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Rivista di Antropologia 2007 numero XI Università degli Studi di Milano-Bicocca AC HAB

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Rivista di Antropologia2007 numero XI

Università degli Studi di Milano-Bicocca

ACHAB

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AChAB - Rivista di Antropologia

Numero XI - giugno 2007

Direttore Responsabile

Matteo Scanni

Direzione editoriale

Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi

Redazione

Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini,Sara Zambotti

Progetto Grafico

Lorenzo D'Angelo

Referente del sito

Antonio De Lauri

Tiratura: 500 copie

Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di MilanoBicocca

Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005

* Immagine in copertina Lorenzo D’Angelo, Stop Here!, Freetown, Sierra Leone, 2007.

Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori,scrivete a: [email protected]

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In questo numero...

2 Quando gli dei si vestono da militari

Un’etnografia dei sogni sulle Ande Peruviane

di Arianna Cecconi

10 Patologie per l'altare, patologie per l'ospedale

Alcuni casi in un villaggio del Ghana settentrionale

di Simone Ghiaroni

18 Imparare a scoprire

Teorie della conoscenza e dell’apprendimento nella ricerca di campo

di Cati Coe

28 The postmodern deconstructivism of Donna Harawayor: why cyborgs matter

di Sandra Finger

34 Social scientists wrestling with race and nation

African-american W.E.B. Du Bois and cuban Fernando Ortiz compared

di Alessandra Lorini

47 Pinocchi, balordi e ballerini

Il mutamento dell’immagine degli albanesi nei mezzi di comunicazione italiani (1997-2006)

di Piero Vereni

Recensioni

59 “Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture”

di Barbara Pinelli

62 “Tra ordinario e straordinario: modernità e vita quotidiana”

di Caterina Satta

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Quando una guerra finisce, ovvero quando i riflettori sispengono e per un pò non se ne sente più parlare, ci si sentesollevati, anche se tutti in fondo sappiamo che la guerra non èaffatto finita. È il febbraio 2005, e mentre la guerra in Irak non dàsegnali di tregua, io mi trovo in una comunità campesina1 delleAnde Peruviane. Qui della guerra in Medio Oriente non se nesente parlare, e le facce disperate degli Iracheni e le bombe deiloro "salvatori" non disturbano la quiete di notti in cui la lunasembra troppo vicina. Eppure nel silenzio di queste montagne,ogni giorno si trovano le tracce di un'altra guerra, che è finitapochi anni fa, e che continua a vivere nella memoria, nei corpi enei sogni di chi vive in questi luoghi. È quindi attraverso unaguerra che oggi non "c'è più", una guerra "piccola", di cui in Italiasi è parlato poco, che vorrei esplorare la violenza che la guerracontinua ad esercitare anche quando è finita.

Questa ricerca nasce sulle Ande centrali del Perù, in unaregione Ayacucho2 che, all'inizio degli anni '80, è stata l'epicentrodi una guerra civile tra il movimento rivoluzionario SenderoLuminoso e le Forze Armate (FFAA). La parola Ayacucho inquechua3 significa "il ritrovo dei morti" ed è un nome-icona chesembra purtroppo incarnare la storia di queste montagne. SenderoLuminoso4, nato da una frangia rivoluzionaria del PartitoComunista Peruviano, ha dato inizio nel 1980 a una rivolta armatache si è protratta fino al 1992, anno della cattura del suo leader, ilprofessore universitario Abimael Guzman, e della successivadecomposizione del movimento. Se inizialmente le proporzioni diquesto scontro erano apparse limitate, solo le recenti analisi della"Comisiòn de la Verdad y Reconciliacion"5 hanno portato alla lucel'entità di una guerra civile che ha provocato 70 mila vittime e 10mila desaparesidos, per lo più campesinos della regione diAyacucho.

Questa ricerca6 ha seguito un percorso verticale,all'inizio a Chiwa7, una comunità campesina a 2.700 metri, doveda qualche hanno è arrivata l'elettricità e l'acqua corrente, poidopo alcuni mesi, una curiosità anti-gravitazionale mi ha spinto asalire sopra i 3.000 m., fino a Contay8 dove la notte è ancorailluminata solo dalla luna. Gli abitanti si dedicano soprattutto allacoltivazione di patate, mais e alla pastorizia. In entrambe lecomunità è il quechua la lingua più usata, anche se lo spagnoloviene parlato correntemente soprattutto dalle nuove generazioni.La scelta delle Ande peruviane come luogo di ricerca erainizialmente relazionata al tema della paura. Dopo aver svolto una

ricerca etnografica sugli immigrati peruviani a Parigi9, e averanalizzato la persistenza e le trasformazioni del "susto" (lamalattia dello spavento) in un contesto urbano e d'immigrazione,avevo deciso di continuare l'analisi della "paura come malattia" inun luogo recentemente colpito dalla guerra. Volevo analizzare lapresenza e le trasformazioni della categoria nosologica del susto,in un contesto dove la paura e il trauma della violenza avevanorappresentato per molti anni un'esperienza quotidiana. Ma nelcorso dell'etnografia i sogni sono invece diventati il filoconduttore attraverso cui guardare quest'epoca di violenza, e lapaura che è stata incorporata da queste montagne. L'importanzadei sogni nelle vite individuali, il loro uso sociale, il loro poterepolitico, performativo e profetico mi hanno spinto a guardare laguerra dal punto di vista della notte. Senza voler reificare un"andinismo onirico", ho cercato di analizzare il sogno comeesperienza individuale, e al tempo stesso collettiva all'internodelle comunità, e di esplorare lo scambio dialettico tra simbolionirici pubblici e privati (Obeyesekere, 1981). Le narrazioni deisogni hanno spesso molti elementi comuni, ed è propriol'intrinseca relazione tra la dimensione mitica e quella onirica aspiegare in parte queste intime somiglianze. Anche la recenteguerra, oltre ad aver disorientato il panorama religioso, e averattivato il fenomeno delle conversioni10, ha violentato il mondoonirico, lo ha monopolizzato ed ha rappresentato un evento di"collettivizzazione" dei sogni. I sogni "collettivi" sulla guerrapotrebbero così diventare parte di una riflessione sul recenteconflitto, seguendo l'esempio dell'interessante analisi diCharlotte Beradt11 che dal 1933 al 1939 ha raccolto i sogni chevenivano fatti in Germania durante il Terzo Reich, comedocumenti storici per una denuncia del nazismo anche da unpunto di vista notturno (Beradt, 2004).

Tre sono i momenti che segnano il movimento dialetticotra i sogni e la guerra: i sogni prima della guerra, (quelli che comepremonizioni l'hanno anticipata), i sogni durante la guerra, equelli che sono venuti dopo e che continuano a visitare i sognatoriper ricordargli che la guerra non è ancora finita.

I sogni prima della guerra

"La sociologia si interessa solo dell'uomo sveglio come se l'uomoaddormentato fosse morto" affermava Bastide12 criticando ildisinteresse di molti studiosi verso la dimensione onirica. Checosa succede di notte all'uomo e alla culture? La disciplina

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Quando gli dei si vestono da militariUn’etnografia dei sogni sulle Ande Peruviane

di Arianna Cecconi

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antropologica fin dagli inizi si è interessata al sogno, Taylorfondava proprio sull'esperienza onirica la sua teoria sulla religione esull'anima. Il sogno è un'esperienza universale e al tempo stessoconnotata culturalmente, ed è a partire dagli anni 60 che lo studiodei sogni, nelle differenti società, è diventato un nuovo ramo deglistudi di Cultural and Personality. In molti gruppi sociali vienesupposta una dipendenza e una continuità tra vita notturna eattività diurna, e fluido è il confine stesso che le separa: i sognisembrano continuamente interferire con le attività materiali, conle pratiche, e con le relazioni interpersonali. Lo statutoepistemologico attribuito al sogno varia culturalmente, e vi sonosocietà nelle quali il sogno rappresenta un luogo di sapere epotere, un atto cognitivo che consente l'accesso ad alcune formedi verità e rivelazioni.

Anche nel contesto occidentale, nelle tradizioni popolari,e in alcune discipline come la psicologia e la psicanalisi, vienericonosciuta la valenza epistemologica del sogno, ma essa tuttaviarimane all'interno di un quadro culturale in cui lo statutoontologico della veglia è prioritario rispetto a quello onirico. Ilfatto stesso che gran parte dei sognatori occidentali non siricordino al risveglio i propri sogni resta una traccia significativadi questa storica frattura tra la categoria del sogno e della realtà.I primi giorni in cui mi svegliavo a Contay mi ricordo le faccestupite di Mamma Damasina quando mi domandava "che cosa haisognato stanotte?" e io le rispondevo di non ricordarmi. "Chi nonsi ricorda i sogni è poco intelligente" dice Eudalia, come sel'intelligenza stessa si arricchisse attraverso il materiale onirico.Alcune teorie di psicologi e neurofisiologi mostrano come lepersone differiscono nella capacità di ricordare i sogni per varieragioni che riguardano la personalità, le motivazioni, lo sviluppoconscio e "imaginery visual" (Tedlock, 1996). Se tra le differentivariabili individuali, la memoria è relazionata anche allamotivazione e all'importanza che diamo alle cose, la diffusacapacità di ricordare i sogni nel contesto andino, sembra allorarappresentare un segno del ruolo centrale che essi assumono nellavita delle persone e della comunità. È al mattino, appena svegli,mentre si fa bollire la minestra di patate, che i sogni vengonoraccontati alla famiglia13, a volte la narrazione incomincia già nelletto, mentre mama Domasina si infila la sua gonna verdefosforescente e accende una candela perché fuori non è ancoraarrivata l'alba. Anche durante il giorno, mentre si lavora nei campio si pascolano le capre i sogni vengono commentati alla vicina oall'amica. In alcuni casi sono state le mie domande a sollecitare lenarrazioni oniriche, ma spesso mi sono trovata davanti a sogni chevenivano raccontati in modo imprevisto all'interno di discorsi cheparlavano d'altro. Un antico incrocio semantico tra la parolaquechua14 muskuy (sognare) muspay (delirare o parlare nel sogno),e musyay (adivinare) sembra evocare uno stretto legame tra ilsogno, l'allucinazione e la rivelazione. "Mus" è una radicequechua che allude ad una attività mentale distinta dal sapererazionale (yachay). Oggi viene spesso usata anche la parolaspagnola "suynuy", che viene quechizzata15 dal suffisso chasunkiche indica "un qualcosa che influisce su di te". L'espressionesuynuychasunki si potrebbe allora tradurre con "il sogno ti rivela".

Le parole stesse della lingua nativa rivelano l'importanza delsogno come esperienza conoscitiva. I sogni sono fonti diinformazioni significanti, sono una forma di "pensareaddormentati" (Krake, 1992), e un luogo di rivelazioni. Lavalenza epistemologica del sogno è riconosciuta collettivamente,ed è supportata dalla sua valenza ontologica. Il sogno è visto comeuna forma di realtà, e una forma di conoscenza. Nel cercare diindagare la provenienza di questo sapere onirico, la categoria del"dentro" e del "fuori" si alternano.16 Ci sono sogni che vengono"da dentro", ovvero che sono legati alle preoccupazioniquotidiane, dove le tracce e i ricordi del giorno si ripresentanonella notte, sogni che hanno uno statuto epistemologico inferiorerispetto ai sogni che vengono "da fuori" dove il sapere-potere èinvece associato alla rivelazione e al contatto con la divinità el'alterità. Sono questi ultimi ad essere più "veri", e ad essi vieneconferito il potere di illuminare e "informare" la realtà e quindicostituirla. Ecco allora che il concetto di performatività, che laletteratura antropologica utilizza spesso in relazione al rituale,può venire usato anche per addentrarsi nello spazio onirico(Tedlock, 1992). Il sogno nell'orientare e "dare forma" alle azionie decisioni della veglia, partecipa alla costruzione stessa dellarealtà. La fluida continuità tra sogno e veglia non è solo daintendersi nei termini di una reciproca influenza, la continuità simanifesta nel momento stesso in cui si cerca di tracciare il confineche separa le due esperienze. In alcune narrazioni, elementi dellaveglia e del sogno si mescolano, si sovrappongono creando unacircolarità tra i due momenti. Vi sono apparizioni, premonizioni,allucinazioni che fluttuano in entrambe le dimensioni, che stannotra la veglia e il sogno, che stanno tra i due mondi, e sembranoessere la porta stessa che li unisce. Molte delle apparizioni delladivinità andina della Montagna, l'Apu, vengono descritte comesogni, altre come esperienze diurne avvenute nella solitudinedegli altipiani. Alla fluidità dei confini tra sogno-veglia, dentro-fuori, si aggiungono cortocircuiti temporali che rompono anche lepresunte frontiere tra il presente-passato-futuro.

I sogni non sono solo visti in relazione al passato (comenella concezione psicologica di regressione)17, ma al contrario lostatuto epistemologico del sogno andino è rivolto soprattutto alfuturo. La dimensione onirica può illuminare le "possibilitàemergenti" (Brown, 1992) che potranno materializzarsi nella vitaquotidiana, e preannunciare le trasformazioni, e gli eventieccezionali che possono stravolgere la vita di un individuo o dellacollettività. In molte comunità andine i sogni hanno visto la guerraprima che arrivasse. Molte donne affermano di aver sentito glispari, aver visto il sangue, e i corpi "morti come cani" prima chesi manifestassero nella realtà.

"tal quale come nel mio sogno...così è successo""nel mio sognio ci colpivano, ci picchiavano e ci facevano salire

sulle montagne. Così proprio come avevo sognato hanno portato via il mio sposo".

"sognare gente nuda era perché saremmo stati tristi... La gentecommentava che sarebbe arrivato il pericolo perché sognavamoquesto..gente nuda..guardavi e vedevi che dalle montagne veniva

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gente..nei tuoi sogni vedevi gente nuda""nel mio sogno io camminavo sopra il sangue, c'erano fiumi di

sangue..si il mio sogno era ben chiaro. Io ho visto nella realtà ilsangue, ed è in quei momenti che ricordavo quello che sognavo,

era quasi uguale ai miei sogni"."nel mio sogno io mi cambiavo il vestito felice e quando misvegliavo dovevo vestirmi di nero per piangere...io ho visto

come li picchiavano, gli dicevano "ubriacone!" "io ho piantotanto tanto, fino a che i miei occhi si gonfiano e fino a

che mi faceva male la gola". (Testimonianze, di alcune donne di Contay)18

Nonostante la naturale trasformabilità dei segni e dei simbolionirici in relazione ai cambiamenti socio culturali, si possonooggi incontrare nelle comunità tracce di un antico codiced'interpretazione19 che non è solo nelle mani di specialisti, ma cheè condiviso dai comuni sognatori. Sognare acqua sporcapreannuncia la malattia, mais il denaro, carne il furto, sognarepecore, gente nuda, neonati e sangue sono tutti segni chepreannunciano sventura. Frequente nell'interpretazione dei sogniè anche il meccanismo dell'inversione, e molte donne prima delleincursioni dell'esercito sognavano di ridere, cantare e ballare.La realtà della guerra riattiva il ricordo di quei sogni che l'avevanogià annunciata, sogni premonitori che hanno avvertito dell'arrivodi una terribile disgrazia, ma che non hanno avuto il potere dievitarla. Solo in alcuni casi c'è chi afferma di essersi salvatograzie ad una rivelazione notturna. Adela negli anni della violenzaviveva a Contay, era ancora una bambina eppure era lei "l'antennaonirica" che avvisava tutta la sua famiglia prima che arrivasseSendero o l'esercito. Quando lei vedeva in sogno scendere degliuomini dalla montagna, si svegliava per raccontarlo e MamaJulia, suo padre e le sue sorelle, scappavano tutti nei campi.

I sogni e la guerra

All'infuori di alcune premonizioni, quando chiedo "che cosasognavi durante gli anni della guerra?" mi trovo per lo più davantiall'oblio, un oblio insolito rispetto alla straordinaria capacità diricordare i sogni che caratterizza gli abitanti di queste montagne.La notte diventa la temporalità stessa della guerra, e non solo insenso metaforico. I Senderisti venivano chiamati in quechuatutapurisqa "quelli che camminano di notte". La loro presenzanotturna si avvicinava ad altre figure mitiche che popolano le nottidelle Ande. Se all'inizio, di fronte agli insoliti rumori notturni,molte delle persone sospettavano che si trattasse di gentiles,condenados o jarchachas20, durante la guerra saranno "quelli checamminano di notte" o i militari a disorientare e trasformarel'immaginario e le gerarchie della paura. Per evitare di essereavvistati dall'esercito i sovversivi facevano infatti incursioni neivillaggi quando ormai era buio. Esigevano ospitalità e cibo, inalcuni casi obbligavano bambini, e giovani a seguirli in nomedella rivoluzione, e giustiziavano pubblicamente coloro chevenivano sospettati di appoggiare i militari. I corpi dei soplones(degli spioni) non potevano essere seppelliti, rimanevano inmezzo alla piazza per ricordare a tutti che chi non stava dalla parte

di Sendero sarebbe morto come un cane. Dopo le incursioni deisovversivi arrivava l'esercito che uccideva indiscriminatamente icampesinos sospettati di essere "terrucos" (terroristi). Di nottenessuno dormiva nelle proprie case, gli abitanti di Chiwadormivano tutti insieme in un raggruppamento a Paqueq, aContay spesso la notte ci si nascondeva sulle montagne, e sifacevano i turni di guardia per avvistare le possibili incursionidegli uni o degli altri.

"In quegli anni non sognavo, in quegli anni quasi non si dormiva". (Maria, Contay)

Che sogni poteva fare la signora Pia, che passava tutte le nottivestita e seduta su una seggiola, con i due figli abbracciati, perpaura che arrivassero da un momento all'altro i militari perinterrogarla? Se dormire ha a che fare con l'abbandono, il costantesentimento di paura e terrore, che abitava nelle persone, impedivaloro di lasciarsi andare al sogno. È la realtà stessa della guerra cheviene descritta attraverso la metafora onirica. "sembrava tutto unsogno"..."ero come in sogno". La dimensione onirica si avvicinain questo caso alla borrachera (ubriacatura). Molti bevevano perfarsi passare la paura, e anche chi non lo faceva, si sentiva lostesso come ubriaco. Nella lingua quechua vi è un tempo verbale21

usato per indicare sia lo stato di ubriacatura, che il sogno,entrambe esperienze temporali in cui la persona non è cosciente22.Ma se in molti casi è proprio lo stato di "incoscienza" del sognoche consente di ricevere le rivelazioni, in queste testimonianze, lametafora della guerra come un sogno, sembra alludere piuttostoad uno stato di confusione e delirio, ad una pazzia "estabamoscomo locos" (eravamo come pazzi). Qui il muskuy (sognare) siavvicina più al muspay (delirare), che al musyay (divinare). Laguerra è un incubo da cui non ci si riesce a svegliare. Paura, sognoe borrachera diventano la realtà della guerra. Così un militare siera rivolto ad un gruppo di campesinos:

"state con i vostri figli e andate ognuno nella propria casa, fatecome se questo era un sogno" .(Testimonianza, CVR)23

"ho pensato che quello che stava succedendo era uno scherzo,che in un qualsiasi giorno qualcuno veniva ad uccidermi. Non

ho mai pensato che era (verdad) realtà, tutto era come unsogno." (Testimonianza, CVR)

Alcune persone raccontano di essere state attaccate da una speciedi sonno profondo, proprio nel mezzo di episodi di guerra, comeLucia scappata sul tetto della sua casa mentre i militari portavanovia suo marito. Da lassù aveva visto bruciare la casa comunale eproprio in quel momento era stata assalita dal sonno. Suo zio,arrivando dopo qualche ora a casa sua, l'aveva sorpresaaddormentata e le aveva detto "tuo marito è morto, che ci faiaddormentata?". Il terrore e l'impossibilità di sostenereemotivamente quello che stava accadendo sembrano generare unimprovviso effetto sonnifero.

"ero come in sogno. […] durante tutto questo tempo sono stata

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come addormentata, quasi dall'anno 92 fino al 98 era come sefossi stata addormentata, tutto era un incubo".

(Testimonianza CVR)

La guerra è stata come una lunga notte, e al tempo stesso unalunga pausa onirica ha segnato gli anni della violenza. L'insonniaaccompagna anche le notti del dopo-guerra, e a Contay spesso lepersone mi sono venute a chiedere se avevo delle pillole perdormire. La maggior parte dei sogni relazionati a quell'epocahanno un contenuto persecutorio, si sogna di scappare, si sognanoi morti. Sogni dove le immagini della violenza resuscitano nelpresente con una vivida ricchezza di particolari, e dove i rumori egli spari disturbano ancora il silenzio delle notti attuali.

"Fino ad ora non posso dormire tranquillo, mi sveglio per lapaura, saltando, saltando, e sogno sempre che mi feriscono"

(Testimonianza CVR)

I sogni del dopo-guerra consentono anche di ristabilire unacomunità di linguaggio con i parenti scomparsi. I figli, i mariti,che un giorno sono stati risucchiati nel nulla, si manifestano neisogni tormentando la memoria di chi è sopravvissuto.

"sogno sempre mio figlio, mi dice che non è morto, che stalavorando a Lima. A volte credo che è ancora vivo e che era

un'altra persona quella che ho seppellito".(Testimonianza, CVR)

"sogno sempre mio figlio, una volta mi ha detto che stava in uncampo e che era difficile che lo avrei incontrato, mi lasciò un

po' di mais e se ne è andato". (Testimonianza, CVR)

Fragile è anche la frontiera che separa il sogno dall'incubo. Se perparlare dei sogni si usano i verbi quechua suñuruni e miskuruni,l'incubo viene chiamato almanitiruan, che si potrebbe tradurreletteralmente come "un’anima ti sta guardando". Anche l'incubonon sembra venire da dentro, ma da fuori, in quanto è generatodall'anima di un morto che ti viene a visitare per regolare dei contirimasti aperti. Maria racconta di quando l'anima di un suo vicino,con cui aveva litigato, l'ha "pesadillada"24. L'anima rimane dietroalla porta della stanza, e ti guarda. Si tratta di uno sguardo che haun vero e proprio peso specifico "ti pesa addosso…non puoimuoverti…il tuo corpo si immobilizza", "lo sguardo ti pesa". Gliincubi sono descritti con vivide metafore corporee "non puoirespirare…ti senti come se qualcuno ti stesse schiacciando". Manon tutte le visite della anime diventano incubi. In alcuni casi gliincontri notturni con i parenti scomparsi sembrano invece"alleggerire" ed accompagnare i sopravvissuti nel delicatoprocesso d'elaborazione del lutto. Molte le testimonianze di madrio spose che dicono di aver smesso di piangere in seguito ad unsogno in cui l'amato diceva di stare bene, e dava consigli e paroledi conforto "non piangere più".

"un giorno riuscii a sognarlo e lui mi ha detto "nonpreoccuparti..sono felice!". Solo allora ho creduto che era

morto, così ho cominciato a piangere"(Testimonianza, CVR)

Il marito di Olga è stato sequestrato nel 1991 da un gruppo diSenderisti. La donna sognò più volte lo sposo scomparso, e unavolta lui le disse di andare a recuperare la sua casacca e la suaradio che erano state prese dal signor Mario, che lavorava con luinella miniera. Effettivamente seguendo l'indicazione onirica Olgaaveva incontrato quegli oggetti. Il marito continua oggi attraversoi sogni a interferire sull'educazione dei figli, sgridando la mogliequando è troppo severa. Molte sono state le persone che si sonomesse in viaggio dopo aver sognato un familiare scomparso cherivelava nel segreto della notte il luogo in cui era stato interrato"io sono in quel luogo, dietro quella pietra, vienimi a cercare". Lenotti del dopo guerra sono popolate da incubi, da insonnia, maanche da sogni che aiutano a ricostruire quella "realtà" andata inpezzi. La violenza su queste montagne non è certo arrivata con ilconflitto armato tra Sendero Luminoso e l'esercito. Nella storia sisono susseguiti gli abusi dei coloni, degli hacendados25, e iconflitti interni tra le famiglie delle comunità. Nell'avvicinarsi adalcune narrazioni ci si accorge di come le differenti forme dellaviolenza siano state incorporate dentro l'immaginario onirico,mitico e religioso di questi luoghi. L'Apu, la divinità andina dellaMontagna, oltre a proteggere e castigare chi vive in questi luoghi,sembra agire come "ricorso mnemonico" (Taussig, 1987), cheincorpora nella sua stessa immagine i conflitti e le trasformazionistoriche del potere, che hanno segnato la storia di questi luoghi.Nella mutevole iconografia della Montagna appaiono le tracce diun "dramma semiotico" (Taussig, 1987) in cui riaffiora il contattoirrisolto che caratterizza l'incontro tra popoli, politiche, sistemi dipensiero differenti. Da un lato c'è l'Apu la cui iconografiacoincide con la montagna stessa. "Quello è l'Apu Antarcacca",dice Pilar indicando con la mano una montagna rocciosa che sivede da Contay. È sulla montagna come luogo, dentro le suegrotte e le fessure della terra che vengono depositati i pagapu, (leofferte rituali)26. Ma l'Apu può anche trasformarsi in "altro" dallaMontagna; nei sogni e nelle apparizioni può infatti assumere lesembianze di alcuni animali, come il condor, un uccello-divinitàmolto importante nella cosmologia incaica, o come il toro, unanimale arrivato invece con gli Spagnoli. La Montagna può anche"farsi uomo" (o donna) e in questo caso si trasforma per lo più inun "gringo", in un uomo bianco, alto, con il cappello. In questocaso la divinità "andina" si incarna in un'icona dell'alterità, edevoca, nel gioco di memorie e specchi, l'immagine dei coloni edegli hacendados che vivevano in questi luoghi. Ci sono poi sogniin cui l'Apu appare nelle sembianze di un prete o di un militare.

"solo appare nei miei sogni...bene, ora ti racconto comeappariva nel mio sogno..nel mio sogno appariva come un pretee voleva prendermi...il prete veniva e voleva coprirmi con il suo

mantello" (Lucía - Muchapata)"Alcuni dicono che anche lui ha un casco (come il poliziotto),

però io non l'ho visto così, io l'ho visto come un giovane con uncappello di paglia" (María - Contay)

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"Piuchu 27 sinchis chayqa, Puyu puyukun chaypi paypi,Rikurisuykita munan Jovenkuna formakun guardiakuna"

Trad: "Piuchu dicono che è militare. In mezzo alla nebbia,quando vuole ti appare in forma di giovane o di militare"

(Camila - Contay)

Sogni e testimonianze della realtà, raccolte negli stessi luoghi,dialogano e si riflettono tra loro. Gli abusi reali degli hacendados,dei gringos, dei preti e dei militari28 popolano i sogni, ma unaspetto interessante è come questi personaggi reali, una volta chesi presentano nella dimensione onirica, vengano interpretati comemanifestazioni dell'Apu. Ogni volta che con le mie domandecerco di mettere in relazione queste differenti figure di potere, nontrovo molte risposte. Alla domanda "ha mai sognato unhacendado?" la maggior parte delle donne risponde di no. "Unmilitare le ha mai rivelato nei suoi sogni?" non sembra unadomanda pertinente. Chi rivela nei sogni è l'Apu, la Pacha oanche la Vergine e i Santi, mentre l'hacendado, i preti o i militari,per quanto potenti, non possono ascendere al pantheon delledivinità e quindi alle rivelazioni. Loro sembrano solo prestare laloro faccia bianca, il cappello nero, la tunica o il fucile alladivinità della Montagna molto più antica e potente di loro. Leimmagini oniriche, le iconografie mitiche e religiose si sonotrasformate storicamente e sembrano aver incorporato lerappresentazioni locali del potere e della violenza. In passato si è a volte guardato al mito e al sogno come se sitrattasse di due categorie separate dell'esperienza. Il sognorappresenterebbe un'esperienza personale e privata, di naturasensoriale, laddove il mito rappresenterebbe un discorso pubblico.Molteplici autori hanno invece mostrato l'artificialità di questadistinzione, e l'impossibilità stessa di considerare separatamentesimboli pubblici e privati (Obeseyekere, 1981). SecondoKracke29, rispetto alla parola, il sogno e il mito percorrono unastrada inversa. Il sogno nasce come immagine sensoriale e sitrasforma poi in immagine verbale, mentre il mito nasce comelinguaggio e si trasforma poi in immagine sensoriale. Si crea cosìun circolo fluido e continuo tra il sogno come percezione, che sitrasforma in parola, e il mito come parola che si trasformanuovamente in percezione. Gli avvenimenti significativi dellarealtà entrano in questo stesso circolo, e quando arriva la guerranon può che violentare sia la percezione del sogno, che la paroladel mito. Nelle notti di Contay la guerra viene vissuta e rivissutacon tutti i sensi, si vede il sangue, si sente il rumore degli spari, ildolore del corpo, e l'odore dei morti. La narrazione del sognoalimenta e trasforma l'iconografia dell'Apu, che a sua voltaentrerà nei sogni di coloro che hanno sentito parlare di lui. Ladivinità della Montagna a volte sembra aver salvato le personeattraverso rivelazioni notturne, altre volte le colpisce nel sonno.Molte donne raccontano di essersi ammalate proprio in seguito adun sogno in cui l'Apu, vestito da militare sparava loro30. L'Apu èbuono e cattivo al tempo stesso, è protettore e violento, fa paura eseduce. Anche le figure di potere che "vengono da fuori"sembrano a volte evocare questa stessa ambiguità. Comesottolinea lo storico Nelson Manrique, gli hacendados sfruttavano

i campesinos e li trattavano come schiavi, ma allo stesso tempo lichiamavano "hijitos" (figliolino), e l'hacendado era per ilcampesino il "tayta", o "papay" (mio papà). Questa modalità dichiamarsi non era solo pura retorica, ma evocava una densa ecomplicata relazione affettiva. Si tratta di un'ambivalenza insita inuna nozione di paternità, dove un padre amoroso, è al tempostesso capace di una efferata violenza per "correggere" eindirizzare i suoi figli nella retta via. Anche l'Apu viene chiamatoTayta, e la "Montagna Papà" presenta le stesse caratteristichecontraddittorie del padre che protegge i suoi figli campesini e cheal tempo li può castigare con estrema violenza. L'ambivalenzadell'Apu e dell'hacendado si riflettono nella stessa icona. Da molticampesinos anche i Senderisti sono percepiti come buoni e cattivi.Dopo avermi raccontato le barbarità di alcuni "terrucos", Julia midice: "Poverino Abimael, (il Leader di Sendero) ora è in carcere,se lo incontri regalagli del pane". Anche i militari simboli dellaviolenza e degli abusi, in più di un’occasione vengono consideratiuna presenza necessaria e una garanzia di ordine, e non si può cheriflettere sulle ultime elezioni politiche dove il candidato che hatrionfato nella regione di Ayacucho31 è un ex-ufficialedell'esercito, che ha fatto gran parte della sua carriera durante glianni di Sendero Luminoso, nelle zone di emergenza. È difficileguardare in faccia questa ambivalenza. A volte mi sorprendo neltentativo di ritrovare un confine tra il bene e il male, tra il sognoe la veglia, tra il dentro e il fuori, e invece più ci si avvicinaall'Apu, più ci si perde nelle sue contraddizioni.

Mercato di Huanta

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Note

1 Per comunità campesina si intende il raggruppamento di piùnuclei familiari, la cui attività economica è l'agricoltura e lapastorizia. Vi sono oggi comunità campesine dove sussiste ancorala proprietà collettiva della terra, altre dove essa è stataprivatizzata. Ogni comunità ha una propria organizzazionecomunale ed elegge i propri rappresentanti. Acceso è oggi ildibattito che cerca di definire le trasformazioni di questa microentità politica, ma non è questo il luogo dove poter approfondireun tema così complesso.2 Ayacucho è sia il nome della regione, sia il nome della sua cittàcapoluogo. È uno dei distretti più poveri del Perù. Dati del censodel 1993 (Inei) segnalavano che il 50.8 % della sua popolazione èin situazione di estrema povertà, e il 32.5 % in situazione dipovertà non estrema. 3 Quechua, Kichwa o Runasimi (runa = "uomo" + simi = "lingua",letteralmente "bocca") è una lingua nativa del Sud America. Fu lalingua ufficiale dell'impero Inca, ed è oggi parlata in svariatidialetti da quasi dieci milioni di abitanti in molti stati del SudAmerica. In Perù e in Bolivia il quechua è considerato linguaufficiale accanto allo spagnolo e al aymara. 4 Sendero Luminoso non è né un movimento "indigenista" nél'autentica rappresentazione politica del Campesinato Peruviano.Il suo nucleo fondatore è composto da giovani meticci di origineurbana. La sua struttura è verticale, autoritaria e si è caratterizzatoper l'uso di una violenza "esemplare" (spedizioni punitive,esecuzioni di massa) diretta non solo contro i nemici deicampesinos, ma contro le comunità stesse che interferivano con lasua avanzata.5 La Comisiòn de la Verdad fu creata il 4 giugno del 2001 duranteil governo di transizione del Presidente Valentin Paniagua, con lafinalità di far luce sugli anni della violenza. Inizialmentecomposta da 5 membri, fu ampliata a 12, e il suo nome con ilgoverno del Presidente Toledo divenne "Comisiòn de la Verdad yReconciliaciòn".6 La ricerca è iniziata nel luglio del 2004, fino al luglio del 2006.Alcuni lunghi periodi di permanenza sul campo, (tre mesi nel2004, 8 mesi nel 2005, e 7 mesi nel 2006), sono stati intervallatida periodi in Italia.7 La Comunità di Chiwa è composta da una trentina di famiglie esi trova ad un ora della cittadina di Huanta. Nella piccola piazzacentrale c'è un ambulatorio medico, e una scuola che è stata peròdistrutta durante gli anni della guerra e non è più agibile. La suaposizione favorevole, in una fertile vallata attraversata dal fiumeChaki, consente una grande varietà di prodotti agricoli, mais,camote, (un tubercolo) verdura e frutta di vario tipo. Gli abitantisi occupano di pastorizia e agricoltura, e tutte le domenichevendono i loro prodotti al mercato di Huanta. Oggi la comunità ècomposta solo da una trentina di famiglie, e da persone anzianeche vivono sole. Gli abitanti si occupano principalmented'agricoltura e tutte le domeniche vendono i loro prodotti almercato di Huanta. 8 Contay è una comunità campesina a 3.600 metri, vicino a alla

cittadina di Vilchasuaman. A Contay non c'è la luce elettrica, nél'ambulatorio medico. Solo una piccola scuola elementare, e nellapiazza centrale una Casa Comunale, dove ogni domenica sitengono le assemblee della comunità. Data l'altezza vengonosoprattutto coltivati mais e alcune specie di tubercoli, ma per lamaggior parte si tratta di un'agricoltura di sussistenza.L'allevamento permette invece ad alcune famiglie di commerciareanimali (tori, vacche e pecore) con le comunità vicine o adAyacucho.9 Questa ricerca etnografica è stata condotta nel 2002. Mémoiredu Dea "La migration du susto", sotto la direzione del ProfessorJean Pierre Dozon e Carmen Salazar, EHESS. 10 Se la popolazione del dipartimento di Ayacucho si è dimezzatain seguito agli anni della violenza, al contrario si sonomoltiplicate in tutto il dipartimento le chiese evangeliche epentecostali. 11 L'opera di Charlotte Berardt, "Das Dritte Reich des Traums"recentemente tradotta dal tedesco in francese "Rêver sous le IIIReich" è una densa raccolta di sogni fatti a Berlino tra il 1933 e il1939, da persone appartenenti a differente classi sociali. I sogniraccolti mostrano con efficacia la modalità attraverso la quale ladittatura violentasse l'universo onirico e rappresentano efficaciprove storiche contro il nazismo. Nonostante non fosse estraneaalle discipline psicologiche, l'autrice non si avvale di unapproccio psicoanalitico, ma si concentra sui tratti comuni deisogni avvenuti nel terzo Reich che diventano "sogni politici",sismografi che registrano gli effetti degli avvenimenti storicinell'interiorità degli uomini.12 Bastide R., Le rêve, la transe et la folie, Paris, Flammarion,1972.13 Sia a Chiwa, che a Contay sono stata ospitata da una famiglia equesto mi ha permesso di partecipare ogni giorno alle narrazionie interpretazioni mattutine dei sogni. 14 Se all'inizio pensavo di aggirare le difficoltà che incontravonell'avvicinarmi alla lingua quechua raccogliendo solo i sogni inspagnolo, quando ho cominciato ad analizzare e tradurre alcunenarrazioni raccontate dalla stessa persona in entrambe le lingue,mi accorgevo di come lo stesso sogno cambiasse spessore edensità. Ogni parola quechua racchiudeva immagini e riferimentiche venivano a mancare nella narrazione in spagnolo.15 Nelle lingue agglutinanti le parole sono costituite da una radicea cui vengono aggiunti prefissi o suffissi per indicare categoriegrammaticali diverse (ad esempio genere, numero, caso o tempoverbale). Molteplici sono oggi le contaminazioni linguistiche, e visono molte parole di origine spagnola a cui vengono aggiuntiprefissi e suffissi quechua.16 In un recente studio, il linguista Ciudad, analizzando il tessutonarrativo dell'esperienza notturna, viene incuriositodall'espressione linguistica con cui generalmente inizia ilracconto del sogno: "dice che…". Ma chi è che dice? Anche alladomanda: "i sogni vengono da dentro o da fuori? é soprattutto lacategoria del "fuori" che viene menzionata, ma i cui contorninon sono ben definiti.17 Se Freud descriveva il processo del sogno come un'esperienza

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regressiva e interpretava i suoi simboli a partire dal passato delsognatore, in molteplici società al contrario il sogno èintimamente connesso alla vita futura del sognatore. 18 Il materiale etnografico si basa soprattutto su testimonianze didonne (di età variabili). Inizialmente non si è trattato di una sceltavolontaria, ma di una condizione che si è imposta durante laricerca stessa, data la maggior difficoltà a intessere relazioni congli uomini. Parte del materiale e delle testimonianze sonostate anche raccolte nell'Archivio della Commissione dellaVerità, che si trova a Lima. 19 Un denso studio sul sistema semiotico onirico è stato svolto dallinguista Mannheim. La sua ricerca prende vita nello stesso luogodove Perez Bocanegra aveva stilato nel 1631 la documentazionedi un codice dei segni onirici. 20 Molteplici sono i personaggi mitici delle notti andine. I gentilessono gli spiriti degli antenati, jarchachas , sono lama demoniaci incui si trasformano gli incestuosi, e condenados sono morti cheritornano in vita anima-corpo per scontare le loro colpe.Personaggi notturni dove l'immaginario andino e quello deicolonizzatori si sovrappongono.21 Viene chiamato dai linguisti passato "ivre" o "passatonarrativo", ed è marcato dal suffisso "sqa". Questo tempo verbaledescrive ogni azione che si svolge senza la partecipazione direttadell'enunciatore, o nel momento in cui non era del tutto cosciente.(Manneheim, 2000)22 Complessa è tuttavia l'articolazione tra memoria e obliorelazionata all'utilizzo di alcool. Oggi infatti è proprio quando gliuomini o le donne si ubriacano che "si ricordano delle viteanteriori e delle posizioni che occupavano durante l'epoca dellaviolenza", è in quei momenti che si riaccendo i conflitti, e cheresuscitano le accuse "terrucos" o "soplone". L'alcool agisce comeluogo che offre agli uomini la possibilità di esprimere il propriodolore, diventa quindi una sorta di "spazio femminile". (Theidon,2004)23 Alcune delle testimonianze riguardo ai sogni e alla violenzasono state incontrate nell'archivio della Comisiòn de la Verdad,che si trova a Lima. 24 In verbo spagnolo "pesadillar..alien", significa "far fare unincubo a qualcuno".25 Fino all'anno della riforma agraria nel 1968, le haciendas

(latifondi) furono la colonna vertebrale del territorio, furono lapresenza permanente dell'autorità che connetteva centro-periferia.26 Un antico patto di reciprocità tra l'Apus e i pastori, e tra la Pacha(la divinità della terra) e i contadini manifesta tutt'oggi la suapresenza. Quando gli animali vengono lasciati soli sulle montagnea pascolare, sarà lo spirito della montagna a proteggerli, ma incambio di questa protezione i pastori gli devono offrireperiodicamente (soprattutto nel mese d'agosto) una "mesa rituale"(offerta rituale i cui ingredienti sono generalmente foglie di coca,frutta, sigarette, vino). 27 Piuchu è il nome di uno degli Apu di Contay. 28 L'Apus militare diventa una traccia della memoria guerra, maperché non ho incontrato in Contay né in Ciwa sogni dove l'Apuappare come Senderista? Con questa riflessione non voglio innessun modo affermare che la presenza di Sendero Luminoso siastata meno violenta di quella dell'esercito. Quello che èimportante sottolineare è come non esista una narrazione ufficialee condivisa per parlare della guerra. Ogni comunità, a partire dallapropria esperienza, ricostruisce una "memoria locale" delconflitto enfatizzando aspetti distinti. A Contay, che appartiene aquella che veniva definita la "zona rossa" (ovvero la zona che piùha supportato la sovversione), l'esercito ha avuto l'impatto piùviolento, ed è la figura del militare che popola maggiormente isogni e che viene incorporato al potere dell'Apu. Vi sono invececomunità nell'altura di Huanta dove Sendero è ora narrato esognato come il nemico più pericoloso. Qui si dice che gli Apuerano alleati e proteggevano i Senderisti nascondendoli dentro lanebbia. Sulla montagna di Rasuhuillca si trovavano fiori,sigarette, limoni "erano i Senderisti che avevano fatto il pagapu".(Theidon, 2004)29 Kracke W. "Myths in dreams, thought in images: an Amazoniancontribution to the psycoanalitic theory of primari process" inTedlock, 1987.30 Questa malattia viene chiamata "maldad o daño del cerro" e puòportare alla morte se non viene curata in tempo dai curanderos. 31 Le elezioni politiche del 2006 sono state vinte dal candidato delPartito Aprista Alan Garcia, ma nella regione di Ayacucho è statoil candidato nazionalista Humala ad ottenere la maggioranzaassoluta di voti.

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Notte a Contay

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Erano circa le sette del mattino. Sedevo con alcuniuomini e il capo-villaggio - il Kadewura - nel cortile dell'ewurkpa(la casa del capo) mangiando da una pentola comune qualcheigname bollito intinto in una salsa molto piccate a base di pesce,quando giunsero a piedi dalla strada proveniente dalla vicinacittadina di Bole due donne e un uomo. Si trattava di una coppiasposata e della madre della donna. Vennero accolti dal capo edebbi la possibilità di scambiare un paio di battute con loro:parlavano francese e mi dissero di venire da Bouna, in Costad'Avorio. Chiesi loro cosa li aveva spinti a intraprendere unviaggio così lungo per venire fino a Manful e loro miraccontarono che erano già state al villaggio l'anno prima percurare l'impotenza del marito e per propiziare la nascita di unbambino; oggi erano tornate per offrire un sacrificio diringraziamento all'altare di Manful perché finalmente il bambinoera nato e se non avessero offerto qualche bene alle divinità e agliantenati l'uomo avrebbe potuto tornare a soffrire d'impotenzasessuale e il neonato avrebbe potuto ammalarsi gravemente o

addirittura morire. Mi mostrarono quindi i doni portati: duetaniche di birra di miglio (pito), un paio di bottiglie di distillatolocale (akpeteshi), una decina di noci di cola, due galline. Entrammo nella stanza che contiene l'altare e gli specialisti ritualicelebrarono i sacrifici, che vennero accettati dagli antenati. Così,più sollevati, i tre stranieri si incamminarono sulla via che liavrebbe ricondotti a Bole e da lì avrebbero cercato un mezzo pertornare a Boun.Questo è solo un esempio dei tanti sacrifici offerti comeringraziamento agli antenati per una guarigione, una nascita o larisoluzione di altri problemi personali che è possibile osservarestando qualche giorno in uno dei centri rituali più importanti delgonja. A Manful arrivano genti provenienti da tutta la regionegonja, dai territori limitrofi, ma anche persone provenienti dallavicina Costa d'Avorio e, addirittura, dal Togo. La ragione che fadi questo villaggio un luogo rituale d'importanza inter-regionale e,a volte, internazionale, è la grande potenza magica di cui siritengono in possesso gli antenati e gli dèi di Manful. Propriocome si sceglie l'ospedale più specializzato o più rinomato per undato intervento, così si giunge a Manful per l'efficacia dei ritualidi medicina tradizionale lì condotti. E, in ragione dei questapotenza, al villaggio si torna ciclicamente per continuare adoffrire doni in modo che gli dèi e gli antenati non tolgano ciò chehanno dato. Manful è un piccolo villaggio di case costruite con fango e paliche ospita non più di trecento persone, senza energia elettrica,servito da una piccola pompa d'acqua posta in prossimità dellastrada d'ingresso al villaggio. È situato a circa quindici chilometria sud-est dalla capitale distrettuale Bole, in territorio gonja, nellaNorthern Region del Ghana vicino al confine con la Costad'Avorio, dove il fiume Volta Nero fa un'ampia ansa prima didirigersi verso il lago Volta. I gonja parlano una linguaappartenente alla famiglia Kwa-Guang, simile a quelle akandiffuse nel sud del paese, ma si ritengono discendenti di unapopolazione di cavalieri di origine mande provenientedall'odierno Mali, che attorno al XVI secolo hanno intrapreso unacampagna di conquista verso la costa del golfo di Guinea per ilcontrollo delle rotte commerciali dell'oro estratto nel sud delpaese (in zona asante) indirizzate ai centri da cui partivano lecarovane trans-sahariane. Per quanto strettamente legato

Patologie per l'altare, patologie per l'ospedaleAlcuni casi in un villaggio del Ghana settentrionale

di Simone Ghiaroni

Il capovillaggio Kadewura Kotobri Langa

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all'organizzazione socio-politica e alla storia gonja (Goody 1954,1966, 1967), Manful è spesso considerato un villaggioappartenente al gruppo linguistico safalba (Kluge e Hatfield2002). Il safalba è una lingua appartenente alla famiglia Gur-Mole-Dagbane, che comprende un vasto numero di idiomi parlatida molte altre popolazioni ritenute autoctone delle zone delGhana settentrionale, come i dagaaba o, nella variante Gur-Grusi,come Kasena, Sisala, Chakalle, Tampolense e Vagla. A Manful,per tutti gli ambiti domestici e quotidiani, la lingua utilizzata è,appunto, il safalba, ma considerare Manful un villaggioautoctono è una leggerezza. Per comprendere la suaatipicità è necessario cogliere l'eccezionalità della suastoria e del suo posizionamento all'interno del sistemagonja: Manful, infatti, è un insediamento di un clan gonjanon appartenente alla dinastia regnante, ma composto daspecialisti rituali chiamati nlòsuh che rivestono importantiruoli nell'investitura e nei funerali dei capi tradizionali. Lo scopo di questo articolo è riportare le storie dellepersone in trattamento presso i guaritori a Manful duranteil periodo del mio soggiorno avvenuto tra il primo agostoe l'8 settembre del 2005. Per perseguire questo fine ènecessario premettere alle narrazioni due brevi quadririassuntivi circa la concezione tradizionale della malattia elo schema dello svolgimento delle cure nel villaggio,trattazioni che non hanno nessuna pretesa di completezza1.Esula da miei obbiettivi qualsiasi generalizzazione osistemazione teorica, l'unico tentativo di sintesi è lariorganizzazione delle evidenze tratte dai casi raccontati inbase ad alcune tematiche e criteri, in particolare la tipologiadelle patologie, quella delle cause, l'articolazione di medicinabiomedica o "scientifica" e tradizionale in relazione con alcunevariabili socio-culturali. Mi preme, inoltre, sottolineare ilcarattere situato, nel tempo e nello spazio, delle storie cheriporto e il tentativo di introduzione nello scritto dellapresenza del ricercatore e delle condizioni, spessodifficoltose, nelle quali sono avvenuti i dialoghi sulcampo. Da queste narrazioni emerge chiaramente, mi pare, lasituazione molteplice, spesso contraddittoria, dei comportamentiosservati, delle idee esposte, degli incidenti significanti, che nellapratica di ricerca sul campo si traducono in una differenza emultivocalità nella produzione, affidabilità, dettaglio e quantitadelle informazioni che, inevitabilmente, influiscono sulla resa esulla forma finale del testo scritto.

Cenni sulla medicina tradizionale

La condizione necessaria per parlare di medicina tradizionale èche ogni applicazione di tecniche mediche sia corredata da attirituali che agiscono in base a determinate concezioni magico-religiose. Ciò non significa che i medici tradizionali sianocompletamente digiuni di cognizioni che hanno qualche baseorganica: ad esempio, i medici tradizionali usano erbe i cuiprincipi attivi sono spesso ben noti alla medicina biomedica: leferite vengono medicate e bendate, le fratture ossee sono

trazionate e immobilizzate. Tutti questi trattamenti, però, nelparadigma teorico-pratico della medicina tradizionale non sonosufficienti e, a volte, nemmeno efficienti in sé per l'azionemeccanica o chimica che esercitano, bensì necessitano di uncorollario di pratiche rituali che conferiscano efficacia ai presìdiutilizzati e completino la cura su piani diversi da quellostrettamente materiale. L'aspetto principale della concezione tradizionale della malattia edella cura è quello immateriale e spirituale: non basta curare lasituazione di patologia fisica del paziente, ma occorre sanare lasituazione di disordine sociale e magico-rituale che ha causato lamalattia espressa nel corpo del paziente. La spiegazione causaledi molte patologie, infatti, è da ricercarsi in comportamenti anti-sociali dai quali hanno origine delle aggressioni stregonesche 2

perpetrate nei confronti del paziente da una persona spessoappartenente al suo gruppo dei pari (principalmente, parenti oamici invidiosi). Questo non significa che nella concezionetradizionale non sia riconosciuto o sia negato il carattere materialedell'incidente; se si inciampa in una radice, la causa della cadutaè individuata nella collisione tra il piede e la radice stessa; così sesi viene morsi da un serpente, la causa della morte o del dolore èidentificata nel veleno del serpente instillato nel corpo tramite ilmorso. Per metterla in termini aristotelici, se la causa materiale èla malattia o l'ostacolo o l'animale, occorre scoprire la causaefficiente, che per esempio può essere la stregoneria o unasanzione sovrannaturale inviata dagli antenati, e la causa finale,che spesso è la ricomposizione di conflitti, la soluzione dicomportamenti anti-sociali o la correzione di comportamentiimmorali. La domanda essenziale non è come è successo, bensìperché è capitato. Perché non si è mai inciampato primacamminando su questa strada che viene percorsa ogni giorno?Perché quella persona? Perché oggi? Con domandesospese di questo tipo, una cura che si occupi solo diannullare gli effetti fisici (rispondere e curare il come) èuna cura inefficace poiché se non vengonoopportunamente trattate quelle che sono intese come causeefficienti e finali, è sempre possibile che quest'influenzamalefica produca ulteriori malanni. Non basta riconoscerela successione di causa e effetto che ha condottoall'evenienza di una certa situazione, ma bisogna scoprireil movente di quella configurazione causale, le sue ragioniultime; ragioni che vanno ricercate nelle sfere della vitasociale, morale o religiosa3. La medicina tradizionale è una medicina olistica, unapratica di cura che va oltre la patologia organicaricercandone le cause nell'ambiente sociale del soggettosecondo determinate concezioni socio-culturali. Di frontea una malattia è necessario scoprirne le cause efficienti,sanare i disordini sovrannaturali e procedere alla cura delpaziente; per questo un guaritore tradizionale ècontemporaneamente divinatore, anti-stregone e erborista;un individuo, cioè, che coniuga la visione delle cause, lapotenza magica positiva e la conoscenza delle erbe

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necessaria alla completa guarigione del soggetto.

Il processo di cura

Dal punto di vista dell'analisi, si può pensare al procedimento dicura come un processo4 costituito da più fasi che rispondono allediverse componenti della concezione della malattia. La prima faseè l'introduzione degli stranieri nel villaggio (che chiamerò fase diingresso); la seconda è costituita dal rituale di divinazionecelebrato per scoprire le cause efficienti del problema (fase delladivinazione); la terza è la risoluzione rituale degli eventualiinflussi di magia negativa (fase del sacrificio iniziale); la quartafase è il trattamento con erbe e tecniche mediche (fase deltrattamento); la quinta e ultima fase è costituita dal ritualeconclusivo di ringraziamento (fase del sacrificio conclusivo).Appena arriva al villaggio, il richiedente, di solito accompagnatoda alcuni parenti, entra in una casa e chiede ospitalità. Se questa,come di solito accade, viene concessa, il "padrone di casa", ilkawurnyin (in safalba, disundaba), cioè l'uomo più anziano dellacasa, prende in carico gli stranieri e informa il capo e gli anzianidel nuovo arrivato. Così, il kawurnyin si reca dal portavoce delcapo, il dogtee, e annuncia l'ingresso al villaggio di stranieriospitati presso la sua abitazione giunti per consultare l'oracolo eintraprendere il processo di cura. Il portavoce ha l'incarico diinformare il capo, gli altri divinatori e di fungere da mediatore traquesti e gli stranieri appena arrivati. Egli si reca poi da questiultimi per ascoltare le loro richieste, comunicare le decisioni deidivinatori riguardo il giorno in cui si terrà il rituale e impartire leistruzioni su come affrontarlo. La fase della divinazione consiste nel rituale oracolare vero eproprio durante il quale vengono ricercate le cause del problemaesposto dai richiedenti elaborandone una diagnosi nei terminidella struttura di credenze tradizionali. In seguito, i divinatori

comunicheranno ai richiedenti quali beni portare l'indomani pereseguire i sacrifici necessari.Nello stadio del sacrificio iniziale,animali e altri beni vengono offerti agli antenati con lo scopo dirisolvere il disordine magico-rituale individuato attraversol'oracolo. Nell'offrire i sacrifici viene valutato se le causeindividuate dall'oracolo sono le uniche o se è necessariointraprendere un'altra seduta di divinazione: gli antenati nonaccetteranno il sacrificio offerto se il sacrificante si trova ancorain una posizione di disordine magico-rituale, cioè se animali, danno la risposta: se la gallina spira supina i sacrificil'agente stregonesco sortisce ancora effetti nefasti. I movimentiagonici della gallina, offerta a chiusura della serie di sacrificisonostati accettati e può così iniziare la fase di trattamento, se spiraprona si rende necessaria un'altra seduta di divinazione. La fasedel trattamento del problema individuato avviene attraverso l'usodi erbe, infusi e altre tecniche. Questo periodo può durare dapochi giorni a diversi mesi, fino alla guarigione del soggetto, chedurante questo lasso di tempo risiederà nel villaggio sottopostoalle cure quotidiane degli erboristi. L'ultima fase, si tiene a conclusione del processo di guarigione edè l'offerta di un sacrificio di ringraziamento corrispondente aquanto promesso inizialmente. Nel caso in cui questo sacrificionon venisse accettato, secondo le modalità prima esposte, si rendenecessaria un'ulteriore consultazione dell'oracolo e un'ulterioreterapia. Se il cammino di guarigione del richiedente non venisse chiuso dal sacrificio di ringraziamento o se i beni sacrificati nonfossero conformi a quanto promesso, potrebbe verificarsi unagrave ricaduta. Terminate le varie fasi del procedimento di cura, ilsoggetto può ritornare al suo villaggio, a condizione di tornareannualmente a Manful per continuare ad offrire i sacrificiall'altare.

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N Nome Eta’ Genere GruppoEtnico

Religione Professione Provenienza Arrivo aManful

Diagnosi

1 J. K. 35 M Mo RC insegnante Bamboi 22/5/05 cataratta

2 L.K. 28 M Gonja T agricoltore Manful / congiuntivite

3 K.D. 23 F Gonja M/RC commerciante Kabampe 1/05 malattiamentale

4 K.A. 26 F Gonja M commerciante Manful / fratturaavambracciosinistro sx

5 N.A. 43 M Gonja M camionista Tuna 5/05 infezione allamano sx

6 C.K. / M Ga / / Accra / malattiamentale

[Religione: RC = Cattolica Romana; T = Tradizionale; M = Musulmana]

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Patologie per l'altare e patologie per l'ospedale

Durante il periodo del mio soggiorno nel villaggio, erano presentisei persone in cura presso gli erboristi, tutti nella fase deltrattamento. Tra queste, due erano residenti nel villaggio, mentregli altri erano venuti specificatamente a Manful per curare leproprie malattie. Solo uno ha dichiarato di essere di religionetradizionale; tutti gli altri dichiaravano la propria professione difede musulmana o cattolica romana. Dopo una tabella riassuntiva dei dati principali riguardo l'età, il genere, la dichiarazione diappartenenza etnica e religiosa, la professione, laprovenienzageografica, la data di arrivo a Manful e una diagnosisommaria della patologia5 dalla quale sono affetti, sarannopresentate le storie di questi sei casi.

Caso 1. J.K. è un insegnante elementare di Bamboi, cittadinaposta sul confine tra le regioni Northern e Brong-Ahafo a circaottanta chilometri da Bole. È arrivato a Manful accompagnato dalfiglio di circa dodici anni, che lo guida nei suoi spostamentipoiché la cataratta gli ha opacizzato il cristallino dell'occhiodestro privandolo quasi totalmente della vista. Dialogare con lui èstato particolarmente difficile in quanto non sono mai riuscito aparlargli da sobrio: fin dalla prima mattina si fermava in ogni casaa bere akpeteshi, il distillato locale. Prima di arrivare a Manful, siè recato all'ospedale di Techiman (nella regione Brong-Ahafo)dove lo hanno visitato e gli hanno prescritto alcuni farmaci;volevano poi sottoporlo a un'operazione oftalmologica eesponendogli il rischio di cecità permanente a cui sarebbe andatoincontro se non fossero intervenuti chirurgicamente. Per iniziarele cure, all'ospedale gli hanno richiesto il pagamento ditrecentomila cedis, equivalenti a circa trenta euro (ma sulla cifraJ. K. era molto incerto). Egli conosceva Manful e sapeva che in quel villaggio c'erano specialisti di medicina tradizionale chesapevano curare le malattie legate agli occhi. Così ha assunto ifarmaci e, dopo aver constatato che le condizioni della suacataratta non miglioravano, si è deciso a venire al villaggio. Èstato sottoposto al rituale oracolare e i divinatori hanno affermatodi poterlo curare; così, ha offerto come sacrificio d'ingresso unagallina, alcune noci di cola, una bottiglia di akpeteshi e trentamilacedis (anche su questa cifra era molto confuso). Il trattamentoconsiste nell'effettuare una lavanda oculare ogni mattina e ognisera con un infuso di erbe fornite dai guaritori tradizionali. Dopoun paio di settimane di trattamento, J.K. afferma di vederci moltomeglio, anche se - per quanto ho potuto constatare - la situazionedella cataratta non ha avuto miglioramenti evidenti. Al terminedella cura, ha promesso di offrire come ringraziamento una capra,una gallina, altro akpeteshi, e centoventimila cedis. Posto difronte alla possibilità di non riuscita del trattamento, egli hanegato categoricamente che questa evenienza possa verificarsi.

Caso 2. L. K. è stato il mio ospite nel villaggio e fin dal primogiorno della mia permanenza notai la forte congiuntivite che gliaffliggeva l'occhio sinistro. L. K. è divinatore e guaritoretradizionale e non si è sottoposto al rituale di divinazione, ma, dasubito, ha iniziato autonomamente le cure erboristiche che

riteneva più adeguate: ha intrecciato una collana di erbe e, durantela costruzione di questo amuleto, ha sacrificato una gallinaaspargendone il sangue sulla collana. Nel giro di una settimana,l'occhio è migliorato vistosamente e, raggiunta la pienaguarigione, mi ha assicurato che avrebbe chiamato il padre(anziano divinatore e consigliere del capo) per offrire insieme alui una pecora in sacrificio sul suo altare domestico.

Caso 3. K. D. è una ragazza affetta da una severa forma di disagiopsichico, è venuta a Manful, accompagnata dalla madre, perchéalcuni parenti avevano sentito parlare dell'efficacia delle curesomministrate in questo villaggio per le malattie mentali. Primadell'insorgenza della malattia la ragazza era di religione islamica,ma dopo i primi sintomi si convertì al Cristianesimo. K. D. hapassato una lunga degenza in ospedale; nonostante le cure, iparenti non notavano miglioramenti significativi nella suacondizione e così decisero di rivolgersi alle pratiche di medicinatradizionale. Appena giunti al villaggio si sono sottoposti alladivinazione dal quale è emerso che la causa della malattia di K.D. derivava da un conflitto nell'ambito parentale: qualcunoappartenente al lignaggio del marito le era particolarmente ostilee non aveva intenzione di accettarla quale parente acquisita; daquesto odio è scaturita la stregoneria che l'ha colpita e le haprovocato la sua condizione di disagio. Per risolvere il disordinemagico-rituale derivante da questo conflitto parentale hannoofferto una gallina, delle noci di cola, varie taniche di pito ebottiglie di akpeteshi. Il trattamento della malattia, invece, ècostituito da una lavanda completa del corpo con un infuso di erbepreparato dagli erboristi da eseguirsi quotidianamente. A dettadella madre, K.D. appare ora molto più calma e "ragionevole" diquando, circa sette mesi prima, giunse al villaggio e iniziò iltrattamento. Al termine della cura, si sottoporranno di nuovoall'oracolo per accertarsi che non ci siano altre cause magiche dasanare e, in qual caso, offriranno una pecora in ringraziamento.

Caso 4. K. A. è nata a Manful in una famiglia di divinatori. Inseguito al matrimonio contratto con un uomo musulmano, si èconvertita alla religione islamica e si è trasferita a Bole. Quandol'ho incontrata, il diciassette agosto, aveva l'avambraccio sinistroimmobilizzato tramite una stecca costruita con pezzi di canna eerbe intrecciate per trattare una frattura avvenuta in seguito a unacaduta accidentale. L'incidente era in qualche modo stato previstodai divinatori di Manful: infatti, tempo prima, era stata puntadurante la notte da un insetto, e questa puntura si era gonfiata inmodo anormale; insospettita dall'anomalia, si era recata alvillaggio per consultare l'oracolo. Il responso era stato chiaro: sitrattava della prima di due sventure, causate da un attacco distregoneria, che avrebbero dovuto abbattersi su di lei. Purtroppo,ormai non era più possibile intervenire per annullare la causa dellastregoneria, in quanto questa aveva già colpito. Poco tempo dopo,infatti, cadde percorrendo una strada che frequentava ogni giornoe si procurò la frattura scomposta ed esposta dell'avambracciosinistro. Per prima cosa si recò all'ospedale di Bole dove lerichiesero trecentomila cedis per procedere con le cure, dopo

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qualche tempo, non notando miglioramenti, decise di rivolgersial fratello che, come già detto, è un divinatore e erborista diManful. Dopo aver offerto una gallina, varie noci di cola eakpeteshi, iniziò il trattamento che, oltre a una steccatura pergarantire l'immobilizzazione dell'arto, comporta l'uso di infusi dierbe con cui lavare il braccio fratturato. A quattro mesidall'incidente, la frattura non è ancora perfettamente guarita, maK. A. non nutre dubbi sull'esito positivo delle cure: la lentezzadella guarigione non è data, secondo lei, dalla infruttuosità delleterapie, ma dal fatto che si tratta di un danno causato da unastregoneria particolarmente potente.

Caso 5. N. A. è un autista di camion. Un giorno si trovava aKumasi, nella regione Ashanti, dove aveva trasportato un caricodi legname. Stava scaricando e accatastando i tronchi dal camion,quando è arrivato un bambino dicendogli che durante la notteavrebbe trafugato un tronco. N. A. gli ha risposto di non essere ilproprietario del legname e, senza troppo badare all'episodio, si erarimesso a lavorare. Poco dopo ha notato un'abrasione sulla manosinistra dalla quale ha asportato con noncuranza un piccolo lembodi pelle e si è rimesso subito al lavoro. Una settimana dopo lamano si è gonfiata e N. A. ha iniziato ad avvertire un forte dolore

a ogni movimento. Sapeva che a Manful, luogo di provenienzadella madre, potevano curarlo meglio che in qualsiasi ospedale,così è venuto direttamente al villaggio. A Manful ha consultatol'oracolo che gli ha rivelato di essere caduto vittima dell'odio chequalcuno provava per il proprietario del legname che avevaportato a Kumasi. L'aggressione stregonesca, che si era servita delbambino come veicolo, aveva colpito lui invece che dirigersiverso il suo datore di lavoro. L'influsso malefico della stregoneriaè stato risolto dagli anti-stregoni con l'offerta di una capra e unagallina più qualche "drink" (akpeteshi, pito). Per trattare la mano,deve quotidianamente far bollire delle erbe in una grande pentola,facendo una sorta di "bagno di vapore" aiutandosi con un telo colquale coprirsi e posizionando la mano direttamente sopra la

pentola. Quando l'acqua si raffredda compie una lavandacompleta del corpo e segna la propria mano con una croce di ununguento preparato e fornito dagli erboristi di Manful. Di suaspontanea iniziativa, senza chiedere nulla né informare idivinatori, dopo tre giorni dall'inizio del trattamento hacominciato ad applicare sopra la ferita un miscuglio di olio dipalma e penicillina per proteggere la soluzione di continuità dellapelle ed evitare così che vi ci si posino mosche e zanzare.Interrogato sulla penicillina, ammette di conoscerne la funzioneantibiotica. Dopo circa due mesi di trattamento afferma che vamolto meglio, il braccio e la mano si sono sgonfiati e ora stariacquistando la mobilità dell'arto. Al termine della cura, offriràuna capra, delle galline e delle noci di cola, ma non offrirà alcoliciperché è di professione islamica.

Caso 6. C. K. è tenuto incatenato a un pesante tronco in unastanza vuota poco distante dal ewurkpa, è un uomo di circatrent'anni affetto da quella che mi sembra essere una grave formadi schizofrenia, alterna momenti in cui ha scatti violenti a altri neiquali resta in uno stato di semi-incoscienza. Purtroppo è incapacedi parlare e il suo accompagnatore, al momento delle mieinterviste, era momentaneamente rientrato ad Accra. I guaritoriche lo hanno in carico mi raccontano la sua storia: era emigrato inCanada e, poco dopo, aveva iniziato ad avvertire i primi segni disquilibrio. Aveva dunque deciso di ritornare in patria e dirivolgersi agli specialisti di medicina tradizionale. Il trattamentodella sua malattia consiste in un bagno completo con un infuso dierbe effettuato due volte al giorno da un erborista. Dopo averlolavato, il guaritore prende della "black medicine", un unguentoscuro ricavato da diverse erbe, e segna la sua testa primaseguendo la forma del cranio, poi seguendo i lineamenti del viso.

Dall'analisi di questi sei casi è possibile avanzare qualcheconsiderazione. Innanzitutto, ogni patologia ha una causaefficiente da ricercare nella stregoneria e questa è la prima cosa dasanare prima di cominciare il trattamento. (Il caso di L. K., nlòsuhe guaritore tradizionale, fa eccezione perché l'evenienza che unanti-stregone sia esso stesso colpito da stregoneria costituisce unacontraddizione inconciliabile nella visione tradizionale.) Iltrattamento medico vero e proprio è quasi sempre basatosull'utilizzo di infusi di erbe e foglie e sull'uso di speciali unguentipreparati dagli erboristi; nel caso in cui il paziente non sia ingrado di provvedere personalmente alla preparazione e allasomministrazione delle terapie, un erborista ne prende in carico laresponsabilità.Particolarmente interessante risulta essere il rapporto tra i sistemidi cura tradizionali e il sistema ospedaliero: molti degliintervistati hanno detto di essersi rivolti all'ospedale, ma sono inseguito venuti a Manful per rivolgersi ai guaritori tradizionali.Questo succede per vari motivi: in primo luogo, per ragionieconomiche, poiché ogni cura deve essere pagata e spesso le cifrerichieste sono molto alte per un agricoltore. In secondo luogo, èdiffusa una certa sfiducia nei sistemi di biomedicina; o meglio, èdiffusa un'eccessiva aspettativa rispetto la sua efficacia che viene

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Il trattamento di C.K., malato mentale

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ritenuta istantanea e se la guarigione non è rapida la fiduciaaccordata viene persa e ci si rivolge ai sistemi tradizionali. Interzo luogo, siccome ogni malattia ha una causa profonda radicatanella stregoneria, solo gli anti-stregoni possono risolvere la causamagico-rituale officiando i rituali appropriati: nessun ospedalepuò offrire questo tipo di servizio. In conclusione, dunque,sembra che i due sistemi non siano in conflitto o incontraddizione, bensì siano in un rapporto di instabilecomplementarità. Annullando lo squilibrio economiconell'accesso alle strutture ospedaliere, è probabile che i pazienti sirivolgano contemporaneamente all'ospedale, per ottenere le curenecessarie per la guarigione fisica, e ai divinatori e guaritoritradizionali per affrontare l'aggressione derivante dallastregoneria. Ad esempio, N. A., l'uomo con l'infezione alla mano,continua ad applicare sia l'infuso di erbe prescritto dai guaritorisia la penicillina. A alcune domande su questo punto ha rispostocon un proverbio che si può rendere in italiano con "chi più ne ha,più ne metta". Viene dunque dimostrata contemporaneamentefiducia e sfiducia per entrambi i sistemi: fiducia perché ci si affidaad entrambi con speranza e sfiducia in quanto si crede checoadiuvare l'uno con l'altro sia meglio perché dove non può l'uno,potrebbe l'altro. Ciononostante, non viene espressa mai l'ideadella possibilità di fallimento del trattamento tradizionale, lapossibilità, cioè, che questo non conduca alla completaguarigione: il sistema medico tradizionale è un sistema ideo-logico (Augé 1977, 1986) chiuso, in cui anche i casi non risoltinon fungono da falsificazione per le credenze e le pratiche, marappresentano ulteriori conferme della struttura di credenze. Un incidente significativo riguardo ai rapporti tra le credenzesulla medicina biomedica e quelle sulla medicina tradizionale èaccaduto quando, martedì nove agosto, è giunta da Bole unadelegata dell'ospedale per distribuire a tutti gli abitanti delvillaggio una pillola contro il tracoma oculare (un antibiotico abase di azitromicina). Gli atteggiamenti rispetto l'assunzione delfarmaco variavano notevolmente in base alla posizione socialedegli individui: quasi tutte le donne e i bambini l'hanno assuntadavanti all'incaricata; alcuni, soprattutto i divinatori, o l'hannopresa e buttata via in seguito o, addirittura, non si sono presentatialla distribuzione; infine, altri, soprattutto uomini senzacompetenze di medicina tradizionale, volevano assumerne più diuna, fornendo come giustificazione il potere rinvigorente insito inquel medicinale - incitando più volte anche me ad assumerne per"rinforzarmi". Questo caso, in apparenza banale, rivela l'ampiezzadello spettro degli atteggiamenti possibili di fronte allabiomedicina: da una parte, viene ritenuta una sorta di panacea, unelisir di lunga vita che, indiscriminatamente, serve a tutto;dall'altra, vi è una totale sfiducia nei suoi mezzi che porta,addirittura, a disfarsi del farmaco deliberatamente. Inoltre, è danotare come la cura delle patologie oftalmiche sia una dellespecializzazioni di Manful e molti divinatori mi hannoconfermato che la loro medicina basta per far fronte a ognievenienza e assumere le pillole dell'ospedale non è necessario. A Manful, ho registrato due casi palesi di fallimento delle curetradizionali: il primo è il figlio del Kadewura che è affetto da

disagio psichiatrico fin dalla nascita che gli comporta frequentiattacchi di convulsioni e un evidente ritardo mentale con gravideficit nella vita relazionale; il secondo caso è la figlia di L. K., ilmio ospite, rimasta sorda dopo alcune complicazioni durante ilparto. Nonostante le prolungate cure e i numerosi rituali svolti,non è stato possibile risolvere le situazioni patologiche di questedue persone. Questo non ha intaccato minimamente la credenzanel sistema medico tradizionale, al contrario trova in essogiustificazione: infatti, mi è stato spiegato che il problema diqueste persone non deriva da agenti umani che li avevano colpiticon la loro stregoneria, bensì discende direttamente da unasanzione sovrannaturale comminata dagli antenati o dalle divinità.I motivi di questa sanzione restano imperscrutabili ed èimpossibile per gli uomini agire su questo tipo di patologie perrisolverle.In sintesi, le principali patologie, oltre a quelle di originetraumatica, curate a Manful sono quattro: infertilità (in gonja,egbentipò; in safalba, ubadògira), impotenza, malattia mentale emalattie oftalmiche. Ogni tipologia di malattia mentale èaccomunata alle altre e viene chiamata indifferentemente yayasi:così la supposta schizofrenia di G. K., la demenza del figlio delcapo e la patologia di K. D. sono ritenute essere uno stesso tipo dipatologia e vengono trattate in modi analoghi. Anche per lemalattie oculari viene usato un singolo termine, ma il trattamentoè differenziato: sia la cataratta di J. K. che la congiuntivite di L.K. sono chiamate ningedòlebu, ma in questo caso, come visto, lacura è differente. Le cause riconosciute sono di tre tipi: 1. organiche: viene riconosciuto il carattere fisico-organico dellamaggior parte delle patologie, ma questo non esime dalla ricercadi cause più profonde;

2. stregonesche: quando qualcuno, per odio, invidia, gelosia oaltri comportamenti anti-sociali deliberatamente attacca conmezzi stregoneschi;

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Il villaggio visto dal tetto della casa dell'etnografo

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3. sovrannaturali: sono patologie mandate direttamente dagliantenati o dagli dèi per sanzione morale, per cause imperscrutabilio, semplicemente, per obbligare gli uomini a offrire il culto e isacrifici. Il rapporto tra medicina tradizionale e biomedicina è moltocomplesso e le concezioni di senso comune sull'una e sull'altra siintrecciano in un agglomerato di concezioni magiche e socialiinfluenzate dalle strutture ideo-logiche: la medicina tradizionale èinfallibile perché appartenente alla millenaria tradizione degliantenati, mentre la medicina biomedica è potente perché deriva daquella scienza e tecnica egemonica imposta durante gli anni delcolonialismo. Sembra, inoltre, che per ogni patologia "semplice"ci si rivolga all'una o l'altra istituzione medica in base aconsiderazioni personali, economiche e di posizione sociale;mentre patologie complesse dalle cause difficilmentecomprensibili e dalla difficile guarigione - come le malattiementali o l'infertilità - siano destinate ad essere trattate secondo idettami della medicina tradizionale che, pur non risolvendo lasituazione, può almeno fornirne una spiegazione in terminimagico-religiosi e rendere così "accettabile" il disagio.Ideo-logica, struttura socio-culturale e stratificazioni socio-economiche concorrono alla scelta o alla compresenza di piùsistemi di cura intrecciandosi continuamente e occorrerebbe unaricerca finalizzata al chiarimento dell'interdipendenza e dell'inter-funzionalità dei due sistemi di istituzioni che combini datiqualitativi e dati quantitativi, oltre all'eventualità di valutare in

base alle conoscenza della medicina biomedica, della farmacopea occidentale e della psicologia clinica l'efficacia dei sistemi di curatradizionali messi in atto a Manful come in buona partedell'Africa occidentale (in Ghana hanno parzialmente assoltoquesto compito gli studi di Twumasi 1975, Field 1960 e Schirripa2005). Concludendo, vorrei raccontare un episodio personale lasciandoal lettore lo sforzo di cogliere e interpretare la densità di questacome delle altre storie proposte. La mattina del venticinqueagosto mi sono svegliato e, cercando di alzarmi dal mio giacigliosul pavimento, sono ricaduto all'indietro, senza forze. Madido disudore, stremato, in preda a brividi e con una forte cefalea, misono misurato la temperatura: la colonnina di mercurio deltermometro si era fermata sui quarantun gradi centigradi.Sospettando un attacco malarico ho subito assunto i farmaciappropriati e una pillola di paracetamolo per abbassare la febbre.Appena ho avuto la possibilità di parlare con il mio ospite, glichiesi se, come divinatore e guaritore, poteva far qualcosa per me;se poteva cioè scoprire le cause della mia malattia esomministrarmi un trattamento per guarire - col doppio scopo diottenere una cura e di poter essere soggetto di una seduta didivinazione e di trattamento tradizionale per fini euristici. Aquesta richiesta, L. K. mi rispose, con viva preoccupazione per lamia salute, di farmi vedere al più presto dai medici dell'ospedaledi Bole.

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Note

Desidero ringraziare Luca Beneventi, Stefano Boni, Silvia Cuoghi, William Ghiaroni, Sonia Gibellini e Fabio Viti per i consigli, lecorrezioni e l'incoraggiamento. La loro attenzione ha contribuito a rendere migliore il mio testo, la cui responsabilità, soprattutto perquanto riguarda lacune imprecisioni e errori, resta comunque solamente mia. Tutte le foto incluse nell'articolo sono mie. 1. Per alcuni riferimenti bibliografici riguardo la concezione della malattia, della cura, del male, della stregoneria, della medicina e dellapersona rimando direttamente al fondamentale testo curato da Marc Augé e Claudine Herzlich (1984), ai classici studi di EdwardEvans-Pritchard (1937), al volume collettaneo curato da Mary Douglas (1970), all'articolo di Robin Horton (1967), alla raccolta disaggi curata da Meyer Fortes e Germaine Dieterlen (1956), oltre al volume curato da Roberto Beneduce con Elisabeth Rudinesco(2005).2. Nel volume curato da Douglas (1970), è incluso un importante saggio di Esther Goody sulle logiche dell'aggressione stregonescanell'area gonja. 3. Questa visione della malattia è strettamente connessa con la nozione di persona; per quanto riguarda l'Africa sub-sahariana, un buontesto di riferimento è l'articolo di Godfrey Lienhardt (1985).4. Si accetta qui l'idea di Victor Turner (1969) secondo la quale il processo rituale sia un insieme più vasto del singolo rito preso inconsiderazione; un insieme che comprende un iter di passaggi e rituali, antecedenti e successivi al rito singolo, indispensabili pergiungere alla comprensione di quest'ultimo. 5. La diagnosi delle patologie è stata compiuta da me, in seguito a colloqui e a osservazioni. Ci tengo a precisare che non ho nessun tipodi competenza medica e che la patologia riportata è indicativa e ha senso solo messa in relazione con le categorie locali che riporto piùavanti nella trattazione.

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In Out of our minds (2000), Johannes Fabian esamina le pratichedella ricerca scientifica di alcuni esploratori in Africa centrale.Nell'ex Costa d'Oro (l'attuale Ghana), questi antenati dei moderniantropologi comprendevano missionari, come Andreas Riis, chestudiavano i costumi e la lingua locale con l'intento di convertiregli africani al Cristianesimo. Leggendo le riflessioni deimissionari sui loro viaggi nella Costa d'Oro, rimasi sorpresa estupita di trovare dei parallelismi con le mie stesse difficoltàincontrate sul campo ad Akuapem, in Ghana.Nella citazione riportata in alto, dopo undici anni di vita e lavoronella Costa d'Oro, soprattutto ad Akapuem, Riis dimostra unaconsapevolezza dei limiti del porre domande, che avrebbe potutoessere per lui, come lo fu per me, il primo canale verso lacomprensione.Questo articolo esplora i problemi che possono sorgere nelcondurre interviste ad Akapuem e discute le modalità diproduzione di discorso e conoscenza emerse nella raccolta distorie di vita nel contesto della mia etnografia sulla produzione diuna cultura nazionale nelle scuole di Akapuem, Ghana. Loscontro con i canali locali di trasmissione culturale, infatti, mifece guardare più attentamente alla costruzione del sapere e allepratiche di apprendimento nelle scuole e nei contesticomunitari.Vorrei incoraggiare i ricercatori a prestare attenzione agliintervalli, ai fraintendimenti e ai silenzi che si creano

durante le interviste e nei dialoghi, non solo perché ciaiutano a formulare domande più utili e appropriate, maanche perché le teorie locali sulla conoscenza possonoessere centrali per i temi che noi (in quanto mediatori eprodut tor i di conoscenza) s tudiamo più di quanto cipossa inizialmente sembrare.Il codice linguistico di un’intervista non corrisponde alcodice locale del dialogo o della trasmissione culturale.Gli antropologi si sono occupati di questioni epistemologiche,cimentandosi in rappresentazioni e scritture più dialogiche, piùesplicitamente soggettive o multi-genere (Clifford e Marcus1986; Rose 1990; Behar 1996) e analizzando le relazioni di potereentro cui la conoscenza etnografica si costruisce (Asad1973; Fabian 2000). Tuttavia, non si sono interessati altrettantoall'analisi e alla trasformazione dei metodi di ricerca etnograficain conseguenza a queste questioni epistemologiche (ma vedi Wolf1996).Anzi, in antropologia, il metodo di "campo" rimaneinesaminato e misterioso. Di conseguenza, gli studentipossono ritornare da esperienze di campo difficili ricercandoun rigore metodologico maggiore, credendo che il problemasia nella formazione, non nel metodo stesso. Gli antropologinecessitano di contrapporsi alle prospettive di camponaturaliste, comportamentiste e riduzioniste in cui "l'oggettodell'indagine antropologica è un oggetto esterno" e avrebbe

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Imparare a scoprireTeorie della conoscenza e dell’apprendimento

nella ricerca di campodi Cati Coe*

In Learning how to ask, Charles Briggs sostiene che fare domande è una pratica radicata nelle convenzioni culturali. Glietnografi partono da alcuni presupposti relativi alla natura del discorso e della conoscenza e le loro domande possono suscitare tipidi informazioni e relazioni diverse dalle aspettative. Questo articolo analizza etnograficamente le teorie della conoscenza adAkuapem, Ghana, e come queste interagiscono con le teorie stesse del ricercatore durante le interviste. Imparare le convenzioni localisulla trasmissione del sapere diventa perciò uno dei compiti principali degli etnografi.

Mepe se anka mihu w amanne, nanso enye se wubisabisa asem pii (Avrei voluto capire le loro usanze, ma non era appropriato faretante domande)

Tratto dal diario del missionario di Basilea Andreas Riis del suoviaggio a Kumase e soggiorno a Fomana, 11 dicembre 1839;originale in tedesco tradotto in Twi da N. Clerk, pubblicato inKristofo Senkekafo (1917:78-79)

* Articolo già comparso in “Field Methods”, v. 13, N. 4, pp. 392-411, con il titolo: "Learning how to find out: theories of knowledge". Copyright 2001 by SagePublications. Reprinted by Permission of Sage Publications Inc.

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due principali caratteristiche: la stabilità e l'osservabilità(Karp e Kendall 1982: 251).Le questioni epistemologiche che gli antropologi hanno sollevatoriguardo alla rappresentazione dovrebbero essere applicate ancheall’ambito della metodologia di campo, sia tenendo inconsiderazione le modalità locali di produzione diconoscenza, sia concentrandosi sulla costruzione deisignificati e sulla loro scoperta.Un’eccezione rispetto a questa mancanza di interesse sullametodologia di campo in antropologia è costituita da Learninghow to ask di Charles Briggs ([1986]1992). Questi sostiene che leinterviste siano eventi linguistici multidimensionali in cui unruolo fondamentale e’ giocato dalle teorie native dei ricercatorisulla comunicazione piuttosto che da quelle dei lorointerlocutori.Di conseguenza, spesso, le interviste implicano incomprensionied errori di interpretazione. Egli descrive come i Messicaninel nord del New Mexico ai quali poneva le sue domanderispondessero "Chi lo sa?".I ricercatori arrivano sul campo con dei modelli retorici specificiche possono avere piu’ o meno senso per le persone con le qualiparlano. Briggs sostiene che i ricercatori debbano ascoltare eimitare le strategie meta-comunicative prima di partecipareattivamente a questi scambi facendo domande; devono imparareprima di tutto in quale modo domandare.In ogni caso, le difficoltà vanno oltre la mancanza dicorrispondenza fra le cornici comunicative del ricercatore e quelledel nativo. Briggs lo lascia intendere quando sostiene che lecredenze dei ricercatori sul linguaggio mettono in primo piano lasua funzione referenziale o descrittiva, dando rilievo adoggetti, persone, eventi e processi ignorando l'attolinguistico come tale e il suo contesto.Le teorie dei ricercatori, in questo modo, mettono in luce ilcontenuto informativo del linguaggio piuttosto che, per esempio,il suo ruolo nel definire le relazioni tra parlante e uditore. Briggsmette perciò in rilievo alcuni presupposti che stanno alla basedelle teorie sul sapere dei ricercatori.Quali sono le teorie e i concetti dei ricercatori riguardo allaconoscenza? Michel Foucault (1990) descrive il processoattraverso cui il sesso, prima oggetto della confessione cristiana,venga medicalizzato durante il diciannovesimo secolo. La veritàdeve venire alla luce e la sua esplicitazione libera colui che laconfessa. Ma la confessione richiede un interlocutore, unapersona di autorità che la possa interpretare: "E' perché il lavorodi produzione della verità, se lo si vuole convalidarescientificamente, deve passare attraverso questa relazione" (p. 66ed. ital. p.62). Nonostante Foucault stesse analizzando le radicidella psicologia, questo processo di produzione del saperescientifico può valere anche per l'etnografia, in cui la ripetizioneè terapeutica e la conoscenza è trasformativa. La conoscenza di séè considerata desiderabile ed essenziale al processo.Molti dei nostri metodi di ricerca presuppongono che laconoscenza debba essere verbalizzata e spiegata per esserevalida (Mavanhão 1993) e che essa non risieda in pratiche

ben riuscite o esperienze corporee1.Come Foucault e altri hanno mostrato, questo desiderio diconoscere l'intimità delle persone è legato ai regimi di disciplinae potere. Coloro che sono al potere, siano imperatori o direttoriaziendali, vogliono "una conoscenza sociale sistematica scritta"per gestire e dirigere meglio (Rose 1990: 31; Bendix 2000).Dunque, il desiderio di sapere di coloro che hanno poterelegittima l'uso che gli etnografi fanno di un linguaggio cheesprime significati letterali (linguaggio referenziale) erappresentazioni del sapere decontestualizzato e indipendentedalle circostanze in cui è stato prodotto.Su questo punto sono importanti alcuni recenti lavorisull’apprendimento. Invece che concepire il sapere o l'apprendimentocome internalizzato o come qualcosa di acquisito, Jean Live eEtienne Wenger (1991) definiscono l'apprendimento una praticasituata. Di conseguenza, la conoscenza non è mai "fuori di lì", unoggetto stabile ed osservabile, ma è patrimonio di una complessastruttura di attori che agiscono in un contesto (Lave 1993). Ilsapere è rappresentato, discusso e negoziato da persone che sannocose diverse e parlano con interessi ed esperienze differenti,costituendo insieme una situazione. Il conflitto è presente in tuttigli ambiti dell'esistenza umana, incluso l'apprendimento.Voglio qui sostenere che non dobbiamo prestare attenzionesoltanto alle pratiche meta-comunicative locali, ma anche allemeta-teorie della conoscenza che costituiscono le basidell'interpretazione dei nostri interlocutori riguardo alle nostreattività e ai nostri oggetti di ricerca. Abbiamo bisogno di esseresicuri che le nostre preoccupazioni epistemologiche, riflesse neidibattiti teorici e nelle pratiche di rappresentazione, orientinoanche i nostri metodi etnografici per comprendere come "laconoscenza di un mondo costruito socialmente è socialmentemediata" (Lave e Wenger 1991: 51).

Akuapem e la nazione, cristianesimo e cultura

Akuapem è un'area collinosa nella regione est del Ghana. Le suediciassette città si estendono su una catena collinare di bassaaltitudine, che oscilla dai 365 ai 487 metri (Blay 1972).Nelle valli vicino alle fattorie si trovano molti piccoli villaggi: alungo andare, un elevato numero di persone è migrato qui.Ciononostante, le ville nelle cittadine mostrano che le personesono legate al proprio luogo d'origine: tornano a casa in occasionidi festival e funerali durante i weekend, e in questi momenti, sepossono, costruiscono case. Le città nel distretto di Akuapem sonoin competizione tra loro e i conflitti sono stati acuiti dallaconoscenza che gli abitanti hanno circa la storia della lorocittà, raccontata con una certa consapevolezza delleidentità etniche e delle ingiustizie passate.I primi coloni di Akuapem furono di lingua Guan2, ma fino aldiciassettesimo secolo Akuapem fu conquistata e governata dapopolazioni Akan di lingua Twi, tra i quali i primi furono gliAkwamus, che misero in atto politiche linguistiche di tipoimperialistico, costringendo i detenuti ad imparare il Twi ed adusarlo per difendersi in tribunale.Gli storici locali indicano le atrocità commesse dagli Akwamus

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come causa della richiesta di appoggio ai governanti di AkyemAbuakwa da parte degli abitanti di Akuapem nella guerra perrovesciare i governanti Akwamu. Dopo che gli Akwamus furonosconfitti e allontanati oltre il fiume Volta, i guerrieri Akyemchiesero Akuapem come ricompensa per averli aiutati e, siccomegli abitanti di Akuapem non avevano oro, chiesero agli Akyem diguidarli. Agli Akyem, anche loro un popolo Akan, furono datedelle terre per stabilirsi nelle attuali città di Akropong eAmanokrom. Portarono ad Akan l'organizzazione politica,designando parenti e amici ad importanti ruoli e organizzando lediciassette città in una disposizione gerarchica tradizionale Akan,basata su formazioni militari.Akropong divenne la capitale del nuovo regno con un caposupremo. Questa storia è oggi riattivata grazie allaconsapevolezza etnica Guan e all'effettiva disintegrazione dellostato tradizionale Akuapem in tanti stati indipendenti durante glianni '90 (Gilbert 1997). Arrivai ad Akuapem per studiare la produzione della culturanazionale nelle scuole del Ghana. Il Ghana sembrava essere unluogo affascinante dove studiare il modo in cui i governi stavanotentando di riavviare lo sviluppo nazionale attraverso laformazione di un patrimonio nei giovani cittadini. Cercai di comprendere le forze- sociali, intellettuali eideologiche- che stavano dietro alla promozione scolastica dellacultura in Ghana, e i motivi per cui le persone si battevano per eattraverso la cultura.Pianificai anche di analizzare in che modo i curriculum nazionalie la politica culturale venivano trasformati dagli attori socialinelle scuole di Akuapem. La mia ricerca si concentrava su comele scuole divennero il luogo di produzione, invenzione eoggettificazione della cultura nazionale, costituita nonsolo dagli ufficiali di Governo e dalle élites nazionali, maanche dagli attori locali.Il PNDC, Provisional National Defence Council del Ghana, chesalì al potere nel 1981, era particolarmente interessato allaproduzione di una cultura nazionale e al ringiovanimento dellatradizione, cioe’ alla creazione di una nuova politica culturale,promuovendo festival nazionali e istituendo l'insegnamento dellacultura nelle scuole (National Commission on Culture 1991)3. Ilprogramma scolastico aveva due componenti. Come parte dellariforma dell'istruzione finanziata dalla Banca Mondiale, unamateria chiamata "studi culturali" fu aggiunta nel 1986 alprogramma nazionale per i primi nove anni di istruzione. Lamateria prevedeva per gli studenti l’apprendimento di musica,danza, rituali del ciclo di vita, arte oratoria e religione. Unsecondo metodo più diffuso includeva competizioni culturali trascuole in cui gli studenti si esibivano in cori, performance ditamburo, recitazione di poesie, danze e mostravano i loro lavori inesposizioni di arti e manufatti. Intervistare era solo uno dei tanti metodi per capire le motivazioniideologiche e gli effetti non voluti dell'inclusione delle tradizioniculturali nelle scuole.Ho vissuto nella città di Akropong, nell'area di Akuapem, per 12mesi, da agosto 1998 ad agosto 1999, un anno scolastico. Ho

osservato le lezioni di tradizioni culturali e altre materie, le proveper le competizioni culturali e le competizioni stesse; hopartecipato alle messe, ai festival e alle attività scolastiche didomenica; e ho fatto ricerca storica in archivi nazionali eregionali. Cercando di capire gli effetti complessi dellaproduzione della cultura nazionale in Ghana, mi sonoconcentrata su tre aree:1) il processo attraverso cui, storicamente, la cultura èdiventata un oggetto di discorso, una selezione del flusso dipratiche culturali, ed è stata associata alla nazione,2) i diversi discorsi contemporanei sulla cultura e lemodalità in cui studenti e insegnanti negoziano la politicagovernativa con i simboli cristiani nelle lezioni e nelleesibizioni,3) l'impatto dell'insegnamento della cultura sulla relazionedegli studenti con il sapere nelle scuole.Usando questi tre elementi, ho documentato gli effetti complicatie problematici dei programmi culturali rivolti ai giovani nellescuole in una nazione africana post-coloniale. Ho esaminato comele pratiche e i significati della scuola in un'area (Akuapem) hannotrasformato gli intenti ideologici dei programmi governativi,laddove questi programmi creavano differenti possibilità rispettoa quelle disponibili a scuola.Fui introdotta ad Akuapem da un intellettuale in pensione, chepromuoveva la sua città natale ai forestieri, specialmente stranieri,facendo da intermediario rispetto alle influenze esterne. Exinsegnante di lingue, aveva insegnato a molti professori dellescuole e perciò facilitò il mio ingresso a scuola. Questecoincidenze avevano anche un senso da una prospettiva di ricerca.Un luogo collinare, considerato perciò salubre per gli europei, lacosta di Akuapem -e Akropong in particolare- divenne il quartiergenerale dei missionari di Basilea sulla Costa d'Oro negli anni '40del 1800. Akuapem ha una lunga storia di esposizione alCristianesimo e all'istruzione e un alto tasso di scolarizzazione(Kwamena-Poh 1973).Le Chiese in Ghana si contrappongono alle pratiche tradizionali:un antagonismo mostrato vividamente quando Ephraim Amu, uninsegnante di musica del Presbtyterian Teacher's College, fuespulso dalla Chiesa e dalla scuola per aver indossato un vestitoafricano in chiesa nel 1931 (Agyemang 1988).Akuapem non è rappresentativo del Ghana, ma è un luogo cheevidenzia alcune problematiche la cui rilevanza va oltre Akuapemstesso: la tensione ideologica tra Cristianesimo e "tradizione", letensioni strutturali di un'economia basata sull'agricoltura ma chearricchisce i cittadini e coloro che sono vicini allo stato, e lefluttuanti relazioni tra città, etnicità e nazione.

Fare tante domande:

il processo di costruzione delle storie orali

Quando iniziai la mia ricerca sul campo ad Akuapem nell'agosto1998, decisi che nei primi mesi, mentre aspettavo di aver accessoalle scuole, mi sarei concentrata sull'incorporazione storica dellatradizione nelle scuole di Akuapem. Mi domandavo sel'insegnamento della cultura nei curricula scolastici risalisse a

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prima della riforma del 1986, magari alla fine del periodocoloniale negli anni '30 e '40 o all'inizio dell'indipendenza neglianni '60. Essendo a conoscenza della scarsità dei documenti scrittinegli archivi, dopo un viaggio esplorativo di due mesi nel 1997,speravo di studiare le ragioni ideologiche dell'interesse nellacultura tradizionale attraverso le storie orali, intervistandoinsegnanti e chiedendo loro delle loro esperienze di studenti einsegnanti dagli anni '40 in avanti. Nonostante l'insegnamentodella cultura fosse una riforma nazionale, ero curiosa disapere se gli insegnanti erano stati attivi nel promuoverel'eredità ghanese che poi il governo aveva adottato.Dalle poche persone che conoscevo, raccolsi una lista di nomidegli insegnanti più vecchi con un interesse nella cultura. Da quelpunto, usai un "campionamento a catena" e finii per intervistaredieci persone, fermandomi prima di aver intervistato tutti coloroche mi erano stati consigliati. Le persone che intervistai eranouomini anziani, dai 60 ai 90 anni: erano insegnanti in pensione oministri che avevano insegnato all'inizio della loro carriera. Il loroinglese era abbastanza buono. All'inizio, condussi le interviste ininglese; poi, parlammo Twi, usando l'inglese occasionalmentequando non capivo cosa era stato detto o quando avevo difficoltàad esprimermi4. Qualche volta, le persone che mi avevano fornitoi contatti mi accompagnavano alla prima visita per presentarmi;altre volte, mi dicevano di citare i loro nomi. Inutile dire che avevo dimenticato il consiglio di Briggs ([1986]1992) riguardo alle prime osservazioni e all'imitazione delletipologie locali di discorso prima di imbarcarsi nelle interviste;ero preoccupata di portare a termine tutto ciò che dovevo fare ecosì andavo avanti a fare ciò che vedevo essere il mio lavoro5. Descriverò quello che accadde durante una serie di visite einterviste con Mr. Asante (uno pseudonimo) svolte nell’arco di unmese come esempio di ciò che comunemente avveniva durante leinterviste. Egli era uno dei miei primi informatori-chiave quindile difficoltà del processo furono amplificate. Durante la mia primavisita con Mr. Asante, una visita di presa di contatto per come lapensavo io, mi presentai e descrissi il mio progetto: ero interessataall'insegnamento della cultura (termine locale) sotto forma diproverbi, musica, danza, "arti e mestieri" nella scuola primaria esecondaria (i primi nove anni di istruzione). In ogni caso, avevobisogno di qualche coordinata sulla riforma e speravo che Mr.Asante potesse raccontarmi di come queste cose venivanoinsegnate quando egli frequentava e insegnava a scuola. Dissi chestavo scrivendo un long essay, la parola usata nelle scuole diabilitazione e nelle università per indicare la tesi.Spiegai che volevo registrare l'intervista e che potevamo parlarenella lingua in cui Mr. Asante si sentiva più a suo agio. In questomodo, se avesse detto qualcosa in Twi a me poco comprensibile,avrei potuto tornare indietro e riascoltare la registrazione. Glidissi anche che volevo ricordarmi delle cose che mi diceva e chesarei stata felice di dargli delle copie delle cassette. Egli disse cheavrebbe preparato qualcosa da leggere per la registrazione. Lorassicurai che non era necessario, ma non ascoltò le mie obiezioni.Sembrava contento e impaziente, mi disse che era stato un piacereincontrarmi e che aveva molti documenti da mostrarmi. Parlò

anche della sua storia di vita e mi presentò alla sua famiglia. Poici accordammo sul giorno in cui dovevo tornare6.Alla seconda visita, spiegai di nuovo il mio oggetto di ricerca inTwi. Mr. Asante iniziò a raccontarmi di come l'artigianato venivainsegnato nella sua scuola elementare di Akropong e poi raccontòdella sua biografia e lo stato delle "arti e mestieri" durante la suaformazione in diversi posti e di quando divenne insegnante e sispostava di scuola in scuola in diverse città nel sud del Ghana. Inquesta fase, mise molta enfasi sulle date e sui luoghi. Era a disagiocon l'uso del registratore, ma mi lasciò prendere appunti mentreparlava. Quando arrivò alla fine della sua biografia, Mr. Asante michiese cosa volevo studiare e io mi spiegai un po' meglio,modificando le mie domande in modo da riflettere i suoi interessiper le "arti e mestieri". Mi disse che uno dei motivi per cui miaiutava era che sentiva il bisogno di documentare la sua vitaper passare oltre tutte le cose che aveva fatto e visto.Nonostante si considerasse più un artista che un insegnante,sentiva che ora, sulla spinta dei miei interessi, doveva pensaread insegnare l'arte ai suoi figli. Poi mi spiegò l'origine del suonome e mi raccontò della sua prima moglie che era mortaqualche anno prima e dei suoi figli. Mi invitò inoltre a restarea cena e io accettai.All'incontro successivo, una decina di giorni dopo che avevamoconsumato la cena preparata dalla sua nuova moglie, mi lasciòaccendere il registratore mentre leggeva gli appunti preparati perquell'occasione e altri brani dall'autobiografia che aveva scrittonegli anni '80. Gli appunti che aveva preparato sembravanol'inizio di un libro di testo sulla lavorazione della creta scritto perinsegnanti della scuola primaria e secondaria, dove si descriveval'importanza della lavorazione, come preparare la creta, i metodidi cottura e decorazione dei pezzi di argilla. Alla fine di questoincontro, dopo un'ora e mezza di sua lettura su cassetta, tornai acasa completamente sconcertata, chiedendomi cosa era successo.Cosa avevo detto che gli aveva fatto pensare che volessi un testosulla lavorazione della creta? Ripensai a cosa avevo detto efatto, ma alla fine realizzai che potevamo solo perpetuarel'inevitabile componente di incomprensione connaturata allanostra comunicazione.Alla quinta visita, una settimana dopo, Mr. Asante continuò aleggere il suo testo e quando finii i suoi scritti, prosegui leggendoun discorso che aveva sostenuto al Festival delle Arti di Legon nel1977 sulle "Forme contemporanee dell'espressione artistica".Dopo 45 minuti, approfittai dello scatto emesso dalla fine dellacassetta, per cambiare la direzione del nostro discorso. Senzatoccare il registratore, gli feci domande più precise su cosasuccedeva durante la formazione da insegnante di arti e mestieriad Achimota e sugli scopi dell'insegnamento di quella materia aquel tempo. Cercavo in tutti i modi di passare da una formagenerale ad una più descrittiva e dall'aspetto pratico a quelloideologico. La conversazione divenne sbilanciata, con tantedomande e risposte dirette da me. Una volta arrivata a casa,mi sentii male per non aver riacceso il registratore e averlofatto continuare.Pianificai un'altra intervista, in cui mi chiese di accendere il

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registratore e iniziò a leggere ancora dal suo taccuino, dicendoche era "felice di continuare la nostra discussione sull'educazioneartistica". Quando finì, gli feci ancora una volta alcune domandesulla sua esperienza e sulla lavorazione della creta, finendo in unaconversazione instabile. Questa fu la nostra ultima intervista.Rimasi però in contatto con Mr. Asante, tornando a trovarlo circauna volta al mese quando si trovava nel quartiere. Qualche voltapassavo semplicemente per salutare e chiedere come stavano lui ela sua famiglia; altre volte, lo aggiornavo sullo stato della miaricerca per avere riscontri ed approfondimenti da parte sua. Nelgiugno 1999 scrissi "Mi sembra di dover dire alle persone cosa stotrovando e non trovando e coinvolgerli in questo modo". Unavolta mi prese in prestito il registratore e qualche cassetta perintervistare i suoi parenti sulla loro storia familiare.Su questo modello si strutturarono anche le interviste svolte conaltri informatori, sebbene questi piuttosto che dei lavori d'argillaparlassero della storie della città, dei missionari e della chiesa adAkuapem e dello sviluppo della musica da chiesa. Tutti sipreoccupavano della precisione delle informazioni che mi stavanotrasmettendo, spesso leggendo da documenti o da libri in loropossesso, ma Mr. Asante fu l'unico che creò un libro per me7. Midavano cioè informazioni che erano abituati a trasmettere eriguardo cui si sentivano esperti; e io non ero l'unica cheimplorava informazioni per molti dei miei informatori. In questomodo, mi venivano impartite delle lezioni: mi trasmettevanoinformazioni codificate che avevano un indirizzo e un ordine, nelsenso di avere un inizio, un corpo centrale e una fine, così comele narrazioni storiche o le introduzioni alle materie nei libri ditesto.Non ero sicura che stesse andando male. Le persone con cuiparlavo sembravano gentili, come se volessero aiutarmi, el'atmosfera era positiva. Sicuramente lavoravano duro peraiutarmi. Ciononostante le nostre comprensioni e leinterpretazioni delle nostre reciproche interazioni eranoabbastanza diverse.

Cosa significava la cultura, per i Ghanesi e per me

Nel momento in cui iniziai le interviste con Mr. Asante, non eroancora completamente consapevole dei significati locali deltermine "cultura" (in Twi, ammamere) che usavo come punto dipartenza in questi colloqui, benché sapessi che era un terminelocale. La gente di Akuapem pensa che la cultura tocchi le lorovite solo occasionalmente, in eventi fuori dall'ordinario:cerimonie rituali, festival e competizioni culturali scolastiche.Incorporata dai capi, che ne erano i guardiani, la cultura fornivadelle connessioni con gli antenati e il passato. La cultura eraassociata alla performance, specialmente alla musica e alla danza,e alle pratiche tradizionali religiose. Perciò, non comprendeva gliinteressi di Mr. Asante nelle arti e mestieri. Stavo lavorando sottol'influenza delle nozioni tardo coloniali di cultura africana checomprendevano "arti e mestieri" locali, dopo aver letto dellafondazione della scuola di Achimota nel 1927, in cui sial'artigianato che le esibizioni tradizionali erano importanti inquanto emblemi della cultura africana. La riforma del sistema

educativo, sponsorizzata dalla Banca Mondiale del 1986, avevaistituito la materia "studi culturali" così come "studi vocazionali",che riformavano l'insegnamento di alcune arti e mestieri rispettoa come erano state insegnate a Achimota. Pensai che ci fosse unacontinuità ideologica e pratica tra Achimota e questa riforma.Invece, per la gente di Akapuem, gli studi vocazionali eranoconsiderati una formazione al lavoro (benché manuale) e nonavevano nessun legame con la cultura, considerata qualcosa difutile rispetto alle questioni centrali dell'istruzione. Io definisco la cultura in modo diverso da la maggior parte deighanesi. Vedo la cultura come qualcosa che include le pratichequotidiane, incorporate e abituali, delle persone; questocomprende le pratiche del Cristianesimo, dell'istruzione e iprocessi di appropriazione dei temi e delle idee occidentali. È contestuale e flessibile: si svolge in uno specifico contesto inuna popolazione specifica. Per esempio, sostengo che ci sonotradizioni culturali scolastiche in Ghana in cui certe pratiche ecerti modelli linguistici sono diventati naturali e attendibili; ilmodo scolastico di trasmettere la conoscenza era ciò che stavostimolando nelle mie interviste. Ma per molti ghanesi, la culturasignificava cultura ghanese, che si poteva evitare o a cui si potevapartecipare di domenica o in specifiche occasioni. Attraverso lemie interviste e altre conversazioni più spontanee imparai ilcampo semantico del termine cultura e iniziai ad usarlo in manierapiù appropriata.

Nozioni locali di esperti

Realizzai anche che parte del problema era costituito dal fatto chemi stavo concentrando sul periodo sbagliato. Le persone che mierano state consigliate erano uomini anziani cresciuti negli anni'30 e '40 quando le scuole erano sotto il controllo della Chiesa;non erano molto interessati alla cultura, considerata antiteticarispetto al Cristianesimo. Inoltre, le poche informazioni che avevosul passato erano frammentate: in quanto insegnanti, questiuomini si erano spostati molto seguendo i loro incarichi, e cosìnon riuscivo a ricostruire una storia dell'educazione ad Akropongo perfino ad Akuapem perché questi avevano insegnato in unacittà (magari nella regione centrale o nella Brong-Ahafo o nelnord) per tre anni e in un'altra per i successivi otto.Realizzai che dovevo chiedere di coloro che a quel tempo eranoquarantenni o cinquantenni, che erano cresciuti nell'epocadell'indipendenza quando l'insegnamento della cultura vennepromosso. Forse avrei dovuto interessarmi meno agli insegnantiche si erano spostati di città in città ma piuttosto a chi era statostudente ad Akropong. Però erano proprio coloro che non avevanoavuto successo a scuola che erano rimasti a vivere ad Akropong equesto genere di persone erano esattamente quelli che nongodevano di rispetto e che non mi erano stati consigliati come"esperti". Il campionamento "a catena" diventa dunqueproblematico quando l'oggetto del proprio studio è diverso dallacomprensione locale di ciò che è un sapere prioritario.Ottenni qualche successo facendo domande sulla storiadell'insegnamento della cultura ad insegnanti di mezza età cheincontravo quando visitavo le scuole. Normalmente non si

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trattava di interviste strutturate, ma conversazioni sotto il porticoo nella sala insegnanti la mattina presto o durante l'intervallo,suscitate dai miei racconti sui miei interessi e su cosa stavocercando. Mi raccontarono soprattutto storie personali ed eranomeno preoccupati di essere precisi perché non c'era il registratore,a quel punto mi conoscevano meglio rispetto ai miei informatori-chiave e le loro storie facevano parte di conversazioni alla pari.In ogni caso, durante le interviste, anche gli insegnanti di mezzaetà mi parlavano della cultura sotto forma di varie e importantiusanze, insegnandomi, per esempio, l'ordine delle attivitàall'interno di un festival o di un rituale. Spesso avevol'impressione di rompere la cornice della conversazione sechiedevo delle loro storie personali o degli eventi e dei curriculanelle loro esperienze. Un problema era che l'insegnamento dellacultura nelle scuole non era considerato da loro un sapere. Così,anche quando usavo il termine "cultura" in maniera appropriata, enonostante parlassi con persone che avevano conosciutopersonalmente i programmi culturali durante l'istruzione, questivolevano trasmettermi un corpo di conoscenze riguardanti lacultura, benché chiedessi dei programmi scolastici. Per capirne leragioni, è necessario analizzare le teorie locali sulla conoscenza el'apprendimento ad Akuapem.

Saperi locali e contesti di apprendimento

Nell'etnografia della conoscenza di Maurice Bloch (1993), eglidistingue diversi tipi di saperi e stili comunicativi corrispondentia diversi stadi e status nel ciclo di vita degli Zafimaniry delMadagascar.I bambini sono associati con il sapere pratico e scientifico dellaforesta, le persone sposate con il sapere pratico agricolo e glianziani con la saggezza e la storia: in questo modo, con il passaredell'età, la conoscenza ha una pertinenza decrescente rispettoall'ambiente circostante e diventa più astratta. Bloch sostiene cheil saper leggere e scrivere tra gli Zafimaniry è visto comequalcosa di simile al sapere degli antenati, nonostante il fatto chela maggior parte degli alfabetizzati siano giovani uomini.Prendendo ispirazione dalla tipologia di Bloch, distinguo tre tipidiversi di conoscenza che ho visto operativi ad Akropong e ingenerale ad Akuapem. Il primo è un tipo di sapere pratico, legatoa compiti quotidiani come i lavori di casa (cucinare, lavare,spazzare). Un altro è un sapere specializzato, come la carpenteria,la tessitura kente, il suonare i tamburi, che dipende dall'accesso aicontesti di performance per parentela o apprendistato. Il terzo è unsapere incentrato sulla storia (genealogie di famiglie e di capi,storia della città) e sulla pratica rituale. Come già accennato, lastoria (della Chiesa e della città) è un importante genere didiscorso ad Akuapem, che si ritrova nei sermoni religiosi, nelleconversazioni quotidiane in cui gli anziani mostrano il loro saperesotto forma di aneddoti storici, e durante i funerali.Solo alcuni di questi tipi di saperi sono identificati come culturalidagli abitanti di Akuapem: alcune delle conoscenza specializzate,come suonare i tamburi o danzare, sono qualificate sotto questaetichetta, ma più comunemente, sono considerate in questo modola conoscenza storica e rituale. Questi saperi hanno una

connotazione di genere e dimostrano una gerarchia gerontocraticache opera ad Akuapem: il sapere pratico è disponibile a chiunquema è specialmente usato da giovani uomini e da donne, mentre ilsapere degli eventi antichi e rituali è il più prestigioso, nonlargamente disponibile e nelle mani di alcuni anziani. Un'esecuzione adeguata è altamente valutata per tutte e tre letipologie di conoscenza, e perfino la più astratta è posta in atto:durante i funerali, si discute di genealogie per chiarire questionilegate all'eredità, e i rituali sono messi in scena ai festival. Larappresentazione può includere un'esibizione di abilità verbale.La precisione ha un grande peso nella rappresentazione pubblica.Una cattiva esecuzione è un'umiliazione personale e una perditadi reputazione (vedi Yankah 1995); errori durante le esecuzionirituali possono provocare punizioni (perfino mortali) da partedegli spiriti arrabbiati o degli antenati.La conoscenza più potente e sacra è considerata segreta, usata perrinforzare lo status di certi anziani e capi. Così come i capi sonoprotetti dal mondo profano dalla mediazione dei loro akyeame oportavoce (Yankah 1995), lo sono anche gli oggetti potenti o glieventi tenuti nascosti e protetti dall'ambiguità e dalla segretezza.Molti saperi culturali e storici sono considerati segreti econtrollati dagli anziani; per questo sono chiamati mpanyinsem,affari degli anziani. La natura segreta della conoscenza èsottolineata dagli autori che rendono quella conoscenza pubblica,attraverso i loro libri. Nella prefazione di un famoso libro chedocumenta numerosi festivals in Ghana, A. A. Opoku (1970)scrive che è difficile esprimere ringraziamenti "in un libro che haa che fare con ciò che è sacro e in qualche misura segreto nelnostro patrimonio culturale". Nella recensione di due testi chedescrivono due festivals Akan, I. E. Boama (1954) scrive:

“I due festivals Twi che ogni Akan dovrebbe cercare di vederesono Adee e Odwira. Ma ci sono molte persone che pur avendoassistito ai festivals, ne hanno visto solo una parte. Questo perchésolo chi sta dentro ha il permesso di vedere le vere attività…se seiun cittadino (figlio della nazione), compri questi libri per leggerlie se conosci i segreti della tua nazione, non li scarterai”.(Traduzione dal Twi di Afari Amoako e me)

Il sapere culturale al suo livello più profondo e più puro eradunque considerato nascosto, non accessibile agli estranei: i libriche lo documentavano violavano quel segreto descrivendo ritualia chi non era parte della cerchia dei reali e ai giovani.Anche alcune storie erano considerate segrete. Un giorno, mentrepercorrevamo la strada principale di Larteh, il professor Asiedu,uno dei miei principali informatori, mi raccontò che quando, nel1957, scriveva la sua tesi per il Presbyterian Training Collegesulla storia di Larteh andò a parlare con un anziano della sua cittànatale.L'anziano gli disse che non gli avrebbe detto niente se non avesseportato da bere, e quando lui tornò il signore era morto. Un altroanziano non gli raccontò niente e l'allora giovane professorAsiedu, lo rimproverò dicendogli "se non parli, come faranno ibambini a imparare?".

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"Perché non volevano raccontare niente?", chiesi a Asiedu in Twi."Wosuro (avevano paura)", rispose."Di cosa avevano paura?" chiesi. Lui mi disse che avevano timoredi rivelare qualcosa di segreto e che qualche spirito li avrebbepuniti.(Note di campo, 19 febbraio 1999).

La segretezza di un certo tipo di sapere storico e culturalepermette agli anziani potenti di manipolare importanti decisionisui diritti di proprietà e sulle posizioni politiche che sonoconnesse profondamente alla genealogia familiare e allastoria locale.Come sostiene William Murphy (1980), il contenuto diquesto sapere nascosto non influisce quanto i privilegi chelo stesso segreto crea.Benché in tutte le forme di saperi della comunità vengaprivilegiato l'aspetto empirico, che si tratti di lavori domesticimattutini, di festivals o di rituali in boschi sacri, l'attivitàscolastica ad Akuapem si distingue per trasmettere un sapere chenon è né pratico né utile, in cui la conoscenza è resa astratta ecreata in un gioco di riproduzione di parole, una litania daapprendere senza discussioni e con poca attinenza con la vitaquotidiana. Le lezioni a scuola - e questo modello diventa piùevidente e più forte nei livelli superiori dell'istruzione- consistonoin una discussione guidata dall'insegnante. Il professore fa delledomande il cui scopo esplicito è far emergere la preparazionedegli studenti, ma questi riconoscono che ci si aspetta che dianola riposta che l'insegnante ha in mente. La discussione si risolvein una serie di liste e di definizioni scritte alla lavagna. Vengonopoi forniti gli appunti: l'insegnante infatti scrive alla lavagna dellefrasi e dei paragrafi sull'argomento, spesso riproponendo alcunipunti della precedente discussione, e gli studenti copiano questiappunti nei loro quaderni. Questi testi saranno la base peresercizi, domande di verifica e (si presuppone) per gli esaminazionali. Qualche volta, per compito in casa o in classe, l'insegnante scrivedelle domande alla lavagna basate sugli appunti e gli studentidevono scrivere le risposte sui quaderni8. Gli appunti danno lapossibilità agli studenti di ripassare le informazioni dalla lavagnacopiandole nei loro quaderni. Si tratta di un processo meccanicoe faticoso. I quaderni sono spesso gli oggetti materiali attorno aiquali ruotano le lezioni: gli studenti si precipitano a copiare dallalavagna; gli appunti vengono raccolti per essere valutatidall'insegnante, che spesso ha pile di quaderni sulla cattedra,poi i quaderni vengono ancora ridistribuiti e si fanno lecorrezioni. Gli appunti sono un meccanismo importante dellatrasformazione del sapere quotidiano in sapere scolastico,dato che verbalizzano una conoscenza incorporata attraversoparole inglesi, definizioni e liste.La natura astratta e decontestualizzata del sapere scolastico lorende molto simile al sapere storico e al sapere degli anziani, manel momento in cui viene insegnato ai bambini, vienesemplificato e appiattito, fenomeno che ho discusso nei dettaglialtrove (Coe 2000). A differenza del sapere storico e culturale,

comunque, la conoscenza scolastica è utile solo nella suariproduzione sui fogli d'esame.

La messa in scena della competenza

Ho presentato queste tipologie di conoscenza perché hannostrutturato il modo in cui le persone rispondevano e davano sensoalle mie domande. Mi sembra che molti dei miei informatori piùimportanti pensavano alle mie domande come a delleinterrogazioni scolastiche: il loro recitare da documenti e il mioregistrare su cassetta o prendere appunti riproduceva le modalitàdi trasmissione da insegnanti ad alunni, eccetto che per lalavagna. Questo fece sì che presentassero una conoscenzacodificata e formalizzata, non la propria esperienza personale. Lemie domande sulla cultura stimolarono descrizioni di usanze e dirituali da parte degli insegnanti di mezza età che insegnavanoqueste stesse descrizioni o a cui erano state insegnate ingiovinezza. L'accuratezza era importante nei termini di unacorretta performance, dove gli informatori tenevano a presentareinformazioni vere e dove l'ansia era accresciuta dal mioregistrare.Non ero l'unica a chiedere loro informazioni. Il professor Asiedusi assicurò che sapessi che altre persone erano state da lui peravere informazioni sulla storia della città. Egli commentò,facendomi allo stesso tempo un complimento, che siccome dellepersone sagge venivano a cercarlo, i suoi figli e sua mogliepensavano che anche lui lo fosse. A un giovane insegnante checapitò durante una mia visita, Asiedu disse che eravamo andati aimparare mpanyinsem o le questioni degli anziani da lui.I miei informatori, dunque, avevano l'impressione che le miedomande contribuissero al loro status e alla loro autorità dianziani ben informati agli occhi delle loro famiglie o dell'arenapubblica.Il professor Asiedu, in particolare, aveva trasformato se stesso dainsegnante in pensione ad anziano della città, da Oyeame a capo,e poteva aver visto i miei interessi più nella natura deimpanyinsem che nel sapere scolastico.Per evidenziare la loro competenza, i miei informatori indicavanola loro età e la loro esperienza durante le narrazioni delle lorostorie di vita, elencando le date e i luoghi di nascita, il curriculumscolastico, gli incarichi da insegnante, la formazione, gli ultimiimpieghi e la pensione. Qualche volta il racconto includeva laspiegazione dei loro nomi e la discussione della loro storiafamiliare, come abbiamo visto con Mr. Asante. Dopo diversiepisodi simili, imparai a domandare questo tipo di storie di vita.La prima volta che lo feci, la moglie dell'informatore che stavaascoltando la nostra intervista, fece un grugnito di soddisfazione,mostrando quanto la domanda fosse appropriata. Altre domandeche valorizzavano l'età e l'esperienza dei miei informatori sirivelarono utili, come suggerire comparazioni fra il passato e ilpresente. Gli anziani spesso facevano paragoni tra il presente e ilpassato per evidenziare la loro conoscenza e criticare il modo diagire attuale9. Imparai a chiedere "Com'era l'educazione ai tuoitempi?"10 e a seguire "Cos'è cambiato da allora?", invitando acriticare il presente. Entrambe queste domande mostravano

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rispetto per le loro competenze ed esperienze e suscitavano unospecifico stile di discorso associato agli uomini anziani, aiutandoquindi a costruire la cornice dell'intervista come quelladell'insegnamento impartito da una persona più grande ad una piùgiovane11.Ero contenta che mi raccontassero le loro storie di vita perché levedevo come un'occasione per porre domande più specifichesull'istruzione e sulle esperienze d'insegnamento. I mieiinformatori, però, non capivano perché stessi facendo quelledomande; volevano raccontarmi le loro prospettive e i loro saperiin toto, come un pacchetto preconfezionato. Cambiare ladirezione delle conversioni e interrompere le loro lezionisull'argomento non era rispettoso dell'età e delle competenze.Indagare sulle esperienze personali poteva essere interpretatocome una minaccia alla loro autorità- davvero sai questo? Eriveramente lì?Il mio scopo era sostenere delle interviste aperte, colloquiali,informali e scorrevoli (Jackson 1986; Rubin e Rubin 1995), ma lacomprensione delle interviste da parte dei miei interlocutoririsultò più formale, dove loro impartivano un sapere codificato epreciso da anziani ad una giovane, o da insegnanti ad unastudentessa. Di conseguenza, la mia nozione emica di cosadovesse essere un'intervista colloquiale, supportata dalla miaformazione accademica, si modificò in un genere di discorso diAkuapem (mpanyinsem) più formale, sistematizzato e ordinato diquanto volessi o mi aspettassi.

Altri metodi

Ho visitato diverse scuole e osservato le lezioni di cultura e dialtre materie. Ho continuato a partecipare alle messe in città, aparlare con la gente che mi fermava per strada e ad andare aifestivals e ad altre attività rituali. Ho parlato con i giovani adultidella famiglia con cui vivevo, sono andata a trovare gli insegnantinelle loro case e sono stata adottata e protetta da due professoressepiù anziane.Ho mantenuto i contatti con chiunque conoscessi e ho continuatoad andarli a trovare. Ho fatto affidamento su conversazioniinformali, lasciando che gli altri dirigessero il dialogo e facendodomande quando si presentava l'opportunità. Ho guadagnatol'accesso a diverse situazioni accompagnando conoscenti e amiciin chiesa, al mercato, a feste e andando a trovarli nelle loro case enelle loro scuole.Quando la scuola superiore ha iniziato a prepararsi per lecompetizioni culturali in febbraio, ho accompagnato ilfunzionario del distretto di studi culturali alle formazioni cheteneva per gli insegnanti, e poi ho scelto tre scuole secondariedove seguire le prove e le performances.Ho intervistato i giudici delle competizioni, con successovariabile a seconda del loro interesse per la cultura. Ho anchecondotto delle interviste di gruppo con gli interpreti delleesibizioni e altre interviste individuali dopo la competizione. Igruppi di discussione hanno funzionato meglio che i colloquiindividuali con gli studenti: il mio potere diminuiva nel gruppo egli studenti si correggevano l'un l'altro ed elaboravano insieme le

loro posizioni.In tutte queste interviste, i miei interlocutori volevano descrivermii vari costumi tradizionali e io lentamente negoziavo ciò chevolevo, facendo domande sulle loro esperienze di competizioninella scuola primaria e secondaria, la logica delle loroperformances e il modo di apprenderle. In ogni caso, partendo dabasi comuni (le prove e le competizioni culturali) su cui discutere,potevo sollevare domande ancor più precise. Ho anche percepitoche gli adolescenti erano aperti con me più degli adulti. Nessunadi queste interviste è durata più di un'ora o un'ora e mezza.Guardando le prove delle competizioni culturali e dei festivals, honotato che i bambini e i giovani imparavano a recitare attraversol'osservazione seguita dall'imitazione. I bambini e gli adolescentirecitavano "dietro le quinte", in contesti fuori dalla vista degliadulti, esibendosi pubblicamente solo quando si sentivano sicuridi non fare errori sotto lo sguardo altrui. Durante un gruppo didiscussione con dei ragazzi, chiesi come avevano imparato asuonare il tamburo fontomfrom:

“Vedi, ascoltiamo. Questa cosa, non è che suonano il tamburofontomfrom un solo giorno. Se lo ascoltiamo, non lo suonano soloper un giorno o un minuto e poi basta. Lo fanno di continuo, cosìnoi lo sentiamo per tutto il tempo in cui lo suonano. Ascoltiamocome fa, com'è esattamente il suono e lo seguiamo. Così se sentoche stanno suonando il tamburo in quel modo, lo seguoesattamente, il ritmo. La volta successiva, se vado in quel posto enessuno è lì, provo a suonarlo nel modo in cui l'ho sentito. Questoè come ho visto il modo di suonare. Questo è come ho imparato asuonare il tamburo”.(discussione registrata, 22 marzo 1999; traduzione dal Twi diAfari Amaoako, Bobina Ofosu-Donkoh e me)

Vorrei essere partita imparando a fare domande sul modo in cuiquesto ragazzo aveva imparato a suonare. Invece, ho imparatoattraverso la pratica, facendo attenzione a successi e fallimenti, afare domande o affermazioni che permettessero ai mieiinterlocutori di aprirsi e altre che creassero silenzi ointroducessero altri temi. Invece, solo dopo ripetute frustrazioni,feci un passo indietro e osservai come le persone imparavano.

Conclusioni. Dalle interviste all’osservazione

Come ho descritto, condurre interviste produsse tipi di linguaggioe trasmissione del sapere diversi da ciò che mi aspettavo. La miafrustrazione nel processo di intervista mi permise di osservare eimitare le interazioni più attentamente, qualcosa che Briggssosteneva dovessero fare i ricercatori prima di iniziare a faredomande. Queste difficoltà nel percorso mi aiutarono a vederealcuni aspetti più chiaramente- la costruzione della conoscenza, leteorie dell'apprendimento, le strategie comunicative, l'importanzadella corretta performance- che arrivai a definire come temicentrali dell'insegnamento della cultura ghanese nella scuola.L'intervista, come ogni conversazione, è un qualcosa dinegoziato, non solo nella forma, ma anche nella suainterpretazione. Sia l'intervistato che l'intervistatore segnalano e

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interpretano il contesto dell'intervista attraverso il loro discorso.Ma nel mio caso gli intervistati avevano teorie della conoscenza emodi di trasmetterla differenti. Se io ero portatrice di un senso delsapere accessibile e pubblico, libero dalle relazioni di potere, lagente di Akapuem vedeva la conoscenza, specialmente quellaculturale e storica, come segreta e protetta, legata profondamenteallo status sociale e al potere.Partivo dal presupposto che la conoscenza storica fosse legataall'esperienza personale, al punto di vista o all'identità dei mieiinformatori, mentre questi usavano le storie di vita perevidenziare la loro età e competenza e preferivano costruire ilsapere come riproducibile (scritto), preciso, generale e descrittivo,seguendo le regole della conoscenza scolastica vigenti adAkapuem insieme alle nozioni locali di saperi e storia deglianziani. Senza capire i principi di questa trasmissione di saperi,cercai di direzionarla attraverso i miei criteri di intervista.La conoscenza è socialmente mediata, legata alla mia posizione diricercatrice americana e alle loro posizioni di anziani che

trasmettevano un sapere. Le nostre posizioni sociali e le nostrecomprensioni della produzione e trasmissione di conoscenzainfluenzarono ciò che ci dicevamo e quali modalità usavamo.Tutto il sapere è mediato socialmente, ma queste intervisteproblematiche lo resero ancor più visibile. La mia conoscenzagraduale delle strategie locali di apprendimento mi aiutò adaccedere più facilmente al sapere degli anziani e a partecipare inquelle conversazioni come una giovane rispettosa. Imparare leconvenzioni locali della trasmissione dei saperi è dunqueessenziale nell'etnografia. Abbiamo bisogno di capire le corniciinterpretative che le nostre domande e le nostre interviste fannoemergere così come i nostri interessi si intersecano con le nozionilocali di conoscenza e competenza.In ogni caso, questo significava ad Akapuem imparare comeindagare, attraverso la sperimentazione, l'osservazione el'imitazione.

(Traduzione di Valentina Mutti)

Note

1 Allo stesso tempo, c'è stata una certa attenzione nei confrontidell'esperienza corporea e dell'incorporazione come strumenti diconoscenza (Sklar, 1994; Young 1994).2 I Guan probabilmente arrivarono presumibilmente nel XVsecolo, si puo’ senz’altro affermare sulla base di ritrovamentiarcheologici, che essi giunsero prima la fine del XVI secolo(Kwamena-Poh 1973).3 L'instabilità nel corpo militare causò un colpo di Stato nel 1979a opera del tenente pilota Jerry Rawlings, che poi passò le rediniad un governo civile nato da elezioni democratiche. Due anni emezzo dopo, questo governo subì nuovamente un colpo di statoad opera di Rawlings, con accuse di corruzione. Il nuovo governofu diretto da Rawlings e dal PNDC. Benché all'inizio fossesocialista e populista, il PNDC divenne poi l’interlocutoreprediletto del Fondo Monetario e della Banca Mondiale epromosse riforme di adattamento strutturale e liberalizzazioneeconomica. In seguito alla pressione internazionale, il governodel PNDC iniziò un processo di democratizzazione e si trasformòin un partito politico civile, l'NDC, che vinse le elezioniparlamentari e presidenziali nel 1992 e nel 1996. Seguendol'esempio di molti scienziati politici studiosi del Ghana, cosìcome quello degli editorialisti in Ghana che per sottolineare lacontinuità tra il PNDC e il NDC parlano di governo (P)NDC.4 La mia padronanza del Twi migliorò durante l'anno. Alla fine,ero in grado di comprendere la maggior parte dei discorsi ufficialie delle lezioni delle scuole inferiori e superiori in Twi e disostenere conversazioni quotidiane con le persone. Trovavodifficoltà nel leggere il linguaggio più arcaico e proverbiale dellapoesia, della legislazione e della Bibbia. In generale, come spesso

accade nell'apprendimento di una seconda lingua che hagrammatiche e dizionari, le mie capacità di lettura e scritturaerano maggiori di quelle orali e di comprensione.5 Dan Rose (1990) presenta le storie di vita degli etnografi comepratiche culturali inserite nello sviluppo dell'accademia.6 Un monitoraggio dei soggetti non era abituale nell’ambito dellaricerca antropologica all'Università della Pennsylvania.Personalmente ero preoccupata del consenso e dell'uso delmateriale e feci firmare ai miei informatori un consenso nel qualesi diceva che avrei potuto usare le informazioni in pubblicazioninelle quali avrebbero potuto scegliere di essere citati o restareanonimi. Accettai anche delle modifiche a questo modello.7 In una discussione sul consenso, un informatore mi chiese di nonusare le informazioni "grezze", ma di fare controlli con altrepersone o documenti per verificarne la veridicità.8 Questa strategia di insegnamento nasce in parte come rispostaalla mancanza di libri di testo: quando i libri sono tirati fuoridagli armadi, ogni libro è usato da cinque o più studenti, chestanno vicini intorno a un banco, leggendo sottosopra, di lato,sulle spalle degli altri.9 Per esempio, un insegnante delle superiori, di cui avevoosservato le lezioni, faceva notare ai suoi studenti la differenza tracome si celebravano i funerali ai suoi tempi rispetto allecelebrazioni di oggi. Era chiamato opanyin o anziano. Sono sicurache non fosse solo per l'età (una sessantina), ma anche per il suostile retorico.10 Per "ai tuoi tempi" usavo i termini Twi, "wo bere so" e "saa bereno".11 A quel tempo avevo 27 anni ma molte persone ad Akuapempensavano fossi più giovane.

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The postmodern deconstructivism ofDonna Haraway - or:

why cyborgs matterdi Sandra Finger

The increasing demand for more inter-disciplinarity insocial sciences emphasizes a critical scrutiny of authoritativeknowledge and has led to a critical engagement with all differentkinds of practices of making meanings. The relativist turn duringthe 1960’s has been the key development of this process.Particularly Kuhn and Popper - just to mention the two keyfigures in this movement - have been significantly important inproving the necessity of a critical review of thoughts withindisciplines that would have maybe been less contested concerningtheir meanings, such as natural sciences. So, just as Said (1979) orStarn (1991) give the examples of Orientalism and Andeanismseparating the world into spaces and giving meaning as a result ofa specific history and its power discourse, we can scrutinizerecent and contemporary conditions. This kind of de-constructionism in social sciences has often been linked to apessimist outlook with the focus on the submission and subjectionof the individual to capitalist and late-capitalist disciplinary forcesand also, broadly speaking, to a certain ideological and racisthegemonic order of today (Young, 1995; Gilroy, 2000). For this reason Donna Haraway’s concept of the human being intoday’s condition seems to be particularly significant to look at.She, in fact, not only contests the authority of natural sciences’concepts of nature, but also defends the idea of using the outcomeof late capitalism against capitalism itself, for the wealth ofhumanity. Therefore she thinks at technological development asan opportunity for dynamism. Haraway’s agenda is ontological aswell as political and in particular feminist. However, the optionsof empowerment by means of the appropriation of technologiesand other innovations and changes launched by capitalism, canalso be useful for the male stance. It is possible to understand therelevance of Haraway's thought concerning the male domain if weread, for example, her issues on transcendence integrating themand going beyond her discourse through Adorno, Horkheimer orYoung. Haraway herself has in the meantime, though only afterhaving published her concepts of nature and science, agreed witha possible ‘female and male agenda’ which I will explain in thisessay. So I will look at Haraway’s concepts of nature and scienceand how they are supported by other critical theorists from a ‘dis-gendered perspective’. Afterwards I will discuss her concept ofthe cyborg and its implications. Last but not least, I will discuss,

the arguments of critical theorists regarding the shortcomings ofHaraway’s thinking and I will conclude explaining where andwhy, in critical theory, Haraway’s concepts instead do matter.

Nature and Science or natural science as culture

The analysis of nature or of the role of sciences might not containHaraway’s central or maybe best-known theoretical contribute. Itis however important to highlight this contribution because herunderstanding and analysis of nature and sciences present thepillars for her idea of the cyborg with which I will deal later in thisessay.“Trained in molecular and development biology, I identifyprofessionally as a historian of science”1, these are the words withwhich Donna Haraway describes herself. In her work PrimateVisions: Gender Race, and Nature in the World of ModernSciences she argues that biology as well as the concept of natureare both historical discourses (Haraway, 1989). ‘Social relationsof domination are built into the hardware of logics of technology,producing the illusion of technological determinism. Nature is, in“fact”, constructed as a technology through social praxis’(Haraway, 1989: p.54). She supports her argumentation bycomparing researchs on primates in different regions. Results of aresearch carried out by Japanese scientists in Japan “for example”display an idea of ‘unity’ of human beings and animals. Otherthan in Western societies, in Japan the relations between animaland human are ‘like relations between older and younger siblingsor parents and children’. In Buddhist tradition however, ‘theseries of possible transformations among animals, gods, andhumans sets up a horizontal system of relationship’ (Haraway,1989: p.247). Haraway continues saying that in Western societies‘nature is not presented valuable because it is wild in TeddyRoosevelt’s sense’. In the case of Japan, however, ‘nature is anaesthetic value [...]. Nature is a work of art’ (p.248). The sameresearch in Japan also shows a ‘matriarchal order’ amongprimates which, according to Haraway, reflects the ‘Japaneseculture preoccupation with mother-son relations that has differenttones from the Western version. These and an essential number ofother case studies prove, from Haraway’s point of view, thatprimatology has been determined by human social sciences. Sheargues that sciences have been working in the service of socio-

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politics, in order to establish the place of the Human in this world(Haraway, 1989: p.87, p.235-243, p. 288). According to Harawaythe different understandings and concepts of nature reflectdifferent orders of discourse. In one of her later works, afterPrimate Vision, Haraway becomes quite explicit and clear in thisregard: ‘The truths of biology are historically crafted in practiceswhere materiality and semiotics encompassing the dynamicagency of humans and nonhumans cannot be disintertwined.Teaching Christian creationism as science is child abuse as wellas in bad biology, but teaching biology as an a-historicalrepresentation of objects separate from their “agencies ofobservation” is equally debilitating’ (Haraway, 1997, p.118). Thisargument on the constructed nature of nature as well as of scienceis actually nothing innovative in critical theory and socialsciences. Nietzsche (1878) and Foucault (1970), both identify thediscourse and its aesthetics as concepts that have to be understoodas a ‘history of ideas’: in the confrontation with migrations duringthe Classical Age and afterwards, the Greek civilization2 wasconcerned in organizing itself and went out of the struggle withthe idea of a ‘higher culture’, as opposed to the Roman Empire,let alone the nomads, also called by the Greek ‘Barbarians’. ForMax Horkheimer (1974) ideas of intellectuals such as Plato andAristotle are not than ‘speculative thought’ and ‘a doubtlessluxury [...] in a society based on group domination only a class ofpeople exempt from hard labor could afford’ (p.103). Accordingto Horkheimer, Nietzsche, Foucault and Haraway, certainscientific discourses are to be understood as outcomes of thethought of a privileged minority that eventually imposes itsworldview and concepts on other less advantaged or less powerfulpeople. If the construction of nature, sciences, ideology or otherproducts of the discourse have already been contextualized beforeHaraway’s work as discussed above, why then has there been inthe seventies 'a new vogue' (Young, 1992) in the understanding ofideology, nature and geography, or sciences in general, as acontest of meaning?First of all the new shift to the Kuhnian paradigm that involvedsciences (Chalmers, 1982) in 1962, opened up a perspective ontoobservation as a highly subjective and paradigm-dependantundertaking. Observation experienced hence a critical objectionrelevant for scrutiny itself. Science was, for the first time, openlydiscussed as a subject to compare with rival paradigms whichthen also touched more and more upon, both social and naturalsciences (Chalmers, 1982). This led to the ‘unthinkablerelativism’ of the post-modernist discourse, that revealed powerrelations and discursive practices lying under the structure ofmeaning (Young, 1992). According to Horkheimer (1974) ‘intellectually, the modern manis less hypocritical than his forefathers of the 19th century’ but‘hypocrisy’ of early intellectuals has been instrumentalized bythem, exploiting this knowledge to alienate the human being fromits authentic existence and its (more) original needs (Nietzsche,2000; Horkheimer, 1974: p. 100/101). Theodor W. Adorno(2000), at the time of the dispute of positivism in GermanSociology during the 70’s, during one of his lectures criticizes the

‘truly narrow concept of sociology’ and its ‘misplaceddominance’ which lies in the fact that ‘the technology ofsituations which are controllable by sciences, and therefore thereified relationship embodied in such situations, is transferred tosociety, which ought to be the subject of all those concepts’ (2000,p.135). We can hence understand Haraway’s argumentation as aresult of the vivid debates around the legitimacy of ideas andsciences coming out of this paradigm-change as depicted above.Although, as the debate shows, Haraway’s approach is not new,her examples in the field of natural sciences lose nothing in theirpervasiveness and originality and enhance the credibility of herargumentation (Young, 1992).Within this concept of hegemony that constructs entities anddisciplines to guarantee its continuity, Haraway qualifies theeducation system as one of the key institutions from where thestudents’ and scholars’ focus of observation is reshaped anddetermined by ideology. State ideology is embodied by the stateapparatus of education securing the reproduction of political andeconomic conditions (Haraway 1989; Althusser, 1994). In hisreflection about the state apparatus, Althusser determines theeducation system as main instrument for exploitation of the‘people on a falsified representation of the world in which theyhave imagined an order to enslave other minds by domination oftheir imaginations’ (Althusser, 1994: p.124). With the state asthe ‘educator’, the intellectual and scholar educated by the statehimself, plays the key role of agent in transmitting thishegemonic worldview (Gramsci, 1998: 210-216).Donna Haraway’s concept of nature as an artificially andintentionally created and institutionalized entity opposeshumanity as ‘the other’, as the ‘constitutive outside’ for one’s ownidentification (Haraway, 1989: p.23-25), as a result of this newawareness of constructionism by the ‘relativist shift’. This newview of nature can be linked to a period of ‘rediscovery ofideology’3 and increasing awareness of the institutionalization ofideologies such as race, class, consciousness etc.4 whichdetermines the science and the perceptions produced by thatscience (Hall, 1986). Since ideologies keep bound to economicand political conditions and are incorporated by state andeducation institutions, Rouse (1992) argues that science is to betaken as a ‘cultural formation’ which can be understood bydetailed examination of it, by the situations it responds to or triesto explain, and by the ways in which it transforms those situations(Rouse, 1992: 58).

This awareness of nature and humanity as twoconstructed entities as well as the correspondingly imaginedborder drawn between human being and animal, betweentechnology and nature, leads Haraway to point out which will bethe leading theme in her development of the cyborg. Furthermoreshe defines the groundwork to imagine and develop what MichaelJoyce calls the ‘Cyborg Consciousness’ (Joyce, 1995: p.3): if socalled ‘facts’ promoted by sciences and its political ideologicalagenda as true are in ‘fact’ intentionally constructed, then they areimagined. So if fact becomes fiction, then fiction can become alsofact according to paradigm and discourse. This implies again

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that fact and fiction are of the same value and credibility(Haraway, 1989: p. 368-382). Since the cyborg is oftencriticized of being rhetoric (Kuzru, 1997: p.4) this idea offiction becoming fact and fact becoming fiction is crucial toretain.

The Concept of the Cyborg

Articulation and identification presents for Haraway a‘paradigmatic psychoanalytic question’ (Haraway, 1992: p.324)which signifies the object: ‘We articulate; therefore, we are’5.Thus Haraway looks for an exit from the discourse and itsconceptualizing and identifying practices. In order to liberateoneself from discursive and paradigmatic forces, one has to drawupon the possibilities of imagination which, as discussed above,does oppose to constituted facts only in their functional andinstrumental character for the discourse (Haraway,1991: p. 149).Haraway suggests for this the space of technologies because theyare ‘unruly partners in discursive construction’ (Haraway, 1991:p.304) and concreticizes this in the cyborg.First of all a Cyborg is a hybrid being that goes beyond thedistinction of (a) machine and organism, (b) human and animal,and (c) physical and non-physical. It is the opposite to the contentof ideologies and hence opposite to (claimed) realness,authenticity and nature. It is the negation of distinction betweennatural and cultural. One could say it is a creature of social realityas well as social creature of fiction, but since the traditionalopposition of reality /fiction loses its meaning with Haraway, thisstatement becomes redundant for Haraway. The liberation of usimplies the creation or self-confidence to dissociate ourselvesfrom paradigmatic thinking and imagine a new consciousness(Haraway, 1991).The cyborg is open to change, a never finished project (Haraway,1992: p.304) giving up much of what it means to be human.‘Cyborgs embody fluidity, adaptability’ (Arsham, 1995: p.8). The Cyborg neither wants to be called modern nor post-modern:the belief in modernity was a mistake because modernity as anyother paradigm has alienated creatures from themselves(Haraway, 1991: p.304) so that the term post-modern becomesredundant anyway. Apart from that, the post-modern revolt hasbecome institutionalized, is ‘official or public culture of theWestern society’ (Jameson, 1991: p. 14), as well as its paradigm. Haraway describes her concept as ‘a transformation from adiscourse on physiological organisms [...] to a discourse oncybernetic technological systems’ (Rouse, 1992: p. 8). ForHaraway in the realities of modern life, the relationship betweenpeople and technology are so intimate and close that ‘it is nolonger possible to tell where we end and machines begin’ (Kunzru1997: p.3). The different levels in the melting of machine andhuman are as unclear as is the transition from one discourse to anew way of existence.Haraway’s concepts are abstract and it is this abstractive thinkingthat constitutes the alternative to exit the discourse. However, tomake the concept more concrete, I will give an example fromKunzru’s (1997) article about Donna Haraway to illustrate what

‘cyborgism’ or being a cyborg implies for her:

‘ “thinking about the technology of sports footwear”, she says.“Before the Civil War, right and left feet weren’t differentiated inshoe manufacture. Now we have a shoe for every activity”.Winning the Olympics in the cyborg era isn’t just about runningfast. It’s about “the interaction of medicine, diet, trainingpractices, clothing and equipment manufacture, visualization andtimekeeping”. When the furor about cyborgization of athletesthrough performance-enhancing drugs reached fewer pitch lastsummer, Haraway could hardly see what the fuss was about.Drugs or no drugs, the training and technology make everyOlympian a node in and international technocultural network, justas ‘artificial’ as sprinter Ben Johnson at his steroid peak’.(Kunzru, 1997: p.3)

The power of the cyborg is, according to Haraway, theempowerment by internalizing and embodying the paradoxicalnature of capitalism on the one hand, but offering new alternativesto communicate, to assume new identities or to behave differentlyetc. Besides – which is very important – the Cyborg is notromantic or nostalgic. Since we have created the world that we areliving in, instead of looking back or yawning for the ideal imageof nature, we should assume responsibility of our deeds. This doesnot mean simply acceptance but to employ the available meansand start working from within the monster (Haraway, 1992). Lastbut not least, Haraway’s Cyborg is post-gender or pan-sexual andfeminine:‘it is a polychramic girl...the cyborg is a bad girl, she is really nota boy. Maybe she is not that much bad as she is shape-changer,whose dislocations are never free.’ (Penley and Ross,1991: p. 20).Feminism for Haraway is a myth and so it is for the cyborg(Wright, 1994: p. 4)

‘Cyborg Under Fire’ – The Cyborg and Its Shortcomings

As much as Haraway’s concept arouses interest and fascination,that much questions and criticisms does it attract. I will turn toone of the maybe most criticized of her arguments. As described above, the Cyborg is feminine, ‘a matter of fictionand lived experience that changes what counts as women’sexperience in the late twentieth century’ (Haraway, 1991: 149).This is what she says in her original and most well-knows piece,the ‘Cyborg Manifesto’. Just a few months later in an interviewwith Constance Penley and Andrew Ross about the cyborg shestates: ‘She is a girl who’s trying not to become Woman, butremain responsible to women of many colors, positions, and whohasn’t figured out a politics that makes the necessary articulationswith the boys who are your allies. It’s undone work.’ Everythingabout the Cyborg is fluid and open, there is no ‘happy end’ to thestory (see Haraway, 1992: p. 304) and so might be the concept ofHaraway which means also open to development. Zizek writes inan article about post-human beings that humanity has got accessto all kinds of technologies and new possibilities but that‘humanity is still immature and barbarian, it did not reach yet the

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full wisdom’ (Gutmair, Flor: 1998). Haraway herself admits: ‘Ihad never imagined how a man might read it. This really is thefirst time I have had to imagine that line being read by people -not just male people – in a masculine subject position’ (Penley,Ross: 1991, p. 19). She continues that for the Cyborg gender issomething ‘incredibly problematic’ and she really does not know‘what to do with it’ (Penley, Ross, 1991: p. 19). However, after herextensive work on primates, the history of science and nature, animportant part of her work does not include an explicit femalestand point and can hence also be read from a non-feministperspective. Moreover, in a world where cyber-technique and newtechnologies are more debated than ever, it seems even moresurprising that Haraway sees herself for the first time confrontedwith the issue of integrating male into her Cyborg concept.However, she signals that she is open to new and extending work.Another point, raised by Arsham (1995) is that the Cyborg reflectsparts of its culture as well, namely capitalism, and in which wayHaraway is restricted by her own cultural background. Questionsrelated to this issue would be then how racist can a Cyborg be,considering that not everybody in this world has got equal accessand maybe also not the need to the recent sport shoes, let aloneinternet or other technological luxuries (Wilson, Wallin, Reiser2003). One could question how much Haraway herself isrestricted by illusions and imagination of the paradigm she livesin. Connected to this issue of positioning and subjectivity, in anarticle about African American Critical Theory and Cyberculture,Kali Tal6 argues that within literature about cyber-culture weshould pay more attention to the theory and literature of those‘who have long been wrestling with multiplicity’, to see howmuch immersion and how many new ways of being thecyberspace for example offers to those individuals who are maybemore haunted by the force and suppression of the discourse thanothers – for example the black minority being more discriminatedby law (Provine, 1998) than the white majority.Not directly about the Cyborg concept but about the genomeproject, published in 2000, Paul Gilroy (2000) also argues that therecent developments of the genome project and biotechnicalachievements have not resolved but extended the concept of race,for example mixing genes in a way to create supposedly perfectbabies or also the shape of the perfect body. In bothdocumentaries, ‘Killing Us softly’ (Dir. Sut Jhally, 2000) and‘Beyond killing us softly’(Dir. Magaret Lazarus, 2000), onebecomes aware of how much advertisement, if digital, via radio,TV or via Internet etc. influences our self-image and how weimagine ourselves: most of the time white skinned, the women‘typically’ female and the men ‘typically’ male. Thesecontributions raise the question with regard to ‘options andeffects’ by new media and technology of how ideologically andracist influenced messages fueling our brain and imagination can(a) promise a deliberating imagination of spheres beyond thediscourse and (b) enhance and promote independent thinking atall. This is not to release human agency at all, but Paul Gilroy setsa warning signal that and he would probably accuse Haraway ofbeing too optimistic.

There are probably more points that could be criticized, butinstead I will now turn to argue why and how a positive attitudetowards cyberspace and technologies is important as affirmed byZizek (Gutmair, Flor, 1998), Giddens (1991), Wright (1994) andYoung (1992) and why the Cyborg does matter.In an interview about Hysteria and Cyberspace Zizek clearlyopposes the pessimism about cyberspace and new technologies.He questions that sphere that people perceive and describe as their‘reality’ while denying that cyberspace is part of it. Cyberspace‘affects what it means to be a subject’ which should be seenpositive. However, he is suspicious of the ‘hysterical economy’that cyberspace is caught in. As Giddens argues in his articleabout ‘Dilemmas of the Self’, particularly after Marx many of hisfollowers have only seen the human being as alienated, butignored the potential of unification among those who share thesame experiences with the capitalist system: ‘modernityfragments; it also unites’ (Giddens, 1991) and in Haraway’s mindCyborg could present a result of shared experiences (Haraway,1991). Wright (1994) argues also against a one-sided pessimismand prefers to see in the ‘chaos’ of new technologies also a‘potentially liberatory human activity’ (p. 4).

Conclusion

So far I have given an insight into the argumentation byopponents as well as supporters of new technologies, focusing onthe possible developments and consequences into whichHaraway’s Cyborg is to be embedded in. Robert J.C. Young’scritique of Donna Haraway’s critique of science, is a contributionthat considers both positive elements as well as shortcomings. Forhim the power about Haraway’s story is ‘that she sets newstandards for sheer immersion in the texture of the history ofideas, institutions, research traditions, individuals’ reflections inthemselves’. Her argumentation is nothing to be proven, but astory that can create inspiration and fascination – ‘the more youmake contact with it, the more you get stuck into it’. However, heconcedes, that the same story also seduces him away ‘both fromthe outer and inner worlds and into a playful space, where itwould not be right to remain for too long, lest I forget the long-term goals of changing ourselves and the world’.To conclude, Donna Haraway suggests a story, a narrative oftoday’s realities, an alternative to overcome the pessimismtowards a capitalism that has influenced and invoked change ofsocial structures. ‘I am sick to death of bonding through kinshipand “the family”, and long for models of solidarity and humanunity and difference rooted in friendship, work, partially sharedpurposes, intractable collective pain, inescapable mortality andpersistent hope’ (Haraway, 1997: p.265). Within a swarm oftheories and concepts of deconstructions, she deconstructs but –and that is definitely something to be valued – offers analternative. This alternative remains bound essentially to therealm of imagination, but provided one agrees with the concept ofGramsci’s hegemony and Althusser’s ideological state apparatus,imagination might reveal a first step towards an alternativeoutside the discourse.

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Notes

1 Cited by Josephine M. Carubia, “Haraway on the Map”, The Semiotic Review of Books, 1998, 9(1), 4-7.2 With reference to the critical analysis of values embedded in the concepts used today it seems important and exemplary to mentionthat of Robert Young (2000).3 See also the article ‘The rediscovery of ‘ideology’: return of the repressed in media studies’ by Stuart Hall (1986), where he exactlyargues similarly in so far that by the analysis of practices of representation -in this case by the media- one can understand how thea speaker for example makes history, but under specific conditions which are not in his control, but which determine what he saysand how he represents it (also insightful here his book on ‘Represenation: Cultural Prepresentations and Signifying Practices, 1997,The Open University, Glasgow).4 Haraway opposes the Freudian theory of the Ego with Lacanian’s mirror concept. The latter describes the Ego as a psychological birththa happens when the human being perceives himself for the first time in the mirror. Together with the birth of the Ego, the individualbecomes alienated from its original state of mind. Lacan distinguishes the imaginary, the symbolic and reality, whereas in an abstractway all of these entities are not distinguishable.5 See also Stuart Hall’s article Who needs identity. Here the authordescribes identity as the different ways of being which are determinedin their characteristic by the discourse. 6 See internet link in bibliography, no year or date available. On the web page there is a link to a short version of the same articlepublished in 1996 in the Online journal ‘Wire’ which suggests that the respective article that I refer to here was published shortlybefore or in 1996.

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In the late nineteenth and early twentieth centuriesAtlantic crossings of racial ideas, social scientists played a rathercrucial role. Both in Europe and in the Americas an impressivenumber of international conferences discussed new scientificparadigms that legitimized popular beliefs in racial hierarchiesand gave a new professional status to social scientists1. Yet animportant minority of social scientists wrestled with the heritageof nineteenth-century biological theories and philosophicalbeliefs that justified slavery in racial terms. By unifying theirscientific work and public commitments in the name of racialequality, they produced alternative scientific paradigms to eraseracism from progressive science. German-Jewish anthropologistFranz Boas and African-American activist and social scientistW.E.B. Du Bois were among the leading figures of thisinternational minority of racial equalitarians. At the dawn of thetwentieth century, Du Bois in particular, prophetically forecasted

that the problem of the "color line" was going to be the core ofmodernity2. When he made this often-quoted prophecy at the firstPan-African Congress in London, his country, the United States ofAmerica, was going through its third year of military occupationof Cuba (1898-1902), and the U.S. "color line" was beingtransformed in the Cuban context in which intersections of raceand nation building, as a recent and rich scholarship has shown,constituted a laboratory of social investigation and "invention oftraditions." It can be argued that, in the Atlantic crossings of racialideas, the Cuban laboratory produced competitive publicdiscourses of race that social scientists would use to bothdismantle existing anti-Negro prejudice and strengthen the mythof white superiority. Seen in this context, the figure of Cubansocial scientist Fernando Ortiz becomes rather paradigmatic whencompared to that of W.E.B. Du Bois. Aware of each other's work,the two scientists would meet a few times in Cuba and (perhaps)

Social scientists wrestling with race and nation

African-american W.E.B. Du Bois and cuban Fernando Ortiz compared

di Alessandra Lorini

It is a peculiar sensation, this double-consciousness, this sense of always looking at one's selfthrough the eyes of others, of measuring one's soul by the tape of a world that looks on in

amused contempt and pity. One ever feels his twoness - an American, a Negro; two souls, twothoughts, two unreconciled strivings; two warring ideals in one dark body, whose dogged

strength alone keeps it from being torn asunder. W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903)

Para mi abuelo todos los para él odiosos cubanos separatistas, héroes de la maniguarevolucionaria, no eran sino negros o mulatos...Yo, que me ufanaba de mi reciente titulo de

bachiller, trataba de convencer a mi racista abuelo de su error…De nada me valia…Le recordéal ya caido José Martì, el lucero de los mambises, hijo de progenitores espanoles y sin asomo de

negra oriundez, y me respondio: "Martì no era de color, pero como si lo fuera; ese fué mulatopor dentro." Y entonces comprendì que en mi tierra el color oscuro en la piel llevaba

implicitamente consigo una prejuiciosa consecuencia de inferioridad y vilipendio social transidade injusticias y dolores. Hasta a las almas se la suponia negras cuando se la quercia envilecer.

Fernando Ortiz, Martì y las razas (1935)

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in the United States. Both were followers and creators oftransnational intellectual traditions inspired by emispheric andglobal thinkers and socially-committed scientists, and in theirwrestling with race and nation, their scientific trajectories frombio-racial arguments to culturlist approaches and to racialintegration diverged to a significant degree.

There is no biography of Fernando Ortiz which even vaguelyresembles David Levering Lewis' comprehensive biography ofW.E.B. Du Bois. This biographical masterpiece provides anabundance of detail as well as powerful interpretations of DuBois's life, his eclectic works, his national and international publiccommitments, his superb literary capacities, and his difficultpersonality3. Du Bois himself wrote at least three autobiographiesthat map his racial consciousness throughout his long life (he wasborn in Great Barrington, Massachusetts in 1868 and died as avolunteer exile in Ghana in 1963). Ortiz, on the other hand, didnot leave behind any lengthy autobiographies, and availablebiographies of the influential Hispanic social scientist are far fromcomprehensive4.Du Bois tracked his ancestors back to one Tom Burghardt, theslave of a Dutchman who had gained his freedom fighting for theAmerican Revolution and had a son who fought in the war of1812. On his father's side of the family he was able to follow themovements of his ancestors from France, to the Bahamas, toConnecticut, to Haiti, to New York, to Massachusetts. Du Bois'sbirth, as he himself concluded in Darkwater: Voices from Withinthe Veil (1920), was the making of an international, "global"product: "So with some circumstance having finally gotten myselfborn, with a flood of Negro blood, a strain of French, a bit ofDutch, but, thank God! No 'Anglo-Saxon,' I come to the days ofmy childhood.", While his goal was to attend Harvard after hegraduated from high school, he found out instead that white townleaders had arranged a scholarship for him at Fisk University, ablack college in Nashville, Tennessee. During this journey to theSouth, he noted the "curious irony by which I was not lookedupon as a real citizen of my birthtown with a future and a career,and instead was being sent to a far land among strangers whowere regarded as (and in truth were) 'mine own people'." Thus,young Du Bois suddenly felt like a foreigner in his own birthplaceand was to find instead a collective identity with strangers in a"foreign" place in the South. At Fisk, he wrote, "racial equalitywas asserted and natural inferiority denied." As he later recalledin Dusk of Dawn, at the black college he became "a member of aclosed racial group with rites and loyalties, with a history and acorporate future, with an art and philosophy."5 It was 1885. DuBois, a northern black American visiting the South, experiencedthe world of southern racial segregation and would leave Fiskwith the intention of liberating the "Negro race." In 1888 Du Bois finally applied to Harvard and won ascholarship. It was there that he began to face the "scientific racedogma" which stressed the difference between the developmentof the white race and the "lower races." For a graduate student ofsociology during the 1890s, however, Max Weber's Berlin, not

Cambridge, was the place to be. Indeed, while at Fisk, Du Boishad already begun to focus on studying in Europe. When hisfellowship to study at the University of Berlin expired and wasnot renewed he was advised to present himself for the Ph.D atHarvard. Du Bois' supporting Slater Fund committee "expressed,with great earnestness, the hope that…you will devote your talentand learning to the good of the colored race."6

The first African American to receive a Ph.D from Harvard, DuBois gave an address to the elitist American Negro Academy in1897. Still greatly influenced by his German mentor and Harvardsupervisor Albert Bushnell Hart, who held a racialist view ofhistory, Du Bois declared in Hegelian terms: "The history of theworld is the history, not of individuals, but of groups, not ofnations, but of races, and he who ignores or seeks to override therace idea in human history ignores and overrides the centralthought of all history." In his Hegelian scheme, great men were nomore than representatives of racial ideals. Each "race" - that is,each "family of human beings, generally of common blood andlanguage, always of common history, traditions and impulses,who are both voluntarily and involuntarily striving together forthe accomplishment of certain more or less vividly conceivedideals of life " - had its own "gift" to offer to humanity. This wasthe result of differences - "subtle, delicate and elusive, thoughthey may be - which have silently but definitively separated meninto groups." The historical examples of racial groups that he gavewere the Teutons, the Slavs, the English of Great Britain andNorth America, the so-called Romance nations, the Negroes ofAfrica and the Americas, the Semites, the Hindus, and theMongolians. Whereas the English gave the world constitutionalliberty and commercial freedom, the Germans contributed scienceand philosophy, and the Romance nations provided literature andart. Negroes too, in Du Bois's view, possessed the cohesiveness ofthese "racial" groups, but their spiritual message had not beenfully communicated to the world. The Egyptian civilizationshowed just a hint of that message, but the Negro race, like theyellow and Slavic races, was just beginning to deliver itsmessages. Black people's "subtle sense of song" had givenAmerica, Du Bois held, "its only American music, its onlyAmerican fairy tales, its only touch of pathos and humor amid itsmoney-getting plutocracy." It was, therefore, black people's duty"to conserve their physical powers, intellectual endowments,spiritual ideals." As a race, black people "must strive by raceorganizations, by race solidarity, by race unity to the realization ofthat broader humanity which freely recognizes differences inmen, but sternly deprecates inequality in their opportunities ofdevelopment." Raising the dilemma of his double consciousness,of being an American and a Negro, Du Bois asked himself: "AmI an American or am I a Negro? Can I be both? Or is my duty tocease to be a Negro as soon as possible and be anAmerican?…Does my black blood place upon me any moreobligation to assert my nationality than German, or Irish or Italianblood would"? For Du Bois, Negroes were Americans "not onlyby birth and citizenship" but also by their political ideals,language, and religion. Nevertheless, he added that "farther than

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that our Americanism does not go." Negroes for young Du Boiswere "members of a vast historic race that from the very dawn ofcreation has slept, but [was] half awakening in the forests of itsAfrican fatherland." Because of their nature, blacks had a missionto accomplish in the United States: "We are the first fruits of thisnew nation, the harbinger of that black to-morrow which is yetdestined to soften the whiteness of the Teutonic to-day."According to Du Bois, it was feasible for the white and Negroraces in America "to develop side by side in peace and mutualhappiness," each with their own peculiar contribution to make tothe culture of their common country.7

The early life of Fernando Ortiz coincides with the early life ofthe first Cuban republic. Born in 1881 in Havana to a Spanishfather and a Cuban mother, Ortiz lived with his parents in Spainfrom 1882 until 1895 when the family returned to Cuba. Theperiod of 1895-1898 is the crucial period of the second Cuban warof independence, the defeat of Spanish colonialism, and thebeginning of the first North American military occupation of theisland. As recent scholarship has shown, U.S. hegemony on theisland not only limited Cuban independence but also granted acontinuity of that very social order which Cuban revolutionaryanti-colonialists wanted to change. American investors in Cubaneeded order and stability, and independence was granted at theexpense of social justice. The U.S. military forces left in 1902,and the Platt Amendment attached to the Cuban constitution gavethem the right to return to protect Cuban independence and NorthAmerican interests on the island. During the period of 1898-1902that witnessed the U.S. hegemonic control of the island, the U.S.color line penetrated Cuba, and American racial stereotypesopenly excluded darker, lower-class Cubans, giving support to theformer "white" colonial elite.8 In this process, what historian AdaFerrer has called "the silence of patriots," namely Cuban patriots'ideology of nationhood that erased racial identities, helped tocreate a strong national identity which opposed American culturaland racist hegemony.9 Nationalist intellectuals like FernandoOrtiz, with their scientific work and public commitments,contributed to the notion of "Cubanidad" conceived as an anti-racial, color-blind identity. Young Ortiz went back to Spain from 1899 to 1902, the period of"Cuba between empires," as Louis Pérez has put it, during whichtime the institutions of the island went through the most complexprocess of modernization.10 During that time, Ortiz studied penallaw, comparative legislation, and the history of international lawin Barcelona and Madrid. Having defended a dissertation in penallaw and inspired by positivist social theories, he received the titleof Doctor of Law from the University of Madrid and then, in1902, the title of Doctor of Public Law from the University ofHavana. In 1903 Ortiz went to Italy and resided in Genoa as chiefsecretary for the Cuban consulate. There he published themagazine La cultura latina, wrote book reviews, translated texts,and did other editorial jobs in order to make a living. At theUniversity of Turin he took classes in criminal anthropologytaught by the renowned scientist Cesare Lombroso. Highlyinfluenced by this father of the Italian positivist school and his

followers, Ortiz collaborated in the formation of an archive ofcriminal anthropology, psychiatry, and legal medicine. In 1906, atthe age of 25, he returned to Cuba as a distinguished scientist ofthe international positivist school of criminology.11

If Du Bois's early work helped circulate Hegelian and Germannationalist ideas seen through the lenses of William James'spragmatism in the United States, Ortiz's first book was a goodexample of the Atlantic crossing of European positivist scientifictheories. Los negros brujos (Negro witchery), published in 1906,was in fact strongly influenced by the Italian criminologist CesareLombroso who also prefaced the first edition. Finding the book oftremendous interest, Lombroso praised in particular Ortiz'sinterpretation of suicide among Negroes, along with several formsof Afro-Cuban criminality. Several Italian positivist scientists andfollowers of Lombroso strongly supported the nineteenth-century"Cuba Libre," as they saw in the strenuous struggle to live in theAmericas the origin of a new, powerful race12. The Italian schoolalso theorized that crime was a form of regression to primitivism,and that the Negroid type was the most imperfect of all humanraces. In his first book, using the language of Lombroso's atavism,Ortiz analyzed somatic characteristics of black people as relevantfactors in determining the criminal expressions of this group, andgroup psychology as the expression of a "primitive" stage ofcivilization confronting a "superior" one. While he would laterreject his early usage of such stigmatizing words, in 1906,following Lombroso's theory of the uomo delinquente (inborncriminal), Ortiz looked at the Negro race as a group of uncivilizedpeoples, whose lack of "a large skull" made them prone tocriminal behavior. Unable to adjust to Spanish civilization, Afro-Cubans had entered "la mala vida."13 In Cuban society Ortiz saw"an imperceptible graduation from the white, who is placed by histalents at the level of the refined civilized man, to the Africanblack who, sent back to his native country, would resume hislibations in the open skull of an enemy." Realizing that whilesome blacks were moving ahead, the white lower class was alsobeing "Africanized," Ortiz argued in favor of eliminatingdangerous forms of African culture from the island. Taking theexample of the beneficial influence that Methodism had had onAfrican Americans in the United States, he called for theimportation of more progressive religions to the island. Theoverall solution was a "whitening" of the island by encouragingthe immigration of Europeans14. It is extraordinary how, in a justa few years, Ortiz would reject these early racist views and movecloser to the racial egalitarianism of Franz Boas that waschallenging Negro-phobia in the United States at the time. Justlike Du Bois, Ortiz would take the path of using active socialscience as a weapon against racial inequality.

On the road of active social science

In July of 1910 Du Bois resigned from his professorship ofeconomics and history at Atlanta University to accept the positionof director of publicity and research for the newly foundedNational Association for the Advancement of Colored People(NAACP). He saw this as an opportunity to turn the impotence of

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social science into an active weapon of change by asserting thecentrality of the Negro question within American democracy inthe pages of The Crisis, the NAACP's magazine. In his firsteditorial, Du Bois set the agenda of militant journalism: toinvestigate and publicize "those facts and arguments which showthe danger of race prejudice." In other words, militant socialscience would show that racial inequality was not the product ofinborn antipathy between white and dark races, as mainstreamsocial scientists held, but rather the outcome of a social system ofclass and caste. Under Du Bois's leadership, the magazine becameself-supporting within five years. "With this organ of propagandaand defense and with its legal bureau, lecturers and writers," DuBois remarked, the NAACP was able to organize "one of the mosteffective assaults of liberalism upon prejudice and reaction thatthe modern world has seen."15

The year Du Bois became the editor of The Crisis, Ortizpublished La reconquista de America (1910) in which he hadalready overcome any possible racist assumptions. In thiscollection of articles, Ortiz joined the circle of transnational Pan-Hispanic intellectuals at the University of Salamanca whospearheaded a new crusade in the American continent on the basisof linguistic, racial, and religious unity. In these articles hestrongly argued in favor of cultural crossings. Six years later, inLos negros esclavos (1916), Ortiz reconstructed the history of thislarge and heterogeneous group of people who were forcefullybrought to the island of Cuba, including the different forms oftheir rebellion during the process of assimilation. In thispathbreaking work in the new field of ethnohistory, he concludedthat slavery had made the black race socially homogeneous; yetsuch a race was culturally heterogeneous given the differentethnic groups that were brought to Cuba.16 By then, Ortiz nolonger held Lombroso's view that the Negro race was unable tostruggle against oppression. He argued, instead, that the lack of alarge number of Negro rebellions was due to social, not racial,factors. Furthermore, he distanced himself from Lombroso'snotion that peoples lacking in civilization were "immoral." Bythen Ortiz shared Franz Boas's historical method of defining agroup culture. To Boas, in fact, the egalitarian approach was aprerequisite for anthropological research. According to theGerman-Jewish anthropologist who had been transplanted to theUnited States, a scientist needed to adapt his or her mind to thepeople under observation. Boas's new paradigm, as summarizedin The Mind of Primitive Man (1911), was based on evidencewhich showed that "the organization of mind is practicallyidentical among all races of man; that mental activity follows thesame laws everywhere, but that its manifestations depend uponthat character of individual experience that is subjected to theaction of these laws."

At this stage of Ortiz's thoughts on race, even moreimportant than the influence of Boas was the rich search forCuban national identity that was taking place within the newlyindependent republic.17 Leading intellectuals like Ortiz wouldhelp to forge this search by following the philosophical heritageand political legacy of Cuban national hero José Martì. After his

exile in New York City from 1880 to 1895, Martì returned to Cubaand died in battle at Dos Rios. Before his death he interactedintensively with the city and the nation around it, and wroteextensively about what he saw, heard, felt, and experienced. In the period of 1898-1902, when Cuba became a laboratory ofU.S. cultural imperialism, the image of Martì was a powerfulsource of Cuban national identity. Although the alliances Martì socarefully forged had broken apart, and his warnings against U.S.hemispheric expansion would be dismissed by a Cubangovernment that depended on U.S. economic aid and hadaccepted the Platt Amendment, a consensual memory of Martìturned his image from a symbol of "patria" into one of a modernrepublic17. It can be argued that Ortiz interpreted the legacy ofMartì's "Cubanidad" as the overcoming of racial differences inBoasian terms.

Interpreting Martì's legacy: towards a Cuban national

identity

There is no evidence that Cuban exile José Martì and African-American scholar Du Bois were aware of each other's work andpublic commitments. Despite profound differences, both Martìand Du Bois were "global prophetic leaders" whose public selveswere shaped by a strong tension between their artistic creativity(they were both poets, fiction writers, and journalists) and thecritical dimensions of the international politics which they wereactively involved in. In 1900 W.E.B. Du Bois propheticallypropounded from London his often-quoted statement: "Theproblem of the twentieth century is the problem of the color line."On the other hand, José Martì made a different prophecy for thenew century as early as 1882, in his attempt to build Cubannational identity by erasing racial differences, seeing it as "not thecentury of the struggle of races but of affirmation of rights."18 In away, they were both right. But the legacy of Martì in the newCuban republic was crucial and would profoundly affect Ortiz'sactive social science. José Martì spent the greater part of his life as an exile from hisnative Cuba and produced most of his literary work in New York.Here he carried out his revolutionary leadership by uniting thecommunities of Cuban refugees and immigrants living in that cityand in Florida within the Cuban Revolutionary Party, which hefounded in 1892. An eloquent and charismatic speaker, writer, andpolitical leader, Martì offered first-hand information on the U.S.in the "Gilded Age" for Latin-American newspapers such as LaNacion (Buenos Aires), La Republica (Honduras), La OpinionPublica (Uruguay), and El Partido Liberal (Mexico). He alsotranslated the works of several North American authors intoSpanish, wrote plays, poems, novels, art criticism, and essays, andedited newspapers, political and economic journals, and children'smagazines.19 He was, furthermore, known as "el Maestro" andconsidered teaching his mission. If his intense literary productiongained him an international reputation as one of the best Latin-American essayists and poets of his generation, his death for thecause of Cuban independence turned his memory into that of themoral hero, the "apostle" of civic virtues, personal integrity, and

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patriotic love. When the Ten Years' War broke out in Cuba in 1868and young Martì began to write anti-Spanish pamphlets leading tohis imprisonment and exile, W.E.B. Du Bois was born in GreatBarrington, Massachusetts. When Fernando Ortiz was born inCuba in 1881, the exiled Martì was interpreting New York and theU.S. for Latin America.According to Martì, healthy nations were created by virtue of abalance of feminine and masculine traits: he considered violence,energy, and action as masculine traits, and thought, arts andsentiments to be feminine qualities. He elaborated this idea in"Nuestra America," his most well-known essay, published in bothLa revista illustrada of New York and El Partido Liberal ofMexico City in 1891. "Nuestra America" is Martì's most powerfulanalysis of the intersections of U.S. expansionism, allegorized as"the giant with seven-league boots," and a Cuban national identitydefined through the use of gender differences for a raciallyegalitarian society. Publishing "Nuestra America" in both theUnited States and Mexico showed that Martì read national eventsas part of transnational forces, and that he considered Latin-American states to be agents of the unification effort in order toprotect their populations and sovereignty from the economic andpolitical expansion of the United States. In a very creative effortto devise what sociologist Benedict Anderson would call "animagined community," Martì forged a source of identity for thoseAmerican societies produced by Iberian colonialism. He called it"Our America," assuming the existence of a geoculturaldistinction from those American societies produced by Britishcolonialism.20 By then he was convinced that the philosophy of"Manifest Destiny," which led to the annexation and colonizationof half of Mexico's territory at mid-century, would now pursuenew lands and markets. As European powers were colonizingAfrica and Asia, the United States was looking south to LatinAmerica and the islands of the Pacific. Having lived for manyyears in the U.S. and being deeply familiar with Americanpolitical culture, it was clear to Martì that early 1890sexpansionism, powerfully devised in terms of Anglo-Saxon racialsuperiority, was becoming mainstream national identity. ThusMartì wrote this essay as a manifesto addressed to Hispanicintellectuals, urging them to find a source of identity in NativeAmerica's classical civilization. He believed that the members ofthe Creole elite should no longer think of themselves asextensions of the European bourgeoisie. There was a difference,Martì argued, between the ability to assimilate foreign ideas in ahealthy manner and their shallow imitation by pretending thatthese ideas had universal validity. Unlike Du Bois's early Pan-Africanism, Martì articulated hisrejection of the racial/biological model of identity formation inthe name of a cultural/geographical one and dedicated hisconcluding paragraph to the erasure of racial hatred:

There is no racial hatred, because there are no races…The soul,equal and eternal, emanates from bodies that are diverse in formand color. Anyone who promotes and disseminates opposition orhatred among races is committing a sin against humanity.21

According to Martì, one's kinship with those who live within thesame geographical environment was stronger than any supposedrelationship of race. In Martì's view, the foundation of one'sidentity lies in the "spirit" of the "land" that has been "drawn inwith the air one breathes."The idea of a raceless society in Cuba that Martì forcefully putforward in Patria (the organ of the Cuban Revolutionary Party) in1893 ("Mi Raza"), derived from the way he read the racialquestion in the United States. "To insist on racial divisions, onracial differences, in an already divided people," Martì wrote, "isto place obstacles in the way of public and individual happiness,which can only be obtained by bringing people together as anation." In Cuba, he wrote, "there is no fear whatsoever of racewar. 'Man' means more than white, more than mulatto, more thanNegro. 'Cuban' means more than white, more than mulatto, morethan Negro.…. An affinity of character is more powerful thanaffinity of color."22 A year later, in 1894, in Patria, Martì made theno-race argument even stronger by including the Hispanic world:"There are no races….Latins and Saxons have an equal capacityfor virtues and defects...What varies are the particularconsequences of the distinct historical grouping." Martì insistedon racelessness by inaugurating a permanent section in Patriadedicated to "The Truth about the United States," which thepeople of "Our America" needed to know. In this way, "the crude,unequal, and decadent character of the United States, and thecontinual existence within it of all the violences, discords,immoralities, and disorders of which the Hispanoamericanpeoples are accused" could be demonstrated.23 Poet, chronicler,and great political organizer Martì died in 1895. As soon as the first Cuban republic was born on May 20, 1902,tensions began to grow between an autochthon traditionembodied in the images of the palmas, the lonely star, themachete, and the mambis, and a search for the political modernitythat the U.S. represented. Americanization seemed to be crucial inorder to erase any residual colonial past from the island. "Thesoldier and the activist must become citizens," Cuban EnriqueJosé Varona wrote in 1898, "they should defend their ideals in anew field and with new weapons." "Patria," a nineteenth-centurysymbol of a community of feelings, should be turned into atwentieth-century "Republic." The paradigm of modernizationalso meant the inclusion of the island into "a community ofmodern nations." The ardent patriot of the war of independence,it was argued, should become a citizen, obedient to his civicduties. In this context, the "patriotic symbol" of Martì became partof the process of "inventing traditions" for the new republic. Inpolitical rhetoric the common use of Martì's image meant thelegitimization of any public discourse by placing it in "the trueMartì's legacy." This would be true for both those speaking onbehalf of the government and those speaking for the politicalopposition. In 1913 Cuban historian Ramiro Guerra wrote that"celebrating national holidays, glorifying our national heroes,worshipping our flag, singing patriotic hymns, all are powerfulinstruments to be used in the classroom to keep our faith livelyand stirring." Teachers were asked to spend many hours in the

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classroom explaining Martì's work to children, in terms of the"synthesis of Cuban national identity." Martì was commemoratedin civic ceremonies like the pledge to the Cuban flag and otherpublic rituals of nation building. In 1914 a survey among schoolchildren showed that Martì was the most well-known historicalfigure in the country.24 However, after his death, the revolution hehad envisioned took a different path: the alliances he had forgedin Cuban communities and with external forces broke apart, andhis analysis of the dangers of U.S. expansionism went largelyunheeded by a new Cuban government that had accepted the PlattAmendment and was economically dependent on the U.S.Martì's pre-1959 popularity was the expression of a strong Cubannationalism hostile to pervasive forms of Americanization. Hiswarnings about the enormous political and cultural power of thenorthern colossus became a "usable past" for Cuban politicians:many of them used Martì's writings as a political weapon toremind their opponents of what they should do. The NorthAmerican military intervention of 1898, the event that Martì hadfeared the most, had changed everything by ending those hopesfor social transformation that Martì had envisioned and left as hislegacy: national independence, racial equality, and social justicefor all. All this was left unfinished. Yet the unfinished revolutionof 1895-1898 produced a new political language, shaped thecontent of republican politics, and became, in historian LouisPérez's words, "a legacy that served as a mandate to revolution forthe next three generations of Cubans."25 The transformation of thequestions that Ortiz addressed in his scientific work fell in linewith Martì's legacy.

Ortiz as a national-liberal intellectual: social science as a

transcultural weapon of nation-building

In 1913 Ortiz published Entre cubanos. Psicologia tropical, acollection of short essays investigating all sorts of existingobstacles to Cuban "modernization." Expressing a strongcriticism of Cuban political elites, Ortiz put forward a project of"transatlantic regeneration" for the generation of 1898. A newintellectual alliance with Spain was a must, in Ortiz's view, inorder to face the danger of the historical disintegration of Cubanculture. He found that only scientific research, the development ofpopular education, and the creation of cultural institutions couldmake Cuba really independent and no longer "between empires."The echoes of Martì's "Nuestra America" resounded in the pagesof Entre cubanos, as the author pointed out the need for makingCuban and Latin-American intellectuals and artists known inEurope. "Wake up and work!" was the order that Ortiz gave to hisCuban readers. The time was ripe, he said, for Europeans to knowthat Cuban independence was not le beau geste des yankees, andthat annexationism to the U.S. was not the solution that Cubanmodernists wanted.26

Unlike Du Bois's racial "talented tenth," Ortiz's Cuban culturaland political elite was made up of color-blind intellectuals. In apublic speech of 1914 Ortiz reminded his audience that thefounders of journals, newspapers, schools, professorships,museums, and those who funded scholarships abroad, invited

professors from abroad, published books, and reported on the fullrange of Cuban problems "demonstrated how the efforts of onegroup of men can transform an impoverished overseas tradingpost into a people and a nationality."27 Like Du Bois, who foundedThe Crisis as a weapon for racial equality in 1910, Ortiz foundedcultural institutions like the Universidad Popular in the secondhalf of the 1910s, became a member of the Partido Liberal, andproduced several publications including "La crisi politica cubana"(1919), an important article in which he proposed theintensification of diplomatic and cultural relations with the UnitedStates, based on "mutual respect" and, at the same time, a strong"national effort." Ortiz dedicated this article to "the genius ofWoodrow Wilson." Like Du Bois, Cuban social scientist Ortizbelieved in Wilson as a scholar, a man of higher learning andvision. Again like Du Bois, he was to be disillusioned inthe end.28

The period of 1919-23 in Cuba witnessed movements of political,economic, and cultural nationalism, including a large studentmovement to reform the university system. As a professor inHavana, Ortiz made his contribution by authoring the "Manifesto"of a "Junta Cubana de Renovacion Civica." In 1924 he joined theGrupo Minorista in order to promote a radical renovation of thearts and investigate the political and social problems of Cuba, theAmericas, and the world. These efforts led to the first collectiveprotest against the Machado regime in Cuba, along with thepolitical oppression in Nicaragua, Santo Domingo, Haiti, andMexico, and they promoted the defence of intellectuals and artistswho were victims of the dictatorial regimes of Latin America andSpain. In 1927 Ortiz resigned from his mandate at the CubanParliament. Although he had originally supported Machado as theLiberal Party's reformist candidate, as opposition grew in thecountry against the dictator and the repression of the studentmovement, Ortiz wrote an anti-Machado manifesto ("Base parauna efectiva solucion cubana").29 Heavily censored, he decided totake the path of political exile to the United States and chose tostay in Washington, D.C. for two years, with the hope ofinfluencing U.S. politics towards Cuba. Following the example ofMartì, Ortiz published articles like "Las responsabilidades deEstados Unidos en los males de Cuba" (1930) and "Lo que Cubadesea de los Estados Unidos" (1932) during his exile. After hereturned to Cuba, he published "El deber nortemaericano inCuba" (1934) based on a speech he had presented to theEconomic Society of Friends of Cuba.30 Yet, unlike Cuban leftistnationalists who urged a break from the United States, given itssupport of the Machado dictatorship, Ortiz leaned towards arealpolitik position by virtue of geographical proximity. At thesame time, Ortiz opposed those conservatives who supported U.S.interests in the island at any cost, urging them to accept the"historical necessity" of Cuban national sovereignty. Ortizreminded those North Americans who supported repressivegovernments that they were the ones responsible for creatingthose governments, given their physical and historical proximity.At this point, Ortiz wanted to create stable institutions and restoreconstitutional public freedoms on the island. The Machado period

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was a watershed in Ortiz's public life. After Machado'sdictatorship, Ortiz became more skeptical, more removed frompolitics, and more involved in his scientific investigations,particularly those related to Afro-Cuban issues.31 In the 1930s,given the growth of Fascism and the pervasive racist theories ofNazism in Europe, Ortiz delved into their Cuban version that hecalled the "negrofobia" of Western racism. From that point on,Ortiz became passionately involved in overcoming the concept ofrace by connecting Martì's vision of a raceless society to Boas'segalitarian concept of culture. At the same time, his extensivework on Afro-Cuban folklore exerted an influence on the artisticvanguard of the literary "Afrocubanista" movement. In the 1920s and 1930s, race was at the core of the reinterpretationof "Cubanidad" in which Ortiz was actively involved. Thecombination of U.S. racial categories, according to which onedrop of "black blood" made a person black, the belief that blackswere inferior, and the mixing of races placed most Cubans, inU.S. eyes, in a situation of permanent inferiority andbackwardness. Ortiz stated in 1937: "We Cubans, whites, blacks,and mixed, know well how frequently we are all denigratedwithout distinction and en masse by some foreigners" (meaningNorth Americans). According to U.S. observers, racialcomposition was the cause of Cubans' incapacity for self-government. Consequently, to reconstruct "Cubanness" implied arevalorization of black contributions to the formation of theCuban nation, as by the 1920s it had become clear that Cubacould not be a "white country." Despite attempts to attract"desirable" European immigrants, as Ortiz had encouraged in theearly 1900s, blacks and mulattoes remained a large part of thetotal population. As attempts at whitening had failed, Cubannationalist intellectuals tried to reconcile modernity with racialdiversity, "two concepts that North Atlantic racial ideologies hadsystematically presented as incompatible." As in other Latin-American countries, nationalist intellectuals promoted theexaltation of autochthonous cultural elements. In Cuba this meantthe fusion of white and black elements which had produced asynthesis deemed to be uniquely Cuban. The Afrocubanistcultural movement was the most visible expression of thisprocess, challenging dominant conceptions of blacks' inferiorityand the negative effects of racial mixing: "Where Americans sawrace degeneration and mongrelization, the Cubans saw racialimprovement." Ortiz's scientific language had made it clear thatall races were equal, and the emphasis shifted from heredity toculture, from climate and history.32 In the new redefinition of aracially-inclusive Cuban nationhood, Ortiz played an importantrole by elaborating on a discourse which was based on Martì'sheritage and celebrated cultural synthesis: "Without the black,Cuba would not be Cuba," Ortiz would say in 1943.33

Du Bois's notion of art and social science as "propaganda"

By intersecting national and international perspectives, theHarlem Renaissance and the movement of the New Negro of the1920s gave new meanings to the concept of race in the U.S. In the

hands of talented young African-American artists, Du Bois'scolor-line metaphor became a powerful weapon of "racial pride,consciousness, history, heritage," stirring a new desire forintegration into American society. How could Americanism andNegro race values be reconciled? As recent studies of the HarlemRenaissance have shown, these movements were able to articulatea variety of responses to relations between race, culture, and art,alternating national and international perspectives34. In the sameperiod in Cuba, the Afrocubanist movement raised similarquestions but offered different answers. In their own specificways, both Du Bois and Ortiz devised new perspectives of activesocial science. Late in 1926 Du Bois discussed "The Criteria of Negro Art."Concerned that politics were abandoning the Harlem Renaissanceand that the New Negro movement was turning into a mere searchfor recognition of its individual artists, he pointed out that whitepublishers expected "Uncle Toms," "good darkies," and clowns asNegro characters and were ready to reward the authors thatprovided them. He also admitted the existence of a few successfulNegro artists, but in his view they were "the remnants of thatability and genius among us whom the accidents of education andopportunity have raised to the tidal waves of chance." To Du Bois,the "apostle of beauty" was "the apostle of truth." Accordingly, hedeclared:

"Thus all art is propaganda and ever must be, despite the wailingof the purists. I stand in utter shamelessness and say that whateverart I have for writing has been used always for propaganda forgaining the right of black folk to love and enjoy. I do not care adamn for any art that is not used for propaganda. But I do carewhen propaganda is confined to one side while the other isstripped and silent."

Du Bois warned against the seductive idea that there was no usein fighting, and that creative talents should do great things and getthe reward they deserved. Fighting was crucial, in Du Bois's view,because the color line was still an imposing presence: that a blackwoman sculptress could not find a school in New York willing toaccept her meant that the "Negro question," with all itsunglamorous battles for the ballot, education, jobs, and housing,was still a priority.35

That year, in 1926, Du Bois also reviewed Alain Locke's The NewNegro in The Crisis and made similar points. He found the bookexcellent but disagreed with Locke's idea that "Beauty rather thanPropaganda should be the object of Negro literature and art." Heworried that the Negro Renaissance would lead to "a search fordisembodied beauty which is not really a passionate effort to dosomething tangible." While he also recognized that thiscontroversy was as old as time, he believed that if Locke's thesiswas insisted on too much, it would "turn the Negro Renaissanceinto decadence.36"Years later, Du Bois also applied this notion of "propaganda" tosocial science. The final chapter of his book Black

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Reconstruction, entitled "The Propaganda of History," was themost powerful assault ever written on the Dunning School whichhad produced biased research in sympathy with the white South.The Anglo-Saxon nexus of the elite of the North and the Southgranted the supremacy of the Dunning School of Reconstruction.37

After having produced evidence that created a major paradigmshift in the history of the Reconstruction and its "tragic era"interpretation, with black people placed at the center of the storyand portrayed not only as victims but as agents of oppression, DuBois's concluding chapter affirmed history as truth whichempowers true democracy. If historians chose to lie less, Du Boisargued, addressing historians of the Dunning School such asRhodes, Fleming, and Bowers, along with others who based theirinterpretations on racist assumptions, there would finally be ascience of history. Writing this chapter as a powerful attack on adistorted public use of history, to Du Bois the triumph of the whiteSouth had been a phase in the global exploitation of the darkerworld. As he put it, the most "magnificent drama" in the lastthousand years of human history was the transportation of tenmillion human beings out of their "mother continent." Yet thistragedy did not seem to interest historians. Du Bois asked himselfwhy and came up the following answer:

"Because in a day when the human mind aspired to a science ofhuman action, a history and psychology of the mighty efforts ofthe mightiest century, we fell under the leadership of those whowould compromise with truth in the past in order to make peacein the present and guide policy in the future."38

By this point, Fernando Ortiz could have reached a similarconclusion.

From Afrocubanism to transculturation

In the aftermath of the Machado regime, Cuba went through aperiod of political turmoil (passing through six governments inseven years) but it also witnessed many important social victoriesincluding the repeal of the Platt Amendment and women'ssuffrage. Becoming more and more critical of U.S. politicalinterference in the island, Fernando Ortiz's public commitmentfollowed two directions: the establishment of new culturalinstitutions, and the scientific investigations which would lead tohis major publications of the 1940s.In 1941 Professor Ortiz organized the Alianza Cubana por unMundo Libre in order to fight against Nazi Fascism, eugenicmeasures, Anglo-Saxon superiority, anti-Semitism, and legendsof Aryan racial purity. That July he gave a lecture at the PalacioMunicipal de La Habana entitled "Martì y las razas" in which hereminded a large audience that to Martì, all races were an artificethat did not reflect any reality: they were "bookshelf races," theinvention of anthropologists. In 1940 Ortiz published Contrapunteo cubano del tabaco y delazucar in which he introduced, for the first time, the term"transculturation." The book examined the national debate,already developed in the 1920s, over the excessive dependency of

the Cuban economy on the monoculture of sugar production.Here Ortiz compared sugar and tobacco, the most famous Cubanproducts, to one another: the value of tobacco was in its leaves,whereas that of sugar was in its stalk, he wrote; cane lived foryears, tobacco for months; cane sought sunlight, tobacco shade;cane was without scent, and could be left alone for months;tobacco was aromatic and needed the constant care of skilledmen. Above all, cane demanded seasonal mass labor, whereastobacco needed constant attention from a few experienced hands.Cane was grown on large estates, tobacco on smallholdings. All sugar was the same in the end, beet and canesugar even producing the same element, whereas no cigarwas alike. Finally, as sugar spelled slavery, and tobaccofreedom, Ortiz concluded that Cuba should escape fromthe production of sugar into that of tobacco.The introduction to the first edition of the book was written by theinternationally-renowned anthropologist Bronislaw Malinowskiwho had founded the functionalist school of British anthropologyand was teaching at Yale University in the United States at thetime. That contribution, the visit he paid to Ortiz in Havana in1939, and the intense correspondence between the two men revealthe importance that the concept of "transculturation" had for aparadigmatic shift in the field.39 What did Malinowski find soattractive in Ortiz's definition of "transculturation"? Ortizexplained that he introduced this term because he thought that theword "transculturation" better expressed "the different phases ofthe process of transition from one culture to another." In his view,this process did not consist "merely in acquiring another culture,which is what the English word acculturation really implies." Theconcept also carried the idea of the consequent creation of newcultural phenomena and was therefore "fundamental andindispensable to an understanding of the history of Cuba….anintense, complex, unbroken process of transculturation of humangroups, all in state of transition….and, for analogous reasons, ofthat of America in general."40 What was the real differencebetween the concept of "acculturation" explored by Franz Boas'sformer student Melville Herskovits in his book Acculturation(1938), and Ortiz's "transculturation"?More than a conceptual difference, the two terms revealed theexistence of a conflict between the North American and Britishschools of professional anthropology. Herskovits had accusedBritish anthropologists of complicity with British colonial politicsby making native history invisible. Perhaps Ortiz's concept waswhat Malinowski needed to strengthen his arguments against theAmerican school. At the same time, Ortiz was looking for a newanthropological concept which could emphasize thecontradictions within the U.S. "good neighbor" politics with Cubain terms of imperial politics. By then his work was greatlyappreciated among American social scientists as a point ofreference in the field of racial integration in the Americas.41

Apparently, however, in the exchange between Herskovits andOrtiz, something went wrong. Ortiz sent a copy of his Contrapunteo to Herskovits, who foundthe term transculturation "thought-provoking" but defended his

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term acculturation from the charge of ethnocentrism.42 In a letterto Ortiz, Herskovits held firmly that:

"in our use of the term [acculturation] in this country there is noimplication of handing down a superior civilization to a savagefolk…If anybody has been guilty of discussing cultural contact interms of inculcation - to use Malinowski's own word - it has beenhis own students writing of culture contact, rather than those ofuse in this country who are concerned with the scientific problemsof acculturation. I wish it were possible for us to discusstheoretical questions of this nature personally, since theimplications of your contribution are of far-reachingimportance."43

Transculturation, two-ness, and agency

Herskovits had come up with the term "acculturation" afterextensive field-work in Dahomey and Haiti. Influenced by theHarlem Renaissance of the 1920s, but still a believer, like hismentor Boas, that only a cosmopolitan view and assimilationcould defeat scientific racism, Herskovits decided that he wouldrely on accurate research in physical and cultural anthropology toproduce evidence of the discontinuity between African andAfrican-American culture. His studies of the 1920s made himrealize that African Americans had not been absorbed into thegeneral population, as Boas had hoped. As a matter of fact, moreracial mixing had occurred in the nineteenth than in the twentiethcentury. He concluded that African Americans were forming a"new type" that was a mixture of African, American Indian, andCaucasian ancestry, a type that was likely to remain physicallydistinctive for a long time.44 During his trips to Africa in the late1920s and early 1930s, Herskovits's findings intersected both DuBois's Pan-Africanist arguments on the Negro past, and Ortiz'sstudies of the African influences on the Negro societies in theNew World. "Acculturation," according to Herskovits, was "thecontinuous contact over a long time in which a people are exposedto a culture different from their own."45 It could be argued thatOrtiz's term "transculturation" is less relativistic and, as MaryLouise Pratt has observed in Imperial Eyes: Travel Writing andTransculturation (1992), helps to avoid reproducing the simplisticbinary view of colonialism (e.g. oppressor/oppressed, self/Other)of those texts which deal with the encounter between colonizerand colonized.46 It is a "thick" concept which expresses thecomplex phenomenon of cultural encounters and conflicts, of themeeting of two different cultures and their mutual influencewhich then creates a new culture that synthesizes both. It is adynamic concept, implying "agency," instead of passive receptionfrom the colonizer to the colonized. With this concept, Ortiz lefthis early positivism behind for good."Transculturation" also evokes cultural hybridity and mestizaje,as Ortiz stated in his El engano de las razas, published in 1946.Here Ortiz explicitly declared that "toda America es mestiza."47

"American history cannot be understood without knowing thehistory of all ethnic groups that in this continent have fused, andwithout taking into consideration the real result of their mutual

transculturation." He wrote this book, he said, for his compatriotswho were debating the question of races and racisms, believing ashe did that a man of science had the duty to fight against racismwith the weapon of science.48 Based on the material of his lecturesat the University of Havana in 1944, Ortiz gave the final blow tothe idea of race itself, using Martì's ethical statement:

"En este mundo no hay mas que una raza inferior: la de los queconsultan ante todo su proprio interes; ni hay mas que una razasuperior: la de los que consultan antes que todo el intereshumano."49

Focusing on the survival power of a dominated culture instead ofthe assimilative power of the dominant culture, Herskovitspublished his findings in his most well-known work, The Myth ofa Negro Past (1941). Comments on the book diverged greatly andthe debate which it generated was rather hot, as the question atstake was the role of anthropology as a weapon to defeat racismin America. Reviewing the book for the American Academy ofPolitical and Social Science, Du Bois defined it "epoch-making."The book dealt with the origins of African slaves, where theycame from, what degrees of human culture they represented, andhow far after their transplantation to America their African originscould be discerned. Du Bois read the chapter on "The AfricanCultural Heritage" as a powerful attack on the interpretations ofAfrican culture which were current in the United States. He alsoemphasized Herskovits's evidence which demonstrated thewidespread refusal of black Americans to submit to enslavementin Africa, on the middle passage, in the West Indies and SouthAmerica, and in the United States, the forms of subtle slaveprotests which consisted of a slowing down of work and sabotage,as well as explicit revolts. The character of organized slave revoltsand the ingenious forms of escape indicated, in Du Bois's view, acapacity of leadership of African origin that constituted apowerful counter-argument to the common assumption that theAmerican slave represented the lowest element of Africanpopulation. Just as Du Bois had contested the negative myth ofReconstruction, now Herskovits attacked all of the scholarshipthat misinterpreted the Negro past and that, in so doing, justifiedracial prejudice. Du Bois highlighted what he considered to beHerskovits's major arguments: that Negroes were not child-likeand did not easily adjust to low social conditions; that it wasuntrue that only the poorest stock of Africans were enslaved; thatit was untrue that on coming to America they lost whatevercultural patterns they had; that it was untrue that African culturalpatterns were easily forgotten; and, consequently, that it wasuntrue that the Negro did not have any past.50 By arguing thatAfrican Negro culture was neither simple nor naive, that it rankedhigh among societies of the world and was comparable toEuropean cultures of the Middle Ages, and that it involvedcomplex social, political, and economic organizations andreligious systems, Herskovits's book strengthened Du Bois'sbelief that American Negroes had retained much of the ancientAfrican culture, and that the "acculturation process" - not

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"transculturation" - by which they became Americans, hadbrought the gift of their valuable past to America just like anyother ethnic group. This is precisely what Du Bois emphasized inBlack Folk, Then and Now: An Essay in the History andSociology of the Negro Race, a book he opened explicitly denyingthe biological relevance of race and concluded with wordsechoing his own of almost forty years earlier that the problem ofthe twentieth century was still the problem of the color line.51

Ortiz, on the other hand, continued to strengthen the racelessargument of José Martì.

Concluding remarks: did Du Bois and Ortiz ever meet?

Du Bois had been one of the founders of the NAACP in 1910, buthe left that organization after the proclamation of the TrumanDoctrine because of its tactical position on Cold War anti-communist practices. By then most of the black leadership did notsupport Du Bois's opposition to the Marshall Plan, NATO, theU.S. programs for underdeveloped countries, and the Korean War,nor did they approve of his defence of the Rosenbergs. Du Bois'spoint was that the betterment of race relations in the country couldnot be achieved by supporting "patriotism" at any cost. We learn from Du Bois's last autobiography, A Soliloquy, thatamong the many appeals and letters against his indictment as an"unregistered foreign agent" in connection with his leadershipof the Peace Information Center, he received those of"outstanding Cubans like Dr. Fernando Ortiz, Latin America'smost famous sociologist."52

More research needs to be done on how Du Bois and Ortiz metand what they thought of each other's work and commitments.Besides the influence that both Boas and Herskovits had on DuBois and Ortiz, there was one moment in which the life of theAfrican-American scholar intersected with that of the Cuban,thanks to Irene Ellen Diggs. Diggs was an African-Americangraduate student of Du Bois's at Atlanta University who workedas his secretary for many years. Acting as a force behind the

publication of his major works of the late 1930s and 1940s, Diggsalso accompanied Du Bois to Cuba.53 Raised in an African-American working-class family in Illinois, Irene Diggs came to Atlanta University when she was twenty-seven in order to studywith the famous Dr. Du Bois. From a few details concerningDiggs revealed by Du Bois's biographer David Levering Lewis,we learn of a relationship which evolved throughout the years inwhich Diggs made a significant contribution to Du Bois' research,typing and proofreading his books Black Reconstruction inAmerica (1935), Black Folk, Then and Now (1939), Dusk ofDawn (1940), and The Encyclopedia of the Negro (1945).54 Givenher decision to enter the University of Havana as a RooseveltFellow in the fall of 1943, it seems probable that Diggs went toCuba with Du Bois as his secretary in the summer of 1941 inorder to set in motion a process which allowed her to return as adoctoral candidate in anthropology with Fernando Ortiz as heradvisor.55 While according to Lewis's sources there is no mentionof meeting Fernando Ortiz during that trip, it is quite possible thattheir encounter occurred at that time. Similar to several otherwomen who developed a professional relationship with Du Bois,Diggs's own scholarship was overshadowed by his dominantpresence.56 Her career is an example of gender-bias academia, andof the fact that anthropology was one of the few fields open towomen of that generation, although they remained in the lowerranks. More research also needs to be done on Irene Diggs's rolein developing a transnational link between African-American andAfro-Cuban studies, as well as her relationship with her mentorOrtiz and other Cuban intellectuals. Instead of being rememberedas one of Du Bois's many neglected women whose strenuouswork only served to feed Du Bois's towering intellectual image,Diggs can be seen as an important link in the interaction betweenU.S. and Cuban social science, as well as an example of the limitsthat active social science had, and still has, when the issue ofgender intersects that of race.

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Notes

1 I have discussed thise role of social scientists in my Rituals of Race: American Public Culture and the Search for Racial Democracy(Charlottesville VA: Virginia UP, 1999). On Atlantic crossings of social theories see the pathbreaking work by Daniel T. Rogers,Atlantic Crossings. Social Politics in a Progessive Age (Cambridge: Harvard UP, 1998).2 Du Bois's prophetic speech was entitled "To the Nations of the World": "The problem of the twentieth century is the problem of thecolour line, the question as to how far differences of races, which show themselves chiefly in the colour of the skin and the texture ofthe hair, are going to be made, hereafter, the basis of denying to over half the world the right of sharing to their outmost ability theopportunities and privileges of modern civilisation...." Report of the Pan-African Conference.....[London], in Herbert Aptheker, ed.,Writings by W.E.B. Du Bois in Non-Periodical Literature Edited by Others (Millwood NY: Kraus-Thomson Organization, 1982), 11.3 David L. Lewis, W.E.B. Du Bois: Biography of a Race, 1868-1919 and W.E.B. Du Bois: the Fight for Equality and the Americancentury, 1919-1963. Lewis has defined Du Bois as the most multifaceted, prolific, and influential writer that black America hasproduced whose chosen weapons were grand ideas and the uncompromising language of prophecy.4 Fernando Ortiz's papers and original documents are gathered in the Collecion Fernando Ortiz, a collection of the Fundacion FernandoOrtiz, a scientific institution founded in 1995 at Habana. Works on Ortiz published by the Fundacion include: Carlos Del ToroGonzales, Fernando Ortiz y la cultura hispanocubana (1996); Salvador Bueno, ed., Fernando Ortiz. Italia y Cuba (1998); Jesus

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Guanche, ed., Fernando Ortiz y Espana a cien anos de 1898 (1998). The Fundacion has also published in 2001 the Spanish translationof W.E.B. Du Bois's The Souls of Black Folk.5 W.E.B. Du Bois, Darkwater: Voices from Within the Veil (1920), quote in Lewis, W.E.B. Du Bois. Biography of a Race, 26; Dusk ofDawn: An Essay toward an Autobiography of a Race Concept (Millwood NY: Kraus-Thomson, 1975 [1940]), 100, 98, 99.6 A loan and a fellowship from the Slater Fund would enable him to go to Germany with the unexpected result of nearly completinghis doctorate from the University of Berlin. Because of the requirement of six semesters' work, Du Bois could not defend hisdissertation at Berlin. According to biographer Lewis, the Du Bois's case, given its superlative success abroad, merely proved theoriginal unwisdom of such an experiment in the higher education of Negroes. How useful to the education of a people one generationremoved from slavery could a University of Berlin teacher be, after all? The Fund went toward the training of primary school teachersand the construction of school buildings. Lewis, W.E.B. Du Bois. Biography of a Race, 146. 7 For a more extensive analysis of this fundamental speech see Lorini, Rituals of Race, 78-80.8 See: Pérez, Cuba Between Empires ; Ferrer, Insurgent Cuba; Alejandro de la Fuente, A Nation for All. Race, Inequality, and Politicsin Twentieth-Century Cuba (Chapel Hill NC: North Carolina UP, 2001), 1-53; Alessandra Lorini, "Race and Reconciliation: TheUnited States and Cuban Independence" in Flavia Brizio-Skov, ed., Reconstructing Societies in the Aftermath of War (Boca Raton FL:Bordighera Press, 2004), 215-244.9 Ada Ferrer, "The Silence of Patriots: Race and Nationalism in Marti's Cuba," in Jeffrey Belnap, Raul Fernandez, eds., José Marti's"Our America": From National to Hemispheric Cultural Studies (Durham NC: Duke UP, 1998), 228-49. 10 For a deep cultural and political analysis of this process see: Marial Iglesias Utset, Las metaforas del cambio en la vida cotidiana:Cuba 1898-1902 (Habana: Ediciones Union, 2003).11 "Chronology" in Miscelanea II of Studies Dedicated to Fernando Ortiz (New York: Interamerica, 1998); Norma Suarez, AlbertoQuesada Morales, Cronologia. Fernando Ortiz (Habana:Fundacion Fernando Ortiz, 1996); Julio Le Riverend, Fernando Ortiz.Seleccion y profilo (Habana: Union de Escritores y Artistas de Cuba, 1973).12 Fernando Ortiz, Los negros brujos (Habana: Editorial de Ciencias Sociale, 2001 [1906]), 1. In the forward Lombroso stressed theimportance of the concept of "atavism" in explaining Negro witchcraft, the observation of phenomena of mediumism, spiritistism, andhypnosis, which were all "rather frequent in the primitive era of humanity." Lombroso strongly encouraged Ortiz to continue hisstudies of "criminal ethnology," to gather data on skull and tactility anomalies existing in a certain number of "criminals and sorcerers,and in a corresponding number of normal blacks." The Italian scientist ended his preface by wishing Ortiz "a happy return to yourcountry."13 For ana analysis of Ortiz's progressive change of racial perceptions see: Ricardo Quiza Moreno, "Fernando Ortiz y su hampaafrocubana," in José A. Piqueras Arenas, ed., Diez nuevas miradas de historia de Cuba (Castello de la Plana, Spain: Publicacionsmde la Universitat Jaume I, 1998), 227-45. Ortiz will make clear his rejection of stigmatizing words in his famous speech of 1943 "Fora Cuban Integration of Whites and Blacks." Excerpts of this sppech can be found in Pedro Pérez Sarduy, Jean Stubbs, eds., Afrocuba.An Anthologyof Cuban Writing on Race, Politics, and Culture (Hoboken NJ: Ocean Press, 1993), 27-33.14 For "whitening" policies in the early twentieth-century Cuba see: Aline Helg, Our Rightful Share. The Afro-Cuban Struggle forEquality, 1886-1912 (Chapel Hill NC: North Carolina UP, 1995), 6, 7, 16, 104, 235. 15 Lorini, Rituals of Race, 142-48.16 Ortiz argued that slavery needed to be studied as the result of the slave trade. He studied black slaves since their arrival to the islandup to their assimilation; in other words he studied work habits, costums, diseases, eating habits, languages and traditions. In doing soOrtiz heavily relied on 19th century Cuban literature in which the presence of the black as a "pictoresque" element characterized agenre ("costumbrismo"). The work of Cirillo Villaverde, the author of of the novel Cecilia Valdez, the nineteeenth-century masterpieceof Cuban literature, was a point of reference for Ortiz's historic reconstruction of slavery in Cuba. Moreno, "Fernando Ortiz y su'Hampa Afrocubana'," 239.17 Marial Iglesias Utset, "José Martì: mito, legitimacion y simbolo. La génesis del mito martiano y la emergencia del nacionalismorepublicano en Cuba (1895-1920)," in Piqueras Arenas, ed., Diez nuevas miradas de historia de Cuba, 201-26.18 José Martì, Carta al Director de La Opinion Nacional (Caracas), March 23, 1882, in Martì, Obras completas (1963-65), 14: 407.19 Martì's work amounts to 27 volumes for 12,500 pages. Articles el cronista Martì wrote from New York in the 1880s often discussedrace relations, the Native-American genocide, labor movements, and American popular culture (he wrote on such a variety of subjectsas the New York elevated railways, urban tenements, American technology, international expositions, American anarchists, BuffaloBill, and literary giants like Walt Whitman and Ralph Waldo Emerson). He explored such a variety of subjects with the lenses of anexile who looked at these areas of major conflicts in the US, his hosting country whose mainstream culture, by the late 1880s, he haddiscovered, showed clear signs in favor of expansionism and imperialism. See: Colectivo de autores, José Martì y los Estados Unidos(Habana: Centro de Estudios Martianos, n.d.); Esther Allen, ed., José Martì. Selected Writings (New York: Penguin Books, 2002);Carlo Batà, José Martì. Il maestro delle due Americhe (Verona: Achab, 2002).20 José Martì, "Our America," in Allen, José Martì. Selected Writings, 288-96. Belnap, Férnandez, José Martì's "Our America."

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21 Martì, "Our America,"295-96.22 Martì, "My Race," in Allen, José Martì, 319-20.23 Martì, "The Truth About the United States," in Ibid., 329, 333.24 Citations are translations from quotes included in Iglesias Utset, "José Martì: Mito, legitimacion y simbolo,"204, 216, 217. 25 Pérez, Cuba Between Empires, 386.26 Fernando Ortiz, Entre cubanos. Psicologia tropical (Habana: Editorial de Ciencias Sociales, 1987 [1913]), 4.27 Quote in Miscelanea II of Studies dedicated to Fernando Ortiz...Chronology, 28.28 Quote in Ibid., 30. During these years Professor Ortiz published an extensive number of essays on Afro-Cuban folklore, lectured inSweden, and was elected president of the Sociedad Economica de Amigos del Pais. This association's goal was the preservation ofCuban cultural traditions by "illuminating the sound judgment behind the elements guiding Cuban society, and to maintain the morethan one-hundred-year-old tradition of culture and patriotism…." See: Enrico Maria Santi, Fernando Ortiz: contrapunteo ytransculturacion (Madrid: Editorial Colibrì, 2002), 29.29 Inititially the Machado government pursued a program of important reforms: public works, the beginning of the major Cubanhighway, the economic diversification of the country. But he soon turned to violence to repress his oppositors. The international crisisof 1929 coincided in Cuba with the first Machado government which inherited the problems of the historical dependency of aneconomic system based on monoculture (sugar). Ortiz supported the first government Machado at international events such as the ThirdPan-American Conference (1926), the International Congress of Americanists in Rome, and the Sixth Pan-American Conference inHabana in 1928. Ibid., 31, 32, 30.30 This includes such a language as "toda actividad programatica del cubano para determinar una actitud de la vida colectiva de Cubaha de contar con le factor americano….A la diplomacia de Washington se le pide [que] debe apoyar el cese de los regimenes de factoy con sustentacion militarista, que desde hace muchos anos y a espaldas de su pueblo, han venido gobernando en Cuba…" Ibid., 34.31 Ibid., 3532 Quotes in de la Fuente, A Nation for All, 177. According to de la Fuente, "For all its ambiguities and contradictions, this process wasnothing short of a cultural and ideological revolution. In contrast to the early republic, in which Cuba's future was frequently identifiedwith the demographic expansion of its white population and the consolidation of its Spanish cultural ancestry, by the late 1920s theAfrocubanista movement was asserting that African influences were at least equally important in defining the character and nature ofthe Cuban nation."183.33 Ortiz, "On the Relations Between Blacks and Whites," in Miscelanea II...., 19.34 See: Geneviève Fabre, Michel Feith, eds., Temples for Tomorrow. Looking Back at the Harlem Renaissance (Bloomington: IndianaUP, 2001), 4, 5.35 Quotes from Alessandra Lorini, "'The Spell of Africa Is Upon Me": W.E.B. Du Bois's Notion of Art as Propaganda,"in Ibid., 159.36 A visible sign of this decadence was, in Du Bois's view, McKay's Home to Harlem which he reviewed in 1928 in the Crisis togetherwith Larsen's Quicksand and anthropologist Melville Herskovits's The American Negro. Editor Du Bois liked Larsen's book but foundMacKay's nauseating. "After the dirtier parts of its filth," a dismayed Du Bois wrote, "I feel distinctly like taking a bath." Although headmitted that the book included some good stuff in the way its author portrayed characters, he could not tolerate McKay's giving in tothe "prurient demand" of a "certain decadent section of the white American world" centered in New York. In the same review, Du Boispraised anthropologist Melville Herskovits's work. He thought Boas's student a real scientist that is, "a man who is more interested inarriving at truth than proving a thesis of race superiority." At the end of an extensive research of physical anthropology, Herskovitsconcluded that American Negroes were forming a new racial type that was a mixture of African, American, Indian, and Caucasianancestry, and were likely to remain physically distinctive for long time. Du Bois welcomed Herskovits's findings showing that fewerthan one-fourth of the Negroes in the United States were of unmixed Negro blood, and that forty percent of them had as much, or evenmore, white blood as they did Negro. This meant, in Du Bois's view, the unsoundness of the argument that the Negro was aninassimilable race in the United States and the idiocy of discussing American Negroes as if they were Bantu. Ibid., 160. Herskovits, who will correspond with and meet Ortiz in the early 1940s, was influenced by his close encounter with the Harlemrenaissance and the desire of black intellectuals to develop a distinctive cultural tradition rooted both in the African past and in African-American folklore. In Herskovits's findings Du Bois saw a good piece of social science susceptible to being used as a weapon of"propaganda." What Du Bois actually meant by such a use of social science as "propaganda" became clear when he published his path-breaking Black reconstruction in America, 1860-1880 (1935). By then, he had resigned from the Crisis and the Board of the NAACP,and had become the chairman of the Sociology Department at Atlanta University (1934-1944).37 Eric Foner, Reconstruction: America's Unfinished Revolution, 1863-1877 (New York: Harper and Row, 1988)38 Du Bois, Black Reconstruction in America : An Essay Toward a History of the Part Which Black Folk Played in the Attemptto Reconstruct Democracy in America, 1860-1880, quoted in Lewis, W.E.B. Du Bois. The Fight for Equality and the AmericanCentury, 375.39 Santi, Fernando Ortiz, 36, 38, 39.

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40 Quote in Ibid., 66; Miscelanea II....Chronology, 3241 Miscelanea II....Chronology, 34. In 1943 Ortiz was given the chair of the Instituto Internacional de Estudios Afroamericanos, andin 1954 received the Doctor Honoris causa in the humanities from Columbia University and its bicentennial celebration.42 Santi, Fernando Ortiz, 73.43 Letter from Herskovits to Ortiz, October 29, 1940, in Ibid., appendix, 262-63.44 Melville Herskovits, The American Negro: A Study of Racial Crossing (1928), quoted in Walter Jackson, "Melville Herskovits andthe Search for Afro-American Culture," in George W. Stocking, Jr., Malinowski, Rivers, Benedict and Others. Essays on Culture andPersonality (Madison: Wisconsin UP, 1986),105.45 Herskovits, Acculturation. The Study of Culture Contact (1938), quoted in Jackson, "Melville Herskovits and the Search for Afro-American Culture," 113.46 Mary Louise Pratt uses the concept to transculturation to argue that the colonial encounter is a "contact zone" in which "disparatecultures meet, clash, and grapple with each other, often in highly asymmetrical relations of domination and subordination." ImperialEyes: Travel Writing and Transculturation (New York: Routledge, 1992), 4-5.47 Fernando Ortiz, El engano de la razas (Habana: Editorial de Ciencias Sociales, 1975), 31, 3248 The book tracked the origins of the word "raza" in different languages, established the connection between the development ofAfrican slavery and the spreading of the word raza, and racial hierarchies. Offering a definitive argument against the idea of racialpurity, Ortiz also quoted Franz Boas extensively on the question of racial heterogenity. He concluded that "Toda la historia de la especiehumana es un entrecruciamento incesante de la amorosa trama que con los abrazos de los sexos ha ido anudando sobre la urdimbre delos pueblos todas las hebras humanas sin reparar en sus colores. El mestizaje no es la excepcion sino la norma. Hay un mestizajeunversal." Consequently "Es infructuoso buscar en Europa el imaginado tipo promedial o estadistico de raza nordica, alpina, omediterranea. Esas tres razas blancas…no son sino idealizaciones de ciertos tipos dentro del hibridismo universal…." There was nojustification to any racial hierarchy as all men of science did not even consider those racial characteristics that were popularly assumedas "typical" of a race. Ibid., 329, 339.49 Ibid., 360.50 Herbert Aptheker, ed., Book Reviews by W.E.B. Du Bois (Millwood NY: Kraus-Thomson, 1982), 208.51 W.E.B. Du Bois, Black Folk Then and Now: An Essay in the History and Sociology of the Negro Race (Millwood NY: Kraus-Thomson1975 [1939]). 52 Du Bois, The Autobiography of W.E.B. Du Bois. A Soliloquy on Viewing My Life from theLast Decade of Its First Century (NewYork: International Publishers, 1991 [1962]), 373.53 Du Bois's biographer Lewis briefly mentions Ellen Irene Diggs as a twenty-seven year old graduate student at Atlanta University in1933, with a BA in anthropology and economics from Minnesota, who had just moved to the city and to the new sociology department:"brilliant, trim, and stunningly black, was to grow in Du Bois's esteem and affection over the years until those who knew the depth oftheir relationship thought that Diggs might become the second Mrs. Du Bois. Irene Diggs certainly came to define her being in termsof that inestimable status. .... Du Bois found her energy and intellectual sophistication enormous assets as he pressed ahead on the firstdraft of the book he intended to call 'Black Reconstruction of Democracy in America." Lewis, W.E.B. Du Bois. The Fight for Equalityand the American Century, 30554 She also co-founded with Du Bois Phylon: A Review of Race and Culture. Ibid.55 According to Lewis's sources, their staying in Havana was certainly pleasant, but it was less productive than Du Bois had wished.No mention is made of meeting with Fernando Ortiz, although it is quite possible that their encounter occurred at that time. Fourmonths later Du Bois returned to Cuba under the ACLS sponsorship to attend the Havana conference on intellectual cooperation. 56 Highly influenced by Ortiz's scholarship, Diggs' work on Latin American color line was published in the Crisis.In 1947 Diggs got a position at Morgan State College in Baltimore - a traditional black college - where she remained until she retiredin 1976. A fellow of the American Anthropological Association, of the American Association for the Advancement of science, of theSociety for Applied Anthropology, and the American Association of Physical Anthropologists. In 1978 the Association of BlackAnthropologists honored her for her studies on the African diaspora in Latin America. (Lynn A. Bolles, entry Ellen Irene Diggs inWomen Anthropologists: A Biographical Dictionary, pp 59-64, NY Greenwood Press, 1988; same author, "Ellen Irene Diggs: Comingof Age in Atlanta, Havana, and Baltimore," in African-American Pioneers in Anthropology, ed. by Ira E. Harrison and Faye V.Harrison, pp. 154-167, Urbana, Illinois UP, 1999).

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Pinocchi, balordi e balleriniIl mutamento dell’immagine degli albanesi

nei mezzi di comunicazione italiani (1997-2006)di Piero Vereni

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Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c'era la guerra civile del 1997. L'unica cosa che ho imparatonella guerra civile è stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perché noi andavamo al mare. Avevamo

questa radio e la portavamo in riva al mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera davano unprogramma di musica rock. "Ora ascoltiamo una canzone, una pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro

sono i Led Zeppelin". Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple. Guardavamo questo mare, le onde del mare, eintanto ascoltavamo queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico ascoltavamo

e dicevamo: guarda il mondo come è bello di là… Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre 2006

Introduzione

Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricercasul campo in Macedonia occidentale greca per il mio dottorato,mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles deRapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell'areadi confine tra Albania e Grecia. Durante uno di questi viaggi, aVoskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, unprofessore di matematica in pensione che parlava un eleganteitaliano imparato durante la prigionia in Italia negli anniQuaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori miraccontò che aveva due figli, uno sposato che lavoravaclandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l'altro inItalia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipatedi uomini che tutti ricordiamo quell'estate. Il discorso che il padretenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: "Vai inItalia, cercati un lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposatise puoi con una donna italiana e cresci dei figli italiani. Adessonon è tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignità dadifendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Traqualche anno, quando e se l'Albania ritroverà un suo onore, potraidire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adessodimenticati anche tu che provieni da questo Paese". Ricordo laforte impressione che mi suscitò questo imperioso comando di unpadre a scordare la patria, la terra dei padri. All'epoca, gli albanesinon godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache soloper i casi criminali, sembravano in generale aver fatto tesoro delconsiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese conla più alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia)praticamente invisibili, anche per via delle caratteristiche

somatiche "mimetiche".Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo diverificare rapidamente il modo in cui gli albanesi erano visti egiudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando ilPaese balcanico da gennaio iniziò presto ad attrarre l'attenzionedei mezzi di comunicazione italiani, soprattutto quando produssesollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese.Ne emerse un'immagine complessa ma sostanzialmente negativadegli albanesi, delle loro motivazioni e delle loro strategieculturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e piùconsistente di questo lavoro.Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio incorso per avanzare alcune riflessioni sul ruolo che un altro mezzodi comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazionedell'identità albanese, e cioè la televisione d'intrattenimento neiprimi anni del nuovo millennio.Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo deimass media nella formazione delle identità collettive, questepagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora incorso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media,strumenti di comunicazione sempre bidirezionali, che moltodicono non solo sulla natura dell'oggetto rappresentato, ma anchesulle forme culturali del soggetto che attua l'operazione dirappresentazione.

Pastori e pinocchi

Il 1997 è un anno di svolta per l'economia albanese. A partiredalla metà di gennaio le numerose finanziarie sorte come funghinel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le

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rimesse degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime,stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il sistema piramidaledella raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziaread avere una rendita dal proprio investimento, doveva trascinarecon sé una dozzina di nuovi utenti) era giunto a saturazione e ildenaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmentevolatilizzato. La crisi colpì la quasi totalità della popolazioneresidente in Albania e l'inerzia del governo di Sali Berishanell'affrontare per tempo la situazione provocò da febbraio unperiodo di sommosse, sollevazioni popolari e scontri ancheviolenti, periodo oggi ricordato come la "guerra civile", anche senon è mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le particontrapposte.Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fuattivata in Albania tra il 15 aprile e il 12 agosto 1997 la "missioneAlba", condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione peraiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritornodella stabilità politica. Per la prima volta, una missioneinternazionale era a guida italiana, come italiana era la maggiorparte delle truppe coinvolte sul territorio. Si trattò quindi diun'importante occasione per fare vedere, sullo scacchiere dellapolitica internazionale, quale potesse essere il ruolo militaredell'Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale.L'intera vicenda ebbe un'intensa copertura mediatica globale, cuiovviamente partecipò anche l'Italia. Nelle prossime paginericostruisco il modo in cui i "corsivi" di quattro quotidiani italianihanno raccontato la crisi dell'economia albanese tra febbraio emarzo 1997. Ho scelto il corsivo soprattutto per la sua implicitanatura di testo "autoriale", volendo quindi porre un parallelo tra lascrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica.I quotidiani selezionati sono stati: La Repubblica, il Corrieredella Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l'intento di fornire unquadro genericamente esaustivo del panorama disponibileall'epoca, pur se costretto a tralasciare altri grandi quotidiani"d'opinione".Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembranoprestare molta attenzione a quel che accade in Albania, anche se icrolli finanziari si susseguono a catena e non mancano lemanifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nellepagine interne, e quasi nulla che somigli a un corsivo. Posso citaredue colonne non firmate su la Repubblica dell'11/2, anche perché,primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema cheossessionerà gli italiani di lì a qualche settimana: "E quando,come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieriritenute più solide da un punto di vista economico […] non resteràagli albanesi altro che tornare a imbarcarsi sui traghetti, scafi egommoni alla volta delle coste pugliesi". Quando l'interesse cresce, predomina un'immagine degli albanesicome "popolo folclorico": "…noi andammo all'attacco di quelloche, allora, veniva definito 'il nobile popolo schipetaro'. C'era unre che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessinaungherese di nome Geraldine: un bel soggetto per un musical […]Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serenepopolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo

Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa da Bari", Corriere dellaSera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest'icona tra l'agreste e il comicopochi giorni dopo: "Quando stoltamente andammo ad occuparequel povero Paese […] trovammo un mondo arretrato e primitivo,una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggio buttava reti", Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste lepremesse, che quelli truffati siano descritti come "…gente cheaveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezzaattraverso lo scambio di carta; parossistica rappresentazione di uncapitalismo da film di Frank Capra", Corriere della Sera,Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo è lostesso che pochi anni prima aveva nutrito un meccanismofinanziario del tutto simile, e cioè il sistema dei junk-bonds, i"titoli-spazzatura" utilizzati negli anni Ottanta da squali dellaBorsa come Michael Millken. Si preferisce descriverli in modolapidario: "Gli albanesi sono dei pinocchi che credono nel Paesedei Balocchi", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con unacuriosa inversione di oggetto che già sposta l'attenzione da "loro"a "noi": "…quei gonzacchioni che si son fatti accalappiare dadegli pseudo finanzieri d'assalto - non poi molto diversamente dacome noi stessi negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiaredai vari Virgillito and company", il Giornale, Riva, 2/3.In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la metà dimarzo, i corsivisti parlano ancora con toni compassionevoli, conindubbi risvolti da complesso di superiorità: "…un popolodall'animo vuoto più ancora delle tasche", Corriere della Sera,Cingolani, 2/3. Ma è meglio chiarire subito: "Gli albanesi nonsono i nostri 'fratelli separati'. Semmai sono i nostri cuginiscalognati", il Giornale, Riva, 2/3. Cugini di cui è bene fidarsipoco, soprattutto se si pensa che sono "…una popolazione che diviolenza si è sempre nutrita", il Giornale, Caputo, 4/3. Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare,anche se non sono chiari i motivi o le forme di questo potenzialecontagio, paventato con un non sequitur che risenteevidentemente di un radicato stereotipo della "polveriera" checosì bene si accompagna al quadro "balcanico" (Todorova 1997):in Albania succedono sommosse, quindi c'è il rischio che siincendino i Paesi vicini."L'Albania non è un'eccezione, ma solo l'anello più debole diquella catena che collega la Serbia, la Croazia, la Bulgaria, laRomania. Paesi diversi… legati da un comune destino:l'incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato",Corriere della Sera, Cingolani, 2/3."Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita chenelle nuove condizioni minaccia di infiammare il Kosovo, laMacedonia, e di lì tutti i Balcani", Corriere della Sera, Venturini,4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l'est ex-comunista: "Dunque: oggi in Albania, domani in Romania, inBulgaria e, forse, in Russia?" Gazzettino, Ostellino, 4/3 equalcuno prevede ripercussioni su tutta l'Europa, senzadistinzioni: "…una crisi che destabilizza ancor più l'areabalcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l'Europa"Gazzettino, Tito, 14/3."Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l'Albania può esplodere il

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Kosovo […] Poi c'è la Macedonia, piena di soldati americanimandati a circoscrivere l'incendio dei Balcani. La Grecia, intanto,si allarma per le sorti della propria minoranza nel suddell'Albania", Corriere della Sera, Cingolani, 6/3."Un'altra Somalia, un altro Libano? No, perché l'Albania è qui, èin Europa e per massima disdetta è anche nei Balcani, nella nostrasecolare e già tanto insanguinata 'polveriera'", Corriere dellaSera, Venturini, 15/3. Un altro esperto dell'area sostiene una variante di questa teoria,per cui non si tratterebbe, per l'Albania, del caso particolare di unaregola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile,della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: "Ilnuovo regime di Tirana ha infatti realizzato dopo il ´91 unametamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindisostenuta una 'balcanizzazione' del paese invece di contrastarla",la Repubblica, Cavallari, 6/3.Una versione peculiare di questa teoria del "contagio balcanico" èquella proposta da Robi Ronza, che prende le mosse dai rischi diun intervento concertato europeo: "Coinvolgere l'Europa vuoldire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosasua proprio quella regione dell'Albania meridionale attorno aValona che è attualmente in piena rivolta contro il governo diTirana; una regione dove tra l'altro è insediata una minoranza dilingua greca, la cui cultura è priva di qualunque tutela ericonoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare inquale misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimotempo così delimitata dal punto di vista territoriale, non trovi ilsuo punto di forza nella minoranza greca, e nell'appoggio che lepuò provenire dalla madrepatria, la Grecia", il Giornale, Ronza,9/3. A parte il fatto che il cosiddetto "Epiro settentrionale" - e cioèi distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet,dove vive la minoranza grecofona d'Albania - è ben distante daValona, città del tutto albanese per cultura e lingua, la Grecia, inrealtà, non "rivendica da sempre come sua" alcuna terrad'Albania. Se è vero che diversi politici greci (di destra) hannosfruttato la questione dei territori dell'Albania meridionale abitatianche da popolazione di lingua greca, è anche vero che nessungoverno greco dalla fine della seconda guerra mondiale ha maiavanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso alcun organismointernazionale.In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunqueuna minoranza di lingua greca e religione ortodossa, riconosciutaufficialmente dallo Stato albanese (c'è semmai contrasto tragoverno e rappresentanti della minoranza sulla consistenzanumerica della medesima), con il diritto di scuole in greco e trequotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell'agostoprecedente la crisi albanese si erano aperte tre nuove scuoleelementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina, fruttodell'accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene(Human Rights Watch 1997). Restano questioni aperte per laminoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che all'epocamonitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinkiammetteva che "la minoranza greca è una parte integrante dellasocietà albanese". Questo tipo di giornalismo - che trasforma

senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamenteirredentista e l'Albania in un oppressore dei diritti delle minoranze- risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a"balcanizzare i Balcani", ad attribuire cioè pregiudizialmente atutta l'area genericamente "a sud est" istinti primordiali, siano essidi difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui.

Ma questa visione balcanizzante dell'Albania si intreccia conun'altra proposta interpretativa, che indichiamo come "teoria delcongelamento". Secondo questa chiave - applicata consistematicità durante il crollo della Jugoslavia - quel che èaccaduto in Europa orientale negli anni Novanta sarebbe laripresa di dinamiche storiche che i regimi socialisti e comunistinon avrebbe fatto altro che congelare. Così, si è interpretato ilpresente usando manuali di storia ed etnologia scritti prima dellaguerra, presentando di solito la questione albanese come un tokendel type balcanico ("Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, ilsecondo volume delle memorie di Raymond Poincaré, intitolatoappunto 'Le Balkans en feu', si vedrà quanto fosse intrattabile giàallora, nel 1912, la 'questione albanese'", la Repubblica, Viola,13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e cruenti come unritorno alle origini, intendendo con ciò le condizioni socio-economiche precedenti all'insediamento dei regimi comunisti. Intutti i giornali considerati per questa indagine abbondano gliarticoli "storici" che mostrano le "analogie" tra l'Albania che subìl'invasione fascista nel 1939 e quella dell'operazione Alba. "Inqueste ultime due settimane è tornata in scena, infatti, dopo quasimezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche anno di parvenzedemocratiche, l'Albania dei libri di storia. Un paese arcaico, privodi un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioniregionali, il familismo, il clan e le lealtà tribali", la Repubblica,Viola, 13/3. "Il recupero del passato, del resto, è una chiavefondamentale per interpretare il caso albanese. Il 'fis' (clan), il'kanun' (la legge consuetudinaria), la 'besa' (parola d'onore), ladivisione tra il Nord 'ghego' e il Sud 'tosco', le tre religioni(musulmana in maggioranza, ortodossa nel meridione, cattolica inalcune zone settentrionali): tutto ciò che era stato soffocato sottola cappa della dittatura ideologica, torna prepotentemente allaluce. La Storia rinasce, come in gran parte dei Balcani", Corrieredella Sera, Cingolani, 8/4. Questo schema interpretativo dellarealtà albanese (presentata naturalmente come una "…ennesimaversione della 'poudrière balkanique'…", la Repubblica, Viola,13/3) ha la curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senzaandare in frantumi. Lo stesso Cingolani, che ha appena scritto chela divisione in clan del Paese sarebbe stata soffocata, congelatadal regime, aggiunge subito: "Le divisioni sono rimaste pressochéintatte durante la dittatura di Enver Hoxha che imposeun'egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro).Ramiz Alia, suo successore, fu appoggiato dal Nord, che vedevagiunto il momento di recuperare il potere perduto", Corriere dellaSera, Cingolani, 8/4.Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in unarticolo di Sandro Viola: "L'Albania si rivela in fin dei contiidentica - almeno per un aspetto - ad ogni altro paese su cui sia

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scesa la sventura del comunismo. L'aspetto cioè delcongelamento, dell'eclisse solo apparente e temporanea, durante ilperiodo comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia ein Ungheria sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti,come in Jugoslavia sono esplose le avversioni etnico-religiose cheavevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in Albaniasono tornati a galla il disordine, l'irrequietezza dei clan, la praticadel brigantaggio che erano sempre stati i fattori della suaarretratezza. […] Quattro decenni e più di comunismo hannolasciato sotto il ghiacciaio del sistema totalitario, sotto larepressione dello stato di polizia, le cose come stavano. Nulla hapotuto evolversi, maturare", la Repubblica, Viola, 16/3.

Banditi e invasori

Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gliscontri diventano più gravi e anche il governo di Tirana ammetteche non si tratta più di "pochi facinorosi", allora sui giornaliitaliani si alza il tiro. "L'Albania si è dissolta", Corriere dellaSera, Cingolani, 14/3. "In un paio di settimane la protesta deitruffati ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poiinsurrezione, infine catastrofe umanitaria, politica, diplomatica",Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il ministrodegli Interni "potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuovepossibili ondate di profughi", Corriere della Sera, Cingolani,14/3. Del resto, "L'Albania non c'è più", Corriere della Sera,Biagi, 18/3. "A Tirana è semplicemente crollato lo Stato", ilGiornale, Ricossa, 19/3. E che sia crollato solo lo Stato è troppopoco per alcuni commentatori: "Ma l'insurrezione è sfuggita agliapprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali", Corrieredella Sera, Cingolani, 14/3.Il climax assume toni da film horror: "In Albania tutto ciò che fadi una massa di gente un "paese" ossia l'ordine, la legalità, laconvivenza, l'amor di patria, la fiducia nell'avvenire, la tradizione,l'economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell'ariaper effetto di una magia potente da Signore del Male", ilGazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire datiessenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativaper dati già noti, sembra rinunciare al suo ruolo, cedendo allelusinghe della spiegazione "magica": "L'Albania, a me sembra, èdiventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamoattenti, noi italiani… Potremmo essere noi stessi, in un futuro nonlontano, contagiati da una qualche forma di sindrome albanese",il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda alMale, o a una malattia contagiosa. Questa analisi "irrazionalista"della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo affioraprepotente in un nuovo commento: "…ma il grande nemico, lospirito del male, è spesso invincibile perché poggia sull'inganno,sulla frode, sul tradimento vergognoso dell'uomo. E in Albaniasembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farcidubitare perfino della giustizia e della verità…", Corriere dellaSera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati daglialbanesi si era appena parlato: "Questa, come abbiamo già detto,è piuttosto un'invasione di massa, […] una marea capace diesportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta",

la Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accennerà ancora il decanodei giornalisti italiani: "…l'Albania con i suoi virus didecomposizione e di guerra di bande", Corriere della Sera,Montanelli, 30/3.Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltarequalunque tentativo di spiegare razionalmente una sommossapopolare in gran parte comprensibile data l'entità della crisifinanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo"illogico" e "irrazionale" che affliggerebbe gli albanesi: di fronteal Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico, perallontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente).I corsivisti fanno presente fin dall'inizio quale sia il vero rischiodi sottovalutare la crisi albanese: "È nostro interesse riportare aTirana un dialogo corretto tra governo e opposizione […] Sequesto non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni diprofughi. Più di quelle che quotidianamente già abbiamo",Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non è chiaro cosa intenda Cerruti per"invasioni quotidiane", ma l'equivalenza tra sottovalutazionedella crisi e invasione di albanesi è ribadita anche sul Corrieredella Sera: "L'Italia può e deve stanziare aiuti immediati […]ben sapendo che costerebbe assai più caro un nuovo assalto allenostre coste come quello dell'estate '91", Corriere della Sera,Venturini, 4/3.Un'altra voce autorevole: "Adesso c'è il rischio di una invasionealla rovescia, il terrore che la Guardia di finanza debba lanciare ilgrido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: 'Siekommen', arrivano", Corriere della Sera, Biagi, 5/3.La minaccia dell'invasione conferma la necessità di un interventoitaliano, visto che se l'Italia non entrasse in gioco: "Quelle chevediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le timideavanguardie di un popolo in fuga che non potremmo né avremmoil diritto morale di respingere", Corriere della Sera,Venturini, 15/3.L'escalation prospettata è terribile: "A questo punto tutto èpossibile, anche l'impensabile: cioè la sparizione di uno Stato,la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos puòuscire perfino un'orgia di rissa etnica senza confini ma nonsenza precedenti", il Giornale, Pasolini Zanelli, 14/3. Cosa siintenda per "precedenti" è presto detto: "L'Albania potrebbetrasformare l'Europa nel ventre molle occidentale, come latrasformò la Bosnia", Corriere della Sera, Caretto, 17/3."L'Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma unproblema dell'Europa. Può essere l'inizio di una catena di guaiper tutti", Corriere della Sera, Biagi, 18/3.Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che sipotrebbero avere in Italia: "E speriamo, questo sì, che la loropresenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali chein Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Franciasoffiano ancora nelle vele del Fronte nazionale", Corriere dellaSera, Venturini, 19/3.Le tinte fosche con cui si raccontano l'Albania e i suoi abitantisi incupiscono ancor più dopo la metà di marzo, quando l'Italiasi "rende conto" di dover affrontare quel che più spesso vienedefinito un "esodo".

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"…l'esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto leproporzioni di una fuga di massa…", Corriere della Sera,Venturini, 19/3. "…esodo albanese, che ha un sapore biblico", ilGiornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di "…Puglia invasa daglialbanesi […] La gente [italiana] si è comportata bene, ha mostratodi capire e compatire malgrado l'impatto tremendodell'invasione", il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza dianni, è utile ricordare che fino a quella data la cosiddettainvasione riguardava meno di diecimila persone.Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visioneapocalittica: "Stiamo difendendo la nostra frontiera, le nostrecittà, le nostre famiglie e i nostri figli", il Giornale, Giannattasio,28/3. Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsiviimprontati alla moderazione dei toni e degli animi: "È solo che cisaremmo aspettati che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesiin predicazioni e sermoni a favore della tolleranza […] avrebberoaiutato un popolo di cinquantasette milioni di benestanti amantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi perl'invasione dei Visigoti", la Repubblica, Polito, 27/3.Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin deiconti ancora esotico, limitato all'oltre sponda, a questione internaitaliana) si ridisegna anche l'immagine degli albanesi. Prima ditutto quelli lì, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizionidei corsivisti: "La 'terra delle aquile' è in mano agli sciacalli.Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi",Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un'analisipolitica e sociologica per spiegare il mutamento di prospettiva dacui osservare gli insorti: "…quella che sembrava una rivoltapopolare contro una truffa finanziaria si è rapidamentetrasformata in una guerra di bande, gestite da loschi burattinai: exdirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalitàorganizzata internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti dellapolizia segreta allenati a pescare nel torbido e a sobillare lemasse", la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invecedecisamente sulla fisiognomica: "Gruppi di rivoltosi presidiano itornanti che si inerpicano sulle montagne brulle. Volti di pastori,contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguignedi ex ufficiali alla ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscuredegli agenti disseminati dalla polizia segreta…", Corriere dellaSera, Cingolani, 14/3. La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa inrisalto anche dal contrasto con la bontà italiana del 1991: "Ipugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa genteche arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino ibagni, e non è mica normale. E ci siamo ritrovati, dopo pochianni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semaforischiavizzati dai loro zii. Che bella bontà", il Giornale, Farina,27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce degli albanesie loro passato pacifico: "Un tempo avevano la religione, latradizione, il buon senso dei contadini. Oggi non hanno piùnemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del propriopassato…", il Gazzettino, Sgorlon, 15/3.Se questa è l'immagine sempre più fosca e insieme più vaga,meno dettagliata, degli albanesi d'Albania, quelli che cercano di

arrivare qui sono studiati con più precisione.Una delle descrizioni assieme più analitiche e più "fantasmatiche"di coloro che stanno arrivando (a quanto pare albanesi e non, maArbasino è di proposito abbastanza ambiguo da far sì che leaccuse agli uni possano cadere anche sugli altri) è quella propostada un nome di grido: "Ospiti balcanici che si presentano incompagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica alsaccheggio che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumiper la caduta del comunismo… Ospiti che sistemano valigie dibustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccineminorenni sui viali 'del vizio', si sistemano frotte di pupi laceri eaffamati e picchiati ogni giorno ai semafori… Ospiti che sibattono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo delterritorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi erivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa…", laRepubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, ilruolo attribuito all'antropologo…Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invecel'operazione inversa, di spiegare perché gli albanesi sarebberocosì diversi dagli altri immigrati (e così diversamente trattati):"…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni deinuovi schiavi dell'Occidente. Quindi, poco utili. Non sonocristianamente remissivi come i filippini, non amano i bambinicome le colf somale, non fanno i muratori per quattro lirecome i polacchi, non vendono cianfrusaglie come isenegalesi. Più che essere comandati, a loro piacecomandare", la Repubblica, Polito, 27/3.Senza essere categorici come Biagi ("Da loro riceviamo, perl'interscambio, marijuana, e anche braccianti senza diritti, ragazzeda avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto",Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntanocomunque su una questione sentita come centrale, non appenaarrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio?Coloro che hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebberoessere scacciati? Il quesito rivela il diritto degli italiani asospettare, sempre, in modo sistematico. "Per intervenireefficacemente dovremmo avere notizie sicure e sapere se chichiede aiuto e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi sichiama solidarietà) oppure uno che veste di abiti del derelitto esfrutta, ingannandolo, chi è pronto a venirgli in soccorso",Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte auna "…invasione di disperati, ma anche di delinquenti", ilGiornale, Giannattasio, 28/3.Se per alcuni "…tra mamme e bambini si nascondono gruppi dievasi per i quali è previsto il rimpatrio automatico", Corrieredella Sera, Venturini, 19/3, dando così l'impressione che tra imolti poveracci si nasconda qualche criminale, per altri ilrapporto è inverso: "…tra i boat-people dell'Adriatico ci sono piùmafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino adarrivare in porto quando le loro carrette non ce la facevano 'è statauna pazzia'", il Giornale, Caputo, 22/3.L'aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni èciò che potremmo chiamare "la natura oggettiva e dicotomica delmale". La distinzione tra buoni e cattivi è in questi corsivi sempre

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netta e senza appello. È arduo distinguere i due gruppi inconcreto, ma nessuno mette in dubbio che di due gruppi si stiaparlando. "Quanti saranno i 'poco di buono' arrivati con gli 11mila albanesi? Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, ebambini verso la Puglia, e di qui verso il resto della Penisola, si èrivelata quello che il filtro della solidarietà non ci avevaconsentito di vedere con chiarezza: un esodo in parte cinicamenteorganizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio gratis peri bambini perché inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono icontrolli", il Gazzettino, Pezzato, 20/3. È evidente larappresentazione degli albanesi come popolo miticamentedicotomico rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature,ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano: ognuno di loropuò (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi.Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni(bimbi buoni, adulti cattivi) passa allora anche tra i sessi:"Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindicianni, meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco ivecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non capisco quell'orda diuomini d'età compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massae intervistati confessano di non avere uno straccio di documentoné di voler fornire le generalità e di non essere arrivati peraccompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono quiper scelta individuale, e l'ottuagenaria l'hanno lasciata in Albània[sic] a difendere la casa […] Sono giovani, forti. E scappano.Disertori non solo nell'esercito e nella polizia: disertori nell'animoe nella vita", il Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta LivioCaputo una discussione cui ha assistito tra "un sindacalista dellaCgil e un suo amico della stessa parrocchia": "Essi hannosostenuto la tesi, tutt'altro che peregrina, che il governo dovevaammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i bambini e glianziani, spesso usati dai mafiosi come 'schermo' e rimandareinvece immantinente in Albania tutti gli uomini validi che, anchea giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto bisogno diprotezione", il Giornale, Caputo, 22/3.Sono pochi quelli che tentano una difesa "globale" degli albanesiin arrivo: "Via, presi nell'insieme sono dei poveracci e fanno benei nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a mare", laRepubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà comune traqualche giorno, dopo una tragedia che segnerà uno spartiacque, iltema degli albanesi come nostri antenati, come doppio grottescodegli italiani: "Li guardi un po' in faccia, questi immigrati,onorevole Brighella (onorevole Arlecchino, onorevolePantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso,suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quelloche stava sulla groppa di un somaro? […] Fanno paura,evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni",Corriere della Sera, Zincone, 28/3.Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo sicomincia a parlare di "…battelli stracarichi di falsi profughi (ossiadi disperati che in realtà sono soltanto degli emigranti abusivireclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)", il Giornale,Guarini, 25/3. A questo punto, il dilemma morale di distingueretra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso

soluzioni radicali: "I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmoi bambini albanesi, ma i loro padri li sbatteremmo volentieri ingalera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano", ilGiornale, Farina, 27/3. Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater IRades veniva speronata dalla nave Sibilia della marina italiana,che cercava di bloccarne l'ingresso in acque italiane. A seguitodell'affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo chocè immediato. Sembra che si sia realizzato qualcosa di terribile, mache tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfrattoimpresentabile della coscienza collettiva, desideravano cheaccadesse.L'affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un puntodi non ritorno nell'analisi dei corsivisti italiani. Assieme allosgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come è stataraccontata, fino a quel punto, la "crisi albanese": "In effetti,nessuno di noi potrebbe spiegare con un minimo di precisione checosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopocinquanta giorni di convulsioni, è che l'Albania è un paesesconosciuto. Indecifrabile", la Repubblica, Viola, 30/3.Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue realidimensioni con più fermezza: "Ma noi entriamo in crisipsicologica perché dodicimila albanesi sono sbarcati (e già quasiduemila sono stati riportati al paese di origine con metodiabbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno uno psicodrammacon sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati,rifiutano accoglienza…", la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora:"Mi ribello all'idea che si nasconda razzismo, intolleranza,meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione delproblema dei quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasisessanta milioni di abitanti in cui già si sono fra un milione e duemilioni di extracomunitari. In realtà si tratta di un problemarelativamente modesto trasformato in un caso nazionale", ilGazzettino, Acquaviva, 3/4.Nell'insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio edel tono: l'Albania è un Paese in crisi, ma non più quella bolgiainfernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo unasettimana prima: "In Albania non esiste una guerra civile, quelliche hanno raso al suolo università, uffici, caserme, persino icanali di irrigazione erano mossi da una decennale carica dirancore per un regime ormai morto e non degnamente sostituito[…] La stragrande maggioranza degli albanesi vuole soloritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissionitelevisive, un rispettabile nucleo di società civile, una tradizioneculturale", la Repubblica, Bocca, 12/4.Ma col passare dei giorni l'Albania tende a sfumarsi indissolvenza, per lasciare spazio sempre di più all'Italia e alleconseguenze in Italia di un possibile intervento armato inAlbania. Questo sia sul versante interno: "Al quinto giorno [dopol'affondamento] tutto o quasi è finito in politica interna…", laRepubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l'immagine e il prestigio italiani:"Il successo dell'Operazione Alba vale dieci 'manovrine' perMaastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri partner nel giàradicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini

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dell'Europa per il futuro prevedibile", la Repubblica, Caracciolo,8/4. Per essere chiari: "…l'Italia si gioca più di quanto creda.Anzi, si gioca tutto. Perché l'incrocio con la tragedia albanesestrappa l'Italietta dell'Ulivo all'eterno teatrino e la pone davanti aun'alternativa grave. Se la missione Alba avrà successo, il nostroPaese e il governo ne riceveranno enorme prestigio […] E a quelpunto, parametri o non parametri, toccherà a Germania e Franciapreoccuparsi di imbarcare l'Italia nel pullman di Maastricht,anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba sitradurrà in un disastro […] allora non ci saranno parametri ofinanziarie o manovrine o larghe intese che possano tenere…", laRepubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l'Italia di quei giornisembrò decidere di andare in Albania come via più diretta per"entrare in Europa". L'impegno militare degli italiani venivaassunto, prima di tutto, di fronte alla comunità internazionale e aipartner dell'Unione Europea, per vedere che l'Italia non era piùl'Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della secondaguerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delleidentità: non è l'Albania che deve dimostrare di essere uno Statoe una Nazione. Questo carico simbolico ora grava sull'Italia.Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin daquando un editoriale del Times critica la proposta di un interventodiretto italiano sul suolo albanese: "…l'editoriale del Times control'imminente intervento italiano in Albania […] rispecchiavabenissimo il senso di superiorità e gli stereotipi che da semprenutrono l'atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gliitaliani…", Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stessoPanebianco sottolinea poi a sua volta le conseguenze politiche chela futura "operazione Alba" potrà avere non tanto sull'Albania(tema questo del tutto secondario) quanto sull'immagine dell'Italiaall'estero: "abbiamo forse ora la possibilità, se sapremocomportarci correttamente sia sotto il profilo tecnico che sottoquello politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi -spesso non privi di fondamento - sugli italiani, da sempresedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigentieuropee (non solo del Regno Unito)", Corriere della Sera,Panebianco, 4/4. L'Albania diviene dunque il luogo del riscattodell'identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei laqualità della nazione. La questione italo-albanese va misurata nontanto per le possibilità che oggettivamente l'Italia ha di migliorarela situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, masolo ed esclusivamente per quanto l'Albania possa, nel bene e nelmale, influire sull'immagine dell'Italia all'estero.

Il carnevale delle identità

Il nuovo tono nel parlare dell'Albania e l'attenzione sempremaggiore prestata al ruolo che questo Paese può giocare perl'Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi diun'inversione, di un "carnevale" provocato dagli albanesi con laloro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi già primadell'affondamento: "…durante la trasmissione di attualità ItaliaRadio (emittente notoriamente vicina al Pds), è intervenuta unasignora romana: 'Ho famiglia, siamo otto persone, tutte di sinistra.Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull'Albania.

Ebbene, alla fine abbiamo convenuto tutti che aveva ragioneGasparri, il deputato di An cui durante la campagna elettorale miero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti avevaragione perfino Tablandini della Lega. I miei, un disastro.", ilGiornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l'unico ad ascoltare ItaliaRadio, quei giorni: "Provate a sentire Italia Radio, l'emittente delPds. Ogni mattina, al suo filo diretto, si scarica la rabbia diabituali buonisti che minacciano sfracelli se non si fermal'invasione", la Repubblica, 27/3.Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: "Qui[anche a sinistra] si registra una ostilità dura e compatta contro glialbanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti chesembrano costole della Lega", Corriere della Sera, Zincone, 28/3."'Buttiamoli a mare, buttiamoli a mare'. Nei giorni scorsil'invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La sisentiva nei bar del Nord, ma anche nei caffè del Centro o del Sud.I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere per difendere lapurezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono algoverno di risparmiarli, per carità, dall'invasione, supplicano dilasciare i barbari alle porte", Corriere della Sera, Cingolani, 29/3."Perché la parte più progressista della nostra opinione pubblicasta riservando agli albanesi un trattamento che mai si sarebbepermesso nei confronti di somali e marocchini, senegalesi efilippini?", la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibilirisposte a questa domanda una val la pena di essere citataperché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul"carnevale" albanese: "La prima ragione che ci viene in menteè che gli albanesi hanno la colpa di essere bianchi,somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […]Poco, diversi, troppo simili", la Repubblica, Polito, 27/3.Ci si rende subito conto, dopo l'affondamento della nave, delruolo attivo che hanno gli albanesi per la costruzione di noi stessicome italiani: "La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo […]davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che rifletteun'immagine reale e non deformata. Nessuna illusione ottica,siamo proprio così", il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non amaquesta immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi unruolo magico, di tricksters in grado veramente di ribaltare l'Italia:"Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti,l'inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistrae viceversa", Corriere della Sera, Merlo, 1/4. Lo stesso identicoconcetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: "…la sinistraha lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando ilCavaliere ha ripetuto che un Paese di 50 milioni di abitanti nonpuò lasciarsi dominare dal panico politico per l'arrivo di 10 milaprofughi. C'è stata cioè una singolare inversione dei linguaggi, senon delle parti", la Repubblica, Mauro, 1/4.Ma tutti - che si parli di svelamento o di ribaltamento dell'identità- sono concordi sul senso totale di straniamento: "Strani [gliitaliani], perché non si era mai visto un governo di centrosinistra,e per di più sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascistapersino dai giovani norvegesi. Strani perché con la stessa boccapredichiamo la solidarietà e poi gridiamo 'buttiamoli a mare'.Strani perché a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il

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leader dei progressisti sia un reazionario e quello dei moderati unrivoluzionario", il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta tornala metafora del contagio: "Sembra quasi che per contagio ladisgregazione albanese abbia colpito la nostra classe politica…",il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che "…dove finisca lamaggioranza e finisca l'opposizione è difficile dire", laRepubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di "…un Paesegovernato dall'incertezza, e con una maggioranza inesistente…",il Giornale, Cervi, 4/4, non è più all'Albania che si fa riferimento,come due mesi prima ("Tutti sono contro tutti. Non c'è piùmaggioranza, non c'è mai stata opposizione", la Repubblica, 11/2)ma all'Italia. La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembraestendersi dal mondo politico per coinvolgere tutti: "…il nostrostrano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto diessere cattolico e solidaristico come pochi, all'improvviso sisveglia con la voglia di gettare in mare un popolo in fuga. E, cosaincredibile, per poco non ci riesce", il Gazzettino, Pittalis, 1/4."Italia: fino a ieri il paese dell'amore e del sole, tutto spaghetti,chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico e egoista", ilGazzettino, Acquaviva, 3/4. "…il ceto politico e la stamparispecchiano gli elettori e i lettori che in questa fase della nostrastoria non sembrano più gli 'italiani brava gente' ma unacollettività ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa disopravvivere innalzando alle frontiere 'cortine di acciaio'", laRepubblica, Bocca, 3/4. "Prima c'era un paese che, tutto sommatocompatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte aun'immigrazione clandestina e di massa dall'Albania. Quindi:accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni,governo, maggioranza e opposizione stavano tutti più o menoscomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti, gli immigrati sonoridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte incommedia […] c'è stata quella notte, ha sconvolto gli animi edistorto i comportamenti", la Repubblica, Fuccillo, 3/4.Un modo interessante di guardare al problema è quello propostoda Ernesto Galli della Loggia, in un fondo apparso sul Corrieredella Sera subito dopo l'affondamento della Kater I Rades: "Macome è possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti,che una grande e ricca nazione europea come l'Italia si facciaspaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal puntoche sembra quasi non vi sia più una città, un paese, un comunedisposti ad accoglierne neppure qualche decina? […] Èpossibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, èla diffusione ormai senza limiti di valori e di stili di vita ispirati almaterialismo e al consumismo […] La realtà è che se una nazionedi sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione comel'Italia si fa spaventare da una manciata di profughi albanesi èprecisamente perché essa non si sente affatto una nazione. […]Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitantidi questo vasto insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti diuna somma di comunità sparse, legate da un debole e malcertovincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiutoprecisamente perché sono visti non già come dei profughi chearrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli intrusi

non invitati in questa o quella delle tante comunità di cui sopra",Corriere della Sera, Galli della Loggia, 1/4. La tesi trovaconsensi: "Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera haanalizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi,dice l'autore, non siamo né razzisti, né egoisti, né insensibili,siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato […] Tuttoquesto è molto triste. Senza nazione e senza Stato non si valontano, si può essere sconfitti anche in una battaglia noncombattuta contro i pezzenti, nel canale d'Otranto", il Giornale,Scarpino, 3/4.È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo"senza nazione e senza Stato", quando per un mese erano stati glialbanesi ad essere descritti così. Marcello Veneziani riprendel'argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco deglispecchi incrociati: "Gli italiani temono ondate di immigratialbanesi non perché siano razzisti o sciovinisti, ma per dueopposte ragioni. Perché vedono gli albanesi come degli italianiaffamati, li temono perché sono la nostra versione primitiva. Etemono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, lamodernità: li spaventa l'arretratezza, la puzza del nostro passato.E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al contrario,perché temono la fragilità del nostro sgangherato sistema Paese,con tante piccole Albanie e disoccupazione. Non si fidanodell'Italia e si sentono una comunità nazionale spappolata", ilGiornale, Veneziani, 5/4.

Albanesi e ballerini

Ma questo ripensamento di sé attraverso l'incontro/scontro conl'altro è esattamente quel che gli albanesi, nel 1997, stavanosistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cioè ilcronico isolamento imposto dal regime - ricordo solo che ilconfine di stato era preceduto da un confine interno che creavauna fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevanoaccedere solo gli autorizzati - si allentò nella seconda metà deglianni Ottanta per crollare del tutto nel 1990. L'apertura delconfronto con l'altro (è noto in questo senso il ruolo giocato dallatelevisione italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anniuna bassa autostima sociale.Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlatoall'epoca di una "…psicosi pessimista che imperversa da alcunianni in Albania. Questa volontà di autodenigrazione,autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno enotte che questo paese è maledetto, non ha un futuro e merita disparire è diventata una moda in alcuni ambienti", la Repubblica,Kadarè, 13/3.Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta,oltre che su uno spietato stato di polizia, anche sull'orgoglionazionale, profuso in quantità massicce dal potere attraverso tuttii canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondodopoguerra sono cresciuti nella ferma convinzione (suffragata dacontinui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e maismentita da una verifica su modelli diversi, invisibili) diappartenere a una Nazione antichissima, fiera quante altre mai edi gente industriosa e capace.

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La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte allanecessità di far i conti con il giudizio degli altri, delle altre nazionidi fronte alla propria. Gli antropologi sanno benissimo quantoquesto giudizio da parte dell'Altro sia un elemento fondamentaleper la costruzione di sé come comunità etnica e/o nazionale(Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingentila nazione albanese si era costruita in quasi totale assenza delgiudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno costituito il contattocon l'Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, main entrambi i casi la possibilità di giudicare ed essere giudicativeniva di molto limitata dall'ideologia inter-nazionalista chefaceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cuiessere valutati, ma piuttosto un Simile. Tanto simile da doveressere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il contatto nonfosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesiavevano un'idea di sé che si basava solo su un giudizio interno,giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima mediaticoe poi diretto con l'Occidente ha letteralmente spazzato via questogiudizio. Il fiero popolo albanese, cui era stato detto che stavacostruendo il Paese più evoluto del mondo, si è reso conto che gliequivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terranon erano più usati in occidente da diversi decenni; che le pochefabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore diqualsiasi concorrente dell'ovest; che insomma la superioritànaturale del popolo albanese veniva messa in discussione dallarealtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990sempre più frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggiall'estero.C'è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo diricostruire un'immagine di sé come popolo che tenga conto delgiudizio altrui. Come è noto "Albania" è un termine primaromano poi bizantino per designare una regione chiamata invecedagli abitanti "Shqipëria". Allo stesso modo, quelli che tutto ilmondo chiama "albanesi" (con le diverse varianti, Albanians,Alvanoi, ecc.) chiamano se stessi "Shqiptarë".Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nelsud-est del Paese. In macchina con noi c'era un ragazzo albanese,Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo conlui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato in Francia.Madin fortunatamente parlava un po' di greco, per cui riuscivamoa comunicarci l'essenziale. I due amici italiani vogliono visitare lamoschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungouna strada fangosa che presto si restringe a sentiero. Forse unchilometro prima della moschea la strada è bloccata da unamacchina in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l'autistaal volante. Potrebbe accostare alla sua sinistra, c'è uno spiazzolibero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficoltà a farmanovra con scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madinguarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il maldestro autista,e lo apostrofa con un "Albanes!" che, dal tono con cui vienepronunciato, significa con tutta evidenza: "Imbranato!". Chiedocomunque a Madin di ripetere quel che ha detto, forse ho capitomale, e lui mi spiega in greco che quello "Odigài san alvanòs",letteralmente: "Guida come un albanese".

Mi spiegherà poi che il termine è ormai d'uso comune, perindicare i fessi, gli incapaci, gli ignoranti. La parola che in tutto ilmondo indica gli albanesi è diventata in Albania un terminespregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i conticon l'Albania, con le immagini delle navi cariche verso la Puglia,degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontareun giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptarë, tantoorgogliosi d'esserlo, fieri della loro storia e della loro cultura,capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi.Ma quest'immagine sbiadita e irrimediabilmente negativadell'identità albanese si è lentamente e parzialmente modificata,almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme lacategorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani vedonogli albanesi) e l'identificazione interna (cioè il modo in cui glialbanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all'iniziodel terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali.Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi eraanche un ragazzo diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di "buonafamiglia" (madre farmacista e padre docente universitario), Klediè appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l'hannoiscritto a dieci anni all'Accademia Nazionale di Tirana, pocodistante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver Hoxhasarebbe morto l'anno successivo, e in Albania diventa sempre piùfacile guardare i programmi della televisione italiana, prima persemplice debordamento hertziano, e poi tramite le parabole ingrado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda latelevisione italiana, e le due attività diventano parte di un soloprogetto, che così oggi viene raccontato nelle note biografiche delsuo sito ufficiale <http://www.kledi.it/Biografia.html>:

Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodocome Heather Parisi, Lorella Cuccarini, Raffaella Carrà,Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballareal loro fianco, in un grande show.

Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, uncaso esemplare di quel che Appadurai (1996) chiama"immaginazione come pratica sociale". Il 12 agosto 1991,"mentre era in vacanza a Durazzo", si imbarca su una delle naviche facevano la spola tra l'Albania e la Puglia cariche di disperatie speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essereespulso dall'Italia quasi immediatamente. Rientrerà più di un annodopo, chiamato da una compagnia di danza di Mantova che avevaavuto il suo nome dall'Accademia Nazionale di Tirana. Passarapidamente alla televisione, diventando nel 1997 primo ballerinodel programma pomeridiano Buona domenica, dove rimarrà finoal 2003. Conosce così Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole consé sia a C'è posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di BuonaDomenica e C'è posta per te è in buona parte adulto, l'audience diAmici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile,e ne decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004Kledi fonda a Roma la "Kledi Academy", una scuola di danza emusica che sta riscuotendo un buon successo e che organizzacorsi annuali e stage estivi. Nel frattempo, è diventato anche

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un attore di successo sia per il cinema (Passo a due, La curadel gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo(Domani è un altro giorno, 2006).In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese"vincente", il primo a raggiungere in Italia notorietà per le suequalità artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale,certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova generazione dialbanesi, disposti a proporre agli inizi del terzo millennio unaforma alternativa di identità rispetto al modello "poveraccio ocriminale" che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamovisto essere particolarmente attivo durante la crisi del 1997.Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana comeveicolo di informazione, sia dall'Albania attraverso le antenneparaboliche, sia una volta giunti in Italia (Mai 2005, p. 558), haconsentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine daarticolare in modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoliprincipali di questo nuovo modello identitario è statoAmici di Maria de Filippi.Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sestaedizione e si prepara per l'autunno la settima) è concepito comeun game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pienoa una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevedeuna serie di sfide settimanali tra i partecipanti. Le sfide ripetuteportano all'eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti inbase al giudizio di una commissione e ai voti telefonici delpubblico a casa, fino alla proclamazione del vincitore assoluto.Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazzaalbanese, Anbeta Toromani, che proveniva dalla stessa scuola diKledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi Anbeta è unaballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma.La stagione successiva (2003-2004) gli studenti albanesi dellascuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri (fratello minoredi Ilir Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo diballo di Maria de Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato cheinfatti vinse quell'edizione, entrando anche lui nel corpo di ballostabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005,ha visto la partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukase Klajdi Selimi. Quest'ultimo è stato sicuramente il personaggiochiave dell'anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua venapolemica, la costante rivalità con Marco, un altro allievo dellascuola che non esitava a fare appelli agli "italiani" perchévotassero lui invece di un "albanese", e con il rispetto profondomostrato verso il pubblico che numerosissimo lo votava da casa,Klajdi ha catalizzato l'attenzione di un pubblico sempre numeroso(i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggiranostabilmente attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finalii voti da casa hanno sfiorato il milione a puntata, anche se latelefonata costava un euro). Anche le successive edizionihanno visto la presenza di concorrenti albanesi, ma ilprogramma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendonella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni(entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo.I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti amodificare in modo sostanziale il giudizio di molti loro coetanei

italiani sull'identità albanese. Se dieci anni fa albanese erasinonimo di immigrato clandestino, criminale, persona pericolosao comunque povera (in Grecia girava allora una terribile freddura:sai qual è la barzelletta più corta del mondo? Turista albanese!)oggi tra molti giovani italiani "albanese" significa anche spirito disacrificio, caparbietà, orgoglio e determinazione. Per molteragazze, poi, è innegabile che l'uomo albanese abbia assuntoconnotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa diKledi e dei suoi connazionali sul piccolo schermo.Questa immagine prodotta dalla televisione italiana ha iniziato ariverberarsi sull'autorappresentazione degli albanesi, in Italia e inAlbania (dove i programmi delle reti Mediaset sonoparticolarmente seguiti). Gli "eroi" delle sfide di Maria de Filippisono intervistati sui settimanali popolari albanesi e proposti comemodelli per la gioventù nazionale. Klajdi Selimi che, con labandana in testa e perennemente a torso nudo (come spessoKledi), dichiara di sentirsi "un gladiatore più che un ballerino"incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi.La messa in scena del corpo come strumento di performance dieccellenza ricorda altri casi famosi: i giocatori di cricket indianinelle squadre inglesi (Appadurai 1996) o i campioniafroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi senz'altronaturalizzati, addomesticati dallo sguardo egemone in funzione diun godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche diriscattare un'identità smarrita se non esplicitamente sottomessa, ingrado di riappropriarsi di una dignità personale che può diventarecondivisa dall'intera comunità di riferimento.Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpopassa sia attraverso la storia "occidentale" della disciplina che siapprende, sia attraverso la genealogia delle proprie "origini":come la "magia" indiana diventa capacità funambolica sul campoda cricket, e come la "naturalità" africana diventa potenzaesplosiva sulle piste di tartan, così l'orgoglio "balcanico" deglialbanesi diventa capacità di disciplinarsi, di rimanere fedeliall'obiettivo senza cedere alle lusinghe del facile successo. Cosìdescrive una giornalista italiana le ragioni del successo di Kledi:

Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, matrasmette l'idea del lavoratore scrupoloso, preparato e devoto alpubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta confatica attraverso interminabili ore di preparazione (SeralisaCarbone, sul sito Leonardo.it).

Questa rappresentazione dell'artista albanese si è rapidamenteimposta come role model: Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altriartisti albanesi sono noti per la loro laconicità - non sempredovuta a una scarsa conoscenza della lingua italiana, ma allaesplicita contrapposizione tra dire e fare - oltre che per la lorotenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati comepersone "serie", che vanno al sodo e non si perdono in smancerieo inutili salamelecchi. Questa versione alternativa dell'esserealbanese oggi sta chiaramente contaminandol'autorappresentazione degli albanesi in Italia, che seguononumerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi

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di ascolto che partecipano attivamente al voto da casa.Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, datoche la mia ricerca è ancora in corso, mi sembra plausibileipotizzare un "ritorno" dell'identità albanese tra gli immigrati inItalia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi avertrovato una risposta alla richiesta del vecchio Dhori didimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovanialbanesi in Italia, è finalmente possibile "ricordare" la propriaidentità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che unisce in unamiscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo comeespressione sociale, la scuola albanese di balletto classico,l'espressione di una virilità estremamente fisica e poco "ciarliera",lo spirito competitivo e l'orgoglio di un popolo "tribale" con leesigenze del mercato televisivo, il sex appeal del body fitness, latelegenia e la capacità di assecondare le fameliche richieste delleaudience più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo delpiccolo schermo. Non vi è, in tutto questo, nulla di chiaramenteorientato al passato (un'opzione impraticabile di fatto per granparte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentirecomune con i frammenti della modernità e della tradizione, senzatemere il mutamento ma accettandolo come parte inevitabile di unqualunque sano processo di identificazione collettiva che nonvoglia sclerotizzarsi nella nostalgia dei bei tempi andati, che permolti giovani albanesi semplicemente non esistono come ricordopoliticamente spendibile sul mercato delle appartenenze.

Conclusioni

L'intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere sualcune forme recenti delle appartenenze e delle identità. La "crisialbanese" del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a ripensarepubblicamente il senso e il ruolo dell'identità italiana, e leesigenze commerciali di un programma televisivo italiano hannocontribuito al riposizionamento dell'identità albanese, per gli

attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredientiinsoliti, confermiamo quindi il sapere degli antropologi, che cidice la natura necessariamente relazionale dell'identità.Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi dicomunicazione di massa e identità collettive, mi sento diazzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattitoteorico) che non vi è alcun rapporto causale diretto trarappresentazione nei media e percezione della propria identità.Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali oballerini dai grandi mezzi di comunicazione di massa perpercepirsi come tali, dato che il discorso dei media entra nelleordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. Inquesto senso, possiamo dire che i mass media paventati da certiapprocci teorici "non esistono", se per mass media intendiamo unsistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente"persuasore", i cui effetti sociali possano essere resecati da quellidella più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson 1991).Al contrario, un'analisi di taglio antropologico sui mezzi dicomunicazione di massa ci rende sempre più consapevoli dellanatura "mediata" della vita sociale in generale (Mazzarella 2004).Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione eaggregazione di significati che non possono esistere se non informa mediata, cioè comunicata: gli stili culturali da cui siproviene, le aspettative sociali, gli incentivi individuali, glihabitus come archivi consolidati e generatori sperimentali dipratiche, e i capitali culturali ed economici di cui si dispone.Dentro questo quadro, agiscono i mezzi di comunicazione dimassa. L'antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare spessoil loro ruolo in nome di un purismo dell'"autentica cultura" chenon aveva ragione di essere. Farebbe altrettanto male, credo, seiniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che èaltrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.

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Bibliografia

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Press, 1991, pp. 34-67; ora in Lisa Parks, Shanti Kumar, editors, Planet Tv. A Global Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, pp. 113-134 [non comprende il paragrafo "Laughing at Chaplin: problems with audience research", alle pp. 50-56 dell'originale].

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Klajdi Selimi, uno dei protagonisti di Amici di Maria de Filippi,ritratto dalla rivista albanese KLAN (anno IX, n. 408, 14 maggio 2005)

[immagine fornita da Paolo De Simonis]

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Il testo raccoglie sei etnografie che affrontano da diverseangolature il tema del "terzo genere" e dei "generi multipli".Distinte fra loro per la prospettiva teorica, per il luogo geograficodi ricerca e infine per l'oggetto stesso di analisi, queste ricerchesono "un contributo a superare l'ipotesi di un unico sistemadualistico di genere presente all'interno delle differenti cultureumane". Attraverso un'analisi transculturale che coglie "un'ampiavarietà di assunti relativi al corpo e a ciò che costituisce il sesso",queste etnografie vanno sotto ai discorsi dominanti che pensano ilgenere come una deriva del corpo biologico e che ordinanodesideri, sessualità, corpi sessuati in un dualismomaschile/femminile.Originale nei contenuti proposti e importante per la fonte disapere che produce, questa raccolta di saggi risponde in modoconvincente ad una domanda: in che modo l'antropologia offre uncontributo innovativo allo studio dei processi che costruiscono igeneri e la sessuazione dei corpi? I livelli esplorati nelle ricerchesono molteplici: i discorsi, le performance, i comportamenti checostruiscono alcuni soggetti come appartenenti ad un generedistinto dal femminile e dal maschile; la costruzione di sé comeun genere che non si polarizza; la posizione che lecomunità/culture considerate attribuiscono al terzo genere; i modicon cui i discorsi - che a seconda delle etnografie sonoreligiosi, sociali, culturali - legittimano o contraddiconol'esistenza di generi multipli e le praticheomo/bi/transessuali. Queste argomentazioni rendonoparticolare questa raccolta per almeno tre motivi. In primo luogo, l'analisi etnografica dei generi e dei processi checostruiscono i corpi sessuati coglie la dimensione soggettiva nellacostruzione del genere al di là dei discorsi egemonici e mostra lospazio di libertà che le persone ritagliano dentro essi.In seconda istanza, le soggettività di genere coinvolte nellericerche rappresentano in modi diversi posizioni riconosciutesocialmente. I gay/bantut che negoziano per la comunità locale larelazione con l'alterità culturale americana, le/i berdache e il loroprestigio, le fa'afafine che hanno un ruolo nei processi dicostruzione del genere, la femminilità fallica dei travestis, le hijrache si identificano in figure religiose induiste, i "maschi sociali"nei Balcani hanno un loro posto nelle comunità considerate.Questo non significa che i saggi eliminano le ambivalenze o le

difficoltà dei processi di gender-crossing o le contraddizioni concui queste soggettività di genere sono integrate nelle società enelle culture. Piuttosto, queste ricerche offrono una particolareanalitica del potere sui generi e sui corpi che considera i discorsiegemonici come i vissuti delle persone. Raccontando leesperienze dei soggetti coinvolti nelle ricerche e del loroposizionamento sociale - che non è necessariamente abietto ofuori dalla norma - queste ricerche mostrano altri modi di esseresoggettività di genere e di nominare il proprio corpo. In altritermini, smontano il paradigma del dimorfismo sessuale edell'eteronormatività, rendendo esplicito il carattere arbitrario elimitato del maschile e del femminile per nominare i corpi.Infine, questi saggi tornano a noi in molti modi. Le etnografiepresentate illustrano come la mascolinità e la femminilità nonsiano una conseguenza del corpo biologico, piuttosto la deriva diun discorso sociale sui corpi e sulle differenze. Di conseguenza,

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Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra cultureFlora Bisogno e Francesco Ronzon (a cura di)

Il Dito e la Luna, 2007

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mostrano come il maschile e femminile siano categorieinsufficienti per descrivere e indagare la variabilità e lamolteplicità dei generi ascrivibili sui corpi sessuati. Nonostantericonoscano come diversi discorsi si iscrivano sui corpi decidendodella loro sessualità, del loro genere e del loro orientamentosessuale, questi saggi hanno il pregio inoltre di cogliere il ruoloattivo dei soggetti nella costruzione del (proprio) genere emostrano come questa identità anche come il prodotto di desiderie motivazioni individuali. I saggi di Samira Nanda e Mark Johnson sono più descrittivirispetto agli altri presenti nel volume.Il primo testo Hjira e Sadhin. Né uomo né donna in India illustracome nell'Induismo siano riconosciute varianti e trasformazionisessuali e di genere, ambiguità che non necessariamente sirisolvono polarizzandosi verso un maschile o un femminile e chetrovano nella religione induista figure in cui identificarsi. Inparticolare, l'autrice descrive la posizione sociale, icomportamenti, le abitudini e gli orientamenti sessuali delle hijra.Le hijra nascono biologicamente maschi e diventano donneattraverso un'operazione di evirazione rituale. La studiosa mostrala particolarità delle hijra: il loro essere né uomo né donna,oppure uomo e donna insieme, fanno rimanere queste figure neltransito senza risolvere la loro appartenenza di genere in uno deidue opposti. Sono un terzo genere, sottolinea l'autrice, ovvero nonsi può comprendere la loro posizione soggettiva e sociale se sirimane intrappolati dentro alla dicotomia maschile - femminile. Il saggio di Mark Johnson Negoziare stile, mediare bellezza. Iconcorsi di bellezza gay/bantut nelle Filippine del Sud analizza isignificati di due tipologie di concorsi di bellezza gay (bantutnella terminologia locale) in tre comunità musulmane: Tausug eSama di Zamboanga City, Jolo. Questi concorsi di bellezza -barangay e Miss Gay International - sono performance rituali incui gay/bantut veicolano per la comunità locale l'appropriazionedi un'alterità "culturale-globale" - americana - che al contempo èdesiderabile e minacciosa. In queste manifestazioni circola unidioma di bellezza che si rifà quasi completamente adun'immagine occidentale (si imitano cantanti come Madonna ostar di Hollywood) oppure star "locali globalizzate", che hannoriproposto cioè - e a questo devono il loro essere famose - modellidi personaggi televisivi americani. Questo ideale di bellezzaamericano desiderato (ilmu' milikan - sapere-potere americano) ècalato in un contesto locale specifico e come tale si affianca ad unaltro modello ilmu' Islam (potere-sapere islamico). Ragionandosul concetto di bellezza come un modo per esporre "il proprioessere donna" e sul corpo del gay/bantut come luogo in cui siaffiancano questi due modelli fra loro contrapposti, Johnson tentadi mostrare come i gay/bantut abbiano un ruolo importante nellanegoziazione in fieri di un'identità musulmana. L'etnografia forsenon è sufficiente per raggiungere questa operazione e alcunipassaggi rimangono inesplorati.I bei resoconti etnografici di William Roscoe Come diventareBerdache. Verso un'analisi unificata della diversità di genere e diAndrea Cornwall Identità e ambiguità di genere fra travestis aSalvador, Brasile hanno il pregio di rendere chiara la posizione

teorica di femministe come Judith Butler dove l'ordine discorsivoanticipa il corpo e la sua sessuazione.Il saggio di William Roscoe parte da ricerche condotte sulle/suiberdache per costruire un modello teorico definito "paradigma deigeneri multipli" secondo cui le differenze fisiche di sesso nonsono necessariamente percepite come bipolari. Le/i berdacheindossavano abiti diversi da abiti femminili o maschili, avevano aseconda dei casi individuali orientamenti omo-, bi- o eterosessualied erano integrate/i nella società. Inoltre, questi ruoli erano,sottolinea l'autore, conseguenza di certe condizioni sociali estoriche, ma anche motivati da desideri individuali e sceltesoggettive. Con queste descrizioni Roscoe mostra come il genereberdache non fosse un ruolo socialmente deviante, né unattraversamento di genere o una intersezione fra i due, ma ungenere separato - terzo o quarto genere - all'interno di unparadigma a generi multipli. E' proprio la prospettiva teoricacostruita dall'autore a rendere importante questo saggio. Roscoetenta di smontare due proposizioni: 1) l'origine del genere è nelsesso/il sesso ha un primato sul genere 2) poiché i sessi sono due,sono due anche i generi. In questa logica, il genere è unareiterazione del sesso e se una variazione è ammessa è solo quellodello scambio, della mescolanza fra i due generi o il transito da ungenere all'altro. Sostenere che il genere è multiplo epotenzialmente autonomo dal sesso - cioè non è una sua deriva -non implica pensare che esistano più sessi fisici, ma che ledifferenze fisiche non sono fisse e che soprattutto sonoinsufficienti a stabilire il genere. Attraverso l'analisi dellarelazione sesso e corpo, il paradigma dei generi multipli mostracome l'ordine discorsivo anticipi il corpo biologico e nonviceversa: le differenze morfologiche sono delle marcature, maquesti marcatori del sesso, già nel momento in cui sono sceltirispetto ad altri per decidere a quale genere quel corpo appartiene,sono conseguenze di interpretazioni sociali e culturali. Il genere,in altri termini, esiste già nello stabilire i segni distintivi di uncorpo, che lo classificheranno come maschile o femminile.Attraverso l'analisi dei ruoli berdache, Roscoe illustra come nontutte le culture riconoscano medesimi marcatori anatomici e comenon tutte le culture riconoscono i marcatori anatomici comenaturali e come tali contrapposti al dominio del culturale. La ricerca condotta a Salvador da Andrea Cornwall nel 1990propone un'analisi delle identità di genere assunte dalle travestis.Le travestis nei loro corpi dotati di seno e di pene rappresentanouna femminilità fallica e non si identificano né con le donne, nécon gli uomini. Cornwall concentra la sua analisi sullaprostituzione di strada e sulle performance rituali legate allareligione afro-brasiliana del Candomblé per mostrare il processodi costruzione dei generi. L'attenzione è posta su due figure diprostitute, una "mascolina" e una "femminile", entrambe inpossesso di pene. Il fine è esplorare il rapporto fra mascolinità epotere e i diversi modi con cui le due figure sfidano la concezioneoccidentale della presenza del pene per definire un corpo comemaschile. La stessa Cornwall sottolinea che l'ambiguità delletravestis pone importanti sfide teoriche all'analisi dei generi. Inprimo luogo, la studiosa critica sia il bipolarismo di genere sia

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l'uso della categoria terzo genere. Il riferimento ad un genereintermedio riconfigura, infatti, una dicotomia di genere eripropone una concezione essenzialista del maschile e delfemminile. Le travestis non rappresentano una transizione da ungenere all'altro, da un corpo maschile ad uno femminile oviceversa: il transito verso un'identità di genere nonnecessariamente viene assorbito da uno dei due opposti e nonnecessariamente va a collocarsi "in mezzo a" due poli. In secondaistanza, Cornwall mostra l'agency dei soggetti nel costruire unapropria identità di genere e nel "fare" il proprio corpo. Il saggioche mira ad evidenziare l'esistenza di discorsi egemonici sui corpie sui generi, illustra altrettanto bene "i processi attivi di creazionedei generi nei percorsi esistenziali dei soggetti" e come i corpi"non sono la mera tela biologica su cui si possono dipingereinequivocabili caratteri di genere". Nel caso specifico, Cornwallillustra come travesti non si nasca ma si diventa e come nelcontesto della prostituzione di strada non sia l'assenza o lapresenza del pene a generare maschilità o a stabilire se un corposia o meno maschile.Nonostante siano trascorsi circa quindici anni dalla suapubblicazione originale, questa ricerca ha il pregio di essereinnovativa per l'oggetto di ricerca che propone, per gli strumentianalitici a cui l'antropologa ricorre e infine per il contributooriginale che offre allo studio sui generi. Il saggio Travestitismo maschile e cambiamenti culturali a Samoadi Jeannette Marie Mageo esplora il ruolo delle travestitefa'afafine - che significa "alla maniera delle donne" - nellacostruzione dell'identità di genere da parte delle ragazze e deiragazzi nelle isole Samoa. Le fa'afafine si prendono gioco dellecategorie di genere grazie alla loro posizione liminale e ambigua,rappresentando così un terzo genere che si posiziona fra ilmaschile e il femminile. L'uomo biologico che diventa donna hail compito di riempire uno iato nella struttura sociale verificatasia partire dalla missionarizzazione ad oggi e che ha modificato sial'erotismo che il ruolo delle giovani donne biologiche a Samoa.Mostrando il ruolo che le fa'afafine svolgono nei processi dicostruzione del genere, Mageo offre una dettagliatarappresentazione delle performance (per lo più coreutiche) edell'importanza della burla nelle relazioni fra ragazzi/ragazzi,

ragazze/ragazze e ragazzi/ragazze nell'acquisizione dei generi. Inqueste descrizioni si affiancano molti livelli analitici che danno alsaggio una sua originalità ma che nell'economia delle pochepagine a disposizione lo rendono a tratti difficile da seguire nellasua evoluzione.Interessante l'ultimo saggio Donna diventa uomo nei Balcani diRené Grémaux che documenta la presenza di "femminebiologiche/maschi sociali" nei Balcani occidentali affiancandouna letteratura etnografica di fine '800 a materiale raccoltodirettamente. Grémaux si concentra su quattro storie di vita al finedi illustrare come esistano due tipologie di "maschi sociali": la"femmina biologica" allevata da genitori e parenti come un figlio;la "femmina biologica" che, dopo essere stata donna ericonosciuta socialmente come tale, ricostruisce se stessa come"maschio sociale". Entrambe queste trasformazioni chiedono unvoto di verginità e la rinuncia al matrimonio e alla maternità.Nella sua ricerca, Grémaux si è concentrato sull'analisi dellasessualità e dell'identità di genere delle persone incontrate al finedi comprendere sino a quale livello i maschi sociali si identificanocon le pratiche attribuite al genere maschile e in quali modi ilcorpo vergine è legato ad un'idea di mascolinità. Questi due livellidi analisi permettono a Grémaux di esplorare come l'identità digenere acquisita non sia in realtà ben definita e non si identifichipienamente con l'idea di mascolinità dell'area geografica da luiconsiderata. L'attraversamento di genere (gender-crossing)produce quindi un terzo genere senza risolversi in un'identitàmaschile piena. Il contributo dell'autore è nel mostrare comequesta posizione di genere intermedia si leghi non alla naturaambigua del corpo biologico, ma all'intersecarsi di due precisidiscorsi sociali: l'alta valutazione nella cultura dei Balcanioccidentali dei "maschi" e della mascolinità, il significatoambiguo attribuito alla verginità e alla vita asessuata. Nei Balcaniinfatti - ci racconta Grémaux - le "ragazze" diventano "donne" conil matrimonio e la maternità; la verginità prolungata nell'età adultasolo consente comportamenti mascolini altrimenti non legittimati,ma marca il confine fra "donne" e "vergini".

Barbara Pinelli

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È una materia incandescente, magmatica, quella offerta al lettoreche, incuriosito dallo spazio celato e dischiuso tra le parole deltitolo, decida di avventurarsi nei sentieri, piani e tortuosi al tempostesso, della vita quotidiana. Si troverà così a ripercorrere le"traiettorie" tracciate da un nutrito gruppo di ricercatori ericercatrici durante un ciclo di seminari, dal titolo generaleModernità e vita quotidiana: tra ordinario e straordinario,svoltosi nei mesi tra febbraio e giugno 2005 presso l'Università"La Sapienza" di Roma, di cui la raccolta di saggi contenuti nelvolume costituisce un primo risultato. Quella che si presenta è una scrittura la cui trama non si dipanalinearmente, frutto di connessioni impreviste e risultato delledifferenti angolature disciplinari attraverso cui lo stesso temadella vita quotidiana è stato osservato. L'effetto è quello di unapolifonia che non vuole ricondurre il tutto ad un'unità armonicama anzi cerca il più possibile di esprimere simultaneamente lapluralità di voci anche, e tanto più, se discordi e stonate. Lasensazione è che l'architettura stessa del volume abbiaincorporato gli insegnamenti di Michel de Certeau offrendosi aduna lettura tattica, che "si sviluppa di mossa in mossa", senzastrategie o pianificazioni, e volendo promuovere ed esaltaremaggiormente, come osserva Paola Di Cori nel suo saggio Artidel fare, discipline e pratiche quotidiane: Michel de Certeau,dopo Foucault e Bourdieu, un'analisi tesa a valorizzare lepluralità piuttosto che una piatta omogeneizzazione delleesperienze alla ricerca di grandi leggi. Di fronte ad una tale sfida intellettuale, data dal voler al tempostesso racchiudere e lasciar scorrere l'essenza in divenire dellaquotidianità, inevitabile risulta, dunque, il ricorso alle metaforeper cercare di dire la quotidianità, definita meravigliosamente daBlanchot, tramite un paradosso, come "l'inaccessibile al qualeabbiamo già da sempre avuto accesso". In questa opera di"espressione" del quotidiano il volume ha il pregio, anche rispettoal panorama degli studi sull'argomento in Italia, di abbandonareasfittiche prospettive monodisciplinari e di mettere insiemediscipline differenti, dalla filosofia all'antropologia, dalle artivisive alla sociologia e finanche alla psicologia, così comeinterventi, nazionali e stranieri, che attingono daorientamenti teorici differenti, quali l 'empirismo, il

marxismo e gli studi culturali. Nella prima parte del libro, incui viene privilegiato un approccio maggiormente teorico, sonotracciate le origini del rapporto tra quotidiano e modernità,inizialmente attraverso l'analisi del pensiero di autori classici,come Simmel e Freud, (rispettivamente trattate nei saggi GeorgSimmel: la vita quotidiana come disseminazione di DavideBorrelli e La psicopatologia della vita quotidiana di Freud.Patologia o "vita quotidiana" di Lesley Caldwell), che intorno aiprimi del Novecento iniziarono a considerare la quotidianità qualeterreno privilegiato da cui osservare la società e comprenderne imutamenti. Le nevrosi, le "ultime cose" diventano segni delquotidiano, rilevanti all'occhio del ricercatore per comprendere ildispiegarsi della società nel suo insieme. Specifica a riguardoPaola Di Cori, citando Foucault, come in ambito storicol'attenzione alla quotidianità sia databile ancora prima, e cioèintorno alla seconda metà del Settecento, quando, a partire dalle

Tra ordinario e straordinario: modernità e vita quotidianaPaola Di Cori e Clotilde Pontecorvo (a cura di)

Carocci, 2007

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riflessioni di Kant sul presente, differenti pensatori iniziarono aproblematizzare la dimensione dell'attuale e ad occuparsene comeambito di riflessione di cui essi stessi erano parte. Nel panorama dei pensatori che intorno agli anni Sessantacominciarono ad occuparsi di vita quotidiana Paola Di Corisottolinea nel suo saggio la specificità del pensiero di Michel DeCerteau che rispetto a chi, come Foucault, pur interessato alla"vita degli uomini infami" si concentra maggiormente sulleprocedure adottate dal potere per assoggettare, sarà invece piùinteressato "a ciò che si sottrae a tali meccanismi" e "a guardarecosa fanno gli esseri comuni, cosa fabbricano i cosiddetticonsumatori nella loro vita di ogni giorno". Il processo di accreditamento del quotidiano come ambitoproficuo di ricerca è stato comunque lento, contrastato e, perquanto oggi goda di grande fortuna, non può dirsi concluso. Ilquotidiano, da sempre ritenuto luogo del triviale e del banale,dominato dalla dimensione privata, assurge in ambitosociologico, intorno ai menzionati anni Sessanta, adun'importanza crescente anche come risposta allo strutturalismoparsonsiano, che poco spazio concedeva alla soggettività delsingolo. Il convincimento, riscontrabile anche in certastoriografia, e ben espresso dalle parole di uno dei massimiesponenti della microstoria, Carlo Ginzburg, è dunque quello di"adottare uno sguardo analitico che guardi le cose da vicino perarrivare a una visione più solida, più profonda dei nessi chetengono insieme la società". Il richiamo è pertanto a coglierequell'attenzione che il dato secondario, apparentemente inutileallo sguardo velato dal senso comune, richiede e a considerare laquotidianità come il "posto dei dettagli", secondo l'efficacedefinizione del saggio di Paolo Jedlowski Il posto dei dettagli.Prospettive di una sociologia della vita quotidiana. Quelloteorizzato da Jedlowski è dunque un ribaltamento di prospettivanell'osservazione sia a livello generale, rispetto a teorie universalionnicomprensive, sia a livello micro, da compiersi attraverso unasospensione dell'atteggiamento quotidiano, cioè del "pensarecome sempre", che permetta quell'inversione nel "sistema dellerilevanze, che dà ordine a ciò che vediamo", e "avvii processi dinuova comprensione e di elaborazione della nostra esperienza". Tutta intrisa di questa tensione verso il nuovo, verso qualcosa ingrado di rompere con gli schemi precostituiti del passato, è lamodernità, attraversata da profondi mutamenti che riguardanocontemporaneamente i campi del sapere e del fare. Tale ansia diricerca è ben esemplificata nelle arti anche dalla nascita delladanza libera, o moderna, descritta nel bel saggio di Patrizia Veroli,Arte e vita quotidiana. L'invenzione della danza moderna; quelladanza libera che agli inizi del Novecento si presenta come unfenomeno rivoluzionario, di rottura rispetto alle codificazionireiterate del balletto tradizionale. La danza moderna èmovimento, è ricerca libera, ed è soprattutto espressività di uncorpo vivo, teso a "mantenere un fortissimo legame con il datoesperenziale, cioè con l'identità di chi lo praticava, con la realtàdelle sue pulsioni e del suo vivere quotidiano". Rilevanza assumequindi il soggetto, non solo per le sue capacità intellettuali erazionali, ma anche per il suo corpo, con le sue dimensioni

percettive e sensoriali. Saranno questi gli elementi cheprogressivamente andranno ad occupare lo spazio di riflessione diartisti e performer, come pure di scienziati e studiosi. Ed è qui, alcentro dei corpi, che la complessità nuovamente si ripresentacome tensione irriducibile tra opposte concezioni, divergenti econvergenti. Se da una parte infatti il modernismo nella danza, edin generale nelle arti, si presentava come una forma di critica allarazionalizzazione e mercificazione che caratterizzava lamodernità e le pratiche disciplinanti sui corpi, dall'altraeffettuava, su un binario parallelo a quello della scienza, unostesso percorso alla ricerca di nuove concettualizzazioni suifondamenti fisici e dinamici del corpo. Le scoperte della scienzaentrano a far parte delle sperimentazioni artistiche, si inizia adanalizzare il movimento del corpo "nelle sue componenticinetiche (in quanto flusso), dinamiche (per il suo contenutoenergetico), ritmiche (rispetto al tempo) e metriche (riferite allospazio)". Ciò che le differenzia sono però le finalità; se infatti perla scienza la ricerca e la conoscenza erano tese ad un maggiorecontrollo sui corpi, per le discipline artistiche lo scopo era, alcontrario, di liberare i corpi da codici comportamentalipredeterminati. È dunque all'interiorità del soggetto che tendono,e proprio a quel livello lavorano creativamente, usando il corpocome specchio di tale interiorità. Si cominciano pertanto adindagare le relazioni tra corpi e psiche, tra corpi e spiritualitàarrivando a teorizzare, così come ben espresso dalle parole diFrançois Delsarte, maestro di retorica teatrale, che "ad ognifunzione spirituale corrisponde una funzione del corpo. Ad ognifunzione del corpo corrisponde un atto spirituale". Nella seconda parte del volume l'attenzione si sposta sui "nuovisoggetti" che con la modernità acquistano maggiore visibilitànello spazio pubblico, pur continuando a parlare e ad agire aimargini di tale spazio. Bisogna a questo riguardo sottolinearecome a partire da bell hooks - che del margine "fa l'elogio",volendo con tale espressione rivendicare una specificità diesperienza e di vedute di chi non potendo considerarsi parte diquel centro da cui i margini erano stati tracciati, non aveva avutovoce nella costruzione della storia con la S maiuscola- e da moltialtri pensatori e pensatrici riconducibili alla galassia dei "post-colonial studies", è seguita in differenti ambiti accademiciun'attenzione a tali "nuove" soggettività ponendole al centro diricerche volte a ricostruirne lineamenti e biografie. Nei saggivengono presentate ricerche etnografiche in cui è il senso delquotidiano ad essere ricostruito, andando a scoprire cosa sinasconda dietro il normale svolgersi della vita quotidianaall'interno di setting ordinari, "riempiti" da tali soggetti, dove,imprevedibilmente, si aprono nuovi spazi di significato. Così ènell'articolo di Francesco Ronzon sugli incontri omosessuali inuna sauna-palestra nell'Italia del nord-est, come pure in quello diFranca Balsamo Anziane e "badanti". Spazi domestici tra curae intercultura, sulle relazioni di cura, presenti all'internodel servizio di cura, tra "badanti" e anziane nel chiusodello spazio domestico. Anche i giovani vengono presi ad esempio di quella novità e diquella eccentricità, o "eXtraordinarietà", come più volte

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sottolineato nel saggio Culture eXtraquotidiane di MassimoCanevacci, espressione di una soggettività ibrida e nomadica,difficilmente catturabile attraverso l'ordinarietà del linguaggiocomune. Da lì la scelta dell'autore di sperimentare un linguaggio,quasi un manifesto metodologico, volutamente informe erapsodico, a tratti criptico, per il timore, e la non volontà, dicongelare con una definizione "i tratti disordinanti delleproduzioni giovanili sterminate".Carmen Leccardi, nel saggio Generazioni di donne italiane neltempo. La reinvenzione della vita quotidiana, indaga ladimensione temporale con una prospettiva di genere egenerazionale, sottolineando la centralità del movimento delledonne nella rivalutazione del quotidiano come "punto di partenzae punto di arrivo nella trasformazione delle relazioni di potere" enell'opera di disvelamento della sua ambivalenza, del suo essere,cioè, al tempo stesso luogo di ripetizione rassicurante di certiassetti sociali come pure di mutamento. Nella terza parte un approfondimento specifico è riservato al tema"famiglie e vita quotidiana", (sviluppato attraverso gli interventidel gruppo di ricerca composto da Marilena Faticante, AlessandraFasulo, Pål André Aarsand e Karin Aronsson e diretto da ClotildePontecorvo), attraverso la presentazione di alcuni risultati di unaricerca internazionale, di tipo etnografico e discorsivo, sulla vitadi famiglie di classe media residenti in Italia, Svezia e USA,avente lo scopo di comprendere come queste affrontano erisolvono i problemi della vita quotidiana: a livello diconciliazione tra sfera privata e sfera lavorativa, nella cura deibambini e, infine, nel normale svolgimento delle routine familiari. Punto di partenza dell'indagine è la constatazione di come lefamiglie siano state prevalentemente studiate a livello macro,attraverso indagini demografiche, dando informazioni suicambiamenti che le hanno attraversate più che sviluppando una

comprensione del funzionamento interno e "delle forme di"appropriazione" realizzate dai suoi membri nei riguardi di talicambiamenti". Da lì la necessità di "guardare" la famiglia con unocchio interno, offerto dal metodo etnografico, e con l'approccioanalitico della psicologia discorsiva in grado di valorizzare laprospettiva dei soggetti coinvolti considerandoli come"partecipanti attivi alla costruzione del significato nel discorso enell'azione sociale".Il pregio di tale lavoro risiede nell'aver voluto analizzare inprofondità la sfera domestica, denaturalizzando quellarappresentazione comune che la vede come "luogo d'elezione delquotidiano familiare" e ne sottolinea principalmente, dandoli perscontati, gli aspetti più "banali" e routinari. Ma è proprionell'ambito domestico, come sottolineato nello stimolante saggioCompiti a casa. Routine, estetica sociale e ambiguità della vitaquotidiana di Ben Highmore, che si registra "la centraleambiguità della routine, la sua doppia natura di imposizionelimitante e consuetudine rassicurante". È proprio nella routine cheHighmore trova il senso ultimo della vita quotidiana,riscoprendone una profonda natura estetica in grado di contenereed esprimere l'indicibilità della sua ambiguità. Routine ed esteticarisultano così per l'autore intrinsecamente legate poiché l'estetica"si è occupata proprio di ambiti dell'esperienza difficili dainterpretare" e la routine, tenendo in sé simultaneamente oppostistati mentali di consapevolezza e disattenzione, sfugge ad unacomprensione meramente razionale. Su questo passaggio ilsaggio si sviluppa aprendo ad una nuova dimensione sensoriale epercettiva a cui necessariamente attingere, anche come studiosi,per svolgere quella delicata opera di "espressione" dell'esperienzadella quotidianità.

Caterina Satta

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