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Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati. 1 I servizi sociali aziendali Stefano Musso 2010 Testo per Storiaindustria.it

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Ad esclusivo uso didattico. Gli altri diritti riservati.

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I servizi sociali aziendali Stefano Musso 2010 Testo per Storiaindustria.it

I servizi sociali aziendali

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I servizi sociali aziendali costituiscono un fenomeno diffuso nell’intera storia dell’età industriale: si tratta della tendenza di buona parte delle aziende grandi e medie a fornire ai propri dipendenti - per “fidelizzarli” all’impresa, si direbbe in linguaggio odierno - un aiuto nell’affrontare una serie di problemi della vita individuale e familiare. I servizi tipici erano le case per i dipendenti, gli asili aziendali per i figli delle lavoratrici, i servizi aziendali di assistenza sanitaria, le colonie per i figli dei dipendenti, i piccoli prestiti, gli aiuti in casi di necessità particolari, i servizi dopolavoristici di carattere ricreativo, sportivo e culturale; di particolare importanza erano le casse mutue di infortunio, malattia, anzianità e in generale i piani aziendali di previdenza e sicurezza sociale: tali iniziative prima surrogavano la previdenza sociale pubblica, quando ancora non esisteva, poi la integravano, quando era ancora embrionale e deficitaria. A seconda dei casi, venivano infine attivati altri tipi di servizi: trasporti, dormitori per operai, convitti per giovani operaie, refettori provvisti di scaldavivande, mense, spacci aziendali per l’acquisto di generi a prezzi calmierati, vendita a prezzi di favore dei prodotti aziendali, scuole aziendali con accesso preferenziale per i figli dei dipendenti. L’origine dei servizi sociali aziendali e la loro evoluzione nel tempo rappresentano un aspetto importante della storia della società industriale, in quanto interagiscono con le politiche assistenziali, private e pubbliche, con l’avvento dei sistemi previdenziali e dello Stato del benessere, nonché con i rapporti di lavoro tra imprenditori e lavoratori dipendenti. I servizi sociali e la legittimazione dell’impresa industriale La nascita dei servizi assistenziali va ricondotta alla prime fasi dell’industrializzazione nella seconda metà dell’Ottocento. Gli industriali, al loro emergere nella società italiana come nuovi esponenti del ceto produttivo e dirigente, si trovarono nella condizione di dover legittimare il proprio ruolo e costruire consenso intorno alle proprie imprese. L’avvento della società industriale spezzava infatti vecchi equilibri e creava nuovi problemi sociali, che preoccupavano ampie componenti delle vecchie classi dirigenti, l’aristocrazia e il clero. L’industrializzazione comportava infatti fenomeni quali l’emigrazione, l’abbandono delle campagne con i loro tradizionali assetti gerarchici, l’allentamento dei vincoli parentali e la crisi della famiglia patriarcale, per non parlare dell’emergere di nuove forme di tensione sociale, non a caso in seguito indicate con l’espressione “conflitto industriale”. Gli scioperi e l’urbanesimo erano additati come i grandi mali provocati dall’industria. Essi costituivano le fonti di quella che alla svolta del secolo sarebbe stata chiamata la “questione sociale”. Gli scioperi rappresentavano un danno economico e comportavano rischi di sovvertimento dell’ordine pubblico; erano inoltre considerati pericolosi veicoli di diffusione delle idee sovversive, socialiste e anarchiche. Il lavoro dei giovani in fabbrica li rendeva economicamente indipendenti dalla famiglia, dando vita a fenomeni additati quali “la casa albergo”, dove i figli consegnavano ai genitori solo una parte dei loro guadagni. [E. Sella, L’ultima fase dell’industria laniera nel biellese, in “Giornale degli economisti”, gennaio 1902]. La ricerca di occupazione nell’industria comportava lo spostamento in città, e l’urbanesimo era considerato fonte di gravi mali sociali: l’allentamento del controllo familiare e sociale sui comportamenti individuali; il sovraffollamento e la promiscuità delle povere abitazioni che

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rischiavano di generare degradazione morale; la concorrenza tra immigrati e manodopera locale sul mercato del lavoro urbano che provocava la disoccupazione. La disoccupazione rappresentava un fenomeno nuovo, connesso allo sradicamento dalle campagne; nelle campagne infatti, la sovrabbondanza di braccia veniva assorbita dalla famiglia allargata: il sottoccupato agricolo, isolato nelle piccole comunità contadine, rischiava di diventare in città un disoccupato a tutti gli effetti, a contatto con altri disoccupati, potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. Per la legittimazione dell’impresa gli industriali percorsero tre vie principali: la tutela pedagogica e sociale nei confronti delle proprie maestranze; la rivendicazione della funzione essenziale svolta dalle proprie imprese per la potenza economica e militare della nazione; il ruolo propulsivo dell’industria nello sviluppo economico e nella diffusione del benessere. A queste tre vie corrisposero, schematicamente, tre tipi di imprenditori, connotabili come l’imprenditore paternalistico, l’imprenditore politico, l’imprenditore tecnocratico. In una certa misura, ai tre tipi si può assegnare una prevalenza in successione cronologica: inizialmente fu maggiormente diffuso l’imprenditore paternalistico, tipico della prima fase dell’industrializzazione tessile, situata allo sbocco della vallate alpine e lungo i corsi d’acqua per sfruttare l’energia idraulica; a seguire, l’imprenditore politico dell’industria siderurgica, della meccanica pesante e della cantieristica, operante in stretto rapporto con i poteri pubblici e sotto la protezione dello Stato; infine, in una fase più matura dell’industrializzazione delle aree urbane a cavaliere tra Ottocento e Novecento, l’imprenditore tecnocratico della meccanica di serie, dell’elettromeccanica e della gomma. Il primo, l’imprenditore paternalistico, sosteneva che l’impresa era una grande famiglia, di cui egli era il buon padre, pronto a preoccuparsi del benessere dei “figli”, i lavoratori cioè, ai quali offriva aiuto in cambio di obbedienza: il padrone-padre si dichiarava disposto ad ascoltare le necessità dei singoli operai, ad aiutarli se meritevoli; in quanto provvedeva ai bisogni dei propri dipendenti, negava che la sua impresa potesse ingenerare problemi sociali; al contempo, riproduceva i rapporti gerarchici di stampo tradizionale. Si trattò di un tipo di imprenditore particolarmente restio ad accettare l’idea che il contratto di lavoro potesse trasformarsi da individuale a collettivo, che gli operai potessero darsi un’organizzazione sindacale, che egli dovesse accettare di discutere con sindacalisti estranei all’azienda e riconoscerne il ruolo come rappresentanti dei suoi lavoratori. Il secondo, l’imprenditore politico, nell’affermare il ruolo fondamentale dell’industria - e in particolare delle imprese di base di cui era titolare - per la potenza militare e il peso della nazione nel panorama internazionale, rivendicava la legittimità non solo dell’impresa ma anche del sostegno e degli aiuti che lo Stato le garantiva. Nell’evoluzione degli schieramenti politici alle soglie della prima guerra mondiale, questo imprenditore divenne il campione del nazionalismo, arrivando a prefigurare un “patto tra i produttori”, vale a dire a un’alleanza tra industriali e operai per sollecitare il drenaggio di risorse da parte dello Stato a favore dell’industria, la quale avrebbe così potuto pagare salari adeguati agli operai impegnati a sostenere lo sforzo produttivo nazionale. Il terzo tipo, l’imprenditore tecnocratico, legittimava l’impresa per il suo ruolo nell’innovazione tecnologica e nel progressivo miglioramento delle condizioni sociali. Forte delle prime evidenti manifestazioni delle potenzialità del progresso economico, era anche disposto - entro precisi limiti e di fronte del cambiamento che giudicava ineluttabile - a riconoscere che un certo grado di conflitto di interessi tra imprenditori e operai fosse intrinsecamente legato allo sviluppo industriale: di conseguenza, non escludeva la convenienza tattica di aderire agli inviti giolittiani a riconoscere i

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dirigenti sindacali riformisti e moderati quali interlocutori per conseguire assetti regolati dei rapporti di lavoro che limitassero la conflittualità spontanea e incontrollata. Utile a fini conoscitivi, la distinzione tipologica degli imprenditori è assai meno netta nella pratica, nelle figure storiche concrete. Infatti, i tre tipi di argomentazioni e politiche imprenditoriali furono per lo più compresenti nei singoli protagonisti della scena industriale. In particolare, l’azione in campo sociale che qui ci interessa, tipica dell’imprenditore paternalistico, era ampiamente condotta anche dalle altre figure: la logica che guidava le famiglie imprenditoriali, specie le maggiori, rispondeva infatti a principi di responsabilità sociale delle élite nei confronti delle comunità di riferimento, comunità spesso non solo aziendali ma estese alle comunità dei territori di insediamento delle fabbriche. Tale principi di responsabilità affondavano le radici nella tradizione aristocratica, improntata allo scambio tra protezione da parte del signore e deferenza da parte dei sottoposti. I servizi sociali aziendali tra Ottocento e Novecento A fine Ottocento, i servizi aziendali furono opera di imprenditori attenti tanto alle condizioni di vita delle maestranze quanto agli effetti stabilizzatori sulle relazioni tra impresa e maestranze. Il mondo del lavoro a fine Ottocento era caratterizzato dalla totale mancanza di sistemi di sicurezza sociale, che generava difficoltà di ogni genere in caso di malattia, disoccupazione prolungata, infortuni, con il rischio continuo, per le famiglie operaie, di cadere dalle file del proletariato a quelle dei poveri che vivevano di carità e di espedienti. Solo nel 1898 fu introdotta l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro; nello stesso anno fu creata l’assicurazione di vecchiaia, ma su basi volontarie, tanto che ebbe ben poco riscontro tra i lavoratori, i quali preferivano ricorrere alle vecchie società di mutuo soccorso. I datori di lavoro illuminati offrivano servizi e forme di assistenza ai propri lavoratori che si limitavano per lo più, in questa prima fase, alla creazione di casse di mutuo soccorso su base aziendale; alle casse concorrevano i lavoratori e spesso vi venivano versati gli importi derivanti dalle multe per infrazioni al regolamento disciplinare; ma la casse mutue riuscivano a erogare sussidi significativi grazie al cospicuo contributo dell’imprenditore. A motivare queste iniziative erano sia lo spirito filantropico sia la convenienza di politiche atte a conquistare il consenso, la fedeltà dei lavoratori all’impresa, la pace sociale negli stabilimenti. Alle casse mutue si aggiungevano talora le abitazioni per i lavoratori, che servivano anche e in special modo - in una realtà produttiva caratterizzata dalla forte stagionalità di molte produzioni che rendeva fluttuante il numero dei lavoratori - a rafforzare il legame con l’azienda dei gruppi centrali dei lavoratori più qualificati, ai quali si affiancava di volta in volta, a seconda delle necessità, una quota più o meno ampia di manodopera generica e instabile. Anche se non molto diffusi, di particolare interesse furono i villaggi operai, costituiti da abitazioni e servizi - compresa la scuola - nei pressi della fabbrica, in località relativamente isolate. Per la fine dell’Ottocento, il caso piemontese più interessante è quello del Villaggio Leumann di Collegno. [AA.VV., Villaggi operai in Italia, Torino, Einaudi, 1981; www.villaggioleumann.it; www.nbts.it/torino/leumann.htm] L’ubicazione dei maggiori impianti tessili lungo i corsi d’acqua nelle basse vallate alpine e appenniniche creava problemi di reclutamento della manodopera. Gli stabilimenti, infatti, sorgevano in aree che spesso non offrivano da sole la base demografica sufficiente alla

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manodopera necessaria; inoltre, la mancanza di sistemi di trasporto e la lunghezza degli orari di lavoro riducevano drasticamente il raggio del pendolarismo. Ciò spingeva alla creazione di convitti, per lo più gestiti da personale religioso, che ospitavano giovani operaie provenienti a volte anche da zone molto distanti e da altre regioni. E’ questo il caso del Cotonificio Ligure, creato a Rossiglione, in provincia di Genova, lungo il torrente Stura che scende verso Ovada attraverso la vallata del passo del Turchino. Fondato a partire dal 1875, il Cotonificio Ligure contava già 650 operai nel 1881, per arrivare a 808 nel 1927. La Valle Stura, dove altre attività produttive - tanto industriali che agricole - assorbivano parte delle forze di lavoro, non dava che un limitato contributo occupazionale al Cotonificio Ligure. Ai primi del Novecento fu creato un convitto, affidato alla gestione delle suore di Maria Ausiliatrice, che avrebbe operato fino alla seconda guerra mondiale, ospitando dalle 100 alle 150 ragazze, molte delle quali, specie negli anni venti e trenta, provenivano dal Veneto e dal Friuli, attraverso il reclutamento operato tramite la rete delle parrocchie e delle case consorelle dell’ordine di Maria Ausiliatrice. Si trattava di ragazze giovanissime, tra i 12 e i 21 anni, che in maggioranza restavano a lavorare al Cotonificio per un periodo variabile tra uno e tre anni. [M. Fortuna, Fabbrica e società in Valle Stura. Rossiglione e il Ligure, tesi di laurea, a.a. 21101-2002, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. S. Musso] L’evoluzione dei servizi aziendali tra le due guerre A cavaliere tra Ottocento e Novecento i servizi sociali aziendali erano più diffusi nel settore tessile, quello maggiormente organizzato su matrici industriali e che contava gli impianti produttivi di dimensioni più cospicue; successivamente la fase di sviluppo del primo quindicennio del secolo - considerata da alcuni storici il vero e proprio decollo incentrato sui settori tipici della seconda rivoluzione industriale, vale a dire la metallurgia e meccanica, la chimica, l’industria elettrica - fornì le basi strutturali per l’estensione quantitativa e qualitativa dei servizi sociali aziendali che si registrò nel periodo fra le due guerre. Due furono i fattori di tale estensione: la pressione esercita dal fascismo; l’introduzione di modalità organizzative ricalcate sull’organizzazione scientifica del lavoro di stampo americanista. Il corporativismo fascista spingeva le imprese a creare servizi che cementassero tra operai e datori di lavoro uno spirito di collaborazione capace di superare quelli che venivano chiamati gli “egoismi di classe”, i quali dovevano essere subordinati ai “superiori interessi della nazione”; tra questi ultimi andava annoverato il buon andamento della produzione. Con la riduzione dell’orario di lavoro alle otto ore giornaliere, conquistate dal movimento operaio nell’immediato primo dopoguerra in tutto il mondo industrializzato, si poneva la questione del tempo libero. Il fascismo diede vita nel 1925 all’Opera nazionale dopolavoro (OND), un organismo di coordinamento delle iniziative avviate nelle singole imprese. Nel 1929 un accordo tra Partito nazionale fascista e Confindustria creò una scuola per assistenti sociali di fabbrica. All’interno delle strutture dopolavoristiche, oltre alle attività ricreative, sportive, culturali, veniva diffusa l’informazione e gestita l’erogazione delle prestazioni dei vari servizi assistenziali. La penetrazione del partito fascista prima e del sindacato fascista poi nella gestione dei dopolavoro aziendali faceva dell’OND una delle numerose organizzazioni di massa del fascismo utilizzate come strumento della propaganda del regime. Ogni opera assistenziale attuata dalle imprese veniva presentata come una realizzazione del fascismo. Al di là delle esagerazioni propagandistiche, alle masse lavoratrici venivano offerti servizi di notevole importanza. Nella varietà delle attività sportive, ricreative, artistiche, educative, professionali, assistenziali i lavoratori potevano trovare risposte a bisogni e interessi reali, che il salario operaio, tenuto basso dal venir

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meno della libertà di organizzazione e di sciopero, impediva di soddisfare autonomamente. Le imprese spendevano, sotto le insegne del fascismo, una parte del reddito che non diventava salario in servizi le cui modalità di fruizione perseguivano l’indottrinamento, la creazione di spirito di corpo, il controllo della socialità e del tempo libero dei lavoratori, prevenendo comportamenti in senso lato devianti, tanto sul piano politico che della produttività economica della manodopera. [V. De Grazia, La taylorizzazione del tempo libero operaio nel regime fascista, in “Studi storici”, 1978, n. 2; id., Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981] Un impulso alle cosiddette “provvidenze sussidiarie e integrative” venne con la creazione del sistema di imprese a partecipazione statale facenti capo all’IRI, l’istituto creato nel 1933 per fronteggiare la grande crisi. Le imprese pubbliche - che esistevano sin dai primi del Novecento, create dai comuni nella forma di imprese municipalizzate - erano state all’avanguardia nella promozione di nuove politiche sociali e del lavoro, introducendo garanzie normative e servizi sociali. Tali erano stati i casi, a Torino come a Genova, delle aziende tranviarie ed elettriche municipali. L’IRI ebbe una presenza notevole a Genova, nelle produzioni siderurgiche, di grande meccanica e cantieristiche facenti capo in particolare all’Ansaldo. Le prime esperienze di organizzazione scientifica del lavoro condotte nella grande industria meccanica negli anni venti imponevano a un numero crescente di lavoratori mansioni ripetitive e ritmi di lavoro intensificati. Il consenso dei dipendenti fu cercato, oltre che con gli incentivi salariali collegati al rendimento (i cottimi), con l’offerta di servizi sociali aziendali di prim’ordine. Al di là delle pressioni del corporativismo fascista, dunque, i sistemi di welfare aziendale, creati con maggior o minor liberalità da tutte le grandi imprese, erano finalizzati alla “manutenzione sociale” dei dipendenti, a salvaguardarne il benessere psico-fisico e la produttività, a conquistarne il consenso, o quantomeno l’acquiescenza e l’accettazione pragmatica delle condizioni poste dall’impresa. Giovanni Agnelli, il fondatore della FIAT, pur rientrando appieno nella dimensione dell’imprenditore tecnocrate, percorse al contempo le strade del paternalismo, ancorché modernizzante e riplasmato per adattarlo agli albori del fordismo. A Torino, in effetti, nonostante la Fiat esistesse sin dal 1899, le prime misure assistenziali nei confronti dei dipendenti furono attivate nel dopoguerra, in coincidenza con l’inaugurazione del Lingotto, lo stabilimento progettato sul modello degli impianti Ford di Highland Park. Al 1921, infatti, risale la cassa mutua impiegati FIAT, al 1923 la cassa mutua operai (le due casse sarebbero state fuse nel 1945 nella MALF, la Mutua aziendale lavoratori Fiat); nel 1924 arrivò la prima colonia per i figli dei dipendenti, a Challant St. Victoire, seguita nel 1925 dalla colonia marina di Finale Ligure e da quella Montana di Pomaretto; nel 1925 fu creato il dopolavoro aziendale, che nel 1928 ebbe la nuova sede sulla riva destra del Po, tra i ponti della Gran Madre e di Corso Vittorio. Nel 1933 fu inaugurata la torre della colonia di Marina di Massa, mentre risale al 1937 la colonia di Ulzio; alle colonie per i figli si aggiungevano i vari centri di vacanza per i dipendenti adulti e le famiglie, da Riccione ai Piani di Luzza in Cadore. La RIV di Villar Perosa Alle connotazioni fordiste della politica sociale della FIAT a Torino si assommarono, nel caso della RIV a Villar Perosa - l’azienda di famiglia creata dagli Angelli nel borgo natio - ulteriori caratterizzazioni che, senza alcuna contraddizione, rimandano a modelli più marcatamente tradizionali e di stampo aristocratico. A Villar Perosa, infatti, il ruolo della famiglia Agnelli fu rilevante prima ancora della creazione della RIV: nel 1905, ad esempio, l’aiuto di Giovanni Agnelli

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consentì la costruzione dei nuovi locali della scuola comunale e degli uffici comunali. Le politiche sociali connesse all’insediamento della RIV, risalente al 1908, partirono prima che non a Torino: furono pertanto in larga misura indipendenti dalla riorganizzazione fordista dei processi produttivi, anche se nel caso della RIV si può osservare come la fabbricazione di cuscinetti a sfera fosse particolarmente adatta alla produzione in serie, tanto che proprio lo stabilimento di Villar Perosa sarebbe stato scelto per sperimentare il sistema Bedaux. Peraltro, la scelta dello stabilimento di Villar era anche legata alla minor conflittualità sociale che lo connotava, non solo grazie all’ambiente rurale, ma anche al particolare rilievo assunto dalla politica sociale degli Agnelli nel territorio villarese, dove la RIV non solo dominava il mercato del lavoro locale ma interveniva anche come attore principale nei processi di modernizzazione dei servizi, in stretta collaborazione con l’amministrazione comunale. Giovanni Agnelli divenne sindaco di Villar Perosa fin dal 1895, tredici anni prima dell’insediamento della RIV, e mantenne la carica (dal 1926 come podestà) fino alla fine della seconda guerra mondiale, a pochi mesi prima della morte, avvenuta nel dicembre dello stesso anno. Suo nipote Gianni gli successe nel maggio 1945, e avrebbe mantenuto la carica fino al 1980, ben oltre dunque la cessione della RIV alla svedese SKF, avvenuta quindici anni prima, nel 1965. La famiglia Agnelli resse dunque per quasi un secolo l’amministrazione di Villar Perosa, salvo una brevissima interruzione: all’indomani della Liberazione, il 2 maggio 1945 il Comitato di liberazione nazionale di Villar Perosa nominò sindaco il partigiano comunista Anselmo Ferrero, il quale tenne però la carica solo quattro giorni: dati i meriti della famiglia, fu egli stesso a proporre la nomina di Gianni Agnelli, il 6 maggio. Nel 1946, alle elezioni per il Consiglio comunale vinsero i comunisti, ma sindaco restò Gianni Agnelli, che si era presentato in una lista indipendente. I comunisti locali lasciarono la carica ad Agnelli nonostante le polemiche suscitate dal caso nel PCI a livello provinciale e nazionale. La vicenda è significativa della natura quasi feudale dei rapporti tra la famiglia Agnelli e la comunità locale. Le necessità dello stabilimento RIV - in termini di reclutamento e trasporto della manodopera, di approvvigionamento di materiali ed energia, di sistemi di comunicazione - rappresentarono altrettante occasioni per l’avvio o il potenziamento di servizi e public utilities per l’intera comunità locale. Nel 1911 Agnelli creò la SAPAV, per il collegamento con torpedoni della Valle Chisone con Pinerolo. Nel 1912 fu la volta di una conduttura elettrica a uso illuminazione pubblica portata dalla RIV al paese per un modesto compenso. La tranvia che collegava Pinerolo con Perosa Argentina fu rilevata e ammodernata dagli Agnelli nel 1918. Quanto ai servizi aziendali, la costruzione delle prime abitazioni operaie fu avviata nel 1911: due grandi case per operai e palazzine per gli impiegati. Seguì nel 1918 l’avvio della costruzione del villaggio operaio, composto da 24 casette, tutte con giardinetto, affittate a operai, capi, impiegati; a queste si aggiungevano le abitazioni del direttore e dei capi officina. Negli anni venti il Villaggio Agnelli ospitò la sede del dopolavoro, collocata in prossimità della stazione della tranvia, vicino alla quale, sempre su iniziativa e copertura parziale dei costi da parte della RIV, furono installati l’ufficio postale, la farmacia, l’ambulatorio, i bagni pubblici, la sede della cooperativa di consumo dotata di panificio; collegato al dopolavoro era il cinematografo, con una sala da 500 posti. Anche l’arrivo del medico condotto nel comune, risalente al 1928, fu favorito dalla RIV, che si accollò la metà del costo. Con l’ampliamento della stabilimento RIV nel 1925, la fabbrica ospitò una rimessa per le biciclette, lo spogliatoio con gli armadietti portavivande, gli scalda ranci e le docce, la cucina, le sale mediche e di allattamento. Vi erano due refettori, uno per gli operai e uno per gli impiegati, mentre per i dirigenti vi era la sala da pranzo. L’asilo infantile per i figli dei dipendenti, affidato alle suore del Santissimo Natale, poteva ospitare 120 bambini. Gestito dalle suore era anche il convitto per giovani operaie, reclutate prevalentemente in Veneto, impiantato nel 1909 e

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soppresso nel 1935, quando il suo edificio fu adibito a sede della scuola professionale aziendale, creata nel 1930, nei cui corsi triennali si formavano operai specializzati, operatori, capi squadra, disegnatori, cronometristi: la RIV assumeva tutti coloro che ultimavano i corsi. Il Dopolavoro RIV era articolato in 14 sezioni: biblioteca, corsi di lingue, radio, auto-motociclistica, escursionismo, fotografia, filodrammatica, musica, bocciofila, atletica, tiro a volo, frutti-floricoltura, corso di guida, calcio. Nel 1929 furono avviati i sanatori di Prà Catinat, donati all’INFPS nel 1935. Nello stesso anno fu avviata la costruzione del complesso turistico del Sestiere. Negli anni tra le due guerre la RIV curava la manutenzione di edifici, strade, reti elettrica e telefonica, lo sgombero neve, i servizi di trasporto ammalati. La RIV provvedeva, pagava e il comune rimborsava, per lo più solo in parte, le spese alla RIV medesima; il costo non veniva quasi mai coperto per intero dalla RIV, ma il contributo dell’impresa, a seconda dei casi più o meno generoso, era sempre essenziale per consentire l’allestimento di servizi pubblici di qualità elevata. Nel 1937, con un decreto podestarile, il direttore della RIV, l’ingegner Pietro Bertolone, fu nominato tecnico comunale, un ruolo occupato a titolo gratuito: a quel punto l’amministrazione comunale venne gestita direttamente dalla RIV. Bertolone fece parte del Consiglio comunale anche nel secondo dopoguerra, facendo le veci del sindaco Gianni Agnelli, impegnato altrove. [G.V. Avondo, V. Bruno, L. Tibaldo, RIV. Storia dello stabilimento di Villar Perosa, Pinerolo, Alzani, 1999] Casi come quello della RIV a Villar Perosa non furono unici: si presentarono in numerose altre realtà locali, seppur con modalità e dimensioni differenti, dovute al peso più o meno preponderante di una impresa nel mercato del lavoro e nell’economia locale. Nella sua tipica dimensione familiare, l’impresa si impersonava nella famiglia imprenditoriale, conferendo agli esponenti di quest’ultima caratteri aristocratici d’ancien régime, riprodotti nella società industriale. Si possono in proposito ricordare, oltre al ruolo di grandi famiglie quali Marzotto a Valdagno, Rossi a Schio, Crespi a Crespi sull’Adda, Feltrinelli a Campione sul Garda, i casi della Borsalino ad Alessandria e della Zegna a Trivero. In quest’ultimo centro, Mario Zegna, fratello di Ermenegildo, occupò la carica di sindaco e podestà nell’intero periodo interbellico, creando una interconnessione tra azienda e comunità locale non dissimile da quella di Villar Perosa: dagli impianti sportivi messi a disposizione della cittadinanza, all’intervento sul territorio con le infrastrutture e le iniziative turistiche (la Panoramica Zegna). I servizi aziendali durante la seconda guerra mondiale alla FIAT: dai piccoli privilegi alla sopravvivenza Durante la guerra, quando a partire dai bombardamenti dell’inverno 1942 iniziò a mancare tutto, l’assistenza fornita dalle aziende assunse una dimensione nuova: diventò infatti, per molte famiglie operaie, una fonte insostituibile per il mantenimento di condizioni vitali minime. Se i lavoratori avevano in precedenza sviluppato il senso della convenienza di essere parte dell’azienda per i vantaggi di cui godevano in confronto agli altri lavoratori, ora vedevano i servizi trasformarsi nel grande privilegio di poter disporre di generi essenziali, grazie agli spacci di stabilimento e agli acquisti di legna e carbone. A Torino, il gigantismo ormai raggiunto dalla FIAT la trasformò in una vera e propria istituzione, che si sostituì a quelle pubbliche e alle organizzazioni fasciste, la cui capacità di intervento fu quasi completamente annullata dalla disarticolazione dell’autorità politica. Con un numero di dipendenti che nel 1941 superava i 60.000, la FIAT garantiva la sopravvivenza ad almeno un terzo della popolazione cittadina. Alla FIAT si aggiungevano le altre numerose aziende medio-grandi, la

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Lancia, la Nebiolo, la Savigliano, la Venchi Unica, l’Italgas, la SIP, l’ATM e così via, anch’esse impegnate, anche se con minori mezzi, a garantire la capacità produttiva delle maestranze difendendole dalla fame e dal freddo. Nella primavera del 1943, il quadro delle “provvidenze”, ordinarie e per l’emergenza, offerte dalla FIAT ai dipendenti divenne impressionante. Gli interventi d’urgenza vennero coordinati nel Servizio assistenza Fiat, finalizzato al soccorso e durante e dopo le incursioni aeree; esso operava a favore dell’intera popolazione, in collaborazione con la Croce rossa, attraverso un centinaio di volontari provenienti dal personale della Mutua operai Fiat; articolato in tre centrali e 16 posti di soccorso, disponeva di numerose autovetture, autoambulanze e autocarri attrezzati. Per i dipendenti sinistrati esisteva un ufficio centrale di assistenza presso il Lingotto, dal quale dipendevano altrettanti uffici sezionali presso ciascun stabilimento del gruppo; l’azienda offriva ai sinistrati un sussidio di 200 lire per ogni persona a carico, e assisteva i dipendenti nelle pratiche per il riconoscimento dei danni di guerra, anticipando fino a un massimo di 5.000 lire sul risarcimento dovuto dallo Stato; in caso di sfollamento, la FIAT provvedeva al trasporto gratuito del mobilio in altra località entro il raggio di 50 chilometri; offriva inoltre anticipi, ospitalità gratuita per i figli fino a 12 anni nelle colonie, integrava i servizi pubblici di trasporto con i propri camion, e facilitava gli abbonamenti tranviari con sconti e rateizzazioni. Qualora durante i bombardamenti sugli stabilimenti si fossero verificati danni a effetti personali (bicicletta, portavivande, indumenti), gli uffici provvedevano alla sostituzione, in collaborazione con gli spacci aziendali. Per l’acquisto di biciclette e relative gomme, mobili e suppellettili per la casa, stufe e combustibile, vestiario, biancheria, calzature, esisteva uno spaccio aziendale centrale, che operava prezzi scontati e rateizzazioni, in particolare per beni di consumo durevoli di tipo standardizzato; si potevano inoltre utilizzare vari laboratori di riparazione. Quanto ai generi alimentari e ai prodotti per l’igiene e la pulizia, oltre agli spacci interni agli stabilimenti, la Fiat aveva aperto 12 punti vendita in Torino, nei rioni dove era più elevata la presenza di lavoratori, oltre a diversi spacci nei centri di sfollamento (Moncalieri, Chieri, Gassino, Carmagnola). Negli stabilimenti veniva distribuita la “minestra Fiat”. Funzionavano inoltre gli “orti di guerra” aziendali, per la produzione di ortaggi e l’allevamento di animali. Ma il pilastro dell’assistenza Fiat restava la mutua. I lavoratori iscritti erano in complesso 80.000, cui si aggiungevano 120.000 familiari. Vi operavano, a vario titolo, 725 medici, tra i quali 218 specialisti; ai sei poliambulatori si aggiungevano ben 240 punti di visita. La mutua forniva assistenza medica gratuita, anche a domicilio, i servizi di guardia medica e ostetrica, i ricoveri ospedalieri, i soggiorni in convalescenziari, le attrezzature sanitarie, l’assistenza farmaceutica (che si avvaleva di 9 farmacie condotte in proprio e di uno stabilimento di produzione medicinali; per i centri di sfollamento era stato allestito un autotreno sanitario, che a periodi fissi si muoveva nelle zone di maggior affluenza. Oltre all’assistenza sanitaria, la mutua garantiva l’assistenza economica, con i sussidi di malattia, di parto, di natalità (anche per le mogli casalinghe), i sussidi funerari, i sussidi straordinari in casi particolari. Alla mutua facevano capo anche cinque colonie, che in tempi normali ospitavano circa 6.000 bambini per 300.000 giornate di presenza, ma che nel 1943 funzionavano in permanenza come centri di sfollamento per i figli dei dipendenti. Ai lavoratori bisognosi era possibile richiedere sussidi anche alla Fondazione Agnelli, mentre per i bambini in età prescolare la Fiat sussidiava alcune scuole materne allo scopo di ottenere la precedenza nell’accettazione. L’istruzione e la formazione professionale dei figli dei dipendenti e dei giovani lavoratori era ormai inquadrata nella Gioventù italiana del Littorio, che organizzava tre reparti per la preparazione tecnica e premilitare dei giovani (pre-autieri, pre-marinai, pre-avieri), cui potevano accedere i dipendenti fino ai 20 anni; ai corsi di tirocinio interni alle officine (della durata di 2-3 anni) erano

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ammessi i giovani tra i 15 e i 17 anni. La Fondazione Guido Fornaca assegnava premi annuali ai figli maschi di dipendenti che si fossero distinti per buona condotta nelle scuole professionali e di arti e mestieri; a coloro che dimostravano particolari attitudini scolastiche, venivano assegnate borse di studio intitolate a uomini benemeriti dell’azienda. La direzione Fiat si sforzava di propagandare lo sforzo finanziario compiuto a favore dei dipendenti (l’assistenza sanitaria sarebbe costata oltre 28 milioni annui, le colonie oltre 6 milioni) e di avvalorare l’idea dell’azienda come una comunità solidale, che stringeva le proprie fila nel momento della difficoltà, fino a propagandare l’immagine di una comunanza di destino che riduceva la tradizionale sottolineatura delle distinzioni gerarchiche, unificate dal consumo della minestra FIAT. Oltre a mutare di significato per l’accresciuta importanza, durante la guerra l’attività assistenziale non fu più gestita in modo autocratico. La FIAT e le altre aziende dovettero fare i conti con il nuovo protagonismo operaio dopo gli scioperi del marzo 1943. La gestione dell’apparato assistenziale dovette essere condotta in collaborazione con le rappresentanze operaie. Durante il governo Badoglio rinacquero, dopo 18 anni, le commissioni interne, che furono mantenute nell’ordinamento sindacale della Repubblica di Salò. A esse si affiancarono, dopo l’8 settembre, i comitati di agitazione clandestini creati dalle forze antifasciste. La disorganizzazione produttiva, dovuta alle carenze dei rifornimenti di materie prime ed energia e ai danni causati dai bombardamenti, contribuì al rilancio delle rappresentanze dei lavoratori. Nei frangenti della guerra, le richieste avanzate dagli operai riguardavano anche questioni organizzative e assistenziali: il decentramento degli impianti, i trasporti, lo sfollamento dei lavoratori o delle loro famiglie, la sistemazione dei sinistrati, la distribuzione delle camere d’aria per le biciclette, il funzionamento degli spacci aziendali creavano una serie di problemi organizzativi affrontabili al meglio solo con soluzioni concordate. Inoltre, quegli stessi problemi eliminavano ogni distinzione tra la dimensione assistenziale e quella produttiva: senza l’assistenza la produzione si sarebbe fermata. Servizi e partecipazione nel dopoguerra Il nuovo protagonismo assunto dalle rappresentanze dei lavoratori negli ultimi due anni di guerra, esaltato dal contributo alla lotta resistenziale, si riverberò nel dopoguerra, spingendo il movimento operaio a rivendicare la gestione dei servizi di fabbrica, nell’ambito di organismi di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. L’istituzione dei Consigli di gestione, prevista da un decreto del Comitato di liberazione nazionale del 17 aprile 1945, non divenne tuttavia obbligatoria per legge, né fu mai realizzato l’articolo 46 della Costituzione che affermava il principio della collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Tuttavia, in numerose fabbriche la forza del movimento operaio costrinse le Direzioni ad accettare accordi per l’istituzione di consigli di gestione, i cui poteri furono per lo più unicamente consultivi, ma che in qualche caso, come alla Olivetti, ebbero riconosciuti alcuni poteri deliberativi proprio riguardo ai servizi aziendali, la cui importanza restò per alcuni anni la stessa della guerra, per le gravi difficoltà economiche e sociali e la carenza di generi alimentari, che non potevano essere immediatamente superate con la cessazione delle ostilità. Finita la fase della collaborazione per la ricostruzione, cui i Consigli di gestione e le commissioni interne diedero un fattivo contributo, l’acuirsi dello scontro politico e sociale, connesso anche allo scoppio della guerra fredda, spinse le Direzioni d’impresa a stringere le maglie della disciplina e a recuperare il proprio potere sulla fabbrica, per riaffermare l’unicità dell’autorità nei luoghi di lavoro. Dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 1948, i Consigli di gestione furono sciolti nel giro di pochi anni, con l’eccezione della Olivetti.

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Con la successiva ripresa produttiva, mentre i servizi aziendali venivano notevolmente ampliati, la loro gestione da parte delle imprese tornò ad essere autocratica, per meglio finalizzare le provvidenze aziendali alla conquista del consenso, o quantomeno dell’acquiescenza dei lavoratori, e a mantenere le nuove schiere di operai lontane dall’influenza sindacale. I servizi aziendali nel miracolo economico I servizi sociali aziendali conobbero una stagione di ulteriore, grande sviluppo, negli anni cinquanta e sessanta, in concomitanza con il lungo miracolo economico vissuto dall’Italia in quel ventennio e con le ristrutturazioni attraverso le quali le industrie ammodernavano i propri impianti per renderli competitivi adottando, su scala assai più vasta che non tra le due guerre, le tecnologie e i modelli organizzativi del taylorismo e del fordismo. Sul finire degli anni cinquanta non vi era quasi più impresa di dimensioni medio alte, tanto del settore pubblico che privato, che fosse priva di iniziative assistenziali, anche se non tutte mettevano in campo la vasta gamma delle aziende all’avanguardia. [E. Benenati, Cento anni di paternalismo aziendale, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, a cura di S. Musso, “Annali” della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a. XXXIII, 1997, Milano, Feltrinelli, 1999] Le iniziative sociali delle grandi aziende creavano sistemi di welfare locale che, estesi ai familiari dei dipendenti, investivano non solo le imprese ma, dato il loro grande peso occupazionale nella località di insediamento, l’intera città, poiché coinvolgevano una buona parte della popolazione. Si delineava pertanto un peculiare rapporto tra le politiche sociali dell’impresa e i sistemi complessivi di regolazione sociale della città. Il fordismo superava così i confini dell’impresa: non era solo un modello di organizzazione del lavoro ma diventava un modello di società caratterizzato dalla grande fabbrica che concentrava migliaia di lavoratori, disciplinava i tempi di lavoro della città intera, offriva un sistema di welfare aziendale che seguiva il dipendente “dalla culla alla bara”. I servizi aziendali erano tanto più importanti per i lavoratori, in quanto il welfare pubblico era ancora deficitario: i servizi aziendali erano pertanto di avanguardia, e indicavano, si potrebbe dire, la direzione verso la quale avrebbe dovuto muoversi il welfare pubblico. Tra le imprese emergenti in Piemonte nel secondo dopoguerra, la Ferrero di Alba arrivò nei primi anni sessanta a occupare 2.200 lavoratori fissi, ai quali di aggiungevano 500 stagionali: essi costituivano la metà di tutti gli addetti al settore secondario della città. Nel 1952 la Ferrerò diede avvio a un piano di case per i dipendenti; nel 1956 fu introdotto in fabbrica l’assistente sociale; a partire dal 1957 furono istituiti servizi di trasporto gratuito con autobus di proprietà dell’azienda per circa 900 dipendenti provenienti dai paesi circonvicini; nel 1961 fu creato il dopolavoro aziendale, cui seguirono le colonie marine e montane, a Spotorno e Valdieri. L’Olivetti di Ivrea Tra le aziende all’avanguardia nei servizi sociali va annoverata la Olivetti di Ivrea. Qui il fondatore, Camillo Olivetti, influenzato da idee di stampo socialista, sin dall’anno successivo alla fondazione dell’azienda, avvenuta nel 1908, aveva dato vita alle prime iniziative mutualistiche; le tappe successive erano state le prime case per dipendenti nel 1926, l’istituzione nel 1932 del Fondo Domenico Burzio per l’integrazione delle scarse prestazioni delle assicurazioni sociali pubbliche;

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nel 1934 era stato allestito l’asilo, seguito da scuole materne, colonie, ambulatori; nel 1935 fu creata la scuola professionale aziendale (il Centro formazione meccanici), nel 1936 fu avviato il servizio mensa, nel 1937 i servizi di trasporto per i dipendenti e l’ufficio assistenti sociali. Nel secondo dopoguerra, sotto la guida di Adriano Olivetti, la gestione dei servizi sociali aziendali fu affidata al controllo e alla cogestione di un organismo partecipativo, il Consiglio di gestione, che, sotto la direzione del presidente dell’azienda, era composto da un egual numero di rappresentanti eletti dai dipendenti e di membri scelti dalla Direzione. Attraverso tale organismo, chiamato a decidere della ripartizione tra i vari servizi del bilancio annuale assegnato dall’azienda, la dirigenza Olivetti disponeva di uno strumento efficace per cogliere i bisogni più sentiti dai lavoratori e dare la massima efficacia alla spesa assistenziale. Il Consiglio di gestione Olivetti, unico organismo di quel tipo rimasto in vita in Italia negli anni cinquanta, sopravvisse fino al 1971. Si occupò di una vastissima gamma di servizi e iniziative: i programmi di costruzione di alloggi e i prestiti per la costruzione in proprio di case, i corsi di istruzione e formazione professionale, le borse di studio, i servizi di trasporto, le mense, gli spacci aziendali, le colonie, l’asilo, l’infermeria e il convalescenziario, il Centro agrario creato durante la guerra per il rifornimento di derrate alimentari, il Gruppo sportivo ricreativo Olivetti, le attività culturali, i piani integrativi dell’assistenza e previdenza pubblica attraverso supplementi aziendali agli assegni familiari, l’integrazione del sussidio malattia, l’assistenza alle lavoratrici Olivetti durante la gravidanza e il puerperio, il piano pensioni, le cerimonie e le attività destinate agli anziani, tra cui spiccava la consegna delle “spille d’oro”. Negli anni sessanta l’assistenza aziendale compì ancora un passo avanti, nonostante la prematura scomparsa di Adriano Olivetti, con la creazione del Fondo di solidarietà interna. Nelle idee di Adriano Olivetti, i servizi aziendali dovevano svolgere il compito essenziale di armonizzare l’economia e la società, l’impresa e la comunità locale, il lavoro taylorizzato e lo sviluppo della persona, in una crescita equilibrata dell’economia e in uno sviluppo della tecnica che sostenessero anziché minare i valori umani. Paternalismo e movimento operaio La risposta dei lavoratori all’offerta dei servizi aziendali oscillò tra i poli estremi dell’accettazione deferente e della denuncia contro le politiche aziendali. Il movimento operaio e sindacale, nelle sue componenti maggioritarie, dopo il fallimento della strategia partecipativa e di contropotere del dopoguerra, bollò negli anni cinquanta i servizi aziendali come paternalismo, una politica volta ad addomesticare i lavoratori allo sfruttamento capitalistico. Tuttavia, neppure i militanti più convinti e animati da spirito antagonistico rifiutavano i servizi offerti, che erano tanto più importanti per i lavoratori in quanto il welfare statale era, e sarebbe restato ancora a lungo, embrionale e insufficiente. I militanti sindacali puntarono piuttosto a trasformare in diritti quelle che i datori di lavoro presentavano come generose elargizioni, cercando di inserire il welfare aziendale tra i terreni della contrattazione sindacale. In seguito alla sconfitta subita dalla FIOM-CGIL nelle elezioni per il rinnovo delle commissioni interne alla FIAT Mirafiori nel marzo 1955 - cui seguì una serie di sconfitte analoghe - il segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio ebbe ad affermare che il sindacato non aveva “sufficientemente chiarito a tutti i lavoratori che questi vantaggi – a volte anche considerevoli - non sono in nessun modo benefiche concessioni dei padroni dei grandi monopoli ma costituiscono un preciso diritto del lavoratori”.

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La diminuzione d’importanza dei servizi sociali aziendali Le rivendicazioni in merito ai servizi sociali aziendali iniziarono a prendere corpo nei primi anni sessanta, quando nel pieno del boom economico la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali crebbe anche in relazione alla drastica diminuzione della disoccupazione. Alcune materie relative ai servizi vennero inserite nei contratti nazionali di lavoro, mentre grazie ai nuovi livelli di sviluppo economico i sistemi assistenziali e previdenziali pubblici compivano notevoli passi avanti. Man mano che il welfare statale diventava più consistente, gli imprenditori cercavano di diminuire le prestazioni dei servizi aziendali che avevano funzioni integrative del sistema pubblico. Mentre i sindacati premevano sulle aziende perché i risparmi in alcuni servizi fossero dirottati su altre voci, le Direzioni puntavano a ridurre costi che, dato l’aumento rapido e consistente del numero dei dipendenti, apparivano loro aver raggiunto somme eccessivamente elevate. Le scaramucce aziendali su questo terreno si trasformarono, nella nuova stagione di lotte e protagonismo operaio e sindacale iniziata alla fine degli anni sessanta, in una decisa pressione sindacale esercitata direttamente sui governi per una vasta politica di riforme che investì in rapida successione le pensioni, la casa, i trasporti, la sanità, la scuola. Nella misura in cui le prestazioni pubbliche venivano portate a un livello adeguato, erano generalizzate a tutti i lavoratori e, a seconda dei casi, a tutti i cittadini, i servizi aziendali perdevano di importanza. Il caso più eclatante fu quello della sanità: negli anni settanta, il varo del sistema sanitario nazionale portò alla scomparsa delle mutue aziendali (tra le quali, a Torino, aveva svolto un ruolo d’avanguardia la mutua dell’AEM, specialmente nella prevenzione e cura delle malattie professionali, grazie alla collaborazione di Ivar Oddone, un medico del lavoro particolarmente impegnato sui temi della salute dei lavoratori). La fine delle mutue aziendali lasciò qualche rimpianto nei lavoratori, in quanto il servizio nazionale non raggiunse subito gli standard elevati che spesso le mutue aziendali garantivano. [C. Accornero, La salute come democrazia partecipata. La Cassa Mutua dell’Azienda Elettrica Municipale di Torino 1921-1978, Torino, Celid, 2006] Nonostante l’affievolirsi della loro importanza nella vita dei lavoratori, i servizi sociali aziendali - dalle mense ai servizi dopolavoristici, professionali e culturali, di trasporto e di sostegno alle madri lavoratrici - mantengono ancora oggi un notevole rilievo nel caratterizzare le condizioni e le relazioni di lavoro: da un lato sono ancora giocati dalle aziende per fidelizzare i dipendenti, dall’altro possono essere il segno di una responsabilità sociale dell’impresa, da rinnovare e adeguare ai tempi. In un’epoca come quella attuale, caratterizzata dalla tendenza al venir meno del ruolo delle grandi famiglie imprenditoriali, dalla crescente competizione sui mercati borsistici per il controllo delle imprese, dalla accentuata finanziarizzazione dell’economia che privilegia le strategie di accrescimento di breve periodo del valore delle azioni scaricando le difficoltà sui livelli occupazionali, dalle difficoltà e dagli attacchi al welfare pubblico, il recupero del senso della responsabilità sociale dell’impresa assume un valore importante per il mantenimento del connubio tra progresso economico e progresso sociale che la società industriale ha saputo in buona misura realizzare.