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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale Tesi di laurea Il corpo nel tempo Aspetti culturali e sociali nei comportamenti giovanili Relatrice: Prof.ssa Rosemary Serra Laureanda: Verena Isabel Novello Anno Accademico 2010/2011

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale

Tesi di laurea

Il corpo nel tempo

Aspetti culturali e sociali nei comportamenti giovanili

Relatrice: Prof.ssa Rosemary Serra

Laureanda: Verena Isabel Novello

Anno Accademico 2010/2011

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare in particolare la Professoressa Serra che, tra varie

peripezie, mi ha seguita e sostenuta durante tutta la fase di stesura

dell’elaborato, permettendomi di formulare stimolanti riflessioni.

Sono grata a Matteo e Arianna che, con i loro consigli e pratici

suggerimenti, hanno contribuito a dare forma a questo scritto.

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INDICE

INTRODUZIONE ....................................................................... 1

CAPITOLO I IL CORPO TRA PRESENTE E PASSATO ..... 3

1.1. I concetti di cultura e società ......................................... 3

1.2. La concezione del corpo nella storia ............................. 6

1.3. Il corpo nella postmodernità ........................................ 10

CAPITOLO II CORPO E IDENTITA’ TRA NATURA E

CULTURA .................................................................................. 13

2.1. Il tema dell’identità ...................................................... 13

2.2. Identità e comportamento tra natura e cultura: dibattito

acceso ........................................................................... 14

2.3. Corpo e identità: i riti di passaggio ............................. 16

CAPITOLO III COMPORTAMENTI A RISCHIO TRA GLI

ADOLESCENTI ......................................................................... 21

3.1. Consumo e società ...................................................... 21

3.2. Media e corpo ............................................................. 25

3.3. Giovani e consumo ..................................................... 33

3.4. Giovani e corpo: comportamenti a rischio .................. 34

3.5. I servizi ........................................................................ 40

CONCLUSIONI ........................................................................ 43

BIBLIOGRAFIA ....................................................................... 45

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1

INTRODUZIONE

L’osservazione dell’universo giovanile nelle società sviluppate diventa

sempre più penetrante, insinuandosi nei tanti labirinti che costituiscono il

complesso insieme dei comportamenti. Nella letteratura, ampia e non

facilmente catalogabile, tanta è la fioritura che sotto i vari aspetti interroga

ed esplora un mondo che si evolve. L’aspetto sul quale cade l’attenzione di

alcuni studiosi è il riferimento a una condizione di disagio, volendo con

questo termine definire la condizione di precarietà e di incertezza nella

quale la maggioranza dei giovani-adulti sono costretti a vivere per lunga

parte della loro vita. Poiché i giovani non vivono in un mondo diverso da

quello dei loro genitori, opportuno è realizzare una riflessione tesa ad

analizzare la società nel suo insieme, sia del passato che del presente. Ma

viene spontaneo chiedersi: per denunciare cosa? Per dire che la politica, il

mondo familiare e la cultura dei valori nella società contemporanea hanno

perso modelli idealtipici di un certo spessore di qualità? Credo che la

risposta a quest’ultima domanda possa essere negativa. In questa sede si

vuole ricordare che viviamo e componiamo insieme, giovani e adulti, una

società che, al di là delle differenze che senza dubbio esistono, rappresenta

comunque una solida realtà che funziona anche grazie a forme di

comunicazione che descrivono l’esistenza degli stessi valori diversamente

vissuti dalle differenti generazioni. Questo approfondimento troverà nel

corpo il suo filo conduttore.

Il primo capitolo presenta al lettore una panoramica di quelli che sono i

concetti cardine, utili per un’approfondita riflessione del tema centrale e

necessari per comprendere qual è il contesto dal quale si evincono le

differenti posizioni osservative. Viene dato, inoltre, ampio spazio a quello

che è il concetto del corpo nella postmodernità, per dare la possibilità di

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ampliare gli spazi di riflessione su quelle che sono le implicazioni a livello

socio-comportamentale.

Nel secondo capitolo si accende il dibattito sul tema dell’identità, legato

sia alla natura che alla cultura, ma soprattutto al corpo, quale mezzo di

comunicazione della stessa.

Nell’ultimo capitolo si vuole offrire una chiave di lettura che favorisca la

comprensione di quelle che sono le dinamiche relazionali tra i giovani e il

loro corpo, all’interno di una società caratterizzata da un aumento costante

di strumenti comunicativi, i quali tendono a modificare i tempi e le modalità

degli stessi scambi comunicativi. E’ un tentativo per far cogliere quanto

estremamente difficile sia un confronto tra i giovani che vivono e si

formano in contesti sociali e in tempi diversi, e di quanto il cambiamento sia

ormai una variabile costante, ma proprio tale difficoltà risulta essere, a mio

avviso, la matrice di tale approfondimento.

Spero che questo elaborato risulti interessante sotto diversi punti di vista e

che possa aprire la possibilità ad ulteriori confronti e riflessioni, proprio

come ha suscitato in me la stessa ricerca.

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CAPITOLO I

IL CORPO TRA PRESENTE E PASSATO

1.1. I concetti di cultura e società

Per conoscere l’Uomo è necessario considerarlo sullo sfondo del regno

animale dal quale ha avuto origine, nel contesto della cultura e del

linguaggio che gli forniscono il mondo simbolico in cui vive e alla luce dei

processi di crescita che portano ad un’integrazione di queste due potenti

forze.

Oggi sempre più si parla di società, cultura, modernizzazione, riducendo

questi concetti cardine e talvolta cadendo nell’errore di non riconoscerne le

peculiarità e specificità, sebbene siano tra di loro estremamente

interconnessi ed influenzabili.

Il concetto di cultura fu coniato per esprimere sinteticamente l’idea di una

gestione del pensiero e del comportamento umano. La prima definizione in

senso etnologico, e risalente al 1871, si deve all’antropologo britannico

Edward Burnett Tylor: “la cultura è quell’insieme complesso che include le

conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi

altra capacità e abitudine che l’uomo acquisisce come membro di una

società” (Tylor, 1871, in Cuche, 2006:20). Tale concetto, così delineato, sta

al centro della riflessione nelle scienze sociali, poiché la cultura permette

all’uomo non soltanto di adattarsi al proprio ambiente, ma anche di adattare

quest’ultimo a sé, ai propri bisogni e progetti; in altre parole, la cultura

rende possibile la trasformazione della natura. Per Tylor, la cultura è

l’espressione della totalità della vita sociale dell’uomo; essa si acquisisce e

non dipende dall’eredità biologica.

Pochi anni dopo, negli anni Trenta, l’antropologa statunitense Margaret

Mead scelse di orientare le sue ricerche verso il modo in cui un individuo

riceve la cultura e le relative conseguenze sulla formazione della

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personalità. In base ai suoi studi stabilì che la personalità individuale non si

definisce attraverso i caratteri biologici, ma attraverso il modello culturale

distintivo di una data società che determina l’educazione del bambino

(Mead, 1935, in Cuche, 2006:45).

Questo aspetto, e cioè che l’acquisizione della personalità passa attraverso

l’educazione, fu oggetto di ricerche da parte di Abram Kardiner, psicanalista

di formazione, il quale studiò come si forma la personalità di base attraverso

le istituzioni primarie (famiglia e sistema educativo) e come questa

personalità si ripercuota sulla cultura del gruppo, producendo delle

istituzioni secondarie (sistemi di valori e di credenze) che portano la cultura

ad evolversi (Cuche 2006:48). Ne discende quindi, da una parte, che

l’ambito culturale non può essere studiato indipendentemente da quello

sociale, e, dall’altra, che le relazioni culturali devono essere studiate

all’interno delle relazioni sociali.

Una valida metafora per comprendere che cosa s’intende quando si parla di

società è quella elaborata dall’antropologo francese Arnold Van Gennep che

la definì come una casa fatta di stanze e corridoi. Le stanze sono gli status

sociali e i corridoi i percorsi di passaggio da uno status sociale all’altro (Van

Gennep, in Porcelli, 2006:42). Dunque una società è un insieme di individui

dotati di diversi livelli di autonomia, relazione e organizzazione, che,

aggregandosi, interagiscono. Può essere definita come una comunità

organizzata, composta da individui che condividono una stessa cultura, che

sono conoscenti della loro identità e che stabiliscono tra loro rapporti e

scambi più intensi rispetto a quelli stabiliti con membri di altre collettività.

Secondo il sociologo francese Emile Durkheim, la società è una realtà sui

generis, ossia che possiede un carattere proprio differente dalla somma delle

sue parti (gli individui) e si impone ai suoi membri attraverso le sue

istituzioni.

Passando per i diversi periodi storici, tendendo conto di dimensioni

strutturali e culturali si può rintracciare una distinzione tra società

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tradizionale, moderna e postmoderna, definite anche preindustriale,

industriale e postindustriale. Diversi sono gli elementi distintivi che

caratterizzano tali società: la società tradizionale è caratterizzata da una

cultura omogenea, dove la maggior parte delle persone condividono le

stesse norme e gli stessi valori che sono orientati alla tradizione e alla

religione. Si tratta di una società semplice con pochi status, prevalentemente

ascritti e poche istituzioni; le dimensioni si riducono a villaggi; la divisione

del lavoro è basata sull’età e sul sesso e il controllo sociale basato sulle

relazioni spontanee. E’ dunque un controllo informale.

La società moderna è caratterizzata da una cultura eterogenea, nella quale

sono presenti diverse sub-culture che sono portatrici di norme e valori

differenti, orientati comunque verso il futuro. E’ una società complessa con

molti status, alcuni ascritti e molti acquisiti, e istituzioni; le dimensioni sono

quelle delle grandi città; la divisione del lavoro è molto forte con

occupazioni molto specializzate ed il controllo sociale si basa sulle leggi e le

forze dell’ordine, dunque molto formale (Cattarinussi 2010:277). Tale

società è stata travolta da numerosi mutamenti caratterizzanti un processo

definito modernizzazione, con il quale s’intende il processo di

cambiamento economico e sociale determinato dall’introduzione del modo

di produzione industriale in quasi tutti i paesi avanzati. Tale modo di

produrre ha modificato numerosi settori della vita, determinando quello

spostamento alla cultura detta di massa, dove si comincia a pensare in

termini di cambiamenti che hanno investito anche la globalizzazione dei

mercati.

Questa fase, tuttavia, è oggi sorpassata da un nuovo volto della società, un

nuovo essere societario postindustriale che possiede nuove caratteristiche in

continua evoluzione e che è stato definito, appunto, società postmoderna.

Questo termine è stato dato in quanto tale fase ha preso avvio dal

decadimento dell’industria, la quale ha ceduto il posto al settore terziario e

dei servizi; i valori della precedente società, efficienza e prestazione, hanno

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lasciato il trono ai valori degli affetti, del tempo libero, della quotidianità

(ibidem:278). La famiglia si è letteralmente modificata nella sua struttura e

funzione; i mass media hanno mostrato la loro potenza in termini di

sviluppo; il tutto incorniciato da un vistoso cambiamento nel sistema sociale

di riferimento, il quale, nella tradizione è rappresentato dalla comunità di

residenza (il villaggio) e nell’epoca moderna dallo Stato-Nazione e che

attualmente si configura nel mondo globale, dove molte persone fanno

riferimento a modelli culturali largamente condivisi, tant’è che guardano gli

stessi film, seguono le stesse mode, ascoltano la stessa musica.

(ibidem:279). Queste caratteristiche della postmodernità stanno portando

alla configurazione di un individuo ipermoderno, caratterizzato da varie

dimensioni, una delle quali è quella del controllo su se stesso con

l’autogestione del proprio corpo: la condizione umana è corporea; non vi è

mondo se non di carne e questa è forse l’unica certezza che l’uomo ha. Il

corpo è una realtà mutevole, da una società all’altra: tante società e tante

rappresentazioni fondate su saperi diversi, tipiche di quelle società.

1.2. La concezione del corpo nella storia

E’ necessario chiarire il legame sociale tra individuo e corpo allo scopo di

rendere comprensibili le fonti della sua rappresentazione moderna. La

concezione del corpo, dunque, presenta grandi differenze a seconda dei

periodi storici.

Nella società tradizionale, l’idea del corpo coincide con quella del gruppo,

del collettivo, dove non esiste un corpo separato dalla persona e c’è una

continuità che situa il collettivo nel cosmo; non ci sono confini che separano

il corpo dall’ambiente. L’uomo non si preoccupa di controllarsi allo

specchio, perché non ha un corpo a sé stante, ma “è” un corpo, in altre

parole un tutt’uno con il cosmo, con sé stesso e con gli altri. (Porcelli

2006:43). L’essere corpo identifica una corporeità naturale, non costruita,

accettata all’interno delle diverse fasi del corso naturale della vita: vivere il

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proprio corpo come comportamento innato (Serra, in Cattarinussi,

2010:181). In queste società comunitarie l’individuo non è distinguibile, il

corpo non è l’oggetto di una scissione e le rappresentazioni del corpo sono

di fatto rappresentazioni dell’individuo, della persona. L’immagine del

corpo è un’immagine di sé, nutrita dalle materie prime che formano la

natura, il cosmo, in una sorta di indistinzione.

Da questa concezione di base si può estrapolare la convinzione secondo la

quale, dato che il corpo è legato all’universo vegetale, non esistono confini

tra vivi e morti; la morte non viene concepita nella forma dell’annullamento,

ma segna l’accesso ad un’altra forma di esistenza. D’altra parte, da vivo,

ogni soggetto esiste soltanto nelle sue relazioni con gli altri: la sua pelle e lo

spessore della sua carne non definiscono i confini della sua individualità.

Infatti il suo contributo personale non è indice di individualità, ma una

differenza alle complementarietà necessarie alla vita collettiva, un tono

singolare nell’armonia plurale del gruppo (Le Breton 2007). La morte non è

vissuta come evento drammatico, tant’è che con la Danza della Morte, ad

esempio, viene celebrato un momento in cui aristocratici, borghesi e plebei

sono uguali di fronte a tale avvenimento. Le manipolazioni del corpo in

queste società rappresentano solo i segni del potere sociale e culturale, di

distinzioni gerarchiche, l’espressione di rituali magici e religiosi.

Fu solo con il Rinascimento, con la società moderna, che comparì la

distinzione tra pensiero e corpo, determinando il passaggio

all’individualismo, dunque l’emergere di un soggetto pensante che ha un

corpo. In questo periodo storico l’avvento dell’individualismo si può intuire

perché vi è un allentamento dei valori e dei legami che colpiscono certi ceti

sociali privilegiati sul piano economico e politico; l’individuo tende a

divenire il portavoce autonomo delle sue scelte e dei suoi valori e non è più

retto dalla preoccupazione della comunità e dal rispetto delle tradizioni

(ibidem:41). Parallelamente a tale promozione storica dell’individuo, si è

assistito anche all’evoluzione del concetto del corpo, proprio perché la

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cultura e le credenze stavano mutando in seno alle nuove scoperte,

soprattutto a quella del volto che è la parte singolarizzata del corpo, una

specie di codice della persona con il quale essa si presenta agli altri in modo

distintivo. L’uomo si ritrova separato in due parti: il corpo e lo spirito (il

pensiero). Il corpo comincia ad essere visto come un accessorio della

persona, la cui unità è ormai rotta. Il pensiero e la mente sono all’interno di

un contenitore fatto di pelle, di carne che, una volta studiato, diventa, agli

occhi delle infinite capacità mentali, un involucro alquanto fragile e stretto

ma di cui non si può fare a meno. Da questo momento l’uomo, l’individuo

“ha” un corpo a sé stante e in questo essere sé stesso, prima di essere un

membro di una comunità, il suo corpo diventa confine preciso che segna la

differenza tra un uomo e l’altro: fattore d’individuazione. Il cosmo si è come

disincantato ed esiste al di là dell’uomo, il quale si vede dotato di una nuova

veste, un corpo che è associato, dunque, all’avere e non più all’essere. La

definizione moderna del corpo implica quindi che l’uomo sia separato dal

cosmo, separato dagli altri e separato da se stesso e tale frattura è tipica di

un regime di socialità dove l’individuo prevale sul gruppo. In questo

contesto, che vede l’evolversi di una società e di una cultura emergente via

via più eterogenea, inizia quella ricerca anatomica, supportata da

un’abbondante aumento di ricerche in campo medico e scientifico tipiche di

tale periodo, che ben fa intendere come il concetto di sé e del proprio corpo

sia mutato: le prime dissezioni lo testimoniano. Durante tutto il periodo del

Medioevo, tali pratiche sono vietate ed è comprensibile la motivazione:

l’inserimento di uno strumento nel corpo equivale ad una violazione

dell’essere umano, frutto della creazione divina, è come attentare alla pelle e

alla carne del mondo. Il cadavere non può essere smembrato, sezionato,

perché corrisponde a distruggere l’integrità umana, è rischiare il futuro

dell’uomo e di tutto ciò che esso incarna. Ma con gli anatomisti, il corpo è

dissociato dall’uomo, è studiato per se stesso, come realtà autonoma; il

corpo non parla più per l’uomo di cui porta il volto: l’uno e l’altro sono

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distinti e gli studiosi partono ad una sorta di conquista del segreto della

carne, indifferenti alle tradizioni, relativamente liberi nei confronti della

religione (ibidem:50). L’esumazione viene autorizzata volta per volta e

generalmente utilizzando cadaveri di criminali; le prime dissezioni vengono

realizzate per fini pedagogici e indirizzate ad un pubblico di medici, di

barbieri, di studenti; è un vero e proprio teatro anatomico, dove il più illustre

espone i vari pezzi del corpo umano dandone spiegazione e questo cadavere

inerte sul tavolo anatomico è un dato solido; il corpo appare come una

dotazione della persona stessa. E’ chiaro dunque che l’idea del corpo come

autonomo implica anche un mutamento dello statuto dell’uomo che, da un

lato, vede la singolarità dell’individuo, con la sua libertà e, dall’altro, si

pone in nuova luce un residuo chiamato corpo. Tipico di questa società,

oltre la prevaricazione dell’individuo sul gruppo, è anche l’assenza di valore

che colpisce il corpo, diventato limite di frontiera da un uomo all’altro

(ibidem:67). In quest’ottica l’uomo può apparire come un automa mosso da

un’anima e l’elemento che fa presupporre tale supposizione è riferito al fatto

che il corpo, in tale epoca, viene in un certo senso appiattito,

desimbolizzato: esso non è più facente parte di un sistema in interazione, ma

viene fatto oggetto della scienza nel tentativo illusorio di comprenderlo fino

in fondo nei suoi meccanismi. Illusione in quanto la condizione umana è

un’infinita complessità legata alla dimensione simbolica. E’ così che l’uomo

moderno si trova spiazzato da un dualismo che lo obbliga a utilizzare il

proprio corpo per identificarsi, visto che il suo essere non è più una

condivisione con il mondo ma un qualcosa che vive dentro un involucro che

funziona come una macchina, che ha degli ingranaggi; l’unico controllo che

ha l’uomo è quello sul suo corpo, può utilizzarlo dato che è un oggetto. In

questa moderna società, dove l’uomo è essenzialmente tagliato fuori dal

mondo circostante di cui non fa più parte e dove il suo corpo è reso agli

sgoccioli di una macchina autonoma, è chiaro come la fine delle

funzionalità del corpo cessa di essere un fatto collettivo e diviene sempre di

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più personale e individuale. A differenza di ciò che avveniva fino al

Medioevo, quando i cadaveri erano seppelliti a fianco delle chiese, i corpi

vengono pian piano allontanati dai centri urbani fino a collocarli in luoghi

esterni che oggi si chiamano cimiteri (Codeluppi 2007:86).

1.3. Il corpo nella postmodernità

Il corpo deve costantemente fare i conti con le modificazioni sociali e

culturali, deve adeguarsi, o meglio sottomettersi ai dettami delle scienze che

ne stabiliscono i modi e i tempi di costruzione e decostruzione, creando

teorie e tecniche in base agli sviluppi. In tutto questo l’uomo, essere umano

nella sua ormai insostenibile leggerezza deve fare i conti con l’esistere

all’interno del corpo, deve renderlo malleabile e, attraverso questo,

mostrarsi per come è. In altre parole l’immagine di un corpo da costruire

richiama alla mente l’idea della fabbricazione meccanica del proprio sé, la

continua ricerca di un corpo immaginato secondo i modelli ideali delle

mode del tempo (Serra, in Cattarinussi, 2010:181). E’ anche da tenere in

considerazione che le differenti pratiche tradizionali che fanno perdurare un

legame simbolico tra gli uomini e il loro ambiente non sono ancora svanite

definitivamente, come nemmeno al giorno d’oggi.

Parlare del corpo nella società postmoderna significa basarsi quasi

esclusivamente sul sapere biomedico, in costante evoluzione grazie agli

sviluppi in campo tecnologico, medico e scientifico, che dà in qualche

maniera ufficialità alla rappresentazione del corpo umano oggi. E’ anche

vero che le conoscenze dei più vengono ricevute dal dizionario, dalle scuole,

dall’esperienza vissuta, dall’influenza dei media, ecc… e spesso questo

sapere resta confuso, assistendo così a una moltiplicazione delle immagini

corporee, più o meno organizzate. L’individuo, che oggi più che mai ha da

scegliere tra una miriade di saperi possibili, oscilla dall’uno all’altro. Sono,

infatti, incessanti le trasformazioni della realtà che colpiscono la vita ad

ogni livello e di fronte alle quali il soggetto rimane inerme e spaesato, ma

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rispetto alle quali deve trovare una via di fuga, una via da controllare per

non rimanere nella terra di nessuno: il suo corpo, perché ora l’individuo è il

suo corpo e al tempo stesso ha il suo corpo, anche se tendenzialmente se ne

rende conto soltanto quando questo si trasforma. In tale società l’uomo deve

riscrivere i confini del corpo, ammettendo a sé stesso che esso è un fascio di

relazioni dove si incontrano sia soggettività che oggettività; il materiale e

l’immateriale; cosa e simbolo; moda e ingegneria genetica, informatica e

seduzione, e in ultima, ma non per importanza, natura e cultura (Niola, in

Fortunati, 2007:66).

Il corpo è lo strumento con il quale l’uomo si relaziona con l’ambiente e la

società ha sviluppato tecniche per ritrovare quei confini che restano tuttavia

valicabili e al tempo stesso indeterminati. Appare perciò evidente che il

primo confine è la pelle, ma si può in egual modo sostenere che il corpo

arriva dove arriva la voce o che un corpo che indossa dei vestiti aumenta la

sua estensione. Il corpo è diventato così il mezzo prioritario per trovare e

attraverso cui comunicare la propria posizione sociale e identitaria. L’uomo

utilizza allora metodi comunicativi da inscrivere direttamente sul suo corpo,

basti pensare ai tatuaggi o ai piercing come segnali dell’abbandono di

un’identità vecchia per una nuova; corpo e identità sono legati da un nesso

inscindibile (Porcelli 2006:48). In tale contesto i media possono essere

considerati un ordigno pronto ad esplodere imponendo i suoi dettami nel

momento giusto e nel posto giusto, lasciando l’uomo alla stregua di un

individuo perduto in una società altrettanto smarrita.

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CAPITOLO II

CORPO E IDENTITA’ TRA NATURA E CULTURA

2.1. Il tema dell’identità

E’ sempre stato un riflesso dell’ambiente accademico ridefinire l’uomo e la

sua mente alla luce di nuove esigenze sociali. I profondi mutamenti avvenuti

in seguito alla globalizzazione possono spiegare questa tendenza scientifica

e la grande complessità che caratterizza il tema dell’identità. A seconda,

infatti, del modo in cui viene pensato l’individuo e il suo ambiente, varia

necessariamente anche la maniera di considerare l’identità. E’ palese

comunque che l’essere umano è in rapporto con l’ambiente naturale e con le

condizioni materiali legate alla sopravvivenza biologica ed è da sempre in

rapporto con le strutture culturali e sociali e i prodotti dell’uomo stesso,

all’interno di una dimensione di relazione e di comunicazione con gli altri

esseri umani (gli adulti che si prendono cura di lui o che comunque lo

circondano).

Il sociologo francese Paul Ricoeur distingue due significati contrapposti:

identità sociale, che rinvia alla continuità dell’uomo e alla definizione

sociale dello stesso; e identità personale, riferita alla singolarità personale

imprevedibile. Tale distinzione chiarisce come la costruzione dell’identità

può essere compresa soltanto se si fa riferimento al soggetto non solo come

prodotto dei condizionamenti sociali e culturali, ma anche come entità

capace di elaborare la propria esperienza e di produrre nuovi significati e

nuove forme sociali (Crespi, 2004:50). Si può così sostenere che l’identità è

principalmente il modo in cui un individuo si inserisce e si autointerpreta

all’interno del suo ambiente culturale e sociale, dato che la sua personale

identità non può che costruirsi attraverso il rapporto con gli altri. Aspetto

sociale e aspetto personale sono dunque due concetti inscindibili. La

costruzione dell’identità, specialmente nelle prime fasi di vita, è perciò

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necessariamente legata all’identità sociale e ai modelli provenienti dal

mondo degli adulti, i quali permettono all’individuo di rafforzare il proprio

sé sulla base della similarità che gli consente così di ottenere il consenso

sociale e di elaborare, successivamente, a partire dalla propria esperienza

personale, una forma di identità fondata sulla rivendicazione della sua

singolarità (Archer, 2000, in Crespi, 2004:77). E’ chiaro che tale capacità

può essere più o meno sviluppata, a seconda del tipo di ambiente di vita

dell’individuo, del tipo di risorse disponibili e del grado di condizionamento

del riconoscimento espresso inizialmente, tant’è che l’individuo non è mai

un prodotto passivo dei modelli sociali, proprio perché la socializzazione è

sempre auto-socializzazione, nel senso che la persona sviluppa propri

meccanismi di selezione e differenziazione, anche difformi rispetto alle

richieste del sistema sociale. Da ciò la constatazione che l’individuo nel suo

adattarsi all’ambiente provoca anche modificazioni di quest’ultimo.

2.2. Identità e comportamento tra natura e cultura: dibattito acceso

Per poter comprendere l’uomo, pretesa forse utopica ma non per questo

rinunciabile, si deve comprendere il modo in cui le sue esperienze e le sue

azioni vengono in un certo qual modo plasmate dai suoi stati intenzionali

che tendono a realizzarsi attraverso la partecipazione ai sistemi simbolici

della cultura. Dunque la cultura concorre anche a formare la mente, oltre

che a dare significato all’azione. Bisogna tenere in considerazione che esiste

un contesto nel quale si situano le azioni, perché quando qualcuno crede,

desidera o agisce secondo modalità che non tengono conto dello stato

dell’ambiente, del mondo, viene considerato malato di mente o vittima di

circostanze. Questa considerazione risulta utile per spiegare come la società

costruisce una particolare versione di ciò che costituisce la realtà e di come

vengono a crearsi significati culturali che indirizzano e controllano le azioni

individuali (Bruner, 2009:51). Il concetto di persona è esso stesso costruito.

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Dunque è possibile sostenere che esistono due mondi, i quali richiedono

entrambi una diversa forma di interpretazione: uno si trova sotto il controllo

degli stati intenzionali, dove l’uomo ha a che fare con la sua conoscenza sul

mondo e con i desideri espressi rispetto al contesto e alle credenze; il

secondo sfugge al controllo perché dipende dalla natura. La questione, di

notevole portata, che deriva da questa contrapposizione, è se e in che modo

gli istinti naturali dell’essere umano sono plasmati da una cultura che

impone dettami comportamentali e, in ultima analisi, in che modo l’uomo è

in grado di adeguare il suo comportamento senza far prevalere quegli istinti

che gli impediscono di essere un sé stesso probabilmente diverso da ciò che

impone la cultura.

Nel XIX° secolo la cultura veniva concepita come una “sovrapposizione”

alla natura umana e quest’ultima intesa come entità biologicamente

determinata. Le cause del comportamento umano avevano origine, in quella

teoria, in un substrato biologico (ibidem:35). Lo psicologo Jerome Bruner

sostiene, invece, che tale substrato biologico non è una causa dell’azione,

ma una sorta di limite che però non è eterno: è assurdo negare che esistono

la fame o il desiderio sessuale, ma ad esempio la scelta di certi cibi o di

certe situazioni alimentari non è certo una mera conversione di spinte

biologiche in preferenze di tipo psicologico, ma è un fatto del tutto

culturale. I limiti biologici imposti alle funzioni umane costituiscono anche

uno stimolo, che l’uomo non ha perso tempo a raccogliere, per l’invenzione,

ad esempio, di sistemi mnemonici, espedienti linguistici, protesi, ecc… La

biologia impone sì dei limiti, ma questi limiti non sono eterni (ibidem:36).

Da sottolineare che ancora diffusa, come nelle antiche tradizioni, è

l’abitudine di incolpare la “natura umana” per i fallimenti della cultura

umana ma, in realtà, si rivela soltanto una rassicurante forma di difesa.

Chiamare in causa i demoni biologici significa sottrarsi alla responsabilità di

ciò che gli uomini stessi hanno creato e sarebbe più utile focalizzare

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l’attenzione, non sulle limitazioni biologiche, bensì sull’inventiva culturale

(ibidem:38), di cui l’uomo di certo non è carente.

Nella cultura occidentale, paradossalmente, gli uomini non si pensano

come a sé stanti, ma come tanti possibili tipi di ciò che potrebbero diventare,

desidererebbero diventare, temono di diventare, ecc… Essere un individuo

appartenente ad una certa società significa essere uguale, anzi identico, a

chiunque altro, ma alla domanda che cosa significa essere individui,

chiunque darebbe più o meno la medesima risposta: essere diversi da

chiunque altro. Non serve stupirsi se vi è un’allarmante crescita del disturbo

di personalità multipla come patologia tipicamente occidentale. Ugualmente

si può considerare, in un’accezione più positiva e meno svalutante delle

reali capacità dell’uomo, che le persone possiedono un’attitudine di

modificare il presente alla luce del passato e viceversa, elaborando altri

modi di essere, di agire e anche di lottare. L’uomo che, in questo terreno

stabile e mutevole al tempo stesso, deve camminare utilizzando la sua

capacità di riflettere e di immaginare alternative rivaluta costantemente

quello che la cultura gli può offrire.

Il progetto di tale approfondimento non è teso a negare o sopravvalutare il

valore della biologia o della cultura, ma a dimostrare come la mente umana

e la stessa vita sono riflessi della cultura e della storia tanto quanto un

riflesso delle risorse biologiche (ibidem:131). E’ questa è la premessa per

poter leggere i comportamenti degli individui alla luce delle nuove tendenze

socio-culturali degli ultimi anni.

2.3. Corpo e identità: i riti di passaggio

Il corpo appartiene a pieno titolo alla formazione identitaria dell’individuo,

tant’è che ogni rapporto tra individuo e mondo implica la mediazione del

corpo. E’ corporeo perfino il pensiero. Il corpo non può sottrarsi alla

condizione che fa di ogni elemento umano l’esito di una costruzione sociale

e culturale: non esiste una natura del corpo, ma una condizione umana che

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ne implica una corporea. Nelle nostre società occidentali, il corpo diventa

dunque il segno dell’individuo, il luogo della sua differenza (Le Breton,

2007:6).

L’avvento del consumismo della società postmoderna ha distrutto quel

mondo familiare di oggetti che rassicuravano l’uomo nella sua identità che,

anche se mutato e trasformato, ritrovava sempre. Lo svuotamento di

riferimenti certi ha afflitto quasi tutte le istituzioni e i vincoli sociali si sono

quasi spezzati. La società di oggi è caratterizzata dall’incertezza, dunque è

discontinua e anche incoerente. L’uomo si ritrova solo in balìa di questo

incessante scorrere del fluire temporale e gli spettano le responsabilità delle

scelte e la colpa dei bersagli mancati (il restare disoccupati a vita è ora la

pena da pagare personalmente per aver sbagliato scelte e stili di vita, a

partire dall’errata formazione scolastica). Anche la società dei consumi è

artefice di questi sentimenti che pervadono l’attore sociale, in quanto lo ha

abituato a non razionalizzare i propri impulsi, ma a lasciarsi guidare dagli

stessi diventando l’acquirente ideale di oggetti sicuramente non

indispensabili. La sua diventa un’identità frammentata e multipla a causa di

questo paesaggio (Porcelli, 2006:41). Ma l’identità va comunque mostrata,

deve essere conoscibile e prima di ciò deve essere costruita. Nei corridoi

della casa di Van Gennep si svolgono quei rituali, da sempre presenti in

ogni tipo di società, che permettono il passaggio da uno status sociale

all’altro e con i quali l’individuo si ridefinisce e si riafferma come facente

parte di una nuova identità. Nelle società tradizionali chi attraversava il

corridoio viveva nella foresta, era pericoloso, ma se riusciva ad uscirne

incolume entrava a far parte definitivamente nel ruolo sociale a lui promesso

e tanto atteso. Nella società odierna la marginalità è un periodo spesso a

tempo indeterminato perché i legami sociali si sono sciolti e non esistono

più dei riti che tolgono l’individuo dal corridoio per riconoscergli senza

ambiguità un nuovo status sociale corrispondente al cambiamento vissuto, o

meglio, non esistono più dei riti di tipo sociale, in quanto sostituiti da riti di

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tipo intimo. Il soggetto non potendo vivere per sempre nella marginalità

deve approdare in qualche nuova stanza e lo deve comunicare: l’unico modo

che gli è rimasto, l’unico veicolo di questa comunicazione è il suo corpo

(ibidem:42). E’ necessario tenere presente il fatto che in questa società gli

individui sono alla ricerca disperata della loro individualità e che tale

compito è assegnato dalla società stessa ai suoi membri come dovere

personale, da svolgere da soli, sulla base delle risorse individuali. Vi è,

tuttavia, un sottile passaggio che spesso sfugge a chi si prodiga in questa

ricerca, che è contenuto in una contraddizione: l’uomo ha bisogno della

società sia come motore di ricerca che come punto di arrivo, chiunque cerca

la propria individualità dimenticando o respingendo tale constatazione si

candida ad una condizione di frustrazione. Da ricordare è, invece, che, in

quanto “compito”, l’individualità è un prodotto finale della trasformazione

societaria, camuffato da scoperta personale (Bauman, 2006:8). La strada che

porta all’identità è una battaglia senza fine e un interminabile conflitto tra il

desiderio di libertà e il bisogno di sicurezza. L’unico pezzo d’identità che

emerge illeso dal cambiamento continuo è quello dell’uomo che sceglie (e

non che ha scelto), dunque di un io stabilmente instabile e, d’altronde, il

mercato dei beni non potrebbe sopravvivere con dei clienti capaci di

mantenere un percorso coerente, senza lasciarsi distrarre: l’obiettivo non è

più suscitare nei clienti nuovi desideri, ma offuscare quelli precedenti

(ibidem:27).

A questo punto l’unico rifugio sicuro che l’adulto possiede è quello della

vita quotidiana, è il luogo dei punti di riferimento che fa nascere un

sentimento di sicurezza nel quale il corpo riveste un ruolo essenziale. Il

susseguirsi dei rituali durante tutta la giornata è efficace grazie a

un’architettura di gesti, sensazioni, ecc… e a fondamento di tali rituali vi è

anche una regolamentazione precisa del corpo, sempre identica. I

comportamenti dell’uomo non sono solo quindi un riflesso della sua

posizione simbolica nella trama delle classi sociali, ma è il suo umore a

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determinarne i gesti, a filtrarne gli avvenimenti e i propositi di ieri possono

non coincidere con quelli di oggi (Le Breton, 2007:104). Attraverso le

azioni abituali, il corpo si fa invisibile e quasi cancellato dalle stesse

situazioni e dalla familiarità delle percezioni sensoriali. Traspare veramente

alla coscienze dell’uomo occidentale nei soli momenti di crisi: il dolore, la

fatica, l’impossibilità fisica di compiere un certo atto, o anche il piacere, o

per la donna, per esempio, durante la gravidanza, ecc… Il corpo non esiste

se non nei soli momenti in cui smette di compiere le sue funzioni abituali

(ibidem:140).

In quest’epoca di crisi dei rapporti e della famiglia, il corpo diventa una

sorta di altro in cui coabitare; è proprio la perdita della carne che spinge il

soggetto a preoccuparsi del corpo per ridare alla carne la sua esistenza.

L’individuo cerca una socialità che non esiste più e lo fa possedendo il

corpo alla stregua di un oggetto familiare che diventa quasi uno schermo su

cui proiettare i frammenti dell’identità personale dispersa nei ritmi sociali.

L’uomo cerca la sua unità di soggetto sistemando segni nel mondo

circostante cercando di produrre l’identità e farsi socialmente riconoscere.

Al corpo viene chiesto di modificare il carattere del soggetto, sopprimere

malesseri, osando quasi modificare la sua naturale identità. Appare dunque

che vi è una sorta di relazione corpo-soggetto, dalla quale scaturisce il fatto

che agire su di uno provoca necessariamente delle conseguenze sull’altro

(ibidem:181). Viene quasi da pensare che cambiando il proprio corpo si

cambia la propria vita.

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CAPITOLO III

COMPORTAMENTI A RISCHIO TRA GLI

ADOLESCENTI

3.1. Consumo e società

Il consumo è diventato argomento di studio per la sociologia, ma anche di

molte altre discipline scientifiche, nel corso della piena affermazione della

società moderna industriale. In molti studi viene messa in evidenza la

distinzione tra società della produzione e società dei consumi, ma ogni

società che produce beni è una società dei consumi. Tuttavia, la distinzione

della società dei consumi, a partire dagli anni Settanta, viene delineandosi

come società che modifica i propri assetti produttivi: il consumo non è più

legato solo al lavoro, ma coinvolge l’intero quadro sociale (Di Nallo, 1997,

in Ammatauro, 2008:8). E’ necessario tenere presente che, sempre a partire

da quegli anni, cadono molti pregiudizi sul consumo e nuovi orientamenti

preannunciano una cultura che, manifestandosi con tecnologie multimediali,

apre nuovi scenari che sembrano sfuggire alle tradizionali forme di

controllo: la realtà sociale non è più governabile da una sola classe e le

possibilità da parte delle persone, indipendentemente dalla loro

appartenenza sociale, di aprirsi a forme di consumo non più omologabili alla

condizione economica, rendono più autonoma l’azione soggettiva. Sono i

primi deboli segnali che annunciano la società globale.

Nel passato, nelle società tradizionali, non esisteva il concetto di consumo

come lo intendiamo noi oggi, ma vi era un consumo inteso come utilizzo di

beni di mera sussistenza. Simmel, filosofo e sociologo tedesco, già verso gli

inizi del XX°, propose delle prime riflessioni sulla mutevolezza della moda

e individuò l’origine del desiderio di consumo stabilendolo in base a due

spinte presenti nell’animo umano:

1. la spinta all’imitazione;

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2. la spinta alla differenziazione.

“Il singolo si sente rassicurato dal fatto di appartenere, grazie alla moda, a

una collettività sociale che si comporta in modo uniforme e condivide gli

stessi obiettivi e ideali; per questo motivo tende, attraverso l’imitazione di

comportamenti di consumo, a voler ribadire questa sua appartenenza. Al

contempo, egli è anche gratificato quando riesce a sperimentare, a esprimere

la propria personalità attraverso gli aspetti più originali della moda e del

consumo in generale” (Simmel, 1985, in Cattarinussi, 2010:155). Ecco che

appare spiegata la dicotomia uguali ma diversi che tanto fa riflettere nel

contesto dei comportamenti tra natura e cultura. Dunque può essere

esplicativo affermare che la motivazione alla base delle scelte di consumo è

strettamente legata ai diversi significati che uno stesso oggetto può avere per

gli individui, tant’è che i beni sono in grado di comunicare le posizioni

sociali e le differenze tra le persone: gli individui non consumano degli

oggetti in grado di soddisfare specifici obiettivi di natura utilitaristica, ma

dei segni (Baudrillard, 1972, in Cattarinussi, 2010:153). Il luogo privilegiato

nel quale c’è la possibilità di analizzare ruoli e comportamenti nel processo

che porta alla decisione di acquisto di un prodotto è l’ambiente familiare. E’

in questo ambito che hanno luogo la maggior parte degli atti di consumo e

nel quale i mutamenti delle relazioni nella famiglia provocano delle

conseguenze anche nelle dinamiche di consumo; basta pensare al ruolo di

consumatore giocato oggi dai bambini, che erano, fino a qualche anno fa,

soggetti passivi delle scelte altrui. Sempre all’interno dell’ambito familiare,

si possono individuare cinque possibili ruoli:

1. l’iniziatore, ossia il membro che propone l’acquisto;

2. l’influenzatore, che è colui il quale indirizza gli altri componenti

verso la possibile gamma di beni su cui concentrare l’attenzione;

3. il decisore, che è in grado di procedere alla scelta finale;

4. l’acquirente, il quale compie materialmente l’acquisto;

5. l’utilizzatore (Pascoli, in Cattarinussi, 2010:154).

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E’ da tenere presente che tutti gli esseri umani sono, e sono sempre stati

seppur in accezioni differenti, dei consumatori, e l’interesse dell’uomo per il

consumo non è una novità. Perciò è insufficiente limitarsi ad analizzare la

logica del consumo per comprendere il fenomeno del consumatore attuale.

Occorre forse concentrarsi sul carattere essenzialmente sociale e

comportamentale, ma anche su quello, seppur subordinatamente,

psicologico: il fatto cioè che il consumo individuale avvenga nel contesto di

una società di consumatori. Una società che giudica e valuta i propri

membri soprattutto in base alle loro capacità e ai loro comportamenti

relativamente al consumo. Il risultato è che si diffondono modelli di

consumo talmente ampi da abbracciare ogni aspetto e attività dell’esistenza.

Il mercato penetra anche nei settori della vita fino a poco tempo fa non

raggiungibili dallo spirito del mercato dei beni di consumo, impronta le

relazioni interpersonali, unendo o separando le persone, dà appuntamento

con qualcuno e cancella qualcun altro dalla rubrica del cellulare, riformula i

percorsi degli obiettivi personali in modo che ciascuno passi per un centro

commerciale (Bauman, 2006:94). Qualsiasi cosa questo mercato tocca si

trasforma in una merce di consumo.

Il corpo che consuma

“Possiamo immaginare il corpo come una potenzialità elaborata dalla

cultura e sviluppata attraverso relazioni sociali” (Turner, 1992, in Bauman,

2006:97). Si tratta di un’affermazione applicabile a qualsiasi cultura e

società, ma in quella attuale è il risultato di una contraddizione: è vero che

oggi abbiamo i mezzi per esercitare un alto grado di controllo sul corpo,

eppure quest’epoca ha messo in dubbio la conoscenza su cosa sia il corpo e

su come bisogna controllarlo. Dunque è lecito chiedersi se è vero che gli

individui sono in grado di controllare realmente il corpo o se invece la

preoccupazione di tale controllo occupa semplicemente un posto più

importante di quanto fosse mai accaduto prima. Ma è doveroso fare

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un’ulteriore riflessione e chiedersi se la nuova situazione economica,

culturale e sociale ha accresciuto gli spazi di libertà individuale aprendo uno

spettro di scelte più ampio indebolendo la trama di legami in cui il corpo era

invischiato dalle convenzioni sociali, oppure se questo ampliamento è

soltanto apparente e i vecchi legami sono stati semplicemente sostituiti da

altri, nuovi ma non per questo meno oppressivi (Bauman, 2006:98). Con

questa chiave di lettura e con le premesse fatte, si può stabilire e dedurre che

il primo dei valori della società dei consumi è il corpo e il suo benessere è il

principale obiettivo di ogni e qualsiasi progetto personale. Il corpo, dunque,

tende progressivamente a integrarsi con la cultura del consumo e ciò

avviene perché la perdita di significatività dei segni di status tradizionali

rende il corpo un fondamentale strumento di comunicazione attraverso il

quale gli individui possono definirsi. E lo fanno associando al corpo stesso

numerosi beni. Oggi a contare non sono più le qualità personali, ma la

capacità del soggetto di scegliere tra i diversi beni offerti dal mercato. Il

corpo tende così a riempirsi di segni del consumo e di materiali provenienti

dalle diverse merci (Codeluppi, 2007:29). Pertanto la cura del corpo risulta

essere al primo posto e l’ansia che ne deriva è chiaramente notevole viste le

aspettative sociali, tant’è che non può sorprendere che per gli esperti di

marketing sia fonte inesauribile di profitti. Infatti, perché la società dei

consumi non si trovi mai a corto di consumatori, tale ansia dev’essere

sostenuta costantemente, ravvivata regolarmente: tali mercati si alimentano

dell’ansia che essi stessi evocano (Bauman, 2006:99). Infatti, come già

segnalato, il consumismo non riguarda il soddisfacimento dei desideri, ma la

creazione di un numero sempre maggiore di essi.

Per immaginare un consumatore totalmente assorbito e affascinato dal

proprio corpo Bauman offre un chiaro paragone con un musicista che suona

uno strumento per il proprio piacere privato ed esclusivo, e che sia dunque

l’unico ascoltatore dei suoni dolci ed emozionanti che fluiscono dallo

strumento. Vi è però una sorta di clausola, una sfida: gli strumenti che

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vengono esortati a suonare per trarne gradevoli melodie loro promesse

sono… essi stessi. Dunque per produrre e consumare le sensazioni piacevoli

che il loro corpo li mette in condizione di godere devono essere pronti a

presentarsi in tre diversi ruoli contemporaneamente: musicista, ascoltatore e

anche strumento (ibidem:100).

A questo punto appare chiaro il fatto, o meglio il perché più si parla di

comunicazione, del contatto, di benessere, di amore, di solidarietà, più

questi valori s’allontanano dal campo sociale lasciando spazio, in questa

società parzialmente svuotata di senso, agli specialisti della comunicazione,

del contatto, del benessere, dell’amore, della solidarietà. Dalla

frequentazione dei centri benessere alle sedute di terapia di gruppo, dai

cosmetici alla dietetica, l’individuo cerca, attraverso la mediazione del

corpo (dato che è l’unico strumento che può e deve essere “suonato”), di

vivere la propria realizzazione (Le Breton, 2007:177).

3.2. Media e corpo

Utile ai fini di tale indagine è fare una premessa chiarendo che cosa si

intende per comunicazione di massa, concetto molto utilizzato e coniato alla

fine degli anni Trenta. Tale nozione comprende tutte quelle istituzioni e

tecniche grazie alle quali attori o gruppi specializzati utilizzano degli

strumenti (stampa, radio, cinema, televisione, ecc…) per diffondere un

contenuto simbolico a pubblici ampi, eterogenei e fortemente dispersi

(Pocecco, in Cattarinussi, 2010:89). Il concetto di processi della

comunicazione di massa non è sinonimo di mass media o mezzi di

comunicazione di massa, perché quest’ultimi sono caratterizzati dal fatto di

essere tecnologie strutturate che rendono possibile, appunto, la

comunicazione di massa, atte cioè alla produzione e diffusione dei prodotti

mediali. McLuhan, sociologo canadese, ha posto in essere una distinzione

tra media caldi, quali il cinema, la stampa e la radio e media freddi, che

sono la televisione e il telefono. Secondo il sociologo, ogni nuova

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tecnologia, una volta accettata e interiorizzata, diviene parte integrante

dell’ambiente; nel passaggio da una tecnologia all’altra c’è lo spazio per

cogliere la portata e l’influenza di ogni innovazione tecnologica, e per farlo

è necessario concentrarsi sul tipo di messaggio e non sul contenuto. Dunque

McLuhan ritiene che da questi aspetti si può specificare la natura originale

del mezzo e da qui la distinzione tra “caldo” (numero considerevole di

informazioni prodotte, non partecipazione attiva da parte del ricevente) e

“freddo” (informazione scarsamente dettagliata, incoraggia la

partecipazione, l’interazione del ricevente) (McLuhan, in Pocecco, in

Cattarinussi, 2010:91). I mezzi di comunicazione di massa sono stati

oggetto di accuse diverse secondo il momento storico, più che altro per

quanto riguarda la loro capacità di produrre degli effetti sui riceventi,

sull’audience. Così, sono stati colpevolizzati di sostenere in modo acritico i

regimi dittatoriali negli anni Trenta, di essere dei cattivi informatori perché

sottoposti a diverse censure negli anni Quaranta, di introdurre una

pericolosa cultura consumistica tra glia anni Cinquanta e Sessanta, di essere

oggi i fautori del trash e così via (Pocecco, in Cattarinussi, 2010:92).

Tuttavia va sottolineato che, a partire dagli anni Ottanta, l’analisi degli

effetti e dell’efficacia comunicativa comincia a deviare, in quanto si passa

all’analisi della modalità di ricezione del messaggio e decodifica del testo a

livello individuale.

E’ doveroso accennare ai rapidi cambiamenti che stanno interessando la

comunicazione in generale. In tal senso, sta prendendo forma la distinzione

tra old media, cioè i tradizionali mezzi di comunicazione di massa (come la

stampa, la radio, la televisione, ecc…) e new media, che si configurano

invece nel personal computer, nelle reti telematiche, ecc… Utile per

comprendere meglio tale differenza sta nel considerare i primi come mass

media ed i secondi come social media, questi ultimi caratterizzati dal fatto

di essere strumenti che permettono a chiunque di comunicare e di avere

accesso alle informazioni (ibidem:99).

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Dopo questa breve ma sostanziale panoramica dei concetti sui quali si

fonda il ragionamento, si possono pertanto riprendere in considerazione

quegli individui che vivono all’interno di una società che non vuole perdere

tempo, che vuole costantemente aumentare il passo tecnologico e renderlo

sempre più globale, sempre più coinvolgente, dando l’illusione al soggetto

di essere sempre più libero. Tuttavia è in questo sottile confine che la

persona non coglie il fatto di essere “trasparente”, non capisce che la libertà

data altro non è che controllo. L’individuo pensa di poter decidere dei propri

spazi, dei propri interessi, dei propri valori, ignorando che i suoi bisogni,

desideri, obiettivi sono già stati selezionati e costruiti per lui e prima di lui

da una società che ha scritto sul campanello di casa libertà.

Già alla fine dell’Ottocento, i sociologi classici, e in particolare Georg

Simmel, avevano evidenziato le conseguenze derivanti dall’esposizione

dell’individuo, nella nuova dimensione metropolitana, a una grande massa

di sconosciuti. Oggi il processo di crescente “mediatizzazione”, che ha e sta

invadendo ogni ambito, ha reso lo spazio privato del singolo sempre meno

tale e sempre meno difendibile. L’indebolirsi dei rassicuranti legami

comunitari e di quelli con lo Stato, ma anche la crescente flessibilità imposta

dalla concorrenza su mercati via via più globali, lasciano l’individuo

completamente esposto (Codeluppi, 2007:22). L’insicurezza è dunque

conseguenza della situazione di ipercomunicazione in cui si trovano le

persone: continuamente esposte e senza più uno spazio privato in cui potersi

isolare. Generalmente si ritiene che le telecamere producano sicurezza per i

cittadini, ecco come allora i controlli negli aeroporti sono stati intensificati

in tutto il mondo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti,

ma che non garantiscono di individuare realmente gli esplosivi e i terroristi.

Questo è solo un banale esempio per chiarire il concetto di come si è di

fronte a un sistema che svolge la funzione di dare ai cittadini la sensazione

che lo Stato si preoccupa di tutelare la loro sicurezza, ma, spesso, le diverse

forme di controllo visivo dei comportamenti creano con la loro presenza

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anche l’impressione di essere più esposti (ibidem:26). Perché il senso di

sicurezza non dipende dai pericoli reali esistenti, ma dalla percezione

individuale. Nonostante dunque il fatto che il corpo sia sempre più

“trasparente”, i rischi per l’individuo sono oggettivamente in aumento.

L’essere continuamente esposti comporta anche la necessità di mostrare ciò

che è più privato, anche perché è inevitabile. Inoltre si è di fronte

all’emergere di un contesto culturale che sostiene una partecipazione nella

produzione e distribuzione di media. La maggior parte delle discussioni sui

nuovi media nella sfera pubblico-politica si è incentrata sulle tecnologie:

sugli strumenti e le loro modalità d’uso. Un tempo, mettersi in mostra era

segno di rozzezza, ma oggi i media, esponendo pubblicamente ciò che prima

stava nel retroscena, hanno avvicinato alle persone comuni i corpi dei

personaggi importanti, smascherando pubblicamente le loro attività private

(matrimoni, divorzi, tradimenti). D’altronde, i media incitano continuamente

gli individui a parlare della loro sessualità o a rivelare pubblicamente

dettagli relativi alla loro dimensione intima. Infatti sono ormai numerosi i

programmi televisivi in cui delle persone comuni spiattellano le loro

faccende private a milioni di spettatori. Ma molti sono anche coloro che

hanno installato delle webcam a casa propria e si fanno vedere da

sconosciuti su Internet, persino mentre si spogliano o svolgono le attività

più intime (ibidem:19). Probabilmente è una garanzia di autenticità in

un’esistenza sempre più artificiale.

Anche i media, dunque, ben si inseriscono in quella che è la vita umana,

intesa come un insieme di momenti, di aspetti, di attese, di speranze e di

sogni che non potranno mai cessare di esistere in quanto facenti parte della

natura umana. I media lo sanno, le nuove tecnologie se ne alimentano.

Attraverso i media la gente comunica, interagisce, scambia idee politiche, si

può quasi parlare di una nuova dimensione collettiva della vita, compresi

addirittura i riti di passaggio e non per ultimo il corpo. In fin dei conti il

corpo è stato acculturato. Del resto, non si può dimenticare che il corpo non

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è quello che “abbiamo”, ma è quello, volenti o nolenti, che “siamo”. Stelarc,

artista australiano, scrive: “E’ tempo di domandarsi se un corpo bipede,

dotato di visione binoculare e con un cervello di 1400 centimetri cubici,

costituisce una forma biologica adeguata. La mia risposta è negativa. Non è

più di alcun vantaggio rimanere umani o evolversi come specie,

l’evoluzione termina quando la tecnologia invade il corpo” (Stelarc, in

Fortunati, 2007:29). Affermazioni di questo tipo lasciano di certo l’amaro in

bocca, ma il nodo centrale è che esse trovano nei media ampia risonanza, e

pertanto diffusa credibilità e molti sostengono che il primo strumento

tecnologico è il corpo, che l’evoluzione biologica si prolunga

nell’evoluzione biotecnologica. Ma forse è più corretto asserire che la

tecnologia concorre da sempre a formare l’essenza dell’uomo e che

l’evoluzione della tecnologia contribuisce potentemente all’evoluzione

dell’uomo, anzi è diventata l’evoluzione dell’uomo. Interessanti sono invece

gli effetti che sul corpo produce la tecnologia informazionale, ad esempio

con gli strumenti della realtà virtuale il corpo si estende nello spazio in

maniera inedita fino ad occupare tutto il globo. La distanza viene annullata e

la sensibilità viene trasferita negandole l’attributo primo, che è quello della

prossimità, attraverso la simulazione e l’artificio (Longo, in Fortunati,

2007:39). Si può fare un viaggio lunghissimo senza muoversi dalla poltrona,

dunque senza attuare quella dislocazione spazio-temporale di cui il corpo ha

bisogno per percepire. I crescenti sviluppi delle nuove tecnologie (quali

telefonia mobile, Internet, chat-line, ecc…) offrono, dunque, strumenti di

grande potenzialità per l’acquisizione e la diffusione di nuove conoscenze.

Dovuta è una breve riflessione ponendo l’attenzione su quale sia il ruolo del

corpo, per esempio, negli ambienti virtuali, ponendo quesiti su come

definire in essi la presenza, come ovviare l’assenza di informazioni

sensoriali. La ricerca, teorica ed empirica, è piuttosto attiva a riguardo.

Ai nostri giorni la competizione tra mezzi cartacei ed elettronici ruota

intorno ai diversi requisiti corporei per il loro uso. Per fortuna, oso dire, che

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è ancora difficile fissare lo schermo di un computer a letto, in bagno o in

una metropolitana affollata, ma nelle performing arts il corpo è il

principale strumento d’espressione. Ogni arte fondamentalmente è una

body-art. Tale termine è stato coniato solo negli anni Sessanta in riferimento

a una crescente varietà di pratiche particolari, derivanti originariamente

dalle arti visive. L’idea principale era il distacco della produzione artistica

dalla prassi dell’industria, del mercato e della pubblicità. L’artista dovrebbe

suscitare idee, consapevolezze, emozioni, non dovrebbe creare oggetti

vendibili. Alcuni dei primi nomi di queste pratiche furono: arte concettuale,

arte comportamentale, azionismo, performance, happening. La realizzazione

di queste pratiche ricordava ciò che viene fatto dalle più consolidate

performing arts: l’artista “concettuale” faceva qualcosa (per esempio

tagliarsi e dissanguarsi, squartare agnelli, lavare panni, ecc…) dal vivo, di

fronte ad un pubblico. Tuttavia, di solito la sua performance veniva

immortalata da foto o video e trasformata, così, in qualcosa di più vicino

alle tradizionali arti visive. Spesso si serviva di scene, strumenti e costumi,

ma il mezzo principale dell’esibizione era il corpo dell’artista. I contesti

(gallerie d’arte, mostre, atelier) e la biografia dell’artista facevano la

differenza tra questo tipo di body-art e le più consolidate performing arts.

Ma il termine body-art fa riferimento anche ad altre pratiche:

• l’esibizione di corpi vivi umani o animali più o meno nel loro stato

naturale;

• l’utilizzo dei corpi umani come pennelli o spatole (imbrattare il

corpo di colore e poi spingerlo sulla tela);

• il corpo come tela. Dipingere la superficie del corpo è una pratica

culturale antica e diffusa: nelle comunità tribali ha una grande

varietà di funzioni simboliche. Oggi riguarda soprattutto le donne e

ha una funzione principalmente cosmetica e sessuale;

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• alterazioni permanenti del corpo come tatuaggi, piercing (forare

parti del corpo), branding (essere marcati a fuoco), costrizioni,

chirurgia estetica. L’inclusione del tatuaggio nell’ambito di questa

categoria piuttosto che nella precedente, è dovuta al suo carattere

permanente;

• esplorazione visiva degli aspetti del corpo sino ad ora trascurati. Si

usano delle macrofotografie al fine di produrre delle grandi

immagini di piccole parti dell’anatomia esterna, come rughe, nei,

peli, ecc…;

• l’accostamento o l’integrazione del corpo umano con i sistemi

tecnologici (techno-body-art). La possibilità dell’interazione

estetica, attraverso i sistemi tecnologici di comunicazione, tra corpi

molto distanti nello spazio. E’ una delle frontiere della “media art”

(per esempio, gli allievi della Kunsthochschule fur Medien di

Colonia hanno sviluppato un sistema elettronico di videocamere,

computer e robot che permette a due individui lontani di interagire

in attività di sesso virtuale sado-maso);

• l’utilizzo di cadaveri umani, o di parti di loro, come materia prima

per la produzione di oggetti artistici. Anche questa pratica non è

una novità, infatti molte culture primitive conoscono l’impiego di

parti di cadavere per fini decorativi personali e/o pubblici.

(Strassoldo, in Fortunati, 2007:79).

Viene spontaneo chiedersi se si può considerare tutto ciò un accettabile

limite etico alla creatività artistica o meno. Le industrie culturali sono mosse

dal profitto e da molto tempo hanno scoperto che il sadismo vende molto

bene, ma è arduo pensare che le industrie culturali possono autonomamente

stabilire dei limiti. Probabilmente alla base del successo ci sono numerose

spiegazioni che vanno dalle condizioni generali della società (alienazione

dalla natura e dalla comunità, violenza sulla natura, ecc…) ad una qualche

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tattica autoalimentatrice delle stesse industrie, ma è più consono ritenere che

la contiguità di piacere e dolore, di aggressione ed eccitazione, faccia parte

della natura umana e si ricollega alla storia dell’evoluzione e alla

contrapposizione natura/cultura.

C’è una categoria di persone che ben incarna quegli ideali di efficienza

produttiva che sono propri del sistema industriale: gli atleti, in quanto le

discipline sportive sono un insieme di attività codificate, specializzate e

razionalizzate che producono, all’interno di spazi predefiniti (palestre, stadi,

ecc…), risultati monitorabili e confrontabili (Codeluppi, 2007:34). E’ stato

negli anni Trenta che lo sport ha cominciato a diffondere delle pratiche utili

e necessarie per adeguarsi a modelli estetici di perfezione del corpo. Così i

muscoli potenti sono diventati una componente essenziale della bellezza

maschile: sono i muscoli del body builder. Anche il corpo dello sportivo,

dunque, si presenta oggi come un corpo che può essere liberamente

manipolato dalle logiche sociali e culturali per raggiungere determinati

obiettivi. Non è un caso, perciò, che lo sport sia legato al doping, strumento

necessario per modificare i corpi degli atleti, al fine di migliorarne le

prestazioni. L’ideologia sportiva ha coltivato nel tempo anche l’immagine

dello sport come strumento di “igiene del corpo”, cioè, oltre che congegno

valido per sviluppare i muscoli, utile soprattutto per scaricare le energie

fisiche in eccesso, le quali sono dannose perché contengono spinte

aggressive e pulsioni sessuali, e per consentire pertanto all’individuo di

raggiungere un perfetto equilibrio psicologico (ibidem:39). Chiaramente le

caratteristiche di tale equilibrio sono state definite dalla società attuale come

perfette. Dunque anche le pratiche sportive, ormai in aumento costante, sono

diventate forme d’espressione dell’individuo, grazie anche alla loro

originalità. Basta pensare, ad esempio, alle arrampicate sulle pareti degli

edifici, alle discese lungo ripidi pendii su una tavola dotata di ruote, allo

spostarsi da un luogo all’altro superando le architetture urbane, al correre

all’indietro, ecc...

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Continuamente manipolato e deformato per essere adeguato a modelli

esterni, il corpo può anche ribellarsi. Le forme di ribellione che

caratterizzano il corpo contemporaneo nascono dalle contraddizioni che lo

attraversano: da un lato, in quanto produttori di beni e servizi, gli uomini

devono rinviare, reprimere il desiderio di una gratificazione immediata;

dall’altro lato, in quanto consumatori, devono esibire una capacità illimitata

di cedere al desiderio. L’individuo è assediato dalla tentazione, ma sente su

di sé la condanna degli altri se si fa troppo trascinare da essa.

3.3. Giovani e consumo

Le trasformazioni che la globalizzazione ha prodotto nella società odierna

hanno cambiato radicalmente le pratiche di consumo e questo in particolare

per i giovani. La società globale ha portato delle profonde trasformazioni

nelle dinamiche della socialità e soprattutto della socializzazione, non solo

per la grande diffusione delle nuove tecnologie o per l’avvento di nuovi

mezzi di comunicazione di massa, ma anche perché si sono trasformati i

tempi e gli spazi entro cui le singole persone vengono “introdotte” e

“formate” alla vita quotidiana. Una prima conseguenza di queste

trasformazioni è il fatto che la transazione all’età adulta da parte dei giovani

è divenuto un ambito problematico che non è più solo riconducibile alle

trasformazioni dei modelli familiari, ma anche alle tendenze evolutive della

cultura giovanile che privilegiano le scelte rimandabili e ritardano quelle

definitive. Una seconda conseguenza è il fatto che l’individualizzazione

della vita, in tutte le sue sfere, ha prodotto la “massificazione dei

comportamenti”, situazione che si traduce in un grado di libertà vincolato

all’utilizzo di risorse standardizzate (ci si dovrebbe diversificare attraverso il

consumo ed il possesso di beni prodotti dall’industria culturale). Tutto

questo espone la vita a nuove forme di strutturazione che derivano, come già

descritto, dall’intreccio mercato/media oppure alla standardizzazione del

comportamento come risposta all’ansia (Mangone, in Ammaturo, 2008:48).

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I giovani nascono e crescono in una società della comunicazione e

instaurano con le tecnologie un rapporto simbiotico, gestiscono e

controllano in modo naturale i codici e i linguaggi. I media divengono spazi

di condivisione e comunicazione di idee, simboli, valori che condizionano i

processi di costruzione del sé. Tant’è che l’industria del consumo è molto

attenta al mondo giovanile, agli adolescenti in modo particolare; essi, infatti,

sono i primi a captare le innovazioni perché è attraverso il consumo che

costruiscono la propria identità.

3.4. Giovani e corpo: comportamenti a rischio

Tenuto conto del posto che occupano le trasformazioni del corpo nel

processo di metamorfosi adolescenziale, è frequente e normale che le

preoccupazioni fisiche siano numerose a quest’età. Tali angosce minacciano

l’inserimento del soggetto nella famiglia e nell’ambiente scolastico o socio-

professionale. Da premettere è che vi è una distinzione delle modalità di

espressione del malessere secondo il sesso, infatti i disturbi del

comportamento a carattere trasgressivo si riscontrano soprattutto nei maschi,

mentre i malesseri fisici ricorrenti sono molto più frequenti nelle ragazze.

Tale distinzione si basa sull’occupazione dello spazio corporeo che non è lo

stesso nei ragazzi e nelle ragazze. Nello sviluppo delle caratteristiche

sessuali si uniscono fattori personali, relazionali, culturali e ambientali che

si definiscono in modo diverso per gli uni e per gli altri. Infatti il corpo

maschile è prima di tutto uno “strumento”, è “l’organo esecutore”, la cui

capacità di agire e reagire prevale su tutto, è sinonimo di forza e di

realizzazioni concrete; mentre il corpo femminile è sinonimo di capacità di

accogliere, di generare, è un punto d’incontro fra il sé e l’altro

(accoppiamento, gravidanza) (Pommereau, 1998:37). Chiaramente si tratta

di tendenze, non di elementi tipologici, in cui si mescolano

inestricabilmente componenti biologici, sociologici e psicologici.

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Viste le precedenti constatazioni, non è un caso che i disordini alimentari

colpiscono un’adolescente su dieci in età di rischio. Rappresentano infatti un

tentativo di affermare la propria identità risolvendo così le contraddizioni

sperimentate dagli individui. L’anoressia nasce dallo sforzo di annullare se

stessi e reprimere il proprio desiderio, mentre la bulimia e l’obesità derivano

invece dal cedimento al desiderio (Codeluppi, 2007:39). Il verificarsi dei

disturbi dell’anoressia e della bulimia può essere legato ad un avvenimento

o ad un trauma particolare e probabilmente sono la riattualizzazione di

relazioni disturbate con la madre nel corso della prima infanzia. Tali

problematiche si manifestano generalmente fra i quindici e i vent’anni e

interessano quasi esclusivamente le ragazze (Pommereau, 1998:63). I media

e la pubblicità idealizzano costantemente dei modelli corporei di bellezza,

inducendo così donne, ma ultimamente anche uomini, a cercare di seguirli, e

questo a costo di fatica e sofferenza. L’ossessivo controllo di ciò che si

ingerisce consente infatti di sentirsi adeguati a tali modelli, ma ecco che, nel

momento in cui non si riesce più ad adattarsi ai modelli sociali dominanti, il

cibo diventa anche uno strumento di autopunizione (anoressia, bulimia). Ciò

riguarda in primo luogo le donne, storicamente associate alla malattia o

comunque alla debolezza. Pertanto, le donne più degli uomini, sentono

l’obbligo di curare la loro salute con un impegno costante che comporta un

esercizio fisico regolare e un corretto regime dietetico.

Progressivamente si è affiancato anche il dovere di impegnarsi per

raggiungere la bellezza, dovere che tende in alcuni casi a raggiungere

conseguenze estreme. Basta pensare, ad esempio, che negli Stati Uniti vi

sono donne che “si fanno ridurre la lunghezza dei piedi per poter entrare in

un paio di Manolo Blahnik”, scarpe dal tacco altissimo, rese celebri dalle

protagoniste del serial televisivo Sex and the City. Per riuscire ad indossarle

alcune donne hanno fatto ricorso alla riduzione chirurgica delle dita dei

piedi o a iniezioni sotto il piede di collagene, sostanza che crea morbidi

cuscinetti e favorisce così la stabilità sui tacchi (Codeluppi, 2007:40).

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Oppure c’è chi si fa decorare in maniera vistosa le unghie: l’ormai vecchia

professione della manicure si è trasformata oggi in nail art e le unghie

diventano robuste, lunghissime, tatuate e tempestate di strass. I capelli,

invece, si possono colorare, possono diventare rasta o essere allungati con le

extensions. Gli occhi cambiano colore a seconda delle occasioni con le lenti

a contatto colorate e i denti divengono sempre più bianchi con svariate

tecniche. In Italia il problema non è da sottovalutare, visto che addirittura il

97 per cento di un campione di ragazze adolescenti ha manifestato

insoddisfazione per l’aspetto del proprio corpo (Magnanini, 2006, in

Codeluppi, 2007:41). E’ chiaro che queste ragazze sono disposte a tutto pur

di “migliorarsi” esteticamente, come ad esempio adottare diete estreme,

sottoporsi a continue sedute di abbronzatura artificiale o ricorrere alla

chirurgia plastica. Pertanto, pure gli uomini, costretti a reagire al

cambiamento continuo del ruolo femminile ma anche a una società che ha

sempre meno bisogno della loro forza fisica, sono via via più disponibili ad

accettare gli inviti ad utilizzare le nuove pratiche cosmetiche, un tempo

privilegiate solo dalle donne. Attraverso il controllo del loro corpo ricercano

una nuova forma d’espressione della virilità; una forma che si ritrova, ad

esempio, nel modello sociale del ricco maschio trentenne, metropolitano e

alla moda, molto attento a curare il proprio corpo e la propria apparenza

(Codeluppi, 2007:42). Ma un limite a tutto questo esiste e risiede nella

capacità degli esseri umani di abituarsi, più che altro per gli uomini, che

oggi sono sopraffatti dal proliferare nei media di immagini femminili

tentatrici, di donne giovani, bellissime e disponibili, che sorridono sempre e

non si lamentano mai. Invece le donne vere esigono, lavorano, sono stanche,

amano i figli, non ne possono più, diventano insopportabili, rifiutano di

essere maltrattate, possono fare a meno di quell’uomo. E se lui non sa

staccarsi dalla sofferenza e dalla sconfitta, per difendersi, la elimina

fisicamente, come hanno evidenziato molti recenti tragici episodi di cronaca

nera. Dunque questi standard di bellezza che si vengono a creare sono

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raggiungibili con grande difficoltà da parte delle persone comuni ed è

inevitabile che siano frustranti.

Naturalmente anche l’abbigliamento rientra tra gli strumenti a disposizione

dell’individuo per valorizzare la sua identità personale. Il successo mondiale

di catene di abbigliamento come Zara e H&M spiega la possibilità che viene

offerta ai consumatori di soddisfare il loro bisogno continuo di novità

rinnovando quasi ogni settimana l’offerta (ibidem:52). Persino

l’abbigliamento intimo, che nel passato era qualcosa da mostrare con

pudore, oggi è diventato una componente fondamentale del linguaggio,

come si può notare da qualche anno tra i giovanissimi, che fanno sporgere

ad arte le mutante dal bordo dei jeans.

Ma il corpo è al tempo stesso anche uno strumento con cui gli individui

cercano di far fronte a questi problemi identitari. Questo vale più che altro

per molti adolescenti, che tentano di superare le loro difficoltà

sperimentando i limiti fisici del corpo. Ad esempio, con il tatuaggio e il

piercing, quest’ultimo adottato in Italia dal 25 per cento delle ragazze tra i

12 ed i 18 anni e dal 7 per cento dei ragazzi compresi nella stessa fascia

d’età (EURISPES, 2003, in Codeluppi, 2007:41). Tatuaggi e piercing sono

due pratiche differenti: la prima è una decorazione destinata a durare nel

tempo, mentre la seconda no, in quanto in qualsiasi momento si può

togliere. Il tatuaggio, avendo carattere permanente, comporta un’assunzione

di responsabilità e consapevolezza, è maggiormente legato a motivazioni

che riguardano l’identità (Ammaturo, 2008:108). Generalmente sottolinea il

desiderio di racchiudere in un’immagine la vita o un avvenimento

particolare. Il piercing ha intenzioni più di esibizione, è soggetto alla moda e

dunque in continua variazione. Quindi la scelta di tatuarsi o di farsi un

piercing nasce da un desiderio intimo e molto personale, anche se poi si può

trasformare in un consumo da esibire o in uno strumento di seduzione.

I comportamenti che preoccupano per la loro frequenza sempre in aumento

e la grande attrattiva che esercitano sui giovani, sono le imprese rischiose su

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mezzi motorizzati. Riguardano soprattutto gli adolescenti di sesso maschile,

nella proporzione di tre ragazzi per una ragazza (Pommereau, 1998:102). I

loro autori tendono a banalizzarli e, a volte, anche la famiglia teme di

riconoscerne il pericolo, contribuendo a non dargli alcun peso. I ragazzi

tentano di definire dei confini per la loro identità e di sentirsi più vivi.

Tant’è che, come ha sostenuto Le Breton, “se l’ordine simbolico fallisce nel

legittimare l’individuo al centro del legame sociale, non è in grado di dargli

delle risposte per vivere, rimane il ricorso alla creazione di un senso di sé

attraverso un confronto metaforico o reale con la morte. La prova procura

all’individuo un sentimento potente d’esistenza, una vibrazione di tutto il

suo essere teso verso lo sforzo o la sensazione inebriante del pericolo

superato” (Le Breton, 1995, in Codeluppi, 2007:41). Anche le ferite inflitte

volontariamente al corpo (come incisioni con coltelli, rasoi o pezzi di vetro,

scorticature, lacerazioni, bruciature, escoriazioni, ecc…) sono una forma di

resistenza ai problemi d’identità che gli individui incontrano nelle società

contemporanee. Negli Stati Uniti, sono circa tre milioni (quasi tutte donne)

che si autoferiscono per sentirsi paradossalmente più vive cercando di

ridurre le sofferenze psicologiche. Tali comportamenti richiamano alla

mente vere e proprie sedute di tortura e tali manifestazioni sono

proporzionali al “calvario interiore” che vivono i soggetti interessati. Nello

stesso tempo, facendo ricorso all’agire, l’adolescente crede di esercitare un

controllo sulle proprie emozioni. Dopo essersi espresso con tanta violenza,

il soggetto conosce generalmente un momento di calma, legata al fatto che

la rabbia interiore ha trovato uno sfogo (Pommereau, 1998:122). L’incisione

in realtà è un tentativo di autoguarigione, perché la vera sofferenza precede

il gesto che cerca di placarla. Dolore e lesione svolgono perciò una funzione

identitaria: questo rientra nel processo di apprendimento delle norme e di

continuo monitoraggio su se stessi, cosa che, coloro i quali vivono in una

condizione sociale di modernità avanzata, devono continuamente praticare

(Codeluppi, 2007:42).

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Una delle strategie odierne molto importanti di autopromozione è la pratica

di ricerca del partner, pratiche facilitate dal dating. Il termine significa

darsi appuntamento, ma anche vedersi, uscire per fare sesso o comunque

incontrarsi per vedere come va. Senza impegno e senza troppo

coinvolgimento (ibidem:54). I giovani non creano alcun tipo di problema se

devono incontrare sconosciuti in qualsiasi luogo, non maturano dubbi tali da

impedire loro di proseguire all’incontro. Molto spesso, incuranti, danno

informazioni anche molto personali riguardanti se stessi, i loro familiari o i

loro amici. Si comportano come se quell’incontro fosse avvenuto per caso.

Da tenere in considerazione è il fatto che oggi i contatti sono facilitati dalle

nuove tecnologie di comunicazione, come ad esempio i siti Internet di

social networking, come MySpace.com, che ha oltre 100 milioni di iscritti,

quasi tutti giovanissimi, i quali realizzano la loro pagina personale, con

notizie anagrafiche, commenti, foto e video. E’ una costruzione vera e

propria di una realtà virtuale personalizzata. Sempre più spesso il profilo si

amplia e può diventare un vero e proprio sito, a volte in collaborazione con

altri. Ad esempio, il sito Suicidegirls.com è fatto da quasi mille ragazze che

si esprimono esponendo il loro corpo senza veli. Per molte di loro spogliarsi

in Internet sta diventando quasi un rito di passaggio (ibidem). Forse perché

lo fanno davanti a un computer e non davanti persone in carne ed ossa. Ma

dal 1997 in America hanno iniziato a prendere piede i blog personali. Un

blog è più di una pagina personale, è una specie di diario sempre aggiornato

e aperto a tutti con pensieri, immagini, e qualsiasi cosa la persona che sta

dietro lo schermo desidera inserire. I blog raggruppano i contenuti per

persona, fornendo così agli individui un forte strumento di identificazione,

rafforza l’identità personale rispetto al processo di anonimizzazione

caratteristico della rete. In questo modo c’è la possibilità di un’apertura al

confronto e ad un arricchimento delle conoscenze possedute dalla società

nel suo complesso (ibidem:55). Internet, dunque, è lo strumento

preferenziale durante la crescita degli adolescenti e le nuove tecnologie, che

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sempre più continuano a svilupparsi, rafforzano le possibilità personali di

esprimersi e, perché no, di affermarsi in un contesto dove ciò appare sempre

più difficile.

3.5. I servizi

In questo mondo nascono e crescono figli, e in questo mondo dovranno

farsi largo una volta cresciuti. I bambini osservano. E apprendono. I

bambini prendono a cuore ciò che fanno gli adulti, i quali, dopotutto, sono

l’autorità e rappresentano il mondo. La famiglia è il principale care giver;

essa riveste un ruolo essenziale nella socializzazione primaria. Intorno alla

famiglia ruota un’ampia rete di rapporti primari, che rappresenta un punto di

riferimento centrale per soddisfare determinati bisogni. Viene da

considerare che la riscoperta delle reti sociali primarie, in una società ormai

mediatizzata, è collegata alla perdita di fiducia nei confronti del welfare

state, il quale ha riservato attenzione alla sfera informale anche come fonte

di risparmio, considerandola strumento adatto a sopperire ai tagli della spesa

pubblica (Serra, 2001:108). E’ pur vero che in un contesto come quello

prefigurato, che si muove rapidamente e in modo imprevedibile (forse), mai

come prima d’ora, sussiste il bisogno dei legami d’amicizia e di fiducia

reciproca che siano solidi e affidabili. Dunque si può e si deve parlare di

valori veri, autentici.

Non è raro, nell’attuale complessità sociale e istituzionale, perdere di vista

la natura globale della realtà, dei problemi delle persone. L’esigenza del

servizio sociale di tener fede ai propri valori e scopi di unitarietà e globalità,

ma nello stesso tempo di attrezzarsi con strumenti e tecnologie sempre più

sofisticate in linea con le esigenze della modernità, suggerisce soluzioni che

non solo mutano nel tempo, ma anche si diversificano a seconda della

sensibilità e dell’esperienza.

Gli adolescenti sono una categoria di persone che possono benissimo essere

definiti “il futuro”. La loro è un’età critica per tutti i motivi sopra analizzati

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e pertanto sono una fascia debole, che va e deve essere sostenuta. E’ per

questo che i malesseri e i disturbi del comportamento, soprattutto quelli che

persistono e si ripetono, non devono essere interpretati come semplici

manifestazioni di malumori o banali reazioni caratteriali, dovuti alla rigidità

o alla debolezza di principi educativi mal posti. In realtà, gli “scoppi

adolescenziali” rivelano situazioni familiari che erano esplosive da molto

tempo (Pommereau, 1998:187). Soli, con la famiglia o, se ce n’è bisogno,

con l’aiuto di uno specialista, molti giovani in crisi riescono a uscire dalla

difficile situazione nella quale li ha gettati questo o quell’incidente di

percorso. Numerosi sono gli specialisti che ben possono aiutare i ragazzi e

le loro famiglie, tra cui psicologi, medici, educatori e assistenti sociali e non

solo. Numerose sono le attività educative rivolte agli adolescenti e ai

giovani in tutte le province. L’aiuto principale viene dato dalla comunità,

dai volontari o educatori che seguono ragazzi problematici nel dopo scuola,

dalle associazioni sportive che intercettano i giovani più bisognosi e anche

dalla scuola. Dunque esiste un ampio settore che, se supportato anche da

professionisti, attraverso, ad esempio, corsi di sensibilizzazione o di

informazione, ben può rispondere ad esigenze particolari e fornire un certo

supporto. Prima di poter dare un aiuto concreto, però, è necessario che si

sviluppi una richiesta, una domanda.

Capita che gli adolescenti siano lasciati soli da genitori troppo impegnati a

lavorare e quello che fanno generalmente è frequentare il gruppo dei pari.

Durante l’esperienza di tirocinio presso il Servizio Sociale del Comune di

Jesolo, sono potuta venire a conoscenza di un servizio molto utile a

riguardo. Si tratta del Centro Giovani B.Y.C. nel quale l’assistente sociale

effettua mensilmente degli incontri con le educatrici di strada. Questa figura

professionale, poco conosciuta ma molto presente e attiva, ha il compito di

“girare per le strade” e “agganciare” i giovani. E’ un lavoro duro perché i

giovani, una volta in gruppo, tendono a chiudersi e a non far entrare

nessuno, pertanto utile è cercare di guadagnare la loro fiducia col tempo. Ma

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una volta che l’educatrice riesce ad entrare nel loro “mondo”, con la

pazienza e la costanza, diventa quasi facile scoprirlo. Gli adolescenti

iniziano a confidarsi un po’ alla volta, esprimendo dubbi, rabbie, incertezze,

paure, tendono a volersi fidare. E’ per tale motivo che questa professione

permette un contatto diretto con il giovane e la possibilità di evidenziare

eventuali criticità che posso essere discusse con l’assistente sociale di

riferimento creando progetto comune di aiuto, nell’eventualità che

l’adolescente e la famiglia siano disponibili in tale direzione e, nel caso lo

siano, si possono aprire una serie di possibilità per concretizzare l’aiuto.

Da ricordare è che l’assistente sociale aiuta le persone a sviluppare

autonomia nell’uso delle risorse sia personali che sociali, e contribuisce

direttamente a sviluppare, attivare, trasformare tali risorse. In altre parole

lavora perché le persone imparino ad usare autonomamente le risorse, e

attraverso tale uso sviluppino autonomia. Si vuole qui sottolineare il fatto

che spetta alle persone, adolescenti compresi, decidere da chi e da che cosa

dipendere per il loro stato di sofferenza. Naturalmente in riferimento a

problematiche di ordine non patologico.

Vale la pena compiere un breve approfondimento su quello che è il rispetto

e la promozione dell’autodeterminazione. Essa è un’espressione di libertà,

non intesa come assoluta, ma come capacità di saper usare della libertà. E’

“saper aiutarsi da sé”, ma molto spesso l’esperienza quotidiana degli

assistenti sociali è costellata di situazioni di deprivazione, di povertà anche

culturale, di problemi di disadattamento e devianza, che tendono a rendere

fragile la capacità e precario il diritto delle persone di autodeterminarsi.

Dunque se da un lato la capacità personale può e deve essere rafforzata,

dall’altro l’esigibilità del diritto può e deve realizzarsi rendendo disponibili

delle alternative reali affinché la persona possa fare una scelta di vita.

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CONCLUSIONI

Alla luce di quanto emerso, grazie a un’elaborazione di testi utili per

comprendere questo ampio argomento, sorgono ulteriori e interessanti

riflessioni sulle condizioni attuali e sui possibili risvolti futuri, sia per

quanto riguarda il tema dei comportamenti giovanili legati all’utilizzo dei

new media, parallelamente alla percezione del corpo, sia per quanto

concerne le professioni sociali.

Importante è tener conto del fatto che i giovani sono fonte di conoscenza

reciproca ma, molto spesso, si è più attenti a osservare fenomeni di bullismo

e comportamenti devianti, senza tener conto che, contemporaneamente,

esistono molti altri giovani della stessa età che, come risposta al vuoto senso

socio-politico e all’indifferenza di molto genitori, sono impegnati in attività

solidaristiche. E’ vero che le nuove tecnologie hanno in un certo qual modo

aumentato gli scambi comunicativi, ma è un peccato che oggi la società dei

consumi utilizzi le debolezze tipiche dell’età adolescenziale, aumentandole

anzi, per ingrossare il volume del portafoglio. Dunque è necessario puntare

su un’azione educativa volta ad ampliare lo spettro di possibilità di

sostegno. La scuola e le altre agenzie di socializzazione dovrebbero,

dunque, accompagnare gli adolescenti nel percorso di cambiamento in atto

nelle società ad opera delle tecnologie, indagando su come i cambiamenti

influenzano e condizionano i bisogni di identificazione delle nuove

generazioni. Diviene necessario individuare nuove strategie formative che

forniscano strumenti essenziali di orientamento in una realtà socioculturale

complessa. Infatti, oso sottolineare, che il rapporto naturale che i giovani

hanno sin dall’infanzia con le tecnologie comunicative non li preserva dal

condizionamento e dall’influenza che essi esercitano sul modo di vivere e di

comportarsi.

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In conseguenza dei processi di frammentazione e segmentazione e della

crescente diversità individuale e sociale, il rafforzamento della coesione

sociale e lo sviluppo di un senso di consapevolezza e responsabilità sociale

sono diventati importanti obiettivi della società e della politica. Sul posto di

lavoro, nel luogo dove viviamo e per la strada ci mescoliamo ogni giorno

con persone che non necessariamente parlano la nostra stessa lingua (in

senso metaforico o letterale) o condividono la stessa storia. In tali

circostanze le abilità di cui abbiamo bisogno, sia come persone che come

professionisti del sociale, sono quelle dell’interazione con gli altri (di

dialogo, di comprensione reciproca, di gestione o risoluzione di conflitti,

ecc…). E’ una sorta di requisito per l’idea di “dare pieni poteri –empower-

ai cittadini” (Bauman, 2006:142). L’empowerment si realizza quando gli

individui ottengono la capacità di controllare, o almeno di influenzare in

modo significativo, le forze personali, politiche, economiche e sociali che in

caso contrario costituirebbero ostacoli nella loro traiettoria di vita (ibidem).

In altre parole, essere empowered significa essere in grado di fare scelte e di

agire efficacemente in base alle scelte fatte, esprimendo la capacità di

influenzare l’insieme delle scelte disponibili e i contesti sociali in cui si

compiono e si attuano tali scelte. Dunque non si parla solo di abilità

personali, ma anche di poteri sociali. L’empowerment richiede la

costruzione e la ricostruzione dei legami interumani, la volontà e la capacità

di impegnarsi con altri in uno sforzo costante per fare della coabitazione tra

gli uomini il contesto ospitale di una collaborazione che arricchisca

reciprocamente coloro che lottano sia per sé stessi che per gli altri. Credo sia

questa l’ottica nella quale i professionisti del sociale devono lavorare, in

sinergia con tutti i servizi territoriali disponibili, attivando collaborazioni

per meglio sostenere i cittadini. Infatti ritengo che se non si è in costante

collegamento, sempre nel rispetto delle professionalità altrui, si rischia di

creare un progetto di aiuto settoriale e non globale, che di certo va a incidere

negativamente nella sfera del cittadino

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