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Globalizzazione, populismo e l’elezione di Trump. Un’analisi dell’attuale crisi mondiale

ROBB SMITH

Edizioni Crisalide

IL GRANDE DIVARIO

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INDICE

Il momento attuale .........................................................3La metacrisi .....................................................................3Rifiutare l’invito ..............................................................4Il grande divario ..............................................................4La Brexit del pianeta ......................................................6Politicamente scorretto ..................................................8Non abbiamo motivo di partecipare alla vostra festa ...9I vicini, che poveracci! ..................................................10Il capitalismo schiaffeggia il lavoro, e forte .................11L’ascesa delle macchine ...............................................11I ricchi si arricchiscono sempre più .............................12Mentalità antiquate .......................................................13Conclusione...................................................................16L’autore .........................................................................17

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Il momENto attualE

La crescita del populismo sembra inarre-stabile. Tanti si sentono esclusi dalla mar-cia verso la ricchezza e ancora più numero-si sono quelli che ritengono che in futuro i loro figli non staranno meglio di loro. I ricchi si arricchiscono sempre più, mentre la classe media ristagna. Vi è una reazione molto forte all’immigrazione e al politica-mente corretto. E l’intelligenza artificiale minaccia di rendere la guerra per i posti di lavoro ancor più cruenta di quanto si pen-sasse…

Da queste e da altre tendenze nasce la pal-pabile sensazione che l’umanità stia attra-versando un periodo di profonda crisi: il mondo sviluppato comincia a interrogarsi sui pericoli del XXI secolo per trovare di nuovo la sua anima, nel caso l’attuale situa-zione si protragga troppo a lungo. Dalla crescita globale stagnante alle enormi di-suguaglianze in termini di ricchezza, dalla ridotta disponibilità di buoni posti di lavo-ro al “terrore” per gli immigrati, assistiamo all’interno di sistemi politici ed economici bloccati nel tardo Novecento a una sorta di convulsione, il che induce troppi individui alla disperazione.

Mentre si potrebbe credere che i grandi eventi politici internazionali (le elezioni presidenziali negli USA, la Brexit in In-ghilterra o la crisi dei profughi in Euro-pa) possano spiegare la situazione in cui ci troviamo, credo essi siano solamente sintomatici e che il cambiamento di pa-radigma attualmente in atto possa essere meglio spiegato dalla collisione fra le forze più profonde e radicate che stanno attual-mente emergendo.

(1) La cultura, la politica, l’economia e la tecnologia si sono globalizzate, diven-

tando interdipendenti, mondo-centriche e multiculturali nello stesso tempo in cui

(2) la popolazione si è divisa in due gran-di, ma diversi, stadi di sviluppo psicologico – i tribalisti e i globalisti – fra i quali vi è un “grande divario” di valori, punti di vista e capacità, e che reagiscono in modo com-pletamente differente alla globalizzazione. Contemporaneamente

(3) la globalizzazione non offre più ri-compense sufficienti a spingere i tribali-sti a partecipare al gioco mondiale, il che mette a repentaglio i valori universali e il liberalismo moderno su cui si basano le nostre democrazie.

la mEtaCrIsI

Queste forze in collisione e i loro sotto-pro-dotti fanno effettivamente parte di una più ampia “metacrisi” economica ed ecologica (per usare il termine di Sean Esbjorn-Har-gens e altri studiosi integrali); tale metacri-si include l’intero spettro delle dinamiche comportamentali, sistemiche, culturali e psicologiche che sono alla base dei gravi problemi che affliggono l’economia, l’e-co-sistema, la cultura e la politica. Sebbene queste forze non siano nuove (risalgono all’inizio della globalizzazione, databile al secondo dopoguerra), ciò che è nuovo è il fatto che la globalizzazione non è più in grado di garantire ai tribalisti ricompense sufficienti a far loro superare l’innatismo tipico della loro psicologia. A causa della demografia, della tecnologia e della glo-balizzazione, la crescita del reddito reale è bloccata, e ciò penalizza i tribalisti, in un gioco che privilegia solo un numero ristretto di persone. Come prevedibile, i politici populisti hanno colto quest’occa-sione per trarne ogni possibile vantaggio.

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Semplificano realtà complesse lanciando i loro tweet e sfruttando il ventre molle dei tribalisti. Ma la cosa peggiore è che si adoperano per assicurare che i pregiudizi ideologici occulti dei tribalisti infondano forza alle loro politiche controproducenti.

L’effetto finale, come noi della comunità filosofica integrale ribadiamo da anni, è che il sistema operativo della nostra civiltà è inadeguato al momento presente. I siste-mi politico-economici stanno cedendo sot-to il peso di un pensiero semplicistico e di una demagogia compulsiva, ma così nessu-no vince. Eppure, malgrado le sofferenze e le implicite conseguenze negative, il tra-monto dei sistemi operativi di una società è sempre stato l’oscuro laboratorio in cui si preparano, per quanto a fatica, l’adatta-mento, il rinnovamento e i progressi delle generazioni future.

Approfondiamo quindi quanto sta succe-dendo.

rIfIutarE l’INvIto

In “Transformational Life”, la mia confe-renza TED (Technology Entertainment Design) del 2012, ho delineato il modo in cui la globalizzazione e la tecnologia (come gli smartphone) hanno agito da levatrice per le forze che ci stanno indi-rizzando verso una complessità ed una perdita d’identità senza precedenti. Tali forze frammentano le nostre prospettive e la nostra concezione del mondo, le no-stre comunità e i nostri comportamenti in maniera davvero inquietante, specie se non abbiamo aggiornato a dovere i nostri “sistemi operativi” vitali. In tale conferen-za, ho elencato alcune qualità di grande rilievo il cui sviluppo sarebbe necessario per prosperare nel XXI secolo: la presenza

mentale, l’empatia, l’umiltà e lo spirito di servizio (di fatto, qualità eterne).

Ciò che non ho detto allora è che per più della metà della popolazione mondiale, e talora per tutti noi, è molto facile perce-pire come minaccioso l’invito a far parte di un più vasto tutto mondiale interdipen-dente che non comprendiamo bene, che non ci è connaturato, e che pare recarci solo svantaggi. Senonché, è proprio que-sto che ci chiede di fare la globalizzazio-ne. Saltate su, prendiamo il largo. Capire il Grande Divario esistente fra tribalisti e glo-balisti, ci farà comprendere perché i primi tendono a rifiutare l’invito.

Il GraNDE DIvarIo

Analizzando i dati forniti dai sociologi e dagli psicologi dello sviluppo possiamo ri-levare alcune indicazioni di massima ine-renti ai valori, alle concezioni e all’identità degli adulti nel mondo sviluppato (oltre al livello da loro raggiunto in termini di au-toconsapevolezza). Benché nello spettro dello sviluppo psicologico vi siano dieci “forme mentali” graduali e di crescente complessità, per i nostri scopi ci limitiamo a notare una specifica linea di divisione al centro di tale spettro, linea da cui, a mio parere, dipende in gran parte la reazione alla globalizzazione: fra gli stadi di svilup-po più avanzati e quelli meno evoluti vi è il Grande Divario che segna la transizione verso i valori, le concezioni e l’identità di un sistema operativo globale e mondo-centri-co. Chiunque operi per lo più a destra del Grande Divario – i cui valori, concezioni e identità si situano, pertanto, in uno degli stadi più avanzati – è in grado di assume-re una visione critico-oggettiva del proprio punto di vista.

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“Globalista” non è un termine arbitrario: la razionalità critica caratteristica di questo stadio favorisce ciò che il filosofo Ken Wil-ber definisce “mondo-centrismo”, vale a dire, la capacità di mantenere una distan-za critica da se stessi, capacità che trasfor-ma ed estende in modo universale i valori esclusivi della propria tribù a gruppi anche molto diversi dal proprio. Tale capacità sta alla base del liberalismo moderno, dei di-ritti paritari (a prescindere dalla religione, dalla sessualità e dal genere) e del cosmo-politismo economico.

Susanne Cook-Grueter, esperta di psicolo-gia dello sviluppo, descrive il primo stadio alla destra del Grande Divario (da lei de-finito “coscienzioso”) nel modo seguente:

I nostri sistemi educativi sono strutturati in maniera da produrre adulti provvisti delle capacità mentali e dell’autonomia emotiva caratteristiche di questo stadio [coscienzioso], cioè adulti razionalmente competenti e indi-pendenti. Come forma di governo, la democra-zia si fonda sull’idea di una cittadinanza che ha la capacità di pensare in modo indipen-dente e di operare scelte ragionate e informa-te… [Questi adulti] hanno maturato una for-ma di autonomia e iniziativa che li fa sentire padroni della loro nave. In quanto capitani della loro impresa, non sono più vulnerabili all’accettazione o all’esclusione come lo erano gli adulti [delle fasi precedenti]… Ormai san-no notare le contraddizioni e le incongruenze sia in se stessi sia nei sistemi di credenze cui aderiscono. Si rendono probabilmente conto che il modo in cui viene formulato un proble-ma è il problema. Gli adulti coscienziosi s’im-pegnano per il miglioramento dell’umanità secondo le linee di quel che reputano un futuro ideale… Possono ascoltare i feedback senza ne-cessariamente concordare con essi né sentirsi sviliti nella propria identità: non importa se chi mi critica ha ragione, è informato male o

mi giudica male, la sua critica è un’informa-zione utile tanto per me quanto su di lui… In genere, [gli adulti coscienziosi] si preoccupano delle ragioni, delle cause, degli obiettivi, delle conseguenze e dell’uso efficace del tempo. Sono convinti che sia possibile trovare la verità su se stessi e sono spinti alla ricerca e a scoprire come veramente stanno le cose.

I globalisti, quelli che occupano gli stadi a destra del Grande Divario, hanno la capa-cità di “notare le contraddizioni”, di vede-re che “il modo in cui viene formulato un problema è [spesso] il problema”, e non temono più le critiche o l’esclusione dai gruppi di appartenenza. In una democra-zia, questo è davvero un enorme balzo in avanti in fatto di abilità personali perché rappresenta, per la prima volta, la capacità innata di opporsi alla demagogia. A questo livello, è possibile vedere l’inganno insito nella tendenza demagogica a semplificare questioni globali molto complesse ridu-cendole a pseudo-princìpi rozzi, semplici-stici e basati sulla paura. Si possono com-prendere e giudicare le misure politiche, o la loro mancanza – prendendo in esame dati più ampi (economici, sociologici, psi-cologici, politici e altri) – riconoscendo coscientemente che sono basate su pregiu-dizi ideologici. Siccome sanno scorgere i propri pregiudizi e assumersene la respon-sabilità, i globalisti sono capaci di capire se e quando gli altri non lo fanno.

Nella parte sinistra del Grande Divario ap-paiono gli stadi di sviluppo che ho collet-tivamente definito “tribalisti”. I tribalisti tendono a mantenere i loro valori, le loro concezioni e identità a un livello di svilup-po pre-globale ed etnocentrico. Robert Kegan, teorico dello sviluppo, descrive la “mente socializzante” di questa fase come quella di chi vede nell’autorità esterna la fonte della verità assoluta, al punto da con-

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cedere preferenza e significato ai capi tri-bali (etnici, culturali, economici, politici o religiosi, il che non fa differenza per i no-stri scopi). La Cook-Greuter descrive (sen-za alcun intento peggiorativo) gli apparte-nenti a questo stadio come “conformisti”, che apprezzano e difendono la semplicità della struttura sociale tribale.

Gli adulti conformisti apprezzano molto la dipendenza fornita dall’appartenenza a un gruppo. Essa garantisce la sicurezza dei gran-di numeri e un nuovo senso di potere. L’io è definito e generato dai valori e dalle aspetta-tive di coloro di cui si è “parte”. I conformisti hanno la tendenza ad accettare le regole sen-za indagare o metterle in discussione. Il loro mondo cognitivo si divide in categorie e tipi di persone semplici, fondate sostanzialmente su distinzioni esterne… I confini tra l’io e gli altri sono però confusi, letteralmente fusi o in-distinti. Da un lato, vi è l’accettazione totale della famiglia e del gruppo di appartenenza (nell’adolescenza la compagnia degli amici), dall’altro il rifiuto cieco della devianza e dei gruppi di non appartenenza. La posizione pre-valente è quella del “noi” contro “loro”, che so-stituisce quella solipsista della fase precedente – “io” contro “loro” – nella quale “loro” inclu-de tutti gli altri (perfino i membri della propria famiglia). Per un conformista, o si è amici e alleati e ci si approva in quel che si fa, oppure si è nemici. Più il gruppo ha un rango elevato, più [i conformisti] sono fieri di farne parte. Se per dimostrare la necessaria obbedienza e sot-tomissione è necessario superare dure prove, si sentono onorati nell’essere ammessi al gruppo e nell’indossare le insegne che svelano agli al-tri la loro appartenenza.

Se paragoniamo la struttura psicologica dei tribalisti a quella dei globalisti (dall’al-tro lato del Grande Divario), è facile nota-re quanto diverso sia il modo in cui la pri-ma reagisce alla globalizzazione e quanto

intrinsecamente vulnerabile sia al fascino dei demagoghi, soprattutto se sono celebri e ricchi, quindi ritenuti dei “vincenti”.

Diciamolo apertamente: l’avvento della globalizzazione chiede ai tribalisti non solo di vedere complessità superiori alle loro capacità e di apprezzare distinzioni e sfu-mature che per loro sono quasi insignifi-canti, ma pretende perfino che si uniscano al villaggio globale. Vuole che rinuncino a una porzione di indipendenza per dive-nire una piccola parte di un più grande e complesso tutto globalizzato e interdipen-dente. In tale ottica, non possiamo stupirci se, dalla Gran Bretagna all’Europa e agli Stati Uniti, la loro risposta sia un sonoro: “Neanche per sogno!”.

la BrExIt DEl pIaNEta

Nell’ambito della globalizzazione, questo contrasto fra indipendenza e interdipen-denza è una tensione cruciale che tutti percepiamo mentre ci dirigiamo verso un mondo integrato, globalizzato e multicul-turale. Siamo tutti davanti alla scelta fra l’integrarci in sistemi e culture planetarie in campo economico, tecnologico, poli-tico ed ecologico, e rifiutare tale integra-zione, nel tentativo di conservare la nostra autonomia, all’interno di una nazione più piccola ma più indipendente (e di cultu-ra e abitudini più comprensibilmente in-digene). Siamo tutti di fronte all’opzione di isolarci dal pianeta (come hanno scelto di fare gli inglesi con l’uscita dall’Unione Europea). Possiamo non essere in grado di vincere, ma possiamo certamente lot-tare con tutte le nostre forze per resistere all’interdipendenza, all’interconnessione e all’internazionalismo.

Non è affatto un caso se l’ascesa del po-pulismo si accompagna alla costruzione di

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muri sempre più alti per tenere lontano i diversi da noi, alla richiesta di revocare accordi internazionali che accrescono l’in-terdipendenza economica, allo scarso so-stegno alle politiche per i profughi o ai provvedimenti per limitare gli impegni presi con la NATO.

Molti commentatori credono che queste siano posizioni politiche, ma in realtà le si comprende meglio se vengono inter-pretate come atteggiamenti psicologici: trincerarsi dietro posizioni isolazioniste è isomorfico alla struttura psicologica del tribalista. Mentre scrivevo questo artico-lo, due celebri commentatori arrivavano a conclusioni analoghe alle mie senza però vederne le profonde motivazioni psicolo-giche: Thomas Friedman ha rimarcato la distinzione fra “popolo del web” e “popolo del muro” (ai confini col Messico), men-tre il conservatore David Brooks quella fra globalisti e nazionalisti.

Non va dimenticato che, se accetta di di-ventare una piccola parte di un mondo globalizzato, un tribalista concorda im-plicitamente di rispettare un insieme di norme più ampie, una serie di sensibili-tà, linguaggi e comportamenti più vasti, che si estendono a persone molto diverse da lui. Per converso, è facile immaginare perché i tribalisti, oggi giustificati cultural-mente dai politici populisti di tutto il mon-do (Trump negli USA, Marine Le Pen in Francia, Norbert Hofer in Austria, Grillo e Salvini in Italia), stiano finalmente dan-do voce alla loro profonda esasperazione: “Non ci hanno mai chiesto di far parte di questa globalizzazione, non abbiamo dato il nostro assenso e rifiutiamo di piegarci a comando”.

Non è esagerato affermare che tale tensio-ne è presente in tutti noi: fino a che pun-

to desidero essere una piccola parte di un mondo più complicato che non potrò mai capire completamente, tanto più che pre-tende molto da me? Non è preferibile esse-re una rotellina relativamente più grande in una piccola tribù che ho qualche possi-bilità di comprendere, con cui so metter-mi in rapporto e in cui posso pensare di ottenere buone occasioni di successo?

Sul New York Times, Ben Judah riferisce che, viaggiando in Inghilterra per ascolta-re i sostenitori della Brexit, la motivazione più frequente che essi davano del loro sup-porto era: “Voglio uscire dalla UE perché questa non è più la mia Inghilterra… Non riconosco più il nostro Paese”. Questa è una tipica risposta tribale al mondo globa-lizzato, il desiderio di recuperare qualco-sa che si può capire e gestire, qualcosa di noto.

Lo stesso desiderio è alla base della richie-sta dei tribalisti che la religione svolga un ruolo di stabilizzazione in campo politico. Negli USA, perfino a centinaia di anni dal-la separazione fra Stato e Chiesa, la piat-taforma del partito Repubblicano per le elezioni del 2016 prevedeva che la religio-ne guidasse la legislazione, e che “le leggi dell’uomo fossero coerenti con i diritti na-turali di origine divina.”. Inoltre ribadiva l’importanza dell’istruzione biblica nelle scuole pubbliche, requisito “indispensabi-le per lo sviluppo di una cittadinanza istrui-ta”. Nel suo importantissimo Stages of Faith, James Fowler, psicologo evolutivo, spiega che l’esperienza tribalista della divinità è:

Uno stadio conformista, nel senso che è fine-mente in sintonia con le aspettative e i giudizi delle persone che contano, ma non possiede un senso stabile della propria identità, né una ca-pacità di giudizio abbastanza autonoma da poter edificare e mantenere una prospettiva in-

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dipendente… [I conformisti hanno] un’ideo-logia, una costellazione più o meno coerente di valori e credenze, ma non la esaminano né la oggettivizzano, – in un certo senso non sono consapevoli di averla. Le differenze di punti di vista con gli altri vengono interpretate come differenze fra “tipi” di persone.

Identificarsi con un gruppo di apparte-nenza tribale e conformarvisi, respingen-do quelli che sono diversi, lottando dura-mente per preservare la relativa semplicità dei tempi andati, fa parte di un tessuto di certezze morali largamente non verificato. I conformisti, non essendo in grado di ve-dere la loro prospettiva morale come un oggetto mentale da esaminare e sottopor-re a critica, non hanno un’ideologia, anzi è vero il contrario, l’ideologia li possiede. E siccome queste forze sono quanto meno parzialmente inaccessibili al loro giudizio mentale, la sollecitazione a integrarsi in una comunità più ampia, globale in questo caso, viene ritenuta una grave minaccia. Il loro senso di sé non è ancora così espan-so come quello a cui gli si chiede di sot-tomettersi. Senza le cognizioni e le abilità più ampie che producono la padronanza di sé del globalista mondo-centrico, i triba-listi non possono sentirsi a loro agio in un pianeta complesso e multiculturale (ciò appare meno vero per la generazione più giovane, i nativi digitali che hanno sotto-scritto il populismo progressista di Bernie Sanders).

È quindi naturale che il timore di perdere se stessi si esprima sotto forma di nativismo, xenofobia, nazionalismo e isolazionismo: è il tentativo di continuare a progredire at-traverso una regressione verso una forma più semplice e antica di organizzazione so-ciale, che sia piccola, indipendente e omo-genea al proprio sé e all’identificazione tri-bale. Non importa se la tribù coincide con

la nazione (Brexit, o lo slogan di Trump: “Rendiamo l’America di nuovo grande”), con un’etnia (vale a dire, #Costruiamo il muro!), con un gruppo religioso (la prefe-renza dei cristiani per la citata piattaforma elettorale repubblicana, vedi sopra) o con qualunque altra cosa, purché ciò produca una sensazione di avvicinamento a quel che è noto, sicuro e compreso.

polItICamENtE sCorrEtto

Vale la pena di notare che i globalisti sono i primi a sabotare i loro stessi interessi. Ciò che offende coloro che potrebbero altri-menti concedere una possibilità all’inte-grazione e al pluralismo è l’oscuro ventre molle dei sostenitori dei valori universali: una sensibilità schizzinosa e poco perspica-ce che, attraverso il politicamente corretto e l’irregimentazione del pensiero, rende quasi impossibile emettere un giudizio sen-za che si venga continuamente richiamati alla propria identità di brigata. Questo è il lato oscuro del multiculturalismo e, finché esso non diventerà altrettanto evoluto del-le distinzioni che tenta di imporre, ci sarà poco spazio per invitare in un più vasto tut-to politico e sociale quelli che all’integra-zione preferiscono l’indipendenza. Non potrà esserci un autentico pluralismo.

Ecco perché una delle posizioni che con-traddistinguono i sostenitori di Trump è il rifiuto del politicamente corretto. Il loro istinto è meritevole perché si rendono con-to che l’attenzione al linguaggio è diventa-ta in certi contesti un bastone punitivo che minaccia l’indipendenza di pensiero (e la libertà di parola, che è la sacra base del li-beralismo). I globalisti, sebbene si rendano talvolta conto che il politicamente corret-to riduce il discernimento critico, traggo-

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no spesso la conclusione errata, pensando che le rivendicazioni di validità personali e politiche stiano sullo stesso piano. Non lo sono. La percezione soggettiva di una mi-cro-aggressione non annulla tutte le altre considerazioni sistemiche, evolutive, peda-gogiche e politiche. Possiamo preservare e dare dignità alla nostra esperienza per-sonale, dare valore alle nostre prospettive e ai nostri sentimenti rimanendo fedeli a noi stessi, pur reclamando giudizi severi (e spesso spiacevoli) su culture, politiche e si-stemi sociali, con il sincero fine di favorire il bene collettivo e il buon funzionamento sistemico. (Vedi per esempio l’insuccesso dei costumi di Halloween alla Yale Univer-sity, dove si voleva insegnare ai bambini, molti dei quali saranno aspiranti globalisti, a creare dentro di sé questa semplice ma potente differenziazione psicologica). Ed è paradossale che i sostenitori di Trump se la prendano con l’intrinseco narcisismo del politicamente corretto, pur appoggian-do un candidato che, a mio parere, soffre di un grave disturbo narcisistico della per-sonalità.

Abbiamo bisogno di conservare un’onesta franchezza perché, se c’è mai stato un pe-riodo in cui bisogna dire la verità, questo è il momento perfetto. Siccome la posta in gioco è così alta, è fondamentale essere chiari e sinceri: il più vasto tutto a cui ognu-no di noi è sollecitato a unirsi (la società globale e multiculturale) è più complesso e dinamico che mai; esso contiene molta più “alterità” ed è molto più frammenta-to nei suoi valori, costumi e stili di vita di quanto possano esserlo una nazione o una comunità. È un mondo in cui prospera-no i nativi digitali, i regni cosmopoliti, e i presupposti per la partecipazione sono la competenza economica e professionale. Ed è semplicemente più impegnativo per tutti, non ci sono dubbi.

Tuttavia, il vero problema, come vedremo presto, non è che la complessità sta crescen-do e che il Grande Divario faccia da spar-tiacque fra due visioni del mondo, ma che le ricompense che la globalizzazione soleva promettere si stanno eclissando, eliminan-do l’unico potente vento in poppa per lo sviluppo dell’era moderna, vento che per più di mezzo secolo aveva sospinto la gen-te verso valori globalisti. Tali ricompense mascheravano il Grande Divario, perché la promessa di un ottimo posto di lavoro, di un lavoro che creasse anche senso di pro-sperità e capacità di progredire nella vita, era più allettante dei legami localistici del-la tribù. Oggi ci sono però prove concrete e inconfutabili che suffragano le afferma-zioni di coloro che si trovano su entrambi i lati del Grande Divario: il nostro paradig-ma prevalente sta fallendo. Siamo entrati in uno strano mondo, dove le ricompense della globalizzazione si accumulano spro-porzionatamente per i globalisti, mentre i tribalisti continuano a dover sopportare politiche che li impoveriscono e che non fanno altro che aumentare la distanza che li separa dai primi.

NoN aBBIamo motIvo DI partECIparE alla vostra fEsta

Fino a poco tempo fa chi partecipava alla globalizzazione ne ricavava grossi vantaggi: ottimi posti di lavoro, un livello di vita in miglioramento per tutti, prodotti di consu-mo a basso costo, un mondo politicamente stabile e interconnesso in senso economi-co. Nonostante gli sforzi in più richiesti per un’istruzione migliore, una preparazione più professionale e una maggiore tolleran-za culturale, la globalizzazione ha segnato l’inizio di un periodo di grande successo

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per la classe media occidentale del secon-do dopoguerra.

Oggi la storia è diversa. Nella stanza è en-trato un ingombrante elefante (una brut-ta sorpresa di cui il movimento Remain in Inghilterra ed entrambi i partiti ameri-cani si sono accorti troppo tardi): il fatto che le ricompense sono per lo più svanite per troppe persone della classe media, il che ha favorito l’ondata di populismo che sta mettendo al tappeto le istituzioni po-litiche. Il sistema economico globale ha sottratto a centinaia di milioni di persone (secondo McKinsey, 450 milioni) la sensa-zione di progresso, fomentando così una resistenza accanita al processo di globaliz-zazione. Quando l’un per cento della po-polazione mondiale possiede la metà della ricchezza globale e gli stipendi della classe media continuano a stagnare per decenni, il sistema si sta chiaramente mostrando in-capace di assolvere il compito di spingere i cittadini ad attraversare il Grande Divario ed adottare un multiculturalismo globale. In fondo, se i fatti economici danno loro ragione, perché dovrebbero adattarsi?

Prendiamo in esame i dati. Per circa la metà dei settant’anni che sono trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale, la classe media occidentale ha goduto di notevoli benefici: redditi reali in aumento, una ricchezza crescente, reti di sicurezza sociale sempre migliori, una ridistribu-zione abbastanza corretta della ricchezza, un’assistenza sanitaria decente e gestibili costi di istruzione scolastica.

Nella seconda metà di questo periodo, a partire cioè dalla crisi inflattiva dei tardi anni Settanta, abbiamo però assistito al fe-nomeno opposto: reddito reale medio sta-gnante, maggiore indebitamento persona-le, pessima redistribuzione della ricchezza,

crisi dei risparmi pensionistici, aumento dei costi per l’assistenza sanitaria e per l’i-struzione dei giovani. Il Pew Research Cen-ter calcola che la classe media statunitense ha visto crollare la propria parte del red-dito nazionale aggregato dal 62 percento (nel 1970) al 43 percento (nel 2014).

Dove sono finiti tutti questi soldi? Qua-si esclusivamente nelle tasche delle classi superiori, che hanno visto la loro parte di reddito nazionale aggregato passare dal 29 al 49 percento. Inoltre, dal 1983 il patri-monio medio netto famigliare è rimasto stagnante per le classi medie e inferiori, mentre è raddoppiato per quelle superio-ri. Si calcola altresì che quasi metà degli americani avrebbero difficoltà a trovare i soldi per un pagamento urgente di 400 dollari: se dovessero aver bisogno di farlo, sarebbero costretti a vendere un bene di famiglia per far fronte alla necessità. Perfi-no i piani pensionistici individuali si situa-no mediamente appena sui 14.000 dollari.

I vICINI, ChE povEraCCI!

Queste differenze economiche sono mol-to importanti. In un affascinante studio del 2007 sulla “deprivazione relativa”, Robert Frank, economista della Cornell University, chiedeva ai suoi intervistati se avrebbero preferito abitare in una casa più grande dell’attuale, ma più piccola di quella dei loro vicini, oppure più piccola di quella attuale ma più grande di quella dei vicini. I più risposero che avrebbero preferito la casa più piccola, purché fosse più grande di quella dei vicini! Una sco-perta che la dice lunga circa la psicologia umana: siamo disposti ad accettare condi-zioni peggiori, pur di sentirci meglio dei nostri dirimpettai.

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La classe media occidentale di pelle bianca ritiene di aver perso terreno rispetto ai vi-cini, e ciò ha creato una pentola a pressio-ne piena di rabbia, risentimento e ostilità. Il populismo è la reazione alla palese inca-pacità dei nostri leader politici ed esperti economici di gettare un ponte in grado di preservare i benefici della globalizzazio-ne, della tecnologia moderna e dei flussi di capitale, senza che i sudati vantaggi che arricchivano i lavoratori salariati vadano persi. Invece, proprio negli ultimi decenni il capitale ha preferito opprimere il lavoro per riaffermare il proprio predominio.

Il CapItalIsmo sChIaffEGGIa Il lavoro, E fortE

Negli ultimi decenni si è verificato un au-mento sproporzionato dei profitti per il capitale investito, a scapito del lavoro. Uno dei motivi della stagnazione dei salari reali dipende dal fatto che i mestieri appetibili sono pochi e saranno sempre meno negli anni a venire. Jim Clifton, presidente della Gallup, scrive in The Coming Jobs War che la competizione per un buon posto di la-voro sta diventando molto più dura e con-flittuale, infatti gli 1,2 miliardi degli attuali posti oggi a disposizione di tre miliardi di lavoratori, diminuiranno fino a raggiun-gere gli 800 milioni nei prossimi decenni, mentre nel frattempo la popolazione mon-diale aumenterà da sette a nove miliardi. Pensate alle conseguenze: la concorrenza spietata, la scarsità di posti desiderabili, la spinta a ridurre ulteriormente i salari; d’o-ra in avanti tutto peggiorerà per i lavora-tori dei Paesi sviluppati. Se pensate che sia già dura sfangarla adesso, aspettate un’al-tra generazione e vedrete.

E badate bene, è chiaro che la mancanza di occupazioni decenti è la linfa vitale dei populisti. Nel sondaggio della Gallup, Cli-fton rileva che la cosa più importante per le persone di tutto il mondo è avere un buon lavoro, a prescindere dalla religione, dalla razza, dal credo e dagli interessi nazionali. Fatemelo ribadire: la gente (sia i tribalisti che i globalisti) accetterebbe volentieri di partecipare al gioco della globalizzazione, sorvolando sulle preferenze “tribali”, se potesse avere un’occupazione moderna e ben remunerata. Parteciperebbe al gioco se pensasse di poter vincere. Purtroppo, sa che il gioco è truccato a suo danno.

l’asCEsa DEllE maCChINE

Teniamo inoltre conto che le cifre sui la-vori disponibili citate da Clifton potreb-bero essere sbagliate per eccesso, perché cinque anni fa non si prendeva ancora in considerazione l’avvento dell’intelligen-za artificiale e dei sistemi di automazione computerizzata che presto saranno dispo-nibili. McKinsey afferma:

Lo scorso anno abbiamo dimostrato che le tec-nologie oggi collaudate potrebbero automatizza-re il 45 percento delle attività attualmente svol-te da persone, e che circa il 60 percento di tutte le occupazioni potrebbe vedere automatizzate il 30 o più percento delle loro attività costitutive, sempre con le tecnologie disponibili al momento attuale.

Mettiamocelo bene in testa: a causa dell’au-tomazione, un terzo dei posti di lavoro of-ferti da più della metà di tutte le industrie nel prossimo decennio andrà perduto.

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I rICChI sI arrICChIsCoNo sEmprE pIù

Chi si avvantaggerà dalla sostituzione dei lavoratori con le macchine? Di sicuro non la manodopera. Saranno piuttosto i pro-prietari di capitale: gli azionisti, gli investi-tori, i proprietari delle aziende che crea-no e sfruttano l’automazione. La maggior parte degli immensi risparmi prodotti da macchine che permettono di fare il lavoro di cento operai usandone solo dieci, vanno ai capitalisti, che fanno la parte del leone, e ai consumatori. Qualche beneficio resi-duale potrà finire ai dieci lavoratori rima-nenti, specie se questi ultimi saranno più qualificati dei 90 licenziati, ma in ogni caso i redditi da salario subiranno nel loro in-sieme una drastica riduzione.

È su questo che in generale sono fonda-te le piattaforme economiche delle nuove tecnologie; da AirBNB a Etsy, da Amazon.com a Facebook, non c’è industria che sia immune dai modi in cui l’informatica sta riconfigurando le nostre vite, e quindi le nostre condizioni economiche. Uber e Te-sla stanno addirittura provando a cambia-re la natura di un’industria molto patrimo-nializzata come quella dei trasporti. Marc Andreessen, lo start-upper americano, ha detto giustamente che il “software si sta mangiando il mondo”. Ho già parlato di questa tendenza come della noosfera che subisce l’attacco degli hacker.

In tutti questi casi, gli imprenditori e i ca-pitalisti che li finanziano stanno cercando di creare un’immensa ricchezza per se stes-si, sostituendo il lavoro con innovazioni computerizzate che distruggono le indu-strie. Trattengono per sé gran parte della ricchezza perché numerose piattaforme si fondano sulla sostituzione del lavoro uma-

no con una forza online che richiede meno risorse. Forse crescerà la ricchezza nazio-nale complessiva, che però verrà sicura-mente distribuita peggio, poiché un quota netta di lavoratori perderà l’occupazione o sarà costretta a cercarsi un altro posto. Nella misura in cui le industrie subiranno un cambiamento di questo genere, l’effet-to finale sarà inevitabile: una sensibile pro-porzione di operai vedrà ridursi il proprio reddito e penerà a rimanere a galla.

Grazie a queste dinamiche di sistema, i ricchi si arricchiscono sempre più. Il capi-tale rafforza il suo predominio sul lavoro perché i profitti prodotti dalle innovazio-ni che rendono superflua la manodope-ra vanno quasi per intero ai possessori di capitale. Gli sforzi in atto vanno tutti in questa direzione e hanno dimensioni ec-cezionali: ci sono ormai migliaia di corsi di start-up in cui si insegna sperimentalmen-te a gestire la creazione di nuove società; il capitale di rischio annuale che incoraggia queste start-up supera i 40 miliardi di dol-lari; centinaia di miliardi di dollari di capi-tale di acquisizione vengono impiegati dal-le grandi aziende per rimanere aggiornate sulle innovazioni attuali. (Perseverano in questa politica, pur sapendo che questo loro comportamento è folle visto che la prossima innovazione che rovinerà la loro industria può già stare dietro l’angolo sen-za che neanche loro lo sappiano. L’unica cosa che possono fare è continuare a im-piegare capitale a basso costo per tentare di rimanere nel gioco). Al momento attua-le esistono probabilmente più di 50.000 start-up, dei veri esperimenti sociali, che vengono gestite per mettere in crisi un’in-dustria esistente, cambiare i flussi di lavoro o risolvere i problemi che si presentano.

Non fraintendetemi. Io sono stato membro della National Venture Capital Association

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e, molti anni fa, sono stato nominato Gio-vane imprenditore dell’anno dalla SBA, per cui ho trascorso buona parte della mia carriera a finanziare imprese con capita-li di rischio. Adoro le innovazioni e sono sempre stato convinto che gli imprendi-tori siano la linfa vitale del progresso eco-nomico. Ma mi rendo anche conto che le dinamiche del nostro sistema politico-eco-nomico sono “bloccate” dai modelli autoli-mitanti qui delineati. Non è più adeguato operare all’interno del sistema: ci servono altri innovatori che incidano sul sistema, e per farlo occorre ovviamente che lo com-prendano. Gli imprenditori stanno contri-buendo involontariamente alla graduale decimazione del lavoro. Gli sforzi impren-ditoriali non mi impressionano più, né sono più impressionato da tutti gli sforzi che si fanno per far crescere l’economia. In pratica, si stanno rimescolando le carte di un mazzo che non è più valido; nessuno si spreme le meningi per cambiare le rego-le del gioco. Se non lo faranno gli impren-ditori e se le politiche non cambieranno, le disparità nei redditi e nella distribuzione della ricchezza non faranno che peggiora-re. E ciò produrrà uno scontento maggio-re, una rabbia dilagante, una disperazione che, a lungo termine, faciliterà l’ascesa di politici pericolosi.

mENtalItà aNtIquatE

Né è di aiuto il fatto che gli stessi politici sembrano confusi circa le attuali condizio-ni dell’economia globale. Non ho sentito nessun candidato alle ultime elezioni ame-ricane riconoscere onestamente i fatti e le tendenze di cui parlo in quest’articolo. Nes-suno ha detto che se diminuiscono i posti di lavoro, gli imprenditori ci guadagnano; che le piattaforme dei software informatici

sono fondamentalmente monopolistiche; che in tutto il mondo sta scomparendo la produzione industriale; che le politiche basate su di un tasso d’investimento pari a zero hanno falsato il prezzo degli inve-stimenti in tutto il pianeta. Numerosi po-litici sostengono che l’austerità fiscale, l’abbassamento delle tasse e il rigido rifiu-to di aumentare il debito sovrano siano il modo più accorto di procedere, una sorta di puritanesimo economico. Per converso, sembra non esservi alcun sostegno a favo-re degli investimenti per infrastrutture e delle innovazioni produttive, indipenden-temente dal fatto che su base reale (cioè dopo aver tenuto conto dell’inflazione) il denaro è sostanzialmente gratis (il tasso di interesse si avvicina allo zero).

Eppure, c’è da credere che la loro valuta-zione sia sbagliata. È vero che siamo nel mezzo di una stagnazione secolare, come sospettano alcuni dei migliori economisti, ma il problema dell’economia globale è che abbiamo troppi risparmi rispetto agli investimenti disponibili. Esiste in effetti un’offerta eccessiva di risparmi di fronte a una domanda limitata di investimenti, il che risulta evidente visto che il costo del capitale è ai minimi storici (in tutto il mon-do, il tasso di interesse rasenta lo zero). Pensateci un attimo: questo è il modo in cui il capitale (o il mercato) dice che, tutto sommato, ci sono pochi investimenti pro-duttivi che vale la pena di fare.

Com’è stato possibile arrivare al punto in cui la gente è disposta ad accettare una re-munerazione nulla per i suoi risparmi in cambio della promessa che essi verranno restituiti in futuro al loro semplice valore nominale? Una risposta è che assistiamo a un declino della crescita economica in tut-to il mondo.

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La crescita economica è incentivata dalla crescita demografica e dall’aumento del-la produttività. Siccome la popolazione occidentale invecchia e la tecnologia non garantisce più il precedente aumento del livello di produttività, dobbiamo aspettarci in futuro una crescita di gran lunga inferio-re a quella che abbiamo avuto nel secondo dopoguerra. Se la crescita ristagna, lo stes-so accade alla possibilità di ottenere ren-dimenti che ricompensino i risparmi sotto forma di profitti e interessi, e i lavoratori sotto forma di occupazioni ben retribuite.

Ovviamente, non aiuta che le banche cen-trali (come la US Federal Reserve Bank) mettano tutto il loro impegno a risolvere i problemi sbagliati. Di solito esse si concen-trano sull’offerta di denaro, sul costo delle attività, sulla disoccupazione e sull’infla-zione, ma non abbastanza sul reddito che potrebbe perlomeno incentivare i consu-mi. Se il novantanove per cento dei citta-dini non ha soldi da destinare ai consumi e se la maggioranza delle ricchezze mon-diali sono bloccate in quella che Douglas Rushkoff, un esperto di comunicazioni di massa, definisce l’“obesità finanziaria” di 400 famiglie e dei bilanci delle multina-zionali, non importa fino a che punto si gonfia il valore delle attività (azioni, im-mobili, obbligazioni, ecc.), perché l’uomo della strada non avrà comunque soldi da spendere. Il sistema rimarrà stagnante, i flussi di denaro diventeranno vischiosi come la melma. E state sicuri che l’uomo della strada, il quale ha perso il lavoro a favore di un operaio del terzo mondo che si accontenta di uno stipendio da fame, e a cui chiedete educatamente di adottare valori globali, vi manderà a quel paese e non si vergognerà di votare per il candi-dato politico più reazionario e populista, quello che sbraita di più.

Ecco perché, se vogliamo mantenere un modello di civiltà stabile, sostenibile e in-terconnesso, abbiamo veramente bisogno di plasmare nuove politiche socio-econo-miche. Non è una questione ideologica, ma pratica: l’evoluzione della tecnologia ci ha portati al punto in cui abbiamo pochi posti di lavoro per un pianeta dove dovran-no convivere nove miliardi di persone. Fra poco, solo una manciata di persone pos-siederà quasi tutto, anche se ciò sarà una vittoria di Pirro, dal momento che risul-terà minata alla base la vita sociale come la conosciamo oggi. Se ritenete che i leader politici attuali siano schiavi dell’intolleran-za tribalista, aspettate ancora un po’ e ve-drete. Se non cambiamo direzione, le fila di quelli che sono già arrabbiati verranno presto rafforzate da una porzione crescen-te della popolazione mondiale.

Comunque, più del mancato progresso economico, mi preoccupo delle conse-guenze dell’avvento di un mondo post-oc-cupazionale scisso in due dal Grande Diva-rio e di un sistema operativo che è tuttora progettato soprattutto per gestire la penu-ria. Se, entrando in un mondo post-penu-ria, il novantanove per cento delle perso-ne, la metà delle quali con una mentalità tribalista, continuerà a preoccuparsi solo della penuria, saremo nei guai. Questa è la ricetta giusta per il crollo della civiltà, per il blocco della politica e per tante inutili sofferenze umane.

Per converso, a mio modo di vedere, il mondo in cui stiamo entrando non rappre-senta la fine della prosperità. In effetti, ora che un numero significativo di persone è abbastanza ricco da non dover più lavora-re, e che le opportunità di lavoro stanno comunque scomparendo perché possiamo soddisfare le nostre necessità con meno manodopera, ci stiamo avvicinando a un

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fenomeno che possiamo chiamare la nasci-ta del mondo post-penuria. Abbiamo di fron-te una vera prosperità globale, e ci sembra invece di impoverirci perché il nostro si-stema operativo è ancora tarato per distri-buire le ricchezze in maniera gravemente squilibrata. Il mondo sviluppato gode di una notevole prosperità, non ci sono dub-bi. Il nostro compito consiste nello scopri-re il modo migliore di distribuirla affinché tutti possano partecipare al benessere del mondo post-occupazionale.

Se vogliamo sostenere un mondo globaliz-zato con valori universali, più integrato e interdipendente, dobbiamo tener conto delle dinamiche che stanno emergendo nella nostra civiltà in questo momento spe-cifico, essendo disposti ad aggiornare ideo-logie datate, ormai antiquate. Ciò compor-terà a breve termine il sostegno a politiche di pre-distribuzione (non re-ditribuzio-ne): assicurare stipendi minimi adeguati, assegni pensionistici e assistenza sanitaria sufficienti, l’istruzione permanente e la ri-conversione occupazionale, efficienti reti di sicurezza sociale e simili.

A lungo termine i nostri imprenditori so-ciali dovranno apportare cambiamenti nella natura e nel significato del lavoro (condivisione dei posti di lavoro, luoghi di lavoro democratici, benefit corporation e simili), nel ruolo e nella natura del dena-ro (come vediamo nella blockchain e nel-le monete alternative), nella natura e nei meccanismi dei beni (crowd sharing, ride sharing, ecc.) e in altre aree. E, cosa for-se ancor più difficile da immaginare oggi, gli stessi politici dovranno diventare inno-vatori, proponendo esperimenti che, se di successo, potrebbero essere estesi a livello dell’intera società. Detto per inciso, ciò asseconda gli istinti della destra politica: i modelli di successo in questo complesso

mondo globale non emergono dai governi nazionali e dal dirigismo politico, ma da innovazioni acquisite per via sperimentale su piccola scala.

Tuttavia, il paradosso è che questo tipo di esperimenti richiede qualche forma d’in-tervento governativo, ma sono proprio i governi che i tribalisti vedono come il fumo negli occhi, come nemici della li-bertà e dell’indipendenza. L’effetto para-dossale è l’instaurarsi di una situazione di blocco politico, di un’apparentemente ir-risolvibile contraddizione per la quale co-loro che più beneficerebbero da una serie di norme più equilibrate e integrate sono proprio quelli che le contrastano sulla base di motivi ideologici.

In altre parole, abbiamo superato ciò che in termini di sistemi complessi si definisce cambiamento di regime. Il “libero merca-to”, infatti, non è più in grado da solo di migliorare le disuguaglianze di ricchezza create dalle tecnologie che favoriscono i monopoli. Se non cambiamo strada, con-tinueremo ad avere pochi “ricchi” (per lo più globalisti, nativi digitali, imprenditori tecnologici e gestori di beni) che deterran-no collettivamente quasi tutte le ricchezze, e un’enorme massa di “poveri” che vorreb-bero maggiori opportunità, ma non sono disposti a rinunciare alle loro reazioni rab-biose. La cosa ancor più problematica sarà che continueremo a sabotare le forze che potrebbero indurre i tribalisti a cambiare mentalità e valori, superando il loro inna-to nativismo difensivo e il loro populismo, e aprendosi ai valori universali di un mo-derno liberalismo sostenuto da un mondo globalizzato interconnesso e interdipen-dente.

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CoNClusIoNE

In questo saggio conciso su un tema che meriterebbe di essere trattato in un intero libro, ho sostenuto la tesi secondo cui du-rante lo scorso secolo alcune grandi forze sono entrate in rotta di collisione – da una parte la globalizzazione culturale ed econo-mica, e dall’altra il “Grande Divario” fra la mentalità tribalista e quella globalista. Sul lato sinistro del Grande Divario, i tribalisti rappresentano più della metà della popo-lazione e trovano la loro principale fonte di convalida in gruppi strutturati intorno a qualche autorità esterna. Sul lato destro, i globalisti hanno generalmente una mag-giore capacità di adottare la prospettiva autocritica su cui si basano i moderni va-lori universali. Anche se la globalizzazione economica e la mentalità tribalista non sono compagni di letto naturali, nel secon-do dopoguerra il progresso economico ha mascherato le loro differenze. Negli ultimi decenni, la mondializzazione e la riduzione dei posti di lavoro causata dalla tecnologia hanno tuttavia causato un drastico declino del progresso economico, come attestano le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e la caduta del reddito reale di troppi lavoratori. Questo è il sintomo di una più ampia metacrisi ecologica ed eco-nomica. La linea di faglia fra queste due grandi forze in collisione (globalizzazione e tribalismo) è ormai palese e stiamo assi-stendo alla guerra fra i populisti arrabbiati e i globalisti che difendono le istituzioni. Eppure, nessuno dei contendenti ha la ri-sposta corretta per quel che si presenterà: nei prossimi anni i buoni posti di lavoro scarseggeranno; imprenditori e capitalisti continueranno a usare piattaforme tecno-logiche e intelligenza artificiale per ridur-re la manodopera, aggravando le dispari-tà di reddito; presumibilmente la crescita

globale sarà inferiore rispetto a quella del secolo passato; i politici e i governanti con-tinuano a non comprendere il problema che hanno d’avanti, e ancor meno a trova-re soluzioni condivise che non soffrano dei grandi limiti del pensiero del Ventesimo Secolo. L’effetto netto sembra essere che la forza che spinge l’evoluzione globale verso l’interdipendenza, i valori universali e le mentalità più ampie tenderà ad affie-volirsi.

Se la mia analisi è corretta, il lavoro da fare è veramente tanto. Per affrontare queste dinamiche sistemiche occorrerà in primo luogo capirle e chiederci in che modo pro-cedere d’ora in avanti. La mia critica è ri-volta soprattutto ai globalisti: è evidente il loro insuccesso nel creare un sistema in-tegrato di sviluppo socio-economico. Per troppo tempo essi sono stati miopi, premu-randosi solo di ottimizzare i profitti, come se ciò fosse il fine verso cui dovrebbero tendere tutti gli sforzi sociali. Se questo ap-proccio miope resterà la religione del XXI secolo, il mondo che verrà non sarà però appetibile per nessuno, e nessuno vorrà vi-verci, nemmeno quelli che saranno i vinci-tori dal punto di vista economico. I miglio-ri e i più intelligenti fra di noi dovranno indirizzare i loro sforzi con una saggezza e una comprensione più ampie di coloro che li hanno preceduti.

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l’autorE

Robb Smith è un noto imprenditore so-cialmente impegnato che si occupa di svi-luppo umano. È amministratore delegato di Integral Life, la comunità globale per la trasformazione e l’evoluzione umana, non-ché fondatore e amministratore di Chry-sallis, la piattaforma più completa per lo sviluppo personale e professionale dispo-nibile su smartphone e tablet. Lo trovate su Twitter come @robbsmith.

Se ti interessa approfondire gli argomenti trattati in questo ebook visita il sito:

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Traduzione di Daniele Ballarini per conto delle Edizioni Crisalide

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