetta l’imposizione, l’attrattiva delle ricompense rifiutate o la negatività delle punizioni che dovrà subire si pone come dissonante rispetto alla situazione in cui tale persona si è messa, dal momento che ora le ricompense sono irraggiungibili e le punizioni sono ormai inevitabili. Anche in questo caso la dissonanza sarà tanto maggiore, quanto più profonda ed importante è la credenza o il valore in gioco. La persona sarà tentata di ridurre la dissonanza – e quindi cercherà di giustificare il suo comportamento – minimizzando l’importanza della credenza violata o addirittura modificando la credenza stessa, oppure rendendo massima la percezione della punizione evitata violando la credenza, oppure, ancora, rendendo massimo il valore della ricompensa ottenuta col comportamento scelto. Le implicazioni di questo aspetto della dissonanza cognitiva in termini di strategie persuasive consistono, in primo luogo, nella possibilità di ottenere un mutamento duraturo negli atteggiamenti offrendo una giustificazione sufficiente, anche solo temporaneamente, a far mutare gli atteggiamenti stessi, in modo che chi abbia tenuto un comportamento in contrasto con la propria precedente opinione sia portato successivamente a ridurre la situazione di dissonanza. In secondo luogo, se si riesce nell’intento di ottenere che l’individuo sostenga una volta in pubblico una tesi che intimamente non condivide, egli, per ridurre la dissonanza, sarà poi portato a mutare durevolmente le proprie convinzioni.

- La situazione di dissonanza nella quale un individuo che abbia occasione di ricevere informazioni che contraddicono le sue credenze si viene a trovare, sarà tanto maggiore, quanto più importanti e profonde sono le credenze in questione, quanto più

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l’informazione ricevuta si pone direttamente in contrasto con esse, e quanto più questa informazione appare incontrovertibile.L’individuo sarà allora portato a ridurre la dissonanza giungendo alla conclusione che le sue attuali credenze sono di scarsa importanza, oppure cercando il modo di fare coesistere sia le sue credenze che le informazioni ricevute, ovvero contestando (se possibile) la veridicità delle informazioni stesse, e, infine, cambiando le sue opinioni (ma solo come ultima ratio).

- Nel momento in cui l’individuo si trova faccia a faccia con qualcuno che ha opinioni contrastanti con le sue, la dissonanza aumenterà con il livello di autorevolezza e di stima di cui l’interlocutore è portatore, nonché con l’importanza e la profondità degli argomenti sui quali verte il dissenso. Anche da questa considerazione viene fuori il surplus di valore per la marca che potenzialmente può portare l’associazione ad un testimonial.In questa situazione, la persona cercherà di ridurre la dissonanza cercando di far cambiare opinione all’interlocutore portandolo sulle proprie posizioni, minimizzando l’importanza dell’interlocutore stesso (operazione tanto più difficile quanto più questi goda di una reale autorevolezza), minimizzando l’importanza o la dimensione del disaccordo, cercando di raccogliere informazioni e testimonianze favorevoli alla propria tesi (ovvero, cercare di reperire altre persone che possano aggiungersi nel sostenerla), o, infine, cambiando opinione.

Una particolare tecnica che è possibile utilizzare, sempre con riferimento al concetto di dissonanza cognitiva, è quella per la quale si cerca di avere un accesso alla mente del potenziale cliente all’apparenza il più possibile innocente e disinteressato, senza comportare altri impegni, per poi arrivare via, via a cose più impegnative1. Il meccanismo persuasivo si basa sul fatto che ad un certo punto viene a crearsi ad arte una situazione di

1 Tale comportamento è riconducibile a quello tipico del venditore che mette il piede nella porta, forzando la volontà e la ricettività del padrone di casa attraverso l’offerta di campioni gratuiti o con la scusa di una semplice indagine informativa.

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dissonanza tra le risposte date e la primitiva disposizione d’animo (o il primo proposito) di non consentire l’accesso alla propria attenzione e disponibilità. In sostanza, avviene che, avendo violato le proprie precedenti opinioni e credenze, la persona ristabilisce l’equilibrio spostandosi sul versante opposto e accettando come cosa positiva la tesi ad esso corrispondente.

Anche il ricorso alla distribuzione di campioni-omaggio tenta di indurre una situazione di dissonanza nel potenziale cliente, per risolvere la quale egli sia indotto a modificare le proprie abitudini: attraverso la prova ripetuta del campione, la persona, dovendo giustificare a se stessa il “tradimento” della precedente opinione, sarà indotta a riconoscere nella nuova marca delle qualità insospettate in grado di sostituire, come se si trattasse di una conquista autonomamente raggiunta, quella che in precedenza occupava il relativo spazio mentale.

4.3.3 – Dinamicità delle posizioni strategiche: la marca tra cambiamento di prospettiva e adattamento.

Abbiamo osservato come la comunicazione persuasiva costituisca un elemento fondamentale del posizionamento strategico e come i concetti da essa espressi debbano essere pervasivi rispetto a tutti quegli elementi di contatto tra l’offerta dell’impresa ed il target di riferimento che sono in grado di dare origine alle particolari associazioni che vanno a definire la posizione competitiva della marca.

A riguardo, il principale problema che gli strateghi d’impresa si trovano ad affrontare è, quindi, l’individuazione della direzione verso cui orientare l’immagine di marca, in modo da raggiungere lo spazio mentale del consumatore che maggiormente la valorizza e che meglio esprime i tratti dell’esigenza da soddisfare così come quest’ultima scaturisce dalla fusione raggiunta con il potenziale acquirente.

Non si tratta, tuttavia, di una questione così generica come la si potrebbe intendere ad un primo approccio. In realtà, esistono implicazioni, talvolta anche molto sottili e difficili da individuare correttamente, che

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spingono verso una piuttosto che verso l’altra attività da inserire nella più ampia trama strategica d’impresa in modo da ottenere il risultato atteso in termini di associazioni evocate e, per loro tramite, di posizione raggiunta. Oltre a ciò, la definizione di una strategia di posizionamento deve fare i conti da una parte con tutto quanto si trova già nella mente del potenziale cliente, e dall’altra con il fatto che, verosimilmente, esisteranno dei competitori insediati in posizioni altrimenti appetibili per la marca o che influenzano, comunque, le possibilità a disposizione della concorrenza.

In questo modo, l’impresa al centro del processo di posizionamento viene a trovassi nella condizione di muoversi tra aperture mentali e spazi competitivi che possono rivelarsi ampi o stretti, lineari o frammentati, con possibilità di ripiego su posizioni coperte e maggiormente difendibili o con il rischio di ritrovarsi completamente allo scoperto in balia di eventuali attacchi da parte della concorrenza. Inoltre, occorrerà considerare quali potranno essere i possibili scenari competitivi che si vengono a determinare in seguito all’intrapresa di questa o quella particolare azione di marketing.

L’importanza del conoscere il funzionamento del momento interpretativo posto in essere da parte dei consumatori e dei processi mentali attraverso i quali gli stimoli si rivestono di significati, diviene determinante nel momento in cui si manifesti la necessità di un riposizionamento. In questa situazione, l’adozione di linee di azione in grado di attivare meccanismi persuasivi ricopre un ruolo prioritario. Allora, infatti, il problema centrale da affrontare diviene quello di riuscire a far mutare l’immagine della marca così come essa viene percepita dalla mente. Si tratta, in sostanza, di essere in grado di far mutare la prospettiva secondo cui i concetti di cui la marca è espressione vengono guardati dal target di riferimento, ponendosi in sintonia (fusione) con quanto esso vive in termini sia di esigenze avvertite, che di aspettative latenti. Quello che da un punto di vista può non apparire idoneo a risolvere un problema percepito (di qualunque natura – funzionale, simbolica… – esso sia), magari può diventarlo da un’altra angolazione. La relatività dei punti di osservazione e valutazione dei protagonisti al centro dell’arena competitiva è il punto centrale che ad un tempo sintetizza e promuove la dinamicità delle posizioni occupate in un particolare mercato.

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Se il livello di orientamento al mercato e di fusione con esso è ad uno stato avanzato, l’impresa si dimostrerà probabilmente in grado di superare, tramite una manovra di aggiramento semantico, l’ostacolo comunicativo che si oppone ad una piena assimilazione, da parte dei consumatori, degli elementi che caratterizzano l’identità di marca. Altrimenti, occorre avere, comunque, la consapevolezza dei propri limiti di iniziativa e di visione strategica e l’umiltà di seguire una posizione che magari presenta un taglio inferiore, ma che, nella realtà, maggiormente aderisce alle effettive possibilità posizionali della marca.

Nonostante un avanzato stato conseguito nel processo di fusione con il mercato, tuttavia, può accadere che ciò non risulti sufficiente per conferire visibilità e spessore alla posizione verso la quale l’impresa va a muoversi. In effetti, l’immagine, nella totalità o solamente in poche (ma determinanti) delle associazioni da essa richiamate, può risultare così fortemente radicata da non lasciare altro spazio che quello per un intelligente adattamento a quanto risulta già presente nella mente dei potenziali compratori e disposto attorno ad un modello di significati ormai consolidato. L’adattamento può rappresentare, in altre parole, la risposta più confacente ad una situazione in cui sia ben chiaro ai consumatori chi detenga la leadership della categoria di riferimento e su quali basi ciò sia possibile. Nono solo: come abbiamo visto nel secondo capitolo1, le rispettive posizioni occupate dai concorrenti presenti nella scala valutativa inerente una determinata categoria di prodotto sono note alle persone una volta che tale categoria sia stata creata ed entri a far parte del loro mondo concettuale di riferimento.

Starà alle specifiche caratteristiche circostanziali indicare se sia più conveniente per la marca un approccio adattivo, piuttosto che uno volto ad aggirare gli ostacoli concettuali che si frappongono al raggiungimento di una determinata posizione o, ancora, uno che consenta un’azione così pertinente, repentina e ficcante da rendere possibile l’appropriazione di uno spazio rimasto vuoto e disponibile per la miopia strategica degli avversari o perché qualcuno di essi ha lasciato libero in seguito ad un’opzione di

1 Cfr. par. 2.1.3.- 270 -

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riposizionamento o ad un errore strategico (un riposizionamento attuato senza che ne sussistesse la volizione).

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Capitolo 5

IL POSIZIONAMENTO DEI PRODOTTI ALIMENTARI DI LARGO CONSUMO:

ALCUNE EVIDENZE EMPIRICHE

5.1 – Presentazione

Se il mondo dei beni di largo consumo è stato a suo tempo l’humus culturale e sperimentale su cui il marketing management, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, ha attecchito e si è sviluppato per merito, soprattutto, dei contributi teorici della scuola nordamericana, oggi si presenta come terreno fertile per riconcettualizzazioni e nuovi avanzamenti. È principalmente nei settori maturi, infatti, che si avverte maggiormente e più frequentemente la necessità di procedere ad azioni di riposizionamento in grado di proporre per la marca una nuova identità competitiva, inserendola nella giusta direzione e visione prospettica tra i flussi concorrenziali che attraversano il mercato di riferimento.

I beni di largo consumo rientrano infatti, generalmente, in una situazione di maturità e saturazione del mercato, scontrandosi, in primo luogo, con il rischio di perdita d’interesse da parte del consumatore che, assieme all’affollamento concorrenziale, rende ancor più necessaria l’adozione di una opportuna strategia di posizionamento1. Tra i fattori che spingono in tal senso, sembra avere il rilievo maggiore quello costituito dall’eccesso di familiarità con il prodotto e, più in particolare, con la marca che ne è espressione. La ricerca in psicologia ha dimostrato come

1 Uno studio interessante sulla relazione intercorrente tra l’interesse che i consumatori hanno verso una marca matura e l’impatto che in essi produce la pubblicità è dato da: K. A. MACHLEIT, C. T. ALLEN, T. J. MADDEN, The mature brand and brand interest: an alternative consequence of ad-evoked affect, Journal of marketing, ottobre 1999, pp. 72-82.

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l’aumento della familiarità con un oggetto possa alfine condurre alla noia, cosa che si verifica puntualmente anche nel rapporto che la persona intrattiene con la marca: mantenere l’interesse dei consumatori diviene allora la maggiore sfida per chi si occupa della gestione di una marca matura. Possiamo definire brand interest il livello di accessibilità, curiosità, apertura che un individua presenta nei confronti di una marca (accanto ai condizionamenti legati al brand interest troviamo quelli legati al coinvolgimento con la classe di prodotto i quali pongono ulteriori limitazioni agli spazi di manovra dell’impresa). L’interesse per una marca presenta una duplice connotazione: da una parte, per le marche per le quali l’acquisto è ritenuto a basso rischio1 dal consumatore (solitamente per prodotti acquistati frequentemente), si rende necessario fornire al consumatore stimoli sempre diversi e rinnovati continuamente, al fine di soddisfare l’emergente bisogno di varietà che scaturisce dalla natura stessa della categoria di prodotti cui si fa riferimento, agendo preventivamente rispetto alla noia; dall’altra, anche i prodotti che presentano un acquisto ad elevato rischio percepito necessitano di un adeguata azione stimolante dell’interesse, divenendo quest’ultimo determinante nello stabilire, da parte del potenziale acquirente, con quali marche entrare in contatto per poi procedere alla scelta.

L’atteggiamento, la valutazione relativamente perdurante di un oggetto (nel nostro caso verso una marca matura), presenta una certa stabilità, a differenza dell’interesse, il quale risulterà perciò maggiormente influenzabile dalla strategia comunicativa seguita dall’impresa. Perciò, l’intervento a livello di posizionamento, ed in particolare per quanto riguarda la comunicazione pubblicitaria, avrà di per sé una portata limitata rispetto agli atteggiamenti degli individui dal maggiore bagaglio esperenziale dal momento che tali atteggiamenti sembrano meglio resistere alla persuasione, a meno che vengano portati nuovi importanti argomenti a sostegno del messaggio trasmesso.

Per le marche che giungono in una fase di avanzata maturità, spesso diventa prioritario cercare di incrementare la frequenza d’uso mutando

1 La relazione tra rischio percepito e grado di coinvolgimento nell’acquisto è stata analizzata nel par. 2.2.1.

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parzialmente la prospettiva del proprio orientamento al mercato dal “come i consumatori scelgono tra le marche” al “come essi le usano”. Si tratta, in genere, dell’ultima possibilità che le imprese danno alla marca per svilupparsi prima di procedere ad una sua profonda ridefinizione assieme a quella del particolare posizionamento seguito, o, più frequentemente, ad un ampliamento di linea. In sostanza, per incrementare l’uso di marche con elevata notorietà e penetrazione. si rende necessario operare sugli attuali loro consumatori e lo strumento operativo maggiormente utilizzato è quello pubblicitario1. Tra le forme di pubblicità adottate per espandere l’uso troviamo quelle nelle quali la marca-obiettivo viene indicata come una ragionevole scelta con riferimento alla situazione-obiettivo, altre invece in cui l’associazione tra la marca-obiettivo e la situazione-obiettivo avviene attraverso il confronto della prima con un altro prodotto già favorevolmente associato con quella situazione, altre ancora che associano l’uso della marca target nella situazione target con una diversa situazione nella quale la marca risulta già favorevolmente posizionata.

Il settore alimentare, in particolare, è oggi sottoposto a forti tensioni innovative sul fronte del prodotto, della tecnologia di processo e del mercato. Nei primi anni Novanta pareva essersi esaurita la forte e continuativa spinta alla crescita dei consumi che aveva caratterizzato buona parte dei decenni precedenti, a causa della generale situazione recessiva e dei nuovi elementi valoriali che andavano affermandosi tra i consumatori, più riflessivi e ponderati negli acquisti, esprimendo una rinnovata capacità selettiva delle offerte di prodotto e di prezzo. In Italia, inoltre, lo scenario competitivo si è mosso seguendo le principali indicazioni di un sistema distributivo in forte evoluzione, con la forte espansione degli hard discount, delle private labels e dei prodotti generici, accrescendo ulteriormente la pressione sui prodotti di marca, per i quali, ad una nuova esigenza di vitalità nella difesa dei capisaldi su cui si basa il loro vantaggio competitivo – differenziazione, posizionamento, immagine di marca, brand loyalty – si aggiunge l’impellente necessità di mettere in pratica un rinnovato e continuativo sforzo di riadattamento strategico che ci apprestiamo ad

1 Per uno studio sull’argomento si veda: B WANSINK, M. L. RAY, Advertising strategies to increase usage frequency, Journal of marketing, gennaio 1996, pp. 31-46.

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esaminare con riferimento ad alcuni specifici mercati e ad alcune tra le marche che maggiormente li animano1. L’intento è quello di offrire un quadro utile alla comprensione della situazione in divenire e, allo stesso, tempo, uno schema interpretativo adeguato alla complessità ed alla variabilità dell’ambiente-mercato odierno.

Nel fare questo, pare utile riferirsi ad una generale distinzione per quanto riguarda i profili dei consumatori e lo stile di cui essi sono portatori relativamente ai prodotti alimentari. Tale suddivisione è realizzata attraverso una segmentazione di tipo psicografico2, in base alle cui risultanze possiamo distinguere i seguenti gruppi:

- Tradizionalisti. Rappresentano circa un quarto della popolazione e si caratterizzano per uno spiccato rispetto delle tradizioni alimentari nazionali. Per questo gruppo di individui, l’organizzazione, la composizione e la cadenza dei pasti è rimasta pressoché quella di una volta. La gratificazione nel cibo viene, inoltre, spesso ricercata più nella quantità che nella qualità, anche perché la cultura alimentare appare piuttosto bassa. Sul medio-lungo periodo, tuttavia, l’importanza di questo gruppo verrà con tutta probabilità a ridursi.

- Gastronomi. Questo segmento, comprendente circa il 20% della popolazione, appare in leggera crescita. Per gli individui i cui atteggiamenti alimentari possono ad esso essere ricondotti, l’alimentazione è molto importante e ad essa dedicano volentieri tempo e denaro (anche se il piacere dello stare a tavola non è condizionato dalla regolarità che contraddistingue i tradizionalisti). Per i gastronomi il piacere palatiale si coniuga facilmente con la ricerca della novità, dei cibi sconosciuti e/o stranieri, raffinati, che esprimono, a volte, una moda o uno status symbol. Per le caratteristiche che lo contraddistinguono, è

1 I casi analizzati si riconducono ad alcune marche facenti parti del business alimentare italiano ed europeo della multiforme galassia Philip Morris cui appartengono aziende di fama e rilevanza assolute come Kraft, Jacobs Suchard, Tobler, Miller.

2 In seguito, troveremo altre classificazioni in parte diverse e particolari, comunque riconducibili a questa generale impostazione concettuale.

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molto bassa, in questo stile, l’accettazione dei prodotti dietetici, considerati alimenti molto poveri e punitivi.

- Salutisti. Oltre il 15% della popolazione è riconducibile a questo profilo, ed è in crescita. I consumatori salutisti pongono un’attenzione prioritaria al rapporto cibo-salute nelle proprie scelte di consumo. Ai cibi si richiede, principalmente, leggerezza, digeribilità, assenza di grassi e di qualunque ingrediente che possa nuocere alla salute, anche a costo di dover rinunciare al sapore.

- Funzionali. Questo gruppo di consumatori (cui appartiene il 10% della popolazione) è costituito da quanti, per esigenze di tempo, o anche solo per predisposizione, valutano prioritariamente la funzionalità del prodotto, misurata in termini di praticità d’uso, facilità/versatilità di preparazione, conservabilità e stockabilità, minima richiesta di impegno. I funzionali, quindi, cercano di ridurre al minimo il tempo e l’impegno dedicato alla cucina e per loro l’attrazione per un prodotto deriva essenzialmente dalla praticità e dalla comodità dei prodotti, più che dalla rassicurazione e dalla garanzia che questi comunicano ad altri segmenti di consumatori.

- Sregolati. Questo segmento rappresenta circa il 10% della popolazione ed è in forte crescita. I consumatori sregolati sono quelli per i quali è più evidente la tendenza verso la destrutturazione e la “snackizzazione” del pasto, l’incremento dei consumi extra domestici e delle occasioni secondarie di consumo durante la giornata, il consumo di prodotti estremamente flessibili e pratici nell’uso, quasi senza alcun criterio guida sul rapporto cibo/salute o piacere del mangiare. Il mangiare viene considerato una necessità, quasi una scocciatura da parte degli sregolati, per i quali è altissima l’accettazione dei prodotti industriali (in particolare surgelati e merendine).

- Poveri. Rappresentano il 15-20% circa della popolazione e sono particolarmente presenti nelle regioni meridionali. Si tratta, tipicamente, di persone di età avanzata, con basso livello di istruzione e basso reddito. Nell'acquisto di prodotti industriali, i consumatori poveri privilegiano quelli maggiormente tradizionali (per esempio, la pasta) e quelli garantiti da una grande marca. Sono, inoltre, particolarmente

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attenti e rigorosi nella comparazione dei prezzi e non seguono alcuna tendenza moderna nell’alimentazione.

I mercati sui quali riporremo la nostra attenzione si riferiscono ad importanti realtà del panorama del grande consumo italiano nelle quali sono inseriti alcuni prodotti appartenenti alla multinazionale Philip Morris attraverso diversi marchi. Al fine di una migliore comprensione delle specifiche evidenze empiriche riscontrate, pare conveniente esaminare preventivamente natura e peculiarità del contesto competitivo in cui le singole marche sono inserite e si trovano ad operare. Un primo criterio – puramente descrittivo – di classificazione di tali realtà le riconduce all’eterogeneo mercato dei pasti destrutturati (Jocca, Philadelphia, Simmenthal), a quello dei prodotti a supporto del pasto e della sua preparazione (Mayonnaise, Sottilette), a quello del cioccolato e, in particolare, delle tavolette (Milka, Toblerone), a quello del caffè (Splendid, Hag).

Una volta chiarito il quadro contestuale di riferimento, ci avvarremo, nel paragrafo 5.2, di uno strumento concettuale in grado di esprimere sinteticamente le posizioni occupate dalle marche in considerazione insieme al contributo della loro capacità di market-creation nella costruzione di un posizionamento efficace.

5.1.1 – Il mercato dei pasti destrutturati.

I moderni stili di vita frammentati e caotici influenzano decisamente gli atteggiamenti alimentari dei consumatori, i quali vengono a disporre di tempi e motivazioni minori per la preparazione dei pasti principali. Ad essere condizionata maggiormente è la seconda portata, mentre alla prima, dedicata in genere alla pasta, difficilmente si rinuncia in favore di qualcos’altro. L’atteggiamento delle perone diventa perciò favorevole nei confronti di tutti quei prodotti che, nell’ottica di un pasto ormai desturtturato, offrono il maggior contributo in termini di versatilità e facilità d’uso, garantendo, nel contempo, un buon livello qualitativo.

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Viene così a delinearsi un macro-mercato costituito da una pluralità di altri mercati accomunati tra loro da una medesima occasione d’uso. Rientrano, tra gli altri, in questo contesto competitivo il mercato dei formaggi freschi, quello del tonno in scatola, della carne in scatola e dei salumi (soprattutto quelli in vaschetta o in busta, pronti all’uso).

All’interno del mercato dei formaggi freschi1, comprensivo di prodotti tradizionali e di altri più innovativi, il segmento nettamente più ampio è quello riconducibile ai primi, con la mozzarella, che da sola rappresenta più della metà dei consumi. Altri formaggi freschi molto diffusi sono la crescenza (stracchino), la ricotta (che non è un vero formaggio, ma come tale viene percepito), il mascarpone ed i formaggi “artigianali”. Non mancano in questo mercato interessanti spunti di crescita (come quello della mozzarella) accompagnati da rilevanti investimenti in comunicazione ed in innovazione, con la proliferazione delle versioni “light”, a conferma della generale tendenza a porre una maggiore attenzione al contributo dell’alimentazione nel mantenimento della forma fisica.

Il segmento dei formaggi freschi moderni comprende formaggi di tipo cremoso, spalmabili (o “quarq”) ed altri in fiocchi (“cottage cheese”), evidenziando una crescita importante in termini di vendite e di attenzione da parte dei consumatori soprattutto riguardo ai primi. L’offerta, in questo segmento, risulta notevolmente concentrata in mano a poche imprese (le prime quattro detengono oltre il 90% del mercato) di dimensione multinazionale e controllate da grandi gruppi alimentari (ad eccezione di Belgioioso di Ditia Yomo).

I fattori rilevanti d’acquisto che maggiormente inducono i consumatori a scegliere i formaggi freschi moderni sono costituiti, essenzialmente, dal livello di servizio in termini di conservabilità e comodità d’uso (con particolare riferimento al packaging), dalla novità generata dall’innovazione del prodotto, dall’affidabilità che viene garantita dall’immagine di marca. Data la recente introduzione nel mercato, manca, per questa categoria, una tradizione alimentare e di consumo consolidata come può essere quella, per esempio, del grana o della mozzarella. Di

1 I formaggi, classificati in base alle caratteristiche fisiche del prodotto, vengono distinti in duri, semiduri, molli, fusi e freschi.

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conseguenza, le modalità e le occasioni d’uso più frequenti sono quelle suggerite dalla pubblicità (così, i prodotti spalmabili vengono usati sul pane o sui crackers e quelli a fiocchi fungono, senza la benché minima elaborazione, da contorno o alternativa ai secondi piatti1).

I formaggi moderni freschi risultano maggiormente consumati nei centri abitati più grandi, soprattutto tra i giovani e le donne (le più attente al basso contenuto di grassi ed alla praticità e funzionalità del packaging). La domanda di questo genere di prodotti non si differenzia sostanzialmente a livello geografico riscontrando essi, comunque, un maggiore gradimento al Sud.

Gli stili alimentari più interessati a questi formaggi sono definibili come “accurati” e “conflittuali”2. Il primo, al quale appartiene il 14% della

1 In altri paesi, dove questi prodotti sono presenti da più tempo, i consumatori hanno adottato modalità di consumo maggiormente autonome e variegate. Negli Stati Uniti, per esempio, vengono utilizzati come parte integrante di moltissime ricette (come, ad esempio, la “cheese cake”).

2 Gli altri stili alimentari, nella classificazione data da un’indagine Eurisko, sono quelli:- Funzionale. È lo stile dei giovami maschi adulti dei grandi centri, di status elevato,

con interessi culturali e professionali molto vivi ai quali fa riscontro, invece, una sostanziale indifferenza verso l’alimentazione – che è discontinua ora ricca, ora essenziale – ed il rifiuto della preparazione dei cibi. Vi appartiene il 19% della popolazione ed è in crescita.

- Robusto. È lo stile di chi svolge una vita molto attiva, anche fisicamente e chiede a un’alimentazione ricca, abbondante e senza remore dietetiche la reintegrazione delle energie e della carica aggressiva. Rappresenta il 6% della popolazione ed è in marcata flessione.

- Giovanile (19%) in buona crescita. È lo stile dei giovani e giovanissimi, per i quali l’alimentazione è un ambito largamente dominato dalla pulsionalità e in cui si generano comportamenti disordinati, occasionali, esplorativi sulla base della suggestione pubblicitaria del momento e del gruppo dei coetanei. Questo gruppo assume una rilevanza del tutto particolare, dal momento che pare operare “per contagio” anche sugli altri e che, con il procedere del tempo, resterà come un portato delle generazioni che lo hanno sviluppato in grado di persistere a livello comportamentale.

- Trascurato (6%, in diminuzione). È uno stile alimentare non povero, ma irregolare e discontinuo, praticato principalmente da donne che non investono la cucina e la

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popolazione, è diffuso prevalentemente tra le donne di status elevato ed è tipico di chi sceglie e prepara il cibo attribuendo particolare attenzione agli aspetti qualitativi. L’alimentazione degli “accurati” è tradizionale, ma corretta da principi dietetico/salutistici e dalla curiosità per nuovi prodotti e cucine diverse. Il gruppo dei “conflittuali” (12% della popolazione) è costituito da persone (al 70% donne) che, attratte dalla cucina e dalla tavola, alternano periodi nei quali si concedono ai cibi più saporiti, a periodi in cui osservano rigidamente un’alimentazione caratterizzata dall’impiego di molti prodotti leggeri o dietetici.

Tra gli altri mercati riconducibili all’arena competitiva incentrata sui pasti destrutturati, quello della carne in scatola risente fortemente della concorrenza da parte del suo omologo relativo al tonno che, a parità di praticità, presenta un gusto diverso e preferito dai consumatori (anche se inferiore a quello di un altro importante concorrente indiretto quale è quello costituito dai salumi) godendo, a corollario, di una relativa migliore percezione riguardo alla genuinità.

5.1.2 – Il mercato dei prodotti a supporto del pasto.

Nella preparazione del cibo, spesso intervengono elementi che costituiscono un supporto ed un completamento dell’ingredientistica, conferendo un surplus percettivo che va ad arricchire il contenuto del risultato finale di tale preparazione. Non è possibile, tuttavia, addivenire al riconoscimento di una categoria di prodotti dai contorni definibili con esattezza, trattandosi, perlopiù, di frammentati raggruppamenti di ordine merceologico. I principali tra essi sono riconducibili a salse3 e prodotti di origine casearia.

tavola di significati culturali, né hanno un ruolo domestico consistente.- Povero (24% della popolazione, in diminuzione). È lo stile alimentare che più si

approssima alla tradizione contadina, fatta di semplicità e di molti limiti, e che oggi sopravvive anche per obiettiva ristrettezza economica in alcune fasce anziane e periferiche della popolazione.

3 Omettiamo, in questo ambito, la considerazione delle spezie, in quanto non costituiscono un vero alimento che goda di una propria autonomia.

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Le prime sono guidate dalla maionese, l’ornamento per piatti freddi preferito dai consumatori italiani e utilizzabile come farcitura di panini, direttamente spalmabile su pane o crackers o usata per arricchire altri piatti quali, ad esempio, le insalate di riso. Questo prodotto presenta un notevole vantaggio sugli altri tipi di salse (ad esempio ketchup e senape) in quanto offre senza dubbio una maggiore elasticità e versatilità di utilizzo, con un gusto che si coniuga più facilmente agli altri alimenti senza peraltro coprirli.

Tra i formaggi che possiamo ricondurre a questa categoria, sia per quanto riguarda i cibi freddi che per quelli che richiedono una preparazione “a caldo”, troviamo la mozzarella industriale, la fontina, l’Emmental, le paste filate e il formaggio a fette. Proprio quest’ultimo tipo di prodotto riveste, per il consumatore, il ruolo più importante, in forza della sua grande versatilità e della facilità ed immediatezza d’uso. Il successo costruito negli anni da parte di un brand come Sottilette Kraft, resosi protagonista della crescita dell’intera categoria da esso stesso creata, ed il vantaggio conseguito nei confronti degli altri possibili elementi caseari utilizzabili in queste situazioni d’uso sono esplicabili proprio in termini del contributo del prodotto alla semplificazione della preparazione dei cibi, alla flessibilità da esso offerta e, ovviamente, alle sue qualità attinenti al gusto. Il formaggio a fette si pone, così, in evidente sintonia con i moderni stili di vita – particolarmente, con quelli alimentari sempre più tendenti alla destrutturazione dei pasti – offrendo implicitamente alla mente del consumatore una immediata conferma dei propri comportamenti e un supporto del trend in corso.

5.1.3 – Il mercato del cioccolato.

Il mercato italiano del cioccolato presenta delle caratteristiche che lo pongono su una prospettiva diversa dagli altri mercati europei (specialmente di quelli non mediterranei). In particolare, il consumo medio pro capite risulta piuttosto limitato tendendo ad essere stagionale e, soprattutto, risentendo dell’assenza di un vera e radicata “cultura del

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cioccolato”. Spesso, anzi, esistono dei veri e propri pregiudizi nei confronti degli alimenti a base di cacao. Inoltre, è riscontrabile una nutrita presenza di marchi locali molto forti.

Le ragioni che sono portate a sostegno del cioccolato dai suoi estimatori e che lo fanno apprezzare dai consumatori sono di natura sia razionale che emozionale: dal primo punto di vista, si tratta di un prodotto nutriente ed altamente energetico, mentre dal secondo costituisce una forma di autogratificazione ed è un prodotto adatto al “consumo sociale”, nonché costituisce da sempre un “premio” per i bambini.

Pur presentando al suo interno andamenti molto differenti, il comparto del cioccolato, quindi, si è dimostrato negli anni particolarmente dinamico, con alcuni prodotti che risultano entrati in una fase di maturità avanzata (tavolette, scatole di cioccolatini classiche) ed altri che, invece, sono riusciti a riposizionarsi con successo nel mondo dei “fuori pasto” (snack e merendine) puntando su formato, packaging, distribuzione e, soprattutto, comunicazione. Il mercato italiano sembra quindi premiare quelle imprese che, sforzandosi sul piano dell’innovazione di prodotto e della comunicazione puntano a soddisfare le nuove esigenze di una domanda sempre più mutevole, caratterizzata da una maggiore propensione al consumo di beni voluttuari, nonché influenzata da tipologie di comunicazione in continua evoluzione.

Il settore dei prodotti alimentari a base di cacao può essere suddiviso in segmenti ben definiti: tavolette e barrette, cioccolatini, merendine e snack, creme spalmabili, cacao solubile, uova e ovetti. Qui prendiamo in diretta considerazione il segmento delle tavolette, forse quello che vive con maggiore problematicità la fase di maturità in cui si trova inserito. Viceversa, gli snack al cioccolato presentano un tasso di sviluppo molto interessante e sembrano sottrarre parte del mercato agli altri segmenti. Mentre le tavolette di cioccolato si pongono come una scelta maggiormente ponderata e destinata al contesto familiare, gli snack vengono consumati più di impulso e costituiscono una manifestazione di quella diffusa tendenza al consumo edonistico che si sta facendo nello stile di consumo

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largo a partire dalle nuove generazioni fino a coinvolgere quelle ad esse contigue1.

Pur rappresentando il 40% delle vendite del comparto cioccolato, le tavolette risentono più degli altri prodotti della modesta penetrazione di questo alimento nelle abitudini di consumo degli italiani. Le tavolette al latte sono quelle che rappresentano la quota più rilevante con il 43% delle vendite, contro il 28% del fondente ed il 24% di quelle ripiene. Per contrastare l’espansione degli snack, e stimolare il consumo d’impulso, sono state introdotte, col tempo, grammature più piccole. I fattori critici di successo per questa categoria di prodotto, sono la qualità e l’immagine di prodotto “sano” dal punto di vista nutrizionale. Gli investimenti in comunicazione, pressoché irrilevanti fino a pochi anni fa, hanno subito un incremento a partire da quando Milka si è proposta con una importante strategia in tal senso.

I cioccolatini sfusi e le miniconfezioni, distribuiti principalmente attraverso i bar, hanno denotato, seguendo la tendenza generale che vede crescere il consumo d’impulso ed i nuovi atteggiamenti alimentari degli italiani, un ottimo sviluppo, con una domanda che è stata notevolmente stimolata da un’offerta in continua evoluzione che fa sempre più perno sulla leva comunicativa (si pensi, per esempio, al fenomeno Rocher di Ferrero, o a Baci di Perugina, o a Pocket Coffee). Tra le confezioni in scatola (più del 30% del comparto), vengono preferite quelle “monotipo” rispetto alle confezioni assortite, con packaging particolari e a tema in occasione delle più importanti ricorrenze. Le marche minori di rinomata tradizione (tra cui Lindt, Caffarel…) puntano più su confezioni “d’élite” commercializzate attraverso i canali tradizionali (bar, pasticcerie, coloniali) puntando sulla fedeltà al prodotto, mentre le marche più giovani e di minori dimensioni (per esempio Aura, Zaini…) si avvalgono prevalentemente della grande distribuzione.

Gli snack si sono imposti negli ultimi anni come prodotti sostituivi della classica merenda e stanno vivendo una crescita intensa, sostenuti da

1 Rilevante è la considerazione che il modello di consumo di cioccolato si forma nelle persone a partire dalla prima infanzia per poi persistere, più o meno invariato, nel corso degli anni (di qui, la necessità per le imprese di conquistare, in primo luogo, l’interesse delle generazioni più giovani).

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sforzi comunicativi di natura pervasiva e considerevoli quanto a dimensioni di investimento. Tipico del fenomeno snack è il consumo giovane, slegato dalle tradizioni ed orientato all’impulso ed alla voluttà, per il quale è fondamentale il riferimento pubblicitario. Peculiare di questi prodotti è l’approccio multimarca alla strategia competitiva, adottato nelle sue forme più spinte, con il nome del produttore che resta sempre in secondo piano, nell’intento di evitare confusione rispetto ai concetti che le singole marche esprimono. Si tratta, pertanto, di determinare un posizionamento ad hoc, chiaro e differenziato per ogni singola marca immessa sul mercato.

Dal lato dell’offerta, una caratteristica tipica del mercato italiano dei prodotti alimentari a base di cacao è la frammentazione e la presenza di un notevole numero di aziende artigianali. La tendenza delle marche principali (Nestlè-Perugina, Ferrero, Jacobs Suchard), è quella di ricercare un posizionamento chiaro e differenziato per i propri prodotti puntando su alcuni specifici brand ombrello (come Kinder, Baci e Milka) poi sviluppati come brand per la commercializzazione di ulteriori prodotti. I maggiori produttori, infatti, pur presentando gamme molto ampie e diversificate (nella grammatura, nel packaging, nel canali di distribuzione…), tendono a presidiare alcune specifiche nicchie nell’ambito delle quali detengono la leadership.

Le medie aziende dolciarie (come, ad esempio, Pernigotti, Sperlari, Sapori…) offrono anch’esse un’ampia gamma di prodotti che cercano di posizionare puntando prevalentemente sul rinomato marchio di cui dispongono e sull’associazione con la tradizione. Mantengono generalmente una buona penetrazione a livello locale, ma trovano i propri punti di debolezza nello scarso peso degli investimenti in comunicazione e nella scarsa innovatività dei prodotti.

Le medio-piccole aziende dolciarie-cioccolatiere (come Caffarel e Bulgheroni, produttore, su licenza, del marchio Lindt) sono accomunate da una filosofia product-oriented che le tiene abbastanza legate ai segmenti più tradizionali del settore.

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5.1.4 – Il mercato del caffè.

Il mercato italiano del caffè è uno dei più importanti e particolari a livello mondiale (l’Italia è al quarto posto tra i paesi importatori). Quello che in particolare lo differenzia, è il gusto forte del prodotto rispetto a quanto troviamo in altri paesi dove prevalgono miscele molto più “lunghe” dall’aroma non troppo evidenziato e vicino ad altre bevande quale, ad esempio, il caffè d’orzo. La qualità della miscela utilizzata dipende, in prevalenza, dalla famiglia di appartenenza della materia prima. La qualità più pregiata (e più costosa), quella arabica, si caratterizza per un chicco dalla forma allungata e piatta e per un gusto particolarmente aromatico. La qualità robusta, invece, è di livello inferiore (ha un minor costo) e presenta un chicco più piccolo e conferisce al caffè un sapore molto forte e amaro. La distinzione tra le diverse qualità di caffè rileva sia in quanto determina l’aroma finale della miscela1, sia perché il costo della materia prima incide fino all’85-90% del costo di produzione (riversandosi sul prezzo al consumo dopo circa sei mesi), divenendo una variabile fondamentale da tenere sotto osservazione. I mercati più importanti per il caffè sono la borsa di New York e quella di Londra, dove vengono trattate rispettivamente le qualità Arabica e quella Robusta. Il prezzo del caffè varia in funzione della domanda e dell'offerta ed e influenzato, oltre che dalle qualità e dalle quantità prodotte, anche dall'andamento dei clima e dai cambiamenti di ordine politico.

Praticamente la totalità della popolazione adulta italiana (95%) consuma regolarmente caffè. Il prodotto è prevalentemente venduto nei negozi per essere consumato in casa dal 67% delle persone preparato nel 90% dei casi con la macchinetta tipo moka. Il 23% dei consumatori lo beve, invece al bar ed il rimanente 10% in ristoranti o in hotel. Nonostante costituisca un vero e proprio simbolo nazionale, il consumo medio pro capite è inferiore alla media dei paesi europei. La ragione risiede, come

1 Singolare è il fatto che, mentre gli italiani si ritengono esperti conoscitori del caffè, solo il 20% delle persone conosce le diverse qualità che se ne trovano in natura ed in realtà solo pochissime tra esse ne sanno dare una valutazione oggettiva in termini di sapore (combinazione di gusto – la sensazione palatiale – e aroma – la sensazione olfattiva –), tostatura e miscela.

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accennato, nella diversa concezione che si ha del caffè alle diverse latitudini. In Italia, se i momenti di consumo sono numerosissimi nell’arco della giornata, i volumi, tuttavia, sono particolarmente bassi, dato che lo si beve sempre in piccolissime dosi. Il caffè si allontana dal concetto di bevanda per divenire una sorta di nettare concentrato assumendo quasi la valenza di un rito simbolico che accompagna momenti conviviali e pause di lavoro. Viceversa, all’estero viene assimilato alle altre bevande ed assunto in dosi molto più grandi rendendo per questo necessaria una bassa concentrazione della miscela.

Tra i consumatori prevale una valutazione soggettiva e l’acquisto è fortemente influenzato dall’immagine e dalla familiarità della marca nell’ambito della specifica sottocategoria di appartenenza. A riguardo è possibile distinguere nell’ambito dei caffè “normali”, i più diffusi, quello “tradizionale” (la versione base), e quello “oro” o “premium” (di qualità e prezzo più elevati). Altra caratterizzazione assunta dall’offerta è quella riferita al caffè “espresso”, destinato ad essere preparato con l’apposito elettrodomestico e con un prezzo superiore alle versioni tradizionali. Infine c’è il caffè “decaffeinato” che, allontanandosi dal concetto di nettare attribuito universalmente al prodotto, rappresenta solamente il 3% delle vendite complessive. Per quanto riguarda le preferenze dei consumatori, mentre al Nord si predilige un caffè dal gusto più delicato, nelle regioni meridionali prevalgono prodotti dal gusto forte e ben tostati.

5.2 – Il posizionamento e la capacità della marca di generare nuove categorie

5.2.1 – Ambiente concorrenziale e generazione di significati come determinanti della posizione competitiva.

Il fenomeno della frammentarietà dei mercati e delle esigenze avvertite dai consumatori accresce la necessità da parte dell’impresa di dare spessore ed effettività alle proprie capacità di market creation, le quali si pongono come fondamentali leve strategiche nel governo dei rapporti

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impresa-mercato. La sfida per l’impresa sta nel perseguimento permanente di un elevato grado di aderenza con il mercato (la fusione) in modo da essere pronta, come sottolinea Mattiacci, «a ridefinire continuamente la propria business idea, accogliendo in sé gli stimoli che le provengono dall’esterno e valorizzando le risorse interne di creatività e flessibilità strategica, ponendo il tutto in una relazione di fertilizzazione incrociata»1.

La possibilità che dalla creazione di una nuova categoria concettuale possa emergere la salda leadership di un mercato che presenti una crescita durevole e profittevole per l’impresa dipende da alcuni fattori tra di loro interrelati:

- Esistenza di uno spazio (“créneau” nelle parole di Trout e Ries) non ancora occupato da qualcuno ed appetibile per l’impresa. Il riconoscimento e l’attribuzione di un’associazione identificativa tra una data marca e la categoria cui essa appartiene dipende strettamente dal fatto che altri non si sia già insediato nella corrispondente posizione o, comunque, non lo abbia fatto saldamente. Ogni posizione è unica e non può sostenere due marche contemporaneamente: affinché se ne possa sfruttare il potenziale strategico occorre, pertanto, che essa risulti non occupata da altri, sia perché non è ancora stata individuata (costituendo, così, il relativo prerequisito per una market creation), sia perché chi deteneva tale posizione se ne è allontanato lasciandola scoperta quel tanto sufficiente perché altri potesse appropriarsene. Il valore della posizione che dà origine alla categoria sta proprio nel fatto che il riferimento ad essa diviene talmente generico da favorire l’identificazione tra i due concetti consentendo ai consumatori di richiamare l’uno o l’altro alla mente ogni volta che emerge il suo omologo. Come abbiamo visto, questa non è caratteristica comune a tutte le marche presenti nella categoria e che occupano posti anche rilevanti all’interno della relativa scala valoriale. Potendo la mente ricomporre, attraverso il processo di categorizzazione delle percezioni, i significati relativi solamente a pochi elementi dell’insieme

1 A. MATIACCI, Il marketing strategico dei business di nicchia, CEDAM, 2000, p. 332.

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potenzialmente osservabile, occorre necessariamente rientrare tra le posizioni più in rilievo al fine di non cadere nell’anonimato pregiudicando le proprie possibilità di sviluppo.

- Esistenza e vicinanza di analoghi prodotti o servizi che possono risultare preferiti dal consumatore. Non è sufficiente riuscire a creare una nuova categoria per la marca, dovendosi prima verificare il grado di presenza e rilevanza degli attributi che la caratterizzano nelle categorie ad essa vicine. In effetti, quelli che possono ad una prima osservazione sembrare elementi distintivi della nuova categoria spesso non sono altro che riedizioni rivedute e corrette di attributi e concetti già presenti e radicati nella memoria del mercato il cui valore risulta, perciò stesso, inferiore a quello dell’offerta originale (anche se, a volte, soprattutto quando la categoria viene a trovarsi in una situazione di disaffezione e calo di interesse da parte del mercato, la nuova marca può contribuire alla sua rivitalizzazione sotto mutate forme ed assumerne la guida).La specialità della posizione occupata dovrebbe essere tale da non prevedere la possibilità dell’esistenza di sostituti perfetti. L’offerta costruita intorno ad un’esigenza specifica del consumatore dovrà essere diversa da qualsiasi altra, a meno che non si tratti di una palese imitazione.Sono, pertanto, le associazioni a concetti sedimentati e persistenti nella mente dei consumatori ed adiacenti a quelle espressi dalla posizione creata dalla marca pioneer a comprimere gli spazi di crescita di quest’ultima (determinandone anche la particolare direzione seguita). Esistenza di prodotti potenzialmente sostitutivi esprimenti concetti non dissimili e vicinanza di mercati ampi e riconosciuti per tali prodotti sono elementi che vanno a restringere i margini e gli spazi per possibili sviluppi della nuova categoria aperta paventandone il riassorbimento nel loro ambito. Di qui, l’importanza del costruirsi una mappa dei concetti espressi dalla nuova posizione assunta in relazione a quelle che maggiormente sembrano avvicinarsi ad essa, occorrendo anche comprendere la portata e profondità del trend nel quale l’intera categoria è inserita.

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- Capacità di reazione del leader della categoria di prodotto più vicina a quella creata. In relazione a quanto affermato nel descrivere la strategia difensiva, occorre rilevare, adesso, come si profili, per la marca che detiene la leadership di un mercato adiacente per natura e fattezze a quello di cui si intende essere l’iniziatore, la possibilità di appropriarsi del valore creato dalla marca pioneer attraverso una repentina azione di imitazione che, se il nuovo fronte aperto non raggiunge ancora certe dimensioni ed un rilevante spessore, consistenza e rilevanza per i consumatori, può affermare e sostenere la convinzione che la paternità della categoria appartenga in realtà alla marca leader.La conseguibilità di questo risultato, tuttavia, oltre a dipendere dalla capacità di reazione espressa dall’impresa concorrente, varia anche in funzione del grado di vicinanza percepita tra la categoria di cui essa detiene la leadership ed i caratteri espressi nella nuova concezione portata avanti dall’impresa innovatrice. Difficilmente, infatti, un’impresa operante in un mercato con caratteristiche molto diverse da quelle proprie della nuova categoria e a tale mercato ormai associata e ricondotta mentalmente dai consumatori potrà riuscire a convincere questi ultimi della propria capacità di esprimere i nuovi concetti ed a sostituire la propria immagine a quella della marca pioneer sfruttando il varco da essa aperto.

I fattori generali appena introdotti necessitano di una sistemazione concettuale che li ponga in relazione con il particolare contesto concorrenziale nel quale la marca va ad inserirsi. A tal fine, proponiamo una ridefinizione delle variabili in gioco in modo da riuscire, ponendole in maniera tale da offrirne una adeguata articolazione, ad integrarle in una matrice multidimensionale a ciò predisposta. Risultato della matrice di cui in figura 5.1 sarà il riconoscimento della particolare situazione competitiva nella quale la marca viene a trovarsi, assieme all’evidenziazione del ruolo svolto nel determinarla dalla capacità di market creation da essa manifestata, con indicazioni per la condotta strategica di fondo da tenere.

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Grado di concentrazione del mercatoBasso Elevato

Vicinanza dei concorrenti Vicinanza dei concorrentiBassa Alta Bassa Alta

Forza e reattività dei concorrenti

Forza e reattività dei concorrenti

Forza e reattività dei concorrenti

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Figura 5.1 – Brand’s market creation capability and competitive power

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Nella matrice sono presenti sei dimensioni di cui tre poste sull’asse verticale (attinenti all’ambiente competitivo nel quale sono inserite le imprese) e tre su quello orizzontale (relative ad elementi più direttamente dipendenti dalle capacità di analisi e dalle strategie d’impresa). Dalla loro intersezione possiamo individuare dei quadranti che, in virtù dell’omogeneità loro conferita dalle dimensioni di livello superiore, sono raggruppabili in macroquadranti ciascuno con le proprie peculiarità,

Tra le dimensioni verticali, le quali si riconducono ad elementi caratterizzanti l’ambiente competitivo, poniamo il grado di concentrazione del mercato, la vicinanza dei concorrenti e la loro forza e capacità di reazione.

Il primo criterio distintivo riassume in sé il rilievo che ha assunto nel tempo il mercato di riferimento sintetizzando il tipo di addensamento competitivo che in esso si è venuto a determinare. In particolare, un elevato grado di concentrazione, se originato dalla presenza di una pluralità di soggetti sul mercato i quali detengono una rilevante sua quota1, sta ad indicare una fase necessariamente successiva a quella in cui la corrispondente categoria di prodotto è stata creata. In questa situazione, perciò, la marca che abbia assunto una posizione su codesto mercato non potrà beneficiare di un vantaggio da first-mover, trovandosi, invece, a dover affrontare una concorrenza che in qualche modo ha già avuto il tempo di raggrupparsi attorno agli elementi critici identificati per la categoria e di consolidare le proprie posizioni convergendo verso quelle che meglio ad essi rispondono. Viceversa, una marca che si trovi a doversi confrontare con un basso grado di concentrazione del mercato ha, generalmente, maggiori spazi di movimento non incontrando l’opposizione di rivali già posizionati e potendo sviluppare i concetti che più ritenga opportuni. La concentrazione, infatti crea pressione riguardo alla posizione occupata ed a quelle potenzialmente sostenibili.

Connessa al problema della concentrazione è la questione della distanza che separa i competitori dalla marca in considerazione, intendendo

1 Va rilevato, infatti, come, nei primissimi momenti che seguono la creazione di una nuova categoria (o anche per un periodo di tempo più prolungato, fino a quando non vi confluiranno altri competitori), il mercato risulti perfettamente concentrato nelle mani della marca da cui esso trae origine.

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per distanza l’accezione che più inerisce gli aspetti percettivi della complessiva valutazione che il consumatore fa dei diversi soggetti presenti nella categoria. A riguardo, un’importanza primaria è ricoperta da un’attenta analisi condotta attraverso la costruzione di una mappa percettiva: comprendere l’ampiezza e la natura delle distanze percepite relativamente agli attributi salienti dell’offerta costituisce un fondamentale presupposto per la definizione di un quadro completo delle associazioni instaurate nella categoria concettuale di riferimento fornendo, inoltre, utili indicazioni circa gli spazi coperti o rimasti ancora scoperti al suo interno. Elevate distanze intercorrenti tra la propria posizione e quella dei rivali comportano un relativamente maggior isolamento concorrenziale in termini dei significati e dei concetti espressi, determinando una differenza percettiva che, per poter essere colmata, richiederà tempi e/o costi superiori in grado di rappresentare forti deterrenti per eventuali riposizionamenti aggressivi. In particolare, è da rilevare come, nel condurre la marca lontano dalla posizione originaria facendole percorrere una lunga distanza nella mente del consumatore per andare a contrastare il concorrente che vi occupa una posizione strategica, si perdano per strada i punti di rilievo delle proprie identità ed immagine potendole rendere talmente sfocate da far perdere loro tutto il valore precedentemente costruito. Se a ciò aggiungiamo le difficoltà insite nello scalzare il concorrente dalla posizione-obiettivo che esso può mantenere tenendosi sulla difensiva (difficoltà dovute, essenzialmente, al fatto di doversi scontrare su un terreno non proprio) possiamo, allora, comprendere come la distanza percepita tra le marche in competizione costituisca un fondamentale elemento di cui tenere conto nel delineare le proprie strategie.

Naturalmente, il livello di concentrazione del mercato e la distanza percepita dai concorrenti non sono le uniche variabili a determinare le dinamiche presenti nell’ambiente competitivo di riferimento. Un terzo ordine di fattori è, infatti, quello legato alla forza ed alla capacità di reazione che i diversi player possiedono e manifestano: uno scenario in cui tali elementi difettino ai detentori di singole posizioni per noi interessanti diminuisce la rilevanza della concentrazione e della distanza favorendo le nostre offensive per le posizioni, allo stesso modo in cui assetti competitivi

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potenzialmente pericolosi all’interno della categoria risultano esserlo molto meno in funzione della considerazione delle capacità reattive che i concorrenti in realtà hanno. È solamente quando i competitori dimostrano di possedere adeguate capacità umane, tecnologiche e finanziarie ed una buona reattività, che l’eventuale elevata concentrazione del mercato e la prossimità delle posizioni da essi occupate si fanno pressanti e costituiscono una reale minaccia per il futuro della marca.

Tra le dimensioni orizzontali della matrice, troviamo, invece, quelle maggiormente dipendenti dalle capacità e dalla volontà del soggetto al centro della valutazione: il grado di distinzione e definizione della categoria, il grado di definizione della posizione ricoperta, l’ordine di entrata nella categoria.

La valutazione del grado di distinzione e definizione della categoria concettuale di riferimento non è determinabile in maniera del tutto inconfutabile, risentendo di numerosi elementi di soggettività legati alla particolare prospettiva sulla quale ci poniamo. Solitamente, anzi, accade che i contorni della categoria siano molto vaghi e sfumati al momento della sua nascita, per il semplice motivo che si tratta di un qualcosa ancora inesplorato e su cui è possibile fare solamente delle congetture. Con il passare del tempo e l’accumularsi, tanto da parte delle imprese quanto dei consumatori, di un maggiore bagaglio esperenziale/conoscitivo le connotazioni della categoria si fanno più nitide e costituiscono un più affidabile riferimento per la comprensione dell’ambito nel quale andranno a collocarsi le strategie. I problemi di messa a fuoco deriveranno, a quel punto, dal sovrapporsi della categoria in considerazione con altre adiacenti, il prevalere dell’una o delle altre delle quali dipenderà dalle dimensioni relative e dalla capacità attrattiva che esse saranno in grado di far prevalere. Le intersezioni tra categorie rivestono un ruolo assai importante e devono essere ben presidiate, monitorate costantemente e trattate con accortezza. È da esse, infatti, che marche appartenenti a categorie adiacenti possono sferrare offensive che, passando attraverso gli spazi di connessione, sono in grado di conquistare il centro della categoria-obietivo.

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Ad un secondo livello di specificazione troviamo il grado di definizione della posizione occupata, la cui importanza ed il cui peso aumentano al crescere della definizione della categoria di appartenenza. Ad una posizione facilmente identificabile e riconoscibile da parte dei potenziali acquirenti e ad un suo elevato grado di definizione corrispondono superiori livelli di competitività i quali costituiscono, ad un tempo, un argine alle iniziative imitative da parte dei rivali ed un’opportunità di sviluppo dei concetti di cui l’identità di marca è portatrice. La distinzione, in altre parole, crea valore. Importante è, comunque, il mantenimento della definizione e della riconoscibilità della posizione in un contesto di attivazione dell’attenzione e dell’interesse, senza mai permettere che detta posizione diventi scontata e banale agli occhi dei consumatori, senza ormai più argomenti con cui lasciare il segno della propria significativa presenza. La caratteristica di specialità è quella che difende la marca dall’essere assorbita all’interno della più ampia categoria di appartenenza evitandone il conseguente appiattimento dei concetti espressi1.

La terza dimensione considerata, l’ordine di entrata, è quella più direttamente attinente con la capacità di market creation espressa dalla marca. Per l’esattezza, la creazione della categoria di riferimento è attribuibile, naturalmente, alla sola impresa pioneer, la quale, per prima, ha individuato un varco accessibile tra i diversi significati presenti nella mente del consumatore guadagnandone l’accesso attraverso concetti che hanno poi preso corpo dando vita ad una nuova, distinta, categoria. Come abbiamo visto2, l’impresa pioneer può beneficiare del cosiddetto “vantaggio del first-mover” alla cui fruizione effettiva pare legata, almeno in una prima battuta, la quota di mercato da essa detenuta, pur rimanendo necessaria una continua azione di manutenzione dei caratteri essenziali della categoria e di consolidamento della posizione conseguita. I vantaggi riconducibili all’ordine d’entrata, tuttavia, non si esauriscono nella

1 Come fa notare Mattiacci (A. MATTIACCI, 2000, op. cit., p.335), «La specialità è un fattore di offerta che agisce sul consumatore e sulle sue variabili cognitive attraverso la comunicazione (creazione della percezione di specialità) e la prestazione funzionale (mantenimento della promise)».

2 Cfr. par. 3.3.2.- 294 -

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posizione di first-mover, ma vanno anche a beneficio dei successivi entranti, seppure in misura decrescente con l’avanzare dei competitori che entrano nella categoria. Di qui il diverso rilievo attribuito all’ingresso come follower o a quello, ancora successivo, identificato nella condizione di last-entrant, per i quali si prospettano maggiori difficoltà di conseguimento di una posizione distinta e minori possibilità di vittoria nel gioco concorrenziale del quale sono entrati a far parte, schiacciati, presumibilmente, dalla maggiore concentrazione concorrenziale incontrata (a meno che essa sia, invece, sintomo di un addensamento ingiustificato e si accompagni ad una scarsa forza e decisione degli altri attori).

La struttura della matrice che ricaviamo ha natura ricorsiva presentando analoghe fattezze all’interno di ogni singolo macroquadrante identificato. In effetti, possiamo, in una prima istanza, suddividere la matrice in quattro parti corrispondenti alle intersezioni delle dimensioni orizzontale e verticale di livello superiore ottenendo una prima indicazione circa il grado di sviluppo della categoria in esame. Successivamente, introducendo le altre dimensioni, arriviamo alla determinazione di otto macroquadranti che specificano i significati di quelli ad essi superiori, in modo da meglio evidenziare il rapporto tra le caratteristiche del posizionamento ed il contributo ad esso apportato dall’ordine d’entrata, da una parte, e le caratteristiche del mercato del mercato, dall’altra, portando alla luce il ruolo e l’importanza che riveste per la marca lo sviluppo della capacità di market-creation.

Ogni macroquadrante sta ad indicare una posizione competitiva che si fa più debole (forte) procedendo nella matrice dall’alto verso il basso (dal basso verso l’alto) e da destra verso sinistra (da sinistra verso destra.

Analogamente (ma in senso opposto), procedendo all’interno di ogni macroquadrante, la posizione competitiva è più debole (forte) andando da sinistra verso destra (destra verso sinistra) e dal basso verso l’alto (dall’alto verso il basso). Così, in ognuno di essi, la migliore posizione ricopribile è quella posta al vertice basso di sinistra, mentre quella peggiore si trova in alto a destra. Tra esse troviamo posizioni intermedie che, tuttavia, esprimono ciascuna una propria peculiarità.

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Naturalmente può capitare che le posizioni occupate cambino nel tempo in funzione delle dinamiche concorrenziali. In questo senso, compito di chi gestisce la marca è quello si portarla nei quadranti a più alto valore, in modo da migliorarne la definizione e la capacità competitiva.

5.2.2 – Market-creators.

Tra i casi presi in esame, alcuni mostrano come la capacità di dare origine ad una nuova categoria concettuale da parte della marca sia stata determinante nel costruire le basi per una leadership duratura relativamente al nuovo mercato cui si è dato forma. L’elemento decisivo in tal senso pare essere l’individuazione da parte degli strateghi d’impresa di un significativo interstizio di mercato esistente e ancora inesplorato (e perciò non conteso e disponibile) tra i modi in cui i consumatori percepiscono un bisogno e le risposte che essi ottengono dalle singole offerte.

Soprattutto per marchi come Sottilette e Philadelphia si può parlare di una vera e propria capacità di creare una nuova categoria di prodotti. Il carattere che maggiormente accomuna le due esperienze consiste nella determinazione di una frattura nella continuità del mercato da parte delle nuove marche: i concetti da esse espressi non risultano essere nuovi in senso assoluto, ma costituiscono un importante salto qualitativo nell’interpretazione di esigenze dei consumatori che ancora non erano emerse né state validamente intese. Rilevante è la considerazione che le rispettive basi d’appoggio per il posizionamento erano costituite da categorie ben conosciute ed apprezzate dai potenziali acquirenti, in ciò risiedendo il contributo alla continuità che ha agevolato la generazione e l’integrazione delle nuove associazioni con quelle già presenti nella loro mente.

Anche l’introduzione di prodotti come Jocca e Hag è coincisa con importanti momenti di rottura nell’ambito dei più ampi mercati cui essi si riferiscono consentendo, però, la nascita di categorie solo in parte distinte da quelle in cui tale rottura viene originata. Le peculiarità che caratterizzano le due marche sono tali da rendere difficile l’instaurazione di

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associazioni positive con i significati sedimentati ad esse ricondotti. Come vedremo, infatti, tanto Jocca che Hag si pongono come versioni depotenziate di prodotti noti e affermati (i formaggi freschi nel primo caso, il caffè nel secondo) e sono percepite come punitive. Proprio alla carenza di personalità e ai limiti di definizione della rispettiva identità è attribuibile, in prima istanza, la inevitabile subordinazione a categorie di livello superiore. Sebbene Jocca e Hag costituiscano il punto di riferimento rispettivamente per i cottage cheese e per il caffè decaffeinato, mercati dei quali detengono la leadership, il mancato innalzamento a categorie autonoma costituisce, per esse, un grave impedimento allo sviluppo della marca.

Analogo discorso vale per Simmenthal, marchio storico che ha dato origine al mercato della carne in scatola del quale è leader indiscusso. In questo caso, la categoria venutasi a creare deve confrontarsi da una parte con la maggiore preferenza incontrata dal corrispondente fresco e dall’altra con sostituti in grado di meglio rispondere alla medesima occasione d’uso e genere di consumo.

Dunque, la capacità di creare una nuova categoria concettuale, pur svolgendo un ruolo di primissimo piano nel promuovere lo sviluppo del posizionamento di una marca, di per sé non conduce necessariamente al conseguimento della leadership del relativo mercato, occorrendo la presenza di ulteriori condizioni contestuali in grado di meglio definire i contorni della categoria stessa e della posizione assunta accrescendone il valore.

SOTTILETTE.

Sottilette Kraft, brand storico legato alla cultura alimentare italiana a partire dagli anni del boom economico, fu introdotto nel nostro paese nel 1961 creando letteralmente una nuova categoria di prodotto1 fino a quel

1 Il marchio Sottilette risponde appieno ai requisiti posizionali ideali di un prodotto: è diventato col tempo notevolmente generico stando ad indicare l’intera categoria concettuale di riferimento che è andato a creare, senza però diventare talmente generico da poter essere sfruttabile da parte della concorrenza, perdendo così nella genericità l’intero suo valore (importante è il fatto che il marchio, registrato dalla Kraft

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momento del tutto assente sul mercato ed ottenendo un incredibile successo in termini di vendite, notorietà e familiarità. La funzione inizialmente assegnata al prodotto era quella di farcire i panini, ed in tal senso erano veicolati i messaggi del tempo1, sfruttando, in quest’ottica, le sue notevoli doti di praticità. Il 1974 è l’anno in cui il significato di funzionalità e praticità di Sottilette fa un sostanziale passo in avanti, grazie ad un’innovazione nel packaging con le fette confezionate singolarmente (tuttavia non accompagnato da un significativo iniziale aumento delle vendite). Data la novità del prodotto e il limitato numero di concorrenti, il prezzo si era mantenuto piuttosto alto.

Dopo una sostanziale fase di stallo nell’incremento delle vendite fra il 1969 e il 1977, dal 1978 al 1993, viceversa, si è assistito ad un eccezionale sviluppo del mercato di cui Sottilette ha mantenuto saldamente la leadership. La crescita pare essere stata agevolata dall’estensione della gamma – che consentiva un uso più esteso del prodotto – e, soprattutto, dal riposizionamento della versione base da semplice companatico a vero e proprio ingrediente in cucina utilizzabile nelle più diverse ricette. La pubblicità della versione classica (Emmental) faceva emergere, come principali benefit per il consumatore, la versatilità (grazie alle buone performance del prodotto, sia cotto che crudo), il gusto e la garanzia offerta dal marchio Kraft.

Nel 1979 fu lanciata sul mercato “Fila e fondi”, versione particolarmente adatta per tutte le preparazioni a forno e a caldo in genere. Nel 1982 fu la volta di “Piccadolce” a base di provolone piccante che, tuttavia, non riscosse, in seguito, molto successo. Nel 1989, sulla scia della moda “paninara”, venne introdotto “Happy Snack”, che si caratterizzava per il maggiore spessore delle fette, adatte per preparare hamburger e panini. Nel 1992 venne lanciata la versione “Light” intesa a cavalcare la crescente attenzione dei consumatori per bassi contenuti di grassi ed in grado di meglio adattarsi alle esigenze del perseguimento di una buona

Jacobs Suchard, a livello percettivo e di sedimentazione dei significati appare inscindibilmente legato a Kraft).

1 Il primo spot, presentato da Gino Bramieri, risale al 1964. Successivamente, nel 1970, il primo vero e proprio posizionamento collegava Sottilette al concetto di “panino robusto”.

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forma fisica. L’ultima recentissima versione immessa nel mercato, “Cubetti”, sviluppa una rivisitazione del concetto di fetta, il quale viene accantonato in favore di una nuova forma che consente nuovi abbinamenti del prodotto – come condimento per primi piatti soprattutto estivi, per insalate… – allargandone quindi le possibilità di utilizzo.

A partire dal 1993, per capitalizzare gli sforzi pubblicitari effettuati sulle singole varietà di Sottilette, fu avviata una campagna di comunicazione “a ombrello” incentrata sul personaggio di un bambino nella quale, di volta in volta, veniva abbinato il messaggio base che sottolineava la qualità del prodotto (garantita dall’esperienza Kraft) ai messaggi di Emmental (“Il sapore superiore”), Fila e fondi (“Specialista per i piatti al forno”) e Light (“Solo il 16% di grassi”). Alla pubblicità si affiancavano iniziative promozionali attraverso raccolte a punti miranti a fidelizzare la clientela e a gratificare i forti utilizzatori. Il prezzo, in questo periodo, continuava a mantenersi superiore del 30-35% rispetto alla media del mercato.

Nel 1994 la marca ha conosciuto un serio momento di crisi, in coincidenza con l’acuirsi di un periodo di recessione economica, cui si aggiungeva la consistente svalutazione della lira, che aveva generato nei consumatori la tendenza a tenere in maggior considerazione il rapporto qualità/prezzo ed a limitare l’acquisto di prodotti non indispensabili per l’alimentazione. A ciò si aggiungeva la crescente pressione concorrenziale esercitata dallo sviluppo del fenomeno degli hard discount, reso più vigoroso in funzione, questa volta al contrario, di quegli stessi fattori che indebolivano Sottilette. Il mercato disponibile si era ridotto, così come al quota di mercato detenuta al suo interno da Kraft e, conseguentemente, i suoi profitti.

La risposta di Kraft non si fece tuttavia attendere: già a partire dalla seconda metà del 1994 si diede inizio ad una strategia incentrata su un marketing mix particolarmente aggressivo nei confronti di hard discount e primi prezzi. In particolare, mentre da una parte i prezzi, in precedenza circa doppi rispetto ai primi prezzi, furono tagliati del 20%, dall’altra fu lanciata una massiccia campagna pubblicitaria mirante a spiegare in modo più razionale (la razionalità era tornata, in seguito al tentativo di ridurre gli

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effetti della recessione, a guidare le scelte di consumo) la qualità superiore di Sottilette Emmental. L’obiettivo di una fidelizzazione e dell’arresto dell’esodo di acquirenti verso marche più a buon mercato veniva, cioè, perseguito offrendo una giustificazione razionale al sovrapprezzo di Sottilette (la forbice con le altre marche si era peraltro ridotta) illustrando la superiorità del suo gusto e la migliore performance in cucina. La ragione giustificativa sottostante faceva perno sulla qualità degli ingredienti (100% Emmental Baviera). I risultati di quest’opera di riposizionamento furono estremamente positivi, sebbene la focalizzazione sulla versione base avesse penalizzato particolarmente Fila e Fondi (quella che più se ne distaccava), ma anche Light, non adeguatamente supportate dalla comunicazione.

Per quanto riguarda la particolare posizione competitiva, i principali concorrenti diretti di Sottilette – indiscusso leader di mercato con oltre il 50% di quota – sono Tostine di Invernizzi (anch’essa facente parte del gruppo Kraft Jacobs Suchard), Belpaese di Galbani, Miette di locatelli e Tigre. Ad essi si aggiungono, in ascesa, le private labels (che praticano prezzi mediamente inferiori del 20-30% rispetto ai prodotti di marca), i primi prezzi, ormai stabilizzati o in diminuzione, e i prodotti hard discount, anch’essi pressoché stabili. Il mercato del formaggio fuso a fette, tuttavia, incontra anche la concorrenza indiretta di altri prodotti – mozzarella industriale, fontina, emmental, paste filate fra tutti – adatti alle medesime occasioni d’uso, sebbene almeno in parte da essi diversi.

PHILADELPHIA.

Nell’ambito del più vasto mercato dei formaggi, Philadelphia rientra nel segmento dei formaggi freschi moderni ed in particolare di quelli cremosi o “quark” (spalmabili), del quale detiene la leadership con una quota di circa il 60% (quattro volte quella dei più diretti inseguitori).

Philadelphia Kraft è un prodotto internazionale presente nella maggior parte dei paesi europei. In Italia è stato introdotto nel 1971 e da allora le vendite sono cresciute incessantemente. La linea di prodotto è stata ampliata notevolmente nel tempo, nel tentativo di coprire tutti i

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possibili spazi che si potessero creare in seguito all’evolversi delle tendenze in corso ed alle possibili combinazioni in termini di occasioni d’uso e ragioni d’acquisto (viene cioè attuata una strategia di marketing differenziato nel tentativo di andare a soddisfare, con offerte diverse, i diversi segmenti di mercato). Così, alla versione classica, un formaggio spalmabile destinato a tutta la famiglia per un consumo inizialmente previsto nei pasti principali e che detiene, nei vari formati con cui è portata sul mercato (panetti da 62,5, 125 e 200 grammi), la quota di mercato di gran lunga più sostanziosa all’interno della gamma, se ne sono aggiunte molte altre che vanno a completare l’offerta di Kraft per questo segmento.

Nel 1989 sono state introdotte le “Fantasie di Philadelphia”, varianti aromatizzate ai gusti di salmone, olive, erbe1, in grado di ampliare la gamma di sapori del prodotto suggerendo, nel contempo, nuovi abbinamenti e conferendogli un alone di novità in grado di creare stimoli rinnovati per il consumatore soddisfacendo il suo bisogno di varietà. Mantenendo lo stesso livello di consistenza – requisito importante per non creare associazioni negative nei confronti del prodotto originale nel caso di una mancata accettazione da parte del mercato e, allo stesso tempo, per dare una certa credibilità alla nuova versione legandola a qualcosa di noto ed apprezzato – si sono offerti, perciò, sapori diversi adatti a varie occasioni di consumo. Fantasie di Philadelphia sono vendute in confezioni da sei panetti monodose da 25 grammi ciascuno orientando, perciò, il consumatore verso un consumo disimpegnato, magari per uno spuntino fuori pasto.

Nel 1990 fu la volta di “Mousse di Philadelphia”, una mousse di formaggio adatta ad essere abbinata alla frutta o ad altri ingredienti dolci che, quantomeno in Italia, non ha trovato un grosso seguito a causa delle associazioni contrastanti con la tradizione culinaria consolidata, ed è ormai fuori linea da molto tempo.

Più importante appare, senza dubbio, il lancio, nel 1991, di Philadelphia Light, il quale, pur mantenendo lo stesso gusto e la stessa consistenza della versione classica, offriva un contenuto di grassi inferiore

1 Le versioni al pepe e al roquefort, inizialmente offerte, sono poi state abbandonate non incontrando i favori del mercato.

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del 40% rispetto ad essa. Il posizionamento di questa versione non la fa rientrare fra i prodotti dietetici, bensì tra quelli leggeri senza rinunciare al gusto, andando a presidiare l’area salutistica. Viene venduta in vaschette da 150 grammi ad un prezzo comparabile con quello della versione classica. Tra le diverse versioni nate negli anni, Philadelphia Light è senza dubbio quella che ha riscosso maggiormente il favore del pubblico, sempre più attento all’esigenza di mantenere una linea al passo con i modelli mediatici di riferimento, ma che non per questo rinuncia facilmente al sapore: la presenza di un trade-off tra leggerezza e gusto percepibile dal consumatore, in questo caso, andrebbe a totale svantaggio del produttore.

Recentemente, infine, è stata introdotta nel mercato una versione che punta ai consumatori fedeli ed instancabili del prodotto: Philadelphia Snack. La confezione, da 50 grammi, offre anche, in un comparto separato, dei grissini con i quali si cerca di indurre il consumatore all’utilizzo per uno spuntino. Il rischio, in questo caso, è quello di scontrarsi con concorrenti della più diversa origine e derivazione accomunati dalla competizione per conquistare la preferenza dei potenziali acquirenti con riferimento alla medesima occasione d’uso, ricavando dei benefici marginali cui si contrappongono, invece, effetti negativi certi in termini di perdita di focalizzazione della propria immagine. Sono prefigurabili, quindi, difficoltà non indifferenti nella penetrazione di questa variante.

Sebbene ne vengano suggerite continuamente diverse ed alternative occasioni d’uso, quella che nella realtà si riscontra più facilmente è il consumo come secondo piatto informale. Per quanto riguarda la modalità d’uso, Philadelphia viene tipicamente spalmata sul pane o sui crackers. La domanda del prodotto risulta essere fortemente concentrata, con la presenza di very heavy users i quali, pur costituendo solamente il 10% dei consumatori di Philadelphia, contribuiscono al suo consumo per una quota superiore al 40%. La posizione di leadership effettiva e quella riguardo ai valori, unanimemente riconosciute, consentono alla marca di essere premium price verso i concorrenti.

Un elemento fondamentale su cui è costruito il successo di Philadelphia è rappresentato dalla distribuzione e dalla notevole diffusione, presenza e visibilità nei punti vendita della distribuzione alimentare. Per

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quanto concerne quest’ultimo aspetto è facile constatare come la presenza di Philadelphia abbia decisamente schiacciato la visibilità della concorrenza, comprese le private labels.

Tuttavia, l’elemento che più ha contribuito al successo del prodotto è dato dalla comunicazione. In questo senso, è in particolare la presenza nei mass media ad essere stata costante e pressante, non trascurando la rilevante e indicativa considerazione che Philadelphia è stato il primo prodotto a stimolare la domanda di formaggi freschi moderni e di formaggi light. È anche in questa capacità propositiva che si esprime la leadership della marca, interamente conquistata sul campo dando spessore e credibilità ad un’intera nuova categoria.

Nei primi 15 anni che seguirono il lancio del prodotto il messaggio “Freschezza in carta d’argento” perseguiva l’obiettivo di stimolare la prova cercando di far percepire Philadelphia come fresco e naturale (fine comprensibile ed anzi auspicabile, considerando che si trattava di presentare un concetto del tutto nuovo, per di più in una realtà che faceva della cultura gastronomica uno dei propri punti di forza e collanti universalmente riconosciuti. La “carta d’argento” serviva, poi, ad elevare, per associazione, la percezione del prodotto conferendogli una certa aura di prestigio e rispettabilità che giocavano sicuramente a favore della sua accettazione.

Verso la metà degli anni Ottanta, con la comparsa del primo concorrente diretto, Bucaneve di Galbani, fu deciso di focalizzare il messaggio sui benefici offerti dal gusto e dalla versatilità d’uso del prodotto, il quale diveniva in forza di ciò “Buono in tanti modi diversi”, recando giovamento all’intera categoria di appartenenza (come è nel compito di ogni leader di mercato).

Nel 1987 il benefit della comunicazione venne riposizionato dalla Kraft nell’area della leggerezza e della modernità attraverso un diverso messaggio il quale affermava che “Philadelphia è il formaggio fresco, con un perfetto equilibrio tra sapore e leggerezza, ideale per gli stili alimentari di oggi”. Ancora una volta, la marca era andata più avanti degli altri nell’interpretare ed entrare in simbiosi con lo spirito del tempo ed il trend di fondo in essere a livello socioculturale, in particolar modo per quanto

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riguarda lo stile di comportamento alimentare. I risultati del riposizionamento furono veramente notevoli (le vendite aumentarono del 17,8% tra il 1988 ed il 1989), nonostante l’ingresso sul mercato di un nuovo contendente (Belgioioso).

Il lancio di Philadelphia Light fu accompagnato da una campagna pubblicitario di elevato impatto il cui obiettivo non era tanto quello di spingere il consumatore alla prova della novità offerta, quanto quello di spiegare il significato di “prodotto light”, termine non ancora in uso in Italia. Il messaggio, sorprendentemente semplice, ma efficace e dal chiaro intento educativo, era: “Philadelphia Light è un prodotto fresco e leggero che aiuta a mantenere in forma senza rinunciare al gusto”.

Fu però nel 1992, in un momento in cui continuavano ad apparire sulla scena nuovi concorrenti (Vitasnella e Vitalgourmet per tutti), che si procedette a quello che è stato, finora, il maggior contributo allo sviluppo di Philadelphia in termini di notorietà ed accettazione partecipe da parte del consumatore: il primo episodio dell’ormai arcinota sequela di pubblicità, tuttora in atto e divenuta un vero e proprio fenomeno di costume comunicativo, incentrate sul personaggio di Kaori, studentessa giapponese in Italia alle prese con problemi di lingua, ma sicura in quanto alle proprie scelte in termini di sapore e di linea. La nuova comunicazione, che doveva coprire l’intera linea ed aveva l’obiettivo di consolidare l’immagine di marca, prendeva spunto dalla scarsa padronanza della lingua della protagonista per presentare alcune gag che richiamavano i prodotti della linea, riferimento fisso al centro delle diverse situazioni narrate ed in cui si riconoscevano i vari personaggi. In seguito, al fine di evitare che il personaggio, divenuto nel frattempo molto popolare, non oscurasse il prodotto ed il messaggio, la protagonista è stata progressivamente posta in secondo piano e ricondotta ad un più omogeneo contesto familiare.

All’interno della propria categoria concettuale di riferimento, il competitore che, con una quota di mercato di circa il 15% ed una distribuzione capillare sul territorio, risulta essere maggiormente insidioso, è rappresentato da Belgioioso (Sitia Yomo), introdotto nel 1988 nella sua versione normale e nel 1991 in quella aromatizzata. Il benefit principale della sua pubblicità, sintetizzata dallo slogan “Mangiatevelo vivo!”, è

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legato alla presenza di fermenti lattici vivi, caratteristica distintiva del prodotto. Dopo un risultato estremamente positivo che fece seguito al lancio (nel 1990 arrivò a conquistare una quota di mercato di oltre il 20%), in seguito la crescita è stata affidata prevalentemente alle estensioni di linea con un’inevitabile e progressiva dispersione di energie e diminuzione della quota della versione classica.

Altri concorrenti cercano di crearsi un proprio spazio tra i formaggi freschi moderni. Fior di Certosa (Galbani) fu lanciata sul mercato nel 1991. L’imponente campagna pubblicitaria di lancio si incentrava su un messaggio che si legava al concetto di “Freschezza gioiosa”. Altre presenze sul mercato, seppure in tono minore, sono quelle, entrambe riconducibili alla stessa Kraft General Foods, di Jocca e Maman Louise.

Tuttavia, il posizionamento di Philadelphia deve tenere conto, oltre che della categoria dei formaggi freschi moderni, cui essa appartiene, anche, e soprattutto, delle concrete minacce ed attacchi che le vengono portati da prodotti appartenenti ad altre categorie, ma che, in termini competitivi, possono rivelarsi ben più pericolosi dei concorrenti diretti. È questo il terreno sul quale la marca si gioca il proprio futuro. La prevaricazione nell’ambito dell’intersezione tra medesima occasione d’uso e concetti espressi dal prodotto e dalla marca deve, perciò, porsi come obiettivo strategico auspicabile e concretamente perseguito da una parte mantenendo vivo l’interesse per l’intera categoria d’appartenenza, dall’altra promuovendo le associazioni con i propri specifici punti di forza.

JOCCA.

Lanciato nel 1977 sul mercato italiano, Jocca ha introdotto una nuova categoria di prodotti, quella dei “cottage cheese”, fino a quel momento completamente estranea alla tradizione alimentare italiana. La connotazione che in principio caratterizzava maggiormente il prodotto era quella dietetica: iniziavano in quegli anni a farsi sentire le tendenze salutiste ed al conseguimento della linea e, da parte dei consumatori più evoluti, venivano particolarmente richiesti agli alimenti attributi di

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leggerezza, naturalità, genuinità. Il prodotto, per la verità debole quanto a gusto, aveva il suo punto di forza nel basso contenuto di grassi enfatizzato sia nel packaging – dove risaltava un bollino rosso che richiamava l’attenzione sulla loro esiguità (solo il 6%) – sia nel messaggio pubblicitario1. Jocca si inserì molto bene nella tendenza del momento2 e riscosse un buon successo fino al 1983, nonostante l’ingresso sul mercato di nuovi concorrenti apertamente definiti “dietetici” nelle forme di prodotti completamente sostitutivi dei normali pasti e di alimenti alleggeriti e deprivati rispetto ai cibi tradizionali.

Nel 1983 iniziò per la marca un periodo di crisi dovuto sostanzialmente al mutare degli atteggiamenti dei consumatori nei confronti della dieta, la quale veniva ora vissuta come una moda e un fatto piacevole, ma come una privazione del piacere del cibo ed un obbligo antipatico e pesante da perseguire ed al quale sottoporsi. Il posizionamento che Jocca aveva scelto al momento del suo ingresso sul mercato, in altre parole, era divenuto inadeguato perché non più in linea (anzi, in aperto disaccordo) con il mondo concettuale di riferimento dei potenziali acquirenti: il trend era improvvisamente venuto a mancare nel sostenere lo crescita della marca.

Il nuovo trend, operando come un riflusso nei confronti di quello precedente, era informato su un nuovo ritrovato edonismo alimentare che mal sopportava le logiche restrittive del piacere imposte da Jocca,

1 Il claim scelto per lo spot televisivo era «Carlo, ho deciso: da oggi pensiamo un po’ anche alla linea»., evidentemente rivolto ad un pubblico femminile desideroso di prestare maggiori attenzioni alla cura delle proprie abitudini alimentari, anche se ciò sembrava, implicitamente, più il frutto di un impulso improvvisato e incontrollato che di una precisa volontà (il trend su cui la marca faceva affidamento pareva già, negli stessi atteggiamenti da essa tenuti, manifestare la propria natura transitoria).

Sulla stampa, soprattutto sulle riviste femminili, la campagna pubblicitaria recitava «Mangi fresco, ti nutri magro», dove il termine magro certamente non contribuiva ad arricchire il valore del prodotto e si prestava ad essere interpretato in termini punitivi. Il messaggio continuava, poi, con «il desiderio di essere snella», accentuando il posizionamento nell’area dietetica

2 Che, tuttavia, come vedremo meglio nel paragrafo 5.3, non è riconducibile ad un trend primario, bensì, quantomeno ad uno secondario di minore spessore e durata.

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evidenziando le sue carenze rispetto al carattere gusto ed interpretando la marca in senso punitivo. La cura del corpo si esprimeva, adesso, in una nuova forma non più poggiando semplicemente su attenzioni dietetiche, ma assumendo una diversa connotazione attraverso l’esercizio fisico ed una alimentazione equilibrata, variata e articolata.

Se in precedenza il punto principale preso in considerazione dai consumatori era il contributo al mantenimento di una buona linea, con il consolidarsi della nuova tendenza ciò non era più possibile. Lo stesso aspetto esteriore del prodotto creava seri problemi quanto all’associazione con la naturalità, presentando, i fiocchi di cui esso si compone, le sembianze addirittura di elementi di polistirolo, quanto di più distante dall’idea di vitalità naturale possa ritrovarsi in un alimento. La pubblicità che promuoveva Jocca in quel periodo non contribuiva certamente a superare i problemi insorti connessi ad un posizionamento troppo sbilanciato verso l’area dietetica, essendo incentrata sulla figura di una casalinga insicura di sé e problematizzata a tal livello da rasentare ed essere rappresentazione di una vera e propria frustrazione.

Si poneva, in definitiva, una impellente necessità di rilancio dell’immagine di marca attraverso un’azione di riposizionamento in grado di restituire vitalità al prodotto. Le associazioni da sviluppare, in quel contesto, erano date dai concetti di leggerezza, freschezza e versatilità, rompendo in maniera decisa l’originario collegamento con quello di dieta. Il nuovo posizionamento avrebbe indirizzato il prodotto verso un target ampliato, certamente uscendo allo scoperto e andando incontro a nuovi scenari competitivi, ma venendo fuori dal vicolo cieco di un trend ormai esaurito.

Il nuovo concetto che la marca avrebbe dovuto esprimere non poteva prescindere, inoltre, da una ridefinizione degli attributi di prodotto. Nessuna associazione diversa da quella di povertà e riferimento ad una dieta, infatti, avrebbe potuto essere evocata senza aver conferito una maggiore consistenza ed un ritrovato gusto a questo cottage cheese. In particolare, vennero eliminati o mutati i possibili riferimenti a concetti punitivi o comunque in grado di indebolire o disarticolare il ritrovato edonismo alimentare da parte del consumatore, come il bollino sulla

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confezione ad indicare lo scarso contenuto in grassi e la sostituzione delle parole “magro” e “fresco” con “leggero” e “soffice” dal valore indubbiamente più positivo e confacente ad una valorizzazione dell’immagine di marca. Onde favorire un acquisto di prova, fu poi introdotta una confezione da 125 grammi in aggiunta a quella tradizionale da 200 grammi. Dal punto di vista prettamente comunicativo, il nuovo posizionamento fu espresso definendo Jocca come “La freschezza in fiocchi” rilanciando l’associazione con il latte ed il suo alto e nobile valore nutritivo. Il target di riferimento, inoltre, si riconduceva ad una donna dai tratti più moderni e dagli atteggiamenti alimentari al passo con i tempi. L’obiettivo era quello di far comprendere al consumatore che Jocca non era solamente un prodotto dietetico, ma un formaggio fresco, flessibile e versatile adatto ad un consumo variegato e sociale distribuito nei più diversi momenti della giornata.

Tuttavia, l’opera di riposizionamento non era ancora compiuta1 e la marca rimaneva pericolosamente a metà del guado, esprimendo un prodotto senza una propria decisa identità e personalità che non sapeva essere né un alimento marcatamente dietetico, né tantomeno nutriente e gustoso. Sebbene Jocca fosse una marca molto conosciuta dal mercato, non riusciva ancora ad incontrarne i favori e ad essere bene accettata, lasciando interdetti e disorientati i potenziali acquirenti. Se gli obiettivi in termini di posizionamento potevano essere validi, la realtà mostrava ancora un prodotto che mal si accordava con la sua nuova immagine proposta.

Fu solamente con il riferimento ad un target ancor più orientato ad atteggiamenti moderni verso il cibo e con la modificazione degli attributi fisici del prodotto (attraverso l’aggiunta di una maggiore quantità di grassi, in modo da conferirgli una consistenza più cremosa e soffice) che i risultati in termini di vendite e di accettazione da parte del pubblico iniziarono a tornare positivi per la marca, anche se persisteva una notevole stagionalità ed incostanza per quanto riguarda il consumo. La nuova campagna pubblicitaria, dal clima giovane e divertente, faceva perno sulla versatilità del prodotto, in grado dar vita ai più diversi abbinamenti che consentivano

1Non a caso, le vendite del 1986 erano ulteriormente diminuite.- 308 -

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di arricchirne i significati1. Il claim recitava «Jocca, tutto di…» nella più classica delle tecniche che utilizzano il principio di chiusura nella generazione delle associazioni desiderate2.

Al 1990 Jocca deteneva una quota di mercato vicina all’80% per quanto riguarda i cottage cheese e del 15% sul mercato totale dei formaggi freschi. Se da una parte, quindi, poteva apparire il leader rispetto ai primi, in una più ampia visione prospettica la competizione si faceva – e si fa –serrata, specialmente qualora se ne allarghi l’orizzonte oltre la mera natura merceologica del prodotto. In effetti, considerando l’occasione d’uso del prodotto, esso si ritrova a competere con concorrenti della più diversa natura: mozzarella di produzione industriale ed altri formaggi freschi (ad esempio Philadelphia), tonno e carne in scatola e, probabilmente, anche salumi confezionati pronti all’uso3. La natura che probabilmente emerge essere come la più vicina al prodotto è, quindi, quella di un piatto destrutturato in grado di aderire ai moderni ristretti tempi di preparazione e di consumo degli alimenti, caratterizzato da leggerezza, freschezza e versatilità di impiego.

A partire dalla fine del 1991, con lo sviluppo e la rimarchevole proliferazione di versioni “light” per i più disparati prodotti, tra i quali i formaggi, il posizionamento di Jocca fu riorientato verso l’originario concetto di “linea snella” realizzato attraverso una nuova campagna pubblicitaria proposta su media meno costosi rispetto alla televisione – per lo più stampa – nella quale il prodotto era accostato ad una modella in bikini adagiata su uno scoglio in riva al mare e che con il claim che

1 A supporto del fondamentale concetto di versatilità, che andava ad aggiungersi a leggerezza e freschezza, furono offerti diffusamente campioni del prodotto assieme ad un ricettario (con la funzione di valorizzarne gli abbinamenti con altri cibi) che ne avvalorava il senso e le ragioni. Per allontanare il richiamo all’uso del prodotto direttamente nella coppetta, il ricettario aveva la forma di un piatto.

2 V. par. 2.1.3.3 Comunque, il rischio generato per la marca dalla contesa del medesimo target

da parte di concorrenti provenienti dalle più diverse aree merceologiche è in parte mitigato dalla tenace esigenza di varietà che caratterizza il consumo delle moderne società di matrice occidentale.

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affermava «La leggerezza in fiocchi di Jocca…e si vede!»1. Nel 1994 il posizionamento fu nuovamente modificato allo scopo di rafforzare l’associazione con il concetto di versatilità del prodotto, promuovendo gli abbinamenti con altri cibi per realizzare piatti unici freddi2.

Tra i gruppi di consumatori3 interessati – anche solo a livello potenziale – a Jocca, sono senz’altro da escludere i tradizionalisti, in quanto il prodotto non presenta alcun legame con la cucina italiana, così come i poveri per le relative incompatibilità economiche e culturali. Tantomeno è possibile rivolgersi ai gastronomi, stante la mediocre prestazione di Jocca riguardo al gusto ed alle proprietà edonistiche in generale. Altro discorso vale invece per i salutisti (che comprendono, evidentemente, anche i clienti storici) e per i funzionali, ai quali il prodotto offre un indubbio servizio. La valenza per gli sregolati è piuttosto marginale, tuttavia potendo rappresentare l’occasione per uno spuntino fuori pasto.

Se è vero che l’avere introdotto in Italia la categoria concettuale relativa ai cottage cheese ha permesso a Jocca di acquisirne la leadership potendo adottare strategie di natura difensiva verso i concorrenti diretti, d’altra parte occorre considerare che tale categoria rientra in una più grande ed eterogenea, i protagonisti della quale rappresentano tutti potenziali pericoli per il futuro della marca. Il posizionamento, pertanto, deve essere studiato con riferimento alla multiforme arena competitiva nella quale Jocca si trova ad operare essendo, le decisioni strategiche adottate, foriere di conseguenze tanto più articolate quanto più variegata è il terreno di origine dei contendenti e quanto più complesse si fanno le esigenze da soddisfare.

Grazie ai sostanziosi investimenti in comunicazione, Jocca è certamente un brand conosciuto, almeno come nome, dal grande pubblico,

1A ciò si accompagnava una iniziativa promozionale – che riscosse un notevole successo – incentrata su una raccolta a punti che offriva come premio una raffinata insalatiera in vetro e silverplate.

2 Il concetto di versatilità venne anche formalizzato dalla nuova raccolta a punti che proponeva un vassoio multiportata ideato per suggerire il consumo di Jocca assieme ad altre pietanza. Si tornò anche all’utilizzo del mezzo televisivo attraverso minispot da cinque secondi nei quali compariva la medesima modella della campagna stampa.

3 Cfr. par. 5.1.- 310 -

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ma probabilmente non è né compreso né accettato completamente. Del resto, dopo l’entrata nel mercato di nuovi concorrenti diretti ed indiretti e le modificazioni subite nel tempo dal posizionamento adottato, Jocca pare avere un’identità che si è discostata da quella iniziale, ma ancora non bene delineata.

HAG.

Il marchio Hag nacque in Germania nel 1906 ed è presente in Italia dalla fine degli anni Venti. La particolare rilevanza della posizione di leadership detenuta dalla marca deriva, oltre che dalla invidiabile quota di mercato, soprattutto dal fatto che Hag si è posto come l’inventore della stessa categoria in cui opera conferendogli notorietà oltre che autorevolezza: il nome Hag è diventato, infatti, talmente generico da stare ad indicare la categoria intera (per la verità creando, qualche volta, alcuni problemi di banalizzazione e confusione). Il prodotto è costituito da un caffè “decaffeinato”, ossia privato della caffeina1. Questo genere di prodotto ha da sempre suscitato perplessità e pregiudizi da parte dei potenziali utilizzatori, in quanto si ritiene, spesse volte anche oggi, che, per essere ottenuto, debba subire trattamenti chimici complessi e pericolosi per la salute2. Inoltre, anche qualora il caffè decaffeinato superi questo primo

1 La caffeina è un alcaloide che in tazzina è presente in quantità da 50 a 150 milligrammi, con una media di 80, a seconda del tipo di caffè e delle modalità di preparazione. È noto che molti effetti indotti dal caffè su alcune funzioni del nostro organismo sono legati alla caffeina.

2 Già in passato, quando si imputavano esclusivamente alla caffeina certi effetti negativi, si pensò di ottenere una bevanda che fosse priva di questo alcaloide. Si comincio' quindi a ricercare un metodo che consentisse di eliminarlo dai chicchi. Ludwing Raselium ebbe l'idea di rendere poroso il chicco di caffè utilizzando del vapore. In tal modo veniva facilitata l'estrazione successiva della caffeina grazie all'ausilio di solventi organici.

I metodi per la decaffeinizzazione dl caffè, abitualmente utilizzati dall'industria, sono tre. Essi vengono convenzionalmente definiti dal mezzo impiegato nel processo: 1. DECAFFEINIZZAZIONE AD ACQUA. È basato sulla naturale capacita' dell'acqua

di solubilzzare la caffeina. L'acqua però agisce in modo non selettivo sul caffè - 311 -

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critico vaglio interpretativo, emergono subito nuovi luoghi comuni e preconcetti connessi al suo gusto a ostacolarne la diffusione.

Il mercato del caffè in Italia è particolarmente grande. La quasi totalità degli italiani (il 95% della popolazione) consuma regolarmente caffè, ma solo una minima parte di essi (il 14% dei consumatori) fa uso di decaffeinato e, in proporzione ai consumatori di caffè normale, tale uso risulta vistosamente inferiore dal momento che solo il 3% del caffè consumato è decaffeinato.

La differente natura del prodotto è alla base di tali divergenze. Da una parte è naturale che il caffè “normale” costituisca la parte preponderante del consumo totale essendo, esso, il prodotto originale, quello «vero», al cui confronto parlare di “caffè decaffeinato” appare un’antitesi in partenza (“che rilevanza può mai avere un caffè che non è caffè?” potremmo chiederci).

Ciononostante, il mercato del caffè decaffeinato è cresciuto significativamente fino al 1989, quando, a causa di una campagna

crudo, estraendone anche agli altri componenti solubili, come ad esempio gli aromi (senza comunque alterarne le caratteristiche). Un sofisticato processo tecnologico consente in una fase successiva, una volta allontanata la caffeina, di restituire il caffè gli aromi estratti, ricomponendone il profilo organolettico originario. I vantaggi di questo metodo fortemente innovativo sono i seguenti:- il caffè entra in contatto solamente con un'unica sostanza, l'acqua;- la ricchezza di aroma e di gusto della miscela non subisce alterazioni sostanziali.

2. DECAFFEINIZZAZIONE CON ANIDRIDE CARBONICA SOTTO PRESSIONE. Nel processo di decaffeinizzazione con anidride carbonica, i chicchi vengono inumiditi con vapore e acqua ed immessi in un cilindro di estrazione a contatto con il gas in condizione "supercritica" (ovvero, quando la temperatura e la pressione raggiunte sono tali da attribuirgli sia le caratteristiche del gas che quelle del liquido). L'anidride carbonica in condizione "supercritica" agisce da solvente per la caffeina permettendone l'estrazione.

3. DECAFFEINIZZAZIONE CON SOLVENTI ORGANICI.. Si tratta di un metodo ormai non più comune. Vengono utilizzati alcuni solventi organici particolarmente selettivi nei confronti della caffeina Il caffè crudo viene prima inumidito con del vapore, cosi da rendere più permeabile da superficie dei singoli chicchi. In questo modo si facilita l'estrazione della caffeina nel momento in cui il solvente entra in contatto con il caffè.

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denigratoria – poi smentita – che lo indicava come contenente solventi chimici nocivi alla salute, il consumo ha subito un crollo improvviso e deciso, tanto da dimezzarsi nel giro di tre anni continuando a scendere fino al 1996. È solamente a partire da questo anno che il prodotto ha cominciato la sua risalita (crescita media del 6% annuo), in contro tendenza con quanto faceva il caffè tradizionale (diminuzione media dell’1%), anche se è palese che, essendo stata, la crisi, dettata essenzialmente da un fattore improvviso e contingente, per quanto infausto, il consumo non avrebbe potuto rimanere per troppo tempo lontano dalle proprie potenzialità medie dimostrate fino a quel momento. Solamente fra qualche anno, cioè, quando la tendenza di fondo avrà ripreso il suo corso, potremo guardare a dati comparativi con il caffè “normale” con la consapevolezza di una maggiore attendibilità.

Il profilo dell’utilizzatore tipo di Hag è rintracciabile in quello di una donna di età superiore ai 45 anni, abitante al Nord e al centro (mentre al Sud, patria per eccellenza del caffè classico, questo genere di prodotto trova serie difficoltà ad affermarsi), di condizione socioeconomica medio-alta, e, soprattutto, che consuma anche caffè tradizionale (caratteristica che accomuna ben il 93% dei consumatori della marca). Quest’ultimo aspetto sembra essere un rivelatore piuttosto importante di come la scelta del decaffeinato non si ponga come una valida alternativa praticabile al caffè “normale”, avvalorando, al contrario, l’ipotesi che esso sia visto soprattutto come un ripiego quando, per una qualche ragione, non è possibile consumare il caffè tradizionale.

Due sono i principali atteggiamenti mentali che possono essere indotti dal caffè decaffeinato. Il primo, preponderante, è quello per cui questo prodotto è visto come punitivo, un compromesso obbligato in certe situazioni tra il bere o il non bere caffè. È evidente che, secondo il particolare atteggiamento che la persona dimostra di fronte a una costrizione e ad una scelta fra due alternative la quale vada a forzarne la volontà, potremo riscontrare posizioni di accettazione rassegnata o di contrapposizione “orgogliosa” nei confronti dell’opzione più sgradita. Il secondo possibile atteggiamento, certamente meno diffuso, è positivo in quanto induce il consumatore a considerare il caffè senza caffeina come un

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prodotto scelto (senza che la scelta sia il frutto di una costrizione) in quanto adatto a nuovi e più moderni stili alimentari.

Il caffè decaffeinato viene percepito come un caffè “depotenziato” da quelli che risultano essere utilizzatori saltuari (coloro che non reggono il compromesso e tendono, alla fine, ad abbandonare del tutto il caffè o a tornare verso quello tradizionale) e dagli utilizzatori per necessità (coloro che accettano il compromesso perché non possono fare altrimenti a causa, per esempio, di motivi di salute o tendenze ipocondriache).

Il decaffeinato viene invece visto come un caffè “purificato” assumendo, perciò, connotazioni positive, da coloro che possiamo definire “utilizzatori instabili” (ossia coloro che acquistano anche altre bevande sostitutive quali, per esempio, orzo e tè) e dagli utilizzatori convinti.

In genere, è assai improbabile che un consumatore di caffè tradizionale si orienti di sua volontà verso il decaffeinato se non ne ha valide ragioni (come potrebbe essere, ad esempio, un serio motivo di salute). Troppe appaiono le ragioni che ostacolano il passaggio da un prodotto percepito positivamente ad uno “punitivo”. Il caffè privato di caffeina, in particolare, risulta poco convincente per quel che riguarda il gusto1. I consumatori di caffè non risultano particolarmente attratti dalla possibilità di poter consumare una maggior quantità di un prodotto che percepiscono di bassa qualità, preferendo bere “poche, ma buone” tazzine di caffè classico.

Non bisogna, comunque, cadere nell’errore di considerare i pregiudizi relativi al particolare processo di produzione la causa principale della scarsa affezione del pubblico per il caffè decaffeinato. Il nocciolo del problema sta nell’immagine del prodotto che permea di sé quella della marca. Un punto importante da tenere in considerazione è che non necessariamente la caffeina è vista come un elemento indesiderabile; anzi, spesso la sua presenza è proprio l’attributo che maggiormente induce al consumo di caffè. In seguito ad una contestualizzazione sociale del consumo di caffè non si può fare a meno di notare come esso assuma rilevanti analogie con quello di sigarette. È proprio quando le persone si

1 Sebbene i risultati di un blind test rivelino che il sapore di Hag è paragonato a quello dei principali brand di caffè tradizionale.

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trovano sottoposte ad una situazione stressante che più si fa impellente il bisogno di appellarsi ad un momento di confortante abitualità in modo tale da ridurre la pressione percepita degli agenti snervanti ed al tempo stesso attivare i meccanismi di reazione dell’organismo attraverso il ricorso a prodotti che, per propria natura, contengono elementi stimolanti (nicotina per l’uno, caffeina per l’altro). Sigarette e caffè sono, cioè, prodotti il cui consumo si fa abitudinario nella ricerca di un comportamento costante in mezzo ad un ambiente caratterizzato dalla mutevolezza e che prefigurano una temporanea oasi di tranquillità.

Per i giovani, poi, amanti dei gusti forti, occorre un discorso a parte. Hag pare togliere al caffè proprio quella parte che essi, in particolare, vi ricercano maggiormente: la caffeina ed il relativo effetto stimolante del sistema nervoso. Il meccanismo con il quale molti ricorrono al consumo di caffè pare essere del tutto automatico, nel preciso momento in cui si avverte uno stato di deficitarietà di energia e necessitano di una “scossa”. Hag viene percepito, in conseguenza di ciò, come avere un gusto scialbo e, perciò stesso privo di una forte personalità, cosicché l’apparenza di scelta di ripiego si fa ancora più sentire1. Occorre, comunque, analizzare anche l’altra faccia della medaglia: in una società caratterizzata dalla caoticità e dallo stress potremmo riscontrare una nutrita schiera di persone che, in nome di una riduzione degli effetti caotizzanti presenti negli elementi con cui sono costantemente in contatto, sarebbero contenti nel non trovare la caffeina tra loro ed un vivere più quieto.

Osservando l’evoluzione della strategia comunicativa della marca, osserviamo come la campagna incentrata sul messaggio “La parte buona del caffè”, lanciata tra il 1986 e il 1987, sia riuscita – almeno in parte –nell’intento di creare delle associazioni positive sulla base di un riposizionamento del prodotto originario. In effetti, attraverso l’interpretazione e la comprensione del messaggio, veniva a determinarsi un trasferimento di valore dal caffè tradizionale a quello decaffeinato, il quale contiene solo le elementi migliori del prodotto.

1 “Perché mai dovrei bere un insipido surrogato per persone malaticce quando non ce n’è una ragione evidente e immediata e soprattutto quando posso avere il vero prodotto originale che mi garantisce il giusto livello di stimolazione?” potrebbe obiettare un giovane consumatore di caffè.

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La successiva campagna (1988-1989) completava la costruzione di un pieno contesto valoriale e di significati attorno alla marca, arricchendola di quelle connotazioni emotive che fino ad allora le era mancate. Il messaggio era “Aggiungi Hag alla tua vita”. Il prodotto veniva idealmente associato ad un mondo tutto da vivere, senza compromessi, neppure nel consumo di caffè. Anzi, era proprio l’aggiunta di Hag a conferire nuovo valore al mondo concettuale di riferimento del consumatore, conferendogli una maggiore stabilità di contenuti e costituendo il punto di arrivo di un ideale percorso evolutivo nell’ambito dello stile alimentare.

Nel 1992, Hag muta in misura rilevante il proprio posizionamento, in risposta al momento di difficoltà attraversato in quegli anni. Nella pubblicità viene inserito un testimonial – Paul Cayard, timoniere del Moro di Venezia nella sfida italiana per l’America’s Cup, nel tentativo di sfruttare l’attenzione generale di cui godeva in quel periodo – con l’obiettivo evidente di associare Hag al concetto di salute e vigoria fisica. Tuttavia, non furono conseguiti i risultati sperati, dal momento che il decaffeinato, ancora percepito come una rinuncia e un prodotto punitivo, quando viene abbinato al salutismo sposta il suo posizionamento verso l’area dei prodotti per malati perdendo gran parte della sua capacità attrattiva.

Nel 1996 inizia una nuova campagna pubblicitaria che costituisce per certi versi un ritorno al passato, focalizzandosi sugli attributi ed i contenuti del prodotto attraverso il confronto con il caffè “normale” (il messaggio è: “Hag è buono come un caffè normale”) e l’evidenziazione dei benefici apportati da Hag, con riferimento alla lunga esperienza accumulata nella produzione di decaffeinato che le permette di offrire un caffè ricco e generoso.

Il più recente spot, molto centrato ed impostato sull’ironia e sul doppio senso, fa leva sulla scoperta di Hag, della sua bontà e, in particolare, sulla possibilità che il prodotto offre di berne a piacimento. L’occasione di consumo suggerita è, soprattutto, quella al bar e di tipo conviviale (sulla quale la marca conta molto per il suo sviluppo futuro) tale essendo l’ambientazione utilizzata. Il target di riferimento si abbassa per quanto riguarda l’età, indicativamente verso i giovani dai venti ai trent’anni che

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sentono vicina l’esigenza del vivere bene, con facilità ed in modo diretto, dando valore e godendo piccoli piaceri quotidiani senza per questo subire costrizioni si alcun genere. Il prodotto rimane ancora piuttosto distante dal modo di essere del consumatore di oggi. È proprio per questa ragione che l’ultima campagna cerca di spostare l’attenzione sul contenuto emozionale del prodotto basandosi sul concetto che “Hag è buono tutte le colte che vuoi”.

Per quanto concerne il mercato del decaffeinato, Hag detiene saldamente la leadership con una quota di mercato di circa il 49% nel canale retail e del 38% nel canale bar. La presenza della marca è particolarmente elevata per quanto concerne la grande distribuzione. L’assortimento offerto è l’unico nel suo genere a comprendere due differenti formule di decaffeinato. Infatti, nel 1996 è stata introdotta la versione “Espresso” che ha raggiunto una quota del 15% sul totale delle vendite. Le versioni sono costituite da Hag Famiglia “Classico”, Hag Famiglia “Espresso” e Hag “solubile” che, tuttavia, contribuisce in minima parte (1%) ai volumi di vendita. I principali concorrenti nel canale retail sono Lavazza Dek (22% del mercato), Illy (5,6%), Splendid N&D (3,7%); le private labels, in crescita, detengono una quota di mercato complessiva del 5%.

Il canale bar, sebbene ancora meno rilevante rispetto al retail, ha conosciuto negli ultimi tempi un ottimo tasso di crescita (+7% tra il 1997 e il 1998). La quasi totalità dei bar (90%) offre una versione di caffè senza caffeina, principalmente in bustine. Hag è presente, in questo canale, nel 38% dei punti vendita e, anche se il contributo totale alle vendite non è eccezionale (11% del fatturato), la profittabilità è nettamente superiore a tutti gli altri prodotti in assortimento. La competizione è marcatamente differente rispetto al canale famiglia, in quanto i maggiori concorrenti sono costituiti dai torrefattori locali, grazie al forte legame che hanno con il barista spesso anche contribuendo a finanziare le sue strutture di vendita. Inoltre, dato che molto di frequente la versione decaffeinata non rappresenta tanto per essi un vero business, quanto un completamento dell’assortimento, i prezzi che i torrefattori locali applicano sono molto bassi (impraticabili per Hag).

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SIMMENTHAL.

Nel mercato delle carni in scatola, Simmenthal è una vera e propria istituzione, prima ancora che il leader di mercato con una quota vicina ai due terzi. A questa marca storica, la cui nascita viene fatta risalire addirittura al 1881, si deve, infatti, la creazione dell’intera categoria alla quale è, tutt’oggi, inscindibilmente legata.

Il prodotto è costituito da un piatto pronto di carni bovine, dal bassissimo contenuto in grassi (solo il 2%) in scatole preparate in gelatina. Le carni provengono dal Sud America e, in particolare, dal Brasile e dall’Argentina, paese, quest’ultimo, che ne vanta di qualità molto elevata. I tagli sono magri perché provengono da bestiame allevato all’aperto e vengono selezionati e controllati con cura. La gelatina nasce da un brodo vegetale che viene preparato con ingredienti naturali – spezie e verdure – senza impiego di grassi.

La domanda di carne in scatola si caratterizza per essere fortemente correlata alla stagione, raggiungendo elevati picchi nei mesi caldi. La percezione riguardo questa categoria di prodotto vive di molti contrasti, frutto di un retaggio socioculturale e di un vissuto radicato a tal punto nella mente delle persone da essere difficilmente superabile completamente. Storicamente il prodotto viene percepito come un alimento da consumare in situazioni di emergenza, allorché non sono disponibili migliori alternative (come ad esempio quando il frigorifero di casa rimane vuoto oppure non sono facilmente o prontamente reperibili cibi freschi1.

Sebbene negli ultimi anni, in seguito ai consistenti sforzi in comunicazione di Simmenthal, si sia sempre più diffuso il concetto di un consumo “normale” del prodotto, come piatto freddo abbinato a verdure e insalate, per pasti informali tra amici, continuano a persistere rilevanti resistenze nei suoi confronti attribuibili a veri e propri pregiudizi e luoghi comuni. Rimane, in altre parole, una certa diffidenza verso la carne in

1 Non a caso, si ebbe un picco dei consumi in corrispondenza dell’incidente nucleare di Chernobyl nel 1986.

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scatola, nonostante che ormai sia cosa abituale consumare ogni sorta di alimento commercializzato in quel tipo di packaging.

La distribuzione di Simmenthal risulta capillarmente distribuita sul territorio, con una copertura che sfiora il 100%. Per quanto riguarda il prezzo, la posizione di leadership comporta per Simmenthal la possibilità di praticare un premium price con un livello superiore di circa il 25% rispetto al più diretto concorrente (Manzotin). Il premium price è giustificato, agli occhi dei potenziali acquirenti, dal gusto particolare del prodotto e dalla forte e rassicurante immagine di marca (relativamente al panorama delle carni in scatola).

La comunicazione rappresenta uno dei più importanti fattori critici di successo per questo mercato. la pubblicità di Simmenthal ha saputo costruire nel tempo un legame con il consumatore, anche grazie alla scelta di toni pacati e ambientazioni familiari, nella più classica strategia difensiva da impresa leader. Le prime campagne televisive risalgono agli albori di questo mezzo di comunicazione in Italia: la metà degli anni Cinquanta, momento in cui maggiore era la necessità per la marca di conferire al prodotto quella “dignità di carne” che il mercato riluttava a concederle1.

Solo a partire dal 1977 la strategia di comunicazione si era concentrata sul rafforzamento dell’immagine di Simmenthal come vero e proprio secondo piatto. Nello spot televisivo di quegli anni, il messaggio era recato da una nuora intenta a dimostrare alla suocera (timorosa, nel pieno stile da mamma nutrice, che il figlio non venisse nutrito dalla moglie con sufficiente cura), la bontà della sua decisine di portare in tavola carne in scatola. Il target dell’epoca era evidentemente rappresentato da madri di famiglia trai 25 ed i 55 anni, appartenenti al ceto medio, abbastanza emancipate da poter preparare pasti veloci e informali, ma ancora bisognose di essere gratificate dal riconoscimento del loro ruolo si nutrici della famiglia.

1 In quel particolare periodo storico, nel quale andava completandosi l’opera di ricostruzione e di rilancio dell’economia del paese, probabilmente era ancora troppo vivo e nitido il ricordo della scarsa qualità dei prodotti alimentari confezionati che circolavano durante la guerra., al quale potrebbe essere attribuita, pertanto, buona parte della diffidenza verso questo genere di prodotto.

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Con il passare degli anni ed il mutare della società, si rendeva però necessario procedere ad una ridefinizione della strategia comunicativa nel tentativo di rivitalizzare l’attenzione del consumatore stimolando la fantasia e l’inventiva nel creare nuove ricette appetitose e nuovi abbinamenti tra i più vari alimenti e la carne in scatola. Così, nel 1988, partì una serie di spot – che generarono un altissimo grado di ricordo e gradimento da parte del pubblico diventando quasi un fenomeno di costume – con protagonista un bambino, Niccolò, alle prese con la carne in scatole. Al primo episodio, che giocava sul gioco di parole e sulla tenerezza e sulla simpatica spontaneità del bimbo nell’insistere a chiamare “Tinsemmhal” la carne Simmenthal, ne seguirono altri correlati a diverse situazioni nelle quali si suggerivano nuovi modi di preparare e consumare il prodotto.

Dal 1989 la mira fu un po’ aggiustata nel tentativo di adeguare la comunicazione ai trend alimentari più moderni. Era quello, infatti, un momento in cui la particolare attenzione per i prodotti freschi e naturali stava creando le condizioni per uno sviluppo dei concorrenti indiretti di Simmenthal, ed in particolare dei formaggi freschi. Per orientare la comunicazione verso i segmenti giovanili della popolazione fu ideato lo spot dallo slogan “Il gusto ti fa festa” posizionando il prodotto come un secondo piatto che piace a tutta la famiglia e in grado di esaltare il piacere palatiale. Nel 1992, nel tentativo di consolidare la quota di mercato, il posizionamento di Simmenthal fu spostato verso l’area light (il messaggio era: “mi nutro leggero con il gusto unico di carne Simmenthal”). A partire dal 1994 la comunicazione insiste sulla natura di ideale piatto destrutturato del prodotto grazie al suo elevato livello di servizio e per la sua unica combinazione di gusto, versatilità e leggerezza.

Secondo una ricerca condotta da Eurisko1, il consumo di carne in scatola si concentra al Nord-Ovest e al Sud ed è riconducibile a quattro possibili stili alimentari:

1 I dati sono riportati nella brochure distribuita da Philip Morris che doveva servire da base per l’analisi del caso associato al relativo Premio per l’anno 1997.

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- emulativo (9,4% della popolazione): l’atteggiamento emulativo è tipico dei segmenti medio bassi che aspirano a modelli di vita superiori. In ambito alimentare, lo ritroviamo specialmente in individui di sesso femminile, residenti al Sud, di status medio-basso, per i quali il controllo alimentare rappresenta un modello di riferimento ideale, una “possibilità” di emancipazione culturale, un simbolo di status e di modernità;

- sostanzioso (15%): è uno stile molto tradizionalista che intende l’alimentazione come nutrimento, reintegrazione di energie, mezzo per il sostentamento del fisico. È un modello tipicamente maschile, privo di mire dietetiche e legato a un’idea di “abbondanza”: la quantità è meglio della qualità;

- conservatore (14%): è uno stile femminile molto tradizionale. L’approccio all’alimentazione è semplice e diretto, privo di preoccupazioni salutistiche o di particolari curiosità. Il cibo è visto essenzialmente come nutrimento, la preparazione dei pasti fa parte dei propri doveri e si percorrono le strade della tradizione senza cercare deviazioni da essa (che risulterebbero sgradite ai familiari);

- giovanile (15,1%): per i giovanissimi lo stile alimentare è largamente dominato dalla pulsionalità andandosi a generare comportamenti disordinati, occasionali ed esplorativi sulla base delle suggestioni pubblicitarie e dei gruppi dei coetanei.1

1 Per completezza di trattazione, riportiamo gli altri stili alimentari individuati dalla ricerca Eurisko:

- equilibrato (9,2% della popolazione): in questo stile alimentare attenzione alla salute, affidamento a prodotti di qualità e piacere per il cibo rappresentano le linee guida per le scelte di consumo. È uno stile prevalentemente femminile, tenuto da signore benestanti che investono molto nel loro ruolo di padrone di casa e amano esprimere la loro creatività in cucina, reinterpretando in chiave più “moderna” le ricette tradizionali;

- attento (10,4%): è uno stile femminile colto e attivo che esprime un approccio attento e controllato all’alimentazione, basato su un “progetto” complessivo di benessere e forma fisica. Costituisce una scelta difficile da perseguire nel tempo, stante la difficoltà di coniugare razionalità (controllo, prevenzione, “sacrificio”) ed emozioni (curiosità, impulso, piacere), nella più tipica delle contrapposizioni tra

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Il più diretto concorrente di riferimento è, per Simmenthal, Manzotin (con una quota di mercato attorno al 18%) che si posiziona come un prodotto di ottima qualità proveniente dall’Argentina e che può vantare un vasto assortimento soprattutto quanto a pezzature. Segue, distanziata (4% circa di quota), Montana, il cui posizionamento fa leva sulla tradizione (in particolare è stato recentemente riproposto in una nuova chiave un vecchio spot della televisione in bianco e nero ambientato nel far west, il quale riscosse, allora, un discreto successo). Le private labels non sono molto sviluppate per quanto riguardo questa categoria di prodotto. In effetti, trovando, anche i leader, seri problemi a farsi accettare ed a comunicare valide associazioni con la qualità del prodotto, apparirebbe quantomeno singolare che vi riuscissero le marche dei distributori.

Se Simmenthal può vantare una solida leadership del mercato per quanto riguarda le carni in scatola, ciò non deve tuttavia trarre in inganno, dal momento che la vera battaglia non è all’interno di quel comparto, ma si sviluppa nel ben più affollato e competitivo mercato degli alimenti destinati ad essere consumati in pasti destrutturati1. In altre parole, la concorrenza nasce tra alimenti che, seppure siano merceologicamente diversi, tendono ad essere utilizzati in occasioni analoghe. Tra essi ricordiamo l’ampio spettro dei formaggi freschi, i salumi (specialmente quelli in vaschetta o in busta) e, soprattutto, per quanto riguarda Simmenthal, il tonno in scatola2.

principio del dovere e principio del piacere;- funzionale (16,6%): è uno stile tipico dei giovani adulti maschi di status elevato, con

interessi culturali e professionali molto vivi ai quali fa riscontro, invece, una sostanziale indifferenza per l’alimentazione che è discontinua (ora ricca e curiosa, ora essenziale) e il rifiuto della preparazione dei cibi.

1Non a caso, le caratteristiche maggiormente apprezzate dai consumatori in Simmenthal sono poi anche quelle rappresentative per i suoi concorrenti indiretti.

2 Per quanto riguarda, in particolare, il tonno in scatole, il consumo alternativo di tonno fresco non pare né facilmente praticabile (la preparazione del pesce è piuttosto laboriosa), né altrettanto direttamente fruibile, a differenza di quanto avviene, parallelamente, riguardo al rapporto tra carne in scatola e carne fresca. Nel secondo caso, in altre parole, i vantaggi derivanti dal consumare la prima piuttosto che la seconda paiono poco evidenti, quand’anche ce ne siano, soprattutto in relazione al gusto e d alla qualità percepita del prodotto. Nel primo caso, viceversa i termini di confronto

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Da tutto ciò deriva l’opportunità (la necessità, diremmo), per i produttori di carne in scatola, di combattere anche con le armi tipiche degli altri protagonisti di questa eterogenea arena competitiva1.

5.2.3 – Category-innovators.

Per definizione, solamente ad un prodotto o servizio è concesso di creare una nuova categoria concettuale. Una volta che la marca ha individuato il giusto créneau, si profila per essa l’opportunità di divenire il leader di mercato. Per i successivi entranti esistono via, via sempre minori opportunità e spazi di movimento, con maggiori difficoltà nel trovare una posizione competitiva confacente alle proprie strategie e non occupata da altri. Ciononostante, è possibile che una marca riesca a cogliere, pur rimanendo nell’ambito della categoria di riferimento, importanti spazi su cui insediarsi e crescere in corrispondenza di punti non presidiati dagli altri competitori. In questo senso, le opportunità che si aprono per il posizionamento strategico della marca sono tanto maggiori, quanto più elevata è la sua capacità di differenziazione e di mutamento di prospettiva.

Così, nel mercato della maionese industriale, per contrastare il tipico approccio da leader generalista di Calvé, la quale incentra il proprio posizionamento attorno al concetto di gusto e corposità del prodotto, Mayonnaise Kraft, prima fra tutte, ha sviluppato il tema della leggerezza spostandosi sensibilmente dalla tradizionale immagine di ispirazione casalinga.

Nel mercato delle tavolette di cioccolato, Milka ha saputo differenziarsi in maniera rilevante rispetto agli altri competitori secondo linee originali ed innovative per la categoria soprattutto attraverso l’immagine e la comunicazione. Il fatto poi che trovi notevoli difficoltà ad acquisire una quota di mercato ancor più rilevante è dovuto alla forza del leader (Kinder Ferrero) per molti versi incentrata sugli stessi suoi punti

sono talmente distanti da non essere neppure presi in considerazione.1 Ad esempio, la confezione dovrebbe essere più vicina a quella utilizzata per il

tonno, prodotto che pare riscuotere un successo maggiore.- 323 -

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focali ed alla particolare frammentazione della struttura dell’ambiente competitivo.

Toblerone, brand storico nel panorama del cioccolato contribuisce certamente all’arricchimento del settore cui appartiene, ma non è riuscito a costruire sulle proprie peculiarità una categoria a sé stante. Se il livello di notorietà conseguita è sempre stato elevato, in questo caso, a conferma del fatto che non è sufficiente la semplice individuazione di una nuova categoria concettuale per garantire un vantaggio strategico sostenibile nel tempo, sembra mancare un adeguato supporto del sistema di attività dell’impresa in grado di rendere effettive le potenzialità espressive della marca.

Splendid, altro esempio di marca posizionata alle spalle di un leader molto forte (Lavazza), costituisce un caso a parte, sia in quanto solo di recente (1992) è entrato a far parte del gruppo Philip Morris attraverso Kraft Jacobs Suchard, sia perché non ha connotazioni in grado di determinarne una rilevante differenziazione rispetto alla più diretta concorrenza.

In generale, perciò, se l’attitudine di category-creation che certe marche presentano può essere determinante nell’attribuire loro la leadership del mercato, ciò non implica che non esistano spazi di manovra per gli altri competitor. Il punto decisivo è dato dalla capacità di contribuire in maniera evidente all’arricchimento della categoria di riferimento attraverso la differenziazione o comunque con un offerta in grado di cogliere eventuali esigenze (di qualunque origine e natura esse siano) avvertite dai possibili acquirenti, ma non coperte dagli altri concorrenti. In questo senso, possiamo definire come category-innovator un brand che dispone di potenzialità distintive in grado di porlo al centro dell’attenzione del mercato se orientate ad arricchirne i contenuti.

MAYONNAISE.

Il consumo di maionese, saporita salsa da contorno, è stato a lungo legato a quella di tipo casalingo, oggi prodotta a mano o con il frullatore. Essa si richiama ad un contesto alimentare di tipo tradizionale legato ai pasti principali (l’uso prevalente è per condire o guarnire piatti elaborati).

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La maionese casalinga genera associazioni positive con i concetti di genuinità, naturalità, freschezza, gusto, mentre i punti critici percepiti sono riscontrabili nella scarsa digeribilità e nell’eccessivo apporto calorico. Il suo consumo appare, oggi, in evidente diminuzione e non più adeguato ai moderni stili di vita, in sintonia con la generale tendenza a consumare cibi mediamente più leggeri rispetto al passato, soprattutto nei pasti principali.

Lo spazio una volta ricoperto dalla maionese casalinga è stato oggi quasi completamente occupato, ed anzi esteso, da quella di origine industriale a base di olio di semi di girasole. Nonostante si tratti di un prodotto che deve necessariamente essere composto da ingredienti freschi e delicati, l’origine industriale non sembra recare effetti negativi per quanto attiene la percezione delle sue intrinseche qualità organolettiche. Al contrario, prevale un atteggiamento orientato alla fiducia soprattutto nei confronti della marca, cui viene affidato il ruolo di garante della genuinità del prodotto, il rapporto con il quale viene vissuto in modo particolarmente rassicurante. Il classico utilizzo come complemento alimentare presenta alcuni vantaggi rispetto al caso della maionese casalinga: con un gusto non dissimile per piacevolezza e appetibilità, infatti, essa risulta maggiormente pratica e comoda. La versatilità del prodotto ne consente e favorisce, inoltre, un utilizzo alternativo come spuntino sul pane o sui crackers o per farcire panini.

I requisiti che il mercato italiano richiede alla maionese industriale sono strettamente connessi al gusto: deve essere saporita e “sfiziosa”1, e, allo stesso tempo, non deve coprire il sapore dei piatti ai quali è abbinata. Il consumo è distribuito in modo non uniforme nel corso dell’anno, con picchi in corrispondenza dei mesi estivi e delle festività natalizie. Sebbene il ciclo di vita del prodotto sembri entrare nella sua fase di maturità, la domanda di maionese industriale mostra ancora segni di una certa vitalità.

Negli ultimi anni, dal lato dell’offerta, le marche hanno costantemente accelerato nel tentativo di differenziarsi andando a stimolare, in tal modo, la domanda di maionese. L’offerta, ampliata, ha determinato la nascita di nuove sottocategorie di prodotto. Riguardo al packaging, accanto al tradizionale vasetto, troviamo l’ormai consolidata

1 Non a caso, la maionese è stata definita “la Nutella salata”.- 325 -

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confezione in tubetto, con un prezzo maggiorato mediamente del 35% e particolarmente diffuso nell’Italia settentrionale (scarso successo ha invece ottenuto la confezione “squeeze”).

Una certa articolazione ha coinvolto, negli ultimi anni, anche le tipologie di ricetta utilizzate dalle diverse marche. Come accade un po’ per tutti i prodotti alimentari, anche per la maionese – e non poteva essere altrimenti, dato il notevole apporto calorico – sono state introdotte delle versioni “light”, in linea con la tendenza generalizzata a seguire stili alimentari più coerenti con il mantenimento della piena forma fisica e della linea. Così, la maionese light, con circa il 30-35% di grassi in meno, è destinata a coloro che cercano di conciliare il piacere con la salute, il gusto con la forma fisica. I toni della comunicazione, perciò, sono tenuti sempre ben distanti dal concetto di dieta e dai suoi toni intrinsecamente esasperanti (difatti, la pubblicità fa perno intorno a quello dello “stare leggeri”). La maionese dietetica (ad esempio Weight Watchers), d’altro canto, essendo notevolmente impoverita nell’ingredientistica di base, è chiaramente indirizzata ad una limitata nicchia di mercato che comprende coloro che sono più propensi ad accettare un prodotto “punitivo” sul piano del gusto pur di salvaguardare la linea. Le maionesi dietetiche si caratterizzano, inoltre, per un modesto supporto sia in termini di comunicazione che distributivi.

Una possibile segmentazione dei consumatori basata sulle loro tendenze attitudinali e comportamentali1 porta a individuarne cinque tipologie, di cui le prime due sono riconducibili al gruppo dei forti consumatori (“heavy users”):

- voraci in colpa: sono quei consumatori fortemente indirizzati al consumo di maionese che si orientano verso i prodotti leggeri e/o dietetici. Tendono ad attribuire un’elevata credibilità al prodotto industriali in termini di equilibrio e qualità. Questo gruppo rappresenta circa il 25% dei consumatori ed è per lo più formato da casalinghe residenti al Sud;

1 L’analisi è stata realizzata dalla Kraft attraverso una cluster analysis.- 326 -

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- edonisti: orientati ad uno stile alimentare appagante all’insegna del piacere – palatale e visivo – curano, comunque, la propria forma fisica e seguono di conseguenza una alimentazione equilibrata. Ritengono il prodotto industriale come il più idoneo a conciliare piacere e salute. Costituiscono circa il 16% del totale e sono concentrati prevalentemente attorno ai centri urbani più grandi del meridione;

- salutisti equilibrati: consumano maionese solo in modo sporadico, sono preoccupati della propria salute, senza però rendersi disponibili a rinunce eccessive in termini di gusto. Orientato al consumo di maionese industriale, il segmento comprende il 20% dei consumatori;

- madri nutrici: sono le donne che curano personalmente e direttamente l’alimentazione della famiglia, esprimendo in questo modo il proprio affetto. La valorizzazione del loro ruolo avviene attraverso la preparazione di un cibo ricco e gustoso dove poco spazio è lasciato ai prodotti di origine industriale. Appartiene a questo gruppo circa il 17% dei consumatori concentrato principalmente nei centri medio-piccoli del Nord-Ovest e che appartengono ad un ceto sociale medio-alto;

- salutisti maniacali: ossessionati dalla propria salute e complessivamente poco inclini a dare soddisfazione alle istanze del piacere qualora si pongano in contrasto con la loro percezione della prima, queste persone tendono ad essere psicologicamente lontane dal prodotto industriale poiché sospetto di manipolazione. Questo segmento raccoglie circa il 22% dei consumatori, in prevalenza giovani, scolarizzati, di buon livello socioeconomico e che svolgono un’attività che li porta spesso a rimanere fuori casa.

Per ciò che concerne l’arena competitiva, non esistono, sul piano tecnologico, barriere all’entrata. Così si è potuto assistere, negli ultimi anni, al proliferare di nuovo concorrenti (come le private labels) agguerriti sul fronte del prezzo. La posizione sul mercato di Mayonnaise Kraft non è distribuita in maniera perfettamente omogenea sul territorio: principalmente forte al Sud, si trova in una situazione di relativa debolezza al settentrione. Particolarmente competitiva è la versione leggera, opportunamente denominata “Legeresse”, la quale detiene largamente la

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leadership per quanto riguarda le maionesi light, nonostante il prezzo superiore alla media del mercato e avvalorandosi, tra l’altro, dell’intrinseca maggiore digeribilità e minor contenuto in grassi della versione classica di Kraft rispetto ai più diretti concorrenti. Dal punto di vista più marcatamente comunicativo, tutta la gamma è proposta puntando sull’enfatizzazione degli aspetti legati alla leggerezza ed alla delicatezza del gusto. Molto utilizzato è il contributo delle promozioni soprattutto attraverso raccolte a punti. A proposito, interessante è l’abbinamento recentemente realizzato con un altro prodotto della galassia Kraft: l’offerta consiste nell’inserimento, a scopo promozionale, di una tubetto di maionese Kraft in una confezione di carne in scatola Simmenthal (anche se, per la verità, il consumo da stimolare attraverso l’associazione a un prodotto affermato e dal gusto complementare è proprio quello riferito a quest’ultima).

Calvé (Van den Bergh, gruppo Unilever), è il leader del mercato italiano della maionese ed è particolarmente forte al Nord nella confezione in tubetto. La gamma offerta è senz’alcun dubbio la più estesa del mercato, nel tentativo di coprire tutte le possibili esigenze legate al prodotto1. La versione light, tuttavia, non pare aver riscosso un notevole successo, probabilmente contrastante con le peculiari associazioni di gusto e corposità che Calvè evoca. Il prezzo, data evidentemente anche la situazione di leadership, viene mantenuto al di sopra della media del mercato, anche se recentemente si è iniziato a praticare forti sconti sul prezzo di vendita ed attività promozionali rivolte agli intermediari nel tentativo di ampliare la propria quota di mercato soprattutto al Sud e contrastare l’ascesa di private labels e primi prezzi. Il messaggio pubblicitario che ha fatto da traino per la marca durante tutti gli anni ottanta era quello di “Gusto a volontà”, a sottolineare l’attenzione per il sapore deciso del prodotto. Nei primi anni novanta, essendo stata modificata la ricetta, fu introdotto anche il concetto di “leggerezza” più vicino al posizionamento di Mayonnaise Kraft, il maggiore concorrente. I risultati

1 Calvè è l’unica marca ad essere presente nel formato “squeeze” con il brand giovanilistico Top Down che, tuttavia, dopo il successo iniziale ha iniziato la sua discesa. Importante è, comunque, il rilevo strategico della mossa, dal momento che per un leader è importante coprire i punti sui quali possono potenzialmente essere sferrate offensive da parte della concorrenza.

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non furono molto positivi: la marca, infatti, veniva spostata in un territorio non suo, essendo profondamente radicate le associazioni che Kraft aveva costruito attorno a tale concetto; inoltre, Calvè si era nel contempo allontanata da uno dei suoi punti di forza e che era stato alla base del successo riscontrato presso i consumatori ed ormai sedimentato nella loro mente. Successivamente fu renitrodotta la più congrua associazione con l’ambiente familiare1, lasciando alle versioni più innovative il compito di allacciarsi agli stili alimentari e comportamentali maggiormente distanti dalla tradizionale percezione della marca (i consumatori che manifestano il maggiore apprezzamento per Calvé sono quelli riconducibili ai segmenti salutisti equilibrati, madri nutrici e salutisti maniacali).

Hellmann’s (gruppo CPC-Knorr) è la terza forza sul mercato e fu rilanciata verso la fine della seconda metà degli anni Ottanta sulla scia del successo incontrato dal prodotto in Spagna, mercato abbastanza simile al nostro per il tipo di consumo. Le associazioni sviluppate ruotavano attorno al concetto di “gusto equilibrato che non copre i sapori”.

Le private labels sembrano, tuttavia, costituire il maggior pericolo per le prime due marche: a fronte di una qualità medio-alta, godono, in virtù dell’atteggiamento positivo che i consumatori hanno verso le grandi catene di distribuzione, di un’immagine percepita elevata, nonché di prezzi molto aggressivi e di evidenti vantaggi in termini distributivi e di visibilità nei punti vendita. Inoltre, l’assortimento offerto dai vari marchi è in continuo aumento e tendente a sovrapporsi pericolosamente a quello delle marche maggiori. Concludono il quadro concorrenziale primi prezzi e hard discount, i quali hanno anch’essi contribuito, negli ultimi anni, ad erodere la quota di mercato di quei produttori che non hanno saputo sviluppare, attorno ai concetti ed alle associazioni che ne costituiscono la forza, opportune strategie di contenimento a livello di distribuzione e di prezzo.

MILKA.

1 L’atmosfera familiare era accentuata dal motivo musicale in sottofondo, la canzone “Viva la mamma” di Edoardo Bennato.

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Nel panorama delle tavolette di cioccolato, Milka ha saputo conquistare una posizione di primo piano ed al centro dell’attenzione dei potenziali consumatori, grazie soprattutto alla grande visibilità frutto della propria differenziazione. Il prodotto si evidenzia a prima vista sugli scaffali e sugli espositori – in cui, solitamente i suoi concorrenti si presentano in tinte scure e tendenti al marrone, ad evocare il cioccolato – in virtù dell’inconsueto e simpatico colore lilla che caratterizza e rende tipici confezione e logo. Tale scelta fa parte di una strategia integrata mirante ad accrescerne il valore delle relazioni con il tema pubblicitario ispirato ad una mucca parlante dalle pezzature dello stesso, insolito, colore lilla.

Il prodotto consiste in un tavoletta di cioccolato al latte di qualità medio-alta la cui consistenza particolarmente tenera, tanto da farlo sciogliere in bocca, lo rende molto adatto al consumo da parte dei bambini. L’assortimento è assai variegato e comprende formati da 50,100,200 e 500 grammi. Accanto al tradizionale gusto al cioccolato al latte, se ne aggiungono altri nelle differenti versioni (nocciole, cioccolato bianco, riso soffiato, panna, noisette, caffè e yogurt) tutte offerte al medesimo prezzo, di poco superiore alla media del mercato. Nel settembre 1997 è stato introdotto un nuovo prodotto denominato “Cioccobiscotto”, una tavoletta costituita da un biscotto avvolto da una farcitura alla crema e ricoperto da uno strato di cioccolato che pare avere subito incontrato i favori del pubblico.

Milka, però, non è solamente tavolette al cioccolato, seppur variegate. Per affrontare i concorrenti con i quali la semplice tavoletta si trova a competere, il portafoglio della marca si è arricchito di versioni snack e merendina, nonché di uno specifico uovo di Pasqua attraverso il quale si è cercato di trarre profitto da un’ulteriore occasione di consumo di cioccolata. In particolare, la categoria degli snack, in rapida crescita dai primi anni Novanta, potrebbe rappresentare per la marca un’importante opportunità di sviluppo, sennonché, posizionandosi su di essa, Milka viene a trovarsi in una categoria che. nonostante sia certamente correlata alla propria, tuttavia non le appartiene, andando a confrontarsi con brand “specialisti” che tendono ad essere preponderanti rispetto al nome del produttore. La migliore strategia per Milka potrebbe essere, in analoga ad

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esse, quella di mantenere un riferimento alla marca principale solo di natura generica e con funzione di tutela e garanzia, sviluppando, nel contempo, un concetto ed un marchio nuovo in grado di sostenersi con le proprie forze.

Il posizionamento di Milka nella mente dei potenziali consumatori è in linea con i principali dettami inerenti al mercato in questione, i quali indicano nelle generazioni più giovani il target cui riferire le associazioni di marca in modo da garantirsi valide possibilità di profitto anche in futuro. Le persone, in effetti, tendono a ricordare positivamente il cioccolato mangiato da bambine (assieme all’appagamento ad esso connesso) ed a portarselo dietro anche da adulte. Il fatto, poi, che si tratti di un prodotto particolarmente ricco, tenero e cremoso consente di valersi delle associazioni relative al un “effetto nostalgia” per la propria infanzia e per le attenzioni ricevute proiettando tali caratteristiche sulle nuove generazioni che dal soggetto in considerazione ora dipendono e con cui vengono condivise con l’intrinseco intento di trasmettere loro parte di sé. Ciò in perfetto accordo con il tipico consumo di tavolette di cioccolato che avviene di solito in famiglia, per la quale il prodotto, delizioso e dalle forti connotazioni affettive, costituisce una “tentazione quotidiana”.

I punti focali attorno ai quali ruota l’intera immagine di Milka sono indubbiamente: il colore lilla, particolare, giovane e simpatico; il mondo delle Alpi da cui il prodotto proviene e nel quale è ambientata la pubblicità del prodotto, con l’insieme di valori veri, naturali, semplici e sinceri che gli vengono attribuiti; la mucca lilla, ad un tempo originale, piacevole e senza età, in grado di accattivarsi le simpatie di grandi e bambini, adatta, quindi al consumo in famiglia. È in particolare il secondo genere di collegamento che tende ad essere promosso, da parte di Milka, ad esempio per il tramite della sponsorizzazione delle principali competizioni sciistiche a livello internazionale.

Il mercato italiano della cioccolata presenta delle peculiarità, perlopiù negative e inibitorie riguardo alle possibilità di sviluppo, che lo contraddistinguono da quelli omologhi dei paesi dell’Europa centro- settentrionale. Il consumo medio pro capite di cioccolato è assai inferiore rispetto ai principali paesi consumatori, mancando, in Italia, una radicata e

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consapevole cultura del prodotto. In effetti, prevalgono atteggiamenti negativi nei confronti del cioccolato, retaggio di tutta una serie di luoghi comuni che lo vedono causa ultima di problemi di linea o di carie. Scarsa appare la conoscenza delle importanti qualità che il prodotto presenta dal punto di vista puramente alimentare e nutrizionale.

Il mercato italiano del cioccolato vede la presenza di marchi locali molto forti e si caratterizza per un livello di concentrazione piuttosto basso (le prime quattro marche non superano il 50% delle vendite). Sebbene Ferrero detenga, con la linea Kinder, una quota rilevante del mercato (circa il 19%), non sembra comunque esistere un leader assoluto. Le private labels hanno il 7% di quota e sono in crescita.

Ferrero ha impostato l’intera campagna comunicativa sul concetto “Più latte, meno cacao”, certamente adatto ad un mercato in cui il cioccolato è visto essenzialmente in funzione del proprio valore in termini di gusto, piuttosto che dal punto di vista nutrizionale, andando così incontro alle esigenze che in particolare le madri nutrici avvertono nel procedere alla scelta di una marca di tavolette di cioccolato. Al centro dell’assortimento Ferrero sono le barrette Kinder, ma il trend è negativo e i suoi investimenti di marketing nel mercato delle tavolette di cioccolato stanno calando, spostando l’interesse verso altri segmenti correlati più redditizi quali snack o momo-praline (Bueno, Duplo, Tronky, Rocher) e verso il mercato delle merendine refrigerate come Pinguì e Fetta al latte (in quest’ultimo caso anche per contrastare il naturale calo stagionale nelle vendite di cioccolato).

Novi ha raggiunto una posizione di primo piano nell’arena competitiva (13% circa di quota) grazie al notevole investimento pubblicitario – incentrato sull’elevazione del cioccolato italiano al livello dei più rinomati prodotti svizzeri – ed alla forte pressione promozionale. Il prezzo aggressivo per un prodotto di uguale qualità completa, infine, il profilo del posizionamento di base di Novi. L’assortimento è stato quindi ampliato sia in riferimento ai formati, sia per quanto concerne i gusti disponibili, con la presenza di “specialità” offerte ad un premium price. Il punto debole del prodotto è rintracciabile nella diffusione e distribuzione concentrata soprattutto nell’Italia settentrionale, venendo inoltre a mancare lo sbocco estero.

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Nestlé, con una ampia gamma di prodotti, detiene una quota di mercato di circa il 9%, tuttavia risentendo di un probabile spostamento degli investimenti in favore della acquisita Perugina, altro storico marchio del gruppo. La distribuzione capillare è uno dei punti di forza di Nestlé, che risulta particolarmente forte nell’area centro-meridionale. La strategia di prezzo praticata da Nestlé si pone al medesimo livello di quella di Milka.

Le linee di prodotto a più diretto contatto concorrenziale con Milka per il posizionamento perseguito e per la comunanza del target di riferimento sono Kinder Ferrero da una parte e la linea “Disney” di Nestlé. Per quest’ultima, in particolare, è da notare come l’abbinamento con il mondo Disney sia sfruttato a livello promozionale attraverso concorsi e raccolte a punti focalizzate sui famosi personaggi dei fumetti.

TOBLERONE.

Nell’ambito del più vasto mercato del cioccolato, Toblerone ha saputo crearsi un proprio spazio fin dal momento della sua introduzione, avvenuta in Svizzera nel 1905 ad opera Johann Tobler e di suo figlio Theodor. Il prodotto si distingueva di primo acchito dagli altri per la caratteristica forma triangolare (il suo vero simbolo1), oltre che per l’originale formula che coniugava il miglior cioccolato svizzero con un prodotto tipicamente italiano: il torrone2.

1 Toblerone deve la sua forma alla più famosa montagna svizzera, il Matterhorn (Monte Cervino). Ispirato dal sontuoso panorama alpino, il prodotto risulta così legato alle tradizioni montane svizzere.

L’effigie del Cervino è riprodotta anche in disegno accanto al nome e sui lati corti della confezione. In un primo tempo al suo posto stava l’immagine di un’aquila, sostituita temporaneamente (dal 1920 al 1930) dall’orso, simbolo araldico di Berna. È nel 1970 che l’aquila scompare ed il nome occupa l’intero spazio a disposizione, mentre il Monte Cervino compare negli end panels. Nel 1987 la metamorfosi è completa con la comparsa del logo Tobler (Monte Cervino stilizzato bianco e blu con la scritta “Tobler” in corsivo) sia sugli end panels, che accanto al nome.

2 Il nome del prodotto deriva, infatti, dall’unione del nome della tipica specialità lombarda con quello del produttore.

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Packaging, nome e formula costituiscono, non a caso, il principale asset per l’immagine della marca. Essi costituiscono un tutto unico e inscindibile, tanto che, caso unico nel suo genere, si è proceduto a brevettare sia il processo di produzione (1906) che il nome (1909) e la confezione nella tipica forma triangolare. La confezione è rimasta pressoché immutata nel tempo con riferimento alla versione classica del prodotto e viene comunque richiamata nelle forme date alle sue più recenti versioni. L’assortimento di Toblerone si è arricchito di pezzature che vanno dai 12,5 grammi, introdotta nel 1995 e destinata al consumo d’impulso connesso al soddisfacimento di improvvise pulsioni edonistiche, fino ad un imponente prodotto di 4,5 kilogrammi denominato, per l’appunto, “Jumbo” e commercializzato dal 1997 come idea regalo in corrispondenza delle festività natalizie e che ha riscosso un notevole successo (soprattutto all’estero, dove il prodotto risulta maggiormente apprezzato). Oltre al tradizionale gusto al latte (cacao al 30%), esiste una versione al cioccolato fondente (cacao al 50%) che risale al 1969 ed una al cioccolato bianco (cacao al 24%) introdotta nel 1973. La produzione è concentrata nello stabilimento di Berna per essere poi esportata in tutto il mondo1 ed utilizza come materie prime le qualità più pregiate di cacao, latte, miele, mandorle.

La strategia affermatasi nel tempo per Toblerone è quella di incentrare gli sforzi nel tentativo di farne una marca globale, universalmente conosciuta. In quest’ottica è da notare come il prodotto sia presente in tutti i duty free. Ma questo non è sufficiente. In Italia, infatti, nonostante Toblerone goda di un buon grado di notorietà (tuttavia in diminuzione, non radicata sufficientemente nelle nuove generazioni e notevolmente inferiore rispetto ai più forti competitori), i suoi volumi di vendita sono nettamente inferiori rispetto ai più diretti concorrenti del mercato delle tavolette di cioccolato così come la frequenza di consumo. Paradossalmente potrebbe essere proprio tale notorietà ad essere il motivo della bassa vitalità del prodotto, rendendolo quasi “banale” per un pubblico abituato ad essere continuamente stimolato. In proposito, occorre rilevare come manchi, in Italia, un forte sostegno pubblicitario e promozionale.

1 Anche se l’intero assortimento non è presente in ogni paese.- 334 -

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Il posizionamento internazionale di Toblerone, quale aspirante global brand, ha per obiettivo – un po’ generico e banale, per la verità – quello di far percepire il concetto principale come “il picco del piacere del cioccolato che offre un gusto unico che nessun altro cioccolato può dare”. In quest’ottica, sono enfatizzate le caratteristiche distintive succitate, in modo da trasmettere, per associazione, i significati desiderati. Così, se la forma triangolare propone una connessione tra la vetta della montagna e l’apice del piacere, la particolare formula, unica nel suo genere ripropone il tema dell’inimitabilità che conferisce un surplus valoriale all’origine svizzera (la patria della cioccolata) del prodotto.

Per quanto riguarda l’Italia, Toblerone non sembra essere riuscito a trovare un posizionamento sufficientemente competitivo, probabilmente risentendo di una strategia globale standardizzata, ideale per i duty free, ma che non è riuscita ad adattarsi per sfruttare le opportunità e superare i vincoli del nostro mercato. L’unicità del prodotto e l’assenza di concorrenti diretti che abbiano caratteristiche simili, non deve, tuttavia, indurre a pensare che sia possibile non includerlo nella più ampia categoria delle tavolette di cioccolato, dal momento che esse costituiscono una verosimile e concreta alternativa al momento dell’acquisto. In questo contesto, Toblerone detiene una quota di mercato che, dopo essere cresciuta esponenzialmente, in termini relativi dal 1986 (0,1%) al 1988 (0,7%), ha poi subito una frenata attestandosi, nel 1997, attorno allo 0,5%. Questo trend si inserisce in un ambito nel quale il consumo di tavolette, dopo aver raggiunto un massimo alla fine degli anni ottanta, ha poi subito una flessione che è proseguita fino alla metà dei novanta per poi conoscere un pur non notevole consolidamento. Certamente, la copertura distributiva del prodotto raggiunta, che si concentra essenzialmente nella grande distribuzione e nelle aree urbane del centro-nord, non offre un contributo determinante alla performance, soprattutto in relazione ai principali concorrenti,.

Particolarmente interessante risulta l’analisi comparata tra il livello di notorietà di cui dispongono le diverse marche da una parte e la qualità percepita dai consumatori insieme alla frequenza di acquisto dall’altra. Risulta evidente come la notorietà sia funzione dell’esposizione

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pubblicitaria, soprattutto nelle nuove generazioni1. Considerando in special modo i principali competitors, potremmo avvalorare l’ipotesi che il momento topico nella formazione della conoscenza di una marca e nella creazione di una idea ben definita circa il suo valore ed i concetti di cui essa è espressione, in questo mercato, sia dato dall’infanzia e dall’adolescenza, allorquando si viene a formare un’immagine che resterà incisa nella memoria perdurando nel tempo. Determinante per il conseguimento di un vantaggio competitivo durevole in termini di immagine (e di fiducia) diventa, quindi, riuscire a far parte del particolare mondo ideale di riferimento di quello specifico target da cui verranno poi a dipendere gli acquisti negli anni a venire.

A questo riguardo, Toblerone non sembra al momento godere di specifici punti di forza. Il suo acquirente-tipo è costituito da una persona di sesso femminile ed età compresa tra i 25 ed i 44 anni (il livello di notorietà, così come la qualità percepita è particolarmente basso tra i bambini), abitante in un centro medio-grande del nord-ovest e di classe socio economica medio-elevata. Rispetto all’occasione d’uso, si può presumere che Toblerone si offra frequentemente come regalo (infatti, lo si compra spesso in viaggio) e per un uso familiare (questo giustificherebbe la maggiore penetrazione della pezzatura da cento grammi). Di fronte a quanto fanno i concorrenti occorre una più mirata e consistente attività promozionale, al fine di comunicare la diversità del prodotto nonché dare un maggiore sviluppo alla distribuzione. Inoltre, se probabilmente il nome non può essere cambiato a causa dell’ottica globale in cui la marca intende porsi, è altrettanto vero che chiamarsi Toblerone può dare luogo, specialmente in Italia, ad associazioni di scherno di chiara matrice infantile basate su un accrescitivo di derisione.

Se l’elemento portante della marca è la sua capacità di differenziarsi, occorre allora sviluppare tale potenzialità e, tuttavia, non confidare sul fatto che Toblerone appartenga ad una categoria a sé e da esso creata, la quale in realtà è inesistente dovendo, il prodotto, confrontarsi nel ben più agguerrito

1 Constatazione che di per sé non meraviglia, ma che assume, qui, un rilievo maggiore.

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mercato delle tavolette di cioccolato e di quello ancora più eterogeneo dei prodotti alimentari che rispondono ad esigenze edonistiche1.

SPLENDID.

Il marchio Splendid – in precedenza facente parte della galassia Procter & Gamble, un altro dei maggiori produttori al mondo che allora, però, si stava focalizzando su altri business – fu acquistato, assieme a Caramba, da Kraft Jacobs Suchard nel 1992. La scelta ricadde su Splendid per diverse ragioni. In primo luogo, era la seconda marca nel mercato famiglia (dopo Lavazza) con una quota dell’11%, quindi in una posizione di tutto rispetto e con la possibilità di essere sviluppata. Poi, questo marchio storico godeva di una elevatissima notorietà conquistata negli anni presso tutti i consumatori. Molto apprezzata è, in particolare, l’immagine familiare rassicurante e genuina. Nonostante siano trascorsi ormai molti anni, resta, tuttavia, ancora molto viva l’associazione con la qualità percepita derivante dal celebre claim “Col caffè di montagna, il gusto ci guadagna”, soprattutto nelle generazioni meno giovani. Per quanto riguarda la diffusione a livello nazionale, Splendid è, inoltre, molto presente nella distribuzione moderna, anche se trova non di rado difficoltà ad essere presente negli scaffali dei supermercati, dove preponderano Lavazza da una parte e le private labels ed i primi prezzi dall’altra, quasi sottolineando una situazione in cui c’è una contrapposizione competitiva su due fronti con minori spazi di movimento per una marca come Splendid la quale si trova da una parte a dover competere duramente con un forte leader di mercato (Lavazza), mentre dall’altra deve crearsi, nel contempo, degli spazi tra i concorrenti più aggressivi in termini di prezzo.

La chiara impostazione familiare dei concetti evocati da Splendid è facilmente rintracciabile attraverso l’osservazione dell’evoluzione dei messaggi contenuti nella comunicazione della marca. Nel 1981, il punto focale era costituito dalla trasmissione dei valori di Splendid nel momento

1 Tale è infatti la principale peculiarità che assume il mercato italiano del cioccolato, assai restio ad intendere il prodotto soprattutto per il suo valore energetico e nutrizionale come avviene negli principali paesi consumatori.

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dell’incontro intergenerazionale tra una suocera e la nuora inesperta cui viene raccomandato il suo utilizzo. Nel 1984, l’accento viene spostato sulla qualità superiore e sull’elevazione dell’immagine del prodotto, evidenziando come esso sia il caffè servito nei più importanti ristoranti italiani. Nel 1989, l’esaltazione della qualità fa un piccolo passo indietro spostandosi verso un concetto in parte diverso: l’affermazione, suffragata dall’esperienza di un barman, che Splendid preparato con la moka dà lo stesso piacere dell’espresso.

È nel 1990 che si assiste, in una qualche maniera, ad un ritorno a più marcati valori tradizionali dai toni rassicurativi, in grado di rafforzare la familiarità del prodotto: il messaggio insiste sul fatto che Splendid sia il modo migliore per svegliarsi la mattina. Nel 1993, sotto la nuova direzione strategica di Jacobs Suchard, troviamo un tentativo di riposizionamento della marca incentrato sulla promessa di un aroma superiore del prodotto (riprendendo, almeno in parte, i temi dei messaggi pubblicitari di metà anni ottanta), in modo da differenziare maggiormente la marca rispetto ai concorrenti. Il nuovo posizionamento fu confermato nel 1995 con uno spot che utilizzava il concetto dell’aroma come elemento emotivo associato al calore della famiglia (il claim era: “Splendid, non c’è aroma più grande”). Ottimi risultati vengono, infine, dalle attività promozionali quali raccolte a punti ed operazioni di direct marketing.

Jacobs Suchard aveva tentato, da subito, un rilancio del prodotto, intervenendo su alcuni elemento del marketing mix. Oltre al nuovo succitato messaggio dello spot pubblicitario, fu modificato il packaging per renderlo più attraente mediante l’utilizzo di nuovi materiali per l’imballaggio e l’introduzione di un nuovo tipo di apertura più pratico e funzionale.

Splendid, a differenza di molti suoi concorrenti presente soltanto nel mercato delle famiglie può, tuttavia, contare su un ampio assortimento. Accanto ad Aroma Classico, il suo caffè più rappresentativo, dal gusto pieno ed armonioso (37% qualità arabica, 63% qualità robusta), troviamo, nel segmento tradizionale, Mokarama, dal gusto più forte ed intenso (derivante da un contenuto relativamente maggiore di chicchi di qualità robusta: 65%, contro un 35% di qualità arabica). Il prodotto Splendid per il

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segmento oro/premium è Splendid Aroma Oro, ricco e pregiato (contiene, come tutti i competitori del segmento, esclusivamente chicchi di qualità arabica). Nel segmento espresso, invece troviamo AromaBar, la miscela per un espresso cremoso come al bar (contiene il 50% di qualità arabica). Splendid, offre, inoltre una versione decaffeinata: Aroma Decaffè.

Tra i concorrenti di Splendid, il più importante è sicuramente Lavazza, indiscusso leader di mercato in grado di vantare anche una forte presenza nel canale bar e all’estero e che pare racchiudere in sé tutte le variabili relative alla qualità percepita: fiducia, tradizione, gusto. L’atteggiamento positivo dei consumatori verso questa marca appare talmente radicato e forte da renderla quasi inattaccabile dai concorrenti. Nel corso degli anni, Lavazza, ha infatti costruito e imposto al mercato il suo “vocabolario” per quanto riguarda nomi, colori, tipologie e formati del caffè, in modo da costringere la maggior parte dei suoi concorrenti a prendere delle decisioni di marketing adeguandosi alle sue scelte. Le campagne di comunicazione di Lavazza hanno fatto la storia recente della pubblicità in Italia, prima tra tutte quella, durata tantissimi anni nelle più diverse varianti, con Nino Manfredi e la sua simpatica governante, Natalina, che di volta in volta ponevano l’accento su questo o quell’aspetto del prodotto o di una sua nuova versione. Il lancio, verso la metà degli anni Novanta, della nuova fortunata pubblicità con Tullio Solenghi nelle vesti del beato deciso a non rinunciare, neanche in Paradiso, al suo Lavazza, ha reso il marketing della marca ancora più aggressivo ed efficace dando spessore ad una nuova associazione, quella con l’irrinunciabilità, che ne ha ulteriormente elevato il valore percepito. Il consumatore tipo di Lavazza è distribuito uniformemente in tutte le classi d’età ed l’assortimento che la marca può vantare è il più completo del mercato coprendo tutti i segmenti.

A competere, a distanza, con Lavazza troviamo, oltre a Splendid, altre marche piuttosto caratterizzate rispetto ad un particolare aspetto. Cafè Do Brasil (Kimbo) si caratterizza per un immagine molto folcloristica (noto è lo spot con Pippo Baudo come testimonial). La sua offerta è imperniata su un caffè di qualità piuttosto alta nel segmento tradizionale (Kimbo Macinato Fresco contiene il 60% di miscela arabica e 40% robusta). La marca vanta una forte presenza al Sud che le garantisce un grado di fedeltà

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alquanto elevato (il consumatore tipo di Kmbo ha un’età compresa tra i 34 ed i 44 anni e vive in famiglie di reddito medio-basso localizzate prevalentemente nelle regioni meridionali). Il suo caffè di primo prezzo, Kosè, ha un buon tasso di sviluppo ed è il principale artefice della crescita della sua quota di mercato.

Segafredo è ben posizionato soprattutto nel canale bar e adotta un marketing molto aggressivo per quanto concerne i prezzi e le promozioni. La sua più recente campagna pubblicitaria fa il verso a quella di Lavazza, con Renzo Arbore che allestisce uno dei suoi particolari e coloriti spettacoli questa volta all’inferno. Illy, nel panorama del mercato italiano del caffè costituisce un caso particolare e, per molti versi, atipico: si è fortemente radicato nella profittevole nicchia delle famiglie agiate, di cui è leader indiscusso, e, a fronte di un prezzo particolarmente alto, offre una qualità molto elevata (100% arabica). Ad un livello più basso troviamo São, Caffè Mauro e altri marchi di origine regionale che sono i primi a risentire della forte diffusione delle private labels e dei prodotti hard discount. Soprattutto le prime si sono affacciate in maniera molto aggressiva sul mercato sottraendo spazio dapprima alle marche minori, poi anche a quelle più affermate (tra cui anche Splendid).

5.2.4 – Alcune evidenze empiriche per l’interpretazione della relazione tra market creation capability e posizionamento della marca.

In base a quanto osservato in precedenza circa la struttura ed il significato dei singoli quadranti e tenendo conto delle considerazioni fatte in relazione ai specifici casi empirici, possiamo, ora, esprimere alcune considerazioni riguardo al posizionamento delle marche oggetto della nostra analisi. Di esse, solamente Sottilette rientra, all’interno del macroquadrante in alto a destra, nella posizione ideale. In effetti, il brand è quello che ha dato il via ad una intera categoria di prodotto creandola dal nulla ed è rapidamente diventato il nome “generico” del suo ambito, potendo godere di una elevatissima riconoscibilità e notorietà. Sebbene siano intervenuti presto dei concorrenti a contendere la leadership di

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Sottilette ed il mercato sia andato sempre più concentrandosi, tali concorrenti non sono riusciti ad approssimarsi molto alla sua posizione, la quale risulta estremamente chiara e definita nella mente dei consumatori, così come la categoria con cui tende ad identificarsi.

In una condizione non dissimile si trova anche Philadelphia, la cui ben salda leadership è anch’essa riconducibile, in prima analisi, alla capacità di market-creation che la marca è stata capace di utilizzare nel dare forma ad una categoria fino al suo ingresso inespressa. La differenza, rispetto al caso di Sottilette, è data da una maggiore prossimità della concorrenza che, tuttavia, pare in diminuzione, tanto da profilare uno spostamento del posizionamento verso il quadrante in basso a destra1.

Per Splendid e Mayonnaise la situazione è leggermente diversa. Entrambe le marche fanno riferimento ad una categoria la cui creazione non è riconducibile a nessun competitor in particolare, anche se, attraverso il consolidamento negli anni della leadership, il livello di notorietà raggiunto ed il grado di familiarità e fiducia dei consumatori verso la marca fanno di Lavazza e di Calvè i punti di riferimento obbligati nelle rispettive categorie. In questo senso possiamo spingerci ad attribuire a questi ultimi brand il ruolo di ideali creatori del mercato ed a marche come Splendid e Mayonnaise la posizione di follower. Categoria e posizioni ricoperte dalle marche risultano altamente definite ed il mercato è concentrato con un alto grado di vicinanza tra i diversi concorrenti. A fare la differenza è, pertanto, lo spessore acquisito nel tempo dal valore di marca e la capacità espressiva proiettata dall’impresa attraverso i processi comunicativi e, più in generale, con l’immagine di marca.

Per Milka valgono molte delle considerazioni fin qui espresse, con la particolarità di una minore concentrazione del mercato. la marca gode, nell’ambito di una categoria ben definita, di ben marcate connotazioni e riferimenti a sistemi di associazioni e di simboli in grado di farne un caso a parte nel variegato panorama delle tavolette di cioccolato. I problemi

1 Se il grado di definizione della categoria sembra essere, forse, inferiore a quello di Sottilette, vista la maggiore sostituibilità con prodotti appartenenti al comune mercato dei pasti destrutturati, tuttavia esso non pare essere talmente sbilanciato da giustificare la riconduzione della marca ad altro macro-quadrante, ad esso sopperendo, in tal senso, l’ottimo grado di definizione raggiunto dalla posizione del prodotto.

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arrivano, per la marca, dalla vicinanza di concorrenti da lungo tempo affermati nel mercato italiano (come Kinder Ferrero) e che si pongono su posizioni simili per quanto riguarda i mondi concettuali evocati ed il particolare target di riferimento. Sembrano inoltre trasparire, nonostante la collocazione nell’area dei follower, alcuni protocaratteri tipici della marca che è capace di contribuire in modo determinante alla creazione del proprio mercato (il riferimento è, tra gli altri, alla differenziazione perseguita attraverso la particolare consistenza del prodotto ed la riconoscibilità del packaging), evidenziando le notevoli potenzialità di sviluppo della marca.

Toblerone si pone in una posizione particolare. Logica vorrebbe che, essendo prodotto riconducibile al mercato delle tavolette di cioccolato, si trovasse più o meno in linea con quella di Milka. Tuttavia, emergono alcuni tratti particolari che rendono la marca un mix di atipicità e concetti tradizionali: la caratteristica forma e gli attributi di prodotto lo rendono un caso unico nel suo genere. Toblerone, a ben guardare, si discosta infatti dalle comuni tavolette di cioccolato non riuscendo, comunque, a determinare la nascita di una nuova categoria e venendo, infine, ricondotto verso il naturale alveo concettuale di partenza. Vista la particolare posizione assunta sul mercato pare plausibile sostenere la non vicinanza di competitori che presentano offerte analoghe, ma il valore della marca risulta minato dalla sua incapacità ad esprimere una propria, distinta, identità.

Hag e Jocca, appartenenti a categorie merceologiche differenti, sono brand accomunati dal fatto che fanno corrispondere un elevato livello di definizione della propria posizione ad una scarsa distinzione della categoria d’appartenenza. Entrambe le marche hanno dato un contributo determinante alla creazione di una nuova categoria (rispettivamente quella del caffè decaffeinato e quella dei cottage cheese), che, ad ogni modo, non sono state in grado di reggersi autonomamente, ma che restano profondamente legate a più ampie categorie nel cui ambito devono essere ricondotte. I contorni dei nuovi mercati che le marche hanno contribuito a fare emergere, infatti, sono molto sfumati riconducendosi l’uno a quello del caffè e l’altro a quello dei formaggi freschi. La posizione di forza o di relativa debolezza che connota queste marche, pertanto, viene a dipendere

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dalla particolare lente dalla quale guardiamo gli eventi dell’arena competitiva.

Una valutazione solo in parte differente è quella che riguarda Simmenthal, la quale, anch’essa first-mover, si trova leader di una categoria – quella della carne in scatola – con concorrenti che sono, però, in posizioni più ravvicinate (non tanto in termini di quota di mercato, quanto di percezioni, positive e negative, riguardanti il prodotto) e che, ad ogni modo, si trova a doversi confrontare con rivali provenienti dalle più diverse categorie merceologiche nel più vasto ed eterogeneo mercato dei pasti destrutturati.

5.3 – Analisi del trend e prospettive di sviluppo per il posizionamento

5.3.1 – Il rapporto tra i trend e la strategia.

A ben vedere, le ragioni ultime che stanno alla base dei mutamenti delle strategie adottate dalle imprese sono solitamente rintracciabili nei cambiamenti avvertiti riguardo i trend sulla cui considerazione si basavano quelle precedentemente seguite1. Certamente, una strategia viene formulata tenendo conto anche delle variabili competitive, ma dette variabili non sono, comunque, indipendenti dalla contestualizzazione – anche in termini di tendenze – che ne viene fatta, per cui, venendo a mutare uno dei parametri definitori del contesto di riferimento, si determinano, conseguentemente, degli effetti che, transitando attraverso le strategie dei concorrenti, si riverberano poi anche sulle nostre.

1 L’importanza della comprensione dei trend è posta in evidenza, con riguardo all’analisi esterna, da Aaker (D. A. AAKER, Strategic market mnagement, John Wiley & Sons, 1992, p. 98): «Often one of the most useful elements of external analysis comes from addressing the question, what are the market trends? The question has two important attributes: it foscuses on change and trends to identify what is important. As a result, strategically useful insights almost always result. A discussion of market trends can serve as a useful summary of coustomer, competitor and market analysis. It is thus helpful to identify trends near the end of market analysis.».

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Fondamentale è, inoltre, la considerazione che si tratta di cambiamenti avvertiti e non necessariamente effettivi. Questo costituisce il nocciolo della questione: se da una parte una percezione errata dei mutamenti in atto a livello di ambiente può trarre in inganno l’impresa inducendola a seguire delle strade che in seguito si rivelano fallaci, dall’altra può anche accadere il contrario, e cioè che si abbandoni il sentiero strategico incentrato su una verace direttrice di sviluppo del mercato per correre dietro a falsi segnali che ci mettono in apprensione1, oppure, ancora, che il trend sulla cui considerazione si basa l’impostazione seguita sussista realmente, ma sia di una natura diversa rispetto a quanto ritenuto dall’impresa.

È, generalmente, proprio quest’ultima causa di discrepanza tra strategia e realtà a costituire il caso più ricorrente nella pratica. Succede, così, che quella che l’impresa riteneva una tendenza di fondo si riveli soltanto un semplice temporaneo allontanamento dal trend fondamentale, verso il quale il mercato non tarda in seguito a tornare2. Attribuire alla tendenza sottostante un impatto diverso da quello effettivamente detenuto, sia sopravvalutandola che sottovalutandola, è un errore che causa comunque seri problemi di posizionamento e rende necessaria un’adeguata quanto rapida manovra correttiva, specialmente per quel che riguarda l’immagine di marca.

Un esempio, a proposito, ci è offerto dal caso Jocca. Il carattere inizialmente conferito al prodotto, nel momento del suo lancio sul mercato italiano nel 1977, era decisamente improntato ad una connotazione dietetica, sull’onda del corrispondente trend che andava sviluppandosi in quegli anni riguardo alle abitudini alimentari. Dal 1983 le cose presero ad andare in una direzione inattesa da parte di Kraft: il trend sulla cui base

1 In questo caso, l’impresa dimostra una carenza di sicurezza nel disegnare le proprie prospettive che rischia di vanificare ogni iniziativa la quali abbisogni di un pur minimo margine di tolleranza quanto ai tempi di attesa perché le aspettative possano manifestarsi ed alla aderenza di queste ultime alle ipotesi sulle quali la strategia era stata impostata.

2 Stiamo naturalmente parlando in termini relativi: la durata di questa “smagliatura” del trend principale può anche essere lunga anche alcuni anni, richiedendo un certo lasso di tempo per poter essere riassorbita.

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quale si era sviluppato il brand pareva improvvisamente scomparso (o, quantomeno, fortemente ridimensionato) lasciando Jocca su una posizione che sostanzialmente non esisteva più. Il numero di individui disposto ad impostare il proprio stile alimentare su prodotti di matrice dietetica si era ridotto drasticamente e del resto erano entrati sul mercato marchi “specialisti” per la soddisfazione di quei particolari prodotti. Il gusto offerto da Jocca, piuttosto misero rispetto a un qualunque altro formaggio fresco, non aiutava certamente il prodotto a mantenere un livello accettabile di fidelizzazione.

Cosa era successo, allora? Semplicemente che era stato scambiato quello che era soltanto un temporaneo allontanamento dal trend principale – che vedeva una certa propensione e interesse verso prodotti leggeri e che fossero in sintonia con il mantenimento di un buon livello di forma, benessere e linea – per una più ampia ed importante tendenza di fondo. Un errore di valutazione che aveva, tuttavia, portato la marca su una posizione ormai svuotata di significato, quand’anche non negativa. Tale errata valutazione delle tendenze in atto scambiate per un generale e duraturo atteggiamento positivo dei confronti della dietetica è, comunque, in parte giustificabile, dal momento che, fino ad allora, si trattava di un fenomeno sconosciuto nel nostro paese e che solo ora, con l’evolversi del costume e anche, probabilmente, con l’avanzare dello stato di emancipazione e presa di coscienza femminile, pareva trovare la forza ed il coraggio di avanzare nella mente del consumatore trovando vigore in divenire. A lungo andare, tuttavia, considerando le basi dalle quali era partito e la crescita sproporzionata forse dovuta ad una sorta di eccesso di entusiasmo da “inesperienza al consumo”, era inevitabile che si manifestasse un riflusso verso il trend principale.

Sembra che, quasi come accade in fisica, ad ogni spinta che provoca un eccesso ingiustificato non possa che seguire, prima o poi, una spinta in senso contrario tendente a calmierarne gli effetti. I movimenti importanti negli atteggiamenti del mercato sono, perciò, quelli che si sviluppano nel lungo periodo, e che permettono di vedere la tendenza generale, “depurata” dalle increspature più temporanee le quali vengono riassorbite dal più

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ampio orizzonte temporale, allorché si riduce il livello di rumorosità ambientale.

In particolare, è ipotizzabile, per Jocca, un errore di valutazione prospettica per quanto riguarda la visione strategica. In effetti, nonostante la marca manifestasse un elevato grado di visione “dal dentro”, pareva, invece, presentare importanti carenze a livello di “visione esterna” ponendosi in una situazione di disorientamento miopico1. L’impresa, cioè, si muoveva, certamente, assieme al mercato con il quale aveva raggiunto un buon livello di sintonia, ma non riusciva a coglierne le oscillazioni di fondo, esponendosi, in questo modo, al pericolo di perderne la scia senza ricevere alcun significativo preavviso.

Altra situazione si ha, invece, nel caso in cui, detenendo una posizione di leadership e dovendo valorizzarla attuando una strategia di tipo difensivo, la marca pone in essere dei comportamenti di copertura che, pur non mostrando alcun significato per l’analisi del trend di fondo al quale il posizionamento deve improntarsi, hanno un senso in quanto permettono di bloccare gli spazi per una possibile offensiva da parte della concorrenza qualora il trend principale proceda effettivamente in quella direzione. In certe situazioni, in altre parole, è bene che l’impresa si metta al riparo da potenziali sviluppi della competizione che, se verificati, ne metterebbero a repentaglio il posizionamento e l’immagine, anche se questo vuole dire investire del denaro in iniziative dagli improbabili esiti positivi2. Può

1 Cfr. fig. 1.1.2 L’impresa deve guardare a questo genere di attività secondo un’ottica

strategica, assimilandolo ad una sorta di assicurazione sul proprio futuro che, ovviamente, ha il suo premio da pagare in termini di investimenti.

Naturalmente, non bisogna dare seguito a tutti i possibili sviluppi del mercato, stabilendo, invece, delle priorità, anche tenendo conto del potenziale strategico e delle risorse – umane, finanziarie, immateriali – a disposizione dei principali competitori. Resta comunque salva, per le imprese leader, la possibilità di inserirsi in un momento immediatamente successivo a quello del posizionamento innovativo adottato da un concorrente offrendone una propria versione in modo da appropriarsi del valore generato che ad esso verrebbe attribuito in virtù dell’identificazione con la più ampia categoria di riferimento ormai sedimentata nei potenziali acquirenti (la maggiore o minore probabilità che ciò avvenga è funzione diretta della tempestività di intervento, del grado di consolidamento della leadership riconosciuta alla marca (a sua volta

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ritenersi, questo, il caso di “Happy Snack” per Sottilette, della versione “squeeze” proposta da Calvé per la maionese, oppure, ancora, di Philadelphia Snack1, il caso più recente2.

Da tutte queste considerazioni discende l’importanza del procedere all’individuazione della profondità del trend in atto. In particolare, occorre verificare se quanto appare come un’evidenza sia il riflesso di un trend primario, secondario, o terziario. Un trend primario è quello che si sviluppa nel lungo periodo sviluppandosi per un arco temporale che può durare anche decine di anni andando a muovere concetti che risiedono ad uno stato profondo della mente dell’insieme dei soggetti in considerazione. Una volta stabilita la sussistenza di un determinato trend primario, qualora si verifichi una deviazione non rientrata dalle associazioni ad esso connesse, possiamo concludere che esso ha mutato direzione e si porrà, in quel momento, la necessità di un adeguamento dei core concept della marca per adeguarli alla nuova situazione. I movimenti che deviano i significati sedimentati espressione dei trend primari non sono, solitamente, molto repentini nel determinarsi, e, inoltre, quelli che li spostano radicalmente non sono molto frequenti.

I trend secondari sono segmenti concettuali che rientrano nell’ambito di una tendenza primaria loro superiore. Essi si sviluppano entro periodi di tempo solitamente riconducibili ad alcuni anni, dopodiché, verosimilmente, tendono ad esaurirsi riavvicinandosi alla tendenza primaria, oppure presentano comunque un mutamento di forma in senso espansivo di tale portata da far ritenere che vi sia stato un errore di valutazione nel determinare il trend principale, comportando la necessità per l’impresa di prenderne atto e conformarsi alla nuova e diversa realtà palesatasi. I trend terziari hanno un periodo di vita ancora più breve

dipendente dal livello di notorietà e familiarità ad essa attribuita) e della forza e capacità di difendere la nuova posizione che la marca sfidante dimostra di possedere.

1 Per quest’ultimo caso, tuttavia, sembra piuttosto di assistere al tentativo di sfruttare la spinta del prodotto base per lanciare un’offerta dai bassi costi incrementali e dall’elevata profittabilità.

2 Si noti come siano, tutti, esempi riconducibili ad una marca leader nelle condizioni di attuare una strategia difensiva in grado di anticipare possibili mosse della concorrenza.

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(spesso anche inferiore all’anno) e consentono all’impresa di sfruttarne le potenzialità solo nel brevissimo termine ed in presenza di un elevato grado conseguito di flessibilità strategica1 e produttiva che renda conveniente e, anzi, auspicabile un suo sfruttamento, purché si ponga in linea con i livelli di tendenza superiori.

Funzione della tendenza è quella di limitare i contorni di movimento degli atteggiamenti del mercato verso la categoria concettuale di riferimento, costituendo, i suoi margini estremi, un supporto od un’opposizione alla continuazione del trend (avvertendo, attraverso la loro violazione, del suo possibile cambiamento di rotta) rispettivamente secondo che il fenomeno sottostante sia in fase di espansione o di esaurimento. Particolarmente importante diventa, allora, il monitoraggio dell’ambiente di riferimento all’avvicinarsi di quelle zone critiche che possono costituire il punto di passaggio del trend da uno stato all’altro, in modo da prepararsi ad un repentino adeguamento da parte della marca ai concetti espressi dal nuovo trend.

Scoprendo quale sia la reale profondità di un trend se ne riesce a determinare la portata, e, una volta espresso in maniera congrua2 in termini concettuali, è possibile, in seguito, avere validi punti di riferimento per la relativa attività di monitoraggio e di interpretazione dei segnali ambientali.

1 Sebbene siamo, in questo caso, pienamente sul piano della tattica, è la strategia che, con le sua potenzialità di flessibilità, determina la possibilità per la marca di fare proprio il peculiare valore prodotto dal trend. Se, perciò, il perseguimento di tale valore può mettere il concetto e le associazioni di marca in contraddizione, è preferibile ignorarlo, onde evitare di arrecare danno al suo core value.

2 Un trend deve essere identificato nelle sue linee essenziali, senza avere la presunzione di carpirne ogni dettaglio per non correre il rischio di perdere tempo in un’attività sterile, quand’anche non fuorviante. I concetti che esprimono una tendenza devono, pertanto, non essere troppo numerosi e confermarsi vicendevolmente, senza, tuttavia, sovrapporsi (nel qual caso creerebbero soltanto confusione). La plausibilità di una tendenza è direttamente proporzionale al grado di coerenza tra gli elementi concettuali che la compongono, determinano ed esprimono.

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5.3.2 – Dinamica del posizionamento e trend di fondo.

Ben difficilmente il posizionamento ideato per una marca riesce a rimanere immutato nel tempo passando indenne tra le modificazioni che si vengono a produrre nella mente dei potenziali acquirenti e negli atteggiamenti del mercato. Tali cambiamenti, come abbiamo visto, rientrano nel più generale fenomeno dei trend che ne indirizzano gli sviluppi. Di qui la necessità di prefigurare diversi livelli, concentrici, di posizionamento, ciascuno congruente con quello immediatamente superiore e sintetica espressione di una rete concettuale e ricorsiva dalla quale discendono le conseguenti associazioni e attività seguendo la disposizione della “piramide strategica” illustrato nel paragrafo 3.1.3.

Il conseguimento del vantaggio competitivo – soprattutto quello di natura differenziale – viene quindi a dipendere dalla corretta interpretazione dello spirito del momento e dei trend in formazione. Tuttavia, il posizionamento è visceralmente connesso al vivendo del consumatore e, del resto, un trend, per propria natura, non dura per sempre. Ciò fa sorgere la necessità di un continuo ripensamento ed una incessante riformulazione (la quale deve, comunque, mantenere una certa coerenza con le risposte date in precedenza, per non mettere le persone nella condizione di incorrere nella dissonanza cognitiva).

Nello sviluppare le associazioni per un qualsiasi posizionamento, l’analisi dei trend (primari, secondari e terziari) costituisce un momento molto importante e permette di radicare nella mente dei potenziali acquirenti quelle associazioni (primarie, secondarie, terziarie1) che costituiscono e sviluppano il nucleo concettuale ad essi relativo.

Dal punto di vista “qualitativo” i trend si differenziano l’uno dall’altro. Alcuni, basati su concetti troppo complessi da gestire e stressanti da alimentare, appesantendo e ostacolando la naturale propensione degli individui alla semplicità (e, nel particolare caso di Jocca, anche quella al piacere), sono più deboli di altri e difficilmente perdurano immodificati molto a lungo. Paiono esserci, in effetti, dei concetti che determinano

1 Come accade per le tendenze, le associazioni primarie, più generali e profonde, saranno destinate a durare più a lungo e da esse si svilupperanno quelle di ordine successivo, più particolari e mutabili.

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sostenendole associazioni oggettivamente1 più forti e importanti rispetto ad altri. Tali concetti si legherebbero essenzialmente ai trend primari ed ai valori da essi portati e propugnati.

Il fatto che la tendenza fondamentale rivesta una grande importanza sviluppandosi per un ampio periodo di tempo e mutando solamente ad opera di forze ad essa superiori, non implica una definitiva inibizione delle possibilità per le imprese di influire sull’esito del suo incedere. Anzi, nel caso delle imprese leader, che della fusione con il trend primario fanno la propria forza, ciò diviene addirittura desiderabile. In particolare, chi ha conquistato la leadership di mercato attraverso l’individuazione di un créneau rimasto libero e la contestuale “invenzione” della categoria concettuale ad esso corrispondente individuando per primo l’esistenza di un trend dai contorni fino ad allora inesplorati, deve stare attento a che i successivi entranti non danneggino tale categoria e la tendenza sottostante attraverso concetti che siano fuorvianti e negativi rispetto alla sua natura originaria. Senza la difesa dei concetti “primi” la base della leadership potrebbe franare sotto l’opera di agenti patogeni che, non comprendendone il vero valore, finiscono per impoverirne i significati (e, quindi, le associazioni). Si tratta, in altre parole, di difendere, oltre al proprio posizionamento anche i concetti di fondo su cui esso si basa (se crollasse la rete concettuale su cui si è sviluppata e si appoggia, allora la marca cadrebbe con essa).

D’altra parte, è anche vero che, qualora un determinato posizionamento si allacciasse strettamente ed in maniera sbilanciata ad un trend dalla caratterizzazione molto forte e decisa, la marca rischierebbe di rimanere spiazzata nel momento in cui necessariamente avverrà una moderazione dei toni del trend. Una strategia di posizionamento valida è quella che comprende le ragioni profonde del trend (non guardandone solo le manifestazioni esteriori) evitando di farsi travolgere da esso e dagli eccessi che può presentare, non precludendosi, inoltre, le future strade che dalle posizioni attuali possono partire.

1 Dove per oggettivamente si intenda “in maniera praticamente indipendente dalle circostanze”.

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Il momento più critico nel governo del posizionamento strategico è, appunto, quello in cui avviene il passaggio del trend da uno stato ad un altro. In questo contesto, il mercato premierà chi dimostrerà di saper interpretare al meglio le nuove esigenze e saprà dare una conferma alle tendenze in corso.

Un forte ruolo nel determinare le prospettive di sviluppo plausibili per una certa marca è giocato dal grado con il quale essa è sedimentata nelle menti dei potenziali acquirenti, con riferimento all’insieme di concetti e associazioni di cui è portatrice. I nuovi spazi mentali determinati dal mutamento del trend in corso, infatti, sembrano non essere accessibili per quelle marche già presenti nell’adiacente contesto da cui il nuovo scenario prende forma e idealizzate in un certo modo da parte del mercato. La ragione sta nel fatto che esse esprimono concetti diversi e già radicati, difficilmente alterabili nella nuova direzione. Paradossalmente, ciò avviene, soprattutto, quando il livello di notorietà e conoscenza degli attributi di marca da parte del consumatore è più elevato. Spesso, perciò, può risultare preferibile approcciare le nuove esigenze espressione delle mutazioni avvenute nel trend attraverso marche del tutto nuove, non appesantite da vecchie associazioni e da connessioni a luoghi comuni che ne possano influenzare negativamente la percezione1.

Per quanto riguarda gli agenti modificativi degli spazi e delle dinamiche mentali, dall’analisi compiuta sui casi sopra esposti viene sostanzialmente confermato quanto argomentato nel capitolo secondo. In particolare, alcuni tratti sembrano accomunare i processi percettivi, interpretativi e valutativi posti in essere dai consumatori. L’atteggiamento nei confronti dei prodotti alimentari è incentrato su una generale preferenza accordata a quelli che impostano il valore della propria offerta sulle caratteristiche di leggerezza, versatilità e semplicità d’uso, non rinunciando, tuttavia, pur nell’ambito di un certo trade-off, ad accettabili livelli per ciò che riguarda il gusto. Una possibile interpretazione di matrice

1 La validità di questa opzione sembra essere tanto maggiore quanto più la domanda è insensibile al prezzo (e invece sensibile agli altri elementi del marketing mix).

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sociologica di quanto avviene sottolinea come, strette da una parte da stili di vita impegnativi e stressanti che le vedono fuori casa per buona parte della giornata e dall’altra da temi comunicativi che esaltano ed inculcano un determinato tipo di immagine da perseguire, le persone si orientino verso uno stile alimentare più confacente con le esigenze avvertite in termini di cura della forma fisica cui viene associato uno stato di benessere sia fisico che mentale legato ad un “sentirsi a posto” di ordine sociale ed omologato.

Tuttavia, non a tutte le marche è concesso di farsi interpreti dei bisogni funzionali, ma soprattutto psicologici ed emozionali, dai consumatori. In particolare, se si escludono quelle offerte che, in virtù della propria elevata specificità differenziale, si orientano ad uno stretto marketing di nicchia, le altre, le quali cercano di svilupparsi attorno ai volumi di vendita derivanti da approcci generalisti e non focalizzati, sembrano risentire pesantemente delle posizioni di forza relative. Solo alle prime imprese della categoria di riferimento, in effetti, sono concessi i favori e l’attenzione del pubblico, specialmente se tali categorie non sono state ancora del tutto fatte proprie da un punto di vista conoscitivo/esperenziale. Il consumatore per quanto riguarda, ad esempio, l’esteso mercato dei pasti destrutturati, non si pone alla ricerca delle migliori alternative possibili1, ma si affida ai leader di categoria sulla base di quanto appreso – passivamente – dai punti di contatto avuti con la comunicazione d’impresa.

Altro elemento che traspare è quello riconducibile alla forte impronta edonistica che caratterizza sempre più i consumi in genere. L’individuo, forse a causa di un elevato grado di benessere e appagamento che ne innalza il livello al quale gli stimoli producono il loro effetto, avverte in misura crescente un bisogno di varietà e di conseguimento del piacere da derivarsi attraverso il consumo. Questa spinta edonistica può essere superata dalla persona solo con l’intervento di altri potenti fattori psicologici in grado di fungere da deterrenti del piacere, guidandola in un

1 Del resto, così facendo cadrebbe in contraddizione, trattandosi di un mercato cresciuto proprio in forza dell’assenza di tempo (o di voglia) nel preparare i pasti e della ricerca, d’impulso, del piacere alimentare.

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ordine di idee atto a consentire il raggiungimento di obiettivi che presentino per essa un valore ancora superiore. Anche in nell’eventualità che ciò avvenga, comunque, sarà improbabile il raggiungimento di un elevato livello di soddisfazione ed il superamento assoluto e definitivo dell’iniziale bisogno rimasto inappagato, in quanto resterà, nel consumatore, la sensazione negativa associata alla rinuncia fatta assieme al dubbio circa la correttezza della scelta operata. Inoltre, nel momento in cui la persona, inevitabilmente, tornerà, almeno in parte, a soddisfare un piacere a lungo inespresso, tenderà, ancora una volta, a dare la precedenza a quelle marche che meglio tale piacere interpretano, per dare una giustificazione alla propria condotta.

Le conseguenze per le imprese che si contendono i favori del mercato sono evidenti e riportano direttamente alle considerazioni sviluppate nel terzo capitolo. In primo luogo, l’imperativo è quello di saper individuare un varco accessibile e non già occupato nella mente dei potenziali acquirenti (come hanno fatto nel tempo, ad esempio, sia Sottilette e Philadelphia), tanto elevati sono i vantaggi in termini di immagine e di sostenibilità del vantaggio competitivo da parte dei “creatori” di una nuova categoria. La marca che detenga la leadership del suo mercato ha un vantaggio immediato sui concorrenti in termini di visibilità e fiducia da parte dei propri interlocutori. È, inoltre, interessante notare come una caratteristica generalmente propria del leader di mercato sta nella sua capacità di saper essere tutto per tutti, offrendo così una risposta alle possibili interlocuzioni e costituendo per il consumatore il punto di riferimento per la categoria in esame. Questa sua forza può rappresentare, tuttavia, la sua principale debolezza, dal momento che, coprendo un ampio spazio all’interno della mente, è più facile per gli avversari focalizzarsi su un punto in cui i concetti espressi dalla marca leader risultano più scoperti o addirittura non presidiati, oppure, ancora, cadono in contraddizione.

La presenza contemporanea di una pluralità di tendenze – primaria, secondaria, terziaria – comporta la necessità di un posizionamento su più livelli. Se i concetti di fondo alla base del trend principale possono rimanere a lungo validi consentendo la costruzione di un insieme stabile di

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associazioni attorno alla posizione strategica definita sulla loro piattaforma, le implicazioni generate dai trend di più ristretto sviluppo consentono di pervenire a specificazioni nel posizionamento che permettono di meglio aderire al sistema concettuale di cui il target di riferimento è portatore. Per l’impresa, si tratta, in sostanza, di procedere per step successivi verso la fusione con il mercato.

Al fine di disporre di un’offerta il più possibile aderente e focalizzata ai trend che in un dato momento sottostanno alla posizione occupata ed agli scenari strategici che si prospettano, occorre, quindi, determinare il posizionamento della marca centrandolo su una pluralità di obiettivi ordinati e coerenti fra loro, rendendoli confacenti ai rispettivi trend dei quali intendono essere la risposta. L’ampiezza della portata dei gradi di posizionamento individuati deve essere tale da consentire loro di rimanere, per quel determinato livello, nel proprio alveo al modificarsi del trend di livello più specifico. La necessità di un riposizionamento, in questo modo, si presenterà solamente per il livello al quale avviene il mutamento di tendenza consentendo un aggiustamento più graduale, meno percettibile e non traumatico di quelli maggiori che costituiscono, invece, la base dell’immagine di marca e che necessitano di una più grande stabilità. Solamente al verificarsi di un’importante variazione nella tendenza primaria, così, si renderà necessario un altrettanto importante adeguamento del posizionamento strategico primario, anche se, dovendo nel frattempo essere intervenute preventivamente modificazioni nei trend terziari e secondari, l’impresa goderà, generalmente, di un certo preavviso che segnalerà l’evoluzione in itinere ed avrà di conseguenza il tempo necessario per prepararsi agli eventi in corso.

Come detto, adattandosi i diversi livelli di posizionamento al trend corrispondente, per ognuno di essi deve essere impostato uno schema di associazioni che, partendo dal concetto con cui si intende esprimere l’identità di marca si sviluppi, poi, in una rete coerente ed armonica di attività ad esse connesse, secondo il modello della “piramide strategica per il posizionamento”. La correlazione e la coerenza dovranno, inoltre, sussistere fra le omologhe componenti dei diversi anelli rappresentati in figura 5.2. I concetti coinvolti nel posizionamento al terzo livello, in altre

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parole, devono concordare con quelli del secondo e, successivamente, con quelli del primo, e analogamente per le associazioni e per le reti di attività1.

1 A volte, i problemi di posizionamento nascono anche da qui: se, infatti, il concetto primario è corretto e aderente al trend cui intende riferirsi, non è detto che quelli espressi ai livelli superiori lo siano e concordino con esso, portando la marca anche molto lontano dalla posizione strategica ideale. Più raramente accade il contrario, e cioè che ad un errato posizionamento primario corrispondano uno secondario ed uno terziario in linea con quanto richiesto dalle aspettative del consumatore, trattandosi, in ogni caso di una situazione temporanea, destinata a venire meno con l’esaurirsi del trend che la sostiene.

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CONCETTO

ASSOCIAZIONI

ATTIVITA’

TREND SECONDARIO

TREND TERZIARIO

TREND PRIMARIO

Figura 5.2 – Posizionamento e livelli di trend

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Il risultato ultimo sarà dato da una rete di significati che prende origine dai concetti che esprimono il trend di fondo e che sono posti al centro del posizionamento, ed in cui i terminali sono costituiti dalle percezioni a tali significati relative e, infine, dalle loro determinanti a livello di fattori sociali, emozionali, simbolici e psicologici.

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CONCLUSIONI

Le esigenze legate alla competizione, assieme ai condizionamenti derivanti dall’operare con la multiforme natura della mente dei consumatori, conducono le imprese ad approfondire le problematiche e la conoscenza dei principi del posizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto, il rilievo che la conocorrenzialità va sempre più assumendo è legato a doppio filo alla progressiva apertura dei mercati1: se in passato c’era una certa tolleranza sulla quale i decisori potevano confidare nello stabilire le linee guida dello sviluppo aziendale, oggi i nodi da sciogliere per definire una strategia si fanno sempre più complessi e intricati rendendo necessaria una comprensione più approfondita dei meccanismi competitivi. Tale rinnovata spinta alla comprensione, sia che costituisca il risultato di un accurato studio analitico delle forze in campo e dei fattori che le muovono, sia che discenda da valutazioni più di origine reattiva e adattiva, ha comunque il merito di attivare il pensiero strategico d’impresa fornendo un contributo determinante per dare un seguito alle possibilità di sviluppo esistenti dell’impresa stessa le quali, altrimenti, resterebbero probabilmente inespresse ed a livello potenziale.

L’evidenza delle interazioni tra le marche e del loro dispiegarsi attorno ai concetti cui la mente del consumatore fa riferimento rende manifesta tutta l’utilità di un approccio alla competizione che, prescindendo da schemi rigidi, faccia dell’orientamento alla fusione con il mercato il punto cruciale attorno al quale fare ruotare tutti i concetti attinenti al posizionamento.

La generale tendenza alla multi-opzionalità cui devono rispondere le marche nel soddisfare le nuove, al tempo stesso eterogenee e specifiche, esigenze dei consumatori comporta, tuttavia, problemi a livello strategico

1 A tale rinnovata apertura dei mercati fa riscontro, dall’altra parte, la tendenza, assecondabile attraverso il perseguimento di una leadership emozionale, a porre le soglie d’entrata nei frammenti di mercato il più in alto possibile per la concorrenza.

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oltre che operativo. La principale difficoltà sta nell’immaginare che, per rispondere a tali necessità, la marca debba articolare dei posizionamenti e promettere dei vantaggi tra loro molto differenti nei contenuti. Ne discende, perciò, l’esigenza di uscire da posizioni di compromesso che, patteggiando un insieme di significati contraddittorio e fuorviante nell’intento di coprire più vasti spazi mentali, producono il solo risultato di creare nuova confusione e frammentarietà, con inevitabili problemi di messa a fuoco e di appesantimento del carico informativo che le persone si trovano a dover gestire e assimilare (da cui, poi, partono nuove complicazioni che riavviano un circuito negativo sempre più difficile da rompere).

È, allora, attraverso la ricerca della fusione con il mercato e della semplicità di sviluppo delle associazioni che è possibile dare un contenuto credibile e costruttivo al posizionamento. Ciò non significa che la trama associativa debba necessariamente essere semplice, accrescendosi, invece, il suo valore attraverso un’idonea articolazione in sistema. Quest’ultima, tuttavia, va improntata alla massima coerenza attorno a concetti puri e lineari, in grado di costituire per i potenziali acquirenti obiettivi ben visibili, ragionevoli e raggiungibili, rappresentativi di esigenze avvertite ed ora riconosciute (anche se non formalizzate). Quella che viene a delinearsi in un sempre maggior numero di mercati è una tendenza all’unicum che, tuttavia, si fa paradossalmente generico nell’ambito di insiemi di individui accomunati da interpretazioni simili le quali tendono ad ispirarsi vicendevolmente. Se da un lato cresce la differenziazione negli individui e nei loro comportamenti, dall’altro aumenta, nel contempo, l’omologazione concettuale attorno al luogo comune, il valore semplificatore del quale viene riconosciuto e perseguito (in un ambiente nel quale l’eccesso comunicativo crea rumore e difficoltà di comprensione della realtà) nonostante vadano persi, con esso, molti significati spesso rilevanti.

Un’ulteriore sfida resa manifesta dalle strategie di posizionamento è quella dell’acquisizione della coscienza del fluire dei trend. Se trend secondari e terziari si sviluppano a partire dagli orientamenti di fondo espressi dal sottostante trend primario, ciò non fa ricadere l’immagine che il mercato ha della marca in un meccanismo di natura meccanicistica. Viceversa, sembra che il movimento continuo, del quale i trend possono

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indicare l’andamento, sia divenuto, esso sì, una costante (emerge, anzi, come il mutamento sia diventato uno dei principali bisogni informando di sé tutti gli altri, seppure in forme e gradi differenti). Diventa inevitabile che la continua trasformazione – e, quindi, il mutamento permanente – sfoci in ulteriori nuove dimensioni concorrenziali nelle quali solo l’aderenza ai movimenti che avvengono nella mente dei consumatori può consentire lo sviluppo di strategie di posizionamento centrate costituendo per l’impresa il vero nucleo del vantaggio competitivo.

Quella stabilità che supponiamo di vedere, che molte imprese vivono come reale stabilità dei mercati e della quale gli uomini di marketing credono di poter disporre, è in realtà solo la stabilità dei nostri sistemi percettivi e delle credenze sedimentate (per convinzione o convenienza, indifferentemente). In effetti, spogliarsi degli abiti comportamentali di cui anche gli strateghi s’impresa si rivestono nel dare seguito alle proprie predefinite intenzioni non è impresa delle più semplici, andandosi a scontrare con i criteri valutativi che esse assumono per validi rispetto alla situazione in corso. Purtroppo, la realtà è molto più instabile, caotica e turbolenta di quanto si supponga. In questo disordine diventa perciò prioritario riuscire a fluire con gli avvenimenti in modo da poter cercare di imprimere al corso degli eventi la direzione che desideriamo.

In questo panorama di accentuata frammentazione dei bisogni e dei mercati dove tutto, riferimenti e certezze, diventa sempre più piccolo, la risposta più congrua da parte delle imprese consiste, per paradosso, nella riscoperta della grandezza delle prospettive che si celano dietro la piccolezza del frammento semantico offerto dalla percezione del consumatore: ciò significa avvicinarsi alle posizioni mentali dei frammenti più grandi ed al fluire dei processi spirituali che in essi ha luogo. La rilevanza dei significati cui fare riferimento si rivela negli scenari ai quali appartengono i singoli frammenti di mercato (gli scenari sono proiezioni collettive, quindi evoluzioni mentali aperte che esistono al di sopra dei micro-mercati e dei frammenti).

Il ruolo della fusione dell’impresa con il mercato è, allora, quello di collegarla con processi realmente esistenti in gruppi realmente esistenti e, in ossequio alle esigenze della visione prospettica che essa deve favorire,

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quanto maggiore è la prossimità che instauriamo con questa sociosfera, tanto maggiore è il distacco che la marca deve mantenere. Le esigenze derivanti dal perseguimento della fusione e della prossimità richiedono, generalmente, che si addivenga ad un appropriato innalzamento della marca fino a raggiungere l’apice della sua mitizzazione1.

Emerge in tutta la sua importanza, ancora una volta, il contributo che l’immagine di marca può dare al raggiungimento della migliore posizione possibile dalla quale affrontare la competizione. Essa, coniugando gli attributi salienti dell’offerta dell’impresa con le attese, espresse e inespresse, proprie del consumatore, compie una fondamentale opera di raccordo tra ciò di cui la mente del potenziale acquirente è portatrice in termini di contenuti e significati e quanto la marca è in grado di rappresentare per essa.

La stessa immagine di marca svolge, inoltre, un fondamentale ruolo propulsivo dell’attività d’impresa. Spesso accade, infatti, che sia grazie alla sua azione ed alle derivazioni che inevitabilmente nascono dalla sua applicazione alla particolare situazione competitiva affrontata che si dischiudano agli occhi dei decisori d’impresa strade ed opzioni strategiche le quali sarebbero altrimenti rimaste non visibili ad essi. Ciò, in particolare, è dovuto alla sua particolare interazione con il sistema percettivo, interpretativo, valutativo dei potenziali acquirenti, per il tramite della quale l’immagine muta fisionomia rispetto a quella assegnatale dall’impresa. In effetti, sono i consumatori con i quali viene in contatto a consegnare alla marca l’immagine ed i significati che le sono propri, spesso prescindendo dalle iniziali intenzioni di chi l’ha posta sul mercato.

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La marca rappresenta la più importante risorsa intangibile di cui dispone l’impresa, costituendo, attraverso l’immagine che è capace di proiettare e la particolare strategia di posizionamento con cui viene posta

1 I miti sono contenuti di fede ai quali si crede senza saperlo. La marca sottoposta ad un processo di mitizzazione disporrà di un rilevante carico di notorietà, familiarità, diversità e fiducia incrementando di conseguenza il suo valore e la sua rilevanza nel particolare mondo concettuale di riferimento del consumatore.

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sul mercato, la base principale – in grado di sintetizzare in sé tutte le altre – del vantaggio competitivo e dei futuri profitti.

La gestione della marca, perciò, deve essere mirata al suo mantenimento e rafforzamento nel tempo, attraverso uno sviluppo coerente e coordinato con le strategie di fondo dell’impresa (in particolar modo con quelle di posizionamento). La coerenza, costruita sul coordinamento dei diversi livelli semantici della marca, rappresenta, in effetti, il collante in grado di congiungere i significati proposti con quelli effettivi e con quelli percepiti. I primi, in altre parole, non devono discostarsi dalle concrete potenzialità prestazionali ed espressive del prodotto in questione, i cui limiti, pertanto, devono essere ben chiari nella mente dei decisori d’impresa e costantemente monitorati, pena l’interruzione del contatto dialettico con il mercato a causa di una ridotta visione “dall’alto”. Comunicare i contenuti “veri” dimostra essere, ad ogni modo, condizione necessaria, ma non sufficiente per la generazione del valore di marca se i significati percepiti ed i riferimenti sedimentati nelle menti dei potenziali acquirenti non si accordano con essi, e l’eventuale successo conseguito in violazione di questa condizione non può essere duraturo.

Alla base della creazione di valore da parte della marca vi è il modo differenziato dai concorrenti con il quale essa soddisfa le esigenze di un definito gruppo di consumatori e che poggia sui tratti distintivi che ne individuano l’identità. Per ogni categoria di prodotto e per definiti segmenti di mercato si riscontrano dei benefici chiave che devono essere soddisfatti da una qualsiasi marca per poter essere presa in considerazione dai potenziali acquirenti. L’aggiunta di alcuni benefici e l’intensità più elevata con cui sono erogati costituiscono le basi della differenziazione. È, quindi, il posizionamento passato e attuale della marca rispetto alle attese e alla concorrenza che ne determina il valore. La marca, tuttavia, essendo un concetto dinamico, mette in gioco anche altri aspetti legati al vissuto (sedimentazione), alla coerenza con cui i valori vengono perseguiti nel tempo e continuamente arricchiti attraverso il rinnovo e la ricostituzione del differenziale rispetto alla concorrenza, tenuto conto dell’evoluzione socioculturale dei consumatori e della tecnologia.

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Il peculiare posizionamento di una marca è all’origine della sua capacità competitiva e risulta in un valore superiore alla somma dei valori apportati dai benefici che essa assicura. Attraverso l’opera portata avanti dal posizionamento si crea nel consumatore l’identificazione con la marca, aprendogli l’accesso al particolare mondo concettuale di riferimento che essa esprime. A nulla valgono gli intendimenti dell’impresa che non poggino sulla percezione e sull’interpretazione che il potenziale acquirente ha della marca: la posizione che il mercato riconosce alla marca è quella che essa occupa effettivamente, a prescindere da quella comunicata1 e costituisce la base sulla quale è possibile articolare successivi significati che conferiscano una maggiore articolazione e spessore al messaggio originale.

Il valore di una marca sta nel fatto che essa conferisce una definita e ben distinta identità al prodotto o servizio sottostante trasferendone gli elementi caratterizzanti da un contesto di mera oggettività ad una nuova realtà soggettiva nella quale essi prendono nuova forma e sostanza. In effetti, un prodotto unbranded risulta, per definizione, “afono”, generico e surrogabile. Nel momento, però, in cui gli viene associata una marca acquista solo per questo una propria, pur minima, identità e, se supportato adeguatamente da un capitale simbolico – in termini di diversità, notorietà, reputazione e stima, familiarità – costruito nel tempo, allora il prodotto esce dall’anonimato dando rilievo e spessore a tale identità la quale assume,

1 Molti problemi di posizionamento partono proprio dal mancato riconoscimento del ruolo interpretativo dei significati inviati dall’impresa svolto dal sistema percettivo dei potenziali acquirenti. Tali significati, infatti, possono assumere ulteriori e, eventualmente, diverse connotazioni nel momento in cui entrano in contatto con quelli sedimentati nella mente del consumatore e con quelli che già si trovano nel mercato e, più in generale, nell’ambiente d’appartenenza.

In altre parole, è spesso riscontrabile la tendenza da parte delle imprese a non cogliere tutta la rilevanza ed il reale significato del concetto di fusione con il mercato la quale, assieme alla particolare strategia di posizionamento seguita, va a determinare la consistenza e la sostenibilità del vantaggio competitivo. Si ha, in questi casi, un’ottica del rapporto impresa-mercato troppo parziale e sbilanciata verso se stessi ignorando o non volendo vedere una realtà più grande di noi e che, seppure risulti meno controllabile direttamente, offre delle importanti opportunità che bisogna essere capaci di riconoscere e sfruttare a proprio vantaggio.

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infine, un preciso valore culturale attivando tutta una serie di associazioni relative ai simboli di cui è portatrice. Nel momento in cui la marca riesce ad esprimersi, essa da detentrice di valori diviene un’entità erogatrice di senso rispetto alle scelte di consumo, provocando il passaggio dallo stretto contenuto tangibile ad uno simbolico, dall’ambito della semplice denotazione a quello più pregnante e consistente della connotazione, dall’orizzonte fattuale a quello culturale1.

La missione di una marca è sintetizzabile nell’affermazione e nella legittimazione della propria promessa, qualunque essa sia (solitamente, si tratta di una promessa di qualità). La riconoscibilità e la facile verificabilità della presenza dei contenuti promessi danno corpo a tale impegno e corrispondono al ruolo storico primario della marca, una volta assolto il quale, essa si potrà successivamente articolare in ulteriori arricchimenti semantici e funzionali, in modo da meglio aderire alle diverse e particolari specificazioni che vengono espresse e richieste dal mercato di riferimento.

La qualità percepita rispetto ad una marca investe due ambiti tra loro complementari e interrelati: quello reale e quello simbolico. La qualità reale è quella esperibile direttamente dal consumatore. Corrisponde all’ambito sostanziale del rapporto impresa-mercato ed investe direttamente il valore d’uso del prodotto o servizio. La marca, in questo contesto si pone come un’entità preposta – per interposizione – alla produzione di beni, ed intervenire sulla qualità, in ossequio alla propria missione, significa, qui, intervenire sul prodotto modificandone gli attributi tangibili.

La qualità simbolica, invece, è quella indotta dal potenziale comunicativo attivato dalla marca. Siamo nell’ambito dell’apparenza, la quale investe non più il valore d’uso, ma il valore di scambio del prodotto o servizio, vale a dire la sua capacità di essere espressione di una precisa identità socio-cultural-emozionale in grado di essere simbolo riconosciuto del proprio portato valoriale e strumento di una relazione dialettica con il target di riferimento. In questo caso, l’intervento sulla qualità è affidato alla capacità comunicativa – in senso ampio – della marca, qui vissuta come emittente di segni.

1 Naturalmente, questo passaggio varia secondo il particolare contesto storico e circostanziale ed al mutare della categoria concettuale di riferimento.

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Se la qualità percepita può essere ricondotta ai due succitati ambiti, tuttavia, aspetto reale ed aspetto simbolico si sostengono vicendevolmente andando ad alimentare il valore di marca ciascuna componente per la parte che maggiormente le compete: la qualità reale entra a fare parte delle aspettative prestazionali, mentre la qualità simbolica si riversa e sedimenta nell’immaginario collettivo. Intervenire sull’ambito simbolico significa intervenire innovativamente sul posizionamento della marca e ciò costituisce un’operazione che richiede tempi lunghi e rilevanti risorse finanziarie. La “manutenzione” del posizionamento competitivo di una marca è subordinata al miglioramento della promessa di qualità, sia reale che simbolica1.

Il posizionamento attuale e la sua proiezione attraverso la qualità percepita, alterando significativamente i significati espressi ed inviati al mercato, costituiscono anche la base per una azione di riposizionamento la quale necessita, comunque, di una accorta e intelligente preparazione, dal momento che è ben possibile che un’immagine percepita troppo nitida nella mente dei consumatori finisca per costituire un ancoraggio semantico dal quale sia poi difficile sottrarsi nel procedere verso la nuova posizione. La consistenza delle associazioni cumulate determina il loro grado di persistenza e la possibilità di riposizionare la marca più o meno lontano rispetto alla posizione attuale. In altre parole, spesso accade che sia più facile riposizionare una marca caduta nel dimenticatoio perdendo valore ed il legame delle cui associazioni si è fatto flebile rispetto ad una la cui

1 Nella prima metà degli Novanta, il fatto di aver trascurato il prodotto (cioè, la qualità reale) nella manutenzione del posizionamento è stato una della ragioni ala base della crisi che ha investito molte marche, screditate rispetto ai benefit tangibili. Il crescente processo di banalizzazione dei prodotti ha progressivamente omologato l’offerta, comportando l’appiattimento della competizione reale sul versante della convenienza pura, dove il prodotto di marca esce inesorabilmente sconfitta, venendosi a creare un notevole gap tra prodotto e immagine superabile solo attraverso l’intervento sinergico e coordinato su entrambi gli ambiti di riferimento. La strada da battere quando si assiste ad un sostanziale decremento del valore della marca è, pertanto, quella di un recupero di un’identità che abbia un significato rilevante e che, scavando oltre l’immagine, ne riscopra le radici culturali e la missione, sue fonti di legittimazione.

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notorietà tali associazioni farà rimanere nitide anche nella nuova posizione andando a contrastare con le nuove che su essa poggiano.

Se l’immagine di marca rappresenta il potenziale generativo di valore che un determinato prodotto o servizio è capace di esprimere, la strategia di posizionamento entro la quale essa viene ricondotta costituisce l’humus che ne alimenta i concetti costituenti. È, infatti, la particolare posizione occupata nella mente dei consumatori ad aprire o chiudere alla marca opzioni strategiche le quali, attraverso le associazioni evocabili, sono perseguibili costruendo una rete di attività in sintonia con tale posizione.

È su queste basi e sul concetto di mimesi e profonda fusione con il mercato che poggia lo sviluppo delle strategie di posizionamento le quali si pongono al centro del fenomeno competitivo fungendo da guida della più generale strategia d’impresa, al contempo contribuendo alla sua generazione e venendo da essa influenzata nella sua successiva evoluzione. Non avere chiaro, anche approssimativamente, quale sia il proprio posizionamento ed il ruolo ricoperto nella mente dei potenziali acquirenti e come sia possibile migliorare l’uno e l’altro costituisce, soprattutto nell’affrontare gli attuali contesti di frammentarietà dei mercati e dei concetti semantici espressi dalle marche assieme a quelli richiesti dai consumatori, un’inaccettabile mancanza di visione prospettica e di obiettivo senso critico da parte delle imprese. È, prima di tutto, con un cambiamento all’interno delle organizzazioni e del modo di pensare, liberandosi dagli orpelli semantici della marca e da quelli attinenti alle relazioni di potere nell’impresa, che si può pensare di compiere un primo, fondamentale, passo nella direzione di quel cambiamento di filosofia, di cultura e di approccio al mercato che sta alla base del posizionamento. Dopodiché, l’esito ultimo della sfida per la conquista della migliore posizione nella mente del target di riferimento dipenderà dal confronto del nostro grado di sensibilità e di sagacia strategica con quello degli altri competitori.

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