antonino magrì

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Antonino Magrì Edizioni MarranzAtomo

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Antonino Magrì

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Antonino Magrì

Edizioni MarranzAtomo

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Antonino Magrì

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A tutti coloro che mi vogliono bene

e a chi si sente migliore di me;

alle persone a cui sono caro

e a quanti vorrebbero che io sparissi dalla scena;

ai puri di cuore

e agli intellettuali che snobbano per professione;

agli umili

e ai pieni di sé;

ai pochi Socrate

e ai tanti Sofisti;

ai rari poeti veri la cui legge è la modestia

e ai numerosi e convinti Dante Alighieri;

a tutti costoro,

perché possano ritrovarmi e ritrovarsi nei miei sentimenti

o ipocritamente guardarli con cipiglio o non guardarli affatto,

dedico il canto della mia anima

con amore,

e solo con amore.

Antonino Magrì

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Note introduttive Al confine tra il buio e la luce Con Antonino Magrì, amico e poeta, ci accomunano il periodo dei nostri rispettivi esordi e il “mentore” Santi Correnti. Ci affacciammo nel mondo della rinnovata poesia siciliana

l’entusiasmo e i sogni tipici dei giovani, pubblicando il sottoscritto nel 1985 “Canti di Petra Lava” e Magrì nel 1986 “Canzuni Muti”. A presentare i nostri libri fu il prof. Santi Correnti definito da tutti il “defensor Siciliae”. In quel periodo Catania brulicava di Circoli letterari siciliani, e davano linfa al dibattito culturale poeti e studiosi di grande spessore. Antonino Magrì, nonostante il vento soffiasse in poppa alla nave del rinnovamento, scelse di scrivere poesia in metrica tradizionale, prevalentemente sonetti e ottave. L’ossimorico titolo di “Canzuni muti”, corredato da splendidi quadri del pittore Vittorio Ribaudo, suo vecchio e inseparabile amico, pose Magrì all’attenzione dei poeti che in quel periodo erano sentinelle e baluardi della poesia siciliana tradizionale. Ogni uomo sceglie la propria strada ma ad imboccarla è aiutato sempre da un altro uomo o da una circostanza. Se, per quanto mi riguarda, l’incontro con Ignazio Buttitta, che valorizzò il mio “Canti di Pietra Lava” con una sua nota e la frequentazione del Circolo Arte e Folklore di Sicilia hanno favorito la mia strada verso la poesia del verso libero sin da subito, per Antonino Magrì l’incontro determinante fu quello con Antonino Bulla, che egli definisce “padre spirituale”. Il poeta-falegname lo prende per mano e lo introduce nel mondo della poesia tradizionale e nel Centro d’Arte e Poesia Antonino Bulla. Il dibattito è forte. Un dibattito iniziato nell’immediato

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secondo dopoguerra (e che non si è ancora del tutto concluso) e che negli anni Ottanta stava mettendo in minoranza e fuori gioco la poesia tradizionale. Ecco cosa scrive Graziosa Casella (Catania 1906-1959) sul n. 10 del “Lei è Lariu” del 1956 davanti al dilagare (e alla moda) del verso libero e della “guerra” all’endecasillabo: Oh! bedda Puisia ’nta quali manu cascasti e quali sorti avisti ria! a vidiri li sfregi ca ti fanu vugghi lu sangu e l’arma s’angustia! Sti barbari vinuti di luntanu vili mircatu ficiru di tia lu mantu e la curuna ti livanu ristasti nuda e senza signuria! Di questo erano convinti tutti i poeti dell’Unione Amici del dialetto e del Lei è lariu, innamorati del parnassianesimo della poesia siciliana che aveva vissuto, e viveva fino a quel periodo, momenti di classica gloria. L’apice venne raggiunto col grande Vincenzo De Simone, definito il “D’Annunzio di Sicilia”. Di certo il rinnovamento non avrebbe spento e/o offuscato la forza della Musa Siciliana, né essa avrebbe perso corona e scettro, ma agli inizi non tutti compresero, contribuendo alla nascita di vere e proprie battaglie letterarie. Tuttavia, il nostro autore incoraggiato dal Bulla e dal suo entourage, stimolato dal Correnti e dal Ribaudo, nel 1989, pubblica “È l’anima ca sona!”, una silloge dalla raffinata edizione nella quale appaiono, quasi timidamente, alcuni componimenti in verso libero. Le sue poesie hanno un proprio tono evocativo e spesso lirico ma, nonostante sentisse la seduzione della poesia nuova, continua con fedeltà e obbedienza per la strada della tradizione.

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Ogni scelta ha un costo. Magrì, a mio avviso, non ebbe riconosciuto del tutto il suo valore né fu compresa la sua cifra poetica. Per dimostrare, invece, come fosse attento alla evoluzione della poesia e al dibattito sulla lingua e sul dialetto, nel 1991, dopo la morte del Bulla avvenuta il 14 gennaio 1991, fonda il “MarranzAtomo”, Circolo Culturale che si aggiun-se al “Vito Marino”, all’ “Arte e Folklore di Sicilia” e al “Vincenzo Paternò Tedeschi” che della poesia siciliana diventano vere e proprie fucine. Nel Circolo di Magrì passano poeti, scrittori, artisti, musi-cisti di rilievo ma viene data voce anche ai “poeti della domenica” che hanno da sempre rappresentato l’humus e lo zoccolo duro della tradizione siciliana. In questo contesto Magrì si arricchisce e cresce e matura la sua visione del mondo e la sua capacità poetica rimanendo, però, ancorato alla poesia in metrica che le “esce” spontanea. Nel 1996, infatti, pubblica “Setti spasimi d’amuri” nella quale si coglie la presenza dei suoi maestri tra i quali il Bulla e il Nicolosi Scandurra. Poi, un lungo periodo di silenzio. A fuoco apparentemente spento; dopo la scomparsa di tanti maestri; dopo il ridimensionamento del “MarranzAtomo”, Antonino Magrì prova una inconscia e intima sensazione di libertà. Si ferma e riflette sulla sua vita di uomo e di poeta: fa le dovute considerazioni. Egli, nonostante abbia un curriculum ricco di eventi, premi e attività, si ripresenta ai suoi lettori con un libello delicato per cercare di capire cosa egli sia stato; cosa egli abbia dato; cosa abbia ricevuto. Lo fa in punta di piedi, quasi fosse un debutto (e forse lo è) e pubblica “Spisiddi”, cioè scintille. Sembra un debutto perché finalmente ci presenta una silloge di poesie scritte tutte in versi liberi, si è convertito? Forse vuole dimostrarci che sa usare anche il verso libero (più

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difficile di quello in rima) così come fece, cimentandosi al contrario, Enzo D’Agata con “Zattira contraventu”. Non si tratta di scintille appariscenti ma di piccole faville di un fuoco che stenta a spegnersi. Se Alfredo Danese tentava di coprire con le mani un fuoco che rischiava di spegnersi “Non vogghiu ca s’astuta”, Antonino Magrì desidererebbe un leggero soffio di vento che faccia “svampare” quel fuoco non ancora sopito, il fuoco della poesia: Eppuru / ci abbastassi la voria / o ’n muscaloru lentu / pi sdirrignari l’accupu di la cinniri / e arrussiari lu cravuni / ca cuva / e non s’astuta. “Spisiddi” ci richiama anche alle “falene” così come Piccitto riporta nel suo enciclopedico vocabolario; ai bambini vivaci, alla fosforescenza marina. Qualunque sia il richiamo, siamo davanti ad un lemma che permette di vedere la notte i propri effetti: le scintille sono più luminose la notte, le falene sono piccole farfalle notturne, la fosforescenza marina si avverte al buio. Ci troviamo, infatti, al confine tra il buio e la luce; Magrì si trova sulla linea di demarcazione tra il suo passato e il suo presente: Non c’è chiù focu ’nta lu me’ cufuni, / scattiunu ogni tantu li spisiddi / pi dirimi cu’ fui, / poi tuttu agghiommira… Ripercorre la sua esistenza che si riavvolge come in una moviola e si accorge che: fu duci lu sdillìriu, / vintagghiu / c’annurvau lu me’ sdirrupu. Poi, raccoglie le sue forze e pensa di girare un nuovo film della sua vita e ci esorta: Accura dunca! / Jisa la testa e ripigghiti la vita, / pirchì si lassi ca lu suli affara a tunnu / lu spirdu ti fa servu, / lu suli fa patruni / e azzicca l’ugna! Siamo davanti ad un nuovo e autentico Antonino Magrì. Catania, 6 settembre 2014

Alfio Patti

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Uno stile di scrittura tutto suo, inconfondibile Di Antonino Magrì ebbi a scrivere nella mia “antologia

seconda edizione della mia Grammatica sistematica della lingua siciliana. Di lui mi stupì la sua capacità di piegare il verso al suo volere con una naturalezza straordinaria, saltando senza fatica da una s uttura me ica all’altra, dal sonetto alle quartine, dalle terzine dantesche all’ottava, dalle sestine alla canzone, inventando addirittura forme metriche nuove, come le sue quartine a rima incatenata. L’illustre prof. Santi Correnti ebbe a scrivere di lui: «Entra di pieno diritto nella migliore tradizione nostrana, cimen-tandosi col sonetto e con le sue ferree regole, invece di incamminarsi per la facile scorciatoia del verso libero, e che adopera chiarezza di espressione, sicurezza di rima e luminosità di immagine». In questa nuova silloge, però, Antonino Magrì sorprende tutti, compreso me, perché si

enta col verso libero, ed il suo verso libero non è affatto una “facile scorciatoia”, anzi, pur mantenendo inalterata la sua delicatezza di espressione e la profondità del suo dettato, ci regala un verso libero denso e musicale in uno stile di scrittura tutto suo, inconfondibile, e ci dimostra una capacità di sintesi risco abile solo nei grandi poeti, e Antonino Magrì lo è. avevo dubbi, quei piccoli difetti riscontrati nella sua scrittura siciliana in un lontano passato sono spariti, l’intenso studio specifico fatto dal Magrì nel corso della sua carriera artistica, certamente lo rivela oggi

preparati e qualificati. Siracusa, 9 settembre 2014

Arturo Messina

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Liricità e contenuti Dopo Canzuni muti, del 1986, È l’anima ca sona!, del 1989, ambedue con prefazione di Santi Correnti, Setti spasimi d’a-muri, del 1996, con prefazione di Antonino Rampulla, in-frammezzate da numerose altre esperienze nell’ambito dell’associazionismo e del teatro, Ninni Magrì è oggi, con Spisiddi, alla sua quarta silloge (interamente) dialettale siciliana. Magrì è un Siciliano d.o.c., un cultore del dialetto siciliano, un veterano della poesia dialettale siciliana, circostanze, del resto, ampiamente documentate nella doviziosa nota bio-bibliografica che correda questo suo lavoro. Molteplici i suoi impegni quale promotore culturale e fra essi: la fondazione, nel 1991, dell’Associazione Marran-zAtomo e la direzione dell’omonimo periodico, i seminari nella Scuola pubblica sulla poesia, la proficua collaborazione con artisti di altre branche, una per tutte quella col pittore Vittorio Ribaudo. Ciò premesso, ci preme, però, soffermarci un po’ sulla sua odierna prova. I diciannove brevi testi che compongono il florilegio ci danno d’emblée la misura e della sua scelta e della sua cifra: la scelta di proporre un numero risicato, frutto (c’è da credere) di una severa selezione di componimenti, che mira alla qualità piuttosto che alla quantità; la cifra essenziale, concisa, monda di fronzoli e di sbavature. Scontata la curatissima veste ortografica, consolidata la padronanza dei ferri del mestiere, ulteriormente suffragata la perizia lessicale, due sono, a nostro avviso, gli aspetti che prioritariamente vi risaltano: la diffusa liricità, della quale seguiranno a breve taluni esempi; i contenuti della scrittura, che guardano principalmente (lo si appura sin dai titoli o da taluni degli incipit: Quantu viti s’hannu a ’stutari / pi farimi

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campari; L’omu è tuttu / e lu cuntrariu di tuttu; Ummiri semu; Lampedusa, 3 ottubbri 2013; Sugnu stancu di paroli a sgaleggiu) all’esistenza, nelle sue variegate articolazioni; e il termine “vita”, infatti, è fra i più reiterati dell’intera raccolta:

ripigghiti la vita; la vita si civa di vita; lu ciauru / di la vita; la vita è ’n jocu; lu duluri di la vita; pi vìdiri l’arbura / non ci abbasta la vita; ’na raggera acculurata / ca sbria la vita; ammanta lu jornu di luci / pinzeri di vita; ’sta linfa di vita / ca scurri; la vita è ’n ciumi ’n china.

E si diceva della liricità:

lu spirdu di la fami / allonga la so’ ummira / e va circannu scantu comu civu; ridi, finu ca è jornu, / pirchì ummiri semu, / mancìmi di la notti; oggi / lu mari scrissi ancora / l’occhiu niuru di l’omu; ’na musica sdirrignau lu scuru ’ncatramatu / ca mi sirrava l’anima; sdivaca silenziu / e vesti la luci di scuru; la sira / lenta scinni / cu la so’ cutra carrica di scuru.

Chi miraculu Catania di notti! Ninni Magrì compiutamente ne fa parte. Trapani, 15 Settembre 2014 Marco Scalabrino

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Una ricerca continua della luce ... tutto il lavoro è molto bello, alcuni passaggi sono delle perle (il cielo ti ha inghiottito, Madre). Ma ciò che salta agli occhi immediatamente è la tua insistenza sulla luce e sul buio. Tutta la silloge si gioca su questo contrasto. La cosa mi sorprende positivamente, c’è in te una ricerca continua della luce che ti caratterizza ... Monza, 18 settembre 2014

Enrico Caltagirone Una poesia intimistica Una plaquette di 19 testi poetici in lingua siciliana con traduzione in italiano a piè pagina, che mettono a nudo l’anima dell’autore “Jumenta ’nsarvaggiuta” ma anche “ciumara” bisognosa di ricevere e dare amore. C’è, in tutto il travaglio interiore, un bilancio di vita dove “li spisiddi” come colpi di luce illuminano momenti di passato che appare spento quando invece cova in fondo alla cenere il desiderio di un alito che faccia riaccendere la speranza. Nei rimpianti il poeta cerca invano “sbriu di luci”, ma la vita scorre come un fiume portandosi via il profumo dell’esistenza e “...l’acqua s’allavanca di li sdirrupi, / agghianca, sgriccia, rumpi, fa mattia … / (… l’acqua precipita dai dirupi, / s’imbianca, spruzza, rompe, fa cose da pazzi…). Molto belli questi due endecasillabi, dove il climax la fa da padrone tenendo il lettore col fiato sospeso e mettendo in risalto le capacità tecniche dell’autore. E ancora il nostro vorrebbe anche solo la luce fioca di una

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fessura, “La luci di ’na ciacca”, per guarire i morsi della delusione e trovare un barlume di speranza, ma in “Surruschi” il pessimismo avvolge la sua anima e si con-vince che non basta una vita per raggiungere “la luce” anche se talvolta la nota di una musica, “A la ’ntrasatta ’na musica”, può colmare il cuore e far volare oltre le nuvole, dimenticare il rischio di precipitare nel profondo abisso del dolore, “Sdillìriu”. Il suo cuore semplice, per certi versi romantico, quando s’infuria anela a quella carezza, “ ’Dda carizza”, che potrebbe domarlo, la carezza di sua madre, ma l’aspetta invano perché “… t’agghiuttiu lu celu, Ma’…” ; quindi a che servono le parole, “Paroli a sgaleggiu”, parole vuote, il poeta è stanco di discorsi inutili che non risolvono le tragedie della vita. Io intitolo addirittura un libro sull’argomento, “Datemi le parole” dico, perché un poeta ha bisogno di parole vergini, di parole nuove, di parole pregnanti di significati. Nei vari contrasti tra bene e male, tra essere e avere, tra vivere e vegetare, tra essere o non essere, il nostro ha momenti di volo; “Danza”, momenti dove anela fortemente all’amore, all’amore non solo universale, ma all’amore fisico, carnale, dove i brividi sulla schiena, i baci che stordiscono, sono danza, sono linfa che dà vita, che incanta, che fa sognare. Belli i versi della poesia “Danza” e in particolare i due novenari con le immagini che richiamano: “… i ròcili arrizza-carina… / … ’ssa vucca ca vasa e mi sdona…” Il Magrì poi da buon siciliano sa che “Bon tempu e malu tempu non dura sempri” per cui nella poesia “Triûlia lu celu a stamatina”, riesce a trovare in una giornata grigia, specchio delle contrarietà della vita, dove talvolta tutto sembra perduto, la forza di vincere la paura, certo che prima o poi dovrà tornare la primavera e con essa il bel tempo. Il poeta si guarda anche d’attorno e in una Catania di notte osserva il continuo fluire, il rinnovarsi della vita.

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A Lampedusa, “Lampedusa, 3 Ottubbri 2013”, il mare si fa testimone delle inspiegabili, disumane atrocità, di cui è capace l’uomo, senza capire che tutti siamo ombre, “Ummiri semu”, e che si dovrebbe ridere finché c’è la luce, finché si può, perché tutto alla fine diviene cibo per la notte eterna. Vivi, ci dice il poeta, vivi dunque le stelle, “Li stiddi”, se hai la fortuna d’incontrarle e poi abbi Fede. “Successi ’n jornu”. Fede in Dio, fede nei doni che sa offrirti, come il profondo respiro della Poesia. Fede anche quando ci sono leggi oscure che non puoi capire, “La liggi chiù scurusa”, anche quando la contraddizione tra torto e ragione, tra verità e non verità, resterà l’eterno conflitto dell’umanità, “Antinumia”. Ed infine un avvertimento: “Accura”. Attento uomo perché distruggendo, distruggi te stesso e allora finirà che “… lu suli azzicca l’ugna …” In definitiva una poesia intimistica quella di Antonino Magrì. Versi consapevoli, maturi, dove si denota la padronanza del poeta nella ricerca della qualità della parola, delle immagini particolari. Sapiente l’uso di figure retoriche e in particolare del climax col quale crea gradazioni che riescono a portare il lettore all’apice delle proprie emozioni, con dolcezza ma anche con forza. Poesia infatti è anche questo, far entrare per le vie del proprio mondo umano e poetico facendo scoprire quelle scintille che scoppiettano sotto la cenere e che ritornano ad accendere l’anima al primo alito di vento. “Spisiddi” non solo hanno acceso l’anima di un poeta ma riescono a scaldare anche quella di chi ne scopre la luce. In bocca al lupo anche per questo suo lavoro. Con amicizia Catania, 26 settembre 2014 Lia Mauceri

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Siddu Siddu vidi li spisiddi ca ’ntra lu scuru t’ammustrunu la strata, o la faidda d’un pinzeri ca strica a li palori, e non vidi lu suli ca t’acchiana ’n coddu, non è vita … Allonga li manu, saziiti di suli, ca ’na spisidda, comu nasci, tempu nenti mori … Se - Se vedi le scintille / che nel buio / ti mostrano la strada, / o la favilla d’un pensiero / che cozza alle parole, / e non vedi il sole / che ti salta addosso, / non è vita … // Allunga le mani, / saziati di sole, / che una scintilla, / come nasce, / in un niente muore … Catania, 19 ottobre 2014

Salvatore Carlucci Una silloge viola crepuscolo Se volessi dare un colore a questa silloge, userei il viola crepuscolo di una stoffa s a che scivola, segna con garbo ogni piega del corpo, quasi non la senti addosso, ma, a toccarla attentamente, ne avverti ino i punti delle cuci-ture. Così appare e così è, quest’ultima “creatura” di Magrì: tanta eleganza di scrittura che rivela il forziere di una sofferta

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introspezione, un raccogliersi in sé, una forte carica di esperienza e meditazione sul proprio percorso di vita ed ecco, ad un tratto, la seta trasformarsi in una ruvida tela, che può graffiare e pungere. Credo succeda ad ogni artista quando giunge l’età dei bilanci e si avverte, acuminato come un chiodo, il senso di ciò che siamo e non siamo riusciti ad essere, che abbiamo fatto e non siamo riusciti a fare, il rimpianto per chi e cosa abbiamo perso nelle pieghe di una vita che, troppo spesso, ha pensato e agito come se noi, il nostro volere, i nostri sentimenti, non contassero per niente, una vita gestita in nostra vece che, nella sua pesantezza, è tuttavia insufficiente a chiarirci dubbi e cancellare incertezze: “Lu puzzu è troppu funnu / e pi vìdiri l’arbura / non ci abbasta la vita.” Scrittura pulita, in una cifra stilistica sobria, priva di quegli orpelli e svolazzi che, troppo spesso, avviliscono la nostra espressione dialettale, consapevole e matura, mai strabordante, né disseccata, ma sempre incisiva e capace di superare il momento astrattamente lirico e struggente e trasformarlo in tensione. Un discorso poetico ampio che attraversa il distendersi di una personalità che vive il contrasto “io-realtà”, “io-io” senza infeconda rabbia, ma con misurata sofferenza, talvolta spinosa rassegnazione: “ ridi, finu ca è jornu, / chì ummiri semu, / mancìmi di la notti.” Magrì è artista di lungo corso e comprovata esperienza, pertanto tecnicamente possiede tutti i mezzi che fanno di uno scritto, ovviamente supportato da genuina ispirazione, una poesia, evitando la trappola del “piacioneggiare”, con rimette, vezzeggiativi, leziosaggini a vario titolo che mortificano e tengono in sottordine la nostra dialettalità, al cospetto di altre. Metafore, frequenti enjambements, sinestesie, anafore, scarti semantici, misuratissimo uso di punteggiatura, preziosa

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brevità, aggettivazione sobria, conoscenza delle regole, coerenza, ricchezza lessicale, profondo rispetto per la materia trattata: POESIA, una signora, “Gnura Puisia”, come la chiama Salvatore Camilleri, esigente e poco incline al perdono verso chi ne offende la natura e Magrì definisce “Matri”, poesia che si insinua nell’anima, ti fa sentire parte viva e pulsante dell’universo, vento, mare, cielo, amalgama di un disegno superiore, musica divina, tutto ciò è corredo e nucleo pulsante del “poiein” del Nostro. Confesso che, mentre da un po’ la dialettalità non ha avuto più grandi echi in me e, pertanto, ho scritto poco o nulla, dedicandomi all’Italiano, ho provato, leggendo la silloge di Magrì, un moto di gioia, come quando s’incontra una persona cara che, da tempo, non vedi. In sole diciannove ( le ho contate più volte, sono proprio diciannove) poesie, Magrì riesce a spaziare in ogni campo, dalle considerazioni amare su se stesso e sulla parola, “vacanti”, la qualifica peggiore che le si possa attribuire, su quelle parole che fanno rumore e non possono impedire che scenda su di lui, su di noi tutti, la sera “cu la so’ cutra carrica di scuru”, su, su fino alla tragedia dei migranti, che è emblematica di sconnessione del tessuto sociale e disinte-grazione dei valori umani, passando dall’acuta nostalgia per la carezza della madre, che non c’è più, con un verso duro e grondante di dolore: “ T’agghiuttiu lu celu ”, terribile quell’ “agghiuttiu”, a moti di speranza e aperture improvvise a toni d’amore di un erotismo pulito e tenero: “’Sta linfa di vita / ca scurri e poi scasa.”. Non ci sono magniloquenti messaggi, lenocinii di forma, facile populismo, linguaggio e immagine si abbinano per dare vita ad una ispirazione genuina che si trasmette con immediatezza, concretizzandosi in versi dalla ricercata semplicità che non toglie mai pathos alla scrittura, anzi, ne impreziosisce l’essenza.

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Il poeta, per nodale peculiarità, non può essere monolitico, egli è pieno di dubbi, avverte sulla propria pelle contrasti, è vibratile e sfaccettato, vive le proprie oscillazioni, tal-volta

Ecco, infatti, nella poesia di apertura che dà il titolo alla silloge: “Spisiddi”, dopo un avvio malinconico, baluginare la speranza che le faville, li spisiddi, appunto, si trasformino in carbone rosseggiante, soffocato, ma pronto a scaldare un “cufuni” freddo, con l’aiuto di un soffio di vento o un colpo di “muscaloru”. Poi ancora in “Luci di ’na ciacca” un chiaro “M’abbastassi la luci di ’na ciacca” ripetuto all’infinito con i puntini di sospensione, per spazzare via il dolore, credere, sperare. È una forma di altalenante autoanalisi, l’espressione di una sorta di dicotomia che lo porta, ora, a disegnare un quadro quasi apocalittico, fatto di folgori che inceneriscono “rinnini senz’ali”, icastica e aspra immagine, terra che frantuma vento e, subito dopo, affermare che una musica riempie il cielo di speranza e si insinua nella sua anima per colmarla di luce. In “Antinumia” il Magrì è in un momento di consapevolezza, avverte i contrasti che gli si agitano dentro ed è mentre prosegue la sua personale ricerca di vita, percepisce sete d’immenso, anela a diventare parte integrante dell’Universo, elemento, mare, vento, frammento d’infinito, che gli si spalanca davanti la porta magica della poesia. Quello che colpisce è il fatto che, a parte un accorato accenno alla madre e ad un amore, inteso come “eros”, Magrì sia sempre solo, solo a cercare nella sua psiche, nelle sue emozioni, nelle sue incertezze, solo anche davanti ad un Dio, che chiama “Patri”, ma la cui legge non comprende e che non gli dà pace “non mi duna abbentu”: “la vita si civa di vita”, verso che lascia col fiato sospeso per l’enorme

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peso specifico che esprime. Messaggio, sì, ci sono messaggi, espressi con stile, quasi mimetizzati affinché non risultino pesanti, ma uno, esplicito e chiaro, il poeta lo manda: “non essere debole, non avere paura.”, “Jisa la testa e ripigghiti la vita”, sii consapevole di ciò che sei, non farti straziare dagli artigli di nessun padrone. Ritengo, tuttavia, che il Magrì non si sia messo a comporre per mandare messaggi, ma per farci varcare la soglia del suo mondo, dove si avvicendano luce e buio, speranze e delusioni, ma forse nessuno di noi l’attraverserà pienamente, lui, lui, da solo, sarà al cospetto delle stelle: “’Nta ’ddu sbrilliu d’immensu… / fu ’n lampu / e attornu / chiù nenti, / sulu ju / e li stiddi… li stiddi…” Casa Santa Erice, 7 novembre 2014

Flora Restivo È la voce del poeta-vate, filosofo, sacerdote C’è una decadenza storica che attanaglia la vita di interi popoli in determinati tempi e luoghi e c’è una decadenza di singoli uomini che appartiene allo spirito e alla filosofia di ognuno di noi. Poi c’è la decadenza dei poeti, quello stato dell’anima che minimizza ogni accadimento, lo abbassa al livello della quotidianità e lo assimila alle cose comuni, semplici e povere. Da questa dimensione – stato di malessere e di disillusione – si alza la voce poetica di Antonino Magrì, poeta catanese che vive ad Augusta. Voce sommessa, sussurrata, lenta nel ritmo e nel tono, preziosa nella sua saggezza, affabile nel suo colloquiare quasi paterno. È la voce del poeta-vate, del poeta-filosofo e del poeta-sacerdote. Entro questi termini si

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sviluppa la Weltanschauung di Magrì: poesia, visione del mondo, testimonianza. Su questa strada non ci soccorre la preziosità del dialetto, perché la poesia di Ninni Magrì ha una sua forte valenza stilistica anche in italiano che, anzi, in alcuni passaggi, sopravanza anche l’originale dettato dialettale. Tuttavia è il dialetto la sua vera natura, soprattutto un dialetto arcaico in certi vocaboli, recuperati nel pozzo profondo della memoria: lo stesso titolo della raccolta Spisiddi (faville o scintille) rimanda a tempi più lontani e a una parlata più familiare rispetto a faiddi; così è anche per ammattulia (opacizza), agghianca (s’imbianca), fa mattia (impazzisce), vivula (intensa, forte), ’ntrigna (si staglia, appare, con forte riferimento a qualcosa che si condensa e si comprime) e a tanti altri che il lettore potrà gustare in queste diciannove liriche. La stilistica di Magrì è elegante e intensa. Si appoggia a una versificazione breve, illuminante, quasi ermetica fino a rasentare la sentenziosità, come accadeva nell’ultimo Salva-tore Di Pietro. Ho parlato di eleganza per quel modo sereno e quasi distaccato di presentare i temi del suo dettato poetico e per quel gioco sapiente di assonanze che nei versi sciolti di Magrì diventano onde fonetiche e risacca verbale (Lu tempu / ammattulia ricordi lassi, / poi li sperdi comu pruvula a lu ventu). Queste sonorità, fatte di accenti e di pause, di illuminazioni e di immagini, di ritmi spezzati o di naturali endecasillabi, sono la cifra più completa di questa eleganza stilistica. E così è a he per l’intensità del verso e del dettato filosofico. La metrica di questi componimenti, libera e disarticolata rispetto alla nostra più antica tradizione, ha lo spessore di un fraseggio breve e riflessivo e ben supporta il messaggio che il poeta ci vuole dare. Per questa strada entriamo nella visione del mondo di Magrì: tutto è dolorosa attesa, sogno infranto, ricerca di una speranza:

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(La luci di ’na ciacca - ’Nta li carammi di l’anima, / ammenzu a l’acqua trubbula, / passiunu pisci mastini / ca / tinciuti di raggia, / ammolunu li denti; / non si vidunu spiragghi ’nta l’abbissu.). Tuttavia “mi basterebbe la luce di una fenditura – dice il poeta – per spazzare via il dolore della vita.” È un dolore universale che accomuna l’uomo e la natura (Triûlia lu celu a stamatina) ma non mai una disperazione e una sconfitta: basta poco per poter vedere la luce, per rico-minciare a far scoppiettare il fuoco che cova sotto la cenere (Spisiddi), per sprofondare ancora nel delirio dell’universo (Sdillìriu). Ecco, dentro le grandi e piccole metafore del mondo si mimetizza la profonda riflessione esistenziale di Magrì, il quale ci incita a coltivare una speranza, sia essa di ordine religioso o di sola valenza morale. L’uomo ha un destino – osserva il poeta – che si sviluppa lungo una via di redenzione: A la ’ntrasatta ’na musica - A la ’ntrasatta ’na musica / inchiu lu celu di spiranza, / non sacciu d’unni vinni / né comu / o quantu stesi, / ma sdirrignau lu scuru ’ncatramatu / ca mi sirrava l’anima / e m’allinchii di luci. Ritorniamo dunque a quel concetto di decadenza dal quale avevamo iniziato le nostre mosse. Se la tristezza di questi tempi davvero decadenti non ci esalta e sembrerebbe non giustificare più il richiamo a una qualsiasi speranza, allora ecco che ci soccorre il poeta-vate: voce sapienziale e lirica, suadente e penetrante, che non grida nel deserto della storia, ma che si carica la pena degli uomini sulle spalle per riscat-tarla dal dolore e dalla miseria morale. Se la poesia ha ancora questo ruolo allora avrà ancora un senso, potrà ancora gridare parole di verità, in qualunque lingua del mondo, in qualunque tempo e in qualunque luogo. Siracusa, 30 novembre 2014

Corrado Di Pietro

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È la ricerca della luce il filo conduttore Cova indomabile nel cuore del poeta un tizzone ardente pronto a scrollarsi di dosso la “cenere” che inevitabilmente vi deposita sopra la vita con le sue vicissitudini. È un sentire che “brucia” nel profondo insieme alla consapevolezza del tempo che scorre inesorabilmente, facendo scivolare “milli luni”. Gli occhi si ostinano a cercare “la luci di ’na ciacca”, quello spiraglio che può fugare le tenebre e dare speranza, anche se intorno tutto sembra negare la possibilità d’una via di fuga da quel pozzo profondo dove precipita l’anima affranta per aver speso la vita a risalire faticosamente da quell’abisso, senza mai riuscirci del tutto. È la ricerca di questa luce il filo conduttore di questa raccolta e il titolo ne è un compendio sintetico ed efficace: “SPISIDDI”, scintille. Sì, perché anche una scintilla può testimoniare ancora la presenza del fuoco, un fuoco che scalda, un fuoco che illumina. S’innalza in volo l’anima del poeta “chiù susu di li jazzi di l’ancili ” e la sua statura umana si staglia maestosa ma, allo stesso tempo, fragile, sull’orlo del precipizio d’una quoti-dianità troppo stretta e limitante. E allora si coglie la vita “’nta l’occhi d’ognunu”, perché non si è mai sazi di vita, non è mai abbastanza per chi ne sa cogliere le sfumature, gli incanti, i tormenti fino a farli esplodere dentro di sé gene-rando “ … paroli, / sempri e sulu paroli …”, nell’urgenza di esprimersi e dipanare l’intricata matassa dei sentimenti che fanno ressa dentro quel cuore indomabile, come una “jumenta ’nsarvaggiuta” che brama solo di essere domata dall’amore. L’amore di cui parla il poeta è visto in tutte le sue infinite forme e sfaccettature: per la madre, per una donna, per la natura, per chi soffre. La ricerca della luce interiore coincide con la ricerca dell’amore che fa volgere lo sguardo verso l’incanto d’un cielo stellato e ci consegna il rapimento intimo ed esclusivo del poeta che ci mette a parte di ciò che

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prova in un modo così coinvolgente da far rimanere anche il lettore con il fiato sospeso. E ancora l’invito rivolto a se stesso e a tutti ad affrontare la vita e le sue contraddizioni ridendo, ma è un sorriso amaro quello che ci restituiscono i suoi versi quando dice che “nenti di nui arresta”, “ummiri semu, / mancìmi di la notti”. Paradossalmente anche l’ombra richiama per contrasto la luce “ogni ummira / campa di chiaria”, anche l’ombra non potrebbe esistere senza la luce. Quindi le angustie, ombre della vita, vengono sublimate nella forza evocativa e catartica della poesia, come dire che la luce della poesia forse scatu-risce dall’ombra del patire, dalla sofferenza di un’anima che non riesce a contenere se stessa, che straripa fino ad essere “tutt’unu cu tuttu”, in armonia con l’infinito universo dove finalmente si compongono e trovano pace tutte le antinomie della sua umanità dolente e indomita che tuttavia ha ancora una domanda a cui non trova risposta: la disparità del destino degli uomini. “La vita si civa di vita”: appare una legge oscura e indeci-frabile, un interrogativo da porre direttamente a Chi tuttavia viene chiamato e riconosciuto come Padre. L’invito è quello di stare all’erta, vigili per difendere la vita. Anche il poeta può farlo con i suoi versi, suo unico ed efficace strumento per parlare al cuore degli uomini di tutti i tempi. Anche i versi sono “spisiddi”, scintille di luce che fugano le tenebre e ci mettono in guardia ricordandoci la nostra uma-nità. “Accura dunca”, porgiamo l’orecchio attento alla voce del poeta che si fa interprete di ciò che anche noi sentiamo e non riusciamo ad esprimere. Tanti “spisiddi” possono fare una grande luce. Catania, 21 dicembre 2014

Rosetta Di Bella

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Una scrittura fortemente tesa La vocazione è quella di recuperare una parola nobile e costruttiva, e se Antonino Magrì in uno dei testi fondanti del libro rivolge la sua polemica contro le paroli a sgaleggiu, cioè inutili, che imperversano attorno, mi sembra che a cuore dell’autore ci sia l’attenzione per la parola alta e robusta del dire in dialetto. E con la lingua della poesia, autentica e sincera, si rivelano le contraddizioni della nostra esistenza, in cui l’omu è tuttu / e lu cuntrariu di tuttu ( l’uomo è tutto / e il contrario di tutto), e in cui la vita si nutre, per la sua sussistenza, della vita degli altri. L’uomo, nella proiezione dell’autore, cade nell’individua-lismo, precipita in sé, divenendo incapace di leggere il proprio tempo e di diven e protagonista. C’è in questo libro lo sforzo di cogliere l’essenza delle cose, il percorso di mutazione che è ineludibile e necessario perché li spisiddi (le scintille) raccontano di qualcosa che è stato, che successi ’n jornu (accadde un giorno), come è spiegato nella poesia che porta questo titolo. La poesia di Magrì è percorsa dalla consapevolezza dell’inesauribile mutare, dove la parola chiave luci indica una direzione sicura, una Stella Polare. Anzi sbriu di luci (allegria di luce) in costante opposizione, antitesi, con l’oscurità che sembra abbia l’ultima parola (ummiri semu, / mancìmi di la notti; ombre siamo, / mangi-me della notte). Eppure si avverte una determinazione, un’ostinata risoluzione positiva, direi cordiale, per accanto-nare per sempre l’angoscia del buio, perché in fondo per la nostra salvezza e per giustificare la vita e le speranze m’abbastassi la luci di ’na ciacca (mi basterebbe la luce di una fessura). Già, ancora una volta la luci, punto di partenza e punto di arrivo, mito e soluzione.

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Di fronte all’incognita che si para davanti l’uomo è solo, eroicamente parato di fronte all’ineluttabile, ma non mi scantu, / aspettu (non ho paura, / aspetto), anche perché la luce, cioè la soluzione, arriverà inattesa (m’allinchii di luci; mi colmai di luce). È una scrittura fortemente tesa quella di Antonino Magrì, uno dei nostri poeti più appassionati, anzi poeta di lungo corso generoso e gentile, che si apre a slarghi potentemente lirici in cui l’anelito di speranza si accende in un canto intenso, come nei versi lievi dedicati alla madre di ’Dda carizza (Quella carezza), e talvolta un po’ rabbioso. E che in una pagina tra le più felici della plaquette, Catania di notti, pensosamente rivela che la vita è ’n ciumi ’n china / ca crisci e s’arrinnova ’n sichitanza ( la vita è un fiume in piena / che cresce e di rinnova di continuo). Catania, 19 aprile 2015 Renato Pennisi

In ogni lirica incontra se stesso Esprimere sentimenti, descrivere emozioni, fissare esperienze e sprazzi di vita quotidiana in pochi versi, è impresa certa-mente non facile; ma non quando l’afflato poetico sgorga istintivo e prepotente dall’anima e dal cuore del poeta. È quanto accade ad Antonino Magrì in questa sua silloge, nella quale ci regala un “grappolo” (mi sia consentita la similitudine) di intime sensazioni da assaporare “acino dopo acino”, poesia dopo poesia. Facendo ricorso al suo amatissimo dialetto, di cui è cultore e padrone, e con squisita capacità di sintesi, l’Autore spazia tra il fluire di reminiscenze e memorie falsamente sopite ed una ridda di immagini, luoghi, colori e pensieri nostalgici strettamente legati al Suo vissuto.

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In ogni lirica Egli incontra se stesso ed in se stesso si specchia: il dubbio, il dissidio interiore, lo sconforto, il buio della solitudine e dello scoramento, il dolore per chi non è più, la presa di coscienza della complessità dell’umana esistenza sfociano sempre positivamente in un anelito di speranza,

baratro del pessimismo e dell’avvilimento.

legge l’incoraggiante messaggio dei veri valori che danno senso e ragione all’intrigata tela della vita. Ragusa, 18 giugno 2015

Clara Damanti

Due grandi incognite “Un mare in tempesta” o, meglio, “un’anima in tempesta”, è quello che sembra trasparire leggendo questa significativa plaquette di Ninni Magrì. Ansie, paure, ammonimenti atte-nuati di tanto in tanto da barlumi di rinnovata speranza si alternano e si sovrappongono offrendo al lettore lo spunto per ulteriori riflessioni. In quest’opera, forse la più immediata e spontanea tra quelle già lette del Magrì, si scorge una profonda inquietudine, tipica di chi vuole avviare una fase nuova di pensiero; forse più matura, sicuramente più intensa e meno studiata. Il poeta, apprezzabile anche per la capillare e ampia diffu-sione che della sua opera vuol dare, ci invita a toccare con mano i travagli della propria anima; lo fa sagacemente, usando con raffinata tecnica la capacità espressiva del dialetto siciliano, la sua arma migliore, l’unica, dove ogni singolo vocabolo possiede una capacità penetrativa possente

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e diretta. I titoli delle singole liriche già costituiscono di per se lo spiraglio dal quale scrutare squarci d’infinito. Per osservare il mondo a volte basta, purché ci sia, una semplice “ciacca” (fessura). Da questa scomoda posizione, a dire il vero, si riesce anche meglio: “(…) non si vidunu spiragghi ’nta l’abbissu. / Eppuru / m’abbastassi la luci di ’na ciacca / pi sdirrignari lu duluri di la vita; / m’abbastassi la luci di ’na ciacca / pi cridiri ancora a la spiranza; / m’abbastassi … / la luci di ’na ciacca …” (La luci di ’na ciacca). “Spisiddi” non ci risparmia emozioni. Avvia la scintilla per il grande fuoco della poesia. Spaziando in lungo e in largo tra le pieghe dell’animo umano, il poeta si fa “tramite”. In quel labirinto complesso e misterioso che è l’animo umano, al lettore il compito di decifrare. “L’omu è tuttu / e lu cuntrariu di tuttu, / ’n’eterna antinumia / ca cuntrasta e non si chiudi (…). (Antinumia). Se quanto affiora dalla sua poesia è il travaglio di un’anima in cerca di qualche certezza, il percorso da seguire non è scevro da dubbi e trappole varie. Magrì si dimena tra due grandi incognite: Rifugiarsi nel mondo dei sogni o rimanere saldamente ancorato a una realtà piena di insidie che non lo soddisfa? Questa è la prerogativa di chi non ama vegetare. La soluzione sta nel trovare un punto di equilibrio che tuttavia è difficile raggiungere. Esso sfugge, sfugge in continuazione cambiando di volta in volta il suo peso ontologico. Il poeta si affida alle immagini plastiche della natura; alla sua cicli-cità che ricorda le stagioni della vita; ai mille suoni dell’universo ( La musica che ritorna: è l’anima ca sona!); alla misericordia divina: “(…) La musica di Diu, / m’ammugghiau l’anima / e mi purtau luntanu; / vulai / tra celi di focu / e spazi d’infinitu, / e ’ntisi l’armunia di l’Universu (…)”. (Successi ’n jornu). Si indigna di fronte a “l’occhiu niuru di l’omu” (Lampedusa, 3 ottubbri 2013). Il tempo scorre e avvolge ogni cosa. Impossibile per un poeta che vive intensamente la propria quotidianità non

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accorgersene: “Chi miraculu Catania di notti! / Guardu la fudda ca passia / e vidu scurriri la vita / ’nta l’occhi d’ognunu; (…). (Catania di notti). La sintesi è sempre mute-vole, impossibile raggiungerla in modo definitivo. Allora imperativo categorico diventa la ricerca. Cercare, cercare sempre, anche a costo di “saliari paroli a sgaleggiu …”. A lungo andare si avvertirà un senso di scoramento, ma ci sarà - aggiungiamo noi - una nuova scintilla per ripartire con rinnovato vigore. Catania, 16 agosto 2015

Santo Privitera

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Ringraziamenti e spunti di riflessione Un vibrante e sincero ringraziamento va al poeta Salvatore Carlucci, per il suo incitamento in poesia, e agli amici Alfio Patti, Arturo Messina, Marco Scalabrino, Enrico Caltagirone, Lia Mauceri, Flora Restivo, Corrado Di Pietro, Rosetta Di Bella, Renato Pennisi, Clara Damanti e Santo Privitera per la disponibilità dimostratami. A loro, infatti, conoscendone la preparazione specifica e la cifra culturale, ho consegnato timidamente (“in punta di piedi”, come ha scritto Alfio Patti) questa breve silloge per averne un parere professionale; confesso che la loro pronta disponibilità e la profonda atten-zione con cui hanno curato l’esame dei testi, scandagliandone e mettendone a nudo persino i segreti più reconditi, ha supe-rato di gran lunga le mie aspettative; ma perché disturbare così tanti amici, perché questa mia sentita necessità di un parere così ampio e competente? Ancora una volta devo citare Alfio Patti: “quasi fosse un debutto (e forse lo è) […] vuole dimostrarci che sa usare anche il verso libero”. Già, quando difendevo a spada tratta la tradizionale poesia in metrica, tanti erano i che nascondevano il pensiero di una mia supposta incapacità a formulare il verso libero; invece la mia era una scelta, solo una scelta, non che non amassi il rinnovamento, anzi, e lo espressi in queste mie … Riflessioni sull’arte poetica «L’arte della poesia è, come tutte le arti, una disciplina soggetta a regole precise, e il verso libero è l’espressione ultima, e forse più sublime, di un lento lavoro di studio e assimilazione, coerenza e rigore, intuizione e genialità espressiva. Non si può pensare, come invece spesso avviene, che basta esprimere il proprio sentire e disporlo in colonna per arrogarsi il diritto di essere considerati “poeti”; come non si può pensare che per

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acquisire tale diritto basta solo sapere ingabbiare le parole dentro schemi metrici predeterminati; i primi saranno considerati prosaiuoli, i secondi verseggiatori, ma nessuna delle due categorie ha a che fare col “Poeta”, anzi, esse sono la causa prima della declassificazione dell’arte poetica. Nel linguaggio della prosa oggi si trovano parecchi ele-menti caratteristici della poesia e viceversa, quindi è difficile stabilire con esattezza il confine tra i due linguaggi, tuttavia, più che nella prosa, nella poesia è fondamentale il “modo” in cui il messaggio è costruito, poiché la forma delle parole, il loro suono, la loro combinazione, il ritmo che creano hanno significati propri. Questo vuol dire che l’elemento linguistico detto significante o suono ha una sua particolare autonomia dal contenuto che esprime, detto significato o senso. Dunque sono due gli elementi fondamentali che caratterizzano la poesia: suono e senso, in cui il primo racchiude tutti gli elementi del contenente o forma e il secondo del contenuto. In sostanza, mentre la poesia tradizionale oltre che al conte-nuto dà larga importanza al contenente, ossia alle figure del suono: la paronomasia, la consonanza, l’assonanza, l’allitterazione, l’onomatopea, ecc., il verso libero predilige principalmente, e a volte esclusivamente, le figure del senso: la similitudine, la metafora, l’allegoria, l’iperbole ecc.. Quindi, mentre il suono è più rappresentato nella poesia classica, che si racchiude in schemi metrici ben determinati come il famoso sonetto, il cui inventore sembra essere stato il siciliano notaro Jacopo da Lentini, alla corte palermitana di Federico II di Svevia, la poesia moderna, lontana dagli schemi metrici tradizionali (il verso libero, per intenderci) si nutre principalmente delle figure del senso, soprattutto della metafora; quindi, anche il verso libero ha le sue precise regole, senza le quali si scivola nella prosa. Ma questa diffe-renza tra il verso libero e la poesia dentro schemi tradizionali, secondo il mio punto di vista, non vuole assolutamente dire, come molti intellettuali d’oggi invece sostengono, che la

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poesia tradizionale ormai è da riporre in soffitta tra le anticaglie, poiché essa vive e ferve ancora e continua ad essere apprezzata ed amata dai più, perché la poesia, quando è poesia vera, sa parlare al cuore della gente e assurge alla sua dignità di ruolo a prescindere dalla forma artistica adoperata dal poeta. Quindi, se di vera poesia si tratta, nessuno nega il grande valore artistico della poesia moderna, nel contempo, se di vera poesia si tratta, nessuno neghi il grande valore artistico delle forme tradizionali: entrambe sono degne di uguale considerazione e rispetto.». E uguale considerazione e rispetto li espresse anche Paolo Messina, un poeta di grande levatura culturale scomparso da poco. Egli intuì la valenza innovativa del dialetto rispetto all’italiano, da lui ritenuto ormai “scumunicatu, grèviu o ritoricu”, un italiano che “sunava fausu” in confronto a “sta lingua siciliana. Pricisa, nova, pi mia, comu s’avissi nasciutu ora ora”. Paolo Messina fu il primo ad adottare il “moderno” verso libero nella poesia siciliana (il verso libero nella poesia siciliana esiste da più di un secolo e mezzo, Borrello ne è un esempio, per “moderno” intendo quello che non si rifà alla tradizione siciliana, ma si evolve prendendo a modello le avanguardie europee ̶ soprattutto della poesia francese, da Baudelaire a Valéry ̶ ed oltre, quindi una poesia pregna di simbolismo e modernismo), e anche per questo è oggi riconosciuto a gran voce come il padre del rinnovamento dellapoesia dialettale siciliana. Egli fu l’antesignano del “moderno” verso libero per essa, sostenne e incoraggiò il concetto di una poesia siciliana nuova, di tenore elevato, e la sua lo fu e lo è, ma non rinnegò mai il valore delle forme metriche tradizionali, soprattutto del sonetto, per il quale, nel suo saggio L’essere della poesia del 1990 espresse la sua: «idea del sonetto come limite infinito della poesia, non solo in quanto metafora del poetare, bensì e più propriamente come struttura essenziale di ogni atto di poesia. Idea fondata sulla diretta

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esperienza, da una parte, e sulla riflessione estetica dall’altra, talché poi comporre un sonetto e intravederne la possibile perfezione poetica (il suo poter essere “bello e razionale”) diventano un atto solo. Obiezione corrente alla moderna, attuale praticabilità del sonetto è quella relativa alla forte restriction métrique ch’esso comporta: restrizione che impedirebbe un libero o più agevole approccio alla poesia. È invece proprio la rigorosa determinazione formale, una “porta stretta”, anzi chiusa, ciò che tenta (o dovrebbe tentare) ogni spirito avventuroso, il quale dovrà inventarsene la chiave, trovarla nella sua audacia intellettuale e nella sua forza d’animo, poiché, non appena avrà spalancato questa porta, egli sarà colto dalle vertigini, trovandosi improvvisamente a sporgersi sugli infiniti paesaggi dell’essere della poesia, quando scende a sostanziare le cose, ciò che ne conferma il fondamento ontologico. Sicché il limite (la limitazione formale), l’uomo e il mondo (cioè la concezione che

“interminabili spazi” della libertà creativa. Non c’è d’altronde assetto poetico più calcolato che nel sonetto, “bello e razionale” nella sua struttura inalterabile,

di techne e di poiesis: un insieme di proposizioni che asseriscono delle implicazioni (tra figure, simboli, metafore) che contengono delle variabili (accenti, rime, assonanze in funzione semantica): definizione che ricalca quella proposta da Bertrand Russell per la matematica. Rinunziare per una presunta emancipazione metrica al sonetto comporta quindi una immediata perdita di intensità e di afflato nei rapporti con lo spirito, che, come avvertiva senza perifrasi Hörderlin, è retto da leggi metriche.». E questo lo asserì proprio lui, Paolo Messina, il padre del rinnovamento della poesia siciliana, colui che per primo la

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elevò alla gloria del “moderno” verso libero e che sapeva adoperare (e adoperava) entrambe le forme artistiche, sia quella tradizionale che quella moderna. Quindi ritorniamo a noi e alla riflessione sulla forma artistica adoperata, in genere, dal poeta: essa è una sua libera scelta; ed io ritengo che il poeta deve essere libero di esprimersi nella forma artistica che preferisce, senza essere soggetto a critiche insensate; ma per dirsi completo deve conoscerle e saperle adoperare entrambe. Così, dopo avere spaziato in lungo e in largo con la metrica tradizionale, inventando persino sc mi metrici nuovi, ho deciso di entarmi col “moderno” verso libero, per completo, poeta a tutto tondo (nell’umile senso buono, però), ma la necessità di sapere se questa mia nuova e affascinante esperienza, così come l’ho intesa e formulata, fosse degna di considerazione, mi ha portato a chiedere il parere di coloro che oggi sono tra i massimi esponenti siciliani della cultura poetica e (quasi tutti) tra i massimi sostenitori del rinnovamento della poesia siciliana, e l’ho fatto con queste diciannove poesie, le prime mie “vere” composizioni nel “moderno” verso libero, non è una selezione tra tante, attu ente sono solo queste, ne ho scritte solo diciannove, ma ho ritenuto fossero sufficienti allo scopo, così le ho sottoposte alla loro valutazione, separa-tamente, e loro mi hanno risposto, e ognuna delle loro osser-vazioni, pur concordando tra di esse in molti punti, aggiunge sempre nuovi spunti di riflessione, nuovi tasselli, angolature diverse di visione, come un diamante dalle mille sfaccettature. La Poesia, questa madre-matrigna così straziante e generosa, terribile e affascinante, questo spirito divino che ti prende e ti stravolge l’esistenza colmandoti di afflizione e di estasi celestiale … Quale grande miracolo … La scelta del verso libero mi ha costretto ad addentrarmi in maniera più approfondita nelle sue regole e comprendere meglio come adoperare le figure del senso. Il verso libero necessita di simboli e metafore, non è un semplice pensiero

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messo in colonna. Per capirci meglio uso come esempio la poesia “Surruschi” (pag. 48), la più ermetica della silloge. Surruschi significa folgori e le folgori simboleggiano le avversità della vita; le rinnini sono le rondini e simboleggiano i desideri e le as azioni, ma sono senz’ali, quindi senza speran-za; la terra simboleggia la realtà della vita mentre il ventu rappresenta i sogni; la luci sono le aspirazioni da realizzare; lu puzzu è il percorso della nostra vita, la china da salire; l’arbura rappresenta la serenità, l’appagamento, la realizzazione dei nostri desideri; quindi: “Avversità inceneriscono desideri senza speranza e la realtà frantuma sogni. Non c’è il tempo per realizzarli, i problemi che si frappongono nel nostro percorso sono troppi e per sentirsi appagati non basta la vita”. Ho sempre sostenuto che la poesia è, tra le forme d’arte, la più sublime che sia stata concessa all’uomo; essa è figlia del pensiero, madre della cultura e linfa ai sacri valori dell’umana civiltà. Nonostante ciò, è anche la più fragile, la meno fortunata, perché, a differenza di altre arti universali come la musica, la danza, la scultura o la pittura, che per girare il mondo non hanno bisogno della traduzione, il campo della poesia è ristretto all’ambito della comprensione della lingua in cui tale arte si esprime. La traduzione della poesia in una lingua diversa da quella in cui viene concepita e scritta, infatti, seppur necessaria, snatura la forza espressiva della parola e smonta la struttura artistica nella quale il componi-mento viene creato. Se tale riflessione può risultare valida tra poesie di differenti nazionalità, (ed è comunque necessaria la traduzione, se si vuole avere la possibilità che il proprio pensiero giunga in più ampi confini, e per questo ringrazio il professore Salvatore Cosentino e la studentessa Alessia Patti per le splendide traduzioni delle mie poesie in lingue straniere) figuriamoci per il Siciliano, una lingua controversa, soprattutto oggi che il dibattito su “quale” siciliano adottare è ancora aperto. Infatti, con l’avvento del fonografismo o, se vogliamo, per essere più moderni, con lo sviluppo della

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riflessione scientifica sul criterio fonetico di trascrizione, il siciliano scritto perde quel carattere di relativa uniformità che ha tenuto per secoli e di cui possediamo una vasta letteratura; la maggior parte dei poeti oggi scrivono rispettando i suoni e il gergo della propria parlata locale, e le parlate locali, ossia i sottodialetti, sono centinaia e spesso differiscono profondamente tra di loro. Inoltre, l’uso sempre più frequente del verso libero e la ricerca di una poesia siciliana più innovativa ed elevata rispetto a quella tradizionale, portano molti autori alla riscoperta (certamente positiva) di parole inusitate e lontane dall’attuale comune modo espressivo; capirete dunque le difficoltà verso cui si andrebbe incontro se non vi fosse la traduzione, ed io ne so qualcosa, essendo stato membro di giuria in diversi concorsi di poesia dialettale. Ma traduzione di quale siciliano? È possibile unificare un dialetto così frammentario per trarne una lingua unica, un’unica koinè regionale? Intervengo ancora con queste mie già presentate … Riflessioni sull’utilità di una koinè regionale «Parlare di “lingua siciliana” è arduo e fuorviante. Infatti una lingua vera e propria, uguale in tutta l’Isola sia parlata che scritta, con una sua specifica e unica grammatica e una sua vasta letteratura che per conformità di struttura la consolidasse tale, non è mai esistita. Dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II di Svevia, dove ebbe inizio la nostra letteratura, al XV secolo circa, vi era una discreta coerenza ortografica tra gli ambienti letterari nostrani, soprattutto tra i poeti, e tale coerenza (inerente alla sola scrittura) si protrasse, seppure spesso zoppicante e a macchia di leopardo, per qualche secolo ancora. Poi il toscano prese il definitivo sopravvento restituendo quella eroica, ma larvale, impalca-tura linguistica al suo ruolo naturale di dialetto nella sua pluralità espressiva. Sì, perché non esiste un unico dialetto

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regionale, ma centinaia di dialetti di un’unica matrice, ed ognuno esprime le radici di una popolazione locale. Infatti i moduli espressivi variano a secondo del luogo e delle dominazioni o delle immigrazioni che ne hanno modellato il linguaggio, così che abbiamo variazioni, anche di inflessione oltre che di sintassi, tra il dialetto siciliano che si parla a Catania e quello che si parla a Palermo o a Caltanissetta, Ragusa, Messina, Agrigento, Siracusa, ecc.. Spesso persino nella stessa città ci sono inflessioni diverse a secondo la zona; per non parlare dei vari paesetti che a volte sono ̶ per dirla con Pirandello ̶ isole nell’Isola. Oggi gli scrittori e i poeti dialettali, nella maggior parte dei casi, scelgono liberamente di scrivere nel dialetto che è a loro più congeniale, ossia nella loro parlata locale. Ciò fornisce un’enorme ricchezza di informazioni per lo studio del patrimonio linguistico siciliano e dei popoli che hanno vissuto e dominato specifiche zone del nostro territorio; quindi questa scelta è di vitale importanza per la conserva-zione delle nostre radici storico-culturali: da ciò che fummo possiamo capire ciò che siamo e perché. Ma allora parlare della costruzione di una koinè regionale ̶ ossia di una lingua comune sia parlata che scritta, perché questo significa “koinè” ̶ ha senso? Attualmente direi proprio di no, poiché il lavoro di “insigni” studiosi odierni che hanno formulato e diffuso per circa mezzo secolo le loro teorie di koinè non ha portato a tutt’oggi i risultati da loro sperati. Infatti la stragrande maggioranza degli scrittori e dei poeti dialettali continuano a preferire la loro libertà espressiva piuttosto che uniformare la scrit-tura in un linguaggio probabilmente ritenuto artificiale e artificioso e che poco ha a che vedere con la lingua parlata e tramandata dai padri. Ma forse l’insuccesso del consoli-damento di una koinè non è dovuto solo alla libertà di poeti e scrittori sulla scelta del loro registro espressivo o sul presunto criterio della inutilità di un linguaggio costruito

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e innaturale, direi piuttosto che l’atteggiamento niente affatto umile della maggior parte di questi studiosi dinanzi ad un tema di tale proporzione e delicatezza è stato determinante. Infatti, anziché incontrarsi in un dibattito democratico e costruttivo confrontando le loro tesi con spirito di reciproca collaborazione nella ricerca di un comune denominatore, questi studiosi (non tutti!) hanno “sicilianamente” deciso di mettersi in cattedra (spesso senza averne titolo) spacciando le loro convinzioni per verità assolute e pontificando sé stessi come unici deten-tori di tali verità. pensiero con vari gruppi di sostenitori in antitesi sull’una o sull’altra tesi; quindi ancora più confusione, e la confusione è il nemico numero uno della koinè, in quanto la koinè vive di ordine e regole rigide. Dunque oggi non è la koinè la strada da seguire, ma lo è il ricorso a comuni norme ortografiche (almeno per la letteratura), magari utilizzando il sistema grafematico italiano, poiché se esistesse un’unica e idonea grafia delle parlate siciliane, accettata ed adottata da tutti, molte difficoltà oggi esistenti scomparirebbero. Già nel 1995 Vincenzo Orioles scriveva: “La realizzazione di un sistema ortografico codificato è auspicabile non solo per chi fa letteratura, ma anche per chiunque faccia uso della lingua scritta: se poi si addivenisse all’introduzione del sici-liano come materia d’insegnamento scolastico, l’esigenza si farebbe imperativa”. Oggi quest’antico desiderio è stato in parte esaudito dall’articolo 1 della legge approvata dall’Assemblea Regionale Siciliana mercoledì 18 maggio 2011: “La Regione promuove la valorizzazione e l’insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano (fate attenzione che la legge non parla di “lingua siciliana”, ma di “patrimonio

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linguistico siciliano”) nelle scuole di ogni ordine e grado”, legge voluta e approvata grazie alla determinazione di Nicola D’Agostino, vice capogruppo dell’Mpa a Sala d’Ercole, il quale è stato il primo firmatario del disegno di legge che, superato il vaglio del Commissario di Stato e dopo la pubblicazione sulla GURS (Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana),

attenzione, ho già fatto notare che la legge non parla dello studio della “lingua siciliana” nelle scuole, ma dello studio del “patrimonio linguistico siciliano”, ossia dello studio scientifico delle varie parlate locali e della loro derivazione, quindi di quei popoli stranieri che insedian-dosi in specifiche zone della Sicilia ne hanno influenzato il linguaggio locale, per cui non della “lingua siciliana”; dire

la legge prevede lo studio della “lingua siciliana” nelle scuole Dunque è indispensabile, attualmente, entrare nell’ottica non di una koinè, ma della realizzazione di un sistema ortografico codificato.». Ma anche sulla scelta di un sistema ortografico codificato, ossia del criterio di trascrizione per il Siciliano, quindi sulla formulazione di comuni norme ortografiche, i pareri contrastano (noi siciliani siamo fatti così, è la nostra natura) e le difficoltà che si incontrano appaiono insormontabili. Esistono, infatti, prevalentemente, due correnti di pensiero opposte che si sono sviluppate soprattutto nell’ultimo mezzo secolo e che percorrono, in perfetta antinomia, due linee parallele di criterio senza mai incontrarsi: il criterio scientifico o fonetico e quello etimologico o letterario. Quale scegliere? Su quale criterio basare la formulazione di un sistema ortografico codificato? Valutiamone i pro e i contro. Il primo si basa sulla fedele trascrizione fonetica delle parole, ed è scientificamente corretto e incontestabile, ma poco adatto allo scopo di una ortografia comune per lo sviluppo di una letteratura fluida e

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uniforme, in quanto per le parlate locali non è possibile creare regole uniformi certe e stabili valide per tutte, è inutile girarci attorno, poiché, come abbiamo prima accennato, la parlata di Ragusa nulla ha a che vedere con quella di Catania; quella di Agrigento non collima con quella di Messina; quella di Trapani bisticcia con quella di Siracusa; ecc.. Per non parlare dei vari sottodialetti che esistono e si diversificano tra un paesino e un altro o, addirittura, nella stessa città (Catania ha cinque parlate diverse, secondo la zona in cui ti trovi). Adottando il criterio fonetico sarebbero necessari tanti testi di ortografia dialettale quante sono le parlate in Sicilia nelle loro continue diversificazioni di sfumature e ogni opera si troverebbe relegata solo al suo luogo d’origine, perché altrove risulterebbe poco comprensibile. Se dovessimo seguire il criterio fonetico ci ritroveremmo in una vera e propria Babele: c’è chi scriverà miegghiu e chi scriverà megghiu, chi scriverà figliu e chi scriverà figghiu, il catanese poi che si mangia la r anziché porta, forza, arcu, perdi, carni scriverà potta, fozza, jaccu, peddi, canni (le ultime due nella scrittura si confonderebbero con pelle e canne). Certo, il criterio fonetico è senz’altro il più giusto per un linguista, ma può essere adottato solo quando si “parla” una lingua comunq uniforme,come in q lche modo lo è oggi l’Italiano; nel caso del Siciliano l’uniformità proprio non esiste, sono centinaia i sottodialetti e decine i modi di dire una stessa parola o di chiamare uno stesso oggetto; ad esempio per la trottola di legno la scelta è ampia, dipende dalla zona di Sicilia in cui ti trovi; a secondo la zona oviamo infatti i seg nti t mini: tuppettu; tuppettiru (con var nte tuppe u); ghiumm u; s mula (con v iante s malu); paloggiu (con var

Qual è allora la strada giusta da percorrere, visto che il criterio fonetico non permette di unificare l’ortografia? È forse il

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criterio letterario? Ma seguendo il criterio letterario non si arriverebbe a una lingua costruita a tavolino e non rispon-dente a nessun Siciliano parlato? Per rispondere a questa domanda credo sia meglio ripercorrere brevissimamente la storia dell’idioma siciliano cominciando a dire che esso ha radici molto antiche che, secondo alcuni studiosi, risalgono al sanscrito, idioma degli Arii che si disseminarono in tutta l’Europa facendo nascere le lingue indoeuropee e che ci hanno lasciato (affermazione controversa) la caratteristica pronuncia di bedda, tri e strata; secondo altri è una lingua del sottogruppo italo-dalmata delle lingue romanze. Ma la sua costruzione “attuale” ci deriva dal Latino assimilato

deriva dal Latino (poiché i Romani dominarono nella parte occidentale del loro Impero per c ca cinque secoli e nella parte orientale per c ca quindici secoli), e prevalentemente da quello

del secondo millennio), diventando “lingua della letteratura” (che fu la prima) alla corte palermitana di Federico II di Svevia con la fondazione della Scuola Poetica Siciliana. Quindi, come avvenne successivamente con Dante, già da allora fu posto il seme per una lingua “aulica” della letteratura che nulla o poco aveva a che vedere con quella parlata, siamo nel 1230 d.C.. Le tracce di quel Siciliano purtroppo si sono perse, ciò che ci è giunto è il rimaneggia-mento dei toscani (anche se il ritrovamento recente di alcune poesie della scuola siciliana in una lombarda, antecedenti alla trascrizione dei toscani, apre nuovi orizzonti). Ma esiste una vastissima letteratura sia poetica che narrativa che ha forgiato una lingua letteraria tradizionale pressoché uniforme in tutta la Regione già a partire da Bartolomeo Asmundo (siamo nel 1480) ad oggi, per cui, almeno nella

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scrittura, è praticamente sempre esistita, non è quella marziana irraggiungibile che si vuole far

credere. Dunque ritengo che per il nostro scopo unificatorio il criterio letterario sia la strada giusta da percorrere, poiché mentre per la scrittura cosiddetta “tradizionale” è possibile creare “regole uniche” certe e stabili, per le parlate locali no. L’Italiano, come il Siciliano, deriva dal Latino, è una lingua neolatina che necessariamente, per ragioni storiche, si è sviluppata nella sua struttura più del Siciliano. Il Siciliano, che è una lingua viva, quindi, come tale, in una continua trasformazione si globalizza perdendo pezzi per strada e conquistandone nuovi, è oggi, per forza di cose (sono trascorsi circa sei secoli di naturale contagio), molto più vicino all’Italiano di quanto si possa pensare, tranne in alcuni lemmi o costruzioni di frasi; quindi oggi non si può parlare di “dialetto italianizzato”, ma di naturale mutazione in “dialetto moderno” (mutazione avvenuta di pari passo, ma sempre un passo indietro, con quella dell’Italiano), ossia un linguaggio consono ai nostri tempi, comprensibile da tutti; oggi non ci sogneremmo mai di chiamare “muccaturi” il fazzoletto, per cui ritengo ormai che il sistema grafematico italiano, insieme alle sue regole ortografiche, debba conseguentemente essere il più naturale punto di riferimento “odierno” per il Siciliano; per questo l’ho adottato nella mia scrittura. Certo, non esistono a tutt’oggi regole codificate per il Siciliano, quindi la mia si può ritenere solo una libera scelta personale, ma la ritengo la più logica. Ed è attenendomi a questa scelta e rimanendo fedele ad essa che in alcuni casi vado controcorrente rispetto alle linee guida oggi in auge e che tendono al consolidamento di alcuni criteri di trascri-zione, ad esempio sulla necessità di utilizzare l’aferesi o l’apocope o sul quando utilizzarle. Io ritengo sempre, per la mia scelta di seguire il sistema grafematico e le regole ortografiche dell’italiano, anche davanti agli aggettivi possessivi singolari me’, to’, so’, rispettivamente derivanti

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dal latino meus, tuus, suus, arrivati nel siciliano nella forma latina volgare meus, tous, sous, con la naturale caduta della consonante finale, quindi come meu, tou, sou, ed ancora vivi in questa forma in molte zone della Sicilia, e attestati da diversi dizionari, tra cui lo specifico “Dizionario Etimologico Siciliano” di Salvatore Giarrizzo, e dagli scritti della mag-gior parte dei poeti siciliani del passato, che si attenevano a questa regola. Quindi la soppressione di una parte finale della parola comporta sempre la segnalazione con l’apocope come la soppressione della parte iniziale della parola comporta sempre l’aferesi: “ deriva da “chiddu”; se ci atteniamo alle regole ortografiche dell’italiano è così, non dipende da come la pensiamo noi, cioè dal “secondo me” o dalla scusa di una presunta modernizzazione dell’ortografia

(da Dante a D’Annunzio) che siciliana (dai primi poeti della corte di Federico II di Svevia ai grandi poeti dei recenti giorni nostri), hanno asserito con i loro scritti l’importanza ortografica dell’aferesi e dell’apocope, e stia-mo parlando dei creatori della lingua, non di poetucoli o di persone ignoranti. Pur non di meno, ripeto, è una mia libera scelta, come è una mia libera scelta usare la metatesi nella parola “carvuni” trasformandola nella più comune e “cravuni” (nel Siciliano la metatesi la adoperiamo spesso, ad esempio capra diventa crapa), ma il suo uso, in questo caso, mi è servito solo a dare più timbro al verso. Nei miei testi poetici noterete inoltre un particolare disco-stamento dalla tradizione inerente la trascrizione di alcuni termini come scattiunu, passiunu, ammolunu, svampunu, sonunu, vasunu, sonnunu, sghiddunu, arribbummunu, saliunu, addiventunu, ’mpinnunu. Questi termini ed altri simili tradizionalmente vengono trascritti così: scattianu, passianu, ammolanu, svampanu, sonanu, vasanu, sonnanu, sghiddanu, arribbummanu, salianu, addiventanu, ’mpinnanu. Molte di queste parole, però, se ci fate caso,

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sono pressoché omografe e per differenziarle è necessario apporvi l’accento tonico (anche se l’accento tonico non si utilizza nella parola piana): scattìanu - scattiànu; passìanu - passiànu; svàmpanu - svampànu; vàsanu - vasànu; sghìddanu - sghiddànu; arribbùmmanu - arribbummànu; salìanu - saliànu; ’mpìnnanu - ’mpinnànu. A questo problema ha dato soluzione il popolo, specialmente quello della Sicilia orientale, che ha consolidato l’apofonia vocalica in mutamento fonetico, così che, senza bisogno di apporre l’accento tonico nelle parole, la distinzione non pone dubbi: scattiunu - scattianu; passiunu - passianu; svampunu - svampanu; vasunu - vasanu; sghiddunu - sghiddanu; arribbummunu - arribbummanu; saliunu - salianu; ’mpinnunu - ’mpinnanu, dove il primo verbo è al presente e il secondo al passato. Di conseguenza, e per estensione, lo stesso fenomeno è avvenuto nelle parole non propriamente omografe che prima avevamo tralasciato: ammolunu, sonunu, addiventunu. Chiaramente ci tengo a precisare che anche questa è, come tutte le altre, una mia personale scelta di trascrizione, certamente dettata dal filo conduttore del ragionamento e dall’evidenza dell’avvenuta trasformazione fonica operata dal popolo, nonché dalla logica conseguenza che ne deriva, ma comunque sia, è una mia personale scelta che so già non tutti condivideranno. Un’altra mia sce a cui desidero accennare è la trascrizione della caratteristica pronuncia di termini come “bedda”, “ tri ”, “strata”, “ciumi”, “cucinu”. Sempre per mia scelta, ho deciso di attenermi alla tradizione. Nell’Italiano esistono dei fonemi che pur scrivendosi nello stesso modo si pronunciano in modo differente, ad esempio razza e gazza, ma nella scrittura non si adopera nessun segno grafico per distinguerne la pronuncia,bisogna solo conoscere l’ortoepia; lo stesso ritengo valga per il Siciliano. Secondo me basterebbe un vocabolario siciliano-italiano che adotti il sistema dei vocabolari stranieri con tradu-

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zione in italiano, che accanto alla parola scritta (e si scrive in un solo modo) mettono tra parentesi la pronuncia; faccio un esempio con un vocabolo inglese: table (pron. ’teibl) = tavolo. Nel Siciliano si dovrebbe adottare lo stesso sistema, faccio un esempio con un vocabolo siciliano: bedda (pron. beddha) = bella; poi starà ai glottologi stabilire se il segno più adatto alla pronuncia sia beddha o beddra o mettere i due puntini sotto le dd oppure scrivere le dd in corsivo, ma sempre come segno di pronuncia, da mettere tra parentesi accanto alla parola nel vocabolario siciliano-italiano, non come segno grafico della parola stessa, che comunque rimarrebbe “bedda”; lo stesso ritengo valga per tri, strata, ciumi, cucinu e termini con problematiche analoghe. La trascrizione ortografica dei miei testi poetici segue volutamente quest’orientamento che, per forza di cose e permancanza di regole certe, attestate e standardizzate, non troverà il consenso di tutti e, come sempre, accadrà che l’annoso dilemma sarà destinato a protrarsi nel tempo. Pur non di meno, tenendo sempre distinta l’ottica del letterato da quella del linguista, comunque entrambe giuste (mistero dell’antinomia), a mio umile , per latrascrizione del Siciliano inerente la letteratura (con ecce-zione, forse, delle opere teatrali), andrebbe adottata l’ottica del letterato, perché letteratura dobbiamo produrre (scusate l’intreccio e il bisticcio di parole, ma da poeta lo amo). Buona lettura.

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SPISIDDI Non c’è chiù focu ’nta lu me’ cufuni, scattiunu ogni tantu li spisiddi pi dirimi cu’ fui, poi tuttu agghiommira ... Eppuru ci abbastassi la voria o ’n muscaloru lentu pi sdirrignari l’accupu di la cinniri e arrussiari lu cravuni ca cuva e non s’astuta. Scintille - Non c’è più fuoco nel mio braciere, / scoppiettano ogni tanto le scintille / per dirmi chi fui, / poi tutto si riavvolge ... // Eppure / basterebbe la brezza / o una ventarola lenta / per spazzare via l’asfissia della cenere / e attizzare il carbone / che cova / e non si spegne.

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SBRIU DI LUCI Lu tempu ammattulia ricordi lassi, poi li sperdi comu pruvula a lu ventu ... Sciddicanu milli luni sutta di ’n celu sdillabbratu, sfattu, e primaveri agnutticati di silenziu, vani, sfujenu lesti; ammatula ora cercu sbriu di luci dintra ’stu vecchiu cori: lu ciumi scurri e l’acqua s’allavanca di li sdirrupi, agghianca, sgriccia, rumpi, fa mattia, ma sempri ’ntra lu mari scasa, a passu lentu, purtannusi sulu lu ciauru di la vita.

Allegria di luci - Il tempo / opacizza ricordi lassi, / poi li disperde come pulviscolo al vento … // Sono scivolate mille lune / sotto un cielo slabbrato, / sfatto, / e primavere ripiegate di silenzio, / vane, / sono fuggite via veloci; / inutilmente ora cerco allegria di luci / dentro questo vecchio cuore: / il fiume scorre / e l’acqua precipita dai dirupi, / s’imbianca, spruzza, rompe, fa cose da pazzi, / ma sempre dentro il mare fluisce, / a passo lento, / portandosi solo il profumo / della vita.

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LA LUCI DI ’NA CIACCA ’Nta li carammi di l’anima, ammenzu a l’acqua trubbula, passiunu pisci mastini ca, tinciuti di raggia, ammolunu li denti; non si vidunu spiragghi ’nta l’abbissu. Eppuru m’abbastassi la luci di ’na ciacca pi sdirrignari lu duluri di la vita; m’abbastassi la luci di ’na ciacca pi cridiri ancora a la spiranza; m’abbastassi ... la luci di ’na ciacca ... La luce di una fenditura - Nelle profondità dell’anima, / in mezzo all’acqua torbida, / passeggiano pesci mastini / che, / colorati di rabbia, / limano i denti; / non si vedono spiragli nell’abisso. / Eppure / mi basterebbe la luce di una fenditura / per spazzare via il dolore della vita; / mi basterebbe la luce di una fenditura / per credere ancora alla speranza; / mi basterebbe … / la luce di una fenditura ...

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SURRUSCHI Surruschi, surruschi svampunu rinnini senz’ali e la terra smàcina ventu. Non c’è tempu pi la luci, lu puzzu è troppu funnu e pi vìdiri l’arbura non ci abbasta la vita.

Folgori - Folgori, / folgori inceneriscono rondini senz’ali / e la terra / frantuma vento. / Non c’è tempo per la luce, / il pozzo è troppo profondo / e per vedere il chiarore dell’alba / non basta la vita.

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A LA ’NTRASATTA ’NA MUSICA A la ’ntrasatta ’na musica inchiu lu celu di spiranza, non sacciu d’unni vinni né comu o quantu stesi, ma sdirrignau lu scuru ’ncatramatu ca mi sirrava l’anima e m’allinchii di luci. All’improvviso una musica - All’improvviso una musica / riempì il cielo di speranza, / non so da dove venne / né come / o quanto durò, / ma spazzò via il buio incatramato / che mi serrava l’anima / e mi colmai di luce.

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SDILLÌRIU Vulai chiù susu di li jazzi di l’ancili, li nuvuli mi fôru di cumpagni, circai lu ’ncantu di lu celu e, trasunnatu, ju mi civai d’immensu. Fu duci lu sdillìriu, vintagghiu c’annurvau lu me’ sdirrupu. Delirio - Volai più in alto dei giacigli degli angeli, / le nuvole furono le mie compagne, / cercai l’incanto del cielo e, trasognato, / io mi cibai d’immenso. / Fu dolce il mio delirio, / ventaglio / che m’impedì di vedere il precipizio.

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CATANIA DI NOTTI Chi miraculu Catania di notti! Guardu la fudda ca passia e vidu scurriri la vita ’nta l’occhi d’ognunu; quattru carusi sonunu strumenti e appennunu a li noti li spiranzi; dui si vasunu e sonnunu l’amuri; c’è cu’ discurri, cu’ sbraita, cu’ fa dumanni a lu riloggiu, cu’ ridi, cu’ tistia, cu’ è chiù niuru di la pici e cu’ sbrillia di cuntintizza; la vita è ’n ciumi ’n china ca crisci e s’arrinnova ’n sichitanza.

Catania di notte - Che miracolo Catania di notte! / Guardo la folla che passeggia / e vedo scorrere la vita / negli occhi d’ognuno; / quattro ragazzi suonano strumenti / e appendono alle note le speranze; / due si baciano / e sognano l’amore; / c’è chi discute, chi sbraita, / chi fa domande all’orologio, / chi ride, chi scuote la testa, / chi è più nero della pece / e chi brilla di contentezza; / la vita è un fiume in piena / che cresce e si rinnova di continuo.

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PAROLI A SGALEGGIU Sugnu stancu di paroli a sgaleggiu, stancu di sillabi vacanti ca sghiddunu, arribbummunu ’nta l’aria e saliunu la terra di … paroli, sulu paroli, sempri e sulu paroli ... e ammentri la sira lenta scinni cu la so’ cutra carrica di scuru. Parole a sghembo - Sono stanco di parole a sghembo, / stanco / di sillabe vuote / che schizzano, / rimbalzano nell’aria / e cospar-gono la terra di … parole, / solo parole, / sempre e solo parole ... / e nel frattempo la sera / lenta scende / con la sua coltre carica di buio.

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’DDA CARIZZA Lu me’ cori, jumenta ’nsarvaggiuta, brama lu domu ca sulu ’dda carizza ci po dari, ’dda carizza c’aspettu di tant’anni, ma t’agghiuttiu lu celu, Ma’.

Quella carezza - Il mio cuore, / giumenta imbizzarrita, / brama la mansuetudine / che solo quella carezza può dargli, / quella carezza / che aspetto da tanti anni, / ma ti ha inghiottito il cielo, Madre.

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DANZA ’Ddu sprazzu di celu dammusu d’amuri, ’sti ròcili arrizza-carina appena m’attruzzi, ’ssa vucca ca vasa e mi sdona, ’sta linfa di vita ca scurri e poi scasa su’ danza ca duci pircanta lu cori e lu sonnu s’avvola tra nuvuli d’oru. Danza - Quello sprazzo di cielo / soffitto d’amore, / questi brividi lungo la schiena / appena mi sfiori, / questa bocca che bacia e mi stordisce, / questa linfa di vita / che scorre e poi sfocia / sono danza che dolcemente / incanta il cuore / ed il sogno s’invola / tra nuvole d’oro.

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CUNTRASTU Ammanta lu jornu di luci pinzeri di vita, manu tisi addiventunu occhi di celu pi li vii di lu beni, ma la notti cuntrasta lu jornu, sdivaca silenziu e vesti la luci di scuru.

Contrasto - Ammanta il giorno di luce / pensieri di vita, / mani tese diventano occhi di cielo / per le vie del bene, / ma la notte contrasta il giorno, / rovescia silenzio / e veste la luce di buio.

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TRIÛLIA LU CELU A STAMATINA Triûlia lu celu a stamatina e pari ca s’avissi a subbissari ’n funnu a lu mari chiummusu; la terra trantulia pi li fridduri e l’arvuli su’ scheretri ca ridunu a lu ventu e a li surruschi, ma non mi scantu, aspettu: lu ’nvernu passa e torna primavera, idda ridi a lu chiantu di lu celu e lu so’ risu è ’na raggera acculurata ca sbria la vita ... Aspettu, sì, pi tuttu lu duluri di lu munnu.

lamento il cielo stamattina / e sembra debba inabissarsi / in fondo al mare color del piombo; / la terra ha tremiti di freddo / e gli alberi sono scheletri / che ridono al vento / e alle folgori, / ma non ho paura, / aspetto: / l’inverno passa e torna primavera, / essa ride al pianto del cielo / e la sua risata è un arcobaleno / che rallegra la vita ... / Aspetto, sì, / per tutto il dolore del mondo.

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LAMPEDUSA, 3 OTTUBBRI 2013 Oggi, unni li vajazzi ’mpinnunu lu volu e la scugghera sbuffa scuma janca, lu ventu e lu mari non spannunu ’nta l’aria l’eterni miludii di sempri, ma ’n triûlu strabburutu senza abbentu fattu di morti e di spiranzi chiummati ’nta l’abbissi. Oggi lu mari scrissi ancora l’occhiu niuru di l’omu.

Lampedusa, 3 ottobre 2013 - Oggi, / dove i gabbiani spiccano il volo / e la scogliera sbuffa schiuma bianca, / il vento ed il mare / non spandono nell’aria le eterne melodie / di sempre, / ma un querulo pianto sommesso senza requie / fatto di morte / e di speranze sprofondate negli abissi. / Oggi / il mare ha scritto ancora / l’occhio nero dell’uomo.

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LI STIDDI Li stiddi ... li stiddi ... doppu tant’anni li rivitti, ’ccussì, a la ’ntrasatta, jisai l’occhi a sbagghiu e m’arristanu ’ncarammati ’nta ’ddu sbrilliu d’immensu ... fu ’n lampu e attornu chiù nenti, sulu ju e li stiddi … li stiddi

Le stelle - Le stelle … le stelle … / dopo tanti anni le ho riviste, / così, / all’improvviso, / ho alzato gli occhi involontariamente / e mi sono rimasti impigliati / in quel brillar d’immenso … / è stato un lampo / e attorno / più niente, / solo io / e le stelle … le stelle ...

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UMMIRI SEMU Ogni ummira campa di chiaria e chiù la luci è vivula chiù ’ntrigna s’annìrica, ma quannu si sparda la luci lu scuru si l’agghiutti: è chissu lu distinu d’ogni cosa. Allura ridi, e lassa ca lu tempu sichita a fari la so’ strata; ridi, cà la vita è ’n jocu e nenti di nui arresta; ridi, finu ca è jornu, pirchì ummiri semu, mancìmi di la notti.

Ombre siamo - Ogni ombra / vive di chiarore / e più la luce è intensa / più nera si staglia, / ma quando si esaurisce la luce / il buio / la fagocita: / è questo il destino d’ogni cosa. / Allora ridi, / e lascia che il tempo / seguiti a fare la sua strada; / ridi, / poiché la vita è un gioco / e niente di noi resta; / ridi, finché è giorno, / perché ombre siamo, / mangime della notte.

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SUCCESSI ’N JORNU Successi ’n jornu, ’n jornu comu tanti di tant’anni fa, non sacciu diri comu, ricordu sulu ca a la ’ntrassatta vitti apririsi lu celu e la musica, la musica di Diu, m’ammugghiau l’anima e mi purtau luntanu; vulai tra celi di focu e spazi d’infinitu, e ’ntisi l’armunia di l’Universu trimuliari ’ntra lu me’ pettu e fui sonu di ventu, di mari, di tuttu, Accadde un giorno - Accadde un giorno, / un giorno come tanti / di tanti anni fa, / non so dire come, / ricordo solo che all’improvviso / vidi aprirsi il cielo / e la musica, / la musica di Dio, / m’avvolse l’anima / e mi portò lontano; / volai / tra cieli di fuoco / e spazi d’infinito, / e avvertii l’armonia dell’Universo /

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tutt’unu cu tuttu, e la me’ vuci addivintau ciumara ca scurri e non trova ’ncarammu, vuci manza di celu, rispiru funnu di Matri Puisia. tutt’uno con tutto, / e la mia voce divenne / fiumara che scorre / e non trova ostacolo, / voce mansueta di cielo, / respiro intenso / di Madre Poesia.

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ANTINUMIA L’omu è tuttu e lu cuntrariu di tuttu, ’n’eterna antinumia ca cuntrasta e non si chiudi, spirali senza limiti di spaziu, spirali senza limiti di tempu, spirali senza torti né raggiuni, virità non virità, ma tutti veri, ’nta ’na ricerca ca non sperdi mai. Antinomia - L’uomo è tutto / e il contrario di tutto, / un’eterna antinomia / che contrasta / e non si chiude, / spirale senza limite di spazio, / spirale senza limite di tempo, / spirale senza torti né ragioni, / verità non verità, / ma tutte vere, / in una ricerca / che non finisce mai.

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LA LIGGI CHIÙ SCURUSA Quantu viti s’hannu a ’stutari pi farimi campari, quantu viti s’hannu a ’stutari ancora, Patri? La vita si civa di vita, è chissa la to’ liggi chiù scurusa, l’unica ca non mi duna abbentu!

La legge più oscura - Quante vite si debbono spegnere / perché io viva, / quante vite si debbono spegnere ancora, Padre? / La vita si nutre di vita, / è questa la tua legge più oscura, / l’unica / che non mi dà requie!

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ACCURA Unni l’acqua scurreva a ciumara arristanu ribbi sicchi e zotti laschi: lu suli, misu a picu, jornu doppu jornu arritia e spacca la terra, la sdisola. Tannu lu spirdu di la fami allonga la so’ ummira e va circannu scantu comu civu. È storia antica. Accura dunca! Jisa la testa e ripigghiti la vita, pirchì si lassi ca lu suli affara a tunnu lu spirdu ti fa servu, lu suli fa patruni e azzicca l’ugna!

Attento - Dove l’acqua scorreva copiosa / sono rimaste rive secche e pozzanghere rade: / il sole, / messo a picco, / giorno dopo giorno / arreta e spacca la terra, / la desertifica. / Quando ciò si compirà del tutto / lo spirito della fame / allungherà la sua ombra / e si ciberà di paura. // È storia antica. // Attento dunque! / Alza la testa e riprenditi la vita, / perché se lasci che il sole completi la sua distruzione / lo spirito ti farà servo, / il sole si proclamerà padrone / e conficcherà gli artigli!

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Traduzione dei testi in lingue straniere a cura di

Salvatore Cosentino e Alessia Patti

TRADUZIONI IN LINGUE STRANIERE

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Le traduzioni: necessità e opportunità Nei miei “spunti di riflessione” ho già accennato alla

delle proprie opere in diverse lingue. La necessità è quella di rendere comprensibile un testo che altrimenti sarebbe retaggio esclusivo del luogo in cui il linguaggio con cui è scritto è nato, l’opportunità è quella di renderlo accessibile alla lettura e alla riflessione di un più vasto

. Con queste traduzioni dei miei testi sapientemente fatte dal professore Salvatore Cosentino e dalla studentessa Alessia Patti nelle lingue

l’inglese, il francese e lo spagnolo, credo che lo scopo che mi ero prefissato sia stato raggiunto, ora tutto dipenderà dalla diffusione del libro, al quale auguro ogni bene e ogni fortuna. Ringrazio quindi vivamente il professore Salvatore Cosentino per la traduzione in inglese dei testi e la studentessa Alessia Patti per la collaborazione con la stessa e per le traduzioni in francese e spagnolo; essi si sono generosamente prodigati affinché questo mio sogno si realizzasse, hanno creduto in me e al frutto del mio ingegno; per tradurre con coscienza hanno dovuto leg-gere attentamente i testi e fare proprie le mie riflessioni; son dovuti penetrare nelle mie ansie, nella mia solitudine, nelle mie aspirazioni, nella musica della mia anima echeggiante nelle poesie. Spero che il loro lavoro e il mio, fatto con tanto amore e impegno, non si nel un’orchestra, vada felicemente a buon fine e si espanda, per dirla con una canzone, “come musica d’estate”.

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Sparks - There's no more fire in my ember, / sometimes the sparks burst / to tell me who I was, / then everything rewinds … // Although / a little bit of breeze could be enough, / or a slow fan / to wipe out the asphyxia of the ash / and fuel the carbon / that burns / and never stops.

Ètincelles - Il n'y a pas feu dans mon brasier, / éclatèrent parfois les ètincelles / pour me dir qui j'étais, / après, tout s'enveloppe … // Et pourtant / pourriez etre suffisant la brise / et un lent ventilateur / pour balayer l'asphyxie de la cendre / et alimenter le charbon / brulant / que jamais s'éteindre.

Chispas - No hay màs fuego en mi brasero, /estallan varios veces las chispas, / para decirme quién era, / después todo se rebobina … // Y todavìa / serìa suficiente la brisa / si no un lento ventilator / para expulsar la asfixia de la ceniza / y atizar el carbòn / que quema / y no se apaga.

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Sbriu di luci Lights of happiness - Time / let memories fade away, / then disperse them like dust in the wind … // Thousand moons slipped / under a crushed sky, / and springs full of silence, / went away so fast; / without a reason now I'm looking for lights of happiness / into this old heart: / the river flows / and the water falls down from cliffs, / shoot, breaks, it's like a fool, / but always flows into the sea, / slowly, / taking only the scent / of life.

Gaieté de lumiere - Le temps / assombre les souvenirs, / après les disperses comme la poussière dans le vent … // Ils se glissèrent un millier de lunes / sous un ciel sans lèvres, / latent, / et printemps plein de silence, / disparu rapide; / inutilement je cherche maintenant la gaieté des lumiere / dans ce vieux coeur : / la rivière coule / et l'eau precipite par les escarpement, / se blanche, se vaporise, fait des choses fous, / mais toujour dans le mar coule, / lentament, / pour se prendre soulement la fragrance / de la vie.

Alegrìa de luces - El tiempo / opaca los recuerdos, / después ellos dispersa como polvo en el viento … // Se deslizaron mil lunes / en virtud de un cielo sin labios, / no realizado, / y primaveras llenas de silencio, / que han ido ràpidos; / inùtilmente ahora busco alegrìa de luces / en esto viejo corazòn: / el rio corre, / el agua se cae de abismos, /se blanquea, salpica, rompe, haces cosas de locos, / pero siempre en el mar corre, / un paso lento, / trayendo solo el aroma / de la vida.

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La luci di ’na ciacca The light of a cleft - In the deepness of the soul, / in the middle of the dirty water, / are swimming rude fishes / that, / colored with anger, / they move their teeth; / there are not splits in the abyss. / Althought / the light of a cleft could be enough / to wipe out the pain of life; / the light of a cleft could be enough / to believe in hope again; / it could be enough … / the light of a cleft ...

Lumière dans une fissure - En la profondeur de l'ame, / dans l'eau trouble, / se promènent grand poissons / que, / colorés de rage, / bougent les dents; / il n'y a pas fissures dans l'abìme. / Toutefois / pourriez etre suffisant une lumière dans un fissure / pour balayer la douleur de la vie; / pourriez etre suffisant une lumière dans un fissure / pour croire encore à l'espoir; / pourriez etre suffisant … / une lumière dans un fissure ...

La luz de una grieta - En la profundidad de l'alma, / en el centro de l'agua tùrbida, / viajan gran pescados / que, / coloridos de ira, / mueven los dientes; / no hay grietas en el abismo. / Todavìa / serìa suficiente la luz de una grieta / para expulsar el dolòr de la vida; / serìa suficiente la luz de una grieta / para creer en la esperanza; / serìa suficiente … / la luz de una grieta ...

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Surruschi Lightning - Lightning, / lightning burns swallows without wings / and earth / is shattering the wind. / No time for the light, / the well is too deep, / and to see the light of dawn, / a life is not enough.

Foudres - Foudres, / foudres incinérent hirondelles sans ailes / et la terre / vent fracasse. / Pas de temps pour la lumière, / le puit est trop profonde, / et pour voir la lumière de l'aube, / n'est pas sufficient une vie.

Relampagos - Relámpagos, / relámpagos incinerar golon-drinas sin alas / y la tierra / rompe el viento. / No hay tiempo por la luz, / el pozo es muy profundo / y para ver la luz del alba / no es suficiente la vida.

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A la ’ntrasatta ’na musica Suddenly a music - Suddenly a music / filled the sky with hope, / I do not know from where it came, / not how, / or how long it lasted, / but swept away the dark ness / that gripped my soul, / I was filled whit light.

Tout d'un coup une musique - Tout d'un coup une musique / remplit le ciel d'espoir, / je ne sais pas où il était, / ni comment, / ni combien de temps il a duré, / mais emporté le noir / qui me goudronné l'âme, / j'etè plein de lumière.

De repente una mùsica - De repente una música / llenò el cielo de esperanza, / no sé dónde estaba, / ni cómo, / ni cuánto tiempo duró, / pero arrastrando la oscuridad asfaltada / que me agarrava el alma / yo fue colmo de luz.

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Sdillìriu Delirium - I flew higher than the couches of angels, / clouds were my companions, / I tried the magic of the sky, and dream, / I fed myself of immensity. / It was sweet, my delirium, / fan / that kept me from not seeing the precipice.

Delirium - Je volé plus haut que les canapés d'anges, / nuages étaient mes compagnons, / je essayé la magie du ciel, et rêveuse, / je me nourrissè de immensité. / Était douce, mon délire, / ventilateur / qui m'a empêché de voir le précipice.

Delirio - Volé más alto que los sofás de ángeles, / nubes eran mis compañeros, / he intentado la magia del cielo, y de ensueño, / queria comer la inmensidad. / Era dulce mi delirio / ventilator / que me impedía ver el precipicio.

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Catania di notti Catania by night - What a miracle Catania by night! / I look at the crowd walking / and I see life going by / in the eyes of everyone; / four boys play instruments / and notes hang hopes; / two kiss / and dream of love; / there are those who argue, who barks, / they watch the clock, / there's who laughs, who shakes his head, / who is blacker than pitch, /and who enjoys happiness; / life is a river that grows / and renews itself continuously.

Catania de nuit - C'est une miracle Catania de nuit! / Je regarde la foule se promener / et voir la vie passer / dans les yeux de tout le monde; / quatre garçons jouent des instruments / et des notes pendent espoirs; / de embrassent / et rêve d'amour; / il ya ceux qui soutiennent, qui aboie, / des questionneurs de l'horologe, / qui rit, qui secoue la tête, / qui est plus noir de la terrain / et qui brille de contentement; / la vie est une rivière / qui se développe et se renouvelle continuellement.

Catania por la noche - Es un milagro Catania por la noche! / Miro la multitud de gente que camina / y veo la vida que corre / en el ojos de todos; cuatro ninos tocan instrumentos / y por ellos las notas son esperanza; / dos, besandose / suenan el amor; / hay quien discute, grita, / quien pregunta a el reloj / quien risas, mueve el capo, / quien es mas negro que la brea / y quien brilla de felicidad; / la vida es un rio crecido / que crece y se renueva de continuo.

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Paroli a sgaleggiu Crooked words - I'm tired of crooked words, / tired / of empty syllables / that splash, / they bounce in the air / and litter the ground ... words, / only words, / always just words … / and in the meantime the evening / slowly goes down / with his blanket full of darkness.

Mots de travers - Je suis fatigué de mots de travers, / fatigué / de syllabes vides / qui éclaboussent, / dans l'aire rebondent / et jonchent la terre des... mots, / seuls les mots, / toujours des mots ... / et en attendant la soirée / ralentissent / avec sa couverture des ténèbres.

Palabras torcidas - Estoy cansado de palabras torcidas, / cansado / de sílabas vacías / que salpican, / en el aire rebotan / y se tiran el suelo de ... palabras, / sólo palabras, / siempre palabras … / y mientras la noche / ralentiza / con su manto lleno de oscuridad.

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’Dda carizza Those caress - My heart, / like a crazy horse / is craving peace, / and only those caress could calm me down, / those caress / that I've expected for many years, / but you were swallowed by the sky, Mother.

La caresse - Mon cœur, / comme un fuyez cheval / la solitude soif, / et seulement la caresse peut me calmer, / la caresse / que j'attende pendant de nombreuses années, / mais t' avalé le ciel, Mère.

La caricia - Mi corazón, / como un caballo intranquilo / la soledad anhela, / solamente la caricia puede darme calma, / la caricia / que yo aspecto desde muchos años, / pero te tragò el cielo, Madre.

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Danza Dance - This piece of the sky, / the ceiling of love, / these shivers down my spine / when you touch me, / this mouth that kisses and stuns me, / this sap of life / flowing, / and things are dancing softly / and enchants the heart, / and the dream flys / between gold clouds.

Dance - Ce morceau de ciel, / le plafond de l'amour, / ces frissons dans ma colonne vertébrale / quand tu me touches, / cette bouche qui me baise et me stupéfie, / cette sève de la vie / qui circule puis coule, / cette choses sont dance que doucement / enchante le cœur, / et le rêve vol / entre les nuages d'or.

Danza - Este pedazo de cielo, / el techo de amor, / estos escalofríos por mi columna / cuando tu me tocas, / esta boca que me besa y me aturde, / esta savia de la vida / que fluye, / estas cosas son danza / que encanta el corazón, / y el sueño pone en vuelo / entre nubes de oro.

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Cuntrastu Contrast - Wraped in the light of day / thoughts of life, / extended hands become the eyes of heaven / for a smoth path, / but the night contrasts the day, / deep silence / and dresses the light with darkness.

Contraste - Enveloppé dans la lumière du jour / les pensées de la vie, / les mains étendues qui deviennent les yeux du ciel / pour une bonne voie, / mais la nuit contrastes la journée, / bas le silence / et robes la lumière de obscurité.

Contraste - Envuelto en la luz del día / los pensamientos de la vida, / con las manos extendidas que se convierten en ojos de cielo / por buen camino, / pero la noche contrasta el día, / abaja el silencio, / y robe la luz de oscuridad.

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Triûlia lu celu a stamatina The sky complains this morning - The sky complains this morning / and I think it will sink / under the sea the color of lead; / the earth tremors with cold / and the trees are skeletons / laughing in the wind / and lightning, / but I'm not afraid, / I wait: / the winter passes and spring is back, / spring laughs at the tears of the sky / and his laugh is a rainbow / that welcomes life ... / I wait, / for all the pain of the world.

Se plaint le ciel ce matin - Se plaint le ciel ce matin, / je pense doit couler / sous la mer avec de plomb; / les trem-blements de terre de froid / et les arbres sont des squelettes / de rire dans le vent / et la foudre, / mais je ne suis pas peur, / j'attende: / l'hiver qui passe et le printemps de retour, / elle rit aux larmes du ciel / et son rire est un arc-en-accueille / la vie ... / j' attende, / pour toute la douleur du monde.

Se queja el cielo esta mañana - Se queja el cielo esta mañana / y penso debe hundirse / el bajo del mar color de plomo; / la tierra tienetemblores de frio / y los árboles son esqueletos / de risa en el viento / y los relámpagos, / pero no tengo miedo, / espero: / el pasar del invierno y la primavera de nuevo, / ella se ríe de las lágrimas del cielo / y su risa es un arco iris / da la bienvenida a la vida ... / espero, / por todo el dolor del mundo.

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Lampedusa, 3 ottubbri 2013 Lampedusa, 3 October 2013 - Today, / where the seagulls are flying / and the cliff snorts white foam, / the wind and the sea / do not free the eternal melodies / of all time, / but a plaintive crying / the fact of death / and hopes sunked into the abyss. / Today, / the sea brings light again / the dark eye of man.

Lampedusa, 3 Octobre 2013 - Aujourd'hui, / où les mouettes volent / et la falaise grogne mousse blanche, / le vent et la mer / ne liberent pas les mélodies éternelles / de tous les temps, / mais un pleure / fait de mort / et d'espoir sombré dans l'abîme. / Aujourd'hui, / la mer a ecrit / l'oeil noir de l'homme.

Lampedusa, 3 Octubre 2013 - Hoy en día, / donde las gaviotas están volando / y el acantilado resopla espuma blanca, / el viento y el mar / no liberan en el aire las melodías eternas / de todos los tiempos, / sino un llanto lastimero / hecho de muerte / y esperanza hundide en el abismo. / Hoy / el mar escribe otra vez / el ojo negro del hombre.

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Li stiddi The stars - The stars ... the stars … / after so many years I look at them again, / suddendly, / I looked up / and I got stuck / by their great brightness ... / it was lightning / and around / nothing, / only me / and the stars ... the stars ...

Les étoiles - Les étoiles ... les étoiles ... / après tant d'années, je le voix ancore, / tout d'un coup, / je levai les yeux / et je me suis coincé / dans ce brillar immense … / il avait des éclairs / et autour / rien, / seulement moi / et les étoiles ... les étoiles ...

Las estrellas - Las estrellas ... las estrellas ... / después de tantos años le veo otra vez, / de repente, / miré / y me quedé atrapado / en ese brillar de inmenso ... / fue un rayo / y alrededor / nada, / solamente yo / y las estrellas ... las estrellas ...

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Ummiri semu We are shadows - Every shadow / lives of light, / more the light is intense, / more black stands, / but when you run out of light, / darkness / swallows: / this is the fate of all things. / Then laugh, / and let time / take its way; / laugh / because life is a game / and nothing remains of us; / laugh until the day comes, / because we are shadows, / feeding of the night.

Nous sommes des ombres - Chaque ombre / vit de la lumière, / plus la lumiere est intense, / plus noir des peuplements, / mais quand vous manquez de lumière, / l'obscurité / avale: / c 'est le sort de toutes les choses. / Puis rire, / et laisser le temps / de prendre son chemin; / rire / parce que la vie est un jeu / et il ne reste d'entre nous; / rire jusqu'à ce que le jour viendra, / parce que nous sommes des ombres, / nourritement de la nuit. Somos sombras - Cada sombra / vive de la luz, / más intensa es la luz, / más negro gradas, / pero cuando te quedas sin luz, / la oscuridad / se traga: / este es el destino de todas las cosas. / Luego se ríen, / y deja que el tiempo / siga su camino; / reír, / porque la vida es un juego / y no queda nada de nosotros; / Reír hasta que llegue el día, / porque somos sombras, / alimentos por la noche.

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Successi ’n jornu It happened one day - It happened one day, / a day like many, / of many years ago, / I do not know how, / just know that suddenly / I saw heaven opened / and the music, / the music of God, / my soul enveloped me / and took me away; / I flew / between a heaven of fire / and infinite spaces, / and I felt the harmony of the universe / vibrating inside my chest, / and I was wind, / sea, / one with all, / and my voice became / a flowing river / and is not obstacle, / warm voice of the sky, / deep breath of the Mother of Poetry.

Il Arriva un jour - Il arriv un jour, / un jour comme tout les autres, / de nombreuses années avant, / je ne sais pas comment, / il suffit de savoir que tout à coup / je vis les cieux ouverts / et la musique, / la musique de Dieu, / l'âme m'a enveloppé / et m'a emmenée; / volé / entre le ciel et le feu /des espaces infinis, / et je me sentais à l'harmonie de l'univers / vibrant dans ma poitrine, / et je fui vent, / mer, / un tout avec, / et ma voix devenue / rivière qui coule / et ne constitue pas obstacle, / voix chaude du ciel, / respiration profonde / de la Mère Poème.

Sucedió un día - Sucedió un día, / un día como muchos, /de muchos años antes, / no sé cómo, / sólo sé que / me vio los cielos abiertos / y la música, / la música de Dios, / el alma me envolvió / y me tomó; / volé / entre el fuego el cielo / y espacios infinitos, / y sentí la armonía del universo / vibrar dentro de mi pecho, / y yo estaba viento, / mar, / uno con todo, / y mi voz se convirtió / en río que fluye / my no es obstáculo, / cálida voz del cielo, / profundo aliento / de la Madre Poema.

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Antinumia Antinomy - Man is everything / and its opposite, / an eternal contradiction / that opposes / and does not close, / spiral with no space limit, / spiral with no time limit, / no mistakes nor reason, / truths are not truths, / but all is true, / in a search / that never ends.

Antinomie - L'homme est tout / et son contraire, / une contradiction éternelle / qui oppose / et ne se ferme pas, / spirale sans limite d'espace, /spirale sans limite de temps, / pas de torts ni raison, / la vérité est la vérité, / mais tout est vrai, / dans une recherche / qui ne finit jamais.

Antinomia - El hombre es todo / y su contrario, / una contradicción eterna / que se opone / y no se cierra, / espiral sin limite de espacio, / espiral sin límite de tiempo, / no hay errores ni razón, / la verdad no es la verdad, / pero lo único cierto, / en una búsqueda / que nunca termina.

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La liggi chiù scurusa The darkest of your law - How many lives must be switched off / because I live, / how many lives must be switched off again, Father? / Life feeds on life, / this is the darkest of your law, / the only one / that does not give me peace.

La plus sombre de votre loi - Combien de vies doit être éteint / parce que je vis, / combien de vies doivent être à nouveau désactivé, Père? / La vie se nourrit de la vie, / cela est la plus sombre de votre loi, / le seul / qui ne me donne pas la paix.

El mas oscuro de tu ley - ¿Cuántas vidas se deben desconectar / porque yo vivo, / cuántas vidas se deben desconectar de nuevo, Padre? / La vida se alimenta de la vida, / este es el más oscuro de tu ley, / el único / que no me da la paz.

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Accura Careful - Where plenty of water flowed, / banks and puddles remained dry: / the sun, / at peak, / day after day / breaks the dry land, / the desertification. / When that eventually will be perfect, / the spirit of hunger / will reach out its shadow / and will eat fear. // That's ancient history. // Careful, then! / Raise your head up and take life again, / because if you let the sun complete its destruction, / the spirit will make you a servant, / the sun will proclaim itself winner, / and will show its claws.

Attention - Là où l'eau coulait en abondance / des banques et les flaques sont restés seches: / le soleil, / au sommet, / jour après jour / se cassent la terre et la sèche, / la désertification. / Lorsque que finalement amené à la perfection, / l'esprit de la faim / va allonger son ombre / et va manger la peur. // C'est l'histoire ancienne. // Attention, donc! / Levez la tête et prende la vie, / parce que si vous laissez le soleil compléter sa destruction, / l'esprit fera de vous un serviteur, / le soleil se proclamera maitre, / et livrera ses griffes.

Cuidado - Donde el agua fluyó abundante, / permanecieron bancos y charcos que secan: / el sol, / en el pico, / día tras día / rompe la tierra y la seca, / la desertifica. / Cuando que finalmente lleva a la perfección, / el espírito de hambre / alarga su sombra / y se come de miedo. // Es la historia antigua. // Cuidado, entonces! / Levanta la cabeza y toma la vida, / porque si dejas que el sol completa su destrucción, / el espírito hará de ti un siervo, / el sol proclamará si mismo padron / y mostrarà sus garras.

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

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Antonino Magrì Quartogenito e ultimo figlio in ordine di arrivo, ma gemello biovulare col fratello Giovanni e più distante negli anni con la sorella Graziella ed il maggiore dei fratelli, Rosario, è nato a Catania il 6 febbraio 1955 da Carmelo e da Trischitta Caterina. Il padre, reduce di guerra, gli ha trasmesso il rigore

e la tenacia, la madre la delicatezza e la sensibilità. Egli crede, e fermamente afferma, che la poesia è, tra le forme d’arte, la più sublime che sia concessa all’uomo in quanto egli ritiene che essa sia «figlia del pensiero, madre della cultura e linfa ai sacri valori dell’umana civiltà», e da anni si batte a sostegno di questa tesi. La sua vena poetica viene alla luce all’età di 11 anni, quando, trasferitosi lontano dalla sua Sicilia, scrive la sua prima nostalgica poesia in lingua italiana dedicata, come appunto dice il titolo, alla sua “Terra natia”. L’ispirazione dura solo un paio d’anni, ed è quasi uno sfogo di gioventù che sembra destinato a spegnersi; ma all’età di 30 anni, con la nascita del figlio Davide, avuto dalla moglie Muletto Carmelina, essa ritorna prepotente e canta nella lingua dei suoi pa . Nel 1986 il Magrì conosce il poeta Antonino Bulla il quale, notando la validità dei suoi versi, lo incoraggia e

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gli fa da maestro diventando per lui un amatissimo padre spirituale. Nello stesso anno incontra il pittore Vittorio Ribaudo, col quale instaura un connubio artistico che lo porterà alla pubblicazione del suo primo libro di poesie siciliane, con prefazione del prof. Santi Correnti, dal titolo: Canzuni muti (Canzoni mute), per le Edizioni Greco di Catania, al quale l’Accademia Internazionale Contea di Modica conferisce il 1° premio. Dal 1986, anno del suo esordio, al 1991 vince numerosi concorsi regionali, nazionali e internazionali di poesia in lingua siciliana e italiana, dopo si ritira dalla partecipazione ai concorsi, ritenendo sufficiente la loro conferma sulla validità del suo operato e l’incoraggiamento a continuare a scrivere ricevuto da essi. Nell’ottobre 1987 le Edizioni Filadelfia di Altamura danno incarico al Magrì di comporre i versi in lingua italiana per un calendario biblico a diffusione nazionale dal titolo: La Creazione per le chiese dell’U.C.E.B.I. (Unione Chiese Evangeliche Battiste d’Italia), calendario mira-bilmente illustrato, con dipinti su pietre preziose, dal maestro Vittorio Ribaudo. Nel 1989 pubblica il suo secondo libro di poesie siciliane, con prefazione del prof. Santi Correnti, dal titolo: È l’anima ca sona! (È l’anima che suona!), per le Edizioni Greco di Catania, a cui viene assegnato il premio regio-nale “Unione Siciliana Turistica” ad Acireale; il premio nazionale “Pirandello ’89” a Roma; il premio internazio-nale “La Sibilla” a Tivoli. Nel novembre 1989 l’Assessorato alla Cultura di Augusta lo nomina poeta ufficiale della cittadina e gli dà incarico di comporre i versi da apporre sugli affreschi monu-mentali eseguiti dal maestro Vittorio Ribaudo nellaCappella del cimitero di Augusta.

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Nel 1990 scrive un dramma teatrale in tre atti dal titolo: Il segreto di Bastiano. Nel 1991 fonda a Catania, insieme con Salvatore Caruso ed Elena Amore, l’Associazione Culturale MarranzAtomo, centro d’arte, poesia e cultura siciliana, e cenacolo di poeti, artisti, scrittori, musicisti e uomini di cultura; associazione fiorente diventata un punto di riferimento del mondo culturale di Catania. Nel 1992 dà vita ad un periodico di arte e cultura sici-liana

“MarranzAtomo”; esso, collaborato da firme prestigiose, viene definito dalla critica “Un’autentica antologia della sicilianità” e arriva prima in tremila scuole siciliane, dove alcune lo adottano come materiale didattico integrativo per lo studio della nostra cultura regionale, poi in tutto il Continente, per raggiungere infine ventotto Paesi esteri; quindi una diffusione mondiale che ha contribuito a portare in terre straniere una corretta immagine della Sicilia e del suo popolo, conseguendo elogi e consensi anche all’estero. Nel 1994 scrive un’opera religiosa da titolo: Sugnu cca, Signuri (Eccomi, Signore) per il regista Franco Zeffirelli. Nel 1996 dà alle stampe, sempre per le Edizioni Greco di Catania, una silloge di poesie amorose in siciliano, con prefazione del critico Antonino Rampulla, dal titolo: Setti spasimi d’amuri (Sette spasimi d’amore). Il 14 marzo 2004 viene invitato dall’I.S.I.S. “Pietro Bran-china” di Adrano a tenere, per gli alunni e gli insegnanti, una lezione sulla poesia. Coadiuvato da un gruppo di poeti, l’esperienza si rivela un successo e da essa nasce, nel marzo 2005, un libro che la racconta nei dettagli. Il titolo del libro, scritto dal Magrì, che poi verrà donato all’Istituto, è: Poeti al Branchina.

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Nel 2014 pubblica per le Edizioni MarranzAtomo una raccolta di suoi testi per musica in dialetto siciliano e napoletano dal titolo: Le mie canzoni. Numerose sono le trasmissioni televisive che lo hanno visto ospite o conduttore e numerosi sono i riconosci-menti spontaneamente a lui conferiti per meriti artistici e per l’impegno profuso per la diffusione di una sana e corretta immagine culturale della terra di Sicilia; tra i principali: premio Talento di Sicilia 1990, Acireale; premio XXIV Casali 1991, Bronte; premio Giovanni Formisano 1991, Catania; premio Accademia Ferdinan-dea 1994, Catania; premio Sikania 1995, Catania; premio Rubens 1995, Augusta; premio Pigna d’Argento 1999, Palermo; premio Amenano d’Argento 2002, Catania; premio nazionale Franco Franchi 2002, Palermo; premio Nuccio Costa 2004, Catania; premio Nino Martoglio 2007, Priolo Gargallo. Tantissime sono le manifestazioni culturali e i recital di poesie svolti in varie località della Sicilia a fianco degli attori Pippo Franco, Renzino Barbera, Pippo Pattavina e del maestro Vittorio Ribaudo, il quale ha illustrato quasi tutte le opere del Magrì in un binomio d’arte e poesia che li ha resi amici inseparabili. Il 21 gennaio 2005, in occasione della solenne celebra-zione dell’ultimo giuramento di fedeltà alla Repubblica del contingente dei giovani del servizio militare di leva, che si è chiuso dopo un ciclo di 143 anni dall’Unità d’Italia, presso il 62° Reggimento Fanteria “Sicilia” alla caserma Sommaruga di Catania, gli è stato conferito l’alto onore, davanti ai soldati schierati sull’attenti, di chiudere la celebrazione, nel ricordo dei nostri padri caduti per la nostra libertà, con la recita di un’Ave Maria in siciliano tratta dalla nostra tradizione popolare.

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Il 27 marzo 2006 riceve ufficialmente dall’A.N.PO.S.DI. (Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali) di Roma la carica di Delegato Regionale per la Sicilia e di Coordinatore per un “progetto pilota” che investirà cultu-ralmente tutte le province siciliane; carica che deterrà fino al 2009. Nel mese di marzo 2006 lancia un appello alle associa-zioni culturali presenti sul territorio catanese proponendo la nascita di una Confederazione. L’appello viene rac-colto e, dopo un anno di intenso lavoro, il 26 marzo 2007 nasce la Conf.A.C. (Confederazione di Associa-zioni Culturali). Il 2 aprile 2007 viene nominato all’unanimità, da tutte le associazioni confederate, presidente della Conf.A.C.. Nel 2010 viene chiamato dalla scuola Caronda di Catania a tenere un corso di siciliano per gli allievi di tutte le classi. Dall’esperienza nasce un libro, sponsorizzato dalla stessa scuola, dal titolo: Damu vuci a la Sicilia! Ricercatore attento, pubblicando a sue spese vari libretti e diffondendoli gratuitamente, ha ridato lustro a diversi validi poeti siciliani del passato caduti nell’oblio, dopo averne ricostruito la biografia e messo in risalto le loro opere più belle. È fondatore ed editore della rivista “MarranzAtomo” e della rivista “Catania Nostra”; è ideatore, fondatore e presidente dell’A.N.A.P.S. (Associazione Nazionale Artisti,

dialettale siciliana. Da attivo organizzatore, tramite le sue Associazioni e coadiuvato da validi e autorevoli collaboratori, ha dato vita a decine di manifestazioni culturali, dalla presentazione di libri alle conferenze di vario genere, dai raduni poetici ai

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concorsi nazionali di mostre

ai recital poetici prendendo contatti e attivando vari opera-tori culturali in tutta l’Italia e all’estero per presentare l’aspetto meno pubblicizzato della Sicilia, quello di terra madre di cultura, di grandi uomini e di grandi eventi internazionali che hanno segnato la storia europea, e non soltanto “terra di mafia” come spesso viene presentata dai mass media. Giudizi lusinghieri precedenti sul suo operato sono stati espressi per iscritto dal poeta Ignazio Buttitta e dai critici Milly Bracciante, Santi Correnti, Concetta Greco Lanza, Meno Assenza, Nunzio Petronaci, Antonino Rampulla, Lia Ciatto, Sergio Sciacca, Francesca Romana Puglisi, Salvatore Rapisarda, Giuseppe Messina, Arturo Messina, Anna Burzilleri, Lia Tomarchio, Eleonora Vinci e da Giuseppe la Delfa e Franco Di Blasi; plausi verbali importanti sono stati espressi dai ministri Berlinguer, Ferri, Bianco; dagli attori Turi Ferro, Fioretta Mari, Pippo Franco, Renzino Barbera, Pippo Pattavina, Enrico Guarneri; dal conduttore televisivo Pippo Baudo; dai giornalisti televisivi Nuccio Fava, Cesara Buonamici; dal prestigiatore Raptus; dai registi teatrali Guglielmo Ferro, Cesare Politi; dal pluricandidato al premio Nobèl per la pace Bruno Ficili e, più lusinghiero di tutti, dal suo pubblico.

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Note introduttive.………………………………………. 5

Ringraziamenti e spunti di riflessione …………………… 29

Spisiddi ………………………………………………... 45

Sbriu di luci ……………………………………………. 46

La luci di ’na ciacca …………………………………… 47

Surruschi ………………………………………………. 48

A la ’ntrasatta ’na musica ……………………………... 49

Sdillìriu .……………………………………………….. 50

Catania di notti ………………………………………... 51

Paroli a sgaleggiu ……………………………………... 52

’Dda carizza …………………………………………… 53

Danza…………………………………………………... 54

Cuntrastu ………………………………………………. 55

Triûlia lu celu a stamatina …………………………….. 56

Lampedusa, 3 ottubbri 2013 …………………………... 57

Li stiddi ………………………………………………... 58

Ummiri semu ………………………………………….. 59

Successi ’n jornu ………………………………………. 60

Antinumia ……………………………………………... 62

La liggi chiù scurusa …………………………………... 63

Accura …………………………………………………. 64

Traduzioni in lingue straniere ……………………………. 65

Nota bio-bibliografica …………………………………….. 87

INDICE

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