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LA RISCOPERTA DEL QUARTIERE DEL SAS DI TRENTO

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Negli anni trenta del Novecento il centro storico di Trento subisce una significativa trasformazione: l’antico quartiere del Sas viene demolito per far posto a una nuova piazza voluta dal regime fascista, piazza Littorio, ora Cesare Battisti. Quello ‘sventramento’ si impone nel paesaggio urbano cittadino, produce un vuoto nello spazio e un vuoto nella memoria.

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La riscoperta deL quartiere deL sas di trento

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Fotografia aerea del quartiere del Sas prima della demolizione che ha consentito la costruzione della piazza del Littorio (ora Cesare Battisti). Nell’angolo in basso a destra è riconoscibile il campanile e il retro della facciata della chiesa di San Pietro, nell’omonima via.Biblioteca comunale di Trento, Fondo iconografico.

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a cura di elena tonezzer

La riscoperta deL quartiere deL sasdi trento

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MostraS.A.S.S. Spazio Archeologico Sotterraneo del SasPiazza Cesare Battisti, Trento

Apertura dal 25 aprile al 28 ottobre 2012Orario dal 24 aprile al 31 maggio: 9-13 / 14-17.30dal 1 giugno al 30 settembre: 9.30-13 / 14-18dal 1 ottobre al 28 ottobre: 9-13 / 14-17.30Chiuso il lunedìIngresso libero

Mostra realizzata dallaFondazione Museo storico del Trentino

Cura della mostra e del catalogoElena Tonezzer

Coordinamento organizzativoPatrizia Marchesoni Rodolfo Taiani Elena TonezzerDonatella Turrina

Direzione artisticaMicol Cossali Valentina Miorandi

Progetto espositivoMassimo Scartezzini, studiobbs, Trento

Progetto grafico della mostra, del catalogo e della promozioneDesignfabrik, Rovereto

Stampa del catalogoxxxxxx

AllestimentoProvincia autonoma di Trento tramite Servizio conservazione della natura e valorizzazione ambientaleSquadra logistica e allestimenti della FMsT Winsport

Realizzazione postazioni interattiveMichel Pedri

VoceDenis Fontanari

Percorsi di visitaCristina Pasolli

Si ringrazia per l’aiuto e la disponibilitàArchivio Diocesano TridentinoArchivio storico del Comune di TrentoBiblioteca comunale di TrentoServizio cultura del Comune di TrentoSoprintendenza per i Beni Storico-artistici della Provincia autonoma di TrentoSoprintendenza per i Beni Librari, Archivistici e Archeologici della Provincia autonoma di Trento

Mario AlbertiniQuinto AntonelliAlberto BrodescoBrunella BrunelliFranco CagolArianna CavalieriLivio CristofoliniEnzo CoppolaLaura Dal PràMarino DegasperiMonica DorigottiElda GiovanniniLuigina LunelliClaudio MarconiFabio MargoniGraziella MerzGiuseppe NiccoliniVeronica NicoliniLorenzo NicolodiMassimo NicolussiRoberto PaoliAlessandro PedrottiLorenzo PevarelloKatia PezziniBruno PieroniFrancesca RocchettiMirko SaltoriGianleo SalvottiFabrizio Tamè Caterina TomasiEduino TomasoniIvana TrentiniAnselmo Vilardi

ISBN: 978-88-7197-146-9© 2012 by Fondazione Museo storico del Trentino, TrentoÈ vietata la riproduzione anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

I lettori che desiderino informarsi sulla produzione editoriale della Fondazione Museo storico del Trentino possono consultare il sito internet www.museostorico.it e iscriversi nella home page al servizio di newsletter per ricevere via email le segnalazioni delle novità. È possibile anche scrivere a Fondazione Museo storico del Trentino, via Torre d’Augusto 41, 38122 Trento.

Via Torre d’Augusto 35/41 38122 Trento ItalyTel. +39 0461 230482 Fax +39 0461 1860127www.museostorico.it [email protected]

provincia autonoma di trentoSoprintendenza per i Beni Storico-artiStici

provincia autonoma di trentoSoprintendenza per i Beni LiBrari, archiviStici e archeoLogici

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7 Come un fantasma, il Sas Lucia Maestri

9 Quando la storia aiuta la memoria Giuseppe Ferrandi

12 Igiene pubblica e igiene sociale: come perdere un quartiere Elena Tonezzer

24 Trento e il Trentino negli anni del Ventennio Alessio Quercioli

36 Progettare una piazza: eliminare per costruire Sara Sbetti

48 Architettura e identità urbana: una riflessione sulla Trento del ’900 Giovanni Marzari

56 Le possibilità del vuoto: per una storia fatta di memorie imperfette Guido Laino

66 Bibliografia

70 Informazioni biografiche

72 Il percorso espositivo della mostra: il racconto di un luogo che non c’è Micol Cossali e Valentina Miorandi

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Una città è un progetto. Un progetto urbano, sociale, umano, di relazioni. Ogni epoca ha definito la propria immagine cercando di pianificare gli spazi e i volumi, la sua forma, in funzione di ciò che voleva rappresentare di sé. Ancora oggi si ritrovano tra le nostre vie i segni del nostro passato, dell’evoluzione del tessuto urbano di Trento, anche se alcuni li dobbiamo conservare solamente attraverso la memoria.Vuoto di memoria. La riscoperta del quartiere del Sas di Trento si propone di presentare alla città un brano del proprio passato: il quartiere noto come «Sas» demolito a seguito di un «risanamento» urbano e sociale, poco sensibile alle persone che vi hanno abitato, alle loro storie e più attento invece ad un’immagine: quella del regime fascista. La mostra, allestita nello spazio archeologico del Sas, ricostruisce il percorso di trasformazione proprio nei «suoi luoghi», scendendo nelle fondamenta di quello che fu il quartiere «Sas», trovando un ideale collegamento con un altro passato. La storia ci consegna le nostre origini, ci chiede di conservarle e di impegnarci affinché attraverso le proprie tracce venga tramandata alle future generazioni.

Lucia MaestriAssessore Cultura, Turismo e Giovani del Comune di Trento

Particolare di un vicolo del quartiere del Sas, prima della demolizione degli anni trenta del XX secolo. La fotografia ci restituisce la ristrettezza dei passaggi che attraversavano il quartiere. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellaneo 1.

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L’interesse della Fondazione Museo storico del Trentino per la città di Trento trova, con questa mostra, un nuova conferma: nel 2006 c’è stata la mostra Trento. Le sue forme, il suo ventre; poi i luoghi dimenticati (La città romanzo, Torre Vanga, 2008), i modi con cui gli abitanti della città hanno imparato le regole della civiltà dei consumi e del benessere (Boom! Istruzioni per l’uso, Palazzo Firmian, 2009) e infine si è ricostruito il passaggio alla modernità compiuto a fine Ottocento con lo studio di una via cittadina (L’invenzione di Via Verdi, Palazzo Calepini, 2010). Questa volta si esplora un quartiere scomparso.La mostra Vuoto di memoria. La riscoperta del quartiere del Sas a Trento fa compiere al visitatore un doppio salto, nel tempo e nello spazio. Conduce in ‘vie’ che si chiamavano ‘fossati’, nel labirinto di vicoli e cortili che riempivano quello spazio dove oggi si apre piazza Cesare Battisti. Tanti nostri concittadini hanno abitato quelle case che si decise di demolire negli anni trenta del ventesimo secolo: erano quasi seicento le persone che vivevano nel quartiere del Sas e che dopo lo ‘sventramento’ dovettero cercare un’altra sistemazione. La mostra colma quel vuoto di memoria in cui è caduto questo processo urbanistico e sociale della storia di Trento. L’esistenza di questa parte perduta della città è stata coperta dal manto del regime fascista che al suo posto ha edificato una piazza dove progettava di mettere in scena i rituali della dittatura. La cesura che l’operazione di distruzione (e ricostruzione) ha compiuto è stata così forte che il paesaggio urbano del presente, la piazza come la conosciamo ora, si è imposto sul passato. L’Archivio storico del Comune di Trento, quello fotografico della Soprintendenza per i beni storico-artistici e le memorie personali rintracciate vengono in aiuto al cittadino del ventunesimo secolo. Il lavoro degli storici, applicato al caso di studio del quartiere perduto del Sas, fornisce una risposta esemplare a chi si chieda qual è il senso di studiare la storia: per ricostruire, interpretare e consegnare a tutti quello che non c’è più. Allo stesso modo l’impegno della Fondazione Museo storico del Trentino per la città non si esaurisce negli interventi più tradizionali, come le mostre e le pubblicazioni, ma cerca di offrire aiuto e risposte a chi – associazioni, circoscrizioni, gruppi rionali – sia interessato a riflettere in modo consapevole sulla storia di Trento.L’impegno per la ricerca di forme di comunicazione scientifica sempre nuove è confermato anche nell’allestimento della mostra Vuoto di memoria, che si è avvalso di tecnologie multimediali e interattive e di professionalità provenienti dal mondo dell’arte e della comunicazione visiva, che hanno affiancato l’architetto e il grafico. Il catalogo si avvale di importanti collaborazioni nel campo della storia sociale, della storia politica e dell’architettura e aggiunge al caso dello sventramento del Sas le suggestioni provenienti dalla letteratura.

Giuseppe FerrandiDirettore della Fondazione Museo storico del Trentino

Fossato di San Simonino (ora del Simonino). Rispetto alla forma attuale si nota come la strada è molto più stretta. Il lato sinistro è ancora uguale a quello di oggi, quello di destra è stato demolito e ricostruito più indietro, per lasciare la via più ampia. Si notano le lavandaie con i loro secchi pieni di panni. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellaneo 1.

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Elena Tonezzer

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Le centinaia di fascicoli e di carte relative al «risanamento del quartiere del Sas» conservate nell’Archivio storico del Comune di Trento permettono di compiere un viaggio nel tempo e in un mondo dimenticato. I documenti, le lettere, le descrizioni degli edifici che si stavano per demolire, i verbali delle discussioni per definire l’intervento di

ricostruzione: sono tutte fonti che consentono di riascoltare voci di un passato non molto lontano nel tempo ma definitivamente perduto.Il regime fascista aveva fatto dell’idea dell’essere nuovo un punto fermo del suo eclettico programma ideologico e di conseguenza della propaganda: la Marcia su Roma del 1922 avrebbe inaugurato una nuova epoca, l’architettura avrebbe realizzato nuove città per costruire un nuovo cittadino italiano. La stampa e i cinegiornali presentavano Mussolini come un moderno imperatore romano, la cazzuola e i mattoni con cui viene immortalato non sminuiscono il significato che si voleva dare a questa immagine pubblica fatta di attivismo e di volontà di cambiamento: furono quasi 150 le città di nuova fondazione in Italia.Questa forte spinta alla manipolazione della realtà fisica del territorio va oltre le finalità economiche più immediate, che possono essere state l’impiego di una manodopera sempre più ampia, porre rimedio alla cronica carenza di infrastrutture pubbliche e di edilizia privata. L’intervento sulla forma urbana e sulle nuove costruzioni era uno dei mezzi di comunicazione messi in campo nel progetto di persuasione realizzato per diffondere i dettami della dittatura.Gli storici dell’architettura hanno documentato l’attenzione di Mussolini per gli architetti e i loro progetti, sui quali talvolta interveniva anche in prima persona con ‘suggerimenti’ e correzioni. A Roma, dove si concentrano le sue attenzioni, il dittatore ebbe al suo fianco soprattutto Marcello Piacentini, con il quale discuteva i progetti più importanti.Come scrive Paolo Nicoloso nell’introduzione al suo volume Mussolini architetto, la partecipazione sempre più attiva del Duce nell’architettura va di pari passo con il processo di totalitarizzazione del Paese, con l’accelerazione del progetto di realizzare l’uomo nuovo del Fascismo.Trento non è esclusa da questo intenso fermento progettuale e costruttivo. La città, all’indomani della prima guerra mondiale, si ritrova molto colpita dagli effetti dell’occupazione militare austriaca che l’aveva amministrata soppiantando le autorità civili dal 1915 al 1918. I reduci dai fronti e i profughi trovano al loro ritorno molte abitazioni danneggiate e distrutte, palazzi pubblici resi inagibili.L’unificazione al Regno d’Italia e la cancellazione dell’Impero austro-ungarico generano un riposizionamento della città che deve collocarsi e trovare una nuova identità politica nell’assetto istituzionale italiano. La questione del rapporto con Bolzano e con l’Alto Adige – annesso suo malgrado benché abitato da una popolazione di lingua tedesca – è complicato dalla mutevolezza dell’assetto territoriale. Nel 1923 fu istituita una provincia unica con Trento capoluogo; la divisione in due entità separate già nel 1927 venne vissuta come una penalizzazione della città. Bolzano negli anni trenta diventò il centro della politica di nazionalizzazione forzata dell’Alto Adige e per questo ricevette maggiori attenzioni da parte del regime rispetto a Trento: investimenti economici per attrarre manodopera italiana e investimenti simbolici ad opera di un architetto del calibro di Marcello Piacentini per marcare il territorio con i segni della dittatura e dell’italianità.

Gli «agglomerati miserandi» di Trento Il censimento del 1921 contò a Trento 34.700 abitanti, compresi i militari di stanza in città. Dieci anni più tardi la popolazione era aumentata di 10.000 unità: i residenti erano 44.934, un elemento che potrebbe essere considerato indice di una fase di espansione se non fosse contraddetto da altri dati. Il numero dei matrimoni e delle nascite contrasta la propaganda in favore della famiglie numerose, e se nel 1921 si ebbero 9.7 matrimoni ogni 1.000 abitanti, nel 1930 la percentuale era di 4.3; una diminuzione che va di pari passo con il numero dei nuovi nati, che passarono da 834 a 643.Secondo le cronache del quotidiano fascista Il Brennero del 17 agosto 1930, all’indomani dell’annessione all’Italia la città aveva accolto i suoi cittadini

«liberata ma non in condizioni igieniche per ristabilire la loro salute in questo dedalo di famigerati pozzi neri che ammorbano con le infiltrazioni il sottosuolo e colle esalazioni infestano interi quartieri formati da agglomerati miserandi di case prive di aria e di luce nonché umide di liquami ripugnanti».

La stampa del Ventennio è una fonte storica che ha molti limiti a causa della pesantissima censura a cui era sottoposta, ma è probabile che questa immagine fosse corrispondente al vero e non risentisse più di tanto della volontà di denigrare la vecchia Trento pre-fascista.

La fotografia è stata scattata durante i lavori di demolizione di una delle case del quartiere del Sas. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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Un ritratto divertente ma efficace di come doveva apparire (e puzzare) Trento nel 1920, ci viene da una strofa di una poesia satirica pubblicata sul periodico la Renga dell’8 ottobre 1921, intitolata Festeggiamenti:

«quando sua maestà con la regaleconsorte il piede metterà qui a Trentocolpito dall’olfatto da quel gentile lezzo di lorduradirà: che seccatura!per una cittadina come Trentonon esiste un pochin di fognatura!

Poscia con regal gesto,volto al non men augusto podestà:Spieghi perché, dirà,questo profumo orribile e indigestoche sfonda anche il diaframma non l’avean previsto nel programma?e l’altro: in fede miasire, l’han fatto per economia…»

Un opuscolo, edito a Trento nel 1890, intitolato Condizioni d’abitazione della città di Trento permette di trarre una quadro del tutto coerente con la descrizione che Il Brennero aveva fatto ben quaranta anni dopo. Una conferma della validità decennale di quella ricerca viene dal fatto che l’opuscolo, conservato presso la Fondazione Museo storico del Trentino, riporta anche gli appunti a mano di Cesare Battisti, che evidentemente lo considerava ancora uno strumento conoscitivo valido all’inizio del Novecento. Al di là della costruzione, nel 1926, della fognatura, è probabile che la condizione generale delle abitazioni della città fosse rimasta quasi immutata da quella ricerca della fine del diciannovesimo secolo, e che le case del Sas descritte alla fine dell’Ottocento non fossero molto diverse da quelle abitate anche quarant’anni dopo.I dati del 1890 riportano una divisione del centro della città in quattro parti, in base alla qualità della abitazioni: la zona del Sas, le vie dietro le mura vicine a piazza di Fiera, San Martino e la Portela (distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale) rientrano in quella peggiore, la quarta. Vi abitavano 3331 persone, con la maggiore densità per abitazione della città e il minore numero di latrine disponibili, 172 (rispetto alle 226 della zona migliore).

La vignetta pubblicata nel 1922 mette alla berlina i difetti del centro storico di Trento: i carri che trasportano le botti cariche dei liquami dei pozzi neri, i topi e in generale la scarsità di igiene pubblica. Il disegno è ambientato nell’attuale piazza Mario Pasi (si riconosce la fontana), che allora era intitolata a Cesare Battisti. La Renga, Trento, 11 marzo 1922.

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Il quartiere stretto dalle vie del ‘giro al Sas’– via San Pietro, via Manci, via Oss Mazzurana, via Oriola – era attraversato da due vicoli principali, chiamati Fossati, quello del Teatro e quello del Simonino, e si presentava composto da edifici antichi, che sfruttavano lo spazio in altezza, addossati gli uni agli altri, uniti da archi, portici, stanze sospese, separati da stretti vicoli e piccoli cortili interni. Qualcosa di simile può ancora essere visibile nei vicoli che da via Manci portano in via Torre Verde: Vicolo del Vo’ e all’Adige. Non sorprende che i dati relativi alla condizione delle corti e dei portici delle case confermino l’immagine di una parte di città fortemente segnata dalla mancanza di igiene anche negli spazi aperti: dei 41 cortili e portici «puzzolenti» identificati in tutta la città, ben 22 si trovavano nella ‘famigerata’ quarta zona. Anche la maggior parte delle case composte da una sola stanza, la cucina, si trovava in questi quartieri, che invece non presentavano nessuna abitazione «signorile» e «molto agiata». Va da sé che il numero dei gabinetti fosse il minore in quantità e il peggiore per qualità: addirittura 23 abitazioni erano del tutto sprovviste di «cesso».L’acqua potabile arrivava nel quartiere del Sas tramite le fontane pubbliche. Le statistiche del 1890 riportano che la fontana posta nel Fossato di San Simone (l’attuale via del Simonino) serviva 715 persone che non avevano altra forma di approvvigionamento; quella in Fossato del Teatro, dove all’interno di un palazzo si trovava anche un pozzo, era utilizzata da 281 cittadini.Dati come questi fanno capire perché l’idea di demolire il Sas, il cuore del centro storico della città, non fosse nato improvvisamente nel clima voluto dal regime fascista. Nei Verbali del consiglio comunale di Trento si legge che Francesco Larcher aveva proposto l’idea di demolire il Sas già il 3 dicembre 1892, quando disse che

«tutti sanno che l’isola di fabbricati compresa fra le vie San Pietro, Oriola, del Teatro e Lunga [l’attuale via Manci, n.d.a.] è quella che presenta il maggiore agglomeramento, e che nel suo centro ha molte case malissimo costruite, e peggio ventilate. […] Tosto una simile opera di sventramento – forse meno difficile di quello che sembra di primo acchito – fosse decretata, differendo di due o tre anni l’esecuzione, si potrebbe essere certi che per iniziativa di molti dei costruttori che abbiamo in paese verrebbero approntate le abitazioni necessarie a raccogliere coloro che ora trovansi nelle case demolite».

Un momento del fossato di San Simonino (ora via del Simonino). Si notino i negozi contrassegnati dalle insegne, esempi della vita economica del quartiere.Il Simonino, a cui era dedicato questo fossato, ricordava la storia di un bambino di nome Simone che si affermava fosse stato ucciso nella Pasqua del 1475 da alcuni ebrei che vivevano in città. Gli storici hanno ricostruito i fatti del processo che seguì il ritrovamento del piccolo corpo: durante gli interrogatori le confessioni furono estorte con la tortura e la comunità israelitica venne ingiustamente perseguitata e cacciata da Trento. Il culto del Simonino è stato sospeso nel 1960, quando la verità fu ripristinata e l’appellativo di santità tolto anche dal nome attuale della via.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellaneo 1.

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L’obiettivo proposto da Larcher era quello di offrire alla città «un mercato degli erbaggi comodo, spazioso, centrale e coperto», una piazza insomma, proprio quella che sarebbe stata realizzata quarant’anni dopo.Nonostante i miglioramenti dovuti alla costruzione della fognatura nella seconda parte degli anni venti del Novecento, il centro storico di Trento rimase per alcuni versi medievale dal punto di vista igienico. La giustificazione più importante e citata per procedere nella demolizione del quartiere del Sas – ma erano candidate anche le Androne, vicino alla piazza di Fiera – erano le condizioni abitative dei residenti e l’alta incidenza delle malattie infettive mortali, prima tra tutte la tubercolosi.È ancora Il Brennero a fornirci una descrizione che, pubblicata il 21 agosto 1926, non è molto dissimile da quella edita nel 1890: ancora una volta si parla di case addossate le une alle altre, di locali bui, senza aria e soprattutto «la latrina in diretta comunicazione con la fogna e senza chiusura idraulica, è situata sempre vicina alla cucina se non nella cucina stessa»1.Nel progetto depositato in Municipio nel 1930 dagli ingegneri Emilio Gaffuri e Guido Segalla, ci sono espliciti riferimenti alla tubercolosi, vi si legge che gli anni 1919-1920 i morti nel quartiere erano stati 42 e gli ammalati 66. Numeri impressionanti, che però vanno soppesati con attenzione perché fanno riferimento a dieci anni prima della decisione del Comune di procedere allo sventramento: prima della costruzione delle fognature e raccolti immediatamente all’indomani della conclusione della Grande Guerra e del ritorno a Trento dei soldati e dei profughi, un momento molto delicato e difficile da ogni punto di vista. Indubbiamente le condizioni igieniche registrate dalle commissioni che svolgevano i sopralluoghi per gli espropri evocano situazioni che ai nostri occhi appaiono invivibili. Una casa in via Malpaga era un

«fabbricato in muratura di pietrame di vecchissima costruzione con contorni dei fori in pietra, pavimento dell’andito in ciottolato sconnesso, scale, pianerottoli e parapetti in legno cadenti e molto usati. Solai in travature di legno che presentano notevoli cedimenti. Tetto con coppi e lastre d’ardesia […]. Pavimento in tavole di abete nelle stanze, in mattonelle di cotto e lastre d’ardesia nelle cucine. Tutti i pavimenti deperiti in particolar modo quelli delle cucine. Infissi semplici di finestre, scuri a tavolare in parte mancanti, porte rustiche in gran parte sconnesse. Manca l’installazione di acqua. Esiste impianto di luce elettrica a treccia libera […] con pochissima aria e luce proveniente da due vicoli strettissimi sulle due fronti, ne restano completamente prive tutte le cucine. Le latrine, con condutture e fogne guaste nel giro scala, contribuiscono a rendere questa casa un vero focolare di malattie pestilenziali»2.

Tubercolosi. La mappa è conservata nel progetto depositato nell’Archivio storico del Comune di Trento da Emilio Gaffuri e Guido Segalla nel 1930. Lo scopo della piantina è mostrare la diffusione della tubercolosi nel quartiere del Sas. La situazione è drammatica e contribuisce a giustificare il progetto di demolizione, ma i dati sono risalenti a dieci anni prima e ritraggono il quadro del periodo immediatamente successivo alla fine della Grande Guerra, quando erano appena rientrati i reduci e i profughi.Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T. 252, Fasc. 11, tavola 1.

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Ci sono anche edifici conservati meglio, come quello al numero 15 in Fossato del Teatro,

«riattato e sistemato nel 1912. Stipiti in pietra, solai e travatura in legno. Scala in pietra di larghezza 80 cm con ringhiera in ferro. Pavimento in terrazzo alla veneziana e tavolette in cemento al piano terra, in tavole d’abete per le stanze d’abitazione e tavolette in cemento per le cucine e le latrine. Serramenti delle finestre e porte semplici, in abete, verniciate e in buone condizioni. […] Latrine non a acqua ma illuminate e ventilate dall’esterno. Installazione di luce, gas, e cucine economiche in cappa».

Per lo più si trattava di edifici malandati, quasi tutti ipotecati, che non ricevevano cure da molti anni, abitati da inquilini e solo in rarissimi casi dai proprietari.Le relazioni delle commissioni che dovevano decidere gli espropri, i documenti che più di ogni altro ci portano dentro quelle case poi abbattute, sono fonti storiche prodotte dagli stessi soggetti che avevano interesse a dare forza alla necessità di procedere con il progetto di demolizione: il Municipio, che aveva perorato l’idea, gli ingegneri Gaffuri e Segalla, che stavano per realizzarla. Le relazioni possono dunque peccare di negatività, aver enfatizzato le carenze e dato poco peso agli aspetti funzionanti delle case.Che le condizioni del Sas fossero gravi è fuori dubbio, ma non erano certo circoscritte solo a quella zona. Il problema della condizione abitativa della città di Trento era molto più esteso e forse la zona che si è demolita non era, da questo punto di vista, neanche la peggiore. Tra una carta e l’altra degli stessi documenti relativi al procedimenti del Sas, si trova un foglio sparso, una relazione dell’Ufficio d’igiene del Comune mandata al podestà il 15 aprile 1930, che descrive le Androne di piazza di Fiera come

«un agglomerato di 29 case, le quali – ad eccezione di 3 o 4 – «sono di antica data, completamente addossate le une alle altre senza cortili interni che favoriscano l’aerazione e l’illuminazione degli ambienti. […] In 12 case troviamo stanze senza finestre, altre case hanno le cucine prive di aria e di luce; quasi ciò non bastasse furono ricavate abitazioni nel sottotetto in 7 case. Le latrine poi sono sotto ogni critica: situate in massima parte sul giro scale, esse mancano naturalmente di finestra, mentre d’altro canto ammorbano l’interno della casa colle esalazioni provenienti dalla fogna. Peggio ancora: in 16 case una sola latrina serve per più appartamenti (per 4 e perfino per 7) anche in differenti piani».

Il quadro non è dissimile dal Sas, forse peggiore:

«In due appartamenti la latrina si trova semplicemente in un armadio situato in cucina. Altre due case hanno latrine sul giro scala ricavate in una piccola nicchia nel muro, talmente piccola che quando qualcuno occupa la latrina deve

Vignetta che deride le condizioni degli inquilini che abitano in affitto a Trento. Ride Rode, Trento, 20 settembre 1920.

Il progetto depositato in Municipio nel 1886 permette di capire come funzionavano i pozzi neri. In questo caso si tratta di una casa che chiedeva di costruire una cisterna per contenere i liquami del gabinetto, che fino a quel momento venivano scaricati direttamente della roggia del quartiere del Sas. Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento austriaco, Progetti piccoli lavori di edilizia privata, ACT3.25-29.1886.

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necessariamente restare aperta la porta! Abbiamo visto che queste case sono costruite con sistema continuo, esse hanno un solo lato libero aperto sulla via, dalla quale possono ricevere luce e aria. Ora bisogna però notare che le vie di cui si tratta corrono da oriente a occidente quindi in direzione perpendicolare a quella dei venti dominanti. A ciò si aggiunga che tutto il lato a mezzodì è mascherato dalle mura di piazza Fiera, altissime, di modo che tutte le case prospicienti la via dietro le mura sono prive di luce e sole»3.

Dietro la scelta di demolire il quartiere del Sas c’erano progetti di lungo corso, come si è visto dalla proposta di Francesco Larcher già del 1892. Forse era una zona che aveva una valenza simbolica particolare, una specie di cuore storico da estirpare per cominciare una nuova era (quella fascista), e probabilmente risentiva anche dei più forti interessi economici dei proprietari. È ipotizzabile che se non fossero intervenute la seconda guerra mondiale e la fine della dittatura il progetto del rinnovo della città sarebbe proseguito con la demolizione di altri quartieri, come le Androne o la Portela.L’igiene di cui tanto si parla nei documenti non è solo di carattere medico-sanitario, non è sintomo di un’attenzione genuina e disinteressata per le condizioni di vita dei ceti meno abbienti e del tutto poveri. L’igiene a cui si fa riferimento aveva un’accezione sinistra perché era affine a un’idea di pulizia che travalicava dal linguaggio medico per arrivare a quello politico e sociale. Il Riassunto dell’opera svolta nel quinquiennio 1929-1933 pubblicato dal Consorzio provinciale antitubercolare di Trento colpisce per i dati statistici che riporta ma anche per il lessico adottato, che segnala la lunga vita dei propositi igienisti degli urbanisti ottocenteschi, che riemergono mischiati ai progetti politici razzisti e totalitari del Fascismo. A pagina 19 si legge, ad esempio, che:

Demolizioni. La mappa permette di vedere l’impatto delle demolizioni sul tessuto urbano esistente. Complessivamente furono abbattuti 27 edifici, altri furono parzialmente toccati dall’operazione urbanistica. Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T. 252, Fasc. 11, tavola 2.

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«le condizioni miglioreranno indubbiamente con i lavori di risanamento e sventramento che si iniziano in questi giorni in uno dei rioni più malsani della città, la località del Sas, […] dimostrando con statistiche alla mano il pericolo, che incombeva sulla città, se non si fosse provveduto a stanare gli abitanti da quelle infette catapecchie».

Abitanti che si stanano come bestie feroci o come bacilli infetti, non come vittime della povertà e della scarsa cura dei proprietari di quelle abitazioni. Più oltre si legge anche che:

«il piccone demolitore non deve sostare […]. Non esiste mezzo migliore di questo per estirpare la miseria fisica e morale di certi strati della popolazione, i quali portati all’aria, alla luce, in abitazioni umane, si riprenderanno oltre che nella salute, anche nello spirito per la riguadagnata dignità di se stessi». [corsivi aggiunti]

Un proposito che si sarebbe dovuto sposare con una politica di edilizia popolare che invece non viene confermata dai documenti ritrovati. Al momento delle demolizioni il quartiere del Sas era abitato da 176 famiglie: 591 persone, uomini, donne e bambini, che affollavano i vicoli e animavano le case4.È probabile e comunemente accettato che parte di queste famiglie si siano trasferite nelle case popolari che erano state costruite dal Comune all’indomani della guerra in via Muredei e in via Veneto, ai ‘Casoni’ e al ‘Vaticano’. Quest’ultimo grande complesso era stato progettato da proprio dalla coppia Gaffuri e Segalla nel 1921. Collocati in una posizione isolata dal centro abitato

Ricostruzioni. Questa mappa mostra quello che doveva essere il risultato del progetto di Gaffuri e Segalla. Al momento delle demolizioni il quartiere era abitato da 176 famiglie, circa 600 persone che dovettero trovare una nuova sistemazione. Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T. 252, Fasc. 11, tavola 3.

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che in quegli anni era ancora molto ristretto, ‘Casoni’ e ‘Vaticano’ rappresentavano un progetto decisamente sproporzionato alle reali necessità della popolazione e che negli anni trenta erano ancora in parte disabitati. Non si hanno notizie ufficiali degli inquilini del Sas, che, non essendo stati i proprietari degli appartamenti, godevano di pochi diritti. Alcuni testimoni, intervistati nel corso del 2012, hanno raccontato che le loro famiglie si trasferirono in altre zone limitrofe e altrettanto povere del centro storico, come in via del Suffragio. Il linguaggio medico-chirurgico non compare solo nei documenti ufficiali ed era usato comunemente anche dalla stampa di regime. Il 13 dicembre 1930 il quotidiano Il Brennero, a proposito dell’intervento che si stava profilando al Sas, titolava «Tumore e bisturi», spiegando che «Trento […] sente il bisogno e ha il dovere di guardare le parti del suo corpo più logore, stracche e incancrenite per abbattere e ricostruire i fabbricati». Il governo fascista – continua l’articolo – aveva predisposto i piani urbanistici in quelle città che come Trento «annoverano ancora quartieri nei quali non dovrebbe essere permesso di abitare perché veri focolai di infezione e d’immoralità che urtano con il sentimento civile dei tempi nostri». Anche in questo caso malattia fisica e morale vanno di pari passo, un tumore uguale che secondo questa ottica avrebbe potuto trovare soluzione solo con la sua estirpazione. Come i dissidenti venivano mandati lontano, al confino, gli omosessuali imprigionati, i ‘pazzi’ rinchiusi nei manicomi, tutto ciò che era ‘diverso’ dal cittadino ideale del Fascismo, in questo caso il povero, andava rimosso. Il termine utilizzato in quegli anni per indicare la procedura di demolizione di intere parti dei centri storici italiani è ancora più espressivo: sventramento. In questo caso l’accezione medico-chirurgica è sostituita da un lessico militaresco.

Veduta del Fossato di San Simonino (ora via del Simonino). Le due principali stradine che attraversavano il quartiere del Sas si chiamavano ‘fossati’: quello del Teatro e del Simonino. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio fotografico.

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Sussurri di un dissenso impossibile L’equazione povertà uguale malattia (fisica e morale) era coerente con un’altra equazione, che voleva la malattia sinonimo di devianza. Secondo questo modo di procedere, estirpare la povertà, che non significava risolverla ma piuttosto spostarla altrove, avrebbe comportato anche l’eliminazione di fenomeni di devianza sociale, una categoria molto estesa in una dittatura come quella imposta da Mussolini e dai suoi gerarchi, e che comprendeva qualsiasi forma di disaccordo al regime. Le descrizioni degli ingegneri e dei medici dipingono il Sas come un covo di germi, oscuro, malato; ma ci sono anche altre versioni della vita del quartiere. La densità della vita sociale nel Sas doveva essere alta almeno quanto quella abitativa. Non mancano le allusioni al quartiere come luogo di divertimento, di socialità, e alla presenza della prostituzione. Nel marzo del 1923 il giornale satirico fascista L’argomento aveva pubblicato un articolo dedicato alle presenze femminili nel quartiere, sostenendo che nessuno sarebbe riuscito a togliere l’abitudine a fare un giro al Sas perché i trentini erano ligi alle tradizioni, qui intese come l’abitudine alla frequentazione dei postriboli: «e più ligi alle tradizioni degli studenti non si può esser. Come per questi non morrà mai il motto ‘Bacco, tabacco e venere’, così non morrà mai per quelli il celebre Sas».

Ride Rode. Copertina del periodico satirico di Trento Ride Rode, espressione della Lega degli inquilini. Il disegno punta il dito contro i tre periodici locali, che non avrebbero dato importanza alle condizioni di vita e ai diritti degli affittuari. Il signore elegante che legge La Libertà, espressione del partito liberale, dice «poco male!»; il Trentino, legato al partito popolare, è tenuto in mano da un prete che esclama «fate vobis»; il fascista in camicia nera che tiene sotto il braccio Il Brennero, dichiara «me ne frego». Lo squalo sul carro che sta per investire l’inquilino rappresenta il padrone di casa.Ride Rode, Trento, 15 ottobre 1921.

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È quasi impossibile trovare tracce di dissenso rispetto al progetto della demolizione, la cappa di controllo esercitata dalla polizia sicuramente impediva le discussioni pubbliche. Constatazioni come questa: «è pacifico che, se ai provvedimenti per la salute della razza devono guardare gli Enti pubblici, è pur vero che al cittadino incombe l’obbligo di non ostacolare tali provvedimenti», letti sul quotidiano Il Brennero il 13 dicembre 1930, nel clima della dittatura assumono il tono di ordini perentori di accettare le decisioni senza metterle in nessun modo in discussione.Ci sono poche tracce di dispiacere per quanto si stava per perdere, per quello spaccato di vita sociale che stava per frantumasi ed esplodere in mille frammenti nel resto della città. Una emerge da un giornale satirico, En giro al sas soto le feste, numero unico del dicembre 1930.Sulla prima pagina, il monologo iniziale in dialetto comincia così:

«Gò sempre in testa mé pòro nono quando ’l me menava a spass… ’L me diseva sempre che la piazza del San Marc, la Basilica de San Pero, ’l Dom de Milan e tante bele robe, che adess nò le me vèn ’n testa, l’è gnent in confront al ‘Giro al Sas de Trent…»5.

Nonostante questa bellezza però «gh’è zent che à girà ’l mondo e che ten ’l ‘Giro al Sas’ per de men che gnent»6. L’autore non si capacita di questo disprezzo, perché la città senza il Sas e il suo giro (nel senso di girarci intorno ma anche di attraversarlo) non avrebbe avuto più luoghi di incontro: «e come podressela la zoventù a trovarse la morosa se svanissesa ’l ‘Giro al Sas’? … Guai, digo, se ’l ‘giro’ i gavessa da tocarlo, perché saria ’n pecà: l’è el pù bel cinematografo de Trent»7: senza il giro al Sas tanto varrà andare sul Doss Trento (dove non c’era ancora il mausoleo di Cesare Battisti) in compagnia dei caprioli! – conclude il monologo –.Nonostante gli entusiastici articoli della stampa quotidiana e del mensile Il Trentino, espressione della Legione Trentina – che raccoglieva i volontari trentini che avevano combattuto la Grande Guerra nell’esercito italiano – i mugugni e le mezze parole per la demolizione del Sas probabilmente non mancavano. La stessa forza di questo giubilo proclamato può essere direttamente proporzionale alla necessità di coprire un dissenso diffuso. Questione che traspare da qualche accenno anche sul Brennero il 13 dicembre 1930, quando si legge che a proposito degli ‘sventramenti’ va fatta prevalere la ragione igienica e della sanità della razza e sacrificato quanto è discutibilmente artistico o pittoresco, se malsano.A qualcuno però doveva proprio dispiacere questa distruzione di edifici, di spazi sociali e di relazioni umane. L’11 aprile 1938, quando l’opera di demolizione era ormai conclusa, il podestà scrisse una lettera in cui dichiarava di accogliere la proposta di molti cittadini e di alcune non specificate autorità di apporre degli affreschi nel portico del Teatro Sociale che si apriva sulla nuova piazza. Immagini che dovevano perpetuare la memoria di alcuni punti del quartiere del Sas, ormai perduto. Nella lettera si legge che lo scopo era ricordare «l’opera compiuta dall’amministrazione comunale per

A sinistra: Fossato di San Simonino (ora via del Simonino), visto da largo Carducci. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo fratelli Pedrotti.

A destra: la fotografia ritrae il sottoportico passaggio della Veronetta e alcuni abitanti del quartiere del Sas. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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risanare il centro cittadino»8, ma in realtà le illustrazioni che vengono realizzate non commemorano tanto l’impresa dello sventramento ma piuttosto propongono ai passati un memento di quello che si trovava in quello spazio fino a pochi anni prima.Quello che successe in città fu davvero un cambiamento notevole. La demolizione del quartiere del Sas modificò in maniera radicale l’aspetto del centro storico, che cambiò in modo rilevante. Al suo interno, proprio dove la densità delle case era maggiore, si aprì un vuoto, uno spazio che si stava per caricare di significati politici perché la stessa forma degli edifici avrebbe rappresentato il progetto politico della dittatura: edifici che dovevano rappresentare forza, la rigidità, richiamare il passato imperiale, portare la luce dove fino a poco prima aveva regnato l’oscurità dei vicoli. È sempre Paolo Nicoloso – nell’epilogo del suo libro dedicato alla propaganda e al paesaggio urbano nell’Italia fascista – che sottolinea come queste architetture siano entrate gradatamente nel patrimonio culturale della nazione, perché l’identità degli italiani si è costruita anche attorno a quei luoghi progettati per ricordare il mito della potenza fascista, che Mussolini ha voluto erigere per educare ‘fascistamente’ la nazione. Piazza Cesare Battisti è entrata nel paesaggio urbano ed è diventata uno spazio da condividere obbligatoriamente, deciso dal regime per trasmettersi e radicarsi nelle masse, che ha aperto un vuoto di memoria su quanto c’era prima di questa trasformazione.

Piazza del Littorio. La fotografia di questa cartolina è stata scattata prima del 1945, quando la piazza era appena stata terminata. Biblioteca comunale di Trento, Fondo Iconografico.

1 «Col fervore delle sue opere il Commissario Prefettizio on. Gianferrari traccia la via all’Amministrazione Comunale». Il Brennero. Trento, 21 agosto 1926.

2 Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T 252/3 risanamento del Sas, espropriazioni K-Z.

3 Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T 252/9, risanamento Sas progetti e varie. Teca Ciani.

4 Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T 252/3 risanamento del Sas, espropriazioni K-Z, t. ‘Sas’ f.lli Nicolini.

5 «Ho sempre in testa il mio povero nonno quando mi portava a passeggio… Lui mi diceva sempre che la piazza di San Marco, la Basilica di San Pietro, il Duomo di Milano e tante belle cose, che adesso non mi vengono in mente, sono niente in confronto al giro al Sas di Trento…».

6 «C’è gente che gira il mondo e considera il Giro al Sas meno di niente».

7 «E come potrebbe la gioventù di Trento trovarsi una fidanzata se sparisse il giro al Sas? Guai a chi dovesse toccare il giro, perché sarebbe un peccato; è il più bel cinema di Trento».

8 Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T 252/6, risanamento Sasw pavimentazione, fognature, mosaico-graffiti del Teatro Sociale.

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Alessio Quercioli

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Gli inizi Ci fu anche il trentino Alfredo Degasperi tra quanti aderirono prontamente alla fondazione dei Fasci di Combattimento, in Piazza San Sepolcro a Milano, il 23 marzo del 1919. Degasperi, direttore e animatore del periodico «Italia Alpina», prima della guerra aveva creato la rivista «La Voce Trentina», vicina a quella di Prezzolini, tentò

senza successo di far aderire al nuovo movimento l’associazione dei volontari della Grande Guerra, la Legione Trentina, che invece scelse di smarcarsi rivendicando «apoliticità» e autonomia1. Nonostante la posizione ufficiale della Legione, i reduci furono certamente tra i protagonisti della costituzione di un Fascio d’Azione a Trento, proprio nella sede dell’associazione, il 29 luglio 1919.Ispirato naturalmente a quello sansepolcrista, il programma dei Fasci trentini era però caratterizzato da un anticlericalismo esasperato e violento che, dopo un apparente consenso iniziale, alienò al movimento gran parte delle simpatie degli ambienti irredentisti.L’8 novembre si tenne il primo congresso dei Fasci trentini: un evento che, paradossalmente, rappresentò il canto del cigno per il nuovo movimento, di per sé già debole e inconsistente, e che non sopravvisse alla profonda crisi che, a livello nazionale, attraversò il Fascismo dopo le fallimentari elezioni dell’autunno 1919. Dopo questo momento il fascismo politicamente organizzato fu assente dalla politica trentina fino al gennaio del 1921 quando Achille Starace, direttamente designato dal futuro Duce, si occupò di creare una nuova federazione.Mussolini aveva indicato chiaramente i primi obiettivi che l’ex bersagliere avrebbe dovuto conseguire nel corso della sua ‘missione’ trentina e cioè «lo sfasciamento di ogni forma, anche esteriore, che ricordi la monarchia austroungarica»: lo scioglimento del gruppo politico cattolico-liberale Deutscher Verband, la deposizione immediata sia del Commissario generale civile per la Venezia Tridentina, Luigi Credaro, sia di Francesco Salata, responsabile dell’Ufficio centrale per le Terre Redente e la creazione di una provincia unica con sede a Trento; infine l’italianizzazione del Sud Tirolo (o Alto Adige, come verrà chiamato), la negazione delle autonomie e lo scontro aperto con il governo centrale. L’interesse della lotta politica fascista era rivolto al Sud Tirolo, con il Trentino a fare quasi da retrovia e relegato a un ruolo di secondo piano. In questa seconda fase il Fascismo portò con sé anche lo squadrismo e la violenza che, tuttavia, almeno nei primissimi tempi, si realizzarono più che altro nella cancellazione di scritte bilingui in Sud Tirolo e in una violenta azione provocatoria contro una manifestazione sudtirolese a Egna. Il primo grave atto di violenza si ebbe comunque presto, il 24 aprile del 1921, a Bolzano. In città la Camera di Commercio locale aveva organizzato una Fiera campionaria e un corteo in costume tradizionale, per esprimere il consenso della popolazione al plebiscito per l’annessione del Sud Tirolo alla Germania, che era stato indetto a Innsbruck proprio quel giorno. Squadre fasciste trentine, supportate da camicie nere venete, lombarde ed emiliane, si diedero appuntamento a Bolzano per impedire che la popolazione potesse recarsi a votare proprio nei locali della Fiera e lo stesso Starace prese il comando delle ‘operazioni’. Durante la sfilata del corteo iniziarono gli scontri, furono esplosi numerosi colpi di pistola e vennero lanciate anche alcune bombe a mano. Circa venti giorni dopo questi gravi fatti, il 15 maggio, trentini e sudtirolesi furono chiamati per la prima volta alle urne come cittadini italiani. In Sud Tirolo il Deutscher Verband ottenne un vero e proprio plebiscito con quasi l’ottanta per cento dei voti, mentre in Trentino si imposero i Popolari. Diversamente da quanto accadde nel resto del Paese, i fascisti non formarono un’unica lista con i liberali in segno di opposizione nei confronti del candidato liberale Adolfo de Bertolini, accusato di aver mostrato soltanto tiepidi sentimenti di italianità durante la guerra. Fascisti, socialisti riformisti, ex «fiumani» e Lega dei Contadini si riunirono in un eterogeneo cartello elettorale denominato «Blocco economico» e che, specie nelle città, ebbe un risultato assolutamente fallimentare.Nel gennaio del 1922 si tennero le prime elezioni comunali dal 1914 e le ultime fino al secondo dopoguerra. Nel capoluogo trentino divenne sindaco il liberale Giovanni Peterlongo, eletto grazie a un accordo tra liberali e popolari, anche se furono i socialisti a conquistare il numero maggiore di seggi. Anche a Rovereto il sindaco fu un liberale, Silvio Defrancesco: i popolari avevano ottenuto la maggioranza relativa, seguiti dai liberali, dalla lista «Rinnovamento» di Antonio Piscel e dai socialisti. I fascisti, a Trento come a Rovereto, erano uniti ai liberali ma il loro peso fu assolutamente esiguo e quasi nulla la loro influenza nell’amministrazione comunale. I tempi stavano però per cambiare.

Marcia su Roma e dintorni In maniera piuttosto improvvisa, nell’autunno del 1922 i fascisti alzarono il tiro mirando a radicalizzare lo scontro in Alto Adige. Il 28 settembre, non avendo ottenuto prova di disponibilità da parte del Comune, inviarono un vero e proprio ultimatum di quattro giorni al municipio bolzanino e, nella notte tra il 30 settembre e il primo ottobre, oltre un migliaio di camicie nere si radunarono a Bolzano pronte a entrare in azione. La mattina, guidati da Starace, un gruppo di quindici fascisti occupò una scuola elementare tedesca grazie anche alla mancata resistenza di

Celebrazioni per il ventennale della conclusione della Grande Guerra, nel 1938. L’enorme manifesto posto sulla facciata del teatro Sociale, verso l’attuale piazza Cesare Battisti, raccogli i nomi dei volontari trentini caduti nella guerra di Etiopia, nella Grande Guerra e nella guerra di Spagna.Trentino, a. 14, n. 11, novembre 1938.

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tre pattuglie di carabinieri e, nel pomeriggio del giorno successivo, gli squadristi si installarono nel palazzo del municipio. Il 3 e 4 ottobre l’attenzione delle camicie nere si spostò su Trento dove vennero occupati il Palazzo della Provincia e il Palazzo del Governo, ancora una volta senza che venisse fatta opposizione da parte di soldati, carabinieri e guardie regie. Il commissario generale Credaro, ormai screditato agli occhi dell’opinione pubblica e sostanzialmente esautorato, rimise i suoi poteri nelle mani dell’autorità militare e lasciò la regione. Il 10 ottobre il Governo chiuse il Commissariato generale e l’Ufficio centrale per le Terre Redente e, una settimana dopo, il 17, nominò Giuseppe Guadagnini prefetto per la Venezia Tridentina. Nel frattempo, arrivò il 28 ottobre con la marcia su Roma. Non si può non osservare come alcune delle principali decisioni in chiave centralistica e antiautonomista fossero già state prese prima del colpo di stato di Mussolini proprio nel contesto trentino-tirolese.Dopo la marcia su Roma gli obiettivi prioritari del Governo a livello nazionale furono quelli di «normalizzare» e «pacificare» la situazione, obiettivi che, in Trentino, furono declinati nella ferrea volontà di eliminare ogni possibile forma di autonomismo.Di questa volontà si fece interprete il prefetto Guadagnini che, a capo della nuova Provincia Unica con capoluogo a Trento istituita il 23 gennaio 1923, concentrò la propria attenzione in maniera quasi esclusiva sul Sud Tirolo e sulla sua italianizzazione. Le valli ladine furono smembrate e la zona dell’Ampezzano e di Livinallongo venne assegnata alla provincia di Belluno.

La redazione e la tipografia del quotidiano cattolico Il nuovo Trentino dopo la devastazione delle squadre fasciste il 1° novembre 1926.Archivio Diocesano Tridentino, Acta Episcopalia Endrici, 1926, doc. 251/a.

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Successivamente, la Giunta provinciale straordinaria che aveva poteri di controllo e sorveglianza sui comuni, unico organo di governo provvisorio del periodo liberale ad essere ancora attivo, terminò la propria attività con le dimissioni del presidente Enrico Conci, esponente del Partito popolare e senatore del Regno.Per quanto riguarda le amministrazioni comunali elette nel 1922, queste vennero rese per la maggior parte politicamente inerti grazie alle continue pressioni e intimidazioni. A Trento e Rovereto i sindaci Peterlongo e Defrancesco rassegnarono le dimissioni e assunsero la carica di commissari prefettizi; entro il mese di settembre vennero sciolti anche i Consigli comunali di Riva del Garda, Borgo, Egna, Tione e Pergine.A sancire in maniera definitiva l’importanza e l’assoluta preminenza che il Sud Tirolo e la sua italianizzazione avevano per Mussolini ci fu, nel gennaio del 1927, l’istituzione della Provincia di Bolzano. In sintonia con il nazionalista roveretano Ettore Tolomei, da sempre paladino dell’italianità della regione, il dittatore riteneva che la questione principale non fosse quella di trasformare i tedeschi in italiani, ma piuttosto che bisognasse aumentare in maniera esponenziale il numero di questi ultimi fino a creare una nuova maggioranza italiana nella zona. Per fare ciò era necessario trasformare Bolzano in una grande città capoluogo di provincia, sede di uffici e di comandi militari in modo da favorire investimenti e, soprattutto, l’immigrazione da altre regioni del Regno. La fine della provincia unica fu vissuto dai fascisti trentini come un vero e proprio affronto subìto dal governo di Roma, tanto più che Tolomei e Mussolini concordavano anche nell’indicare come responsabile di questo necessario cambio di politica il cosiddetto «trentinismo», una sorta di provincialismo trentino che avrebbe portato i gruppi dirigenti locali a focalizzare la loro attenzione solamente su Trento e il Trentino.

Il rapporto con i cattolici La volontà del governo di sopprimere ogni residua autonomia locale e la sua politica scolastica, che minacciava di ridurre le ore di religione e di escludere i catechisti dalle scuole medie, suscitò allarme e ostilità tra il clero e i fedeli trentini.Nel 1926 il cattolicesimo trentino con in testa il vescovo Celestino Endrici tentò un’ultima, vana difesa delle organizzazioni culturali, sociali ed economiche presenti sul territorio. I fascisti invasero e saccheggiarono i locali del SAIT, la tipografia Tridentum e la sede del giornale Il Nuovo Trentino e sempre più frequenti si fecero le occupazioni di casse rurali e cooperative. Le mire fasciste si concentrarono poi sulla Banca Cattolica che, nonostante le proteste del vescovo e le rassicurazioni del ministro Federzoni, nel gennaio del 1927 venne fusa con la Banca cooperativa in un nuovo istituto denominato Banca del Trentino e dell’Alto Adige, presieduto dall’avvocato Giuseppe Stefenelli, padre dell’omonimo segretario federale fascista.Nonostante il clima di forte tensione, nel febbraio 1929 i Patti Lateranensi furono accolti anche in Trentino con forte entusiasmo da parte delle gerarchie cattoliche e di molti fedeli.Lo scontro tra Chiesa e Stato s’inasprì sul terreno dell’educazione dei giovani e ruotò intorno ai destini dell’Azione cattolica che, riconosciuta esplicitamente dal Concordato insieme alle sue organizzazioni giovanili, iniziò a intensificare sempre più la propria attività. Come ha scritto Paolo Piccoli nel suo volume dal titolo Lo Stato totalitario (1927-1940), nella regione i suoi iscritti passarono da 13.544 del 1928 a 24.000 del 1930, una cifra, quest’ultima, che non si allontanava troppo dai circa 30.000 aderenti alle organizzazioni giovanili fasciste, che però avevano a disposizione formidabili mezzi di reclutamento. Quando, nel maggio del 1931, Mussolini, che non poteva tollerare ingerenze in un settore vitale come quello educativo, sciolse tutte le organizzazioni giovanili che non facevano capo all’Opera nazionale balilla o al Partito nazionale fascista, in Trentino vennero chiusi 360 circoli maschili e femminili, 86 oratori e 27 teatri.I rapporti tra mondo cattolico e Fascismo furono però complessi e presentarono anche punti di convergenza che meriterebbero di essere meglio studiati. Ci limitiamo ad accennare alle reazioni alla guerra di Spagna, ad esempio, che fu indubbiamente uno di quei momenti nei quali Fascismo e Cattolicesimo trovarono notevole unità d’intenti, impegnati entrambi in quella «crociata» antibolscevica che tanto preoccupava Pio XI. A titolo d’esempio si può citare il caso di Guido Chiesa, militante trentino dell’Azione cattolica, scrittore di testi teatrali anche in dialetto, che nel 1938 mise in scena Questa stirpe di eroi, dedicato ai volontari fascisti in Spagna e che, l’anno successivo, pubblicò il dramma Arriba España che venne messo in scena all’oratorio Rosmini di Rovereto, il 30 di aprile.

La «Grande Trento» Cosa succede a Trento? Il 12 giugno 1926 il Commissario Prefettizio e futuro podestà Prospero Gianferrari decretava l’aggregazione a Trento di undici comuni rurali: Cadine, Cognola, Gardolo, Mattarello, Meano, Povo, Ravina, Romagnano, Sardagna, Sopramonte e

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Adunata nel 1941 in piazza del Littorio (ora piazza Cesare Battisti). L’immagine è il risultato dell’unione di tre fotografie, l’effetto finale è quello di moltiplicare lo spazio che sembra più vasto (e più affollato) di quello che è nella realtà.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Enrico Unterweger.

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Villazzano2. Quella che venne definita la «Grande Trento» vide la luce nell’ambito di un vasto progetto nazionale di accorpamento intorno ai centri maggiori dei piccoli comuni che aveva l’intento dichiarato di ottimizzare risorse e servizi facendo convergere forze che, si diceva, avrebbero altrimenti disperso buona parte del loro potenziale. In effetti la situazione patrimoniale di molti comuni rurali era estremamente difficile e l’accorpamento intorno a un municipio più grande rappresentava spesso un’ancora di salvezza, ma un ruolo non secondario lo giocò la volontà accentratrice del governo fascista e anche la propaganda del regime, impegnata a costruire un’immagine dell’Italia «moderna» e «grande» anche attraverso agglomerati urbani demograficamente significativi. Trento, che nel 1925 contava poco meno di quarantamila abitanti e un territorio di 1.844 ettari, dopo l’accorpamento degli undici comuni arrivò a contare più di 58.000 residenti e ad estendere il proprio territorio fino a 13.387 ettari. Un primo tentativo di aggregazione era stato fatto già nel febbraio del 1924 quando il comune di Trento, guidato allora dal Commissario prefettizio Giovanni Peterlongo, chiese ai consigli comunali di Cognola, Gardolo, Mattarello, Povo, Ravina, Sardagna e Villazzano un voto di adesione volontaria a Trento. Quello che al tempo venne liquidato come «un malconcepito spirito campanilistico ed egoismo di autonomia»3 rappresentò forse un estremo tentativo da parte di quelle piccole realtà comunali di mantenere un’autonomia gestionale e amministrativa rispetto al capoluogo anche se, come non si mancò di far notare, durante la breve esperienza napoleonica (1810-1813) questi comuni erano stati di fatto frazioni di Trento4. Quanto appena affermato però non deve essere letto semplicisticamente come «opposizione» al Fascismo in quanto le amministrazioni comunali elette nel 1922 erano state praticamente tutte sciolte. Piuttosto, ed è questo uno degli aspetti più interessanti e che necessitano di maggiori chiarimenti, deve essere interpretato come una sorta di monito a non semplificare troppo i rapporti tra centro e periferia durante gli anni della dittatura.Nell’ottobre del 1925 l’iniziativa partì direttamente dal governo di Roma, che inviò in Trentino un delegato ministeriale, il commendator Sbrocca, per seguirne direttamente la procedura. Il clima nel Paese era cambiato e gli spazi di manovra per le comunità rurali furono probabilmente più esigui, cosicché non solo i sette comuni si dichiararono favorevoli all’aggregazione ma si aggiunsero addirittura anche quelli di Romagnano, Sopramonte, Cadine e Meano.Nella delibera firmata da Gianferrari nel giugno 1926 e pubblicata sul Il Trentino di settembre, si garantiva ai residenti nel territorio delle nuove frazioni il mantenimento dei diritti di godimento dei beni comunali precedenti, gli impiegati e dipendenti dei comuni soppressi venivano mantenuti in carica solo se assunti in maniera definita «stabile», mentre tutti gli altri sarebbero stati preferiti in caso di nuove assunzioni da parte del comune di Trento. La delibera proseguiva garantendo la conservazione e il miglioramento dei servizi, il compimento delle opere pubbliche già approvate e la giusta attenzione verso «i bisogni formulati dai Comuni» per realizzarne di nuove.Causa principale del declino economico dei piccoli comuni fu molto probabilmente l’assenza di un ente mediano tra essi e lo stato centrale: inevitabile, dunque, un certo abbandono a se stessi5. Sembra quasi un’allusione critica alla politica, liberale prima e fascista poi, che aveva prograssivamente eliminato ogni autonomia regionale, ogni organismo capace appunto di fare da tramite tra particolare e generale all’interno di un’entità statale.

Il podestà Tre furono i podestà di Trento tra il 1926 e il 1943: Prospero Gianferrari e Mario Scotoni, intervallati dalla presenza di due commissari prefettizi, e Bruno Mendini, tutti trentini e tutti ex volontari della Grande Guerra. Furono loro gli uomini che il regime pose alla guida della città.La figura del podestà venne introdotta dalla legge n. 237 del 4 febbraio 1926 e inizialmente riguardava solamente i comuni con non più di 5.000 abitanti; ma il provvedimento fu esteso a tutti i comuni del Regno nel mese di settembre6.La legge sul podestà, che cercava la propria legittimazione nella tradizione medievale italiana, può essere inquadrata nel disegno di «normalizzazione autoritaria» che il regime stava in quel periodo perseguendo. Il Fascismo ebbe tra i principali obiettivi quello del controllo del territorio, che perseguì fondamentalmente in due modi: attraverso i numerosissimi decreti di scioglimento dei consigli comunali (561 nel 1923 contro i 281 dell’anno precedente) e con una prima riforma della legge comunale e provinciale affrontata con un regio decreto del 30 dicembre 1923. Se lo scioglimento dei consigli comunali risultò piuttosto efficace nel mettere a tacere le opposizioni, il decreto, che per ribadire la presenza dello Stato negli enti locali introduceva l’Intendente di Finanza nelle giunte provinciali e sanciva che il Prefetto inviasse commissari per reggere provvisoriamente quelle amministrazioni che fossero state sciolte, non venne ritenuto sufficientemente incisivo.

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Nel 1925, superata la tempesta del delitto Matteotti, il regime era pronto ad affrontare nuovamente la questione degli enti locali e avviare la riforma che avrebbe portato all’istituzione del podestà. L’iniziativa partì da Roberto Farinacci, allora segretario generale del Partito Nazionale Fascista, che nominò Maurizio Maraviglia presidente della Confederazione nazionale degli enti autarchici, organismo che aveva assorbito e sostituito l’Anci alla fine del 1925. Maraviglia chiese al ministro dell’Interno Federzoni e al ministro delle Finanze De Stefani una relazione sulla legge comunale e provinciale e, su quella base, il comitato centrale della confederazione preparò un progetto di riforma che prevedeva anche l’istituzione della figura del podestà. Quando, due mesi dopo, il provvedimento venne illustrato alla Camera, Federzoni spiegò senza tanti giri di parole che l’accentramento del potere nelle mani di un unico individuo, un pubblico ufficiale «superiore alle passioni di parte», si era reso necessario per garantire il funzionamento di quei troppi comuni immobilizzati dai continui scontri tra le «fazioni in lotta» e per far quindi «tacere le discordie».In una successiva sessione della Camera, quella del 21 novembre, Maurizio Maraviglia dichiarò che l’idea di autonomia nell’Italia fascista non poteva avere nessun significato o fine politico perché era addirittura «immorale» che in uno stato unitario ci fossero enti locali che potessero avere fini politici diversi da quelli del governo. L’istituzione del podestà fu quindi esplicitamente un atto di forza con il quale il regime occupava quei comuni che erano ancora in mano alle opposizioni popolari o socialiste.

Il primo podestà di Trento: Prospero Gianferrari Per quanto riguarda Trento, è già stato ricordato come il sindaco Peterlongo si fosse dimesso nel 1922 e avesse assunto la carica di commissario prefettizio fino al 1926.Lo sostituì Prospero Gianferrari che, il 23 dicembre di quell’anno, divenne il primo podestà di Trento. Gianferrari era nato nel 1892 a Rovereto da una famiglia originaria dell’Emilia, il padre Vincenzo si era trasferito in Trentino per dirigere la Scuola musicale roveretana. Allo scoppio della prima guerra mondiale frequentava la Scuola di applicazione per ingegneri dell’Università di Padova. Arruolatosi negli alpini, Gianferrari era stato fatto prigioniero nel maggio del 1916. Da prigioniero si rese protagonista di vari tentativi di fuga finché, pochi mesi prima della fine del conflitto, riuscì a evadere dalla fortezza di Salisburgo e tornare in Italia.Gianferrari, che nel 1921 si era laureato in ingegneria idraulica, mise a frutto i suoi studi nel Trentino «redento» lavorando alla realizzazione di diversi impianti idroelettrici in Valsugana fino ad essere scelto, nel 1924, come membro della Commissione reale per l’amministrazione della provincia di Trento.Nello stesso anno venne eletto deputato nelle file del Partito fascista insieme a Italo Lunelli; nel 1925 lasciò momentaneamente la regione per assumere a Torino l’incarico di alto commissario del Piemonte con il compito di dirimere alcune controversie sorte in seno al Fascismo locale.Tornato a Trento, Gianferrari, che godeva ormai di notevole fiducia, parve l’uomo adatto per diventarne il primo podestà. La cerimonia d’insediamento avvenne nella sala consigliare del municipio il giorno di capodanno del 1927, che la cronaca del Brennero pubblicata il 4 gennaio 1927 definì «il cominciamento della nuova era comunale».Il prefetto Vaccari nel suo discorso, dopo gli scontati riferimenti a Cesare Battisti e al suo «calvario», si rivolse direttamente al podestà impartendogli una sorta di «benedizione» del governo di Roma affinché lo assistesse e lo guidasse nel compito assegnatogli.Gianferrari, dal canto suo, pronunciò solo poche parole mettendo l’accento soprattutto sul necessario sviluppo economico che Trento doveva raggiungere per poter consolidare e accrescere il suo prestigio di capoluogo di provincia.Il governo podestarile di Gianferrari durò trenta mesi, durante i quali l’economia fu tra gli interessi prioritari del podestà ma, con ogni probabilità, non nel senso che molti trentini avevano inteso e auspicato. Il podestà si diede molto da fare nel settore dei trasporti, promuovendo un’iniziativa molto propagandata, ma dallo scarso rilievo economico: la creazione della linea aerea Milano-Monaco con scalo a Trento. Lasciando da parte valutazioni prettamente economiche, certo getta qualche ombra sull’impresa sapere che Gianferrari fosse anche presidente e consigliere delegato della Società industriale trentina, nonchè fondatore dell’Aero Lloyd Italiano, nome poi cambiato in Avio Linee Italiane, società salvata dal fallimento con l’acquisizione proprio da parte della SIT. Il primo cittadino di Trento ricopriva anche la carica di presidente del Consorzio della provincia e dei comuni trentini, un ente sorto all’indomani della guerra con lo scopo di promuovere appunto la ricostruzione e la ripresa economica. Nell’estate del 1927 il consiglio d’amministrazione venne sciolto per varie irregolarità e un’inchiesta decisa dal prefetto Vaccari, che certo conduceva anche una personale battaglia nei confronti di Gianferrari e del segretario federale Tuninetti per il controllo

Prospero Gianferrari, podestà di Trento dal 1926 al 1928, quando il Comune venne commissariato.Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio fotografico.

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del potere in provincia, evidenziò un ammanco nelle casse del consorzio di circa 38 milioni di Lire. I risultati dell’indagine furono immediatamente inviati a Roma insieme alla richiesta, presto esaudita, di sostituzione del segretario e del podestà. Ovviamente niente di tutto questo trapela dal breve articolo di commiato che il quotidiano Il Brennero pubblicò nella cronaca di Trento il 2 novembre 1928. Il queste righe Gianferrari definiva la propria amministrazione come «intimamente fascista», ringraziava coloro che lo avevano aiutato e si augurava che Trento, sotto la guida del commissario inviato dal governo, Giuseppe Botti, potesse «avere al più presto quel suo definitivo assetto moderno» che egli aveva cercato di dare alla città.In realtà il commissariamento del comune di Trento, che, con Botti prima e con Silvio Ghidoli poi, durò fino al gennaio del 1930, è l’ennesima testimonianza di un Fascismo trentino caratterizzato da forte instabilità e scarsa coesione interna. Gianferrari si trasferì nel 1929 a Milano dove divenne Consigliere delegato e Direttore generale dell’Alfa Romeo, nel 1933 passò all’Isotta Fraschini come Direttore tecnico commerciale, e nel 1937 fondò a Trento, in società con Caproni, gli stabilimenti aeronautici nella zona di Gardolo. Dopo la seconda guerra mondiale emigrò in Brasile dove morì, a Rio de Janeiro, nel 1953.

Mario Scotoni: il podestà dello «sventramento del Sas» Un altro ex legionario trentino ricoprì la carica di podestà: Mario Scotoni. Scotoni, che era nato a Trento nel 1883, negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale fu particolarmente attivo all’interno di associazioni di matrice nazionale come la Società degli studenti trentini e la Società degli alpinisti tridentini. Nel 1904 era a Innsbruck quando, il 3 novembre, circa duecento studenti italiani si scontrarono con studenti e cittadini di lingua tedesca venuti a manifestare contro l’apertura di una facoltà giuridica italiana nel sobborgo di Wilten. Innsbruck venne sconvolta da alcuni giorni di scontri e, alla fine, 137 studenti italiani vennero fermati dalle autorità di polizia e, tra questi, anche Scotoni.Troviamo ancora il nome di Scotoni tra quelli dei quarantadue arrestati nel 1907 in seguito ai violenti scontri scoppiati in seguito alla decisione di un gruppo di esponenti dell’associazione nazionalista tedesca Volksbund di organizzare una sorta di «gita», di carattere dichiaratamente nazionalista e provocatorio, in quelle che consideravano «oasi culturali tedesche» in Trentino.L’anno successivo, dopo diversi contributi scritti per l’Annuario degli Studenti trentini e dopo aver diretto tra il 1906 e il 1907 il Bollettino della Società degli alpinisti tridentini, Scotoni iniziò la sua collaborazione con il quotidiano liberale Alto Adige che lo porterà fino al ruolo di redattore capo. Nel 1914 lasciò il Trentino e si stabilì a Milano collaborando tra l’altro con la Commissione per l’emigrazione trentina; poi, all’entrata in guerra dell’Italia, si arruolò volontario negli alpini e, vista anche la sua notevole conoscenza del territorio e la sua esperienza alpinistica, iniziò a collaborare con l’Ufficio informazioni del 5° Corpo d’Armata di Verona. Successivamente, nominato sottotenente nel 6° reggimento alpini, continuò la sua opera di informatore presso il comando del 5° Corpo d’Armata. a Thiene. Nell’agosto del 1916, promosso tenente, venne trasferito a Vicenza per poiessere destinato all’organizzazione dell’Ufficio informazioni della 6ª Armata l’anno successivo, e questa volta con il grado di capitano.Dopo la guerra, Mario Scotoni continuò fino al 1920 a indossare la divisa dell’esercito, collaborando con il Governatorato militare in compiti che riguardavano l’assistenza ai profughi e il riassetto economico della regione. Scotoni è stato membro del Partito liberale almeno fino al 1923, quando il suo nome compare, insieme a quello di Oreste Ferrari e Camillo Maccani, in una commissione incaricata di tenere rapporti con il Partito nazionale fascista, dopo l’effimero compromesso per un’equa rappresentanza nelle istituzioni politiche e amministrative locali raggiunto con i fascisti. Nel 1927 il nome di Scotoni si trova tra quelli del consiglio d’amministrazione della neonata Banca del Trentino e dell’Alto Adige e tra quelli di coloro che formavano il nuovo direttorio della federazione fascista; nel maggio dello stesso anno venne nominato Commissario prefettizio del comune di Levico.Fu al termine di questa sorta di «cursus honorum» che Scotoni venne scelto per essere il nuovo podestà della città di Trento. Il suo mandato fu piuttosto lungo, durò fino a tutto il 1938, e in quegli anni la città, o almeno una parte di essa, cambiò volto. Dopo anni di polemiche, attese e rinvii, nel marzo del 1934 ebbero inizio i lavori per la costruzione sul Doss Trento del monumento a Cesare Battisti progettato dall’architetto veronese Ettore Fagiuoli. L’opera venne inaugurata il 26 maggio del 1935 con una cerimonia che solo in minima parte rispettò la volontà della vedova Ernesta Bittanti di impedire al regime di impossessarsi della memoria del marito. La vedova di Battisti aveva chiesto al Governo che fosse lasciata alla famiglia la possibilità di traslare privatamente il corpo del caduto dal cimitero di Trento, dove era seppellito, con una

Mario Scotoni, podestà di Trento dal 1930 al 1938. Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio fotografico.

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cerimonia intima e separata dalle manifestazioni ufficiali. Mussolini, al quale Ernesta incuteva certamente una certa soggezione e rispetto, concesse ai familiari per il 25 maggio una veglia, non privata, alla salma e il trasporto a spalla della bara dalla base del Doss fino al mausoleo. Il giorno successivo la cerimonia vera e propria di inaugurazione fu solenne e decisamente «fascista» nella coreografia, anche se il Governo venne rappresentato solamente dal ministro dei Lavori pubblici Luigi Razza perché Mussolini, forse anche per rispetto, non presenziò alla cerimonia.La realizzazione del monumento a Battisti sul Doss ebbe una valenza simbolica molto forte ma, per la sua collocazione eccentrica rispetto alla città, un impatto relativo con il vivere quotidiano dei trentini. Ben diversa fu la questione della realizzazione di piazza Littorio, l’attuale piazza Cesare Battisti, e della riqualificazione urbanistica del centro storico, che si attuò in buona parte proprio durante gli anni del governo podestarile di Scotoni. Sintetizzando la questione, basti ricordare che, se già all’inizio del secolo si era iniziato a discutere della necessità di intervenire nel quartiere del Sas, fu nel luglio del 1930 che il comune incaricò gli ingegneri Emilio Gaffuri e Guido Segalla di presentare un progetto di massima per il piano di risanamento. Il Brennero, in un articolo del 13 settembre 1930, presenta l’iniziativa ai cittadini evidenziando la necessità per Trento di dotarsi di un centro città degno del suo status di capoluogo, poi ponendo l’accento sulla questione igienica e sanitaria di un’area dove «l’aria è stagnante, l’acqua non zampilla e il sole non batte mai». Secondo la propaganda del partito ristrutturare il quartiere del Sas avrebbe permesso di avere abitazioni moderne, sane e confortevoli, capaci non solo di allontanare le malattie e di tenere lontani gli uomini dalle osterie, ma di avviare una crescita anche morale della popolazione.Il progetto, che prevedeva la realizzazione di una piazza e la demolizione dei molti edifici considerati insalubri e inadeguati, venne approvato da Scotoni ad agosto e, nei primi mesi del 1931, ottenne dal ministero dei Lavori Pubblici la dichiarazione di pubblica utilità. All’inizio del 1934 iniziarono gli espropri, che durarono fino al 1936 ma i cui strascichi legali, in alcuni casi, si protrassero fino

Inaugurazione del mausoleo di Cesare Battisti, sul doss Trento, il 26 maggio 1935. Scotoni cammina accanto alla vedova di Battisti, Ernesta.Fondazione Museo storico del Trentino, Iconografia Battisti, B208/19.

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al secondo dopoguerra mentre, nella primavera, fu dato il via ai lavori con le prime demolizioni. La pavimentazione di piazza Littorio fu terminata nel giugno del 1938 mentre il collaudo e l’effettiva consegna alla cittadinanza avvennero nel 1941.L’incarico di Scotoni terminò nel 1938 e quella data segnò anche la fine del suo impegno politico; si spense a Trento nell’ottobre del 1958.

Bruno Mendini, l’ultimo podestà Nel dicembre 1938 Mario Scotoni venne sostituito da Bruno Mendini, che fu l’ultimo podestà fascista di Trento. Come già i suoi predecessori Gianferrari e Scotoni, anche Mendini, nato a Cavalese nel 1891, aveva un passato da «irredentista» e da volontario nel regio esercito durante il primo conflitto mondiale.Universitario a Roma e a Graz, aveva interrotto gli studi nel 1914 per passare il confine italiano e raggiungere la capitale. Si arruolò nel 7° Reggimento alpini con il quale combattè nella zona del Pasubio, sulla Bainsizza e in Vallagarina. L’ultimo periodo della guerra fu assegnato prima al Comando della 27ª Divisione, poi a quello del 29° Corpo d’Armata.Finito il conflitto, venne inviato come ufficiale addetto al Commissariato civile di Cavalese e poi, a partire dal 1925, divenne protagonista della vita politica dell’area concentrando sulla sua persona un incredibile numero di cariche. Fu, tra l’altro, Segretario politico del Fascio di Cavalese, Ispettore di zona del partito per le Valli di Fiemme e di Fassa, podestà, sempre di Cavalese, fra il 1926 e il 1934, presidente della Magnifica Comunità di Fiemme e Segretario federale di Trento nel gennaio 1929. Quest’ultimo incarico lo ricoprì per soli tre mesi, sostituito da Giuseppe Brasavola di Massa, dopo essere stato eletto deputato alla Camera. Mendini divenne l’uomo più influente tra i gerarchi della provincia e, alla fine del 1938, al momento di diventare podestà, ricopriva le cariche di vice presidente del Consiglio provinciale dell’economia, di presidente dell’Istituto di credito fondiario, di presidente della Società Industriale Trentina e di presidente dell’Ente provinciale per il turismo, incarico – quest’ultimo – che abbandonò nel gennaio del 1939. Nel marzo dello stesso anno la Camera dei Deputati venne sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni e dal Trentino furono chiamati a farne parte Italo Lunelli come consigliere nazionale per la corporazione vitivinicola e olearia in rappresentanza dei lavoratori del commercio, Augusto Garbari della corporazione dei cereali come rappresentante dei commercianti, Vittorio Dalla Bona e l’onnipresente Bruno Mendini della corporazione del legno, rappresentanti rispettivamente i lavoratori dell’industria e il partito fascista.L’accumulo di cariche non poteva non suscitare sospetti, gelosie e rivalità in un Fascismo trentino che aveva trovato solo in apparenza una certa coesione ed equilibrio. Ne è prova piuttosto significativa la relazione che Italo Lunelli, che era stato segretario federale del partito per pochi mesi tra il 1927 e il 1928 e poi escluso da tutti gli incarichi provinciali, inviò a Starace nell’ottobre del 1939. Denunciando il numero di poltrone occupate da Mendini, Lunelli lo indicava come esponente di spicco di quel gruppo di potere economico che avrebbe causato la debolezza del Fascismo trentino. Lunelli evidenziava che il federale di Trento, il friulano Primo Fumei in carica dal 1936, avesse presto aderito «alla mentalità opportunistica locale»7 e come la mentalità «borghese» e «arrivista» avesse avuto il sopravvento lasciando in disparte e trascurati i valori combattentistici e fascisti.Gli anni che videro Mendini alla guida della città di Trento furono anche i più drammatici del ventennio, caratterizzati dalla guerra e dalla caduta del regime.Il 10 giugno 1940, come in tutta Italia, anche a Trento, in una piazza Littorio appena terminata, si tenne una grande adunata per ascoltare il Duce che annunciava «l’ora delle decisioni irrevocabili» con la consegna della dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia. Non sappiamo se la reazione della popolazione trentina sia stata più tiepida che altrove all’annuncio e la situazione dei due periodi storici – del 1915 e del 1940 – pare troppo diversa per poter considerare come indicativo il fatto che il numero dei volontari trentini nella Seconda guerra mondiale fu minore rispetto a quello della Grande Guerra8. In questa sede possiamo limitarci al dato oggettivo che una parte significativa dei nomi di fascisti trentini menzionati in queste pagine erano stati volontari nel 1915. Si trattava di uomini cresciuti in un clima sociale e culturale pervaso di odio antitedesco, che avevano votato la propria giovinezza alla causa nazionale italiana in chiave irredentista. A molti di loro l’alleanza con il «secolare nemico» tedesco dovette sembrare come un fatto antistorico e innaturale anche se questo non impedì loro di uniformarsi e obbedire agli ordini di Mussolini. Infine, tornando al podestà Mendini, il suo mandato decadde in seguito alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 e, al suo posto, venne provvisoriamente insediato il commissario prefettizio Gilberto Mazzanti.

Bruno Mendini (a destra) ritratto in occasione dell’inaugurazione della strada di accesso al doss Trento, il 5 luglio 1942. Accanto a Mendini si riconoscono Gabriele Nasci, generale comandante delle truppe alpine, e Italo Foschi, prefetto.Fondazione Museo storico del Trentino, Archivio fotografico.

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Dopo l’8 settembre, quando Hitler occupò le province di Trento, Bolzano e Belluno – l’Operationszone Alpenvorland – dichiarandole di fatto annesse al Reich, Mendini venne, caso eccezionale, nuovamente chiamato in causa e designato dal nuovo prefetto Adolfo de Bertolini come commissario per la città di Trento, dove rimase in carica fino al termine dell’occupazione tedesca. L’8 maggio 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale nominò sindaco Gigino Battisti; per Trento iniziava un’altra storia.

La debolezza del Fascismo trentino Quello che emerge, anche da una narrazione obbligatoriamente sintetica come quella fino a ora fatta, è l’estrema fragilità del Fascismo trentino. Abbiamo visto come, dopo la «falsa partenza» del 1919, sia stato Achille Starace a occuparsi di dare corpo e organizzazione a un movimento che stentava a prendere piede nella regione. Starace, però, fu direttamente alla guida del Fascismo tridentino soltanto per alcuni mesi del 1921 e non ebbe mai, anche per motivi legati alla sua provenienza territoriale, il ruolo di vero e proprio «ras» locale come, ad esempio, furono Italo Balbo e Roberto Farinacci per Ferrara e Cremona. Alla fine del 1921 divenne segretario del partito un livornese, Tazio Ferrini e, nel febbraio del 1923, un piemontese, Luigi Barbesino, già segretario politico del fascio di Bolzano. Proprio durante il mandato di Barbesino il Fascismo trentino visse un momento di grave crisi politica, apparentemente generata dalla lotta per la direzione del nuovo organo fascista «Il Giornale di Trento», ma che in realtà altro non era che l’ennesimo scontro tra fascisti trentini e altoatesini, in questo caso rappresentati da Barbesino. La questione venne drasticamente risolta agli inizi di giugno con lo scioglimento d’ufficio di tutti i fasci della Venezia Tridentina. La riorganizzare del partito venne affidata inizialmente a un trentino, il capitano della Milizia ed ex alpino volontario Guido Larcher che però, dopo pochi mesi, lasciò l’incarico sostituito dal cremonese Barduzzi, poi dal marchigiano Franco Ciarlantini e dopo ancora dal toscano Verdini. Per trovare un po’ di stabilità si dovette attendere il giugno del 1924, quando divenne segretario della Federazione Giuseppe Stefenelli, trentino, che resse la carica fino al 1927. Negli anni successivi, ancora una girandola di nomi: un altro trentino, Italo Lunelli, poi, nel febbraio del 1928 Dante Maria Tuninetti che, nell’ottobre dello stesso anno, fu sostituito da un commissario, il toscano Ferdinando Pierazzi. Nel 1929 ricoprì la carica Bruno Mendini quindi, fino al 1933, Giuseppe Brasavola de Massa. Negli ultimi dieci anni del regime poi, furono ben sei i federali che si avvicendarono nella carica: Belisario Cantagalli e Luigi Beratto, rispettivamente toscano e lombardo, nel 1934 e fino al 1936 il veneto Alfredo Dreyfus Leati, poi Emilio Grazioli, in carica solo tre mesi, quindi il friulano Primo Fumei, che restò fino a pochi giorni dalla caduta del regime, quando venne sostituito da Rodolfo Andreatta.Questo lungo elenco di nomi serve a sottolineare la notevole instabilità della situazione trentina, anche in una realtà come quella del regime fascista nella quale, come nota lo storico Salvatore Lupo, l’avvicendamento dei dirigenti era una prassi piuttosto comune.Al di là dei personalismi che non mancarono, il Fascismo trentino si divise in una lotta che vide impegnata, da una parte, una fazione intransigente ed estremista; dall’altra, una fazione rappresentata da una parte del vecchio gruppo dirigente e per questo definita «liberale». Erano questi «liberali», tra i quali figuravano Giuseppe Stefenelli, Augusto Garbari, Prospero Gianferrari, Bruno Mendini, che continuavano a tenere le redini del potere economico regionale (Stefenelli fu a lungo presidente della Cassa di Risparmio, di Gianferrari e Mendini si è detto nelle pagine precedenti) e fu proprio quel potere ad essere, in larga misura, al centro dello scontro con gli «intransigenti». Come è stato giustamente notato da Fabrizio Rasera nel saggio Dal regime provvisorio al regime fascista, i trentini erano molto ben rappresentati in entrambi gli schieramenti e il Fascimo trentino ebbe pure i suoi rappresentanti a Roma se si pensa che Italo Lunelli e Bruno Mendini furono deputati in Parlamento e che Guido Larcher, nel 1939, divenne senatore. La questione necessita di approfondimenti e nuovi studi ma sarebbe tuttavia superficiale liquidare l’indubbia debolezza del Fascimo trentino, lo stato di continua tensione e crisi, come il frutto della sola litigiosità interna dei fascisti locali e assolutamente fuorviante risulterebbe interpretare la provenienza extraregionale di molti dirigenti come la prova di una presunta estraneità trentina al Fascismo.

1 RaseRa 2005: 75-130; Benvenuti 1976; Calì 1978; PiCColi 1978.

2 ZuCChelli 1926a; ZuCChelli 1926b; ZuCChelli 1926c. 3 ZuCChelli 1926: 198. 4 ZuCChelli 1926: 198.

5 ZuCChelli 1926: 222. 6 Di nuCCi 1998. 7 PiCColi 1978: 439. 8 vaDagnini 2005: 135.

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Sara Sbetti

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Piazza Cesare Battisti, già piazza Italia fino al 1960, e in origine denominata piazza Littorio come atto di autocelebrazione del regime che la concepì, si apre in maniera inaspettata a chi visita il centro storico di Trento al di là delle cortine edilizie rinascimentali del quadrilatero pedonale via Manci - via San Pietro - via Oss Mazzurana

- via Oriola, che perimetravano il quartiere noto come Sas. La peculiarità di questo spazio urbano sta, oltre che nel suo celarsi all’interno di un tessuto urbano omogeneo e apparentemente compatto, nella distanza formale ed estetica delle quinte edilizie della piazza rispetto al resto del tessuto urbano.La volontà di approfondirne i rimandi formali e la genesi della piazza attuale è alla base della ricerca svolta per conto del Comune di Trento presso la Facoltà di Ingegneria di Trento nel corso del 2004, con l’obiettivo di narrare un episodio progettuale che, segnando in maniera irreversibile l’evoluzione urbana di Trento, si pone come tassello per capire una cultura – quella del Ventennio fascista – nel suo approccio estetico e progettuale alla città.

Le premesse storiche e culturali all’intervento nel quartiere del Sas Durante l’ultimo periodo di dominazione asburgica (1814-1915), in cui Trento e il suo territorio facevano capo alla Contea Principesca del Tirolo, la città godeva di una situazione di relativa vivacità culturale e sociale a cui non corrispondeva però un processo di rinnovamento urbano concreto, dato che le pressioni sociali sulla città rimanevano ancora contenute: alla domanda di abitazioni si poteva rispondere sfruttando il patrimonio edilizio esistente. Trento era ancora sostanzialmente contenuta all’interno delle mura duecentesche, a parte qualche episodio costruttivo isolato sul territorio. Sotto la guida del podestà Paolo Oss Mazzurana, nel decennio 1884-1895 la città inizia ad adeguarsi anche sotto il profilo dello sviluppo edilizio alle innovazioni a scala territoriale che segnano quegli anni (tra tutte, la deviazione del corso del fiume Adige e la costruzione della ferrovia Bolzano-Verona). Dopo che gli Austriaci avevano perso la Lombardia (1859) e il Veneto (1866), lo sviluppo urbanistico di Trento subisce una scossa significativa con l’insediamento di un consistente apparato burocratico e militare. In seguito alla riorganizzazione politica e amministrativa della città come «avamposto austriaco», il passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo comporta per la città di Trento la necessità di affrontare temi fino ad allora sconosciuti, che riguardano in generale l’adeguamento delle strutture e degli spazi urbani alle nuove istituzioni. Parallelamente, la città deve prepararsi ad accogliere una crescente domanda di abitazioni per far fronte alle ondate immigratorie che seguiranno.La nuova città prende forma sia attraverso modifiche puntuali del tessuto urbano, fino ad allora compreso all’interno delle mura storiche, sia attraverso progressive espansioni nel territorio esterno, con opere principalmente a destinazione civile, che si innestano sulla rete infrastrutturale che si sta sviluppando su vasta scala e che comportano il dissolversi progressivo dell’organicità del tessuto urbano storico e dei suoi confini.Il primo conflitto mondiale segna una ulteriore tappa verso la definizione dell’organismo urbano contemporaneo, dopo il 1918 sotto il vessillo del Regno d’Italia, ripercorrendo dinamiche comuni ad altre città neo-italiane. Da un lato questo genera un interessante dibattito culturale e politico che coinvolge la classe dirigente e gli intellettuali trentini. Dall’altra ci si trova ad affrontare urgenze concrete, rappresentate in primis da una notevole crescita della popolazione, in seguito a flussi immigratori spontanei o conseguenti al rinnovamento dell’apparato burocratico alle necessità della ricostruzione post-bellica. A partire dagli anni venti del Novecento il territorio extraurbano è interessato dai primi consistenti episodi di edilizia residenziale popolare, localizzati nella zona dei Muredei e che ripercorrono, sotto il profilo insediativo e delle conseguenze sul tessuto sociale, le dinamiche di sviluppo già sperimentate in città nel secolo precedente con l’edificazione di via Grazioli e di Piedicastello. Questi quartieri generati «su carta» sono caratterizzati da uno sviluppo per parti, che porta a fenomeni di ghettizzazione sociale, consolidandone l’immagine di insulae non collegate al tessuto urbano circostante. La zona dei Muredei è teatro di un imponente intervento, promosso dall’Istituto Autonomo Case Popolari, dimensionato per un’offerta iniziale di 336 alloggi progettati da Giuseppe Tomasi nel 1919, a cui fa seguito, nel 1921, una seconda operazione, a firma di Guido Segalla e di Emilio Gaffuri, per altri 418 alloggi sul modello degli Höfe viennesi. In seguito a tali operazioni speculative, le quantità di abitazioni immesse sul mercato immobiliare di Trento sarebbero state sufficienti alle richieste per tutto il decennio successivo almeno, destinate per lo più alla fascia meno abbiente della popolazione, che si preparava a insediarsi in quelle che, nel panorama urbano di Trento degli anni venti, stavano imponendosi come vere e proprie «cattedrali nel deserto», avulse com’erano dal tessuto cittadino consolidato.

Come avrebbe dovuto essere la piazza secondo il progetto originale di Emilio Gaffuri e Luigi Segalla. Si tratta della vista verso Nord-Est. Durante i lavori di demolizione questa idea venne abbandonata per realizzare quella che è ora piazza Cesare Battisti.Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T. 252, Fasc. 11.

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Parallelamente alle sperimentazioni speculative che stanno generando la Trento «fuori le mura», il centro cittadino è oggetto di un programma di risanamento avviato dall’amministrazione cittadina, che riprende le istanze di ingegneria sanitaria che si stanno diffondendo in Europa. Gli obiettivi delle indagini sulle condizioni di vita della popolazione, generalmente seguite dall’allontanamento da alloggi definiti «insalubri» che vengono demoliti e sostituiti con nuovi edifici, secondo una linea di intervento tipica dei cosiddetti «piani di risanamento», sono di duplice natura. Da un lato, le motivazioni ufficiali adducono a urgenze sanitarie improrogabili e al benessere dei cittadini, in base a censimenti puntuali di dati sul sovraffollamento degli alloggi, sulla diffusione di malattie come tifo e tubercolosi. Dall’altra, la ghettizzazione conseguente al trasferimento di vasti strati della popolazione nei nuovi quartieri periferici mette in luce istanze volte a perseguire un’occasione di risanamento «sociale» ed «estetico» dei centri urbani, ora destinati a cittadini di condizioni economiche elevate.Questi due avvenimenti concomitanti, l’urbanizzazione ai Muredei e il desiderio di risanamento dei quartieri centrali, costituiscono le premesse fondamentali all’intervento di demolizione del Sas nel Novecento. I nuovi alloggi popolari, realizzati in quantità eccessive rispetto alla ordinaria domanda di mercato, erano disponibili ad accogliere la popolazione sfrattata dai quartieri centrali, per la maggior parte costituita da individui indigenti che non possedevano i mezzi per opporsi a una «espulsione» verso aree urbane meno appetibili dal mercato immobiliare.

Il risanamento del centro urbano di Trento Risale al 1926 la Relazione tecnica su alcuni lavori di massima urgenza per il risanamento della città di Trento, elaborata dal commissario prefettizio di Trento che, tra i provvedimenti per perseguire le richieste di igiene urbana che si stavano diffondendo a livello europeo, assegna assoluta priorità alle opere di «sventramento e fognatura» da eseguirsi su alcune aree del centro cittadino. Tra i quartieri riconosciuti come critici dal punto di vista dei requisiti abitativi, l’area del Sas, attorno a via del Simonino, e le Androne, a ridosso delle mura di piazza Fiera, sono il punto di partenza per le prime concrete operazioni di demolizione, che tuttavia non verranno attuate completamente. Complessivamente, solo in queste due aree urbane, si prevede l’abbattimento di duecento edifici, schedati singolarmente in tabelle che ne indicano consistenza, stato di fatto, proprietà e collocazione, esito di una campagna di sopralluoghi avvenuti nel marzo 1930 da parte della Commissione tecnico-sanitaria municipale, composta da esponenti degli uffici tecnici cittadini e da tecnici sanitari. Gli edifici da demolire sono concentrati nel cuore degli isolati, dove si prevede la sostituzione del fitto tessuto urbano esistente con spazi aperti più ampi, principalmente costituiti da strade rettilinee su cui si affacceranno i nuovi fabbricati «corrispondenti alle norme regolamentari». Si prevede di risparmiare solo alcuni edifici isolati, come Palazzo Fogazzaro e casa Paris-Tomasi, dei quali viene riconosciuto il valore intrinseco.

L’acqua corrente non era disponibile in tutte le abitazioni. Molte persone dovevano rifornrsi alla fontana nel Fossato del Teatro.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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Questi princìpi sono ripresi dal progetto di risanamento del quartiere del Sas elaborato nel 1924 da Theodor Heyd, che prevede l’apertura di due vie perpendicolari tra loro, in corrispondenza del Fossato di Simonino, del Fossato del Teatro e di vicolo Malpaga. Tale studio, condotto dall’ingegnere tedesco per conto del Comune di Trento, rappresenta il primo capitolo delle vicende legate all’intervento igienico-sanitario sulla città, ed è finalizzato al progetto per la nuova rete fognaria. Una apposita sezione dello studio è dedicata alle indagini sulla densità di popolazione, che risulta particolarmente elevata in corrispondenza delle aree centrali, proprio dove la rete idraulica era meno adeguata. La realizzazione del nuovo impianto fognario deve necessariamente procedere parallela al risanamento dei quartieri più malsani, come il Sas e le Androne di Borgonuovo, in cui vengono previste consistenti demolizioni edilizie. A queste puntuali indagini sanitarie, condotte dall’amministrazione comunale in previsione dell’intervento al Sas, non corrisponderanno tuttavia operazioni di demolizione altrettanto accorte: le modalità con cui l’«interventismo fascista» era solito agire nei centri storici, a Trento come altrove (ad esempio a Bergamo, o ad Arezzo), sono tutt’altro che chirurgiche, decisamente poco sensibili alla fragilità e al valore testimoniale di questi ambiti urbani.

Il progetto di Gaffuri e Segalla per la nuova piazza I dati sulle condizioni igieniche del centro storico di Trento emersi dai sopralluoghi vengono ripresi e approfonditi nella relazione che accompagna lo Studio di risanamento del luglio 1930, affidato dall’amministrazione comunale di Trento agli ingegneri Emilio Gaffuri e Guido Segalla. Il progetto si rifà ai princìpi fondamentali dello studio di Theodor Heyd di sei anni prima, ma sostituisce alla proposta di schema stradale, con l’intersezione delle due vie rettilinee, quello di «una piazza di medie dimensioni», di forma rettangolare, che si sarebbe aperta in corrispondenza del nucleo più interno del quartiere delimitato da via San Pietro, via Roma, via Oriola e via Oss Mazzurana: il quartiere del Sas. L’accesso al nuovo spazio pubblico doveva avvenire da quattro altrettanto nuove vie rettilinee, reciprocamente sfalsate per enfatizzare la percezione di uno spazio delimitato, secondo quanto teorizzato da Camillo Sitte per le cosiddette «piazze a turbina». L’effetto di chiusura percettiva della piazza è perseguito anche con la previsione di porticati che percorrono l’intero perimetro. Tutto, dalla rigida forma planimetrica, al disegno rettilineo delle nuove strade, concorre a rendere quindi piazza Littorio un elemento completamente estraneo dal tessuto urbano preesistente, che era compatto e articolato.Il 22 agosto 1930 il Podestà approva «in via di massima» il progetto, con il proposito di «darvi esecuzione entro tre anni dalla data di pubblicazione del decreto di pubblica utilità» da richiedere al Re, e da accompagnare alla richiesta per un «sussidio in capitale» e per il «concorso nel pagamento degli interessi».

A sinistra: Fossato del Teatro.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

A destra: Fossato di San Simonino (ora via del Simonino).Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellaneo.

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Nell’ottobre 1930 viene presentata all’amministrazione comunale la soluzione definitiva, che comprende tra l’altro i capitoli specifici relativi agli espropri, alla rete della viabilità, alle fognature e ai servizi pubblici1. La versione definitiva del progetto è ratificata con atto del Podestà datato 11 dicembre 1930. La proposta viene definita «attuabile tanto dal lato igienico-edilizio quanto dal lato economico». La documentazione tecnica comprende quattro allegati (A: progetto edilizio ed espropri; B: viabilità; C: progetto fognature; D: servizi pubblici) ed è accompagnata dalle cartografie che illustrano gli interventi. Le opere di competenza del Comune (espropri, demolizioni, esecuzione dei lavori di viabilità, servizi pubblici) vengono descritte in maniera più dettagliata rispetto agli interventi gestiti dall’iniziativa dei privati, ai quali si danno indicazioni generali e che si prevede verranno realizzati in tempi differenti. Se, per quanto riguarda la disposizione interna dei fabbricati, si lascia carta bianca, i fronti sulla piazza potranno variare solo in maniera contenuta rispetto agli schemi fissati per volumi e altezze, caratterizzati al piano terra dalla presenza omologante e continua del portico. I finanziamenti dei lavori, che proseguono per tutti gli anni trenta, sono erogati in parte dal Comune, in parte dallo Stato e in parte da soggetti privati che trarranno utili diretti dagli interventi. Il progetto preliminare di Gaffuri e Segalla prevedeva una spesa pari a nove milioni di lire, un terzo della quale a carico del Comune di Trento. Il finanziamento dei lavori fu un tema di attualità, importante non solo per gli addetti ai lavori, ma anche agli occhi dei comuni cittadini, come testimonia la stampa dell’epoca. Sul quotidiano Il Brennero del 13 settembre 1930, un articolo che illustra l’importante operazione urbana che stava interessando il cuore della città di Trento, sottolinea come l’Autorità prefettizia e comunale, pur apparendo particolarmente convinta del progetto di Gaffuri e Segalla per la sistemazione igienico-edilizia, sia preoccupata ad affrontare i risvolti economici dell’intervento.

A sinistra: prospettiva del Fossato del Teatro. La fotografia è stata scattata dalla Galleria Garbari, di cui si riconoscono le due colonne.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellaneo.

A destra: prospettiva del Fossato del Teatro. Sul fondo della strada si riconosce la Galleria Garbari. La fotografia ha il carattere della foto ricordo, con il gruppo di persone in posa al sole di fronte alla casa Tecilla, riconoscibile dalla merlatura che divide il cortile interno dalla via.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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Questo richiederà la «collaborazione» sia dei cittadini, che ne trarranno un «beneficio individuale», sia degli Enti Pubblici, che hanno invece il compito di occuparsi dei «provvedimenti per la salute della razza». Lo sventramento del Sas, secondo quanto ripreso ed enfatizzato dalle fonti ufficiali, permetterà di offrire abitazioni dignitose, che assicureranno la salute degli abitanti e la formazione della «razza forte»: erano questi gli obiettivi principali del regime sottesi alle operazioni di risanamento urbano. Alla data della pubblicazione dell’articolo, tecnici e amministratori hanno già provveduto a illustrare «eccellentemente» al Governo la drammatica situazione: si attende quindi solo il nulla osta dell’autorità che deve approvare il progetto. Il 27 luglio 1931 il ministero dei Lavori Pubblici concede al piano di risanamento del Sas lo status di «pubblica utilità», premessa necessaria ad affrontare la fase degli espropri e del reperimento dei capitali necessari all’intervento. Questo riconoscimento viene subordinato tuttavia alla richiesta di apportare alcune modifiche al progetto: l’allargamento di via Simonino, da raccordare in maniera più agevole a via Malpaga, e l’apposizione di un vincolo ai fronti dell’edificato limitrofo al Teatro, che devono essere limitati in altezza per «liberare il più possibile il teatro stesso». Nel febbraio 1932 il Podestà di Trento richiede un mutuo per il finanziamento del risanamento igienico-edilizio del Sas presso la Cassa depositi e prestiti di Roma. Tale finanziamento, si specifica nei documenti relativi a tale richiesta, viene a gravare quasi esclusivamente sul Comune e, solo per una piccola parte, sui proprietari chiamati a ricostruire i loro stabili. I privati, che godranno comunque di ampi margini di vantaggio dopo i lavori di risanamento, saranno facilitati dalla possibilità di assumere un finanziamento a tasso ridotto, per poterli obbligare a seguire nella ricostruzione le linee architettoniche generali del progetto. A tal fine si prevede la fondazione di un apposito consorzio finanziatore bancario.

A sinistra: la fotografia riesce a rendere l’idea di come era strutturato il quartiere del Sas, che si presentava composto da edifici antichi, che sfruttavano lo spazio in altezza, addossati gli uni agli altri, vicoli uniti da archi, portici, stanze sospese, separati da stretti vicoli e piccoli cortili interni. Qualcosa di simile può ancora essere visibile nei vicoli che da via Manci portano in via Torre Verde: Vicolo del Vo’ e all’Adige.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellanea 1.

A destra: prospettiva di vicolo di San Simonino (ora del Simonino). Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellanea 1.

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L’amministrazione comunale, invece, si trova in una situazione economica meno favorevole. Tra le altre ipotesi ci si propone di vendere le caserme all’Amministrazione Militare, che rifiuta per il prezzo ritenuto eccessivo (dieci milioni di lire). In alternativa, si valuta la possibilità di richiedere un prestito all’Istituto Tridentino di Credito Fondiario, ipotecando gli stabili di proprietà comunale per cinquanta milioni. L’unica via percorribile appare, infine, quella di richiedere un contributo direttamente allo Stato, che il 2 dicembre 1932 concede un prestito di dieci milioni di lire, applicando un tasso di interesse del 5% ammortizzabile in 35 anni, e ottenendo in garanzia ipotecaria tutti gli immobili di proprietà comunale. La cifra concessa permette di sanare il bilancio dell’anno in corso e di finanziare altre operazioni immobiliari in città, come la costruzione della Casa Balilla (non più esistente), oltre che di coprire le spese per le opere del piano di risanamento del Sas, comprese le espropriazioni. Rimane comunque la prospettiva di vendere le caserme per far fronte ai lavori sulla rete fognaria e per avviare le operazioni di «sventramento in altre zone infette della città, quali le Androne di Borgonuovo». Il fallimento della cessione delle caserme è quindi forse l’ostacolo principale alla trasformazione dell’area delle Androne, auspicata fin dagli anni venti e nei primi studi igienico-sanitari sulla città di Trento ritenuta più urgente ancora del Sas, e mai realizzata.Lo Stato concede i finanziamenti richiesti con il Regio Decreto del 29 luglio 1933. L’intervento di risanamento è presentato dagli organi ufficiali avvolto in un’aura celebrativa che coinvolge le alte sfere del regime, alle quali viene riconosciuto ogni merito per quanto riguarda la possibilità di concretizzare le opere di rinnovamento estetico, ma soprattutto di adeguamento igienico e sanitario, che stanno per trasformare la città.

Gli espropri Le operazioni di esproprio si concentrano tra il 1934 e il 1936; la fase esecutiva potrà dirsi conclusa nel 1941 con il collaudo dei lavori. Le modalità e l’entità di tali operazioni sono illustrate nell’allegato «A» al progetto, come corollario della descrizione dell’intervento stesso. Gli espropri interessano un numero di fabbricati superiore rispetto al progetto di massima del 1930, per avere delle aree sufficienti per la costruzione di taluni edifici che nel frattempo si manifestarono di attuazione probabile e che almeno in parte rispondono a delle necessità cittadine.La volumetria da demolire totalmente, per far posto a nuove strade e alla piazza, è pari a 6.300 m3; le demolizioni totali finalizzate a nuovi spazi pubblici (intendendo con questo termine le servitù perpetue di passaggio da imporsi nelle gallerie di accesso) o a «edifici di natura speciale» interessano 7.520 m3. Altri 14.895 m3 verranno abbattuti con demolizioni parziali. Sono previste modalità di indennizzo differenti a seconda che la demolizione sia totale o parziale. Le modalità di indennizzo per gli edifici da demolire totalmente ricorrono ai «comuni criteri di valore unitario e reddito, stabilendo per ciascun [edificio] un’apposita perizia che tiene conto delle caratteristiche che differenziano l’uno dall’altro caso»2. Il suolo occupato viene valutato a parte, stabilendo un prezzo unitario al metro cubo di costruito e definendo infine «mediante minuta indagine» gli affitti pagati da ciascun inquilino. Il valore venale degli edifici viene calcolato con la seguente formula:

E = [m (Vs + Vc)] + nK (R – S)]/(m + n)Dove:E = valore reale degli edifici (cioè la vera e propria indennità di esproprio)Vs = valore del suolo (metri quadri x prezzo al metro quadro)Vc = valore della costruzione (metri cubi x prezzo al metro cubo)R = Reddito lordo accertato dell’immobile in base agli affittiS = spese (imposte, tasse, assicurazioni, manutenzione)K = 100/r = coefficiente di capitalizzazione, con r = 6m, n = coefficienti di valorizzazione delle singole abitazioni. Rappresentano dei «correttivi» da stabilire in base alle condizioni di abitabilità dell’alloggio.

Nel caso in cui è necessario demolire completamente l’edificio, al proprietario espropriato viene quindi corrisposta un’indennità proporzionale al valore dell’edificio e del suolo, nonché al reddito lordo derivante dall’eventuale affitto degli alloggi calcolato negli anni precedenti, pur diminuito delle spese fiscali e di manutenzione. Al calcolo vengono inoltre applicati dei correttivi in base alle condizioni di abitabilità dei singoli edifici, definite caso per caso. Per quanto riguarda gli edifici demoliti solo in parte, la valutazione dell’indennizzo è più complessa, e tiene conto sia dello stato di fatto precedente, sia delle potenzialità economiche che la ricostruzione porterà con sé, legate principalmente alla rinnovata importanza dell’area urbana. In questo secondo caso, in base al rilievo accurato del fabbricato non oggetto dei lavori e al progetto di ricostruzione, si

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fornisce un preventivo per calcolare la spesa a carico di ciascun proprietario. A carico dei proprietari degli stabili soprastanti, è da notare, ci sono le spese di realizzazione dei sottopassaggi e dei portici pubblici, sui quali deve essere ceduto al Comune il diritto di passaggio.Nel caso di edifici da demolire solo in parte, l’indennità di esproprio per metro cubo è inferiore a quella corrisposta nel caso di demolizioni totali, dal momento che per i proprietari, una volta ricostruiti i nuovi volumi prospicienti la piazza, dotati di migliori standard abitativi, viene previsto un notevole ritorno economico,

J = E – [K (Rf – Ra) + (S – E)] da cui J = S – K (Rf – Ra)Dove:J = indennità parziale da corrispondere ai proprietariE = valore reale dell’edificio, da corrispondere per l’esproprio della parte occupataS = spesa di ripristino, compresa la ricostruzione di portici e sottopassaggi, determinata in base al preventivo di progettoRf = reddito dello stabile a ripristino avvenuto. Vale anche per i portici e i sottopassaggi, ed è determinato in base al preventivo di progetto Ra = reddito dello stabile prima dell’esproprio (è valutato caso per caso, e riportato in tabelle in cui i casi incerti vengono adeguati alle quote del mercato immobiliari di Trento). È sempre maggiore di Rf perché i nuovi fabbricati sono esenti da imposte oltre che realizzati «con minori spese di manutenzione e assicurazione»K = 100/r = coefficiente di capitalizzazione, con r = 6.

Le luci e le ombre immortalate in questa fotografia permettono di capire una delle motivazioni che portarono alla demolizione del quartiere del Sas, la scarsa illuminazione e aerazione delle vie.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Sergio Perdomi.

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In questo secondo caso il valore reale dell’edificio viene ridotto in base alla differenza tra il reddito derivante dagli affitti prima del ripristino e quello previsto a ripristino avvenuto, considerando le spese messe in preventivo per la ricostruzione.Nel calcolare le indennità da corrispondere non vengono applicati i criteri stabiliti con la Legge di Napoli del 18853, ritenendo che essi «dimezzerebbero il valore che lo stabile avrebbe in una libera contrattazione»4. Infatti le modalità di indennizzo previste dalla Legge di Napoli consideravano una media tra il valore reale dell’edificio e i redditi derivati dai fitti del decennio precedente, che nel caso del Sas risultavano decisamente limitati, riducendo notevolmente la cifra da corrispondere. Nel caso degli espropri al Sas non appare possibile neppure «basare l’indennizzo da corrispondere […] sulla capitalizzazione dei redditi netti», dato che gli affitti richiesti per gli alloggi, piccoli e sovraffollati, appaiono in ogni caso sproporzionati rispetto a quelli praticati in altre zone della città, in edifici con standard di abitabilità certamente superiori.Dopo la fase di esproprio, il Comune resta proprietario di tutte quelle aree che, «relitti o raggruppamenti di proprietà», non saranno di agevole ricostruzione, perché troppo ridotte e poco allettanti sotto il profilo dell’investimento economico.

I lavori di demolizione degli edifici del quartiere del Sas, realizzati dalla Cooperativa ex combattenti di Trento. Il materiale veniva portato via in grandi ceste, come quella su cui sta in piedi il ragazzo della fotografia.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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Nella sezione «A5: ricuperi» della documentazione di progetto si affronta la questione del prezzo di rivendita ai privati delle aree in esubero, «risultanti dagli espropri generali per l’attuazione del piano regolatore» del Sas, che «non vengono completamente usufruite [dal Comune] per le strade o piazze pubbliche, ma che rimangono degli spazi sui quali dovranno sorgere nuovi edifici, e per i quali vi sono già delle richieste. Sorge quindi la domanda a quale prezzo il Municipio debba vendere il terreno di fabbrica a ciò necessario». Il progetto di massima aveva fissato questa cifra uguale al prezzo di acquisto: ne derivava però un valore al metro quadrato sproporzionato, soprattutto per le aree in cui sarebbero dovuti sorgere nuovi negozi o per l’area di ampliamento del teatro, che sarebbero costate il triplo di altri lotti. Un impiego redditizio futuro non sarebbe stato quindi possibile, in base ai dati di mercato dei fitti di quel momento, pregiudicando la vendita dell’immobile. I prezzi al metro quadrato vengono di conseguenza corretti, aumentandoli di un quinto nel caso di destinazioni residenziali, e riducendoli di circa un terzo dove si prevede la realizzazione di nuovi negozi. Il prezzo calcolato per l’ampliamento del teatro rimane invece pressoché invariato. I prezzi così riveduti sono «tali da consentire le rifabbriche previste, dando una giusta remunerazione al capitale investito». Il Comune subisce una perdita limitata, «ma si ritiene ciò preferibile al certo immobilizzo che deriverebbe dalla mancata vendita per causa di alti prezzi e, come conseguenza, dalla possibilità di attuazione in ogni sua parte del piano regolatore»5.

I malumori Il 5 gennaio 1934 vengono notificati i decreti di chiusura ai proprietari degli stabili dichiarati non abitabili. Inevitabilmente, questo genera una serie di polemiche e di ricorsi: i proprietari ritengono di non essere mai stati invitati a eseguire i miglioramenti ora richiesti, e affermano che non era stato «nemmeno dimostrato che detti miglioramenti siano impossibili; mentre fino ad oggi, dopo passati tanti anni dalla pubblicazione del citato regolamento di igiene, la relativa procedura non fu mai richiesta». Il dubbio degli interessati era generato dall’accorgersi che, nonostante le condizioni igieniche condannate dalla commissione di esproprio fossero comuni a molte altre aree di Trento, solo gli edifici che si trovavano nel nuovo disegno urbano erano stati condannati alla demolizione.Anche i proprietari degli stabili in via San Pietro, pur non direttamente interessati dalle demolizioni, presero posizione, richiedendo di essere coinvolti nelle operazioni di ridisegno urbano, mediante «un lieve spostamento di Piazza del Littorio» che avrebbe assicurato anche a tali fabbricati caratteristiche di maggior appetibilità sul mercato immobiliare. La risoluzione dei contratti di locazione in seguito all’esecuzione del piano non comportò il riconoscimento di nessuna indennità ai proprietari degli stabili da demolire. Gli affittuari rappresentano la terza parte in causa, oltre ai residenti e al soggetto pubblico, nel delicato equilibrio tra stakeholder in cui il Comune si trovò a mediare. Essi erano praticamente privi di diritti reali, e in più si trovano nella condizione di far riferimento direttamente al proprio locatario e non al Comune. In alcuni casi, come testimoniano i carteggi, la questione si risolve con un accordo economico di risarcimento degli affittuari sfrattati, a volte a carico direttamente del Comune, che a propria volta cerca di rifarsi sui proprietari degli immobili, mediante opportune convenzioni. Molte altre volte, invece, agli affittuari sfrattati non restò altro che cercare un nuovo alloggio.Le demolizioni seguono un progetto di dettaglio che fa corrispondere a una planimetria generale in scala 1:200 la descrizione di 32 ‘piani’ delle proprietà. Le operazioni di demolizione vengono eseguite dalla Cooperativa Combattenti, e prendono il via dall’area attorno a vicolo Malpaga per proseguire verso il blocco denominato Veronetta. I lavori mettono così in luce il pessimo stato di conservazione e le caratteristiche scadenti degli alloggi, per i quali erano stati impiegati tecniche e materiali di bassa qualità.

Gli esiti formali del progetto La fase delle ricostruzioni si prolunga per tutto il 1936. I nuovi volumi edilizi che si affacciano su Piazza del Littorio sono destinati fin dalle prime idee progettuali a funzioni commerciali al piano terra e a spazi privati – per lo più residenziali – ai piani superiori. Le fasi del passaggio che dalla prima idea progettuale per le fonti edilizie portano a ciò che effettivamente verrà realizzato, e che è tuttora visibile, purtroppo non sono documentate. La distanza tra le due immagini del progetto testimoniano un’evoluzione drastica, dal tradizionalismo della versione del 1928 alle suggestioni razionaliste definitive. Pur persistendo alcuni princìpi ordinatori nella definizione spaziale e nell’impianto complessivo della piazza – come il porticato continuo, l’invaso rettangolare, lo sfalsamento delle vie d’accesso –,i caratteri dei singoli prospetti subiscono cambiamenti significativi in corrispondenza dei piani

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superiori al porticato. Nella fase progettuale di massima le indicazioni architettoniche per i nuovi fronti edilizi erano rigide, e facevano riferimento a un linguaggio formale eclettico spurio. Al piano terra il trattamento dei fronti era omogeneo, in quanto delimitato dal portico continuo, sorretto da pilastri bugnati e su cui si sarebbero aperti, a cadenza regolare, i fori ad arco dei negozi, mentre la parte superiore dei prospetti fondeva elementi ripresi da vari ambiti culturali: l’architettura trentina degli anni venti, ma anche riferimenti all’ambito clesiano, in una sintesi di tendenze tedesche e italiane. Nell’articolo «L’architettura razionale a Trento» pubblicato nel 1933 sul periodico Il Trentino, Luigi Battaglia commenta l’esito razionalista dei lavori per piazza Littorio alla luce della produzione architettonica locale, e aiuta a comprendere il clima di rinnovamento che stava affermandosi nel contesto disciplinare trentino. Il progetto di massima di piazza Littorio è riferibile a quello «stile novecento, che si basa su forme tradizionali adattate col criterio della funzionalità», che ormai sembrava spodestato da uno «stile completamente nuovo, che viene detto razionale». Battaglia si mostra un sostenitore del nuovo stile, capace di spazzare via «le ultime ceneri della vecchia mentalità, incancrenite nell’imitazione isterilita vieppiù fra il marciume delle muffose ricopiature del passato». Alla luce di quanto si stava realizzando in altri luoghi della città negli stessi anni, il livello qualitativo degli edifici su piazza Littorio appare tuttavia relativamente modesto. I contributi progettuali per i nuovi fronti provengono da esponenti di spicco della scena architettonica locale, ma sicuramente non ne rappresentano l’apice creativo sotto il profilo della qualità architettonica. Oltre ad Emilio Gaffuri e a Giuseppe Segalla, che progettano in prima persona i prospetti di alcuni edifici privati (tra cui casa Rella), intervengono Efrem Ferrari, con l’edificio per il bar Città per l’Istituto Provinciale Incendi, collegato al retro del Supercinema Vittoria di Giovanni Lorenzi (1939) per mezzo della galleria dei Partigiani, e gli ingegneri de Unterrichter e Masè, che concepiscono il prospetto curvo di casa Rigoni e l’edificio adiacente al Teatro Sociale.

Gli interventi artistici Gli intenti celebrativi che l’amministrazione comunale non ha mai soffocato e che sono alla base del progetto per Piazza Littorio divengono espliciti nella fase conclusiva dei lavori di risanamento, quando vengono indetti due concorsi, uno a livello nazionale e uno a livello locale, per un affresco da collocare al di sopra del passaggio che da via San Pietro introduce nella piazza, e per un graffito che avrebbe abbellito la galleria di accesso da via Manci.Gino Pancheri si aggiudicherà la vittoria nel concorso indetto il 14 ottobre 1936 con un bando riservato agli artisti italiani iscritti ai Sindacati fascisti di belle arti per l’affresco con soggetto una decorazione allegorica che esalti la fondazione dell’Impero. L’opera, in seguito ad accordi tra la commissione giudicatrice e il vincitore, sarà realizzata a mosaico, tecnica ritenuta più durevole, dalle

Le ceste che contenevano il materiale frutto delle demolizioni venivano portate via dal quartiere montate su grandi carri, come quello che si vede vicino alle macerie nella fotografia.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

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mani di Goffredo Gregorini, su disegno di Gino Pancheri, e rappresenta una «semplice figura dalle tinte pallide, modulate appena su una gamma monocroma», «una grande figura sola che balza innanzi di slancio, quasi staccandosi dall’intonaco nudo, completa la costruzione senza mascherarla e vi crea un motivo dominante che la abbellisce e la nobilita» […] «Pancheri ha affidato la forza della sua idea a un linguaggio estremamente semplice», «nel suo volto, nel suo stesso vivace atteggiamento, non v’è calor di vita; ma quella gran luce ideale che la avvolge trasumanandola, ci dice appunto che essa al di sopra della vita: non donna, ma idea in marcia»6. Il 20 novembre 1936 viene indetto anche il concorso per l’esecuzione di due graffiti a tema libero, che troveranno posto sopra l’imbocco dei portici di Piazza del Littorio nella Galleria San Pietro, questa volta diretto agli «artisti iscritti al Sindacato interprovinciale belle arti, Sezione della Provincia di Trento». Il 7 gennaio 1937 la medesima commissione che giudicò il bando per l’affresco scelse il lavoro di Luigi Bonazza, l’«Allegoria del lavoro», un graffito di 4 metri per 2,5, che si aggiudica il primo premio, di tremila lire. In quest’opera, tuttavia, si legge nelle critiche dell’epoca, «il tema dell’esaltazione del lavoro umano fu concepito da Bonazza, diversamente dalle sue opere simbolico-allegoriche degli anni venti, con un realismo quasi perentorio di scarso rilievo iconografico e compositivo»7.

A sinistra: la fotografia immortala la famiglia di Mario Albertini, un fotografo che fino alla demolizione del quartiere abitava e aveva il suo negozio nel fossato del Teatro, una delle due strade principali del del Sas. Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

A destra: non tutte le macerie delle case vennero portate via, con una parte vennero riempite le cantine dei palazzi rasi al suolo; la parte medievale dello spazio archeologico del Sas, posto oggi al di sotto del piano stradale di piazza Cesare Battisti, è parte di quelle cantine, svuotate nella fase dei lavori degli anni novanta del Novecento.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Mario Albertini Sr. / Jr.

1 Archivio Storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, ACT 4.15 - T 252/11, risanamento Sas progetto Gaffuri e Segalla, relazione.

2 Archivio Storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, ACT 4.15 - T 252.

3 La Legge n. 2892 del 1885, detta comunemente «Legge di Napoli» perché emanata per il risanamento del capoluogo partenopeo in seguito a un’epidemia di colera, calcolava l’indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sulla

media del valore venale e dei fitti coacervati del decennio precedente, o in alternativa in base all’imponibile netto agli effetti delle imposte su terreni e fabbricati.

4 Archivio Storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, ACT 4.15 - T 252.

5 Archivio Storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, ACT 4.15 - T 252.

6 BelZoni 1938. 7 luigi 1985.

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Giovanni Marzari

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Nel corso degli anni trenta, accompagnato da un aspro dibattito, si profila un nuovo ruolo per l’architettura: diventa «arte di stato» secondo la politica del regime fascista.Anche a Trento, in sintonia con quanto avviene a livello europeo e nazionale, si avvia l’opera di rinnovamento del «volto urbano», all’insegna dell’equivalenza di «modernità»

e «italianità». Uno degli interventi che aprono la serie dei progetti e realizzazioni che trasformeranno la città, è costituito dall’imponente «ristrutturazione» del palazzo delle Poste (1929-1934) ad opera di Angiolo Mazzoni, architetto bolognese di ambiente professionale romano, che si occupa della progettazione di palazzi postali e stazioni ferroviarie.Ristrutturazione «museificatrice» la definisce acutamente Carlo Oradini nel 1983, e non solo per l’operazione di integrazione dell’antico palazzo a Prato, di cui vengono conservati alcuni settori, ma anche per la strategia decorativa e la sovrabbondante concentrazione di opere d’arte presenti.Quasi contemporaneamente, nel 1931, Adalberto Libera, di Villa Lagarina ma operante a Roma, uno degli appartenenti al Gruppo 7, il gruppo d’avanguardia che a partire dagli anni 1926-1927 porta in Italia il «verbo» dell’architettura moderna internazionale, è vincitore del concorso per la facciata del nuovo complesso scolastico di piazza Raffaello Sanzio, «in un ambiente di valore storico, artistico e paesistico non comune», tra la Torre Verde e le mura del Castello del Buon Consiglio, di fronte a Palazzo Salvadori.

Il progetto vincitore, di impronta novecentista, sarà radicalmente rielaborato, prima secondo un orientamento «moderno» e successivamente, in modo definitivo, in chiave più monumentale.Nel 1932 inizia la costruzione che sarà ultimata tra l’autunno 1934 e la primavera 1935. In essa si condensano in modo esemplare tutti i temi trattati da Libera e dagli architetti razionalisti all’inizio degli anni trenta: dai concetti di «ambientismo», nel rapporto e relazione con il contesto, nel tema dell’orizzontalità del profilo urbano, quale caratteristica «geografica» peculiare della città di Trento, ai modi di occupazione del lotto nel tessuto cittadino. Temi risolti brillantemente da Libera, con «agevolezza» sottolineerà Giò Ponti su Stile nel 1942, leggendo gli impianti planimetrici, davvero stupefacenti, che definisce «piante disinvolte» e, descrivendo «certi riscontri fra elementi geometrici»1 che originano quell’aggregazione di volumi «unici», chiaramente identificabili – microarchitetture riconoscibili: la torre-camino, il corpo addossato dei servizi igienici dei bambini, i volumi stereometrici delle aule, la palestra con la struttura portante a gabbia in vista all’interno, racchiusa in un perimetro «libero» e le torri scalari, cilindri a pianta allungata che costituiscono gli ambiti di maggior articolazione spaziale con la doppia altezza che affaccia sull’atrio d’entrata, il sistema di finestratura a fascia e il dispositivo delle lastre in porfido massello traforato.Nella torre scalare ovest, raccordo tra la piazza e via San Martino, sono disposte le pitture di Gino Pancheri, eseguite tra febbraio e marzo 1935.

Altri interventi concorrono alla «modernizzazione» della scena urbana di Trento, situati per lo più nella «cintura» esterna alla città storica, o comunque in luoghi dove apparentemente era possibile minimizzare il confronto con le preesistenze storiche. Si pensi alla Casa Balilla di Segalla (1933), alla Casa Littoria (1941) e al Grand Hotel Trento (1940) di Lorenzi, al rimodernamento della Cassa di Risparmio di Tiella e Marzani (1938): architetture significative della «parentesi razionalista» a Trento, ma espressione di valori architettonici, che non raggiungono l’intensità e il significato delle opere di Libera e di Mazzoni.La stazione ferroviaria, distante dall’esperienza mazzoniana delle Poste, rappresenta un esito radicale nella produzione dell’architetto bolognese, al punto, come ha scritto Giovanni Klaus Koenig, «che siamo tentati di definirla una stazione già post-fascista»2, pur se inserita nel programma propagandistico e celebrativo della realizzazione delle nuove stazioni da parte del regime.

Il calibrato inserimento nel contesto urbano, l’orizzontalità del corpo di fabbrica, caratteristica richiesta dal principio insediativo di quel luogo, la stessa semplicità, la avvicinano alle migliori opere degli architetti razionalisti e ne fanno una sintesi efficace delle trasformazioni funzionali e tipologiche del modello stazione. In questi anni, in questo contesto, è riposta grande aspettativa nel più esteso intervento che segna la «modernizzazione» della scena urbana di Trento: la realizzazione della piazza Littorio.Luigi Piccinato sulle colonne di Architettura, nel maggio 1932, descrive puntualmente il programma del progetto della nuova piazza nel «cuore della vecchia Trento». La demolizione dell’antico quartiere del Sas è intesa quale intervento «risanatore» delle «pessime» condizioni igieniche e quindi il potenziamento del centro cittadino con la possibilità di realizzare un «centro di affari» e commerci.

In alto: foto dall’alto delle scuole elementari Raffaello Sanzio. Si leggono i riscontri tra elementi geometrici, volumi unici e identificabili; si tratta di micro-architretture riconoscibili, come rilevava Giò Ponti in Stile nel 1942.Collezione privata.

Sopra: palazzo delle Poste di Trento, progettato e realizzato tra 1929 e il 1934 da Angiolo Mazzoni. La fotografia è scattata in via Ss. Trinità, si notano i lavori della pavimentazione non ancora conclusi. È tutt’oggi diffusa la diceria che il progetto fosse destinato alla città di Tripoli e sia stato realizzato a Trento per errore, ma così non è stato. Si tratta di una pesante ristrutturazione che ingloba e amplia l’antico palazzo a Prato, di cui vengono conservati alcuni settori.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo miscellanea.

Nella pagina a fianco: facciata delle scuole elementari Raffaello Sanzio, progettate da Adalberto Libera.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Sergio Perdomi.

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I progettisti Luigi Segalla e Emilio Gaffuri

«si propongono di svuotare, per così dire, l’interno malsano del grande isolato, delimitato da Via San Pietro, Via Roma, Via Oriola e Via Oss Mazzurana, creando al suo posto una piazzetta interna contornata da portici e con sbocchi limitati.Ai margini resterebbero intatti gli antichi edifici di interesse storico, mentre sulla piazza si affaccerebbero le fronti, in tutto o parzialmente rinnovate, delle vecchie case risparmiate dalla demolizione»3.

Piccinato, lontano dal denunciare l’intervento, approva il progetto «tanto è saviamente informato a criteri di risanamento», nonostante lui stesso si renda perfettamente conto che esso è «concepito come un brutale sventramento».L’operazione è in linea con quanto si dibatte e accade negli stessi anni sulla scena nazionale: con i temi quali il ruolo dell’«urbanistica come scienza e arte», il rapporto tra «antico e nuovo», il «volto della città fascista», e così via. Il «modello» diventa Brescia.

«L’intervento che Marcello Piacentini propone si incentra su un’ampia piazza, ottenuta demolendo nel centro antico della città 19.000 metri di superficie coperta da edifici […]. L’intera area centrale […] viene così investita dalle demolizioni per realizzare la piazza della Vittoria, delimitata da edifici con banche, compagnie di assicurazioni, uffici di vario tipo, un albergo, l’ufficio postale, il mercato. Piacentini comprende perfettamente e interpreta, con indifferente realismo e abilità professionale, la necessità di conciliare la soluzione funzionale alla crescita della città […] con la richiesta di un’immagine rappresentativa del nuovo potere che si ‘innesti’ nella città vecchia: il ‘foro’ che piazza della

La stazione dei treni progettata da Angiolo Mazzoni e costruita tra il 1934 e il 1936. Si nota sotto l’orologio (ancora presente) il bassorilievo del fascio littorio e lo stemma sabaudo.Collezione privata.

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Vittoria intende ricreare, è quasi l’immagine lata di quel fascismo, che vuole rappresentare il nuovo volto dell’Italia pur rimanendo all’interno delle tradizioni, fondendosi anzi con esse»4.

In realtà Ciucci precisa anche che «la costruzione di piazza della Vittoria soddisfa così, sia pure solo in parte, gli interessi del potere economico locale, ma è soprattutto espressione del nuovo capitale finanziario in espansione e delle aspirazioni del fascismo locale».A Trento le vicende non andarono in questo modo. Gli «affari» e i «commerci» non rivitalizzarono, come auspicato, il grande invaso aperto nel tessuto della città.La fragile impostazione della progettazione urbana di Segalla e Gaffuri, caratterizzata dalle proposte di rifacimenti, che mimano stilisticamente l’architettura storica trentina, con chiari accenti vernacolari, è all’origine delle difficoltà che segnarono l’incompiutezza dell’intervento e il permanere per decenni di uno «slargo» vuoto, irrisolto nel tessuto urbano.

I riferimenti architettonici dei singoli edifici e delle singole facciate, sviluppati a metà anni trenta da professionisti diversi sulla base del piano di Segalla e Gaffuri, si fermarono all’idea di uno sbiadito «novecentismo», soprattutto milanese e a qualche timido accenno ad esempi internazionali.Efrem Ferrari progetta parte del fronte nord, Giovanni Lorenzi il Supercinema Vittoria. La «torre» sul fronte est con il sottopassaggio verso San Pietro è opera di Segalla e Gaffuri, mentre l’angolo del fronte sud è progettato da Renzo Masè e Guido Unterrichter5.Nell’intervento edilizio si trovano tutti gli ingredienti delle costruzioni dell’epoca. L’utilizzo dei materiali autarchici (pietra, anticorodal, intonaci tipo terranova, eccetera) è diffuso, ma non arriva mai a confrontarsi con l’utilizzo, per esmpio, delle pietre disegnato Mazzoni nella stazione ferroviaria o da Libera nelle scuole Sanzio.

Disegno del progetto originale della piazza del Littorio (ora Cesare Battisti) firmato da Emilio Gaffuri e Guido Segalla e non realizzato. Rappresenta quello che doveva essere la facciata del retro del teatro Sociale di Trento. Archivio storico del Comune di Trento, Ordinamento italiano, Serie speciale del carteggio e atti (Teche), ACT 4.15 - T. 252, Fasc. 11.

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Corniciature, marcapiani o semplicemente motivi di decoro eseguiti con le pietre evocano, come nel caso della «torre» sopra la Galleria dei Legionari, generiche forme classicheggianti.L’intento celebrativo è ben visibile nel grande mosaico che completa il sottopassaggio, raffigurante la Vittoria, opera di Gino Pancheri.

L’elemento tipologico unificante dei portici, sviluppato però con scarsa organicità, sembra il solo motivo caratterizzante in senso spaziale la piazza. Anche i due elementi architettonici che si propongono come figure simboliche, sviluppati più graficamente che non architettonicamente, la «torre» e il «teatro», con reminiscenze classicheggianti, sono trattati in maniera troppo debole e incoerente rispetto all’insieme.In una lettera del 24 agosto 1936, indirizzata al podestà Mario Scotoni, Libera espone in un’analisi lucida, quanto impietosa, l’estrema modestia dell’intervento architettonico.

«In questi giorni sono ritornato a Trento dopo parecchi mesi di assenza e per prima cosa ho visitato i lavori del ‹Sas›. Come trentino e come architetto debbo dire di essere rimasto profondamente avvilito e amareggiato. […] L’opera più rappresentativa che il fascismo trentino realizza sotto la di Lei guida diretta, rischia di essere completata in una veste estetica che debbo purtroppo definire volgare. Da quello che finora è stato realizzato traspare una tale povertà di idee, una tale mancanza di buon gusto, da avere l’impressione di trovarsi in un paese anziché nella nobilissima Trento. Piazza Littorio non è concepita in modo unitario, le sue facciate sono di una pessima architettura»6.

Chi era Libera nel 1936 per potersi rivolgere con questo tono al podestà Scotoni?A Trento Libera è l’architetto delle scuole Sanzio, «il primo edificio di architettura razionale che sorge in città»7. Egli è stimato come esponente di primo piano dell’architettura italiana. A Roma disegna la facciata d’ingresso della mostra del decennale della rivoluzione fascista nel 1932; nel 1933 il padiglione italiano all’esposizione mondiale di Chicago e nel 1935 a quella di Bruxelles; nel 1933-1934 realizza il palazzo postale in via Marmorata. Partecipa ai più importanti concorsi romani.Con un giudizio così negativo e perentorio, Libera attacca direttamente il Podestà.

Cartolina di piazza del Littorio (ora Cesare Battisti) scattata tra il 1935 e il 1945. Mostra la facciata del retro del teatro Sociale come è stata realizzata e come è rimasta fino ai lavori di ristrutturazione del teatro, conclusisi nel 2000.Biblioteca comunale di Trento, Archivio Iconografico.

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«La mancanza assoluta di unitarietà della piazza non è solo difetto dovuto a chi l’ha progettata, ma anche, purtroppo, di chi sovrintende l’iniziativa».

Due sono i nodi, a parere di Libera, che è necessario risolvere con urgenza: il tema dell’«unitarietà» e quello della qualità «estetica». Quindi bisogna intervenire, perché si è ancora in tempo, nominando un «Architetto» che dia «norme e criteri» in «campo urbanistico ed estetico» ai singoli progettisti dei vari edifici.Il «carattere di unitarietà, che è il primo principio della monumentalità e carattere principe del Fascismo, si può realizzare solo quando un’opera viene concepita […] da una sola mente. La piazza di Bergamo, quella di Brescia, la città universitaria di Roma, ne sono esempi. Il caso di Trieste è ancora più interessante per l’analogia che presenta con il nostro».A questo punto Libera indica dei nomi.

«La creazione di una piazza è un fatto edilizio d’eccezione che richiede un professionista di classe superiore alla media. Bergamo e Brescia si sono rivolte a S. E. Piacentini; Trento poteva scegliere tra i figli della sua terra: Sottsass, Pollini, sono per esempio, architetti che si sono imposti nelle gare nazionali più importanti […]».

Nel segnalare i nominativi, Libera non pone questioni di tendenza o di movimenti, «razionalisti» piuttosto che «novecentisti». Tali divisioni nella seconda metà degli anni trenta hanno lasciato il posto a un insieme di posizioni «ambigue» o comunque molto più sfumate che in passato.I nomi di Gino Pollini e Ettore Sottsass sono particolarmente significativi del tentativo estremo di Libera di «salvare» l’operazione di disegno urbano tramite l’intervento della figura dell’«architetto artefice e consolatore», tanto cara a un certo modo di vedere l’architettura moderna.Pollini vince proprio con Libera il primo premio ex-aequo per il piano regolatore generale di Bolzano nel 1929. È Pollini, originario di Rovereto, che chiede a Libera, proveniente dalla vicina Villa Lagarina, di entrare nel Gruppo 7 nel 1927. Con Luigi Figini è l’autore della celeberrima Casa Elettrica del 1930, di Villa Studio per un artista del 1933, di importanti progetti di concorso a Roma e a Milano. Sempre assieme a Figini è l’architetto di Adriano Olivetti a Ivrea.

Cartolina di piazza del Littorio (ora Cesare Battisti) scattata nel 1941. Mostra l’angolo Nord-Ovest della piazza.Biblioteca comunale di Trento, Archivio Iconografico.

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Sottsass partecipa come uno dei principali protagonisti nel programma di ricostruzione postbellica in Trentino. All’inizio degli anni trenta realizza il Lido di Bolzano. A Torino partecipa a importanti concorsi come quello del risanamento di Via Roma.Di fatto dell’appello di Libera al podestà Scotoni non rimangono conseguenze, se non il sigillo critico del suo giudizio sulla qualità dell’architettura. La lettera non è mai stata protocollata dagli uffici comunali, la si trova assieme a molte altre carte generiche, lontana dal resto della corrispondenza ufficiale.La vicenda della realizzazione della nuova piazza Littorio si esaurisce nello scorrere del tempo: di lì a poco la guerra chiuderà definitivamente il programma celebrativo del Fascismo sulla città.Immagine e struttura della città. Materiali per la storia urbana di Trento è il titolo di una mostra del 1983, espressione di un nuovo metodo di intraprendere gli studi di storia della città.

«Si considerò l’ambito del Sas come un unico grande isolato da svuotare, senza comprendere la sua natura morfologica composita. La nuova piazza fu ideata con presupposti nettamente eversivi della natura storica del luogo, anche se nella sua vicenda urbana essa sarebbe entrata gradualmente nella vita di relazione cittadina»8.

Nonostante tracci un giudizio storico critico negativo sull’operazione del Sas, intesa come violenta distruzione dei tessuti urbani stratificati dalla storia, delle memorie soggettive e collettive, operazione non bilanciata da una progettazione architettonica di qualità, Carlo Oradini conferisce ottimisticamente all’intervento una sorta di «promessa per il futuro»: una riappropriazione «graduale» dei nuovi spazi da parte della città.In realtà lo «slargo» di piazza Littorio, poi piazza Italia, infine dal 1960 piazza Cesare Battisti, ha avuto in settant’anni un’evoluzione assai contradditoria, con interventi conflittuali, lontano dall’essere riassorbito nella ricca articolazione del tessuto urbano.Forse risultano ancora attuali le domande, permeate di sottile utopia, che Luigi Piccinato si poneva

Piazza Cesare Battisti usata come parcheggio. Sullo sfondo è riconoscibile il retro del Teatro Sociale come era fino alla ristrutturazione degli anni novanta.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico Storico, Fondo Flavio Faganello.

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nel 1932, a proposito dell’intervento al Sas e della sistemazione della piazza della Mostra da parte di Libera.

«Perché non inquadrare le due proposte in un progetto organico di piano regolatore della città? Le due proposte possono essere eccellenti fin che si vuole, ma non vale la pena di guardarle attraverso il problema generale urbanistico? La città, a me sembra, richiede da tempo una visione organica dei suoi sviluppi e del suo assetto interno»9.

È sempre all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso che la vicenda dell’attuale piazza Cesare Battisti si arricchisce di un’ulteriore fascinosa appendice.«Uno specchio per Trento» è il titolo di una recensione di Bruno Zevi apparsa su L’Espresso il 18 settembre 1983:

«Ideata e progettata da Gianleo Salvotti la mostra Trento nell’età di Paolo Oss Mazzurana mette in scena l’organismo urbano mediante un inedito e suggestivo allestimento, in bilico tra reale e immaginario. Obiettivo ambizioso: testimoniare la città come linguaggio in divenire, nel pensiero, nell’azione, nella sensorialità della storia, in una metafora figurale basata su una proiezione del proprio corpo. Lo strumento scelto per comunicare questa complessa vicenda è assai semplice: nell’antico, splendido invaso prospiciente il Duomo è stata ricostruita in pianta e, per gli edifici più tipici, anche in alzato la recente, opaca piazza Cesare Battisti. Disegni e fotografie sono appesi a reticoli di tubi metallici colorati, mentre sulla superficie del piancito è segnata la planimetria dell’insediamento ottocentesco, ponendo in evidenza gli interventi dell’epoca».

La lettura visionaria della città effettuata da Salvotti con l’«originale arredo» (Zevi), era il tentativo di recuperare uno dei significati, forse quello più recondito, nelle architettura mancata di piazza Cesare Battisti: l’ultima espressione di un’«identità urbana».Per mezzo di sottili profili metallici che riprendevano, in scala quasi al vero, i contorni geometrici classicheggianti del «teatro» e della «torre», installati sulla planimetria ricostruita della città ottocentesca del podestà Paolo Oss Mazzurana, Salvotti dichiarava la possibilità, per l’architettura, di esprimere ancora «una forma identitaria».Oggi Salvotti ricorda così quell’avvenimento del settembre 1983:

«Nell’antica piazza Duomo, con quell’allestimento, ho inteso (coinvolgendo in senso allusivo anche la moderna piazza Cesare Battisti) riaffermare l’identità urbana, mostrandone il carattere culturale prevalente nello sviluppo storico della città: dalla città originaria vitruviana-classica allo sviluppo extramoenia di Paolo Oss Mazzurana – neoclassico alla classicizzazione del razionalismo tentata in piazza Cesare Battisti negli anni trenta (valida nell’idea, mediocre nella realizzazione): da questa forma identitaria si è poi tornati nell’attualità dell’informe».

Quindi piazza Cesare Battisti quale ultimo capitolo della costruzione della città, non ancora precipitata nell’odierno panorama indifferenziato che caratterizza il volto della città contemporanea.

Maquette dell’allestimento di Gianleo Salvotti in piazza Duomo a Trento nel settembre 1983. Sono raffigurate in rosso la planimetria della città storica, in chiaro quella della Trento ottocentesca di Paolo Oss Mazzurana. In alzata si intravedono le figure classicheggianti di piazza Cesare Battisti.Collezione privata.

1 Ponti 1942: 10-19. 2 Koenig 1984: 22. 3 PiCCinato 1932: 255-258. 4 CiuCCi 1989: 29-31. 5 sBetti 2005. 6 Archivio Storico del Comune di Trento,

Ordinamento italiano, ACT4.15-T 252/1

risanamento Sas, pratica generale, finanziamento, progetto collaudo, Teca sas pratica generale.

7 «Il palazzo scolastico di piazza R. Sanzio», Il Brennero. Trento, 18 ottobre 1931.

8 oRaDini 1983: 65. 9 PiCCinato 1932: 257.

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Guido Laino

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Immaginate di tornare dopo diciotto anni di assenza nel luogo in cui siete cresciuti e, una volta arrivati a destinazione, di scoprire che quel luogo non esiste più e che al suo posto c’è una città mai vista prima. Questo è quanto accade a Ted Barton, il protagonista del romanzo di Philip K. Dick The Cosmic Puppets, tradotto in Italia con il

più didascalico La città sostituita. «Non riconosceva niente. Tutto era diverso, tutto gli era estraneo. Quella città non era la Millgate che lui ricordava. Sentiva la differenza. In quella città non c’era mai stato in vita sua»1: non si tratta di un vuoto di memoria, questo è chiaro da subito, perché Barton ha un ricordo preciso della cittadina in cui è cresciuto; il problema è che quella in cui si trova, che pure è nello stesso luogo geografico della sua città natale, non è la città che lui ricorda. Procedendo in una concitata, e sempre più inquieta, esplorazione, Barton scopre un luogo mai visitato prima eppure in qualche modo somigliante alla cittadina dei suoi ricordi. Non solo si trova nel luogo sbagliato pur avendo percorso l’unica strada che potesse condurlo a destinazione, ma questo luogo è sovrapposto in modo incerto e spaventoso a quello in cui lui riteneva di doversi trovare, come se tutto fosse cambiato completamente e ciononostante avesse mantenuto una qualche oscura riconoscibilità.Nell’opera di Philip K. Dick sono assai frequenti questi repentini e spesso inspiegabili ribaltamenti della logica del mondo: i suoi personaggi scoprono all’improvviso di essere qualcun altro, si rivelano esseri artificiali, o si ritrovano all’improvviso in una realtà diversa rispetto a quella in cui erano un momento prima. Si tratta di eventi che mettono in scena quello che Freud definisce il «perturbante», ovvero qualcosa di familiare e al tempo stesso segreto, sconosciuto eppure riconoscibile. Nel romanzo La città sostituita l’elemento perturbante si avvicina molto all’origine etimologica del termine freudiano unheimlich, che è il rovesciamento di heimlich come derivato di Heim (casa) e Heimat (patria, città/paese natale): la Millgate ritrovata da Barton è letteralmente la sua non-città natale, un non-luogo che, nella tradizione dell’utopia, è una non-patria, ovvero un luogo speculare e opposto, somigliante ma radicalmente differente, al luogo di partenza. Tant’è che cercando la casa in cui è nato, si imbatte letteralmente nella sua non-casa:

«Pochi minuti più tardi era davanti alla casa in cui era nato. Ma al posto della casetta bianca e rossa che lui ricordava chiaramente, si ergeva ora un vasto albergo. E la strada non era Pine Street: era Fairmount Street»2.

Dopo aver vagato per questa città sconosciuta, estranea eppure familiare, Barton non può che ammettere un dubbio che è, in effetti, inammissibile: se quello che ricorda come il luogo della sua infanzia è scomparso, allora o è falsa la cittadina che ne ha preso il posto o è falsa la memoria di quel luogo, da lui serbata lungo i diciotto anni di lontananza.Immaginate a questo punto una persona che, dopo essersi allontanata da Trento per un periodo anche più breve, vi torni verso il 1940 per ritrovare i luoghi in cui è cresciuta, nel quartiere del Sas: la precisa memoria dei vicoli tortuosi, degli angoli scuri, delle taverne e i passaggi coperti, si vede smentita dalla realtà di una città sostituita, in cui lo spazio di una piazza dal rigido disegno architettonico appare sovrapposto al vecchio quartiere, di cui è rimasta qualche traccia appena percettibile. Procedendo in parallelo all’esplorazione del protagonista del romanzo di Dick, possiamo vedere questo viaggiatore immaginario paralizzato davanti alla sua non-casa, oramai sostituita da un grande edificio squadrato. L’unica differenza fra le due esperienze è che mentre le persone che incontra Barton gli dicono che la città che lui ricorda con precisione non è mai esistita, al viaggiatore trentino racconteranno della decisione, da parte del regime fascista, di imprimere la propria impronta sulla città e di abbattere il quartiere per fare spazio alla costruzione di piazza del Littorio. L’impatto emotivo della sostituzione è in entrambi casi, quali che siano le cause del cambiamento, durissimo: entrambi i viaggiatori smarriti, davanti allo scollamento del presente dalla memoria dei propri luoghi di infanzia, vedono messa in dubbio la propria identità come qualcosa di potenzialmente falso, esattamente com’è il ricordo di ciò che non esiste più (cioè un ricordo del passato che non è confermato dalla realtà del presente).

La città(dinanza) sostituita In questo presente in cui «tutto era deformato, alterato, mutilato»3, Barton, esasperato dalla cancellazione della città dei suoi ricordi, cerca tracce di sé e della propria storia come riaffermazione del proprio passato – o, meglio, della memoria che ha di esso – sulla verità perturbante di questo presente a lui estraneo. Di fronte all’evidenza di una trasformazione radicale che getta le sue ombre all’indietro, su quella massa di ricordi divenuta ormai una materia friabile, incerta, in qualche modo inaffidabile, Barton prova a rifugiarsi nei documenti, per ancorarsi a una realtà storica ufficiale raccontata da atti di nascita e certificati di matrimonio e morte; ma ciò che vi trova è un passato riscritto, ancora una volta simile, ma inspiegabilmente differente, rispetto a quello che lui conosce come il suo passato. Le notizie che riguardano la sua famiglia, i nomi di

Fotografia aerea di piazza Cesare Battisti.Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i Beni storico-artistici, Archivio fotografico storico, Fondo Rodolfo Rensi.

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battesimo, gli avvenimenti principali, sono tutti cambiati, seppure solo parzialmente, come per una lieve ma onnicomprensiva distorsione. E tuttavia il fenomeno di trasformazione della storia che il protagonista va scoprendo in questo presente del tutto nuovo, porta con sé uno sconvolgimento ancora più inquietante: la data che nella sua memoria corrisponde al giorno della partenza della sua famiglia da Millgate risulta essere, nei documenti di questa storia modificata, quella della sua morte per scarlattina. La cancellazione della sua memoria va dunque a coincidere con la cancellazione di sé: nel punto di divergenza fra i suoi ricordi e la realtà per come appare è posta la differenza fra il suo essere e il suo non essere.Anche qui l’elemento misterioso e, come si scoprirà in seguito, soprannaturale della storia di Dick lascia emergere una verità più profonda: lo spazio – ovvero la coscienza e la memoria che si hanno di esso – concorre a costruire l’identità. Ritrovandosi in una non-patria, il protagonista del romanzo diventa un non-uomo, una parvenza di ciò che era o che credeva di essere:

«forse lui non era Ted Barton. Forse era vittima di falsi ricordi, e persino il suo nome, la sua identità erano falsi. Qualcuno, o qualcosa, aveva alterato tutto ciò che c’era nella sua mente. Si aggrappò disperato al volante. Ma se non era Ted Barton, chi era?»4.

Il sospetto paranoide secondo cui «qualcuno o qualcosa» ha alterato la realtà del presente o del passato, porta di fatto a un bivio: o questa forza sconosciuta ha trasformato lo spazio sostituendo ciò che era con un luogo del tutto nuovo, oppure ha edificato un’identità falsa, fatta di ricordi fittizi, nel corpo di una persona di fatto scomparsa. Ma che sia accaduta l’una o l’altra cosa, l’effetto di questa impostura è uno soltanto: la cancellazione della cittadina dei suoi ricordi ha portato Barton alla sparizione, perché un individuo privato dello spazio che conosce e percepisce come proprio non è più lo stesso individuo, è qualcosa di differente, un’identità che cambia allo stesso modo in cui cambia la facciata di un palazzo o il disegno di una strada.Il romanzo di Dick sembra mettere in scena una riflessione che ritroviamo nelle parole di Gesualdo Bufalino, in Cere perse:

«è nel passato che mi certifico e mi battezzo, identità e memoria fanno tutt’uno. Stravolgete la mia memoria e avrete altresì contraffatto la mia identità; smemoratemi o raddoppiate la mia memoria e io non saprò più chi sono o crederò di essere un altro, o crederò d’esser due»5.

Appare evidente come con la sostituzione della città non si cancellino solo un luogo e la sua memoria, ma anche l’identità della persona che custodisce quella memoria; Barton perde i propri ricordi e con essi se stesso, e si consegna a un presente del tutto nuovo, lasciandosi assorbire da un’intera comunità trasformata o ristrutturata esattamente come lo spazio che abitava. Infatti, con l’affermarsi di una memoria collettiva che ha cancellato ciò che precedeva il cambiamento, l’intera

Copertine dell’edizione americana del romanzo di Philip K. Dick del romanzo The cosmic Puppets (Ace Books, 1957) e della traduzione italiana, La città sostituita (Urania, 1962). Il racconto è la storia di un uomo che torna dopo diciotto anni di assenza nel luogo in cui è cresciuto ma, una volta arrivato a destinazione, scopre che non esiste più: al suo posto c’è una città mai vista prima e (quasi) nessuno ricorda il paese della sua infanzia.

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cittadinanza non è più se stessa, si è mutata in altro da sé. Tant’è che il rompicapo di questa amnesia collettiva, in cui nessuna delle persone interpellate da Barton riesce a ricordare ciò che lui ricorda, sembra avere un’unica soluzione: gli abitanti della nuova Millgate non ricordano «perché non sono più le stesse persone», perché «i vecchi abitanti sono spariti, come sono spariti i luoghi» .Alla sostituzione della città corrisponde dunque la sostituzione dei suoi abitanti, la cui identità è dissolta con il modificarsi degli spazi urbani e della loro memoria. In questo senso, al di là della dimensione fantastica del romanzo di Dick, quanto accade a Millgate è una sorta di grande rinnovamento urbanistico che corrisponde a un rinnovamento più ampio di tutta la comunità. D’altra parte, quando si parla di riqualificazione di un quartiere, di cosa si parla? Non si tratta forse di ristrutturarne gli spazi per trasformarne il tessuto sociale? Gli interventi su aree urbane considerate degradate mirano sempre a migliorare le condizioni degli spazi pubblici per innescare una sorta di profilassi sociale che coinvolga tutti gli abitanti di quelle aree; si modificano i luoghi anche per attivare un cambiamento negli abitanti. Questo, d’altra parte, è quanto accade al quartiere del Sas: la sostituzione dell’intrico di vicoli e case popolari con le geometrie pulite della piazza è, almeno sulla carta, dettata da esigenze igienico-sanitarie e, più in generale, dall’intenzione di apportare una radicale modifica sociale al centro di Trento. Anche qui vi è una sostituzione della popolazione come a Millgate, si tratta però di una sostituzione di carattere sociale, una ripianificazione del centro cittadino che prevede che alle classi popolari subentri la borghesia.Attraverso il romanzo di Dick si definisce uno schema di contrapposizioni che può essere applicato alla storia del quartiere del Sas e di tutti quei luoghi che sono stati radicalmente cambiati da grandi opere di riqualificazione urbanistica: su un fronte troviamo il luogo originario e la memoria che si ha di esso, sull’altro il luogo nuovo che l’ha sostituito e il vuoto di memoria che porta con sé. Nel personaggio di Barton troviamo la figura di colui che ricorda, che non si oppone al cambiamento per il desiderio nostalgico di tornare al passato della sua infanzia, ma per difendere il suo presente minacciato dalla negazione della propria memoria. Si tratta, dunque, di un individuo che rifiuta l’omologazione riaffermando il valore dei propri personali ricordi contro il vuoto di memoria imposto alla comunità. La forza contro cui si batte è quella che attraverso la sostituzione, cioè nel combinarsi del cambiamento e della cancellazione di ciò che lo precedeva, punta a imporre alla comunità un’identità nuova, ricostruendola sulle rovine dell’identità precedente, rasa al suolo e dimenticata.

Buchi di memoria «Chi controlla il passato, controlla il futuro: chi controlla il presente, controlla il passato»7: questo è lo slogan più efficace, oltre che uno dei princìpi fondanti, del Partito, il nebuloso gruppo di potere tirannico che governa l’Oceania in 1984 di George Orwell. Se Barton, nel romanzo di Dick, non ritrova i luoghi della sua memoria dopo una lunga assenza, il protagonista di 1984, Winston Smith, vede negati i propri ricordi da una forza dispotica che si propone

Joseph Goebbels, il secondo da destra, venne rimosso da questa foto che lo ritraeva con Adolf Hitler nel 1937. Foto da internet.

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programmaticamente di riscrivere a proprio vantaggio, giorno dopo giorno, il passato. Fedele al proprio slogan, «il Partito poteva impossessarsi del passato fino a dire, di questo o di quell’altro avvenimento, non è mai successo»8: in 1984 la storia è dunque riscritta quotidianamente perché sia univocamente, e ininterrottamente, testimone dell’assoluta verità imposta e rappresentata dal Partito. Ma a questa minuziosa opera di contraffazione del passato Winston Smith oppone la propria memoria, benché fallibile e soggettiva; e tuttavia, per quanto precisi possano essere i suoi ricordi, il passato fabbricato su misura dal Partito avrà sempre il sopravvento come verità non solo ufficiale e comprovata, ma condivisa dall’intera comunità, dunque indubitabile. Non è infatti sufficiente che un episodio riscritto dal Partito venga smentito dalla memoria di un individuo, che è rimasto solo di fronte a una maggioranza compatta:

«dove esisteva quella nozione? Solo nella sua coscienza, la quale, in ogni caso, doveva essere presto annullata. E se tutti gli altri accettavano quella menzogna che il Partito imponeva (se tutti i documenti ripetevano la stessa storiella), la menzogna diventava verità e passava alla storia»9.

Vi è dunque una forza, nell’Oceania raccontata da Orwell, del tutto simile a quella che ha trasformato il presente e il futuro della Millgate raccontata da Dick: una forza che, per rinsaldare la verità di potere radicata nel presente, ha mutato a propria immagine la memoria del passato. Ma se in Dick il compito di ricordare è affidato a un outsider proveniente proprio da quella comunità del passato che è stata cancellata, in Orwell la memoria che non obbedisce alla falsificazione appartiene a una persona paradossalmente impegnata per conto del Partito in quella stessa opera di falsificazione: Smith è infatti impiegato al «Ministero della Verità» e si occupa di «articoli o notizie che per una ragione o l’altra si riteneva necessario modificare ovvero, secondo quanto diceva la frase ufficiale, rettificare»10. Si tratta in sostanza di tenere aggiornata la memoria del passato al presente, cioè di modificarne a posteriori i documenti perché non vi sia alcuna interruzione nel flusso infallibile della voce dominante. In questo modo non solo il Partito ha sempre ragione, come accade per tutte le tirannie, ma ha sempre avuto ragione; non solo è al potere, è sempre stato al potere. Come accade a Millgate, il cambiamento rispetto al passato è definitivo semplicemente perché quel passato non esiste più, e viene dunque negata alla base la natura stessa del cambiamento, la sua discutibilità, il fatto che vi sia la possibilità che le cose siano diverse da ciò che sono.I documenti che provano l’esistenza di una verità diversa da quella «rettificata» dal Partito vengono inceneriti in forni sotterranei collegati agli uffici attraverso tubi pneumatici che «erano stati soprannominati buchi di memoria»11. Si ha dunque, per lo strumento principale dell’opera di distruzione del passato, un nome in gergo che rimanda all’enorme e continuamente estensibile vuoto di memoria necessario all’affermazione dei ricordi fittizi riscritti nel presente. Winston Smith è al tempo stesso un meccanismo infinitesimale della colossale macchina di falsificazione del Partito e un suo isolato oppositore, che alla cancellazione del passato oppone l’esercizio, disperato ed essenzialmente sterile, della propria memoria come unica opportunità di contrastare questi buchi di memoria. In questo conflitto vediamo dispiegarsi uno dei nodi presenti anche nel romanzo di Dick: il presente si gioca da una parte su una verità individuale, che come tale è incerta e discutibile come ogni ricordo personale, e dall’altra su una verità collettiva che è però fondata su una storia falsificata. Emergono dunque, in 1984 come in La città sostituita, due fronti opposti su cui non solo si scrive il passato, ma si giocano anche le sorti del futuro e il controllo del presente: da un lato vi è una rimozione collettiva del passato operata da una forza dominante che trae vantaggio dalla sistematica falsificazione della memoria, dall’altro vi sono i ricordi di un solo uomo, che si ostina a difendere il passato di cui è riuscito a conservare memoria. Se dunque l’obiettivo ultimo della formazione del vuoto di memoria è permettere l’imposizione di un passato funzionale al dominio del presente, la lotta di coloro che ricordano sta nell’affermare una memoria eretica, che restituisca al passato le proprie incongruenze. Se la riscrittura della memoria è necessaria per inscenare il tramandarsi fluido di un sistema di potere come stato naturale che non conosce condizioni differenti dalle attuali, un ricordo capace di contraddirla opera un’interruzione decisiva, che pone in crisi il presente aprendo una breccia su un passato che pareva cancellato.

Memini ergo sum: ricordo dunque sono Nel romanzo di Dick il protagonista rievoca metro dopo metro la città dei suoi ricordi condividendo con altri la propria memoria. L’uscita dall’isolamento appare determinante per intraprendere l’opera di contraddizione della memoria sostituita, perché in questo caso il valore della condivisione dà forza e sostanza al ricordo individuale: «Niente ci potrà fermare. Possiamo riportare indietro la città intera, pezzo per pezzo. Tutto quello che ricordiamo»12. Attraverso un processo condiviso di memoria creativa si compie un’ulteriore

Copertina dell’edizione americana del racconto di George Orwell, 1984 (Secker and Warburg, 1949). Il protagonista di questo romanzo breve, Winston Smith, vive in uno stato chiamato Oceania e vede negati i propri ricordi da una forza dispotica che riscrive programmaticamente il passato a proprio vantaggio.

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riscrittura del passato che conduce a una ricostruzione della cittadina e al progressivo dissolversi della sua versione contraffatta. La precisione dei ricordi, affinata grazie alla mutua influenza delle diverse memorie del passato, determina l’efficacia dell’opera di ricostruzione; è dunque nella qualità e nell’intensità dello sforzo di memoria che si realizza la potenzialità della lotta di resistenza. «Per qualche minuto restarono lì fermi, a ricordare il passato: il parco con il suo cannone, e la città. La vera città, che era esistita sino al Cambiamento. Stavano immobili e tacevano, tutti presi dai ricordi»13: così la città sostituita va dissolvendosi, per lasciare posto a una città del ricordo che si sottrae al vuoto di memoria collettivo. In 1984, Winston Smith compie invece un’opera di resistenza solitaria, perché lo sforzo di ricordare la realtà precedente all’avvento del Partito non ha speranze di trovare in altri alcuna conferma. E tuttavia la sua memoria eretica si consolida nell’evidenza della falsificazione del passato operata dal Partito: il suo lavoro consiste nel mettere nei «buchi di memoria», e dunque incenerire, i documenti

Cartolina che ritrae l’attuale piazza Cesare Battisti e lo scorcio di via Armando Diaz.Biblioteca comunale di Trento, Fondo Iconografico.

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originali, eppure il solo ricordo di aver avuto in mano quei documenti gli è sufficiente per porre in dubbio l’intero apparato di falsificazione del Partito: «La soggezione in cui il Partito teneva il passato diveniva forse meno totale, egli si chiedeva, soltanto perché un capo di prova, che ora non esisteva più, era esistito una volta?»14. La speranza della lotta di Smith è racchiusa nella sua memoria individuale: un documento può essere contraffatto o incenerito, ma il ricordo della sua esistenza permane nella memoria di colui che si sforza di ricordare. Nello stesso modo in cui Barton, attraverso il proprio sforzo di memoria, afferma se stesso come individuo contro la cancellazione di sé operata dal cambiamento, così Smith preserva la propria individualità contro l’azzeramento imposto dal Partito conservando il ricordo dei documenti, poi «rettificati» e inceneriti, nella propria forma originale.Nel conflitto apertosi tra l’affermazione di due opposte versioni del passato, Ted Barton e Winston Smith operano come elementi resistenti che rifiutano la riscrittura della memoria collettiva e, di conseguenza, riaffermano la propria identità al di fuori della massa obbediente che permette e accetta la deformazione dei propri ricordi. I due personaggi sembrano dire con Gesualdo Bufalino memini ergo sum, «io sono perché ricordo»15. Nella riflessione sul vuoto di memoria costituitosi intorno alla sostituzione del quartiere del Sas con piazza del Littorio, che naturalmente non ha la genesi soprannaturale o distopica dei romanzi citati, appare in questo senso importante evocare Barton e Smith come due figure paradigmatiche protagoniste di una lotta di resistenza per la difesa non solo della memoria di un luogo, ma dell’identità collettiva che su quella memoria si fonda. Perché, se il progetto di sostituzione voleva rendere manifesta un’idea di progresso non solo tecnico e architettonico, ma anche sociale, culturale e politico, va osservato che il suo paradossale successo è proprio nell’aver generato un vuoto di memoria persistente, ovvero una trasformazione nell’identità della città che è sopravvissuta lungamente ai propri artefici. In sostanza, pur nella destituzione del sistema di potere che l’ha realizzata, quella che oggi è piazza Cesare Battisti ha conservato la propria funzione di luogo deputato all’affermazione di un’identità cittadina radicalmente differente rispetto a quanto potesse suggerire il quartiere di cui ha preso il posto. Anche per questo il vuoto di memoria si estende fino al nostro tempo: il progetto di sostituzione non è tramontato con il progetto politico che doveva incarnare ma si è invece compiuto modificando indelebilmente la natura del centro cittadino.Permane dunque di stretta attualità l’urgenza di operare contro il vuoto di memoria come fanno i protagonisti dei romanzi di Dick e Orwell. La loro ostinata difesa della propria visione del passato, e l’effetto che quest’opera essenzialmente creativa ha sulla percezione – non solo loro – della realtà, rimanda alla necessità di porre in crisi, con i propri ricordi e le proprie esperienze personali, la scrittura di una memoria condivisa valida per l’intera collettività. In 1984, il Partito accusa Smith di aver ceduto a questo anticonformismo della memoria e di avere quindi assunto la posizione dell’eretico che smentisce la versione ortodossa del passato:

«hai mancato di umiltà, di disciplina verso te stesso. Tu non hai voluto fare l’atto di sottomissione che è il prezzo della saggezza. Hai preferito essere un pazzo, essere la minoranza di uno. Solo le menti disciplinate possono vedere la realtà»16.

Se la realtà è ciò che la collettività stabilisce che sia, la misura del potere del Partito sta nella sua capacità di imporre alla collettività stessa una memoria e dei valori condivisi che vadano precisamente a definire quel concetto di realtà; da parte sua, invece, colui che esercita la propria memoria individuale si pone al di fuori della società e della sua logica, ed è quindi un soggetto affetto da una «memoria difettosa» che resiste al processo di igiene sociale e culturale attuato nella riqualificazione dello spazio urbano.Nell’opporre la differenza del proprio ricordo alla conclamata affermazione della memoria condivisa, Barton e Smith agiscono come quella figura di intellettuale – ovvero l’artista, lo storico, il filosofo – che senta il dovere di contraddire il conformismo imposto, anche attraverso la costituzione di una memoria condivisa, dalla collettività e, allo stesso tempo, alla collettività. Marcare la differenza del proprio ricordo si configura, dunque, come l’atto eretico di una mente critica che non accetta di assumere quello che Michel Foucault definisce «il regime politico, economico, istituzionale di produzione della verità»17. Nella personale riscrittura del passato e della sua verità, coloro che ricordano un passato differente assumono il profilo che Giorgio Manganelli attribuisce allo scrittore, ovvero quello di un individuo «fondamentalmente asociale», un «disertore» che «quotidianamente, con gesto tragico ed esatto, deve mondarsi dei miti euforici della disonesta buona coscienza: saggezza collettiva, progresso e giustizia»18. Davanti alla possibilità di sostituzione della memoria del passato da parte di una voce dominante, l’intellettuale riposiziona la propria ricerca proprio nei termini di una incessante contraddizione del conformismo ideologico e culturale della propria società. Si pone quindi al di fuori (diventare un outsider come Barton e Smith), e da fuori rientra nello spazio in costruzione del sistema dominante per interrompere, o almeno disturbare, il ciclo di riqualificazione della realtà.

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Il vuoto nell’istante di un pericolo Walter Benjamin, nella sesta delle sue Tesi di filosofia della storia, vede allungarsi le ombre dell’influenza del sistema di potere sulla memoria del passato, come se l’opera di falsificazione descritta da Orwell in 1984 si stesse già abbondantemente compiendo: «Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante»19. Di fronte al potenziale sfruttamento della memoria condivisa come strumento di potere, si invoca una figura di intellettuale che sia capace di essere minoranza di uno e di assumere una posizione di radicale contraddizione. In modo non dissimile dallo scrittore di Manganelli, lo storico benjaminiano deve agire sapendo che «in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla»20. Vi è dunque un filo rosso che unisce la condizione di Barton di fronte alla Millgate sostituita, quella di Smith nell’infernale macchina dispotica dell’Oceania, e quella dello storico che si trovi a dover colmare il vuoto di memoria spalancatosi intorno a un luogo prima cancellato e poi reinventato, perché «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘come propriamente è stato’. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo»21.Vi è dunque da una parte l’istante del pericolo, ovvero il momento stesso in cui la sostituzione è sul punto di compiersi, dall’altra un patrimonio di memoria composto da una serie di racconti del passato come lo si ricorda e non come propriamente è stato. In questo senso l’azione di Barton, nel romanzo di Dick, è significativa perché la sua memoria creativa non porta alla ricostruzione di Millgate com’era prima del cambiamento, ma a ciò che era per come i suoi ricordi riescono a evocarla: una città ferma a diciotto anni prima, ricostruita a partire dalla memoria di un bambino divenuto adulto. Il suo sforzo creativo non può ambire a ricostruire la città reale, ma piuttosto a fornirne una terza versione, in qualche modo falsificata, seppure in buona fede, quanto la Millgate fittizia che cerca di cancellare. Non si tratta di ristabilire la verità, ma di darne una versione altra, personale e, come tale, necessariamente imprecisa, discutibile. Sarà semmai uno sforzo condiviso, esattamente come

Cartolina che ritrae piazza Cesare Battisti nel 1953. L’11 aprile 1938, quando l’opera di demolizione era conclusa, il podestà scrisse una lettera in cui dichiarava di accogliere la proposta di molti cittadini e di alcune non specificate autorità di apporre degli affreschi nel portico del teatro Sociale che si apriva sulla nuova piazza. Immagini che dovevano perpetuare la memoria di alcuni punti del quartiere del Sas, ormai perduto. In realtà le illustrazioni che vengono realizzate non commemorano tanto l’impresa dello sventramento ma piuttosto propongono ai passati un ricordo di quello che si trovava in quello spazio fino a pochi anni prima.Biblioteca comunale di Trento, Fondo Iconografico.

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accade nel romanzo di Dick, ad approssimare non un ricordo solo, ma una somma di ricordi differenti di persone diverse, alla realtà del passato. I ricordi di Barton, infatti, per quanto sorprendentemente vividi, hanno bisogno di dispiegarsi in un intreccio di altre memorie individuali perché si possa ricostruire un luogo in cui la comunità abbia nuovamente, e autenticamente, cittadinanza. Il suo compito è semmai quello di collettore di memorie differenti, capace di attuare una sorta di mappatura dei diversi luoghi della città ricordati, evidentemente in modi diversi, da un gruppo eterogeneo di persone ancora in possesso di una memoria individuale. Su questa linea, il concepire una geografia plurale della memoria non significa imprimere la propria personale ricostruzione del luogo scomparso sulla tabula rasa del vuoto di memoria, ma piuttosto comporre un mosaico di prospettive differenti sul passato e così risalire alla materia magmatica e multiforme della storia sottraendola al pericolo di strumentalizzazione cui è soggetta.

La memoria delle minoranze di uno Non si vuole qui contrapporre un’ipotetica memoria corretta all’impostura di una memoria preconfezionata da un sistema dominante, né si intende affermare la scrittura di un passato autentico contro la costruzione di un passato contraffatto. Piuttosto si può pensare di opporre una memoria composta dalle lacune, dalle incongruenze e dai veri e propri errori di tanti ricordi personali differenti, alla memoria univoca dettata alla collettività dalle voci dominanti all’interno della società. Non è la veridicità di un ricordo la risorsa di cui ci si deve impadronire, ma la sua differenza, l’alterità rispetto al codice della memoria ufficiale. E al contempo non appare necessario stabilire un racconto definitivo del passato, ma semmai arricchirlo di varianti, di dubbi, di equivoci. Bisogna dunque rivendicare l’imprecisione del ricordo invece di costringerlo in una narrazione cristallizzata, perché il passato sia sempre interrogato come qualcosa di vivo e mutevole. Di qui il senso di ipotizzare una memoria creativa, capace di ricostruire ciò che non esiste più e, se necessario, reinventarlo. Perché, come sostiene Jorge Luis Borges in Altre conversazioni, non è vero «che il passato non può essere modificato, credo che ogni qualvolta noi ricordiamo il passato lo modifichiamo, giacché la nostra memoria è fallibile. E questa modificazione può essere benefica»22.Il vuoto di memoria non è solo la terra di conquista di una o più voci dominanti che intendono appropriarsi del passato per scrivere un futuro a loro assoggettato; è anche uno spazio libero su cui poter fondare una memoria plurale e partecipata, capace di assumere più versioni differenti di una stessa realtà. Se è vero, come dice ancora Borges, che «il passato, soprattutto se è un po’ remoto, è una materia docilissima»23, allora una memoria che sia davvero collettiva deve essere allo stesso modo malleabile, farraginosa, contraddittoria. D’altra parte proprio un autore come Dick ha raccontato la realtà come una somma incalcolabile di «realtà plurali» in cui «ogni uomo abita un mondo unico e privato, un mondo differente da quelli abitati ed esperiti da tutto il resto degli

Cartolina di piazza del Littorio (ora piazza Cesare Battisti) 1941.Biblioteca comunale di Trento, Fondo Iconografico.

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uomini»24: allo stesso modo il racconto del passato può essere corale e dissonante, ricco di varianti e spazi vuoti che, invece di essere ricondotti a una narrazione unica, si aprano alla possibilità.Se volessimo restituire il quartiere del Sas alla città – non ha importanza se dopo un’assenza di dieci o settant’anni – forse non dovremmo limitarci a cercare di ricostruirlo secondo quanto emerge dai documenti; dovremmo piuttosto immaginarlo come un luogo vivo, un paesaggio della memoria che si possa ancora ricostruire. Potremmo tessere tutti i diversi ricordi delle poche persone ancora in vita che l’abbiano visto e vissuto prima della sostituzione; potremmo colmare le lacune con ciò che è plausibile ma non è certo; potremmo inventarne gli abitanti ormai svaniti, ridisegnarne i vicoli, popolarlo di volti e luoghi immaginari. E potremmo anche innestarvi tutto il repertorio di quei ricordi che sono solo nostri, di quei luoghi ormai esistenti solo nella nostra memoria di minoranza di uno, di quelle persone che hanno un volto che solo noi conosciamo, di quelle possibilità che solo noi abbiamo intravisto e che sappiamo non essersi compiute. Scrivere una storia che sia significativa solo per noi e lasciare che si mescoli, sia assorbita e riaffiori in una storia collettiva, che alla nostra verità abbia sommato la verità di tutti e sia dunque diventata patrimonio della comunità.

Cartolina di piazza del Littorio (ora piazza Cesare Battisti) scattata tra il 1935 e il 1945 da sotto il portico del teatro Sociale, non più esistente.Biblioteca comunale di Trento, Fondo Iconografico.

1 DiCK 1999: 253. 2 DiCK 1999: 255-256. 3 DiCK 1999: 256. 4 DiCK 1999: 257-258. 5 Bufalino 1985: 192. 6 DiCK 1999: 285. 7 oRwell 1989: 38. 8 oRwell 1989: 38. 9 oRwell 1989: 38. 10 oRwell 1989: 42. 11 oRwell 1989: 41. 12 DiCK 1999: 294.

13 DiCK 1999: 295-296. 14 oRwell 1989: 84. 15 Bufalino 1985: 192. 16 Orwell 1999: 261. 17 fouCault 2001: 191. 18 Manganelli 1985: 218 19 BenjaMin 1995: 77. 20 BenjaMin 1995: 78. 21 BenjaMin 1995: 77. 22 BoRges 2003: 32. 23 BoRges 2003: 33. 24 DiCK 1999: 261.

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tRento 1985 Trento: aspetti e immagini di ieri. Trento: Temi.

tuRella, Angiola1997 Rinnovamento nella tradizione: il progetto di Giuseppe Gerola per una «nuova architettura trentina» (1920-1928). Trento: Società di studi trentini di scienze storiche.

vaDagnini, Armando 2005 «Dai venti di guerra alla ricostruzione (1938-1948)». In: Storia del Trentino: 6: l’età contemporanea: il Novecento. A cura di Andrea Leonardi e Paolo Pombeni. Bologna: Il mulino: 131-165.

vinCi, Anna Maria 1997 Storia dell’Università di Trieste: mito, progetti, realtà. Trieste: Lint.

ZiPPel Vittorio1922 Trento: l’opera dell’Amministrazione comunale di Trento negli anni 1914-1915 e 1918-1921: relazione del sindaco sen. Vittorio Zippel nella seduta del Consiglio Comunale del 10 gennaio 1922. Trento: Tipografia cooperativa trentina.

ZuCChelli, Remo 1926a «La più grande Trento». Trentino. Trento, a. 2, n. 8: 195-198. 1926b «La più grande Trento». Trentino. Trento, a. 2, n. 9: 221-223.1926c «La più grande Trento». Trentino. Trento, a. 2, n. 10: 241-243.

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Guido Laino è laureato in lingua e letteratura inglese ed è dottore di ricerca in Letteratura americana. Ha studiato, oltre che presso le università di Trento e di Salerno, presso la Stony Brook University e la Columbia University di New York. Il campo principale della sua attività di ricerca è da sempre l’utopia e le sue forme contemporanee, ma ha lavorato approfonditamente anche sulla letteratura postmoderna statunitense e sulla teoria dell’arte, argomenti sui quali ha pubblicato diversi articoli su riviste e volumi collettanei nazionali e internazionali. In passato ha anche lavorato nell’editoria e presso l’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona ed è stato fondatore e redattore della rivista il Funambolo. Il suo primo testo monografico, su letteratura ed eterotopia, è in attesa di pubblicazione.

Giovanni Marzari è architetto libero professionista, si occupa delle nuove costruzioni e di restauro architettonico, di allestimenti di musei e di mostre. Accanto all’attività professionale ha sviluppato un’attività di ricerca che si è esplicata in studi sull’arte e l’architettura attraverso articoli su giornali e riviste di settore, nonché in pubblicazioni di libri e cataloghi. Ha partecipato a convegni, seminari e comunicazioni tenute presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, l’Università di Trento, il Politecnico di Milano, il DoCoMoMo di Roma e l’Accademia di S. Luca a Roma, la Galleria A+A di Venezia, il Mart di Rovereto.

Alessio Quercioli è dottore di ricerca in Storia all’Università di Verona; è insegnante di Lettere e collabora con il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto e la Fondazione Museo Storico del Trentino. Tra le pubblicazioni si segnalano il volume La Scelta della Patria. Giovani volontari nella Grande Guerra, curato insieme a Patrizia Dogliani e Gilles Pécout (Museo Storico Italiano della Guerra, 2006); il contributo Irredenti, irredentisti e fuorusciti, in «Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni. La Grande Guerra. Dall’intervento alla ‘vittoria mutilata’» (UTET: 2008); Italiani fuori d’Italia: I volontari trentini nell’esercito italiano 1915-1918 in «Volontari italiani nella Grande Guerra» (Museo Storico Italiano della Guerra: 2009).

Sara Sbetti è architetto; dopo la laurea a Venezia ha svolto attività di ricerca presso Dipartimento di ingegneria civile e ambientale della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Trento. È funzionaria del Servizio urbanistica e tutela del paesaggio della Provincia autonoma di Trento. Ha pubblicato il volume Il progetto di Piazza Littorio a Trento. Dallo sventramento del quartiere del Sas alla costruzione di una nuova polarità urbana (Università degli Studi di Trento: 2005).

Elena Tonezzer ha conseguito il titolo di dottorato in Storia presso l’Università di Trento. È ricercatrice presso la Fondazione Museo storico del Trentino dove è responsabile del settore della storia della città di Trento, a cui ha dedicato diversi saggi e mostre. Si è occupata di storia locale tra Otto e Novecento, con particolare attenzione per Alcide De Gasperi (Scritti e discorsi di Alcide De Gasperi, il Mulino: 2006) e per l’uso politico dello sport (Il corpo, il confine, la patria. Associazionismo sportivo in Trentino, 1870-1914, il Mulino: 2011).

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Micol CossaliValentina Miorandi

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Nella memoria personale e collettiva degli abitanti di Trento ci sono poche tracce della trasformazione urbana significativa che ha portato alla realizzazione di piazza Cesare Battisti poco prima della seconda guerra mondiale. Come spesso accade, andando scomparendo le generazioni di chi ha vissuto un luogo e quindi le sue vicissitudini,

tendono a scolorare le tracce della sua esistenza più viva. Lo spazio fisico stesso, il tracciato delle vie e il profilo degli edifici circostanti, non serba memoria di quello che c’era prima della piazza. Il progetto del percorso dell’esposizione che abbiamo ideato, e alla cui realizzazione hanno contribuito l’architetto Massimo Scartezzini (studio BBS, Trento) e il grafico Alessio Periotto (Designfabrik, Rovereto), si propone come un itinerario di riscoperta dal presente al passato – dal vuoto della piazza alla densità del quartiere del Sas – del quartiere che non c’è.Lo spazio in cui è stata pensata questa mostra è particolare. Lo spazio archeologico del Sas si trova infatti al di sotto della superficie di piazza Cesare Battisti e in questo sottosuolo, a partire dagli scavi realizzati negli anni novanta del secolo scorso, sono state fatte delle importanti scoperte archeologiche. I resti delle mura romane e delle successive costruzioni medioevali che le inglobarono furono gli scantinati degli edifici che costituivano il quartiere del Sas. Al momento della sua distruzione le cantine furono riempite dai materiali di riporto del cantiere e fino a pochi anni hanno custodito fa questo segreto.Il percorso parte dal presente, dalla conformazione odierna della piazza Cesare Battisti di Trento, da questo spazio vuoto ritagliato tra gli edifici del centro storico della città. Scendendo i gradini che conducono all’area espositiva sotterranea inizia il nostro viaggio nel passato.

La piazza nel tempo La piazza che conosciamo, che attraversiamo distratti e indaffarati, è un luogo sociale importante per la città e ne racconta la storia. Dalla sua inaugurazione nel 1941, la piazza è stata teatro delle trasformazioni sociali e politiche che hanno coinvolto la città e suoi abitanti. Sulle colonne rotanti, che scorrono come scorre il tempo, sono riportati dei fermo-immagine di alcuni di questi momenti.I visitatori sono coinvolti nella composizione di questi frammenti e sono sollecitati a leggerne attivamente gli elementi visivi per dedurne il contesto. La didascalia relativa si trova infatti scomposta dall’immagine.

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La demolizione Per creare lo spazio vuoto della piazza, ci si è fatti spazio tra le case che costituivano il vecchio quartiere. Tutte le persone che abitavano in quelle case si sono disperse nella città, hanno fatto le valigie, smontato mobili e impacchettato soprammobili e sono andate altrove.Le grandi fotografie alle pareti della sala espositiva mostrano lo sventramento del quartiere e la sua estensione. Gli oggetti accumulati nel centro della sala evocano la situazione dell’imminente trasloco.

Il progetto di una piazza moderna Il progetto della nuova piazza avviene in un momento storico particolare. Il Trentino e l’Alto Adige sono stati annessi di fatto al Regno d’Italia nel 1918 e per il regime fascista è importante costruire edifici e luoghi che rappresentino una rottura con il passato austrungarico e l’inizio di una nuova fase storica. A Trento vengono costruiti e ricostruiti numerosi edifici pubblici. Su grandi pannelli ne vengono mostrati alcuni dettagli architettonici che ne rivelano lo stile e le intenzioni simboliche.Su due pareti viene mostrato il progetto di massima della futura piazza del Littorio (così si chiamava inizialmente) , sono raccontate le vicende realizzative e le discussioni in merito. L’idea espositiva suggerisce l’ambientazione di uno studio di architettura con grandi fogli di carta appesi alle pareti.Il progetto originale e una lettera dell’architetto Adalberto Libera, critico sugli esiti attuativi del progetto, sono esposti all’interno di una colonna forata.

Il vicolo / la commissione A sostegno del progetto di rinnovamento della zona confluiscono le istanze di igiene e salute pubblica di matrice ottocentesca. Una commissione tecnico sanitaria fu incaricata di stilare una relazione sullo stato degli edifici per stabilire la loro inabitabilità e per calcolare i rimborsi degli espropri. Dalla lettura di questi documenti emerge una descrizione delle abitazioni e dello stato in cui versavano. Utilizzando la morfologia particolare di un corridoio cieco presente nello spazio espositivo abbiamo allestito una scenografia che rievocasse uno scorcio dei vicoli del quartiere e un’installazione sonora con frammenti estrapolati dalle relazioni della commissione che permettesse di immaginare le condizioni di vita degli abitanti, di entrare con l’immaginazione nelle case poi demolite.

Studi preparatori dell’allestimento della mostra Vuoto di memoria. La riscoperta del quartiere del Sas di Trento. Disegni di Alessio Periotto.

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Camera Oscura. Album di una famiglia del Sas Prima della demolizione del quartiere del Sas alcuni fotografi documentarono quello che si stava per perdere. Uno di loro, Mario Albertini, abitava con la famiglia proprio nel quartiere, dove aveva anche il suo negozio. Nell’installazione interattiva della camera oscura sono a disposizione dei visitatori dei «dagherrotipi attivi» che posizionati sul light box attivano dei brevi video che raccontano frammenti di vita familiare nel quartiere.

Il quartiere. Mappa interattiva Una grande mappa del quartiere com’era prima della distruzione mostra la disposizione delle case e delle strade. Collocando una lente d’ingrandimento in otto diverse posizioni sulla mappa, il visitatore può accedere ad altrettanti approfondimenti video, che raccontano alcuni aspetti della topografia del quartiere e della vita dei suoi abitanti: i vicoli e le strade, le rogge, l’approvvigionamento dell’acqua, le lavandaie, le attività artigianali e commerciali.Le strutture a parallelepipedo che si trovano nell’ultima sala sono posizionate in modo tale da creare un breve percorso che ricordi l’intrico degli stretti passaggi del quartiere. Su ogni lato, le fotografie mostrano luoghi che non esistono più e i volti ritratti ci suggeriscono storie lontane. Raggiungendo il centro dell’installazione si possono ascoltare frammenti di ricordi frutto di una raccolta di interviste svolta nel 2011 e 2012. La memoria del quartiere è sbriciolata nel tempo e poche sono le schegge di ricordi diretti che la portano alla luce. Mettendo insieme i diversi frammenti (documenti ufficiali, fotografie, giornali e riviste) abbiamo cercato di colmare questo vuoto di memoria facendo riaffiorare un nuovo tassello nel racconto di questo luogo così denso di storia.

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9 788871 971469

ISBN 978-88-7197-146-9€ 12,00