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Cristina Baroncini

presentazione del Prof. Andrea Padovani

Il potere di una Consorteria:I Ceroni della valle del Senio

(secoli XV - XVII)

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Introduzione

Questo libro è nato come tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Giurisprudenzadell’Università di Bologna nel mese di marzo dell’anno 2005.L’idea di affidare ad una dissertazione dottorale lo studio delle vicende che videro protagoni-sti i Ceroni mi era stata suggerita alcuni anni prima dall’amico Pier Giacomo, infaticabile ani-matore della ritrovata consorteria.Il suggerimento, tuttavia, poteva sperare di prendere forma in un piano di ricerca ben struttu-rato ove avessi avuto in sorte di incontrare un giovane romagnolo - prossimo, pertanto, a biblio-teche ed archivi sospetti di custodire materiale interessante - e comunque disposto a spende-re molti mesi in una ricerca che si presentava, fin dall’inizio, sicuramente laboriosa.Ricordo ancora che proposi l’argomento a Cristina passeggiando dalla sede del DipartimentoGiuridico fino alla stazione ferroviaria. Lei accettò con entusiasmo ed io, strada facendo, leindicai le prime letture.Oggi, il proposito di affidare ad un libro la storia dei Ceroni è un obiettivo raggiunto. Le modi-fiche intervenute rispetto al testo della Tesi di laurea sono di poco conto e sono state condottedi comune accordo dall’autrice e dal dott. Corrado Benatti al quale - sia detto per inciso - dob-biamo una raffinata edizione degli statuti del contado d’Imola del 1347.Il merito della presente indagine consiste soprattutto nella raccolta del materiale oggi disponi-bile a stampa intorno ai Ceroni ed ai loro consorti o collegati.Ciò che si potrà e si dovrà fare, in futuro, sarà la paziente raccolta e discussione dei documen-ti ancora dispersi negli archivi romagnoli: principalmente nei fondi notarili. Per questo, però,occorreranno altre forze e sopra ogni altra cosa, tempo.Lo sguardo proteso verso il futuro non può comunque essere distolto da ciò che abbiamo sottomano fin da oggi: un libro agile, di facile lettura, in grado di suscitare altre e più interessantiquestioni rispetto a quelle già poste.Perché, al di là delle vicende interessanti un gruppo - come quello dei Ceroni - si pone altro eben più impegnativo problema storiografico: quello del crescere ed affermarsi di potenze fami-liari senza nobiltà e con modeste fortune, tuttavia in grado di esautorare le autorità locali e diimpacciare - addirittura - i rappresentanti di Roma e di Firenze insieme.In una maniera o nell’altra, di tali cose dovremo pur tornare a parlare.

Prof. Andrea PadovaniOrdinario di Storia del Diritto italiano

Facoltà di Giurisprudenza - Università di Bologna

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Prefazione

Il periodo che va dal XIV al XVI secolo è caratterizzato nello Stato Pontificio da numerosi vuotidel potere “istituzionale”. In Romagna approfittano di tale debolezza dell’autorità centrale fami-glie più o meno nobili che esercitano sulla regione una sorta di potere “de facto”. Legati e pre-sidenti si vedono, così, obbligati ad operare, almeno fino alla metà del Cinquecento, appoggian-dosi ai gruppi di volta in volta dominanti, subendo l’esito delle lotte di parte ed adattandosi aicambiamenti intervenuti ai vertici politici delle comunità. È in questo quadro storico, approfonditamente descritto nei primi tre capitoli della tesi, che siinserisce il potere che la Consorteria dei Ceroni esercitò nella Valle del Senio. L’interesse e la curiosità per la storia locale hanno guidato questa mia ricerca che, pur nonavendo la pretesa di esaurire o risolvere problematiche economiche e sociali così complesse,mi auguro possa servire ad orientare e stimolare anche chi, come me, non è uno “storico” diprofessione.

Si ringraziano:Il professor Andrea Padovani, che mi ha guidata in questa ricerca con perizia e pazienza, sugge-rendomi le tematiche su cui indagare e gli obiettivi da perseguire.L’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni che mi ha messo a disposizione il suo archivio persona-le ed è stato sempre disponibile alle mie richieste.Don Guerrino Ceroni, arciprete di Casola Canina, per l’estrema gentilezza con cui mi ha aiuta-ta nella ricerca di manoscritti e testi antichi.Lucio Donati, esperto di storia locale, che mi ha suggerito diversi testi e documenti inerenti a que-sto mio lavoro.Renato Ceroni, appassionato cultore delle vicende storiche della sua famiglia, che mi ha permes-so di consultare un suo testo ancora inedito sulla Consorteria.II dott. Corrado Benatti per l’aiuto nell’apportare le modifiche dalla Tesi di Laurea al primo capi-tolo del libro.

Dott.ssa Cristina Baroncini

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Capitolo 1

1. Le regioni pontificie nel XV secolo.Le vicende delle terre soggette al dominio pontificio e l’azione temporale del papato da MartinoV (1417-31) a Clemente VII (1523-34) si svilupparono in un quadro politico generale dellapenisola caratterizzato dall’assenza di decisive ingerenze da parte delle potenze europee e dallibero gioco degli interessi degli stati italiani1.Le terre che riconoscevano l’autorità temporale della Chiesa, ampliatesi gradualmente nel corsodel Medio Evo, avevano raggiunto la loro definitiva estensione tra il XIII e il XIV secolo. Nelloro insieme esse costituivano una fascia che tagliava trasversalmente la penisola, occupandogran parte delle regioni centrali. Confinanti a nord con i domini veneziani e con quelli milanesi,a ovest con le repubbliche di Firenze e di Siena, a sud e a est con il Regno di Napoli, siestendevano tra l’Adriatico e il Tirreno. A questo nucleo centrale di terre ecclesiastiche siaggiungevano le due enclaves napoletane di Pontecorvo e Benevento, il distretto avignonese eil contado venassino in Provenza. I domini temporali della Chiesa raggruppavano, perciò, zonetra loro profondamente diverse per condizioni geografiche ed economiche e per le vicende storicheche avevano vissuto. Nel corso del XIII secolo la Chiesa, incapace, di fatto, di esercitare un’unitaria ed efficace azionedi governo accentratrice sui potentati locali pur formalmente sottoposti al pontefice, aveva cercatocomunque di stabilire su quelle terre una sorta di struttura istituzionale omogenea, creando unaserie di circoscrizioni dirette da un rettore. In tale contesto i rappresentanti pontifici erano perlo più rettori in spiritualibus et in temporalibus; i loro compiti si limitavano a un generico controllosul mantenimento della pace nelle loro terre e mai si estesero nel senso di limitare le potestàdi Comuni e di feudatari.La debolezza di siffatta struttura istituzionale si accentuò ulteriormente in seguito al trasferimentodella Sede Apostolica ad Avignone agli inizi del XIV secolo e al progressivo rafforzamento inchiave signorile degli ordinamenti municipali.Gli anni dello Scisma d’Occidente, infine, vanificarono ogni possibilità di accentuare ladipendenza dei domini pontifici dall’autorità temporale della S. Sede. All’inizio del secolo XV le terre della Chiesa appaiono ben lontane dal costituire un insieme

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1 L’intero capitolo è in gran parte il risultato della rielaborazione di M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, pp. 3-49.

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tendenzialmente omogeneo e ciascuna di esse risulta dominata da potestà locali che varianoda regione a regione.

1.1 Comuni e signorie in Romagna.Se a partire dal secolo X troviamo, in Romagna, una diffusa feudalità, nel periodo piùpropriamente comunale la zona appare caratterizzata da un fiorente sviluppo nei suoi centri piùimportanti, quali Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini. Dominate da un attivo cetomunicipale, composto da proprietari di terre, commercianti ed artigiani, tali città erano riuscite,tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, ad imporsi sulla nobiltà della campagna e a dominarevaste aree circostanti. Il monopolio del governo comunale era assicurato a questo ceto dagli statuticomunali, che escludevano i nobili dalle magistrature municipali. Nella seconda metà del tredicesimo secolo l’espansionismo economico di Venezia e la penetrazioneviscontea e fiorentina ridussero fortemente lo slancio commerciale del ceto mercantile romagnoloe le varie città della regione si contesero il controllo della campagna. La nobiltà del contado, dal

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canto suo mai del tutto estromessa dall’agone politico, non mancò di prendere parte alle lotte trafazioni per il controllo del governo cittadino. Al vertice di ciascuna fazione si trovò, così, per lopiù un nobile, il quale in un primo tempo mantenne le forme istituzionali cittadine masuccessivamente ricevette dal Comune la legittimazione formale del suo potere, con il titolo dicapitano o di difensore della città. La S. Sede si vide impotente a modificare tale stato di cose e per conservare, almeno formalmente,l’autorità temporale sulle terre di Romagna, concesse ai vari signori, prima in via temporaneapoi a vita, il titolo di vicario apostolico, nonché il merum et mixtum imperium, il pieno potere,cioè, fiscale, amministrativo e giurisdizionale sulle sue terre. All’inizio del secolo XV, perciò, la Romagna era regione di vicariati: si segnalavano ad Imolagli Alidosi, a Faenza i Manfredi, a Forlì gli Ordelaffi e a Ravenna i Da Polenta. Cervia, Rimini,Cesena, Sant’Angelo, Mondavio e zone limitrofe erano, invece, sotto il dominio dei Malatesta.All’interno dei loro stati i vicari erano sostenuti da un’oligarchia composta da famiglie dell’anticanobiltà e dell’antico ceto municipale, le quali monopolizzavano gli uffici di governo e godevanodi particolari privilegi per le loro terre. Nel contado la restante nobiltà, pur esclusa dai beneficidell’amministrazione, continuava a disporre di una salda consistenza economica che il signoretendeva a non deprimere, per svolgere una funzione mediatrice tra i contrastanti interessi nelsuo dominio. La situazione economica di tali signorie era ben lontana da quella che nello stessotorno di anni si trova a Milano, Firenze o Venezia. La produzione agricola era, in Romagna, limitatadalla natura del terreno, in gran parte montuoso, mentre l’espansione commerciale e artigianaleveniva frenata dalla concorrenza esterna. Sensibile era, poi, la dipendenza economica dai più forti stati limitrofi, accentuata dal fatto chemolti vicari, per risollevare le proprie precarie finanze, frequentemente accettavano condottemilitari da parte di quelli.

2. Lo scisma d’Occidente.Dal 1378, e per trentanove anni, la Chiesa romana fu travagliata dalla lotta al vertice tra duediversi successori di Pietro: in quell’anno, infatti, un gruppo di cardinali italiani sostenuti dalRe di Francia Carlo V e dalla regina napoletana Giovanna I d’Angiò dichiararono illegittimal’elezione del pontefice romano Urbano VI e, in un conclave tenutosi a Fondi nel settembre,nominarono antipapa Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII.Il conflitto tra le due autorità scismatiche proseguì lungo gli ultimi decenni del secolo, recandogravissimi danni al prestigio pontificio nell’intera Europa cattolica. Il sostegno fornito ai ponteficida parte delle varie potenze era pagato con una limitazione dei diritti della S. Sede sui clerinazionali e delle sue pretese fiscali, a tutto vantaggio di signori e monarchi. Dopo la morte di Clemente VII, nel 1394, Francia, Scozia, Spagna, Savoia e Regno di Napoliriconobbero come pontefice Benedetto XIII mentre i cardinali italiani avevano eletto BonifacioIX. Per sedare lo scisma, la cristianità sgomenta preparò invano un incontro tra i due e la lororivalità produsse danni incalcolabili in tutto lo stato della Chiesa, in particolar modo in EmiliaRomagna2. Bonifacio IX, di pessima reputazione per il suo nepotismo e la sfacciata vendita di indulgenzee benefici, fu appoggiato da Baldassarre Cossa, divenuto Legato Papale sia a Bologna che inRomagna nel 1403, il quale, col suo esercito intraprese la conquista dei territori nel frattempoperduti.

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2 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 308.

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Nel luglio del 1403 entrò ad Imola, dove l’Alidosi si era chiuso nella rocca, ed accordatosi conquest’ultimo il 24 luglio riprese Casalfiumanese e il 27 Piancaldoli e Sassonero. Nel 1404 Astorgio Manfredi gli cedette Faenza, dietro compenso di venticinquemila scudi. Questosuscitò lo sdegno di Firenze, di Alberico da Barbiano e dei suoi congiunti della casa di Cunio,che promisero di non danneggiare il pontefice e il cardinale Cossa, ma rivendicarono le spesee le paghe che avevano affrontato in guerra per il legato. Essi conservarono il possesso di Lugo,Barbiano, Zagonara, Cotignola, Granarolo, Castel Bolognese, Dozza, Riolo Secco, Mezzocolle,Montecatone, Fiagnano, Pieve Sant’Andrea, Linaro e Tossignano e impedirono il vettovagliamentoa Bologna. Nel febbraio del 1405, dopo una ulteriore confisca di grano diretto a Bologna, dove il popoloimbestialiva3 per la fame, il cardinale e Alberico da Barbiano si incontrano presso il fiume Idice.Non trovarono, tuttavia, un accordo, poiché Cossa rifiutava di cedere al condottiero Faenza eCastel San Pietro. Il 5 agosto 1405, fallito un ulteriore accordo con Alberico, iniziò la lotta. Al territorio della Chiesafurono riconquistati Liano, Fiagnano, Pieve Sant’Andrea, Montecatone e Mazzocolle e, in seguito,anche Granarolo di Faenza, Faenza e Forlì.Il cardinal Cossa nello stesso anno, sempre con l’intento di combattere Alberico, concesse Faenzae tutte le ville di Val d’Amone ad Astorgio Manfredi, per dieci anni. Ciononostante, il 20 ottobre1405, credendo in un suo possibile tradimento, lo attirò a Faenza, raggirandolo con vane promesse,e lo fece decapitare in piazza. Gian Galeazzo Manfredi, figlio di Astorgio, per questo divenneirriducibile nemico del cardinale.Dopo aver dato ordine che continuasse l’assedio di Forlì, il cardinale tornò trionfalmente a Bolognail 21 novembre 1405 e continuò a governare la città anche negli anni successivi, in seguito allaresa di Forlì, avvenuta il 29 maggio 1406. Nel 1408 il cardinale entrò pure a Castel Bolognese. Alla morte di Alberico da Barbiano, infine, avvenuta nel 1409, Cossa tornò ad attaccare Barbiano,che si arrese senza combattere. Conquistò poi Cotignola e Solarolo, cacciando così i Conti diBarbiano dalla Romagna.

2.1 Il Concilio di Pisa. Il grande scisma. Tra il marzo e l’agosto del 1409 i cardinali si indussero ad aprire il Concilio di Pisa. Qui siincontrano Benedetto XIII - antipapa dal 1394 - e Gregorio XII - a sua volta consacrato nel 1406- per porre fine allo scisma. I due papi vennero deposti e al loro posto fu eletto Alessandro Vche, venuto a Bologna col cardinale Cossa, vi morì improvvisamente, forse avvelenato dal Cossastesso4. Accadde dunque che il 17 maggio 1410 proprio Baldassarre Cossa succedesse adAlessandro V divenendo papa col nome di Giovanni XXIII. Benedetto XIII e Gregorio XII, dal canto loro, non accettarono la deposizione e così i papi furonocontemporaneamente tre. La situazione si protrasse fino al 1414, anno in cui, in un nuovo Concilioa Costanza, i tre pontefici scismatici furono deposti e, dopo una breve vacanza della sede papale,nel 1417, venne eletto il romano Ottone Colonna, con il nome di Martino V.

2.2 Gli effetti dello scisma a Imola e Tossignano.Gli effetti di questa rivalità fra i tre pontefici si ripercossero su tutta la cristianità e anche Imolae Tossignano ne risentirono. Le due città si trovarono, infatti, schierate in campi opposti: Lodovico

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3 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 309.4 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 311.

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Alidosi continuò a sostenere Giovanni XXIII, mentre Gian Galeazzo Manfredi, già ostile alcardinal Cossa, si dichiarò naturalmente a favore del suo avversario, Gregorio XII, già spogliatodel titolo dal Concilio pisano. Tra i due pontefici si aprì, dunque, un aspro dissidio per il possessodel territorio e dei luoghi sulle due rive del fiume Senio. Gregorio XII aveva nominato Carlo Malatesta di Rimini suo Rettore di Romagna e con un Breveinviatogli da Gaeta il 16 novembre 1410 gli ordinò di rimettere ordine nella provincia. CarloMalatesta, forte di tale presunta autorità, emise una sentenza il 6 novembre 1411 del tuttosfavorevole all’Alidosi, considerato ribelle alla Chiesa.Per controbattere il rivale, che si arrogava il diritto di legiferare sulla Romagna, Giovanni XXIII,volendosi mantenere fedele l’Alidosi, il 15 ottobre 1412 da Roma ordinò al cardinal LodovicoFieschi, Legato di Bologna, di concedere a suo nome al signore d’Imola i castelli di Tossignano,Dozza, Gaggio, Pieve Sant’Andrea, Riolo, il Castellaro dei Nobili di Aquavia e le ville diMontecatone, Mezzocolle, Orsara, Prugno, Casola, Monte Fortino, Monte Oliveto, Belvedere,Meldola, Pediano e Aguzzano con annessi e connessi, per dieci anni. Il 23 novembre dello stessoanno l’Alidosi entrò in possesso delle località suddette, previo giuramento di obbedienza e fedeltàa Giovanni XXIII, pagando un censo di venticinque fiorini d’oro l’anno e promettendo di agirecontro Angelo Correr, detto Gregorio XII, e Pietro da Luna, spagnolo, detto Benedetto XIII, papiscismatici ed eretici, condannati dal Concilio di Pisa.Con lui giurarono i suoi recommissi, cioè i vassalli della Bordella, i Sassatelli, i Baffadi e i Cacciadi Tossignano. I nobili di Baffadi, Sino di Guglielmo e suo figlio Cristoforo, uomo d’arme e diventura, avevano già stretto accordo con Lodovico Alidosi il 25 maggio 1411 a Tossignano, perrogito del tossignanese Bernardino. L’Alidosi vide così crescere notevolmente le terre del suofeudo.Nel frattempo Gian Galeazzo Manfredi e i suoi sudditi si erano schierati contro il legato Fieschi,il quale il 12 marzo da Bologna ordinò a Lodovico Alidosi di dimostrare la sua devozioneprocedendo a guerra aperta entro un mese contro il signore faentino, nemico e ribelle della Chiesa.Il 15 marzo l’Alidosi inviò un messaggero a Faenza, notificando al Manfredi che i loro rapportidovevano considerarsi incrinati per aver egli ospitato genti d’arme di stanza a Forlì, «che hanfatto un’incursione su Bagnara in contrasto con le disposizioni del Legato5» e per esser statoferito un suo suddito.Di guerra, peraltro, non si fece menzione. Di lì a poco, tuttavia, il papa protettore dell’Alidosi si trovò a mal partito, a causa del Conciliodi Costanza, convocato per mettere fine al grande scisma. Per le gravissime accuse mosse controdi lui, Giovanni XXIII fu costretto a fuggire travestito. Venne comunque imprigionato, processatoe infine deposto nel giugno del 1415. Anche Gregorio XII fu deposto, a Pisa il 5 giugno 1409e così neppure Gian Galeazzo Manfredi poté più affermare di essere al servizio del papa legittimo.A Costanza l’11 novembre 1417 venne eletto, come s’è detto, Ottone Colonna, con il nome diMartino V, il quale rivendicò alla Chiesa tutte le terre di Romagna. Nello stesso Concilio vennerofissati nuovi principi di governo nella Chiesa cattolica. Vi si stabilì, in particolare:• la superiorità del concilio sul papa, che a intervalli fissati doveva convocare la massima

assemblea della cattolicità;• l’obbligo del pontefice di impegnarsi, al momento della sua elezione, al rispetto dei diritti

del Concilio e del clero tutto;• l’abolizione di una serie di diritti fiscali e giurisdizionali del papa sul clero degli stati europei,

a vantaggio dei signori.

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5 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 313.

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Il papato usciva, dunque, dalla lunga crisi che lo aveva travagliato e dal Concilio stesso conattribuzioni potestative fortemente limitate rispetto al passato. Fino ad allora la duplice naturadella sovranità del papa, in campo spirituale e in campo temporale, aveva consentito al ponteficedi beneficiare di entrate economiche di natura differente. Come capo della cristianità, infatti,egli aveva imposto tasse di vario genere sul clero, anche se soggetto ad altri sovrani, e avevaconcesso grazie di tipo spirituale in cambio di prestazioni pecuniarie. Al contempo, in qualitàdi sovrano temporale, riceveva da molti paesi europei censi annui, esattamente come facevanoi feudatari minori di territori adiacenti o interni ai domini pontifici dell’Italia centrale esettentrionale6. Ora, invece, le sue entrate spirituali risultavano decurtate, mentre accentuata era la suadipendenza da potenze europee e italiane, che lo controllavano non solo attraverso il sostegnoa lui fornito dai prìncipi - indispensabile per ricucire l’unità del mondo cattolico - ma ancheattraverso i potenti cleri nazionali.In questa situazione il papato era necessitato a riprendere possesso delle sue terre italiane, chegli garantivano il dominio irrinunciabile per svolgere una politica temporale e spiritualeindipendente dagli stati cattolici, oltre alla possibilità di riattivare le proprie finanze che, conla limitazione delle entrate spirituali, dovevano basarsi ormai principalmente su quelle temporali. Il nuovo pontefice optò per il rispetto delle oligarchie dominanti, garantendo loro una più efficacedifesa dalle aspirazioni espansionistiche, politiche ed economiche degli stati limitrofi, in cambiodi una più regolare prestazione dei diritti fiscali della S. Sede.

2.3 La fine della signoria di Lodovico Alidosi dopo il Concilio di Costanza.Deposto l’antipapa al quale il signore d’Imola aveva dimostrato fedeltà, Lodovico Alidosi rischiòdi perdere il vicariato. A questo riguardo si rivela assai significativo un atto del 30 dicembre 14177, nel quale, aTossignano, il governatore Sandro del fu Bartolo da Codronco convoca l’arengo perché iTossignanesi richiedano al papa di confermare il vicariato d’Imola all’Alidosi. E il vicariato fu,in effetti, confermato, con le clausole già in vigore nel documento del 1399.Nel 1418 un altro punto strategico si aggiunse al dominio di Lodovico Alidosi con l’annessionedel castello di Monte Battaglia. Ma il possesso di tale località generò ben presto conflittualitàtra la comunità di Tossignano e i comuni rurali di Valmaggiore, Posseggio e Mesola, coinvoltiin quella cessione, per il possesso di boschi e terreni sul crinale appenninico. Il 25 settembre il signore d’Imola si recò a Tossignano col suo commissario Antonio Tartagniper risolvere la vertenza, per render giustizia e imporre la pace in piazza a due famiglie diBelvedere. È questa l’unica volta, in dodici anni di governo, in cui Lodovico fa visita ai suoisudditi di quell’importante castello.Gli ultimi anni della Signoria Alidosiana a Tossignano furono tutt’altro che tranquilli: i confinitra Alidosi e Manfredi erano sempre contestati e diversi sudditi di Casola e Mongardino e dialtre zone della valle del Senio risultano citati in giudizio a Imola. Ma anche tra famiglie rivalidi Tossignano stesso, di Orsara con quelli della Torricchia di Codrignano, di Villa San Giovannicon quelli di Sant’Anastasio di Fontana continuavano uccisioni, odio e reciproche offese, adimostrazione che il contado e la città d’Imola erano in perenne subbuglio.Con la morte di Giorgio Ordelaffi, signore di Forlì, avvenuta il 25 gennaio 1422, la situazione

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6 C. ALBONETTI, Finanza, p. 15.7 Riportato per intero in S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 324.

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in Romagna subì un cambiamento radicale. Proprio quando la vedova Lucrezia Alidosi, tutricedel figlio Tebaldo, pensava di potere governare la città di Forlì come reggente, ebbe inizio ilperiodo conclusivo della signoria alidosiana su Forlì e su Imola.Infatti il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, già nel 1421 aveva inviato truppe in Romagnaper impadronirsi della regione. La morte di Giorgio Ordelaffi affrettò i tempi dell’interventomilanese, giacché il defunto aveva affidato in testamento il figlio Tebaldo alla tutela del Visconti.In pochi mesi Filippo Maria Visconti riuscì a impadronirsi dei territori alidosiani. Lodovico Alidosiil 2 febbraio 1424 perdette la signoria e la libertà.Nello stesso mese i Tossignanesi, sollecitati per mezzo di un’ambasciata dalla mogliedell’Alidosi, Taddea di Gilberto dei Pio di Carpi, stipularono con Luigi Crotti, commissario di FilippoMaria Visconti, i capitoli che il duca di Milano era disposto a concedere loro in cambio dellasottomissione al suo dominio. Nonostante l’opposizione di Firenze, che vedeva giustamente minacciati i suoi domini in Romagna,i Milanesi, nell’estate del 1424, trionfarono a Forlimpopoli, Dovadola, Galeata, Palazzuolo sulSenio, Brisighella, Solarolo, Granarolo, Gradara e Gabicce. Nella lotta erano impegnati i piùforti condottieri del tempo, come Nicolò Piccinino, Oddo di Braccio da Montone, Francesco Sforza,Francesco Bussone detto il Carmagnola e Guidantonio Manfredi.Le truppe viscontee dilagarono anche in val di Santerno; partendo dalla forte posizione diTossignano assoggettarono Valsenio e Casola il 24 e il 25 marzo 1424, con giuramento di fedeltàdegli abitanti nel monastero di San Giovanni Battista di Valsenio. Occuparono e presidiaronoFontana con 680 fanti e attaccarono il forte castello di Gaggio di Lambertino di UguccioneSassatelli, il quale si era messo sotto la protezione dei Fiorentini ed aveva ambiziosamente estesoil suo potere a Villa San Giovanni e a Sant’Anastasio di Fontana, a Monte Meldola, a Casale eagli uomini di Mezzocolle, scontentando non solo Imola, ma anche Bologna.Nello stesso anno era morto di peste a Montescudo di Rimini (mentre era ospite, con la madre, diCarlo Malatesta) il giovane Tebaldo Ordelaffi, che aveva offerto il pretesto al Visconti di invaderela Romagna. Il 1425 si chiudeva in favore di Milano. Ma contro la strapotenza dei Visconti si allearono aFirenze e Venezia gli Estensi di Ferrara, i Gonzaga di Mantova, il duca di Savoia e il marchesedel Monferrato. La loro lega fu firmata il 4 dicembre, affidando il comando delle truppe aFrancesco Bussone, detto il Carmagnola. Dalla parte milanese stavano Francesco Sforza e NicolòPiccinino. Di fronte alla minaccia di tanti avversari il duca di Milano richiamò in Lombardiamolte sue truppe dalla Romagna e, perduta Brescia il 17 marzo 1426 ad opera del Carmagnolaal soldo di Venezia, per non lasciare la Romagna nelle mani dei suoi avversari, ordinò al suocommissario Crotti di consegnarla alla Chiesa, con l’intenzione tuttavia di riprendere la lottain seguito.Così il 12 maggio il cardinale Lodovico de Alleman, legato di Bologna, inviò truppe al comandodì Luigi di Sanseverino a prendere possesso di Forlì, mentre egli stesso entrò personalmente aImola il 14 maggio.Anche Tossignano e Fontana gli giurano obbedienza, sottomettendosi alla Chiesa e a papa MartinoV. Ma negli atti del notaio Nanne Zanelli di Tossignano, che era al servizio del commissario Crottia Poni, permangono tracce di fedeltà al duca di Milano da parte dei conti di Dovadola, di Cunio,di Lugo e di Monte Battaglia, quasi che i Milanesi si riservassero di riprendere la guerra inRomagna mantenendo alcune posizioni come punto di partenza per altre offensive, come avvennepoi in realtà nella primavera del 1427. Per tutto il 1426, comunque, la Chiesa conservò il dominio

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di Forlì, di Forlimpopoli, di Imola e del suo contado.Sul finire del suo pontificato Martino V era riuscito a pacificare tutte le terre pontificie e a imporvila sua autorità, anche se non ovunque in modo stabile. Allo scopo di unificare le terreecclesiastiche il papa aveva rimesso in vita l’ordinamento amministrativo previsto dalleCostituzioni egidiane, apportando ad esse le modifiche rese necessarie dalla nuova situazionestorica delle regioni pontificie. All’interno delle terre della Chiesa continuava a sussistere la distinzione tra quelle immediatesubiecte e quelle mediate subiecte. Delle prime facevano parte tutti i grandi comuni non signorili,come Perugia, Bologna, Ancona e Macerata. Essi continuavano ad amministrarsi con governipropri e ad evolversi secondo il libero gioco delle forze politiche interne, anche se dovevanotener conto della giurisdizione dei funzionari provinciali del pontefice. Le terre mediate subiecte erano invece sottratte alla jurisdictio di questi ultimi. Il potere pubblicoera esercitato soltanto dal vicario e dal feudatario e il collegamento tra queste terre e la S. Sedeviveva sulla base del rapporto personale tra il signore e il papa. In esse, dunque, la principaleautorità di governo risultava il signore, il quale amministrava le sue terre al di fuori di ogniingerenza da parte della S. Sede, verso la quale era tenuto solamente al versamento del censoannuo e di altre contribuzioni in denaro, quale simbolo del suo riconoscimento dell’alta signoriadella Chiesa. I vicariati comprendevano una o più città e i contadi di queste, ove si trovavano i comuni rurali,proprietà feudali e allodiali. L’amministrazione interna dei vicariati non era uniforme, purpresentando caratteristiche comuni. In genere mancava, agli inizi del quindicesimo secolo, unastruttura di governo centrale in senso burocratico. La corte del signore si occupava indistintamentedella gestione del vicariato e collaborava con quello. Un embrionale apparato di ufficialiconsentiva, poi, al signore, di imporre la propria autorità sulle sue terre. Qui esistevano ancoraforme di autonomia, città e feudi, che pure il vicario tendeva a ridurre a vantaggio del suo governo. Alle città era sottratta l’amministrazione del contado; così i comuni rurali non giuravano piùfedeltà al comune dominante, bensì al signore8. Questi divideva, in genere, il contado in variecircoscrizioni e le affidava a propri rappresentanti, i quali risiedevano in castelli dai quali potevanocontrollare in modo adeguato le zone loro assegnate9.Il vicario possedeva, in genere, a titolo personale, vaste proprietà che amministrava attraversoufficiali diversi da quelli incaricati di compiti di governo. Questo limitava la rendita dei feudatarimeno favoriti, a favore del signore e delle famiglie a questo più vicine. La posizione dei vassalli della Chiesa, in particolare dei baroni delle regioni vicino a Roma,era in tutto e per tutto assimilabile a quella dei vicari pontifici. Anche essi erano titolari di ampiepotestà di governo, che escludevano l’esercizio di poteri pubblici da parte della S. Sede nelleterre loro assegnate. Sembra infine che fossero esenti da ogni onere fiscale verso la Chiesa etenuti soltanto a prestazioni simboliche, ad indicare la derivazione del loro potere dall’autoritàpontificia.

2.4 Il signore: tra storia e leggenda.Scrive a proposito del signore e dell’aspetto politico del medioevo romagnolo Piero Zama,riferendosi a un periodo che di poco precede quello preso da noi in considerazione:«I dominatori di Romagna sono in realtà i suoi cento tiranni: arditi avvoltoi che hanno il loro

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8 J. LARNER, Signorie, pp. 254-256.9 J. LARNER, Signorie, pp. 246-256.

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nido nelle rocche, nei castelli, entro le cittadine mura, nei palazzi guerniti a difesa, e che nelleimprese delle armi e nel calcolo della politica procedono come se fossero guidati dalle forzeprepotenti e sicure di un istinto10. Gli altri, e cioè i rettori pontifici, che Dante chiama lupi rapaci, non offrono alla plebe agitatae sofferente né pace, né sicurezza, né pane. La plebe vede il suo padrone in chi sa anchepercuoterla, in chi sa tuttavia guidarla e dominarla; mentre i rappresentanti della Santa Sedesono per quella plebe i gabellieri, i dazieri, i riscuotitori di tributi e di taglie, insomma genteesosa, ladri che dissanguano senza misericordia, e senza gloria. La plebe preferisce a costoroil tiranno che ha pure le sue glorie, lo spogliatore che ha pure le sue munificenze. Tipica figura veramente quella del tiranno di Romagna. La storia e la leggenda ne dicono legesta rivaleggiando nel racconto fantastico. La tragedia fosca, la vendetta orrenda, il cinismoripugnante, la simulazione astuta, sono i motivi dominanti di quel racconto. […] Egli è prontoalla strage come all’omaggio devoto, al furto e alla donazione, al sacrificio di sé, ed all’omicidio.Nell’ora di una pubblica generale penitenza, o in quella in cui, per l’invocato intervento divino,pare si debba consacrare un ravvedimento salutare, un universale perdono, il tiranno è in primafila col suo abito di religione. […] La plebe lo teme, lo odia, lo applaude. […] La Romagnamedioevale ha appunto la sua vita in quella tragedia dove il primo attore si chiama tiranno. L’altropersonaggio, ossia il rappresentante della Chiesa, recita una parte molto secondaria che lasciail pubblico tra l’indifferenza e il disprezzo. Così il tiranno fuori legge governa di fatto e rappresenta la Romagna, mentre il rappresentantelegittimo dell’autorità legalmente riconosciuta vocifera invano di fronte a quel vassallo ribelle.L’arcidiacono Amerigo di Castel Lencio (di Chalux) Rettore di Romagna mostra di avere unaesatta nozione del suo povero ufficio quando il 23 febbraio 1321 scrive da Cesena al vescovodi Marsiglia, camerlengo di papa Giovanni XXII, che nulla egli può fare contro le frodi e leviolenze dei tiranni e contro gli abusi dei magnati insolenti i quali colpiscono non solo i sudditi,ma la stessa repubblica e lo stesso Rettore11» .

3. Il pontificato di Eugenio IV. Continui disordini in Romagna.Oltre al sostegno di varie autorità interne, Martino V era riuscito a guadagnare al suo governoanche quello di alcune delle principali potenze italiane, come i Visconti di Milano e la casaregnante napoletana, mentre un sostanziale accordo lo legava alla repubblica fiorentina. Questo equilibrio italiano dipendeva e si inseriva nel più ampio quadro riguardante la Chiesauniversale e il sistema dei rapporti tra il papa e il Concilio. Per il fatto di essere stato elettoall’interno del Concilio di Costanza, Martino V si trovava ad essere espressione delle prevalentiforze ecclesiastiche, che in lui si rispecchiavano. Il pontificato di Martino V corrispose, dunque,sostanzialmente, ad un lungo periodo di tregua tra le opposte forze che si combattevano all’internodella Chiesa. Gli equilibri su cui era retto il governo di Martino V vennero invece a mancare al suo successore,Gabriele Condulmer che, eletto papa il 3 marzo 1431, prese il nome di Eugenio IV. Nel 1433il legato apostolico fuggì da Bologna, mentre, alla fine dell’anno anche Forlì si ribellò alla Chiesa,dandosi ad Antonio Ordelaffi e il legato pontificio venne addirittura imprigionato il 26 dicembre. Dal canto suo Faenza fu travagliata per diciotto mesi, dal 3 gennaio 1433, dalla rivalità tra i

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10 P. ZAMA, Romagna, pp. 11-13.11 P. ZAMA, Romagna, p. 15, cita “L. TONINI, Rimini nella signoria dei Malatesti, appendice di documenti al vol. IV, pg. 41 -

Fantuzzi, vol. V dei Monumenti ravennati, p. 391”.

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fratelli Guidantonio e Astorgio Manfredi; parimenti a Imola si ebbero gravi dissidi tra Nordiglie Sassatelli, col fallito tentativo di Almerico Nordigli di far insorgere la città contro la Chiesa.La situazione romagnola così accennata si ripercosse anche nell’alto Santerno. «Gravi contese si ebbero da ogni parte, in Romagna12. Si alternano in questi anni pacificazionie tregue a uccisioni e ferimenti a Fontana, Casale e Castel del Rio. […] Alla fine del 1433 lasituazione si presenta più che mai incerta e sarà affidata a grandi scontri d’armi, dai qualiemergerà in chiave locale la personalità di Guidantonio Manfredi, fiero e ambizioso sostenitoredi parte guelfa, fatto poi anche Signore d’Imola dal papa. […] Una lettera inviata il 25 ottobredal Vicario di Tossignano per la Chiesa, Giovanni Gibetti d’Imola, al luogotenente d’ImolaCristoforo dei Ricignoli, rispecchia la gravità e la minaccia della situazione. Le sue espressioni,in volgare, approssimate per chiarezza e per scarsa cultura, rivelano tuttavia un’ansiaincredibile…».

3.1 La signoria dei Manfredi di Faenza. «Guidantonio Manfredi, detto Guidaccio, un uomo d’arme irrequieto, che aveva fatto dell’artedella guerra un mestiere, svolse una funzione di predominio sul paese di Tossignano per quindicianni, che si possono definire di fuoco dal 1433 al 144813. Dal padre Gian Galeazzo fu Astorgio,morto di peste a Faenza nel 1417, i figli Guidantonio, Astorgio e Gian Galeazzo avevano ereditatoil titolo di Vicari della Santa Sede sulla città di Faenza.Guidaccio e Astorgio si diedero a fare i condottieri di ventura al soldo di diversi signori, oracon Filippo Maria Visconti duca di Milano, ora con Firenze, ora con Venezia, ora con la Chiesasecondo i vantaggi economici e territoriali che speravano di ottenere.Il 2 gennaio 1432 Guidaccio torna a Faenza dopo aver servito Venezia con 400 lance, mentresuo fratello Astorgio è passato al soldo del Visconti con 400 cavalli; allora Guidaccio riprendeil servizio con Venezia e i due fratelli, da veri condottieri di ventura, militano in campi oppostifino alla pace di Ferrara del 26 aprile 1433. Il 20 luglio Guidaccio è reduce alla sua Faenza ecrucciato per l’ascendente che vi prende Astorgio, riprende in mano il potere e caccia dalla cittàtutti coloro che non erano guelfi, schierandosi con la Chiesa.Proprio come campione del papato Guidaccio alla fine del 1433 viene in possesso di Tossignanoe di Dozza senza far guerra (alcuni scrivono per pacifico accordo con quei paesi rimasti fedelialla Santa Sede).Dopo un fallito tentativo contro Antonio Ordelaffi restaurato a Forlì con 1’aiuto diFilippo Maria Visconti, Guidaccio punta su Imola ribelle il 26 dicembre 1433, magli Imolesi fanno resistenza e poi passano dalla Chiesa al Visconti il 21 gennaio 1434,accogliendo 200 cavalli di Sagramoro e i fanti di Giovanni da Casale che stanziavanoa Lugo. […] In maggio Guidaccio non riesce e prendere Lugo, ma il 16 gli si arrendonoSant’ Agata e Cantagallo e il 4 giugno sorprende Massalombarda i cui abitanti gliconsegnano la rocca per riavere i loro ostaggi, catturati nei campi.In luglio però torna in Romagna l’abile e valoroso condottiero Nicolò Piccinino e con i rinforziricevuti dal Visconti, mille fanti e 3500 cavalli, concentra le sue forze a Forlì, dove altri 2500cavalli gli porta Bernardino Ubaldini della Carda e, passando all’offensiva si stanzia presso CastelBolognese, riprendendo Sant’ Agata e il 24 luglio Massalombarda, la cui rocca cade il 31. Anchela Lega guelfa raduna in Romagna un fortissimo esercito per riprendere Imola e Forlì.

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12 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 350.13 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 387-390.

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In questa lotta che deve decidere le sorti d’Imola si schierano i più illustri uomini d’armedell’epoca; contro il Piccinino al soldo del Visconti, per Firenze, Venezia e il Papa stanno Erasmoda Narni detto il Gattamelata, Giampaolo Orsini, Luigi dal Verme, Guidaccio Manfredi e piùtardi anche Francesco Sforza, fatto marchese d’Ancona dal Papa.E lo scontro appare di tanta importanza che il 18 agosto Filippo Maria Visconti in persona vennein Romagna. […] Il 25 agosto Niccolò Piccinino fa il tentativo di conquistare Tossignano, checostituiva un pericoloso sostegno per le forze che assediavano Imola… […] Il 28 agosto (1434)di sabato, festa di Sant’ Agostino, tre giorni appena dopo lo scontro di Tossignano, il Piccininosi prese una grande rivincita. Movendo al soccorso d’Imola assediata i Milanesi evitano Faenzae Castel Bolognese dove erano accampati i Capitani della Chiesa e puntano su Imola. Il Piccininocon le brigate capeggiate dal Rosmino, Sagramoro, Bernardino Ubaldini della Carda, in tuttocirca tremila cavalli e non molti fanti, si scontra con l’esercito della Lega al rio Sanguinario,tra Imola e Castel Bolognese, dove lo aspettavano il Gattamelata, l’Orsini, Nicolò da Tolentino,Astorgio Manfredi e Guidaccio, Taddeo d’Este figlio del marchese di Ferrara, Luigi dal Vermecon circa quattro mila cavalli e un numero imprecisato di fanti.La battaglia che fu detta del Ponte di San Lazzaro, si combatté da ore 19 a ore 21, coinvolgendouna massa imponente di uomini e di cavalli e le forze della Lega andarono in rotta lasciandoprigionieri sei capi: Nicolò da Tolentino, Gian Paolo Orsini, Astorgio Manfredi, Cesare daMartinengo, Lodovico da Forlì, Giovanni del Mostarda.Guidaccio riuscì a fuggire a Faenza e il Gattamelata e Taddeo d’Este si salvarono a CastelBolognese. Scampò Baldovino di Nicolò da Tolentino con 450 cavalli, riparando a Modiglianae a Castrocaro e circa 500 cavalli di Gian Paolo Orsini furono tenuti in ostaggio a Forlì fino al3 settembre, pagando ben 5.020 fiorini di riscatto.Moltissimi furono i prigionieri, il carriaggio fu tutto perduto, tutta la strada era ingombra di roba,il popolo, uomini e donne, accorse da Imola a far preda, un frate minore d’Imola prese un valenteuomo d’arme a cavallo, facendolo arrendere addirittura a San Francesco.Sfruttando il successo il l° settembre il Piccinino attacca e prende Castel Bolognese e dopo ottogiorni ne espugna la rocca, conquista Bagnara il 12 settembre e la salva dal saccheggio in cambiodi una taglia di duemila fiorini e cinquecento staia di grano, obbligando gli abitanti a tornaresotto Imola. Il 30 settembre ottiene la resa di Granarolo, che promette di riscattarsi con tremilafiorini e cinquemila staia di grano, però il 7 ottobre il castello andò a fuoco e fu evacuato, maGuidaccio mandò dodici fanti a presidiare una rocchetta che si era salvata.Il 25 ottobre il condottiero visconteo si presenta sotto le mura di Castel San Pietro attacca econquista a forza Dozza il 26 e il 31 ottiene la resa di Castel San Pietro, i cui abitanti gliconsegnano il Vicario fiorentino lasciatovi di presidio con 300 fanti e promettono il pagamentodi 12.000 ducati.Però in novembre il conte Francesco Sforza da Cotignola entra al soldo del Papa con mille lancee 800 fanti rafforzando la Lega e il Piccinino dopo aver assediato inutilmente Castelfranco perdiciotto giorni si reca a svernare in Lombardia, dopo aver promesso a Bologna di tornare in suoaiuto a primavera.Imola è sempre presidiata da truppe milanesi, che la proteggono dalle incursioni di GuidantonioManfredi, in armi con 800 cavalli e 500 fanti.Alla ripresa delle operazioni militari nel 1435 Francesco Sforza riprende Imola per il Papa eil 27 marzo è in città. Guidaccio Manfredi vien fatto Capitano generale in Romagna per contodi Venezia e fa altri tentativi per prendere Lugo e attaccare Bologna, ma fra le parti in lotta

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promuove un accordo Nicolò d’Este e così si concluse la pace a Firenze il 10 agosto 1435.Tutte le città di Romagna tornarono alla Chiesa e anche Bologna trattò la pace col Papa il 27settembre.Guidantonio Manfredi, che aveva sperato d’ingrandire il suo dominio, dovette restituire alla Chiesai castelli da lui occupati, cioè Tossignano, Monte Battaglia, Riolo, Baffadi, Sassatello, Belvedere».

4. Nuovi equilibri sotto Niccolò V.Gli ultimi anni di Eugenio IV avevano visto la progressiva affermazione del potere pontificiosulle forze del Concilio di Basilea. Tale processo proseguì sotto il suo successore, TommasoParentucelli, eletto il 6 marzo 1447 col nome di Niccolò V. Questo portò in pochi anni allaconclusione delle scisma con la riunione di tutta la cattolicità sotto il papa14. Dopo i lunghi anni del grande scisma e quelli della lotta contro il Concilio di Basilea, la S. Sedecon Niccolò V cominciò a decurtare in maniera sensibile le proprie pretese sulla cristianitàeuropea, contenendo in parte i diritti vantati sulle terre e sul clero dei vari stati cattolici15.Rinunciando, a favore dei prìncipi, a molti benefici e a molti diritti fiscali, ottenne in cambioil sostegno di quelli alla propria politica temporale. Tale politica indusse il papato ad accentuareil proprio interesse per le terre italiane della Chiesa. Anche per le città di Imola e di Faenza si verificarono dei cambiamenti in seguito alla mortedi Guidaccio, avvenuta nel giugno del 1448. Astorgio Manfredi gli subentrò a Faenza, lasciandoal giovane nipote Taddeo, di soli diciassette anni, il dominio di Imola, il 27 giugno 1448.

4.1 La signoria di Taddeo Manfredi a Imola.I rapporti tra Astorgio e Taddeo Manfredi, inizialmente buoni anche per la doppiezza di Astorgioe la timidezza di Taddeo, si andarono velocemente logorando quando Astorgio mantenne Faenzacome proprio dominio personale. Per questa usurpazione seguirono contrasti a non finire tra idue e aperta ostilità tra le città di Imola e di Faenza16.Nel settembre del 1449 Taddeo, per fronteggiare lo zio Astorgio, provvide a fortificare la roccadi Monte Battaglia, ma i confini lungo le rive del Senio erano più che mai incerti.«Il marchese di Mantova Carlo Gonzaga aveva sposato nel 1445 Rengarda sorella di Taddeo eil 23 ottobre 1448 il suo segretario Giovan Bernardo dei Mondadori di Parma aveva provvedutoa consegnare la rocca di Tossignano a Giacomo di Giovanni da Rontana di Val d’Amone, destinatoa custodirla per Taddeo17. […] A quanto pare la sorella Rengarda e il marchese Gonzaga, dettoCommissario di Romagna, esercitavano una vera tutela sul giovane Taddeo. […] Ai governatoriBaldassarre da Baffadi e Giovanni dei Breghenzoni d’Urbino che lo sostituì 1’11 settembre 1449Taddeo affidò la responsabilità di governare da Tossignano un vasto territorio, comprendentetutte le località già appartenute a suo padre, come Monte Battaglia e i suoi Comuni diCampalmonte, di San Ruffillo, di Castel Collina, di Monte Oliveto, di Montefortino, di Riovalle;di Fontana e i suoi dintorni con Montepieve, Gesso, Sassatello, Castiglioncello; di Gaggio conFornione, Cantagallo, Valmaggiore, Paventa; di Riolo con Casola dei Casolani, Sassoletroso, Trarìo,Cestina, Castel Pagano e Baffadi».È questo un periodo di grandi difficoltà economiche per il signore di Imola, che si vede costretto

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14 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 65.15 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 67.16 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 418.17 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 418-420.

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in più occasioni a privarsi di poderi e a concedere in affitto castelli, come accade per il castellodi Cantagallo nel 1450.«Anche con i suoi squadreri d’arme capitavano vertenze di stipendio, risolte per intervento diMalatesta Novello dei Malatesta18. Subito nel gennaio 1451 invia un suo uomo d’arme a Venezia,Marchese fu Romagnolo da Baffadi, per farsi riconfermare al servizio della Signoria comestipendiario di fanti e di cavalli, ma nella lotta che si era accesa tra Venezia e Milano non èfortunato perché suo cognato Carlo Gonzaga dei Marchesi di Mantova, sposo di sua sorellaRengarda, è caduto prigioniero e suo fratello Lodovico per poterlo riscattare deve chiedere aFirenze un prestito di ottantamila ducati, che Taddeo garantisce per diecimila da rimborsarein dieci anni. E urgeva pure rinnovare il censo del Vicariato d’Imola, Distretto e Contado pressopapa Niccolò V al quale Taddeo invia messer Marino fu Nicola dei Vecchi di Tagliacozzo. […]Nella guerra tra Alfonso V d’Aragona re di Napoli e la Repubblica fiorentina di Cosimo dei Medici,Astorgio entrò al soldo del re con 1500 cavalli e molti fanti, mentre Taddeo si schierò con Firenzecon una condotta di 1200 cavalli e 200 fanti, perciò ebbero motivo di affrontarsi. Infatti Astorgione approfittò subito per impadronirsi della forte posizione di Monte Battaglia.Il 20 agosto 1450, a ore cinque di notte l’armigero Alfonso Hispano, al soldo del re di Napoli,forza la rocca in nome di Astorgio e il 22 si arrendono gli uomini di Monte Battaglia, di Casola,di Stifonte, Fontana Moneta e Baffadi e giurano fedeltà ad Astorgio. Il 23 gli si arrende ancheRiolo Secco, e il 25 muove contro Imola, ma fu incontrato per via da due maggiorenti, GuidoVaini e Domenico Pieravenali, che offrirono un compromesso a nome di Taddeo, pena ventimilascudi, affidandosi al lodo di Francesco Sforza e di Cosimo dei Medici, con facoltà di sentenzaentro due mesi e a garanzia diedero in ostaggio Filippo di Baldassarre Garatoni e Biagio di Bettino.Ma i due illustri pacieri, che nutrivano ambiziosi progetti sulla Romagna, trascinarono a lungoil carteggio con i contendenti senza raggiungere una pacificazione».Taddeo si rivelò molto debole anche nelle questioni interne19. Per questo motivo la moglieMarsibilia si vide costretta a sostituire il marito sia nella gestione finanziaria che in quellapolitica20.

4.2 Nuovi contrasti tra Taddeo e Astorgio Manfredi.Nel 1460, sotto il pontificato di Pio II, eletto nel 1458, scoppiò un’altra crisi tra Taddeo e AstorgioManfredi. Il 16 gennaio Astorgio si alleò con i fiorentini e Taddeo venne assoldato per tremilafiorini da Francesco Sforza, che manteneva su Imola una vera e propria tutela.Cornelia, sorella di Taddeo, aveva sposato Tiberio Brandolini, condottiero al soldo del duca diMilano. Con quelle milizie «Taddeo cavalca contro Faenza la notte del 6 maggio, mentre Astorgioera assente21. […] Respinto con disonore a Solarolo, dove fu catturato un suo armigero dell’anticafamiglia dei Garatoni di Brisighella, consegnato ad Astorgio, Taddeo e gli Imolesi furono messiin bando come ribelli.Il Duca di Milano dovette scusarsi con Astorgio perché un manipolo di truppe sue avevapartecipato a quell’aggressione e fingere di rimproverare Taddeo; fra i due si professava amicodi entrambi, ma in realtà favoriva la loro inimicizia e affermava che il loro problema spettavaalla Santa Sede e al Legato di Bologna».

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18 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 419.19 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 422.20 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 422-427.21 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 428.

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Continuarono in quegli anni rappresaglie e saccheggi su tutte le terre dei due parenti. «La pacesi fece solo nel 1463: Astorgio restituirà Pediano, Mezzocolle, Monte Meldola, Piovego, Torricchiadi Codrignano e i pozzi di sale di Mongardino, rimettendo a Taddeo tutti i diritti che ha su Imolamentre il nipote rinuncerà ai suoi diritti su Faenza e si adopererà perché Angelo Gherardini,Commissario pontificio in Romagna, non trovi difficoltà a concludere la vertenza22. Ma il problemafu rinviato perché Monte Battaglia e Riolo Secco, pomo della discordia, furono dati in consegnaai Malatesta e poi saranno affidati a Carlo e a Giangaleazzo Manfredi.Le due terre perdute da Taddeo riaprirono il dissenso tra i due Manfredi, che Francesco Sforzagarante di quella pace favoriva col suo contegno ambiguo. La sua influenza sul debole Taddeoera così evidente che il Consiglio comunale d’Imola, avuta notizia del compromesso da lui fatto,si riunisce il 4 dicembre 1463 in San Cassiano e decide di protestare perché non vogliono cheil Duca s’intrometta nella giurisdizione e sui diritti e sui beni del Comune, lamentando tutte leazioni fatte in pregiudizio del loro Comune. E l’intenzione loro e degli Imolesi è stata giàmanifestata a voce e con oratori al Sommo Pontefice.A Francesco Sforza, morto nel 1466, succede a Milano il figlio Galeazzo Maria, che usa metodipiù duri e brutali con Taddeo. Scomparso anche Cosimo dei Medici (1464) la politicadell’equilibrio fra i cinque Stati Italiani finì».

5. Galeazzo Maria Sforza a Imola.Nel 1467, divenuto papa nel frattempo Paolo II, Milano, Firenze e Napoli formarono una legain reazione al tentativo di Venezia di rovesciare la signoria medicea in Romagna. Astorgio Manfredi, resosi conto che si sarebbe combattuto nel suo Stato, passò ai Veneziani conla promessa di avere Imola. Sconfitto, però, dal duca Federico, fu costretto a chiudersi a Rontana. Fattosi ancora più pericoloso l’esercito della lega, «ingrossato da seimila uomini al comandodi Galeazzo Maria Sforza e da rinforzi di Fiorentini e Napoletani23» Bartolomeo Colleoni, al serviziodi Venezia, desistette dall’assediare Imola e si ritirò tra Faenza, Cotignola e Castel Bolognese,continuando però ad avere in mano il contado della città.«Temendo un voltafaccia di Taddeo Manfredi, Galeazzo Maria Sforza sta di guardia al Bolognese,mentre gli avversari si spingono a Cantalupo, saccheggiando i dintorni di Medicina e di CastelGuelfo24. Un tira e molla vero e proprio, prodotto da sospetti e paure reciproche, che alla finesi concretizzò in uno scontro alla Mezzolara (Molinella) il 25 luglio, con molti feriti da entrambele parti, ma senza esito conclusivo. Per parare una minaccia di Venezia in Lombardia, GaleazzoMaria Sforza lascia il comando al Duca d’Urbino, il Colleoni ammalato va ad Argenta e il suoesercito si fortifica a Mordano. Quando la Lega attacca Riolo Secco e Val di Lamone, Astorgioaccorre a difendere le sue terre, ma in una scaramuccia subisce gravi perdite e ripara a Rontana.In ottobre per la pessima stagione e la pestilenza i due eserciti tornano alle loro basi e il Ducad’Urbino sverna a Imola, in cui stava Taddeo stipendiario di Firenze ».Il 25 aprile 1468 si stipulò la pace che sanciva la fine delle ostilità in tutta Italia, dopo settemesi di lotta. Pochi giorni dopo Astorgio Manfredi morì, lasciando i figli Carlo proclamatosuccessore, Galeotto e Federico.«Galeazzo Maria ormai dirigeva tutte le mosse della politica imolese, sia con le truppe di presidio,che accordando sua sorella naturale Fiordalisa in moglie a Guidaccio figlio di Taddeo, sia fingendo

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22 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 428-429.23 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 430.24 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 430.

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di ascoltare le molte lagnanze del Manfredi, sempre in urto con la Camera Apostolica perl’investitura che andava rinnovata ogni dieci anni e che temeva di perdere, e soprattutto in urtocon la terribile Marsibilia che non gli perdonava di avere un’amante, e lo aveva abbandonatorecandosi a Forlì da Pino Ordelaffi, marito di sua figlia Zaffira25.Questa situazione fu sfruttata dal Duca di Milano, che poteva temere un accordo tra l’Ordelaffie Marsibilia per togliere la rocca d’Imola a Silvestro da Viarana suo fedele, quindi cominciò adinviare truppe nel territorio e a prestare ascolto al suo segretario Cicco Simonetta per il qualeGuidaccio, approfittando del malumore degli Imolesi, cospirava per sostituirsi al padre.Il 9 novembre 1471 l’emissario dello Sforza s’incontrò con Nicoletto Tartagni che trattava pertogliere Imola a Taddeo, ma lo Sforza voleva Imola per sé, non per Guidaccio.A Imola la rivolta scoppiò il 13 dicembre, col favore di Antonio Vaini, di Nicoletto Tartagni, diMarco Broccardi e quarantaquattro altri della nobiltà e del popolo. Guidaccio, istigato dalla madreMarsibilia, depose il padre chiudendolo nella rocca insieme alle sorelle, all’amante e al PodestàNicolò da Ferrara. L’azione di Guidaccio non fu gradita al Duca, che all’inizio del 1472 convocòa Milano prima Taddeo e poi Guidaccio per delle trattative che si prolungarono fino al 21 aprile1473. In seguito all’accordo l’ex Signore d’Imola riceve in dominio la città di Tortona in Piemonte,mantiene i suoi diritti su Faenza e riscuote duemila ducati per le munizioni e provvigioni chesi trovano nelle rocche e nei castelli del Vicariato d’Imola, insieme alle entrate stabilite dallesentenze e dalle condanne fino al 31 dicembre 1473. I possessi personali di Taddeo e delle sorellein territorio imolese sono rispettati e considerati esenti da tasse. Dal 1° gennaio 1474 il Ducadi Milano pagherà il Podestà di Imola, mentre Taddeo pagherà quello di Tortona. Guidaccio,che non si oppose, sposò ed ebbe la dote di Fiordalisa figlia naturale del Duca e si stabilì aMilano, dove morì nel 1478. […] Il 25 ottobre 1472 l’ingannato Taddeo Manfredi, sollecitatoa cedere tutti i fortilizi al Duca, scrisse al Castellano di Valmaggiore pregandolo di cedere larocca alle sue sorelle, giacché aveva perso il contrassegno di consegna. […] Quattro mesi dopo,avendo già combinato con Sisto IV (eletto nel frattempo successore di Paolo II) le nozze dellafiglia illegittima Caterina Sforza con Girolamo Riario, il cardinale Pietro Mario fratello dellosposo giunse a Milano il 12 settembre e in pochi giorni concluse le trattative col Duca, tantoche ripartì il giorno 20. Imola, venduta per quarantamila fiorini, costituì la dote di Caterina eil 7 novembre 1473 il Papa emanò la Bolla d’Investitura d’Imola a suo nipote il conte GirolamoRiario.Il 10 febbraio 1474 Giovanni Avogadro, Commissario ducale, consegnò la città e la sua roccaa Giovanni Mella e a Lorenzo Giustino inviati dal conte Girolamo Riario a prenderne possesso,come avvenne per Dozza il giorno 11, per Tossignano e Codronco il 12, e per Bagnara e Mordanoil 13. E dal 15 marzo 1474 Lorenzo Giustino da Città di Castello governò Imola e il suo Contadoper il Riario.Taddeo Manfredi fu spodestato anche di Tortona, ricevendo in cambio le terre del Bosco diAlessandria col titolo di conte, ma solo come alto dominio perché anche quel territorio entròpoi a far parte della dote di Caterina. Di Taddeo stabilitosi a Milano, sempre in rotta con Marsibilia,si sa solo che era caduto molto in basso e s’ignora perfino la data della morte.Ma anche il crudele e violento Galeazzo Maria Sforza incontrò la morte, assassinato il 26 dicembre1476 dai congiurati nella chiesa di Santo Stefano a Milano dopo dieci anni di potere».

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25 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 431.

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6. La signoria di Girolamo Riario e Caterina Sforza. Tra il 1478 ed il 1484 ci furono gravi dissidi tra il pontefice Sisto IV e la casata de’ Medici.Della sfavorevole situazione in cui si era venuta a trovare la repubblica toscana tentò diapprofittare Girolamo Riario. Con la pace di Bagnolo, tuttavia, conclusa 1’11 agosto 1484, come visto, si ristabilì la situazioneitaliana configuratasi a seguito della pace di Lodi, senza vantaggi per Girolamo Riario e perSisto IV, morto il giorno dopo, 12 agosto. «Nei soliti tumulti che seguivano a Roma ogni morte di Papa, Girolamo fu ospite degli Orsinifuori città, mentre Caterina si chiuse in Castel Sant’Angelo e il loro palazzo venne posto a sacco26.Avendo poi Girolamo ceduto alla volontà dei cardinali, Caterina sgombrò Castel Sant’Angeloil 25 agosto e il nuovo papa Innocenzo VIII eletto il 29 agosto, riconfermò al Riario il Vicariatod’Imola e Forlì e i due sposi partirono per il loro Stato il 4 settembre.Trovarono però un ambiente ostile, sia da parte dei sudditi che di nemici esterni. Nell’infidaForlì i Manfredi di Faenza opponevano i diseredati Ordelaffi, i Bolognesi padroni della Bastiadi Codronco stabilivano le decisioni da prendere a Codronco e a Carseggio, e Sassoleone sottola loro influenza si rifiutava di pagare le decime al Vescovo d’Imola. Un colpo di mano tentatodai Manfredi su Imola fallì, col risultato che tredici Imolesi furono impiccati dal Riario.Girolamo aveva ritenuto di accattivarsi l’animo dei cittadini con elargizioni in grano, abolizionedi dazi ed esenzioni fiscali, ma non aveva più le entrate garantite dallo zio Sisto IV e le speseeccessive fatte nei dieci anni che andarono fino alla morte del papa e quelle che si aggiunseronel 1485 provocarono l’abolizione delle concessioni fatte a partire dal gennaio 1486. […] Ognifamiglia a Imola dovette sborsare lire 20 per portare da cento a quattrocento i cavalli della guardiadi Girolamo, il cui regime divenne intollerabile anche a Forlì. […]Caterina nell’aprile 1487 cercò dai suoi parenti di Milano un appoggio contro le minacce deinemici esterni e tornò in maggio per la malattia del marito Girolamo, ma tre mesi dopo dovetteaffrontare la difficile situazione che si era creata a Forlì. Il 12 agosto Innocenzo da Codronco,capo delle guardie di palazzo, con altri cinque del Contado d’Imola aveva ucciso il castellanoMelchiorre Zocchi da Savona per vendicarsi di un oltraggio e si era impadronito della rocca diRavaldino, con intenzioni non ben precisate. Solo l’intervento deciso della Contessa valse a farglirestituire la fortezza dove fu nominato quale nuovo castellano Tommaso Feo.Tornata a Imola in compagnia del Codronchi, Caterina si recò poi a Forlì il 2 novembre con ilmarito […] ma non poté impedire il processo-vendetta fatto ai Raffi per un’altra sommossa,conclusosi con sei impiccati e squartati. E di lì a poco Girolamo Riario pagò con la vita la vio-lenza con cui voleva esercitare il potere: la sera del 14 aprile 1488 fu ucciso a quarantacinqueanni d’età da una congiura tramata dalla famiglia degli Orsi, nel suo palazzo di Forlì e il suocadavere per maggior offesa fu scaraventato in piazza dalla finestra. […] Il popolo di Forlì,appoggiando l’assassinio insorse, imprigionando Caterina con sei figli, la madre e la sorella, mala rocca non si arrese e Caterina col suo contegno entrò immediatamente nella storia e nellaleggenda. Con la scusa di parlamentare col suo castellano Tommaso Feo, lasciò in ostaggio ifigli ai Forlivesi e riuscì a farsi ricevere in rocca, ma solo per mantenersi libera e provocaresoccorsi, minacciando terribile vendetta se gli avessero ucciso i figli. Se avessero commesso talemisfatto, gridava, essa era in grado di partorirne altri, ma i Forlivesi se ne sarebbero pentiti.[…] Essa ebbe subito il soccorso del fratello Gian Galeazzo duca di Milano, che inviò controForlì Giovanni Bentivoglio al suo servizio con otto squadre di cavalleria pesante, duecento cavalli

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26 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 586-587.

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leggeri e duemila fanti con il conte Nicolò Rangoni, truppe che incontrarono a Forlì Galeazzoda Sanseverino, capitano milanese con quattordici squadre di uomini d’arme e quattrocento fanticon i quali assediarono la città. I congiurati insorti, abbandonati da papa Innocenzo VIII e daLorenzo dei Medici, fuggirono a Città di Castello e il 30 aprile Milanesi e Bolognesi diedero aOttaviano, figlio dell’ucciso Girolamo, ancor fanciullo, la Signoria di Forlì, affidandolo alla madreCaterina e a Giovan Pietro Bergamini, ufficiale dello Sforza di Milano. […] Il 30 luglio 1488papa Innocenzo VIII diede a Ottaviano l’investitura del Vicariato di Forlì e d’Imola, ma in realtàgovernava sua madre Caterina27»

6.1 Il Contado di Imola dopo la morte di Girolamo Riario.«Gli abitanti di Monte Battaglia alla notizia della morte di Girolamo riuscirono ad occupare laloro rocca, dove era castellano Pietro Spinola con la moglie Maria e gli armati Gregorio Florio,Stefano Bianchi e suo figlio Giacomo, tutti di Savona, e la offrirono a Galeotto di Astorgio Manfredidi Faenza, il quale la rifiutò per timore di Gian Galeazzo Sforza e delle truppe che erano statemandate in aiuto di Caterina28. Fallito il tentativo il nuovo castellano catturò i responsabili dellaribellione. Gli altri abitanti riunitisi in arengo il 12 maggio col massaro Zanone fu Pirazzolo daSan Ruffillo in numero di trentacinque promisero obbedienza a Ottaviano Riario e inviaronoMatteo di Giovanni Landi e Domenico di Giovanni Nanni a prestare giuramento di fedeltà. […]Tossignano, dove era Capitano il dottore in legge Annibale da Verona rimase tranquillo, nonostantela notizia data dai congiurati per Lorenzo il Magnifico; Cantagallo col massaro Giovanni di Visoe Valmaggiore col massaro Baco di Bitino giurarono obbedienza a messer Bertino luogotenentedi Ottaviano Riario e così fecero anche Belvedere, Riolo, dove era castellano Corradino Feo diSavona, Valsenio e Casola. Casale e la sua Podesteria con Croara e Sassoleone rimasero diGiovanni Bentivoglio e Castel del Rio restò ancora in Vicariato di Firenzuola, sotto Firenze, anchese gli Alidosi fecero di tutto per riaverlo. E ci riuscirono il 9 gennaio 1494 per intervento diGiuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, presso i Priori della Libertà diFirenze29».

6.2 Caterina al governo di Forlì e di Imola.«Dopo la morte del marito, Caterina governò subito con gran decisione, superando situazionidifficili, avendo solo venticinque anni30. […] La resistenza opposta dalla rocca di Ravaldino aCesare Borgia e ai francesi per ventiquattro giorni dal 19 dicembre 1499 al 12 gennaio 1500è diffusamente narrata da tanti e diversi storici, tutti con animo di magnificare le doti di CaterinaSforza, donna guerriera tra le più grandi della Storia.Prigioniera finché il papa non la costrinse a rinunciare al suo Stato il 30 giugno 1501, la Contessadi Forlì divenne una vera e propria leggenda, anche dopo la sua morte avvenuta a Firenze il 29maggio 1509, a quarantasei anni. […] Gli Imolesi la temettero, non l’amarono e le furonoparticolarmente ostili Giovanni Sassatelli e Guido Vaini, i cui padri erano stati uccisi da lei.Tuttavia, come dice Machiavelli, «gli uomini si dimenticano più presto la morte del padre chela perdita del patrimonio» e Sassatelli e Vaini, con Broccardi, Tartagni, della Bordella, dellaVolpe, Ettorri, Orsolini, Cantagalli, Ferreri, Ferri, travagliati dai Riario anche dopo la morte di

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27 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 588-589.28 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 587.29 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 588.30 S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 598.

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Caterina, non rinunciarono ad inoltrare un Memoriale nel 1513 al nuovo papa Leone X,rivendicando un danno per l’incredibile somma di 100.300 ducati d’oro, arrecato alle loro famiglieda Caterina, foemina sanguinaria».

7. Cesare Borgia in Romagna. La lotta contro Caterina Sforza.Il 12 gennaio 1500 Cesare Borgia costrinse, come detto, Caterina Sforza a capitolare e laimprigionò. Dopo la rivolta antifrancese di Milano, che sottrasse per qualche mese a Cesare Borgial’appoggio degli eserciti di Luigi XII, in ottobre il duca Valentino mosse contro Pesaro e Rimini,i cui rispettivi signori, Giovanni Sforza e Pandolfo Malatesta, preferirono fuggire anziché affrontarel’esercito pontificio. Si volse poi contro Faenza: qui Astorre III Manfredi, con l’aiuto di Giovanni Bentivoglio, riuscìad organizzare una efficiente difesa e seppe resistere fino al 25 aprile 1501, giorno in cui fuimprigionato. Ottenuta dal Bentivoglio la cessione di Castel Bolognese, il Borgia si trovò inpossesso dell’intera regione e il pontefice gli conferì il titolo di duca di Romagna31.Egli, tuttavia, non promosse nelle sue terre una politica accentratrice: si limitò a istituire a Cesena,capitale della nuova signoria, un tribunale centrale d’appello, la Rota, competente per tutto ilducato, e a dividere quest’ultimo in province, al vertice delle quali era un governatore32. Conservò,per il resto, le autonomie comunali, senza tentare di limitarle. Così, alla metà del 1503, i Borgiaerano in grado di controllare tutte le regioni pontificie. All’apice del successo, Alessandro VI il 18 agosto 1503 moriva a Roma. Il suo pontificato avevatrasformato l’assetto politico che da tempo si era affermato all’interno delle terre della Chiesa.Egli si era avvalso del crollo degli equilibri italiani e delle lotte accesesi tra potenze europeeper il dominio di alcuni Stati della penisola al fine di eliminare antichi vicariati ed espropriarefeudi di grandi famiglie baronali. Il sistema politico da lui realizzato con l’aiuto del figlio Cesare si basava, però, essenzialmentesulla forza della famiglia Borgia, sul sostegno che questa riceveva dalle potenze straniere e nongià sul consenso sicuro delle oligarchie dominanti nelle varie regioni: di qui il suo rapido crolloalla morte del papa. Alla fine di agosto e nei primi giorni di settembre del 1503, infatti, Urbino, Camerino, Pesaroe Rimini tornarono ai loro antichi signori, che Venezia sosteneva. I Riario, gli Ordelaffi e i Man-fredi si apprestavano a rientrare nelle loro città.In poco tempo al duca Valentino rimasero solo alcune rocche del suo ducato. Egli si mostrò alloradisposto a trattare col collegio dei cardinali ed ottenne, dietro giuramento di fedeltà allo stesso,la conferma della sua carica di gonfaloniere della Chiesa.

8. L’elezione di Giulio II e la penetrazione veneziana in Romagna.Il 10 novembre 1503 il cardinale della Rovere era eletto papa e assumeva il nome di GiulioII. I problemi che questo si trovava davanti erano i medesimi che aveva dovuto fronteggiarePio III, suo predecessore, con l’aggravante di una più accentuata penetrazione veneziana inRomagna. Agli inizi di ottobre Pandolfo Malatesta aveva lasciato Rimini e ne aveva ceduto la signoria aVenezia, la quale durante il brevissimo pontificato di Pio III si era già impadronita di Fano eMonfiore. Alla metà di novembre dello stesso anno anche Faenza passò in mano veneziana, mentre

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31 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 155.31 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 156.

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sempre più decise si facevano le aspirazioni della Serenissima su Imola, Cesena, Forlì ed altrecittà romagnole.L’elezione di Giulio II aveva indotto i cittadini di Fano a ritornare al governo della Chiesa, maciò non pareva ostacolare il progetto veneziano di conquista della Romagna. Il pontefice non poteva contare su un esercito in grado di contrastare l’avanzata veneziana,né di eliminare la presenza in quella regione di Cesare Borgia, le cui truppe erano ancora inpossesso dei castelli di Forlì, Cesena e Bertinoro. La presenza in Romagna, inoltre, fornivaa Venezia il pretesto per espandere i propri possedimenti nella regione: il governo lagunaredichiarava, infatti, di aver occupato le città romagnole proprio per evitare il risorgere dellapotenza di Cesare, perniciosa anche per la Chiesa, e chiedeva di tenerle, in qualità di vicarioapostolico.Giulio II procedette per gradi, cercando di riaffermare in primo luogo la sovranità della Chiesanelle zone ancora libere dal dominio di Venezia. Con quest’ultima mantenne un atteggiamentoduro, specialmente dopo la conquista da parte della Serenissima, alla fine del 1503, di Verrucchio,Tossignano, Russi e Santarcangelo, escludendo ogni possibilità di accordo fino a che la stessanon avesse restituito le terre occupate

33.

Non essendo in grado, peraltro, di opporsi alla conquista veneziana indirizzò la sua azione versoil recupero dei castelli borgiani, sostenendo nel contempo quelle oligarchie cittadine che nondesideravano né richiamare gli antichi signori, né passare al dominio veneziano. Imprigionato Cesare ad Ostia, il pontefice lo fece venire a Roma nel novembre 1503 e trattòcon lui per cinque mesi la restituzione dei castelli, offrendogli come contropartita la liberazione.Nella primavera del 1504 Cesena e Bertinoro tornarono alla Chiesa, seguite poco dopo da Forlì.Dal canto suo, Cesare il 19 aprile lasciò Roma per recarsi a Napoli e subito dopo Giulio II ottenneanche il passaggio al dominio diretto della Chiesa della città di Imola, consegnata nelle manidel cardinale Raffaele Riario il 21 luglio.Vista l’impossibilità di risolvere il problema romagnolo per via diplomatica, Giulio II cercò dicostituire una coalizione antiveneziana attraverso la quale svolgere pressioni su Venezia pergiungere ad un accordo. Ad esso si arrivò nel marzo del 1505, quando Venezia restituì le cittàe le terre minori, restando in possesso di Rimini e Faenza per le quali, però, il pontefice rifiutòdi concederle il vicariato

34.

Prima di compiere ulteriori passi verso la riconquista della Romagna, il pontefice cercò digarantirsi la tranquillità nelle terre della Chiesa, al fine di prevenire l’insorgere di opposizioniche avrebbero indebolito la sua azione antiveneziana. Rinsaldò così i vincoli con le famigliebaronali romane e il 26 agosto 1506 lasciò Roma per sottomettere Perugia e Bologna, col consensodel re francese Luigi XII. Agli inizi di settembre, infatti, Perugia era conquistata. Rinnovata poi l’alleanza con la Francia, Giulio II mosse contro Bologna, dove entrò trionfalmentel’11 novembre 1506, cacciandone il Bentivoglio. Il papa si fermò nella città durante l’inverno1506-1507 e riformò il governo comunale in modo da consolidare il controllo da parte deifunzionari pontifici e imporre l’esclusione dei bentivoglieschi dalle magistrature cittadine, conla conseguente più ampia partecipazione alle stesse degli ottimati schieratisi a favore della S.Sede. Nel febbraio 1510, di fronte ad una nuova sconfitta veneziana alla Polesella e al rinnovato accordotra Francia e Spagna, le trattative veneto-papali si conclusero: Venezia restituì tutte le terre

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34 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 167.35 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 168.

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romagnole, rinunciò al vis-dominato su Ferrara, al diritto di appellarsi al Concilio contro il papae a ogni diritto fiscale sugli ecclesiastici. Consentì, inoltre, al pontefice la piena libertànell’attribuzione dei benefici e riconobbe la libertà di navigazione nel golfo ai sudditi della Chiesa.Nasceva cosi un’alleanza tra il papa e Venezia: i due contraenti speravano di creare le basi peruna più ampia lega italiana contro la Francia35.

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35 M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 172.

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Capitolo 2

1. La Romagna: territorio e società nel secolo XV.

Nel corso del Cinquecento il dominio diretto dei pontefici sulla Romagna si stabilì all’internodi un’articolazione di rapporti con le comunità che concedeva ampi spazi ai particolarismi locali:le libertà confermate mantenevano, in diversa misura caso per caso, i diritti di autogoverno edattribuivano agli organismi delle comunità l’esercizio di funzioni amministrative, economiche,fiscali e giurisdizionali1.

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1 C. CASANOVA, Comunità, p. 11.

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Sopravvissero, poi, per tutto il secolo, accanto ai poteri e privilegi politici, economici e socialidelle comunità cittadine, delle comunità castrensi e borghigiane, molti centri di giurisdizionefeudale che rappresentavano, in continuità con il passato, aggregazioni di forze e di interessidelle quali il governo pontificio dovette tener conto.Particolare fu l’abilità con la quale il governo pontificio riuscì a consolidarsi sfruttando le divisionie gli antagonismi della società romagnola, orientando le scelte istituzionali alla ricerca di accordie compromessi con ristretti gruppi dominanti all’interno dei consigli cittadini, confermando, espesso ampliando, i privilegi dei proprietari terrieri a danno delle numerose libertà delle comunità.

1.1 Vie di comunicazione e contrabbando.Secondo una nota Descrizione della Romagna2 dei primi decenni del XVII secolo, la fama direlativa prosperità della provincia romagnola si estendeva anche alla montagna. Dietro la pretesa abbondanza di ghiande, marroni, di buonissime carni, cosciotti, lane e legumi3

sono invece riconoscibili, più che altro, i magri prodotti di un’economia di sussistenza4.La molteplicità delle giurisdizioni, insieme con la diffusione della piccola e piccolissima proprietà,contrassegnava le comunità appenniniche più di quelle della collina e della pianura. «Il peso economico della montagna nei confronti del resto del territorio sembra essere stato,tuttavia, in proporzione, maggiore dell’attuale, come maggiore pare fosse la densità relativa dellapopolazione5. […]Decisamente prospera era […] la valle del Lamone, favorita dalla mediocre altezza delle montagneche la mettevano in comunicazione con la Toscana e da un clima abbastanza mite. Di qui,attraverso l’Appennino passavano, legalmente o illegalmente, canapa, olio, bestiame, gesso, masoprattutto seta, pregiata e richiesta sul mercato di Firenze, tanto che, nel 1560, il senatobolognese tentò di ostacolarne l’esportazione. […]I prodotti della montagna e gli oggetti dell’artigianato locale rifornivano i più grossi mercatiromagnoli ma, probabilmente, la parte maggiore passava i confini, spesso senza controllo, spessograzie alla protezione dei signori feudali, attraverso una rete di mulattiere che per le autoritàera difficile, se non impossibile, sorvegliare6. Il contrabbando dei grani era praticato particolarmente nel territorio imolese e a CastelBolognese, enclave, questa, di giurisdizione della legazione confinante, verso Bologna; ma ancheda Brisighella, Faenza e Forlì se ne inviavano grosse quantità verso la Toscana».Per quanto riguarda l’esportazione illegale di altri prodotti agricoli e del bestiame, eranosoprattutto Imola, Faenza e Brisighella a inviarli nel Fiorentino, nel Ferrarese et ne’ luochi de’baroni. Da Meldola, Mercato Saraceno e luochi del marchese di Bagno et altri baroni si facevanol’incette de’ bestiami et della grascia7 che da lì passavano i monti.Queste attività erano facilitate dal disinteresse delle autorità per il mantenimento di una retedi collegamento stradale su tutta la legazione8. In montagna la manutenzione delle vie di transito,particolarmente gravosa per la frequenza di frane e smottamenti, era affidata alle singole comunità.È difficile ritrovare le direttrici dei percorsi appenninici, perché la loro agibilità dipendeva dalle

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2 Descrizione, in M. BERTI, Una regione, pp. 127-144.3 Descrizione , in M. BERTI, Una regione, p. 128.4 C. CASANOVA, Comunità, p. 19.5 A. METELLI, Storia, pp. 271-272.6 C. CASANOVA, Comunità, p. 22.7 Questo ed i due precedenti riferimenti da Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 142.8 C. CASANOVA, Comunità, pp. 22-23.

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condizioni atmosferiche e dai rapporti che, di volta in volta, si venivano organizzando tra i varicentri. Si sa, tuttavia, che esse toccavano le principali città sedi di mercato e di organismicomunitativi e di governo.«Qui come altrove (comunque) le risorse del commercio e del contrabbando non affrancavanogli abitanti dalla necessità dell’emigrazione stagionale, e la montagna romagnola, laValdamone in particolare, fu per tutto il secolo [XVI] la tradizionale riserva delle milizie venete9.[…]Più che dai frutti di una stentata agricoltura, gli abitanti della montagna romagnola, soprattuttoforlivese e cesenate, traevano le maggiori risorse dall’utilizzazione dei prodotti del bosco edell’allevamento. […]Lo spostamento del bestiame da una valle all’altra e dalla pianura ai pascoli montani, tanto piùquando si dovevano attraversare frontiere tra stati, ha offerto per secoli motivo ricorrente a liti,a contestazioni, a reiterate regolamentazioni. Le guerricciole feudali, protrattesi nella montagna ben oltre il medioevo, fra villaggi feudali, divisitalvolta da tenacissime rivalità, si concretizzavano quasi sempre nella cattura di greggi e armentiappartenenti al signore o al villaggio nemico. Nella stessa delinquenza comune occupava un posto notevole il furto di bestiame10. […]Preoccupazioni di sicurezza e attività economiche prevalenti spiegano la persistente faziositàdelle famiglie montanare11. Si può dire che solo nel XVII secolo nelle comunità appenninichetali rivalità venissero attenuandosi, ed è significativo che solo allora si cominciassero a trascurarele onerose opere di manutenzione delle mura dei castelli».La zona pedemontana e collinare, insieme con la fascia di pianura più prossima alla via Emilia,dove l’inclinazione del terreno consentiva un buon deflusso delle acque dei numerosi torrentie fiumi che scendevano dall’Appennino, costituiva la parte migliore e più fertile della provincia

12.

Caratteristiche che, insieme con la facilità delle comunicazioni con i maggiori centri, contribuironoa rendere qui più diretto e oppressivo lo sfruttamento da parte dei ceti privilegiati, più pesantel’aggravio fiscale, più facile l’esecuzione delle rappresaglie dei tesorieri e dei commissari pontificicontro il bestiame e gli averi dei contadini indebitati e più frequenti, infine, le razzie e i saccheggidei banditi e degli eserciti di passaggio.In questa zona si trovavano anche i feudi migliori: Dozza, nell’imolese, che produceva olio eottimi vini

13, Meldola, nel forlivese, terra piena di abitatori e di molto concorso

14e altri nel cesenate

e nel riminese, ricchi di olivi, vigne (e) frutti bellissimi, a guisa di vago giardino15

.Non a caso, con la revisione dei titoli di concessione dei feudi, negli ultimi decenni delCinquecento, i pontefici mirarono soprattutto al recupero di grosse giurisdizioni della zonapedemontana16.«La subordinazione dei villaggi della pianura era più diretta, sia in relazione alle esigenze diapprovvigionamento dei centri maggiori, sia perché le normative riguardanti la difesa delle

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9 Si vedrà, in seguito, che anche diversi appartenenti alla famiglia Ceroni sono stati importanti capitani al servizio ora dellaRepubblica Fiorentina, ora della Serenissima.

10 G. CHERUBINI, La montagna, p. 128.11 Caratteristica costante, questa, anche all’interno della Consorteria qui in oggetto di studio.12 C. CASANOVA, Comunità, pp. 24-25.13 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 33.14Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 132.15Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 133.16 C. CASANOVA, Comunità, p. 25.

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campagne dalle acque e la manutenzione della rete idrica costituirono sempre gran parte delsistema organizzativo e degli ordinamenti statutari delle città e delle circoscrizioni rurali compresenei loro contadi, al fine di ripartire sul territorio i compiti di sorveglianza, attraverso gli acquarolidelle comunità, e i lavorieri, cioè quegli interventi, ordinari e straordinari, decisi dallecongregazioni dei proprietari ed eseguiti dai contadini, per i quali costituivano una prestazioned’opera obbligatoria e gratuita17. […]La mezzadria, la forma di conduzione più diffusa in Romagna, caratterizzò in particolarel’economia della pianura. Tale rapporto contrattuale garantiva al proprietario la percezione diuna rendita relativamente costante con un impiego minimo di capitali. Essa consentiva, altresì, di controllare, attraverso la determinazione degli obblighi e delleprestazioni del contadino, la gestione del podere e per questo rappresentò la massima espressionedella subordinazione del contado agli interessi dell’aristocrazia cittadina proprietaria terriera».

2. Potere pontificio e poteri “locali”.2.1 Il governo della provincia.«Nel Cinquecento l’amministrazione provinciale dello Stato pontificio si articolava essenzialmentein due attività: quella giudiziaria, civile e criminale, e quella tributaria e fiscale18. A capo della prima era il governatore provinciale o rettore della provincia, a cui erano sottopostii governatori e i podestà che reggevano i vari centri sparsi nel territorio. L’amministrazione tributaria, invece, era di competenza del tesoriere provinciale che limitava,in questo campo, la generale autorità del governatore, da cui era autonomo.Attraverso la giudicatura, il governo centrale faceva pesare la propria presenza politico -amministrativa a livello locale: il governatore provinciale, di nomina pontificia, era il verticedella gerarchia amministrativa del territorio.I governatori delle varie province costituivano il nerbo dell’amministrazione periferica pontificia,essendo direttamente responsabili delle aree che dirigevano e del coordinamento dei giusdicentie dei militari alle loro dipendenze. I compiti dei governatori provinciali erano essenzialmente quattro: assicurare la giustiziacontrollando l’operato degli ufficiali pontifici, occuparsi dell’Annona facilitando l’esecuzione deilavori agricoli e controllando l’andamento dei raccolti, assicurare il vettovagliamento dellaprovincia in caso di carestie (vietando le esportazioni di grani e cercando di procurare derratealimentari), tentare di eliminare i disavanzi di bilancio e di alleggerire il carico fiscale. I governatoriprovinciali dovevano poi sorvegliare i confini, attendere all’esecuzione dei lavori pubblici e allamessa a coltura di terre incolte o paludose e, non ultimo, garantire la pace sociale, cercandodi mantenere inalterati i precari equilibri politici e di eliminare le bande armate che, in queltempo, infestavano le campagne.Il governatore provinciale assumeva l’incarico, di durata triennale, nelle vesti di legato opresidente19. I poteri conferiti a legati o presidenti erano, però, sostanzialmente i medesimi20. Fino al 1648 legati e presidenti si alternarono al governo della provincia di Romagna con una

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17 C. CASANOVA, Comunità, pp. 26-27.18 C. ALBONETTI, Finanza, pp. 42-46.19 La differenza tra queste due figure si riferiva essenzialmente alla dignità dell’incaricato, poiché, mentre la carica legati-zia veniva concessa esclusivamente ai cardinali, quella presidenziale riguardava vescovi, monsignori, o, più raramente, laici.20 La carica legatizia godeva, però, di maggior prestigio e percepiva, in genere, un compenso notevolmente superiore.

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prevalenza però dei secondi, tanto che la circoscrizione amministrativa si chiamò più spessopresidenza che governo; dopo tale data cominciò invece una ininterrotta successione di legatio vicelegati21. Il governatore provinciale rappresentava l’autorità pontificia nella provincia e rendeva contodei casi più gravi direttamente al papa o alla Sacra Consulta. Era giudice supremo e potevaavocare a sé le cause che voleva o invece affidarle ad altri. Aveva il diritto di concedere la graziae a lui spettava il giudizio di appello per tutte le sentenze emesse dai giudici della provincia,eccetto che per le cause minori relative ad una somma compresa tra i 10 e i 25 scudi. Il governatore poteva, poi, nei casi più scandalosi e pregiudizievoli22, emanare disposizioni anchein contrasto con gli statuti delle località della provincia e con i privilegi concessi dallo stessopontefice.Alle dipendenze del governatore provinciale erano due giudici, uno per il criminale e uno peril civile. Il luogotenente criminale aveva alle sue dipendenze l’uditore cavalcante che andava a renderegiustizia nella provincia.Al luogotenente criminale erano affidate le cause relative ai delitti più gravi et atroci ch’occorrenoper la provincia23, quando si giudicava che queste fossero sottratte alla competenza del governatorelocale per l’efferatezza del crimine o l’importanza dei personaggi implicativi. Per dare luogo a tali processi era uso tenere ogni giovedì, dopo pranzo, una Congregazione pre-sieduta dal legato a cui prendevano parte i due luogotenenti, il governatore di Ravenna, l’uditorcavalcante e altri ministri della provincia tra cui l’avvocato fiscale, nominato dal tesoriereprovinciale; in questa sede «si discorrevano gli indizi e si prendevano le risoluzioni necessarie24»relativamente ai più importanti dibattimenti.Delle questioni minori si occupava direttamente il luogotenente «con farne però parola col legatoo vicelegato25».Le cause civili erano di competenza del luogotenente civile in prima istanza ma, in seguito, cisi poteva appellare al legato che affidava le cause al suo uditor di Camera o ad un altro dottore. Luogotenente e uditore civili erano competenti anche, per le cause in seconda e terza istanza.Il controllo esercitato dal governo centrale e i poteri concessi ai governatori provinciali,formalmente molto ampi, erano in realtà limitati da poteri contrastanti concessi ad altri ufficialicamerali (i tesorieri in primo luogo) o dalla tolleranza verso i maggiori feudatari, che rimaserosostanzialmente autonomi dal punto di vista amministrativo e fiscale per tutto il Seicento. Il governatore provinciale «commanda ancora a tutti feudatari [...] ma si astiene dal por manonelle cause de’ sudditi de feudatari, per li privilegi che ne hanno dalla Sede Apostolica nelleloro investiture26».La possibilità di intervenire in materia giurisdizionale nella pratica, quindi, si riduceva ai casiin cui fossero gli stessi feudatari a richiedere tale intervento. Spesso, inoltre, le competenze giuri-sdizionali del governatore provinciale venivano disconosciute anche dalle Comunità, chemalvolentieri sottostavano ad una autorità percepita come lesiva delle loro prerogativeautonomistiche. Questa è anche la ragione dei frequenti ricorsi ai tribunali romani, con lo

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21 S. BERNICOLI, Governi, p. 72.22 C. CASANOVA, Comunità, p. 237.23 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.24 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.25 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.26 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.

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scavalcamento di quello provinciale.Tra i funzionari periferici, nominati direttemante dal papa nello Stato pontificio, il presidentedi Romagna era secondo per importanza solo al legato di Bologna, e percepiva, al tempo di SistoV, quindi tra il 1585 e il 1590, un emolumento di 1.340 scudi circa27, mentre dopo il 1640 talecompenso salì a 2.195 scudi e 45 baiocchi. Il presidente o il legato aveva inoltre diritto di usufruire di carreggi per legna, vino, biade [...],paglia per cavalli e del sale necessario28 e godeva della protezione di una scorta composta da 20guardie svizzere, la cui retribuzione era a carico delle Comunità che vi provvedevano con unaapposita tassa29. La durata triennale della carica veniva raramente rispettata e gli avvicendamenti risultaronoin genere molto più frequenti; nel caso, poi, in cui il personaggio nominato fosseimpossibilitato30 a ricoprire l’incarico di persona, poteva designare un vicelegato, a cuigeneralmente conferiva pieni poteri e al quale concedeva una parte delle sue entrate».

2.2 Governatori e podestà locali.Eccettuati i feudi, i vari centri della provincia erano sottoposti al governatore provinciale tramitegovernatori o podestà locali, il cui compito principale era l’amministrazione della giustizia civilee criminale nelle Comunità.Questi ufficiali locali si curavano della correzione delle ingiustizie e degli abusi più gravi, dellasalvaguardia dell’ordine e della fedeltà a Roma, oltre che della supervisione della gestione politico- amministrativa, attuata tramite l’intervento nelle riunioni dei Consigli e delle magistrature delleComunità stesse. Le città principali, Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini e Bertinoro, ricevevano ungovernatore nominato per breve pontificio che percepiva un emolumento di 10 scudi al mese31

e aveva alle sue dipendenze cinque sbirri a cavallo e quattro a piedi32. Vi erano poi i giusdicenti delle località subordinate alle città principali. Si trattava di ufficialiinviati dalle stesse città, benché nominati dalla Sacra Consulta. Questi ufficiali avevano, tuttavia, una giurisdizione limitata alle sole cause civili mentre le causecriminali spettavano al governatore della città dominante33. La giurisdizione sulle Comunità delcontado era stata, infatti, una delle prerogative più gelosamente difese dai ceti municipali all’attodella sottomissione al papa, agli inizi del secolo. La rinuncia del governo centrale alla sostituzione dei giusdicenti inviati dai Consigli cittadininei capitanati, nei vicariati e nelle podesterie rurali, con giusdicenti dipendenti dal centro,

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27 G. CAROCCI, Lo Stato, pp. 166-184.28 L. DAL PANE, La Romagna, p. 60.29 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 63.30 Descrizione più ampia e completa in C. ALBONETTI, Finanza, pp. 44-46. Ivi si legge che «spesso il governatore provincia-

le, come altri funzionari statali, non risiedeva sul territorio da lui amministrato ma si limitava a ricevere le entrate a cui lacarica dava diritto, impegnato come era nella scalata al potere entro la curia romana; la stessa carica di presidente o di lega-to era infatti vista, in primo luogo, come un importante passo in avanti verso i massimi vertici di questa scalata e l’ammi-nistrazione dello Stato era, in questo senso, uno strumento per l’ascesa politica e sociale delle principali famiglie dellanobiltà romana da cui in genere i funzionari periferici provenivano. Non stupisce perciò l’assenteismo e il sostanziale disin-teresse di questi importanti ufficiali papali verso i territori da loro amministrati; d’altro canto la presenza di un funziona-rio di origine locale avrebbe potuto rappresentare un pericolo per il governo di Roma, interessato a mantenere inalterati iprecari rapporti di forza istauratisi nella provincia».

31 Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 128.32 G. P. GHISLIERI, Descrizione, pp. 45-46.33 Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 128.

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dimostra che non vi fu alcuno sforzo reale per accentrare funzioni e competenze esautorandogli organi e le magistrature cittadine34.Il compito dei governatori locali era, nei fatti, quello di mantenere il buon governo e far accettarel’ordine costituito; ogni loro iniziativa era subordinata all’autorizzazione della Consulta o delpresidente della provincia, che doveva essere minutamente informato di ogni questione dicarattere amministrativo o finanziario, inerente alla Comunità. I governatori, in genere prelati, avevano il mero imperio nelle cause criminali ma, nella realtà,si occupavano solo dei reati minori, essendo i più gravi trattati dal presidente della provincia. Per le cause civili i governatori erano competenti in prima istanza nonostante le città nominasseroancora i podestà, figura affermatasi nei secoli precedenti e a cui rimanevano ormai solo le causeminime35. I governatori concedevano ogni giorno udienza, per una rapida soluzione delle controversie checoinvolgevano le fasce più deboli della popolazione. Spesso, tuttavia, questi giudici non eranodel tutto imparziali, favorivano i nobili e prolungavano le cause oltre il tempo dovuto, al soloscopo di ottenere un maggior profitto36.Nonostante la presenza dei governatori, le scelte economiche e finanziarie e, in particolare, ilcontrollo degli istituti annonari e le modalità dei riparti degli oneri fiscali, rimasero di competenzadei Consigli e dei Magistrati locali. I poteri discrezionali dei governatori di modificare le leggi e gli ordinamenti delle comunitàvennero, dunque, usati di rado, per non contrastare troppo apertamente con le autonomie statutariedelle città, alle quali i governatori si dovevano, in sostanza, adattare. Questi funzionari avevano anche competenze relative all’Annona, al commercio dei cereali ealla lotta al contrabbando37. Era loro compito stabilire le date della mietitura e della vendemmia e dovevano, inoltre, pre-occuparsi, in caso di scarsità dei raccolti, di garantire la sussistenza della popolazione, nonostante,spesso, fossero loro stessi implicati in speculazioni e traffici irregolari, a loro esclusivo vantaggio. La Bolla De Bono Regime del 1592 stabilì poi che i governatori sottoscrivessero e controllasseroi bilanci annuali preventivi (detti tabelle) relativi alla gestione finanziaria che le Comunità dove-vano inviare alla Sacra Congregazione del Buon Governo per il controllo che questa pretendevadi esercitare sull’amministrazione finanziaria a livello locale38.

2.3 I funzionari camerali della provincia. Il bargello.«I funzionari camerali della provincia, che, a differenza dei governatori e dei podestà, risultavanoautonomi dal governatore provinciale (legato o presidente che fosse), erano vari; si trattava ingenere di cariche affidate dal governo centrale a mercanti e banchieri titolari di appalti relativialle cariche stesse, che potevano in seguito venire da costoro concesse ad altri in sub-appalto39. Oltre al tesoriere provinciale c’era il fiscale della provincia, coadiuvato da un vicefiscale; al fiscaleprovinciale erano sottoposti i fiscali di ciascuna Comunità. Altri ufficiali provinciali erano: il cancelliere, il prigioniero (funzionario addetto alle prigioni),il segretario ed il bargello provinciale (scelto però dal governatore) responsabile dell’ordine e

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34 C. ALBONETTI, Finanza, p. 44.35 C. CASANOVA, Comunità, p. 218.36 C. CASANOVA, Comunità, p. 218.37 C. CASANOVA, Comunità, p. 254.38 C. CASANOVA, Comunità, p. 216.39 C. ALBONETTI, Finanza, p. 45.

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della pubblica quiete nelle campagne. Il bargello provinciale governava sulla corte di campagna con 20 sbirri a cavallo e a lui eranosottoposti i bargelli dei contadi delle varie Comunità, che battevano i confini contro i banditie contrabbandieri avvalendosi dell’aiuto di sbirri loro sottoposti. Essendo sottopagati, gli sbirri approfittavano della loro autorità per alloggiare nelle case deicontadini, rubando e danneggiando i raccolti e pretendendo cibo e alloggio per i cavalli; si trattavain genere di individui violenti, forestieri, assoldati come mercenari e pronti a tutto per far denaro.Erano odiati dalla popolazione, che li temeva molto». Oltre al controllo dei confini, gli sbirri scortavano i rei alle galere pontificie o ai vari tribunali,eseguivano le sentenze dei condannati a morte e le torture, non disdegnando, però, di favorirecoloro che avendone i mezzi potevano corromperli con denaro, spartizioni di refurtive e promessedi impunità40.Gli abusi degli ufficiali camerali, a tutti i livelli della gerarchia amministrativa territoriale, furonouna delle cause principali della mancata realizzazione dell’accentramento istituzionale eamministrativo e del buon governo pontificio, impedendo lo sviluppo di una efficiente reteburocratica capillarmente diffusa sul territorio41. Ciò contribuì, assieme al riconoscimento delprivilegio nobiliare ed ecclesiastico, a determinare la stasi e le disastrose condizioni economichee sociali che caratterizzarono il XVII secolo.

3. Il contado di Imola nel XV secolo.«Il contado comprendeva numerose località, dividendosi in undici borghi (Spuviglia, Lone, S.Cassiano, Piolo, S. Cristina, S. Giorgio, S. Spirito, Buore, Campo di Mezzo, Croce in Campo, Noia),in diciannove comuni (Cantalupo Fiume, Cantalupo Selice, Sesto, Trentola, Selustra, CasolaCanina, Farneto, Ortodonico, Vidiuno, Fiebano, Chiusura, S. Prospero, Tomba, Zello, Filuno,Ghiandolino, Bergullo, Zelonzega, Goggianello), in sei ville (Pediano, Monte Meldola, Linaro,Mezzo Colle, Monte Catone, Pieve S. Andrea) e in cinque castelli (Casola Valsenio, Riolo, Bagnara,Mordano, Bubano); i diciannove comuni formavano complessivamente il distretto ossia la zonapiù strettamente controllata dalla città42. […]Borghi, comuni, ville, castelli, avevano un diverso grado di subordinazione alla città rendendoassai vario il regime amministrativo del territorio imolese nei secoli XVI e XVII. Comuni e borghi erano la parte più direttamente controllata dalla città; le ville erano inveceparticolarmente autonome, soprattutto dal punto di vista finanziario (tanto che il nuovo catastodel 1637 non le comprese nella superficie censita); come i castelli, esse avevano poi la prerogativadi governarsi da sé in materia annonaria, senza essere costrette a portare alla città il raccolto;tuttavia le note di questi raccolti rientravano in genere nelle registrazioni annuali effettuate dallaComunità. Le sei ville del contado imolese eleggevano annualmente un unico massaro mentre i comunine eleggevano uno ciascuno; la principale funzione del massaro era la riscossione delle impostecamerali e comunitative per la sola parte colonica (relativa cioè ai contadini non proprietari)mentre la parte dominicale (relativa cioè alla proprietà) restava di competenza del depositariogenerale imolese.I castelli principali - Casola Valsenio, Riolo e Mordano - erano luoghi distrettuali, soggetti alla

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40 S. BOMBARDINI, Archivio, p. 109.41 C. ALBONETTI, Finanza, p. 46.42 C. ALBONETTI, Finanza, p. 49.

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giurisdizione della città ed avevano giusdicenti eletti ogni anno dal Consiglio generale di Imolai quali governavano come vicari (Mordano), come commissari (Casola) o come capitani giudici(Riolo). Le loro competenze consistevano nell’amministrazione della giustizia (collaborando colpodestà e con il governatore di Imola) ma riguardavano anche la gestione economica e politica. I castelli del contado imolese tentarono spesso di liberarsi dal controllo che la città esercitavaattraverso il proprio giusdicente, ma invano; essi erano “soggetti et uniti” alla Comunità “conunione accessoria, formando assieme un sol corpo mediante una società e reciproca comunionecivile, con vivere sotto li medesimi statuti, senza distinzione di territorio legale, in modo che (...)assumono la natura, privilegii, consuetudini e qualità della città43” .

3.1 La giurisdizione dei castelli del contado.«Esistevano, nel XVI secolo, appositi accordi tra i castelli e la Comunità di Imola in base aiquali venivano regolate varie materie: l’elezione del castellano, la riscossione delle imposte, ilcommercio e altre questioni. I castelli, come le altre zone del contado, dovevano versare alla città la quota di imposte cameraliche la Comunità ripartiva su di essi, tuttavia amministravano liberamente le loro entrate ed eranoautonomi nella redazione dei bilanci. Gli abitanti di ciascun castello eleggevano il proprio consiglio, i propri ufficiali e disponevanodi proprie milizie di soldati contadini; in particolare i castelli di Riolo e Mordano avevano i propristatuti e ricorrevano a quelli di Imola solo in rari casi. Dal 1680 i castelli mandarono le loro tabelle (bilanci preventivi) direttamente a Roma; la comunitàimolese pretese tuttavia di correggere, approvare e sottoscrivere queste tabelle44.Il castello di Bagnara, pur appartenendo al contado imolese, era da secoli contea del Vescovodella città; tuttavia, dal 1562, un consigliere imolese vi fu inviato in veste di commissario peramministrare in materia civile e criminale. I proprietari imolesi potevano estrarre frumento edaltri prodotti dai loro possedimenti situati nel territorio del castello chiedendone semplicementelicenza al Vescovo; in cambio, gli abitanti di Bagnara potevano utilizzare i mulini imolesi, estrar-re grani in caso di eccesso rispetto al fabbisogno locale e rifornirsi liberamente alle salarecittadine. Il Vescovo, da parte sua, si impegnò a non concedere mai il castello in feudo o enfiteusi.Nonostante questi accordi nel Settecento il Vescovo aveva completamente esautorato ilcommissario imolese, che non poteva più ingerirsi in alcuna cosa45.Bagnara era senza dubbio il castello maggiormente svincolato dal controllo della città proprioin quanto era retto dal Vescovo; ciò è testimoniato dal fatto che nella nota delle bocche del 1586e nel Discorso reale sopra l’Abbondanza del 1600 sono citati solo gli altri quattro castelli.Soffermandosi principalmente sulla questione fiscale e sui gruppi sociali dominanti a Mordano,Bellettini46 osserva che questo castello pagava a quote mensili i tributi statali al Depositarioimolese, il quale, ogni anno, trasmetteva a Mordano il cosiddetto foglietto riportante l’indicazionedella quota dei tributi statali imolesi che la città addossava sul castello. La contabilità pubblicadi Mordano era organizzata in un sistema di casse molteplici. Le principali casse erano: la Cas-sa Comunitativa o Generale, la Cassa Fiume o Acque, relativa alle spese per l’argine del Santernoe la regolazione degli scoli, la Cassa dell’Annona, cioè dell’Abbondanza frumentaria.

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43 C. CASANOVA, Città, p. 30.44 C. CASANOVA, Comunità, p. 180.45 C. CASANOVA, Città, p. 31.46 P. BELLETTINI, Mordano, p. 93.

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Relativamente agli aspetti sociali Bellettini rileva che la classe dirigente locale non era costituita,come ad Imola, da nobili, ma era invece formata da una borghesia rurale saldamente ancorataalla terra e all’amministrazione del castello. Il mantenimento del monopolio amministrativo erafondamentale per la sopravvivenza di questa classe dirigente che, dunque, difese in ogni modola propria autonomia amministrativa dall’ingerenza della comunità imolese.

3.2 Il Castello di Casola.Castrum Casule faceva parte del contado di Imola fin dal 1126. All’inizio del XIII secolo cadde però soggetto al Comune di Faenza, ma su istigazione degliimolesi, nel 1215 si ribellò e l’anno seguente i faentini l’espugnarono distruggendolo per sempre. «Prima del 1216 Casola era composta da due distinti castelli, che formavano due distinteparrocchie dette di S. Michele di Monte Fortino una, di S. Maria Assunta l’altra, ambeduesituati nel Monte, uniti ad un Sobborgo situato nel piano presso al Senio, che è l’attualeCasola47. Distrutti questi […] gli abitanti parte andarono ad abitare nei circonvicini castelli,e parte si restrinsero nel Sobborgo, eriggendovi da’ fondamenti la Chiesa di S. Lucia edingrandendo i fabbricati per renderli decenti al loro soggiorno».«Una carta del 1292 rivela però che congregati homines terre Casule de Casulensibus giuraronofedeltà al Comune di Imola e l’atto era datato in Castro Casule; ciò indicherebbe che il castelloesisteva ancora48. Ma è più probabile fosse così nominato per motivi di prestigio dacchè il borgonon disponeva di fortificazioni. […] Nel 1371 Casola viene nominata unita a Ceruno: contavano insieme quarantadue fumanti. Lefamiglie potevano essere però più di quarantadue, perché fumanti venivano considerate soltantoquelle che erano in condizioni tali da poter pagare le tasse».«Nella Valle del Senio la supremazia imolese tardò più che altrove ad essere riconosciuta49. Questavalle era infatti dominata dalla potente famiglia Ceroni, insediata a Casola; solo nel 1563 questafamiglia fu definitivamente sottomessa50. Nel 1566 furono stipulati i capitoli tra Imola e il castello di Casola i quali stabilivano che ilgoverno della valle fosse affidato a un consigliere imolese, col titolo di capitano; nello stessoanno anche Riolo accettò la definitiva sottomissione a Imola. I rapporti tra Casola e la comunità di Imola si rivelarono ben presto problematici in quanto gliabitanti del castello non intendevano sottostare all’autorità del governatore imolese; questicontrasti sono ben evidenziati da una “Istruzione data (dal Magistrato) al Segretario e ConsigliereFrancesco Bandino”, datata 30 luglio 1603. Il Bandino doveva recarsi a Faenza, in visita al legato,allo scopo di illustrargli la situazione in cui versava la Comunità imolese; il primo problemaaffrontato dalla istruzione era quello riguardante il castello di Casola: “...Informerete come si èpresentito dal signor Domenico Annibali, nostro cittadino che ora si trova offitiale a Casola diValli di Senio, che tre o quattro di quegli heroi vadino instigando et sollevando gli altri a querelarsidalla Città et dal Signor governatore per no’ essere sottoposti a questo governo et giurisdizioneper ottenere un giudice appartato, et così di smembrarsi affatto dalla Città, come pure tentaronodi fare un’altra volta, si ben poi ne furono pentiti in breve, et ritornarono come prima. Et informereteSua Signoria Illustrissima della qualità di quegli huomini et del fine, perché si muovono, quale

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47 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 7-8.48 M. ZAULI, Note, p. 13.49 C. ALBONETTI, Finanza, p. 51.50 Oggetto del presente studio, come si è detto, è proprio la famiglia Ceroni, che detenne de facto il potere a Casola Valsenio

e zone limitrofe nei secoli XV e XVI.

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non è se non per poter tiranneggiare a loro modo, havendo un giudice di poca portata, che gligoverni a volontà loro, essendo massime gli istigatori huomini sospettissimi per tutti i rispetti etde’ parentado de’ Ceroni...51”.Nel 1618 il castello di Casola tentò di rendersi nuovamente indipendente, sottraendosi allagiurisdizione di Imola, ma tre anni dopo il governo centrale riconfermò la sua dipendenza “nelcriminale, dal governatore d’Imola e restando a Casola solo la giurisdizione civile ed economica52”.Nel Seicento, tuttavia, Casola ottenne, dopo una lunga serie di ricorsi in giudizio, che gli oneridel castello fossero assegnati separatamente da quelli imolesi.Nel corso del XVII e XVIII secolo i tentativi di affrancamento dei castelli dalla giurisdizioneimolese ebbero scarso successo. Nel 1709 la Congregazione del Buon Governo riaffermò, perl’ennesima volta, la supremazia di Imola sui castelli del suo contado; in seguito questi accettaronola subordinazione alla città fino al 1766, anno in cui ebbe inizio un lungo contenzioso che siconcluse solo nel 1772 con la riconferma della supremazia imolese.

4. La debolezza del potere pontificio. Gli scontri tra fazioni.«Le difficoltà e i ritardi attraverso i quali si venne definendo un rapporto istituzionalizzato frale comunità e il rappresentante pontificio, che avrebbe dovuto esercitare poteri di controllo edi intervento su tutta la provincia, derivarono dalle stesse circostanze che avevano portato alrecupero dei territori romagnoli53. Le iniziative di legati e presidenti nei primi decenni delCinquecento furono dettate, cioè, piuttosto che dalla volontà di attuare un piano di coordinamentopolitico e amministrativo, dalla necessità di far fronte a situazioni particolarmente critiche,lasciando ai governatori il controllo delle amministrazioni locali. Fu lo stato di permanente conflittualità provocato dallo scontro delle fazioni, e da diversemanifestazioni di squilibrio sociale, esplose alla fine del secolo nel banditismo organizzato, checostrinse i rettori della Romagna a far pesare, o a tentare di far pesare, tutta l’autorità loro conferita,anche in opposizione, spesso, a privilegi e a diritti che comunità e gruppi sociali si erano fattiriconoscere e che poi continuarono contraddittoriamente ad ottenere. Era, appunto, questo contrasto a determinare la “debolezza” di legati e presidenti, obbligati adoperare, almeno fino alla metà del Cinquecento, appoggiandosi alle famiglie di volta in voltadominanti, subendo l’esito delle lotte di parte ed adattandosi ai cambiamenti intervenuti ai verticipolitici delle comunità».Il potere pontificio dovette, in gran parte ed in molti casi, confermare le prerogative dei governidelle comunità, accettandone le autonomie ed i privilegi particolari garantiti dagli statuti e spessotollerando la supremazia di una parte e le rappresaglie, le confische e i bandi da questa inflittialle famiglie antagoniste, con l’ovvia conseguenza di alimentare la conflittualità.

4.1 L’affermazione del potere dei clan familiari: fenomeno tipico del Medioevoitaliano.

Nel corso del Medioevo si afferma, soprattutto nell’Italia del nord e del centro54, la consuetudinedei possessori di feudi o, più generalmente, dei nobili, di raggrupparsi in grandi famiglie, che

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51 Archivio Storico Comunale di Imola [d’ora in poi A.S.C.I.], Campioni Comunali, T. XXX, c. 87, citato da C. ALBONETTI,Finanza, p. 49.

52 C. CASANOVA, Città, p. 31.53 C. CASANOVA, Comunità, p. 54.54 J. HEERS, Il clan, p. 58.

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superavano largamente le dimensioni della famiglia coniugale, nel senso attuale del termine. Tra le informazioni a supporto di questa tesi vanno considerati, nel vocabolario degli autoridell’epoca, l’impiego corrente del termine lignaggio e, un po’ meno frequente, del termineparentela, le numerose testimonianze della coesione e della solidarietà in combattimento dellignaggio e, non ultime, certe forme della vita quotidiana e dell’arte militare.Ciò che pare avere più importanza è l’ascendenza, l’appartenenza ad un vasto clan i cui antenatisono ben conosciuti e onorati. La preoccupazione principale di nobili e feudatari consiste, perciò,nello stabilire la lista dei propri antenati55.Laddove si affermano potenti gruppi familiari, molto compatti, che riuniscono numerose personeche portano lo stesso nome e si richiamano allo stesso antenato, la solidarietà del clan basta amantenere i meno favoriti nell’ambito della nobiltà o in una sorta di nobiltà minore. In questo casola composizione sociale del clan appare indubbiamente molto varia. All’interno dello stesso lignaggio,soltanto alcuni uomini dispongono di vasti domini, della potenza militare e del diritto di comando;gli altri, anche rivendicando sempre la loro qualità di “nobili”, il sangue e l’antenato comuni, sitrovano ridotti ad una condizione molto inferiore, dal punto di vista politico ed economico56. Questacoesione, economica e mentale, non può evidentemente mantenere uguali le condizioni dellepersone. Si forma così una clientela di nobili poveri, cugini che abitano al castello e servono comefunzionari o domestici, nobili non accasati, avventurieri, crociati e figlie rimaste senza dote. Talvoltail lignaggio sopporta male questa clientela, sorta di proletariato a carico, più o meno inquieto epericoloso; si appoggia però ad esso nei momenti difficili, ne fa uno strumento di potenza. In altri casi, i clan più influenti provocano legami soprafamiliari e radunano una vasta clientela,più artificiale, composta da numerosi alleati ed amici57. Alleanze, queste, sovente effimere che,certamente per mancanza di testi interni, sfuggono quasi sempre allo storico58.Questi clan, numerosi e complessi, si sono evoluti nel tempo. La loro struttura e composizioneinterna ci sembrano spesso molto variabili e molto differenti secondo le città, gli ambienti socialie le epoche. Tutti però insistono sull’idea di famiglia sia che, realmente, i membri appartenganoad una sola stirpe, sia che desiderino agire nello stesso modo. In tutti i casi essi lo affermano59.Nati nella maggior parte dei casi da rapporti di vicinato, da alleanze accidentali, risultato diuna lenta maturazione, questi gruppi sociali molto diversi sfuggono ad ogni definizione giuridicae istituzionale. Essi si organizzano piuttosto in funzione di accordi taciti difficili a cogliersi oa ricostituire; i loro legami non si disegnano dunque facilmente60.A Genova la struttura sociale in potenti clan familiari non si incontra esclusivamente presso inobili61. I più potenti del popolo, infatti, imitano il tenore di vita e le strutture dei nobili.Ciò non implica d’altra parte, in nessun caso, l’acquisto forzato di terre o di signorie, ma solamentela fusione di più famiglie primarie, di nomi differenti, in gruppi molto potenti in cui tutti portanolo stesso nome. Anche a Pisa, E. Cristiani62 nota come le consorterie, molto forti presso i magnati,si incontravano molto spesso pure presso il popolo.L’esistenza di vasti gruppi soprafamiliari, in numerose città d’Occidente, non è quindi in dubbio.

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55 J. HEERS, Il clan, p. 33.56 J. HEERS, Il clan, p. 40.57 Si vedrà che anche la Consorteria ceronese è il risultato di un percorso storico simile a quello qui descritto.58 J. HEERS, Il clan, p. 56.59 J. HEERS, Il clan, p. 81.60 J. HEERS, Il clan, p. 117.61 J. HEERS, Il clan, p. 123.62 Citato da J. HEERS, Il clan, p. 123.

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Questi clan riuniscono, sotto un nome comune, parecchie famiglie che all’origine non portavanolo stesso patronimico, non potevano quindi richiamarsi allo stesso antenato ed appartenevanosenza dubbio ad ambienti differenti63.Tali gruppi familiari, senza alcun dubbio, dominavano in modo ufficiale o con un’azione piùocculta, tutta la vita della città. Essi sono spesso il quadro essenziale dell’azione politica. Di qui importanti rimaneggiamenti;di qui le fortune di nuove alleanze; di qui anche gli insuccessi, le divisioni e i conflitti interni. Lo schema di queste alleanze cambia costantemente e, in linea generale, il gruppo è sollecitatoda due forze contraddittorie. Da una parte, sembra certo che l’appartenenza ad un gruppo potente appare la condizionenecessaria della fortuna ed anche della sopravvivenza di queste grandi famiglie. Ciò spiega unatendenza naturale, soprattutto in epoca alquanto tarda, alla concentrazione in consorterie semprepiù potenti. Ma, d’altra parte, il desiderio in alcuni gruppi di sempre maggior peso cozza control’usura stessa del clan, contro i suoi conflitti interni e soprattutto contro l’azione del Comune64.Le consorterie devono le loro diverse fortune e la loro solidarietà più o meno forte a parecchifattori molto complessi. In primo luogo essi proclamano nettamente di provenire da una sola stirpe. Gli uomini si sentonouniti dai legami del sangue e dall’orgoglio di appartenere ad una stirpe illustre. Questa unionedel sangue contraddistingue tutte le cerimonie che legavano, nel mondo feudale dell’Occidente,i compagni d’arme65.Il nome è certamente il simbolo del clan66. Il nome comune si impone anche, molto spesso, pergruppi formati da più famiglie o lignaggi diversi. In questo caso il primo e principale obbligo dei nuovi ammessi è di portare lo stesso nome degli altri.Altri segni trionfanti dell’alleanza mantenuta o forgiata da poco sono l’arme e il blasone67. Ilfregiarsi dello stesso blasone o della stessa arme, dello stesso colore, di un segno distintivoconosciuto, sembra sempre, nella mentalità dei nobili, l’affermazione di una fedeltà, di unaalleanza forte come quella del sangue. Anche in tempo di pace e da un paese all’altro, il blasoneè un segno di unione tra i differenti rami dello stesso clan. Quest’orgoglio dello stemma, il desiderio di segnare col blasone, in modo spesso ostentato,l’appartenenza alla stirpe nobile si affermano nettamente sulle rappresentazioni figurate dellecase e soprattutto precisamente su quelle delle navi. Dovunque in Italia lo stemma indica l’orgoglio della stirpe, la sua potenza e la sua indipendenzaanche di fronte allo Stato, all’ascesa politica del Comune.Ultimo simbolo infine dell’unione dei clan familiari, oltre al nome e lo stemma: la casa68. Il palazzo di città, spesso fortificato, circondato dagli altri palazzi degli alleati o dalle case abitatedai clienti, conserva il prestigio del castello feudale fieramente drizzato nella sua rocca. Nelle campagne è la rocca o il castello del signore il simbolo dell’unità della consorteria. Attornoad esso, sui terreni appartenenti alla consorteria, sorgono le case coloniche. Il numero dei vani,la loro dimensione e quindi l’ampiezza complessiva della casa risultano proporzionati alla

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63 J. HEERS, Il clan, p. 124.64 J. HEERS, Il clan, p. 126.65 J. HEERS, Il clan, p. 135.66 J. HEERS, Il clan, p. 137.67 J. HEERS, Il clan, pp. 138-142.68 J. HEERS, Il clan, pp. 142-143.69 T. CONTI - G. SANGIORGI, La casa, p. 70.

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potenzialità produttiva dei terreni ed, in una certa misura, all’ampiezza dell’unità poderale69.Ciò in conseguenza del sistema economico sociale prevalente, fondato, come già detto, sullamezzadria, cioè sulla divisione a metà del prodotto tra il proprietario del podere e la famigliacolonica. Tra il proprietario, definito comunemente “e padron” in Romagna, ed il contadino, siinstaurava un vero e proprio rapporto di sudditanza. Il contadino e la sua famiglia dovevanorispetto e obbedienza al padrone che metteva “e sit”, cioè i terreni e la casa colonica, metà dellaspesa di acquisto del bestiame, metà delle sementi e delle tasse. Egli aveva il diritto di deciderein modo insindacabile sulla conduzione del fondo, nonché sull’idoneità della famiglia alle esigenzedel podere. Il sistema mezzadrile prevedeva, infatti, una stretta correlazione tra dimensione dellacasa, ampiezza dei terreni e composizione della famiglia. Poiché i primi due elementi eranodefiniti e poco flessibili, il padrone poteva intervenire, per far ritornare la combinazione, conl’escomio, cioè con l’espulsione della famiglia colonica non più in grado di lavorare adeguatamentei terreni o di vivere con ciò che produce il fondo, per immetterne un’altra con le giustecaratteristiche. Va da sé quanto peso potesse avere questa possibilità sull’obbedienza dellafamiglia contadina al padrone. In Italia, un po’ ovunque, la casa o il castello indicano, quindi, la potenza della consorteria e,in caso di tradimento, di condanna o di esilio, i nemici vincitori o il Comune se la prendonocon gli immobili come con le persone. La casa confiscata, ma molto più spesso smantellata orasa al suolo o bruciata, segna in maniera spettacolare e simbolica la disfatta del traditore, delcolpevole, del nemico70. Non è una semplice precauzione di carattere militare, bensì anche unasorta di operazione magica che colpisce gli animi.Il valore simbolico che si attribuisce così alla casa spiega senza dubbio il desiderio di conservaresempre in famiglia il palazzo degli avi, anche in un’epoca in cui la frammentazione del clan ola sua troppo grande espansione conducono alla dispersione delle eredità. La casa, che affermail prestigio del nome, deve restare proprietà dei discendenti e, nella misura del possibile, proprietàindivisa71».

4.2 La concordia interna al clan come base per la conservazione del potere. Alla base della potenza dei gruppi familiari, siano essi nobiliari o meno, sta la coesione e l’unionedel gruppo stesso. Come si vedrà anche nel seguito in maniera specifica per la Consorteria quioggetto di studio, la disgregazione di questi gruppi consortili è dovuta, nella maggior parte deicasi, non tanto ad attacchi esterni quanto ai dissidi tra appartenenti al medesimo clan, che prestoo tardi sono causa di guerre feroci e fatali per l’intera fazione.«Il mantenimento o il rafforzamento dei clan familiari, dunque, assicuravano innanzi tutto lapace interna ed una stretta alleanza contro i vicini, i rivali, i nemici72. Il primo dovere dei membridel clan era di mettere fine molto rapidamente alle loro contese o di sottometterle ad un arbitratointerno, particolare al gruppo». Vigevano poi, all’interno del clan, gli stessi divieti di portare le armi gli uni contro gli altri, diingiuriarsi o di ferirsi, perfino di sparlare, che prendono in considerazione tutti i giuramenti oregolamenti di confraternite, gilde o hanse. Tutte queste società di difesa o aiuto reciproco sono anzitutto società di pace interna. Nei clan

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70 Si vedrà in seguito che nel 1563, quando Francesco Guicciardini, per ordine del pontefice, mosse contro i Ceroni, oltrecento case di appartenenti alla consorteria furono bruciate e rase al suolo, causando un danno stimato in ottantamila mone-te d’oro.

71 J. HEERS, Il clan, p. 144.72 J. HEERS, Il clan, p. 145.

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familiari, poi, l’idea di un’ascendenza comune e l’orrore di versare sangue comune ne rendonol’obbligo ancora più imperioso73.«Il mantenimento della pace interna compete al clan stesso che rifiuta ogni intervento dello Statoe, più particolarmente, nelle città italiane, del Comune74. Una lunga tradizione vuole che gliaffari familiari siano trattati dai membri del gruppo. Dal punto di vista giudiziario e politico,l’appartenenza al clan esclude ogni altra partecipazione, ogni altra appartenenza ad un qualunquegruppo organizzato e soprattutto ad un gruppo legato da giuramento. […]Per molto tempo, nelle città d’Italia e perfino in Toscana, più urbanizzata e, sembra, politicizzataprima delle altre regioni, il Comune non può imporre la sua autorità, né la sua polizia, né i suoitribunali contro questi potenti gruppi sociali. […]A Firenze dove, pure nel secolo XIV, la signoria esercita la legge con rigore e dove i nobili hannodovuto ammettere l’autorità del Comune, resta inteso che certe offese, leggere, non eranoperseguibili se commesse all’interno delle famiglie e al contrario condannate se si trattava dipersone estranee».

4.2.1 Guerra privata e vendetta. La solidarietà, di cui si parlava nei precedenti paragrafi, si esercita soprattutto in occasione delleguerre private che costantemente turbano la pace delle città. Le lotte delle grandi famiglie nobilialimentano, nelle grandi città d’Occidente che sfuggono alla dura tutela di uno stato principesco,contese interne e, molto spesso, interminabili violenze, oltre che conflitti armati veri e propri.« Questi conflitti potevano nascere da contestazioni d’ogni genere: semplici dispute di vicinia proposito di diritti e di proprietà, come oltraggi all’onore, per esempio in occasione di rotturedi promessa di matrimonio75. […]Le lotte più accanite nascono evidentemente dal desiderio di vendicare i morti o i feriti. Le mortiviolente chiedono sempre riparazione. Per incidenti fortuiti, involontari, esse istigano talvoltadue famiglie una contro l’altra attraverso lunghi anni. […]La vendetta segna veramente tutta la vita medievale, più particolarmente nelle città, e questofino al secolo XV almeno. […]Vendicare il morto è certo un atto di deferenza e di rispetto verso la sua memoria; altrimentiquesta resta insozzata e tutta la stirpe con lei. È dunque un dovere imperioso per i suoi discendenti e i suoi amici.[…]Il più delle volte, la famiglia offesa cerca di applicare la legge del taglione, di restituire lo stessooltraggio, in maniera molto precisa (stessa ferita, mutilazione dello stesso arto, nello stesso luogo,alla stessa ora del giorno). Si tratta certo di cancellare completamente l’oltraggio. Tuttavia, lavendetta supera talvolta, di molto, l’offesa: i parenti uccidono per cancellare una semplice ferita. Questa vendetta può anche esercitarsi in strani modi; tutte le occasioni sembrano propizie,soprattutto quelle che presentano il minimo rischio e permettono di conservare l’anonimato. Nullache ricordi qui un codice dell’onore qualunque. Talora il vendicatore attende lunghi anni permeglio preparare la sorpresa e cogliere più disarmato l’avversario; un Mamelli, a Firenze, è uccisodai Velluti ventotto anni dopo il suo delitto. […]Altre volte i «giustizieri» affidavano il compito ad un mercenario stipendiato. […]La vendetta provoca inevitabilmente la guerra privata, perché la solidarietà dei clan familiari

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73 J. HEERS, Il clan, pp. 145-146.74 J. HEERS, Il clan, pp. 147-148.75 J. HEERS, Il clan, pp. 149-152.

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gioca allora in pieno, da una parte e dall’altra. Se la vendetta appartiene piuttosto all’offeso stesso, quando è solo ferito, o ai suoi eredi, lasolidarietà del clan si esercita obbligatoriamente per proteggere l’offensore che può contare allorasull’aiuto di tutti i membri del consortio. […]D’altra parte, la vendetta può essere esercitata non sul colpevole, ma su un altro membro dellasua famiglia. Di qui un’estensione delle contese che coinvolge sempre più amici e alleati.Le risposte, inevitabili, rendono eterni questi conflitti e finiscono, con l’aiuto del gioco dellealleanze, col dividere la città in due blocchi schierati l’uno contro l’altro. Questa solidarietàdel lignaggio non fa mai difetto. Essa impegna in maniera attiva e drammatica numerosi membridel clan. In effetti sembra che essa si eserciti più duramente e a lungo nelle città che siamministrano da sole e sfuggono di più alla giustizia di un principe. L’unione del gruppoconduce necessariamente alla responsabilità collettiva dinanzi alle sanzioni e alle rappresaglie.[…] Lo Stato tenta (evidentemente) di infrangere la solidarietà del clan e di proibire ai parenti o alleatidi portare aiuto ed anche di offrire rifugio al colpevole fuggitivo, anche se solitamente senzasuccesso.».

4.2.2 Contese private e rivolte urbane. Le paci e le tregue.L’importanza dei conflitti privati che, dietro i capi, impegnano clientele numerose, parenti e alleatidi ogni genere, di ogni condizione e fortuna, può, in larga misura, spiegare l’origine se nonl’estensione e la persistenza delle grandi rivolte urbane durante tutto il Medio Evo76.«Per lungo tempo incapaci di proibire questi conflitti, malgrado severe prese di posizione etalvolta delle ordinanze contrarie, le città tentano semplicemente di stabilire delle paci tra leparti avversarie77. […]Il consenso di tutti i parenti ed amici dà il suo vero senso alla tregua. Di fatto, molto più spesso,almeno in Italia, le paci tra due lignaggi si stabiliscono dopo molte trattative e mercanteggiamenti,con un contratto preciso, in forma buona e dovuta, stilato innanzi a un notaio. La faccenda prendeallora l’andamento del regolamento di un contenzioso commerciale78». Queste paci, che proclamano ad alta voce il perdono delle offese, si traducono in effetti, in molticasi, in un’operazione finanziaria assai importante79. Le transazioni vertono soprattuttosull’ammontare della riparazione reclamata dal clan della vittima e la vendetta si può saldarecon un buon affare quando questo clan sembra sufficientemente numeroso e potente. Donde, anche in questo caso, l’interesse di mantenere molto stretta la solidarietà del lignaggioe di estenderla a numerosi alleati o dipendenti. Questa solidarietà si manifesta nell’altro campo per raccogliere il denaro dell’accordo. Queste considerazioni finanziarie certamente non sono estranee alla ricerca della pace. Spessole consorterie trovano nelle riconciliazioni l’occasione di nuove alleanze, grazie ai matrimoniche suggellano l’impegno reciproco e apportano a ciascuno vantaggi evidenti.«I matrimoni permettevano così di rafforzare o riannodare i legami tra due rami sorti dallo stesso

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76 J. HEERS, Il clan, p. 155.77 J. HEERS, Il clan, p. 165.78 Numerose, lo vedremo, sono anche le tregue stipulate dai Ceroni con altre potenti famiglie. Si tenga presente però che su

questo dato influisce significativamente il fatto che facilmente le paci fossero violate, come già si diceva nel paragrafo pre-cedente.

79 J. HEERS, Il clan, p. 166.80 J. HEERS, Il clan, p. 167.

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ceppo, ma divenuti estranei, se non nemici80».Questa permanenza della guerra privata e della vendetta testimoniano così l’esistenza del gruppofamiliare, quale che sia il suo nome, e la sua coesione, quali che siano le istituzioni politichedella città.

4.2.3 Potenza militare delle consorterie.I gruppi familiari che, in modo più o meno lontano e talvolta artificiale, si richiamano ad unastessa ascendenza, devono la loro coesione anche ad una stretta vita sociale, comunitaria in alcunidei suoi aspetti81. I legami creati, quotidianamente o nei momenti più drammatici, dal vicinato,fanno la forza del gruppo sociale nelle campagne come nelle città. «Questi lignaggi, nobili soprattutto, saldamente insediati nel cuore della città medievale,dispongono sempre di una forte potenza militare e, minacciando i loro nemici o vicini, pesanogravemente sui destini della città. Questa pericolosa situazione non è solo fonte di disordini edi continue guerre civili: essa impedisce anche la stessa esistenza dello Stato82. […]In Italia, gli eserciti di vassalli rurali, di dipendenti di ogni sorta, costituivano certamente laforza principale delle famiglie nobili, nei primi tempi dell’età comunale. […] I cronisti, in seguito, avvertono ancora questa minaccia e parlano degli eserciti di montanariche questo o quel clan poteva formare nei suoi feudi dell’Appennino. Senza dubbio le famiglie più turbolente vivevano fuori dalla città, non vi erano introdotte e sitenevano lontane, nei loro castelli ostili».Il reclutamento di mercenari conduce spesso il Comune a ricorrere ai servigi di clan bellicosiinstallati nella montagna, che, legati ancora ad uno stile di vita feudale, sopravvivono facilmente,fuori dell’influenza politica urbana83. Il Comune di Firenze trova i suoi mercenari nei paesi di montagna nel sud della Toscana,nell’Appennino , ai confini con la Romagna e le Marche, in tutti quei centri ancora moltofeudalizzati.La route o la condotta di mercenari pagati dai comuni d’Italia non è, molto spesso, altro cheuna truppa d’origine feudale che, riunendo intorno al capo parenti, vassalli e alleati, testimoniaancora la potenza militare di questi clan familiari saldamente insediati nelle campagne84.

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81 J. HEERS, Il clan, p. 175.82 J. HEERS, Il clan, pp. 227-228.83 I Ceroni, descritti solitamente nelle cronache come valorosi e abili nelle armi (come si preciserà meglio nei prossimi capi-

toli) vengono in almeno due occasioni chiamati in aiuto da paesi limitrofi, in particolare dal rettore di Romagna, re Robertodi Napoli, nel 1311 e dai faentini nel 1488, in seguito all’omicidio di Galeotto Manfredi.

84 J. HEERS, Il clan, pp. 227-228.

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Capitolo 3

1. Guelfi e ghibellini in Romagna.Le fazioni guelfa e ghibellina ebbero origine in Germania. Qui, dopo il Concordato di Wormsdel 1122, nell’ambito delle rivalità tra le famiglie feudali tedesche che si contendevano l’imperoelettivo e che si atteggiavano a favore o contro l’ingerenza del pontefice romano nelle vicendepolitiche del loro paese, agli Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori di Waiblingen, sicontrapposero i duchi di Baviera, discesi da Welf (Guelfo). Questi ultimi erano legati all’imperatoreLotario II di Supplimburgo, che godeva del sostegno della Chiesa di Roma e dell’episcopatotedesco, anche dalle nozze di Enrico il Superbo, duca di Baviera, con Giuditta, figliadell’imperatore stesso. Nel 1138 il trionfo degli Svevi venne sancito dall’elezione a imperatore di Corrado III, al quale,nel 1152, succedette il nipote Federico I Barbarossa. Durante l’impero di quest’ultimo i termini del conflitto si andarono precisando in riferimentoal rapporto tra papato e impero, le due supreme autorità del tempo, rivendicanti ciascunasuperiorità sull’altra e universalità.In Italia i Comuni, intenti a difendere le autonomie concesse loro da Enrico V, si orientaronoper la maggior parte a favore del papato, contrastando i tentativi di Federico di restaurare l’autoritàimperiale nella penisola.Ben presto la contrapposizione tra guelfi e ghibellini nel nostro paese, non significò adesioneai valori originariamente affermati dalle due parti, ma servì a mascherare conflitti di interessetra fazioni avverse, città nemiche, città e contado circostante. A capo della fazione guelfa furono in Italia i papi e gli Angioini; i ghibellini, dopo le sconfittedi Benevento e di Tagliacozzo, si volsero agli aragonesi, ad Alfonso di Castiglia, agli imperatoriRodolfo e Alberto d’Asburgo, ad Enrico VII e ai loro successori. Si schierarono da subito con la fazione guelfa Bologna, Firenze e Genova; con quella ghibellinai Visconti di Milano, i Colonna e i Frangipane di Roma e la città di Pisa. Fino al 1178, anno in cui aderì alla Lega Lombarda, Faenza si era dimostrata fedelissima a FedericoI Barbarossa. Conferma questo anche il fatto che l’imperatore visitò la città nel 1164, rimanendovi perdiverso tempo, ospite di Enrico e Guido Manfredi, cittadini notabili. Da tale passaggio trae origine ancheuno degli eventi faentini tuttora più conosciuti, la “Giostra del Barbarossa” o “Quintana del Niballo”.

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Così viene descritto l’episodio1:«Nel gennaio del 11652, l’imperatore Federico passò da Faenza e fu ospite nelle case di Enricoe Guido Manfredi. Venuto a conoscenza del valore dei faentini sul campo di battaglia, il Barbarossavolle che per lui giostrassero in un torneo. La gara ebbe luogo in un orto detto Broylo, postodietro le case dei Manfredi, nella attuale via Baroncini. Forse in ottemperanza alle disposizioniecclesiastiche che proibivano i tornei, i faentini giostrarono non tamen cum armis ferreis sedligneis.L’imperatore e la consorte molto si dilettarono di questa giostra e l’avvenimento rimase a lungonella tradizione».Si è visto nel capitolo precedente che nel 1216, nel corso di una contesa tra Imola e Faenzaper la supremazia sulla valle del Senio, i faentini distrussero il castello di Casola. Gli scampatiedificarono un borgo, un poco più in basso, tra il fiume ed il colle, al quale, inizialmente, diederoil nome di Casola e, quindi, di Casola Valsenio. Il borgo si ingrandì, sviluppando le arti e lamercatura, malgrado venisse coinvolto ripetutamente nella contesa tra guelfi e ghibellini e fosseoggetto di innumerevoli scorrerie, non avendo la protezione delle mura.Nel 1225 l’Italia era afflitta dalla pestilenza e divisa, come si è detto, tra papato e impero. Gliimolesi appoggiavano l’imperatore, che nel 1219 aveva riconfermato quanto concesso nel 1212da Ottone IV, cioè che niente del contado o del vescovato imolese fosse dato ai faentini e aibolognesi3. I ceronesi con quelli del Senio erano legati a papa Gregorio, che fuggì da Roma per essersi dichiaratoil popolo romano contro di lui4. Fino al 1239 tutti i comuni di Romagna, tranne Faenza, si dichiararono ghibellini5. In detto anno Paolo Traversari, potente nobile ravennate, si dichiarò a favore dei guelfi e si unìa Bologna per cacciare i fautori imperiali da Ravenna. Nel 1240 l’imperatore marciò a nord di Ancona, riprese Ravenna e in seguito Faenza, che caddeil 14 aprile 1241. Per i sette anni successivi la Romagna rimase ghibellina. Solo grazie alla sconfitta imperiale aParma e all’avanzata del delegato papale Ottaviano degli Ubaldini ogni città e provincia dellaRomagna venne sotto il controllo guelfo. In questi anni la lotta tra guelfi e ghibellini in Romagna divenne vero e proprio conflitto di classe. Nel 1257 il papa teneva in Romagna un suo delegato, chiamato solitamente “conte”. Questi avevapieni poteri ed era fornito di una certa scorta di armati con lo scopo di mantenere l’ordine e di riscuoterele imposte6.Fazioni di nobili, entro ciascuna città, lottavano per tenere o usurpare l’autorità del Comune. I feudatari si fecero ben presto una loro clientela e maneggiarono le cose in modo da farsi eleggere“podestà” o “capitani del popolo”7. Si circondarono di soldati, crearono alleanze, allargaronoi loro domini, fecero atto di sottomissione verso la Chiesa e i suoi vicari oppure si ribellaronoad essi, secondo l’opportunità del momento. Essi avevano rapporti con Firenze e Bologna

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1 TOLOSANO, Chronicon, cap. LV, R.I.S., t. XXVIII, in P. SOLAROLI, Niballo, p.20.2 Primo Solaroli trascrive l’anno come riportato nel Chronicon, precisando però che è “ampiamente dimostrato che l’imperatore

passò da Faenza l’anno precedente”.3 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 28.4 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 31.5 M. ZAULI, Cenni, pp. 6-7.6 M. ZAULI, Cenni, p. 6.7 M. ZAULI, Cenni, pp. 7-8.

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indipendentemente da quelli con gli altri Comuni di Romagna.La natura guelfa o ghibellina di ogni città, perciò, era vincolata e connessa con la fazione nobiliareche dominava allora nel Comune.Fu, ad ogni modo, raro nella nostra penisola che le famiglie nobili propendessero per una fazionepiuttosto che per l’altra per vere convinzioni. La scelta era determinata soprattutto da interessipolitici ed economici ben precisi.

1.1 Maghinardo Pagani a capo del partito ghibellino.Nel 1263 la lotta tra guelfi e ghibellini in Romagna era in pieno svolgimento. Le famiglie piùpotenti si mettevano a capo di uno dei partiti e chi vinceva metteva al bando gli avversari8.Della lotta tra le fazioni approfittò Pietro Pagano, uomo nobile e potente9. Egli si rivolse, infatti,contro Imola, dove Mario Tannio era capo dei guelfi. Uguzione Sassatelli, appartenente al partitoguelfo, allora, condusse le sue genti in detta città10 ma non riuscì ad arrestare Pietro, che siimpadronì di Imola, vi si stabilì e nominò il figlio Maghinardo capitano del popolo.«Tra i signori e i condottieri romagnoli, Maghinardo Pagani da Susinana ha certamente occupatoun posto di tutto rispetto11. Passato ai posteri anche per quella citazione non proprio benevoladi Dante Alighieri nella Divina Commedia: “il leoncel dal nido bianco / che muta parte dallastate al verno” (Inferno, XXVII, 50-51), Maghinardo ricoprì un ruolo centrale nelle vicendepolitiche e militari della Romagna dell’ultimo quarto del XIII secolo e nessun luogo sarebbestato più adatto degli inferi danteschi per collocare il capo indiscusso (dopo la morte di Guidoda Montefeltro) della fazione ghibellina e signore di Forlì (1292), Imola (1292-1302), Faenza(1282-1285 e 1291-1302) e di decine di castelli sparsi tra il Lamone ed il Santerno. Il leoneazzurro in campo argenteo, stemma gentilizio dei Pagani, aveva il suo punto di forza nell’altavalle del Senio da cui, con il castello di Susinana (Palazzuolo), la famiglia controllava, sin dalXI secolo, il passo appenninico sulla strada per Firenze.Coi fiorentini, sebbene di parte politica avversa, Maghinardo spesso strinse alleanze, anchefamiliari, visto che sposò nel 1282 la fiorentina Mengarda della Tosa. Assieme ai guelfi toscani,partecipò coi propri colori e i propri armati all’epica battaglia di Campaldino dell’11 giugnodel 1289, che vide vittoriosa la fazione dei guelfi neri e costrinse Dante Alighieri, tra tanti altri,all’esilio. Maghinardo si guadagnò l’epiteto di voltagabbana, ovvero di colui “che muta parte dalla stateal verno”, tanto da apparire ghibellino in Romagna e guelfo in Toscana. All’apice della suapotenza, Maghinardo, nel tentativo di consolidare i suoi domini su Faenza e Imola, decise diattaccare Bologna spingendosi oltre il Sillaro. Era il 9 giugno del 1296 quando l’esercito romagnoloiniziò la scorreria su Castel San Pietro e Medicina “bruciando le case in quelle parti, prendendopecore e buoi, uomini e frumento... sicché si disse (annotò un cronista dell’epoca) furono bruciatepiù di 2.000 case nel contado di Bologna”. Coi bolognesi Maghinardo aveva già dovuto combatterequando alcuni anni prima, nell’aprile del 1292, con un’ardita e abile mossa, aveva occupatoImola beffando i bolognesi i quali, credendosi al sicuro al di qua del Santerno in piena, furonosorpresi e costretti ad abbandonare la città».

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8 M. ZAULI, Cenni, pp. 7-8.9 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 31.10 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 31-32.11 Testi e ricerca iconografica a cura di FRANCO MERLINI per gentile concessione della Associazione Culturale “Giuseppe

Scarabelli”, in www.culturaperimola.org.

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2. I Ceroni: le origini. Nella maggior parte dei testi consultati si parla della famiglia Ceroni come potente clan inRomagna all’incirca tra i secoli XIV e XVI. Pur ammettendo che non è possibile datare l’origine o il declino di una famiglia in un determinatoluogo, trattandosi di un processo lungo e per certi versi tormentato, ricco di scontri con famiglieo clan di opposta fazione o addirittura della stessa12, si accetti la periodizzazione temporaleindicata, tenendo presente che non iniziò ed ebbe fine in questi secoli una stirpe, ma piuttostoil suo potere nella valle del Senio, con eccezioni che a suo tempo si evidenzieranno.

2.1 Un fundo qui dicitur Ceroni.Il primo documento che colloca in Romagna la famiglia Ceroni è una cartula refutationis risalenteal 18 marzo 1214 nella quale i fratelli Oradino e Guido, «filii quondam Ramoni de Ainio etd(o)m(in)e Ravenne», cedono a Guido «de Aquavia» i diritti su una pezza di terra sita in Mordano,nel fondo «Ceroni»13.

Fondo Ceroni in una mappa catastale del 1797.

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12 Celebri a questo proposito i dissidi originatisi all’interno della famiglia Manfredi tra Taddeo Manfredi e lo zio Astorgio. 13 N. MATTEINI - G. MAZZANTI - M. P. OPPIZZI - E. TULLI - A. PADOVANI, Chartularium, p. 249.

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2.2 Ceroni di Romagna, Ceroni bergamaschi?Le origini della stirpe dei Ceroni in Romagna, secondo un recente studio ancora inedito di RenatoCeroni, vice presidente vicario della Consorteria odierna, sono da ricondursi a quelle del ceppodei Ceroni della Val Serina, che ebbe origine da due cavalieri di Carlo Magno intorno all’800. Scrive lo studioso: «due nobili cavalieri allemanni i cui nomi furono secondo la tradizione Ceroniuse Carrerius, che a differenza di altri, dopo la conquista della Lombardia, da parte degli esercitidel loro re, stanchi della dura vita del campo e delle armi, ottennero il “congedo”, sedotti dallabellezza della Valle dell’Alva, che era soltanto una valletta della grande Val Brembana Superiore,decisero di rimanervi per abitarvi, di costruirvi le loro prime case e i loro castelli. Per l’importanzadell’ origine della loro Casata, questi due personaggi chiesero ed ottennero, parrebbe moltofacilmente, l’assegnazione di una parte della Val Brembana Superiore, di quella parte […] dettaallora “Valle dell’Alva”, che gestirono sempre, anche quali valvassori. Molti componenti della famiglia di uno dei due alemanni, Ceronius, che chiameremo da ora nelloro complesso famiglia “Ceronia”, si sarebbero invece guadagnati il congedo dall’ esercito edal campo, andando a ricercare altri luoghi per abitarvi, chi verso la Romagna, chi invece nelpavese, ma in generale preferendo sopratutto zone, luoghi, paesi, dove fosse abbondato il saleper loro bisogni di quei tempi, e di sempre, certamente materia prima fra le più importanti14».È datato 1634 il testo più importante a tutt’oggi in nostro possesso sulle origini e le gesta dellafamiglia Ceroni. Composto da don Domenico Mita, questo manoscritto è stato recentementetradotto dal latino e pubblicato a cura dell’attuale arciprete di Casola Valsenio, monsignorGiancarlo Menetti. Egli, in una nota all’introduzione15, sottolinea:«Il Mita, parlando dei Ceroni, parte dalla convinzione che si tratti di una sola famiglia originariadi tutti i Ceroni; una delle più antiche dell’Emilia Romagna. Delle famiglie Ceroni, in realtà, se ne riscontrano un po’ in tutt’Italia e in tutte le epoche. UnZaccaria Ceroni, segretario vescovile di Cesena è ricordato nel Regesta Pontificum Romanorumdel 1182; un monaco col nome di Keroldo Ceroni, oriundo di Tossignano, è vissuto verso l’anno755 nel monastero di San Gallo in Svizzera e sembra un uomo di lettere, a lui vengono attribuitetraduzioni in tedesco e opere in prosa e in versi.[…] Certamente (Ceroni) in loco è un toponimo originato da Ceruno, Zirone in antico, Cirroneo Cerrone verosimilmente da “cerro”, grosso tipo di quercia».Non sembra in discussione, quindi, che le origini della famiglia Ceroni siano antiche, anchese, forse, non quanto vorrebbe don Domenico Mita. Giancarlo Menetti suggerisce che la nascitadel Castello di Ceruno potrebbe fissarsi tra la fine del 1200 e gli inizi del 130016. Il P. SerafinoGaddoni riporta un documento del 1292. Vi abitava un certo numero di famiglie che dal luogoprendevano lo stesso cognome: da Ceruno o Ceroni.Don Domenico Mita spiega così il trasferimento dei Ceroni originari della Val Serina a CasolaValsenio:«Non molto tempo dopo17 gli stessi abitanti di Firenze vennero molestati dall’imperatore Enricoe dai Milanesi con aspra guerra18. Molti dei nostri Ceronesi combattevano per la RepubblicaFiorentina; ora, mentre i prefetti passavano in rassegna l’esercito chiamando (le squadre) per

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14 R. CERONI, Lepreno, p. 9 e ss.15 G. MENETTI, La storia, p. 101.16 G. MENETTI, La storia, p. 106.17 Siamo nel periodo immediatamente successivo alla vittoria dei Ceroni contro Uguccione della Faggiola.18 G. MENETTI, La storia, pp. 27-28.

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nome, si notò che un centurione, con alcuni altri, si arrogava il cognome Ceroni. Il fatto spinsei nostri, appena ottenuto di poter parlare, a richiedere chi fossero, da chi avessero avuto quelcognome e da qual paese venissero».Sembra che alla domanda essi risposero di provenire dal bergamasco e raccontarono la leggendadei due cavalieri alemanni, Ceronius e Carrerius. Domenico Mita aggiunge che a questo puntoi Ceroni della Val Serina narrarono ai romagnoli la battaglia che li aveva costretti a lasciare laloro patria in cerca di miglior fortuna. Renato Ceroni descrive così l’episodio:«Correvano gli anni duri delle feroci lotte fra le fazioni, le lotte fra guelfi e ghibellini e di fortefermento popolare in tutta la provincia bergamasca. Nei castelli, nelle valli, in città, nascevanogià le prime scaramucce, fra i contendenti e poi divennero le prime vere battaglie, vicini controvicini di opposto partito. La Villa del Cornello, che più tardi per qualche tempo fece anche parte del vicariato della ValBrembana di Sopra, era di proprietà della famiglia dei nobili Della Torre o Turriani, signori diMilano. […]Nell’anno 129519 […] un Turriano […] decise di far marciare il suo esercito, diventato perl’occasione forte di ben 12000 pedoni (così dicono le cronache...) con intento di conquistare,abbruciare e sottomettere tutta la valle di Serina, nella valle Brembana di sopra, occupare Leprenoe distruggerla, distruggendo infine i Ceroni, che dalla fondazione ne reggevano la signoria edistruggere tutti quelli che si fossero opposti alla sua offensiva. In modo particolare voleva faruccidere Antonio Ceroni, che in quel tempo era signore e capitano della valle». Il valoroso capitano, così come narra in maniera sicuramente più dettagliata Renato Ceroni, vintauna battaglia ma persa la guerra contro la famiglia Della Torre, sarebbe stato costretto a fuggirecoi congiunti, e una parte dei fuggiaschi avrebbe raggiunto Casola Valsenio, ricongiungendosiai Ceroni romagnoli. A ben vedere temporalmente il periodo è lo stesso indicato dal Mita, il primo decennio delquattordicesimo secolo.

2.3 Uguccione della Faggiola contro il Castello di Ceruno. La consacrazione deiCeroni come paladini guelfi.

Risale allo stesso periodo20 il primo episodio bellico che vede protagonista la famiglia Ceronidi Casola Valsenio. Dopo la definitiva sconfitta dei ghibellini fiorentini, in città i guelfi, in seguito a dissidi tra duenobili ed influenti famiglie, Cerchi e Donati, si divisero rispettivamente in bianchi e neri, piùvicini al popolo ed alla borghesia i primi, legati alla nobile aristocrazia i secondi. Durante le continue lotte per il potere vennero mandati in esilio molti rappresentanti di entrambele fazioni e sembra che in tale occasione diversi guelfi neri si rifugiassero a Ceruno, ospiti dellaConsorteria. Scrive, infatti, Pietro Salvatore Linguerri Ceroni21:«In tale circostanza molti fiorentini del partito de’ Neri si ricovrarono nella nostra Valle, edottennero la protezione de’ Ceronesi, del chè irritato Uguccione Fagiolano comandante laghibellina fazione, tentò di espugnare Ceruno. I Ceronesi si scagliarono contro i nemici, che

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19 Renato Ceroni precisa che in altri testi si parla del 1292.20 Inizi del 1300.21 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 37.

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salivano il Monte co’ quali azzoffatisi, ne ferirono molti, altri ne uccisero, costringendo il restantealla fuga. Lo stesso Uguccione, da suoi abbandonato, restò ferito, e quasi vi perdette la vita.Molti Ceronesi rimasero feriti, pochissimi però morirono».Ritroviamo lo stesso episodio ripreso da Paolo Giovio22: «…quadam in pugna ad Caeronium pagum a suis desertus et ab hostibus prope circumventusquum sese fortiter reciperet, vulnerato altero crure, et collisa vehementer galea, in oblongopedestri scuto quatuor tragulas et tredecim veruta ex minoribus balistis infixa ad suos retulit…»E lo stesso passo trascritto da Scipione Ammirato23:«… essendo (Uguccione della Faggiola) in una certa battaglia fatta a Cerone abbandonato daisuoi, e poco meno che posto in mezzo da’ nimici, egli ferito in una gamba e ammaccatogligrandemente la celata, valorosamente ritirandosi, riportò a’ suoi in un targone lungo da pedonequattro partigiane e tredici verrettoni tirati da balestre piccole».L’episodio viene fatto risalire all’anno 1313 ed è così descritto da don Domenico Mita24:«…circa l’anno 1309, la Repubblica di Firenze cominciò ad essere fieramente sconvolta daicivili dissidi fra guelfi e ghibellini. Furono cacciati i guelfi dalla città e gran parte di loro siraccolse presso i Ceroni, loro vecchi amici, presso i quali, accolti con ogni cortesia, pensavanodi fermarsi fin quando il vento non fosse spirato loro favorevole.Ma ecco che poco dopo Uguccione della Faggiola, prode guerriero e capitano delle soldateschedi parte ghibellina (fu questi un reuccio di Lucca e di Pisa) raccoglie un esercito per abbatteri guelfi e si appresta a distruggere Ceruno. Per difendere nel miglior modo possibile, oltre chese stessi, anche i nobili ospiti da gran tempo benemeriti, i Ceroni, che avevano messo insiemeun (piccolo) esercito formato dagli amici prontamente accorsi all’appello e dai profughi Fiorentini,uscendo con gran impeto dal villaggio, si precipitano sulle schiere dei nemici armati che eranogià a mezzo il colle e ingaggiano con loro un fiero scontro; molti ne ferirono, altri ne ucciseroe il resto volsero in vergognosa fuga attraverso boscaglie senza sentieri.Uguccione, che combatteva con accanimento, abbandonato dai suoi e ormai circondato dai ne-mici mentre si ritirava da prode, ferito ad una gamba, con l’elmetto mezzo fracassato, riuscì ariunirsi ai suoi, ma portando infissi nel suo scudo pedestre ben quattro giavellotti e tredici freccescoccate da piccole balestre. Fra i nostri i feriti furono molti, ma pochi i morti».Anche nella Storia di Brisighella di Antonio Metelli25 si parla dell’attacco di Linguaccione(Uguccione) della Faggiola al castello di Ceruno.L’episodio di Uguccione della Faggiola ebbe dunque una certa rinomanza e consacrò i Ceronicome paladini guelfi e la fama di roccaforte guelfa aleggiò in quel tempo per Ceruno e dintorni26. A questo forse può essere attribuita, suggerisce monsignor Giancarlo Menetti27, la decisione della famigliaOzzani (poi Tozzoni) di trasferirsi a Casola Valsenio attorno al 1330, ove rimase per una quarantinad’anni, dopo essere stata costretta ad abbandonare Bologna per sottrarsi alle vendette degli avversari.Supporta tale tesi il fatto che lo stemma dei Tozzoni è identico a quello dei signori di Ceruno.Appare verosimile che i Ceroni avessero già in questi anni, quindi, molto potere a Valsenio edintorni e molto credito, visto che diverse famiglie guelfe decisero di trasferirsi presso di loroper ottenere protezione ed aiuti.

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22 P. GIOVIO, Elogi degli uomini illustri, citato da G. MENETTI, La storia, p. 110.23 S. AMMIRATO, Istorie, vol. 2, p.34.24 G. MENETTI, La storia, pp. 25-27.25 A. METELLI, Storia, vol. 1, libro 4, p. 207.26 G. MENETTI, La storia, p. 110.27 G. MENETTI, La storia, p. 110.

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2.4 I Ceroni di Lepreno: guelfi o ghibellini?Come visto nel paragrafo precedente sembra assolutamente certo che i Ceroni romagnolipropendessero per il partito guelfo. Pur ricordando ciò che si è detto all’inizio di questo capitolo, cioè che la natura guelfa o ghibellinadi ogni fazione in Italia era lontana da quelli che erano gli ideali originari ed era decisamentepiù legata a convenienze economiche o politiche, a volte perfino temporanee28, è opportunodomandarsi a quale partito i Ceroni della Val Serina fossero legati.Scrive don Domenico Mita29 che i Torriani di Milano, dai quali, come visto, i Ceroni bergamaschifurono cacciati, erano capi di parte guelfa. Ed egli esplicitamente afferma che i Ceroni scacciatierano ghibellini. Precisa poi che essi furono accolti dai «nostri Ceroni (guelfi) […] come amici,rendendosi per sempre soci delle loro sfortune a patto che lasciassero il partito ghibellino30».Sembra certo che Antonio Ceroni, avuto sentore dell’intenzione dei Torriani di invadere la valle,chiedesse aiuto alla famiglia Brusati di Brescia, imparentata coi Ceroni. Renato Ceroni31 obbietta che «se i Ceroni di Lepreno fossero stati per la parte dei ghibellini,sebbene parenti...e per giunta piuttosto stretti, mai avrebbero avuto l’aiuto nella battaglia dallafamiglia Brusati, nobili di Brescia, famiglia guelfa, da sempre e per tradizione molto vicina alpapato». Dimostrato però che si trattò di una guerra voluta dai Torriani per motivi economici e politici,come si diceva, è probabile che la fazione per la quale l’una o l’altra famiglia parteggiavanoavesse ben poca importanza. È perciò, a mio avviso, difficile stabilire senza margini di errore a quale fazione originariamenteappartenessero i Ceroni bergamaschi. Certo è che, una volta giunti in Romagna, essi sidichiararono e comportarono come guelfi.

3. I Ceroni, abili condottieri. Scrive nel 1594 Giovanni Andrea Calegari32 a proposito degli uomini di Val d’Amone:« Sono gli huomini di questa Valle naturalmente inclinati a l’armi e alla guerra, e in questo siesercitano buona parte del tempo; e quantunque siino contadini, che lavorano la terra,maneggiando tuttavia almeno i giorni de le feste l’armi, e’ si reputano a gran vergogna se nonsi ponno gloriare di esser stati una o più volte a la guerra, e nelli eserciti formati. E havendoessi militato lungamente al soldo de’ venetiani, massime sotto la condotta di Dionisio, Vincenzoe altri famosi capitani de’ Naldi e d’altre famiglie di Brassichella e Valle di Amone, e sempreessendosi portati valorosamente, e’ si è veduto, che in Venetia e nel venetiano li romagnoli tuttisono chiamati brassichelli, il quale nome appresso loro non ha altro significato se non di huomoarmigero, bravo e pronto a menar le mani. […] e perché sono facili alle risse e questioni, è natoun proverbio che la Corte di Romagna si morirebbe di fame, se non fossero le criminalità deglihuomini di Brassichella e Valle di Amone».Questa descrizione ricalca pienamente, a quanto si è avuto modo di vedere, i rappresentantidella stirpe dei Ceroni.

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28 Si rammenti quanto detto poco sopra per Maghinardo Pagani, criticato aspramente da Dante per la sua doppiezza.29 G. MENETTI, La storia, p. 29.30 G. MENETTI, La storia, pp. 29-30.31 R. CERONI, Lepreno, p. 103.32 G. A. CALEGARI, Breve descritione di Brassichella e Valle di Amone, in A. TURCHINI, La Romagna, vol. 2, p. 572.

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3.1 I Ceroni al servizio dei potenti.È indubbio che molti appartenenti alla famiglia Ceroni, anche in seguito al valore dimostratocontro Uguccione della Faggiola, militarono per la repubblica fiorentina, con la quale venneinstaurato un rapporto di fedeltà e fiducia. Narra, a tal proposito, don Domenico Mita33, che «i fiorentini che fuor d’ogni loro speranzascamparono all’imminente pericolo, rimasero poi tanto grati ai Ceroni sia col cuore che coi fatti,da commettere loro, in occasioni di guerre e secondo le loro forze, gli incarichi principali, cioèsia di guidar truppe che di reclutarle. I nostri (i Ceroni), dopo aver combattuto con valore eimpegno per i (loro) signori, ritornavano alle famiglie carichi di lodi e doni». Al contempo troviamo diversi appartenenti alla Consorteria anche nelle schiere della repubblicaveneziana o al soldo di altre città romagnole. Il cavalier Luigi Angeli, nel 1828, nelle sue memorie di imolesi illustri di ogni tempo dice delcapitano Raffaele Brunori Ceroni, del quale si avrà modo di parlare più approfonditamente inseguito:«Vengo a far conoscere un uomo celebre fra li rinomati guerrieri del suo tempo nato sui montidell’Imolese contado a piè de’ quali scorrono le perenni acque del Senio e del Lamone. Discendequesto dall’antica famiglia de’ Ceroni, che sul declinare del secolo XIII colà si era stabilita, eper una serie quasi mai interrotta diede uomini valenti nel mestiere dell’armi…».L’abilità militare dei componenti la Consorteria è riconosciuta in diverse occasioni anche dallostato pontificio e dalle città confinanti. Narra don Domenico Mita34 che intorno al 1311 re Roberto di Napoli, allora rettore della Romagna,«ebbe gran timore che dalle armi del Visconti di Milano fosse assediata la città di Imola, percui, vistosi negato ogni aiuto dalla Repubblica Fiorentina, per sventare l’assalto dei nemici,difendere la città e salvare la popolazione […] arruolò 350 soldati ben armati e tra i più valorosie chiamò in aiuto 300 fanti fra i montanari più ardimentosi. Questi furono scelti quasiesclusivamente tra i Ceroni».Lo stesso episodio ritroviamo nella “Storia dei Ceroni” dell’abate Antonio Ferri35.Antonio Metelli36, poi, narra che «nel 1351 Astorgio di Duroforte a Imola (unica città rimastafedele al Pontefice) si rivolse per aiuti contro i tiranni locali alla Repubblica di Firenze e cercòdi assicurare la città per mezzo di milizie paesane e chiamando dentro a presidiarla fino gli abitantidelle montagne, fra i quali molti vi convennero dal Castello di Cerone».Nel 1488 anche la città di Faenza si avvalse della abilità militare dei Ceroni. In seguito allacongiura ai danni di Galeotto Manfredi, ucciso con la complicità della moglie FrancescaBentivogli, i faentini, «per questo fatto compresi di raccapriccio, proclamarono in pieno consiglioil fanciullo Astorgio, invitando i Ceronesi a calar senza indugio e mantenere il buon ordine nellacittà37. Appena giunti furono incaricati della guardia della piazza. Nel dì seguente per la Portadella Rocca, occupata da Francesca, entrati essendo Giovanni Bentivogli di lei padre, ed i Rangonidi Modena con molte milizie ingombrarono la città tentando di penetrare nella piazza dai nostriCeronesi custodita. A tale attentato si sollevò il popolo in massa, e gridando morte, si scagliòsull’estera truppa per farla in pezzi».

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33 G. MENETTI, La storia, p. 27.34 G. MENETTI, La storia, pp. 32-33.35 A. FERRI, La storia dei Ceroni, in copia nell’archivio personale dell’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni.36 A. METELLI, Storia, vol. 1, p. 234.37 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 43.

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L’abate Ferri38 conferma che i Ceroni «quietarono, con la loro autorità, il tumulto popolare e glianimi dei nobili».Sottolinea Pietro Salvatore Linguerri Ceroni39 che «in tale occasione i Ceronesi ottennero, oltrealla sorte di salvare la città dall’imminente macello, d’incontrare la grazia e protezione de’Bentivogli e Rangoni, cosicchè dai primi si videro di benefici ricolmi, e dai secondi onorati delleprime cariche nella loro Corte».

3.2 I Ceroni contro i potenti.3.2.1 Taddeo Manfredi e Marsibilia Sforza.In uno dei capitoli precedenti si è parlato dell’astio che contrapponeva Taddeo Manfredi e ladi lui moglie, Marsibilia Sforza, figlia di Galeazzo Pio da Carpi40, allo zio Astorgio. Nel 1448, come si è detto, Taddeo Manfredi, giovane e inesperto, succedette al padre nel dominiodi Imola mentre Astorgio Manfredi prese a governare Faenza.Ai governatori Baldassarre da Baffadi e Giovanni dei Breghenzoni d’Urbino che lo sostituì 1’11settembre 1449 Taddeo affidò la responsabilità di governare da Tossignano un vasto territorio,comprendente tutte le località già appartenute a suo padre, come Monte Battaglia e i suoi Comunidi Campalmonte, di San Ruffillo, di Castel Collina, di Monte Oliveto, di Montefortino, di Riovalle;di Fontana e i suoi dintorni con Montepieve, Gesso, Sassatello, Castiglioncello; di Gaggio conFornione, Cantagallo, Valmaggiore, Paventa; di Riolo con Casola dei Casolani, Sassoletroso, Trarìo,Cestina, Castel Pagano e Baffadi.Da Tossignano al banco di ragione il Capitano Breghenzoni amministra giustizia a genti diCantagallo, di Valmaggiore, di Castiglioncello e naturalmente anche agli irrequieti abitanti diTossignano e dei suoi dintorni.Dice Sanzio Bombardini41 che il capitano «era arrivato tuttavia a trovarsi impelagato in un graveconflitto politico tra i Tossignanesi e i Ceronesi, sempre in lotta per i loro possedimenti di confine,solo in parte giustificata dalla loro rispettiva adesione ai due Manfredi rivali. I prodromi di talerivalità si erano già manifestati, quando il 27 febbraio 1451 le parti contrastanti s’incontraronoa Imola nel palazzo nuovo di Taddeo Manfredi, del quale i Ceronesi si fidavano così poco chevollero presente anche il Vescovo della città fra Gaspare dei Sighicelli di San Giovanni in Persicetodi Bologna.Per Tossignano comparvero Francesco, Giorgio e Guidantonio fu Manfredo dei Ranucci e i Borellicon Giovanni e Francesco fu Burello, Mengo fu Maccio, Beccaccio fu Riccio, Pirone fu Bertone,Riccio fu Muzio, Giovanni fu Sabadino e Bartolo fu Santo.Per i Ceronesi si presentarono Feco e Perugino (Perosino) fu Mengotto, Tonio e Tommaso fuCerone, Tura e Silvestro di Cecco, Lodovico di Maso, Salvuccio di Cristoforo, Drea di Giovannino,Lolo e Giovanni (detto il Lancere) fu Matteo, Riccardo di Battista, Sante di Nanne, Giorgio diGaspare, Pietro di Brunaccio.Come si verificava di solito, si promisero pace per l’avvenire (destinata a durare lo spazio diun mattino) per le ingiurie, offese e percosse reciproche, pena cinquecento ducati d’oro, garantitida venti tossignanesi per venticinque ducati ciascuno e da altrettanti per i Ceronesi. Seguironopoi le paci di loro seguaci meno importanti, cioè sei uomini di Sirolo, un podere fra Tossignano

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38 A. FERRI, La storia dei Ceroni, in copia nell’archivio personale dell’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni.39 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 43.40 Fa notare Giancarlo Menetti che non si tratta quindi di una “Sforza” e che ella non era imparentata col Duca di Milano.

In G. MENETTI, La storia, p. 120.41 S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 423-425.

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e Codrignano, e altri tredici di Campiuno e di Santa Margherita, schierati con i Tossignanesi;e uomini di ben ventitré località sostenitori dei Ceronesi, a dimostrazione del loro ascendente:Rivalta, Liverano, Valdifusa, il Pozzo, il Cerro, Signano, Santa Liberata, Sidignano, la Predellae altri poderi fino al fiume Sintria».Con Marsibilia i Ceroni ebbero fortissimi dissidi. Continua infatti Sanzio Bombardini:«Avendo i Ceronesi trucidato quattro suoi cavalieri, l’energica donna emana editto di morte peri Ceronesi sorpresi a Imola e a Tossignano.I Ceronesi rispondono con metodi analoghi, taglieggiando arditamente il territorio d’Imola e diTossignano ed essa si fa prestare duecento balestrieri da Francesco Sforza e scrive anche adAstorgio Manfredi perché ammonisca i Ceronesi a starsene quieti.Il duca di Milano, che per le sue mire sulla Romagna teneva sotto una benevola protezioneentrambi i Manfredi, invitò Astorgio a richiamare energicamente i Ceronesi. Fingendosi pacieretra i due nel loro costante dissidio, teneva in pugno particolarmente Taddeo.Il 9 luglio 1453 il Capitano di Tossignano Battista fu Matteo da Strada teneva prigioniero unodei Ceronesi più accaniti, Perosino fu Minghetto, che promette di presentarsi entro l’indomania Taddeo, previa una garanzia eccezionale di ben mille ducati d’oro; diciotto tossignanesi tra ipiù ricchi offrirono tale garanzia, ma Perosino riuscì a fuggire e il 19 luglio Taddeo fece pubblicarein piazza a Tossignano un Bando contro coloro che l’avessero aiutato o lo avessero garantito:tuttavia resosi conto che non erano complici di quella fuga, si accontentò di riscuotere duecentoducati e per il resto fece grazia il 25 agosto. […]Il 22 maggio 1455 un gravissimo fatto di sangue scatena la rivalità in paese: Francesco fuManfredo Ranucci è stato assassinato da Antonio delle Vigne e da Baldassarre Accarisi. Manfredodi Bartolomeo Ranucci aveva capeggiato la politica interna di Tossignano per decenni, fino allasua morte (1449) e dopo di lui primeggiava suo figlio Francesco, il quale, probabilmente perla prepotenza dei suoi atteggiamenti, aveva suscitato la rivalità di altre grandi famiglietossignanesi. […]I Ceronesi di notte avevano ucciso quelli che venivano a Tossignano per le esequie di FrancescoRanucci e a loro volta avevano avuto morti e feriti. La tregua si era rinnovata il 2 ottobre 1457,ma solo per un mese, davanti al Capitano di Tossignano Ettore degli Ercolani di Forlì, e sedicitossignanesi la richiesero anche a nome di centotrenta loro aderenti, comprese le località di Sirolo,Codrignano, Campiuno, Orsara, Rapeggio, Prugno e Gallisterna, mentre per i Ceronesi si presentòser Cristoforo fu Salvuccio con un folto gruppo dei suoi. La breve durata dei patti giurati dimostrache le opposte fazioni rimanevano in armi.Nel 1458 i Ceronesi rimanevano al bando e il Capitano di Tossignano ordinava di confiscare iloro raccolti nel territorio di Baffadi per conto di Taddeo Manfredi e l’anno stesso s’impegnaronoa far pace con Tossignano genti di Fornazzano e di Montevecchio di Val d’Amone, sudditi diAstorgio Manfredi, il che significa che continuavano le scaramucce fra le parti avverse.Infine il 27 febbraio 1459 fu rinnovata la tregua fra Tossignano e Ceruno, davanti ai notai NanneZanelli e Antonio Pritoni, pubblici ufficiali del Comune, stabilendo le seguenti clausole: peruccisione o invalidità pena di 1.500 fiorini d’oro, per una o più ferite con effusione di sangue300 fiorini, per una o più percosse senza effusione di sangue 200 ducati, pena il doppio severranno meno ai patti.Quelli di Tossignano, in numero di novanta, vollero che ciascuno di loro s’impegnasse per unaquota dei fiorini della penalità stabilita in caso di rottura della pace e i più responsabili furonoi figli di Guidaccio di Manfredo Ranucci, i Borelli, i Codronchi, gli Zanelli, i Nardi, i Bassi, gli

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Orsolini, i Ridolfi. Erano compresi con loro undici di Orsara, diciotto di Lusedo, sei di NoIa(Gaggio), cinque di Prugno e quattro di Rapeggio e altri, per un totale di cento quaranta uomini.[…]Per tutto il 1457 i Capitani di Tossignano sono impegnati nelle solite diatribe tra sudditi rivali,risolvendo problemi di uccisioni, ferite, offese, danni e i soliti e frequenti scontri tra i sostenitoridi Astorgio e di Taddeo Manfredi.Nel 1458 anche al Capitano Marco di ser Roberto dei Broccardi d’Imola competono incarichidi diversa natura. Egli ha anche il compito di «fare il raccolto delle terre dei Ceronesi che fanparte dello Stato di Taddeo, dato che i Ceronesi sono in bando, e faccian pace davanti a lui uominidi Belvedere, di Massa Alidosia, di Tirli, di Piancaldoli, di San Ruffillo e il 9 settembre iTossignanesi con quelli di Fiagnano».Antonio Metelli scrive che nel 1459 «i Ceroni» da lui più volte descritti come riottosi e feroci,« confortati da Astorgio Manfredi firmarono la pace coi tossignanesi e cessarono di infestare imonti di Tossignano».

3.2.2 Comparino (o Compadretto) Rinaldi difensore di Monte Maggiore.Neppure cinquant’anni dopo la ritrovata pace con Tossignano, nel 1500, di nuovo i Ceroni, nellafigura del castellano Comparino da Ceruno, sono chiamati a difendere i loro possedimenti daun potente rivale: il duca Valentino. Descrive così il fatto Pietro Salvatore Linguerri Ceroni42:«Nel 1500 avendo i francesi preso Rimino e Pesaro, li 4 novembre posero l’assedio a Faenzacon quindicimila uomini compresi i Papalini e li spagnuoli. Nel principio di questo assedio fudistaccato Vitelozzo Vitelli con cinquecento cavalli a scorrere Val di Lamone, Brisighella e lealtre rocche che non opposero contrasto. Non così avvenne di Monte Maggiore, in cui trovavasiin qualità di castellano Comparino figlio di Rinaldo, il quale si fece conoscere vero Ceronese.Aspettò egli intrepidamente la cavalleria di Vitelozzo, ed allorchè giunse sotto alla fortezza collasua piccola guarnigione di 50 uomini fece una sì vigorosa e sì regolata sortita che uccise dodiciaggressori mettendone in fuga il restante e riportò in trionfo molte armi, scale, attrezzi, che ilnemico aveva seco portate per dare una scalatta.Il Borgia allo spiacevole avviso s’arrabbiò che una sì piccola rocca difesa da un pugno di genteavesse avuto tanto coraggio d’incespicare le sue mire. Staccò un maggior numero di gente perattaccare di nuovo il nostro campione, ma temendo fosse di un più grave disastro non si fidò diun assalto e si limitò ad un semplice ma stretto blocco. La Rocca trovandosi senza speranza di soccorso e sprovvista di sussistenze dopo dieci giornicol favor della notte fu evacuata da Comparino, e da suoi che si ritirarono per occulta via senzache se ne accorgesse per allora il nemico; il quale entrato di poi nella sguernita fortezza la spianòquasi affatto». Aggiunge Pietro Salvatore Linguerri Ceroni che Comparino dimostrò uguale fedeltà e valore inseguito come «capitano d’infanteria» per Giulio II e che egli fu priore dell’Ospedale di Baffadinel 1510.Altra suggestiva descrizione dello stesso episodio dà Achille Lega43:«…non potendo più il nostro Naldi (Dionisio) prestare il suo braccio ai Riarii, a cui con esempioraro a pegno della sua fede, perfino la moglie e i figliuoli aveva affidato; e per innata passionenon potendo più a lungo durare fuori dalle armi, anch’esso coi primi capitani d’Italia prese servigio

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42 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 44-45.43 A. LEGA, Fortilizi, p. 80.

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sotto il duca Valentino; ed indi in pochissimo, essendo uomo di grande seguito in Valle di Lamone,espugnata che ebbe la Torre di Maghinardo, occupò la patria sua e tutti i castelli, salvo MonteMaggiore. Dentro questo era castellano Comparino da Cerone, della cui stirpe sopra abbiamo parlato, ecome portava sua natura, tutto si mise a disperata difesa. Il Valentino, anima ben più irrequietadel piccolo Castellano, non potendo all’avviso premere in cuore l’indignazione che un debolepresidio la potenza delle armi tenesse in non cale, chiamato a sé Vitellozzo Vitelli, capitano disingolare fortezza e fede, gli ingiunse di andare, occupare e distruggere il castello. È pur veroche l’ira acceca; giacchè non era ignoto al duca che Maghinardo Pagano, comechè grandeguerriero, non tentò il castello di Monte Maggiore con le sole armi, ma lo prese giovandosi ancodi astuzia44. Ed il Vitelli, che esperto era di guerra, pure posta da un lato ogni considerazione,fidente ne’ suoi, contro quella fortezza arditamente si mosse. Assalitori e difensori tra quelleviuzze, tra quegli scaglioni a terribile zuffa vennero; ma le genti del Vitelli non poterono controil valore e la costanza dei valligiani nostri spuntare; e tinto di sangue quel pietroso monte, araccolta fu d’uopo che il comandante le chiamasse, tardi imparando, che sempre non è avventuratoin guerra chi non è savio. Sebbene sconfortati di quel luogo, il duca ed il capitano compreseroperò che l’onta sofferta era necessità torre, e raccolte maggiori forze ed armi, fu cinto il castellodi regolare assedio. Il forte castellano non per questo si tenne perduto, ma inteso che tutta la valle era calata adevozione del Borgia e che tutti i castelli erano nelle sue mani e visto stremarsegli le vettovagliee venirgli meno gli aiuti entrò a pensare di non volere però giammai scendere a trattato coll’irosoDuca; e nel pericolo signoreggiando se medesimo, attese una notte buia e fatte gridare dallemura alle scolte le solite grida, dal lato più ripido e per una viuzza a serpe, più atta alle capreche a uomini, che menava al fondo di un burrone, muto fe’ discendere tutto il presidio, e conesso si pose in salvo. Spuntava l’alba; e mentre le genti del Vitelli sognavano nuovi assalti evittorie, più non veggendo sulle mura né stendardo, né difensori, e solo il più cupo silenzio regnaretra esse, temettero d’agguato e fattesi man mano sotto rimasero convinte che di loro si eranofatti beffe. Indignate occuparono il Castello e postolo a sacco lo diedero alle fiamme».

3.2.3 Ramazzotto Ramazzotti e Guido Vaini. «I protagonisti delle sventure che colpirono Imola e il suo Contado nei primi trenta anni del1500 furono essenzialmente due: Guido Vaini, capo dei ghibellini, e Giovanni Sassatelli dettoCagnaccio, capo dei guelfi45.La loro accanita rivalità coinvolse tutte le principali famiglie della città e del territorio, scatenandoodi e lotte intestine che produssero mali infiniti, culminati nei massacri del 1504 e del 1522».

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44 L’episodio della presa di Monte Maggiore da parte di Maghinardo Pagani, che si servì di un ingegnoso stratagemma, è descrittoin A. LEGA, Fortilizi, p. 72.

45 S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 9

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Disegno di Ramazzotto tratto da S. BOMBARDINI, Il diavolo, p.13.

Altro importante personaggio della storia romagnola in questo periodo è Ramazotto dei Ramazottidi Scaricalasino, inviato nel 1503 a Imola come capitano delle milizie della Chiesa, con l’ordinedi farsi consegnare la rocca da Guido Vaini e di tenerla per il papa.«I tre capitani reggeranno le sorti d’Imola per diversi mesi, ma con intenti opposti, anche senon apertamente dichiarati. Il Vaini vuole con i Riario il trionfo della parte ghibellina, il Sassatellidesidera l’opposto e pensa a rafforzare la sua posizione personale, Ramazotto, da quel mercenarioche è, tiene doppia condotta: parteggia per i Riario, il cui cardinale l’ha mandato a Imolaapparentemente per salvaguardare gli interessi della Chiesa, e lavora per i Veneziani finché nonsi chiarisce la volontà di Giulio II, a fianco del quale poi si schiererà incondizionatamente46».Mandato in esilio nel 1504 a causa di una zuffa cruenta tra Sassatelli e Vaini47, Guido Vainirientrerà a Imola, solo il 12 marzo 1522, accolto da Roberto e Nicola Sassatelli, che loabbracciarono in segno di pace definitiva48.In realtà nel giro di pochissimo tempo le cose precipitarono e l’odio dei Vaini, barbaramenteuccisi e torturati durante il dominio dei Sassatelli, si scatenò contro di loro. Racconta SanzioBombardini49:«Guido Vaini restò padrone d’Imola e la strage fu grande: i processi del 1524 parlano di 53 personeuccise e di 28 ferite, ma il loro numero fu ben maggiore, perché se ne aggiunsero molte altresuccessivamente, in città e nel Contado.

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46 S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 12.47 S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 18.48 S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 41.49 S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 43.

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A Imola furono distrutte dalle fondamenta 19 case, compreso il palazzo di Cagnaccio, e 92 furonosaccheggiate.I ghibellini spogliarono undici chiese: di Guercinoro, Ghiandolino, Toranello, Codrignano, S.Piero in Laguna, S. Agata, S. Matteo, Mordano, Bubano, Gallisterna, Casola Valsenio e trecappelle: quelle di san Giovanni Battista e dei santi Giovanni e Paolo in S. Cassiano e lamansionaria di don Pietro Aronne.Furono devastati sette mulini: quello di Casale di Cesare Alidosi, il Mulino Vecchio e il MulinoNuovo dei Sassatelli, il mulino del Maglio e quello di S. Cristina di Vincenzo Mercati, il mulinodi Virgilio della Bordella e quello degli eredi di Marcantonio Verona.Quando compirono la spedizione contro i Ceronesi, a Casola Valsenio, la distruzione fu totale,con novanta case saccheggiate e incendiate.Dopo l’arrivo di Francesco Guicciardini, Presidente di Romagna per la Chiesa, il 6 aprile 1524,i ghibellini furono duramente trattati, ma le fazioni rimasero inconciliabili e tutta la regione nefu desolata.Il grande storico dovette riconoscere con amarezza il suo fallimento: «... nè so che fare altrose non maledire ogni dì molte volte l’ora in cui venni in questa provincia». Sotto il suo governoCagnaccio e Guido Vaini non ebbero più il primato in Imola, nè più se lo contesero, dopo averlarovinata.Il primo morì a Imola il 6 luglio 1539 e fu sepolto in San Cassiano, ma i suoi concittadini nonpensarono a salvaguardare quella tomba quando la cattedrale fu rifatta; il secondo fece testamentoa Roma il 9 marzo 1544, dove morì a 67 anni di età e fu sepolto nella basilica di S. Pietro.Uno scrittore straniero50, ben più equilibrato di tanti fanatici imolesi, manifestava rammaricoper le sorti d’Imola, scrivendo “A causa delle fazioni dei Sassatelli e dei Vaini fu miseramenteafflitta e vergognosamente lacerata una città, che diversamente avrebbe potuto essere di sommoornamento a tutta l’Italia”. Imola aveva duramente pagato lo scotto delle lotte intestine, che sono una rovina per tutti, intutti i sensi».Anche i Ceroni, dunque, ebbero parte alla lotta tra Sassatelli e Vaini. Legati ai primi, poichéappartenenti alla stessa fazione, vennero attaccati da Guido Vaini, ghibellino, a più riprese, finoalla pace nel dicembre del 1523.Una prima volta Guido Vaini attaccò il castello di Ceruno insieme a Chiappino Vitelli e aRamazzotto Ramazzotti nel 1522. Narra così l’evento Pietro Salvatore Linguerri Ceroni51:«A dì 4 dicembre giorno di S. Barbara vergine e martire 1522 Chiappino Vitelli con dugentocavalli accompagnato da Guido Vaino e Ramazzotto Ramazzotti con altri quattrocento cinquantasoldati fu spedito dal papa contro i signori di Cerone52, e giunto in Casola di Valdisenio sottola signoria di detto Cerone mezzo miglio posero in ordinanza le suddette soldatesche e per unsuo Offiziale fece intendere ai detti Ceroni o che si disponessero a ricevere gli ordini di SuaSantità, o che esso Vitelli gli avrebbe distrutti, come aveva ordine di fare. Raffaello di Brunoro capo della signoria e comandante della rocca del castello di Cerone, comeil più vecchio spedì subito a detto Vitelli tre suo cugini che furono Bartolomeo detto Ravaglio,

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50 Gaspare Ens di Liegi - Itinerario d’Italia, riportato in Ferri, Genealogia della famiglia Vaini.51 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 10-11.52”Vennero i Ceroni accusati al Presidente di Romagna di avere a mano armata e in dispregio delle leggi e del Pontefice resistito

alla forza pubblica e resi vani i comandamenti”. Il presidente diede ordine a Chiappino Vitelli, Ramazzotto e Vaina affinché“n’andasse con cavalli e fanti contro il castello di Cerone e i negati atti di giustizia a marcia forza vi eseguisse”. Così in A.METELLI, Storia, vol. 2, p. 79.

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Vincenzo di Simone detto Linguerri e Taddeo detto Lolo dei signori di detto Luogo, come i piùsagaci. Quali dopo aver in pubblico perorato conchiusero che erano pronti per ubbidire alle disposizionidi Sua Santità col supporre che fossero giuste ma che frattanto facevano instanza fossero cacciatida quei luoghi Guido e Ramazzotto suoi nemici e che piuttosto avrebber dato Ostaggio degnodi Chiappino Vitelli. Ordinò subito partissero i suddetti Vaino e Ramazzotto, e ricevuto in ostaggioPietro Ficchio e Babino Soglia capitani dei Ceroni subito detto Vitelli si portò in compagniade’ suoi soldati in detto loro Feudo Ceroni. Dove trattenutosi tre giorni accompagnato da Raffaelloe sopraddetti suoi cugini con quattrocento cavalli e nel licenziarsi dentro Casola il Vitelli daiCeroni disse pubblicamente che sarebbe sin che vivea buon amico agl’eroi Ceroni, e che avrebbefatto constare a Sua Santità la falsità del ricorso contro essi e l’odio che loro portava Vaino eRamazzotto e fece tornare i due capitani ostaggi che aveva assicurati nella Rocca di Riolo Secco. Il dì 10 decembre detto Vitelli in pubblica piazza d’Imola persuase Vaino e Ramazzotto a desisteredalla inimicizia contro i Ceroni, dicendo loro non esser vero il ricorso fatto al papa che dettiCeroni si fossero tirannicamente impadroniti di quei luoghi, ma che ne erano da gran tempoPadroni assoluti così pel privilegio imperiale e conferma Appostolica e che seco portava di ciògli opportuni recapiti. E che non avevano fatto impiccare Alberto Arti e Giovanni Marocchid’Imola, avevano fatto la giustizia e che tanto costava dal processo fatto dal di loro cancelliereArpi, e governatore Busetti, e che tutto seco portava al papa».Chiappino Vitelli avrebbe quindi riconosciuto53 che quello addotto da Ramazzotto e Guido Vainiper attaccare Casola e Ceruno era niente di più di un pretesto senza alcun fondamento. In realtài motivi che spinsero i due condottieri ghibellini ad attaccare i Ceroni sono sicuramente diversi.Ramazzotto Ramazzotti infatti era in una posizione molto particolare nei confronti della famigliacasolana. Descritto come spregiudicato e spietato dalla maggior parte delle cronache54, si era fatto un nomecome fedelissimo di casa Medici e lavorava alacremente per riportare a Firenze i due figli di Lorenzoil Magnifico, il cardinale Giovanni, poi Leone X e Giuliano, ambedue esuli a Bologna55.Aveva avuto alle sue dipendenze a Bologna Raffaele di Brunoro Ceroni.«Il capitano Raffaele Brunori nasce attorno al 1490 in una famiglia dedita al mestiere delle armi56.Il fratello Alessandro nel 1505 fu capitano e custode della Rocca di Monte Battaglia per laRepubblica Veneta. Giacomo, altro fratello, è pure capitano con un suo “colonnello” ocompagnia».Desideroso di imitare le gesta di Dionisio Naldi, combattente valoroso e di somma capacità chefu la gloria e la speranza della famiglia Naldi57, come capitano generale di fanteria al soldo dellaRepubblica Veneta, Raffaele Brunori venne contattato da Ramazzotto Ramazzotti diScaricalasino e col suo colonnello si trovò a Bologna58. Proprio a Bologna, riferisce Mons. Menetti59, all’incirca nel 1510, Raffaele conobbe la figlia di

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53 Confermerebbero questo fatto anche i Quaderni di Tossignano, consultati da Pietro Salvatore Linguerri Ceroni, di cui ogginon si ha più traccia. Sull’argomento anche G. MENETTI, La storia, p. 140.

54 Con alcune eccezioni, si veda ad esempio A.VESI, Storia, p. 57, in cui l’autore definisce Ramazzotto “prode guerriero” ene parla benevolmente.

55 G. MENETTI, La storia, p. 134.56 G. MENETTI, La storia, p. 134.57 G. MENETTI, La storia, p. 35.58 G. MENETTI, La storia, p. 134.59 G. MENETTI, La storia, p. 134.

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Ramazzotto, Lucia, se ne invaghì e la sposò, conducendola con sé a Ceruno. Riferisce don Domenico Mita60 che «Ramazzotto ben volentieri acconsentì al desiderio di Raffaelesia perché reputava ben collocata la figlia, sia perché, da uomo astuto qual’era, vedeva offrirsi,con questa parentela, il modo di introdursi tranquillamente fra i Ceroni per spiare e conoscereil modo di vivere di questa gente, che parteggiava per la parte guelfa».Ramazzotto poi, nota monsignor Menetti61, divenuto conte di Tossignano nel 1530, aspirava adallargare i confini della contea per essere padrone anche di Ceruno e Consorteria.Pare che, appartenendo Ramazzotto alla fazione ghibellina, questo matrimonio non fosse vistodi buon occhio dai Ceroni, in particolare dai Ficchi Ceroni, della cui origine si dirà in seguito.Certo è che ben presto, o per via della dote di Lucia mai pagata ai Ceroni, o per dissidi sorti inseguito al carattere sanguinario e spietato di Ramazzotto62, l’odio tra le due fazioni si acuì e Luciastessa si schierò al fianco del marito, contro il padre. Scrive Pietro Salvatore Linguerri Ceroni63:«Ramazzotto, […] preso dall’ambizione di dominare anche queste Montagne, miravaall’esterminio de’ Ceronesi, i quali erano i più possenti, i più bellicosi, ed i più sagaci dellaparte guelfa, ed erano un insuperabile ostacolo ai suoi disegni. […]Egli aveva annuito all’onorevole collocamento della figlia con animo di seminare la discordiatra i discendenti di Matteo64, e gli altri Ceroni, e segnatamente coi Ficchi, che disapprovavanoun vincolo che annodava i Ceronesi ad uno snaturato e maligno».Certamente la sconfitta del 1522 inasprì ancor di più gli animi di Guido Vaini e RamazzottoRamazzotti contro i Ceroni. Morto papa Adriano VI nel 1523 «si apriva un nuovo vuoto di governo e ciò significava cheognuno si faceva vendetta e giustizia a piacimento65. Le cronache registrano una serieimpressionante di questi soprusi. A Tossignano si assalì il paese e ci furono dei morti. Il momentoera troppo invitante perché anche Ramazzotto e Guido Vaini non volessero lavar l’onta dell’annoprima nelle acque del Senio».Scrive Antonio Metelli66:«Moriva intanto Adriano VI e alla sua morte un grandissimo incendio avvampava per tutta laRomagna. La parte ghibellina […] morto il Pontefice intorno a cui tutto il partito guelfo sirammodava, era entrata in isperanze di ridurre la Romagna alla propria fazione. Quindi i cittadinistavano contro i cittadini e pigliando la confusione e tumulti […]. In tanto stemperamento d’animie di cose la Valle di Amone abbastanza queta si rimaneva […] Contro il partito ghibellino piùcaldi di tutti si dimostravano i Ceroni, prima per amore di parte infesi a Ramazzotto e Vaina,ora per odio inviperito infesissimi. Né Ramazzotto e Vaina con meno accesi spiriti li perseguivano,chè anzimenti per l’allargamento de’ sediziosi umori un maggiore desiderio di vendetta, quelloche altra volta ottenere non poterono cercavano ora con tutti i modi di conseguire».La battaglia delle botti, che ebbe luogo tra il 27 e il 28 ottobre 1523 è descritta in maniera epica

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60 G. MENETTI, La storia, p. 51.61 G. MENETTI, La storia, p. 145.62 Durante il sacco di Prato egli si stava tristemente distinguendo. Unitosi agli spagnoli di Cordona […] coi suoi soldati […]

Ramazzotto perpetrò, infatti, eccidi che inorridirono Firenze, che aprì le porte ai Medici. In G. MENETTI, La storia, p. 35.63 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 50.64 I discendenti di Matteo sono i Ceroni originari della Val Serina. 65 G. MENETTI, La storia, p. 139.66 A. METELLI, Storia, pp. 80-81.

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e patriottica67 da don Domenico Mita68 e da molti altri scrittori di cose romagnole69. Si riporta qui la descrizione che di essa fa Giulio Cesare Cerchiari70:«Fra le trame a lui (Guido Vaini) tese per cacciarlo dal governo si sparse la voce che anche iSignori del Castello di Cerone nel 1523 lo avessero insidiato nella vita.Molti furono gli schiarimenti richiesti, e le lettere corse, e sebbene tutte escissero dal rigo etrasmodassero in contumelie, il Vaini simulò di starsi a queste contento. Poi, preso tempo, alla testa di quattromila soldati in compagnia del nominato Armaciotto, marciòcontro dei Ceronesi ed appena scollinata parte del suolo imolese e sceso nella bella vallata delSenio, si diede a devastare campi, ad incendiare abituri, e portò l’assedio al sunominato castellosituato in alta vetta alpestre e circondato da profondi burroni, e da orridi scoscendimenti.Gli assediati che avevano vegliato sempre sulla condotta del Vaino, lasciarono che i nemici in istrettaordinanza si avanzassero e anche si arrampicassero su per quei massi; poi quando erano ormaipresso a tentare la scalata, queglino diedero la spinta ad una quantità di ammannite botti pienezeppe di grossi sassi le quali, rotolando giù dall’alto con ispaventoso fracasso e ripercosse dagliacuti scogli del monte, si sfaciarono in frantumi precipitando addosso agli assalitori una spessagrandine di sassi a furia tale, che dalle prime file condotte da Guido sino alle sezzaje da Armiciottomoltissimi vennero stiacciati, molti altri infranti, ed altri sbalzati nei profondi. Gli scampati menovinti che smagati voltarono le spalle, ed allora i Ceronesi usciti dalla rocca li perseguirono e nefecero altro macello. Scappava Guido anch’esso saltato a cavallo, ma essendo lì lì per restare prigione,il destriero violentemente spronato rovinò in un precipizio da altissimo balzo; conquassato il cavallo,intatto il Cavaliero e poi anche salvo per il terreno che ebbe così guadagnato. Al Forestiere si additaancora quella rupe col nome il salto del Vaino; nome che fin d’allora ne venne dato per lo stuporedel caso, e che ne perpetua la memoria. Armaciotto rimase ferito nella gamba destra, e più vicinoal basso della erta montagna potè liberamente riparare a Tossignano».Al di là del numero di assalitori e morti, che secondo Giancarlo Menetti71 va sicuramenteridimensionato, quella del 1523 è sicuramente la vittoria più importante ottenuta dai guelfi Ceronicontro il partito ghibellino. «La figura di Raffaele» nella descrizione di Domenico Mita «emerge con tutta la sua capacitàdi stratega e la sua forza di coraggio72».Il cavalier Luigi Angeli lo inserisce, nel 1828, nelle sue Memorie biografiche di que’ uomini

illustri imolesi le cui immagini sono locate in questa nostra iconoteca che si distinsero in ogniramo di scienze e nelle belle arti presentate alla gioventù imolese a modello e ad eccitamentod’imitazione, lodandone l’ingegno vivace, l’indole bellicosa, l’acutezza della mente e le capacitàmilitari73.

4. La fine del potere della Consorteria dei Ceroni.4.1 I Ficchi Ceroni.Nel 1225, dice Domenico Mita74, si ha la certezza che «si siano uniti alla famiglia dei Ceroni

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67 Sono parole di G. MENETTI, La storia, pp. 140 e ss.68 In G. MENETTI, La storia, pp. 62-70.69 Tra cui anche P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 12-13, A.VESI, Storia, p. 54 e ss. e A. METELLI, Storia, p. 81.70 G.C. CERCHIARI, Ristretto, p. 72 e ss., citato anche in R. CERONI, Lepreno, pp. 107-108.71 G. MENETTI, La storia, p. 14072 G. MENETTI, La storia, p. 141.73 L. ANGELI, Memorie, p. 216.74 G. MENETTI, La storia, p. 21.

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uomini oriundi della città di Perugia che furono parimenti detti “da Ceruno”. Erano della nobilefamiglia dei Ficchi, dell’ordine dei Senatori, nella loro città d’origine, forniti di ricchezze, eminentiper ingegno e potenza. Poiché più volte avevano vendicato con le armi gli antichi rancoriapprofittando delle discordie cittadine, andavano giorno per giorno raccogliendosi attorno nuovefazioni. Accadde così che una volta alcuni dei Ficchi avendo ucciso dei nemici in una zuffa,furono messi in carcere e non si vedeva il modo di liberarli per impedire che dal Pretore fosserocondotti al supplizio. Gli altri, rimasti liberi, decisero subito di scarcerarli a viva forza e, messainsieme una schiera di parenti ed amici, assalirono i custodi del carcere uccidendo quanti lorosi opponevano e, spalancate le porte, portarono via i detenuti. Usciti prontamente dalla città,non solo ebbero addosso l’implacabile ira dei nemici, ma anche la più viva indignazione delPrincipe. Perciò banditi dalla loro patria: Guido, Ettore e Silvestro con altri congiunti, dopo averpiù volte cercato in esilio un luogo dove fermarsi, scesero infine in Emilia e (vennero) in Vald’Amone portando con sé gran quantità di denaro. Qui furono accolti sotto la tutela fedele deisignori Manfredi, primati della città di Faenza. Per la loro sicurezza, fu loro ordinato di salirei monti Amonii e di stabilirsi parte nell’antichissima rocca di Calamello che era di proprietàdei signori De Fantolini, e parte in quella di Monte Albergo che le sta di fronte».Le ricerche fatte a Perugia, però, sottolinea Giancarlo Menetti75, non hanno dato esito alcuno.«Non sembra che là abbia mai abitato una famiglia Ficchi o Fichi o Fecchi o simili, almeno diestrazione nobile o senatoriale». Aggiunge poi lo storico che «certamente sul racconto del Mitavanno avanzati dubbi, specie per quanto riguarda le date che ci fornisce». Concorda conmonsignor Menetti anche Renato Ceroni: la data più probabile di innesto dei Ficchi in Val diLamone appare essere il 1325. Nel 1225, infatti, i Manfredi non avevano alcun potere in Faenzané sulle rocche di Val di Lamone. Dice infatti Menetti che nel 1224 a Faenza era podestà Ubertodi Uzine di Milano e nessun Manfredi avrebbe potuto proteggere questi fuggiaschi inviandolialla rocca di Calamello.Inoltre monsignor Menetti dubita che i Ficchi fossero profughi politici: piuttosto suggerisce chesi potrebbe trattare di una delle tante famiglie dedite alle armi, magari con qualche debito conla giustizia, che i Manfredi avrebbero impiegato lontano dalla città a custodire Calamello o MonteAlbergo. Il Mita sostiene che i Ficchi al loro arrivo erano molto ricchi, che acquistarono molti poderi ecostruirono edifici. Pietro Salvatore Linguerri Ceroni76 obietta che non è possibile che personeesuli e raminghe disponessero di così ingenti sostanze. Aggiunge poi che «non è da credereneppure che abitassero coi Brunori e che si annoverassero tra i Signori Ceronesi». Tali non erano,secondo il Linguerri, ed anzi «abbisognavano della protezione ed assistenza de’ signori di Cerone77.Egli arriva ad affermare che «i Ficchi mai ebbero parte nella signoria, quantunque portasseroil nome ceronese e fossero decorati del medesimo gentilizio stemma, ma piuttosto godevano dellaloro protezione. I Ceroni poi non avevano bisogno del loro aiuto armato per difendersi e non litemevano per la loro scarsa potenza78».Non vi sono, comunque, a tutt’oggi documenti che testimonino qual era effettivamente la posizionedi questa famiglia all’interno della Consorteria e quale fosse la loro origine. Di sicuro sappiamo che i Ficchi non approvarono il matrimonio di Raffaele di Brunoro Ceroni

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75 G. MENETTI, La storia, p. 108.76 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 6.77 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 9.78 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 22.

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con Lucia, figlia di Ramazzotto, anzi lo contrastarono apertamente. Il loro espresso dissenso nonebbe peso nella decisione del capitano ceronese. Inoltre i Ceroni della val Serina furono accoltia Ceruno, stando alle parole di don Domenico Mita79, senza l’accordo dei Ficchi. Questi fattipossono essere senz’altro significativi.

4.2 I primi dissidi all’interno della Consorteria. I delitti di S. Lucia e di S.Cassiano.

Fino al 1530, ad ogni modo, tra i Ficchi e gli altri appartenenti alla Consorteria regnò la pace. Dopo la battaglia delle botti, nel dicembre del 1523 Guido Vaini si riappacificò coi Ceroni. Scrisseloro una compitissima lettera latina, intitolandoli nella soprascritta “Regulis Ceruni, et MontanaeRegionis”. Con essa promise loro perpetua pace ed amicizia80.«Nel 1530, li 19 maggio, li signori di Cerone uniti al Presidente di Ravenna cacciarono l’Alidosioda Tossignano, il quale perduto uomini, vettovaglie e munizioni si arrese nelle loro mani conformesta scritto nel Quaderno di Tossignano. Nell’anno stesso da Clemente VII fu dichiarato Ramazzottoconte di Tossignano, Fontana e Sassoleone. Così i Ceronesi deprimendo gli Alidosi aprirono lastrada all’ingrandimento del più capitale loro nemico81».Riferisce Antonio Metelli82 che Raffaele di Brunoro e Vincenzo di Simone Linguerri piùquattrocento uomini “combatterono talmente Tossignano che l’Alidosi consumate le munizionie la vettovaglia e perduti molti dei suoi dovette rendersi loro prigioniero”.Continua lo storico aggiungendo che (Il Pontefice) «scrissene al Presidente di Romagna perchéRamazzotto come il Vaina aveva fatto, discendesse coi Ceroni alla pace, la questione intornoalla dote della figliuola con Raffaele componesse, i danni loro arrecati nell’ingiusta guerra dalui mossa col Vaina compensasse83». La pace tra i Ceroni e Ramazzotto fu firmata il 7 settembre 1530 nel convento dei frati di SanDomenico.Scrive al proposito Pietro Salvatore Linguerri Ceroni84:«Nel colmo pertanto della sua grandezza (Ramazzotto) si mostra umiliato e pentito ed interponela mediazione del Presidente di Ravenna Lionello Pio da Carpi, dichiarandosi prepotente edingiusto, per ottenere pace dai Signori di Ceruno, che venne in Casola stipulata, nel Conventodei Frati di San Domenico li 7 settembre […] Con tale mezzo procuratasi l’affezione degli ingenuiCeronesi insinua negli animi loro di disfarsi de’ Fechi ed ucciderli come avvenne».È singolare questa descrizione dei Ceroni, definiti ingenui, contrapposta a molte altre che li vedonoscaltri e temibili avversari, di grande ingegno e sagacia. Un’ipotesi potrebbe essere quella chein realtà i Ceroni a loro volta volessero servirsi della potenza acquisita da Ramazzotto in età nonpiù tenera85 per poi sostituirsi a lui, grazie al legame tra Raffaele e la di lui figlia, nel momentoin cui egli fosse venuto a mancare. È possibile che essi mirassero al dominio di Tossignano, Fontanae Sassoleone, contro i quali più volte avevano marciato e combattuto, come si avrà modo di vedereanche nel prossimo capitolo. Se poi si accettasse la tesi di Pietro Salvatore Linguerri Ceroni aproposito della subordinazione dei Ficchi ai Ceroni all’interno della Consorteria, della quale si

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79 G. MENETTI, La storia, p. 27.80 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 51.81 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 52.82 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 130.83 A. METELLI, Storia, p.130.84 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 53.85 Doveva avere all’incirca sessant’anni al momento in cui divenne conte di Tossignano, così in G. MENETTI, Storia, p. 145.

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è avuto modo di parlare poc’anzi, si potrebbe arrivare ad ammettere che i Ceroni, rinunciandoall’accordo con essi, mirassero a qualcosa di più allettante e che essi quindi non siano ingenui,come si disse, ma magari avventati. Sicuro è che la pace sottoscritta tra i Ceroni e Ramazzotto diede inizio ai dissidi tra i Ficchi ei Ceroni e anche tra i Ceroni e i Ceroni coi Ficchi imparentati con scambievoli maritaggi86.Così Antonio Metelli87 riassume la situazione che si andò creando in Val d’Amone:«La funesta vicinanza del nuovo signore di Tossignano aveva già fatto germogliare indegni semitra gli abitatori del castello di Cerone. […] (Ramazzotto) si era posto all’arte per dividerli esimulando dolcezza andava tra loro spargendo il veleno della discordia».Egli insinuò sospetti contro i Ficchi ed «i Lancieri congiurarono contro dei Ficchi e raccoltisiin numero di venticinque stesero a terra due di questi mentre a caso uscivano dalla chiesa diSanta Lucia di Casola. I Ficchi inorridendo al sacrilego e snaturato eccesso né immaginandoche in ciò fosse la mano e la vendetta di Ramazzotto si scagliarono contro i Lancieri e specialmentecontro Raffaele di Brunoro che avevano per consigliatore del misfatto. Le cose si volgevano amiserando fine».Tra i congiurati don Domenico Mita nomina Morando di Salvuzio (Brunori), Ottaviano di Brocolo(Ravaglia), Gabrone di Federico (Giacometti), Relicho di Mero (Loli), Ottaviano di Berto (Berti),Uguzzone (Rinaldi), Ottaviano di Sforzino (Baldassarri), Babino (Poli). Altre famiglie di Ceronicome i Mita, i Soglia, i Linguerri, non presero parte alla congiura88.Poco righe dopo troviamo anche i nomi degli uccisi: Tesuccio di Catone e Ser Mengotto diAlessandro, ambedue della famiglia Ficchi.Bartolomeo Valori, presidente di Romagna, tramite un certo Ser Mariotto riuscì a ricomporreper un po’ le famiglie.«Ma il dado era tratto e il sangue che rosseggiava davanti agli occhi e nelle irate menti dei

Ficchi doveva presto condurli a nuovo versamento di sangue89. Le discordie dei Ceroni aprironoprestamente nella valle di Amone ad altre la via90». «Avevano i Ficchi […] per le infami arti di Ramazzotto conceputo un odio fierissimo controRaffaele di Brunoro e benché per la firmata tregua apparisse che si fossero deposti gli sdegnipure gli animi erano dentro inacerbiti ed avidi di vendetta91. Colsero l’opportunità in cui Raffaeletrovavasi in Imola e andativi in buon numero con le armi sotto le vesti lo assalirono davanti allachiesa di San Cassiano e lui, che molto valorosamente si difendeva, trucidarono. Increbbe atutti il funesto avvenimento e molti piansero la morte dell’uomo generoso. Se ne dolse pure l’iniquoRamazzotto che pianse, ma di gioia pel felice successo delle scellerate sue arti».Scrive Luigi Angeli92:«Raffaele in tutto il restante di sua vita fu indefesso nel sostenere la causa de’ Ceruniani, nelpromuoverne la loro gloria, nel difenderne i diritti. Ma, come suole purtroppo accadere che gliuomini dell’altrui gloria invidiosi, o mal veggenti l’ingrandimento, e la possanza di taluno, cercanodi eccitare coloro, che per mala inclinazione, o per detestabile scostumatezza turbano la pace,attentano alla sicurezza, e sovente alla vita de’ suoi simili, un fiero avverso partito suscitossi

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86 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 53.87 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 135.88 G. MENETTI, La storia, p. 147.89 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 135.90 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 138.91 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 146.92 L. ANGELI, Memorie, p. 217.

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contro Raffaele sino a volerne l’eccidio. Fu egli perseguitato ovunque metteva piede, finchè nelmaggio del 1533 trovandosi in Imola fu, non si sa da qual mano, privato di vita in vicinanzadel Tempio dedicato al martire San Cassiano».L’uccisione di Raffaele incendiò gli animi dei Lanceri e li spinse a stipulare con Ramazzottoun accordo «in cui venne giurata la totale distruzione dei Ficchi obbligandosi con pene di danaroda versarsi nelle stesse mani di Ramazzotto all’osservanza e con patto che la mortale e perpetuaguerra non cesserebbe che col consenso di lui. Così o del sangue o delle sustanze dei Ceroniveniva a pascersi il truculento odio del tiranno di Tossignano».Di tali accordi dice Giancarlo Menetti che «si tratta di sacrileghi93 giuramenti a distruggere inogni modo i Ficchi, a non dar loro aiuto in alcun modo, ad impegnarsi in eterno ad un odio senzariserve».

4.3 La migrazione dei Ficchi da Casola Valsenio. I Ficchi, saputo dell’accordo, si rifugiarono a Marradi presso i Fabroni per ripararsi sotto laprotezione di Alessandro de’ Medici.Alessandro de’ Medici, infatti, mandò lettere con titoli di capitani ad Antonio Galbetto e ad EttoreTemprone per la qual cosa tutti insieme si prepararono a passare a Firenze.I Lancieri (però) saputo il giorno della partenza tesero un’imboscata e li uccisero».L’eccidio di Biforco, nel quale i Ficchi persero la vita, impressionò un po’ tutti e invece di placaregli odi di parte li rinfocolò94.Della famiglia Ficchi non restò alcuno nella valle. Insieme ai Ficchi, aggiunge sempre monsignor Menetti, emigrarono anche i Mita. Parte andaronoverso la valle del Lamone e parte verso quella del Santerno95.Testimonianza di queste emigrazioni, almeno verso il paese di Solarolo, troviamo nellacorrispondenza tra il commissario e Governatore di Solarolo Isabella d’Este96, trascritte da LucioDonati97. La prima lettera risale al 27 maggio 1533. Scrive Isabella da Mantova:«A preghiera di persone che amiamo singularmente ed di cui desideriamo di far cosa grata, cisiamo contentata di concedere al rettore Ser Cristoforo, Barrone ed Antonio de Cirone da gliquali vi sara resa questa nostra che possino tutti venire ad habitare in quel nostro castello eterritorio di Solarolo come più a loro piacerà, et dimorarvi per venti giorni fra gli quali haverannoanimo di ottenere la pace da alcuni suoi adversari per gli quali sono tutti quattro hora banditida Imola, perhò in segno di questa nostra volontà vi dicemo che gli lasciate stare et habitarecom’è detto senza alcuno impedimento nè ostacolo, secondo gli loro portamenti perhò li qualisperamo che habbino ad esser buoni per la relatione fattaci di loro. Che quando fossero altrimenti,come non credemo, saressimo per rivocare questa concessione». Segue una lettera dell’8 giugno di Isabella al Commissario. Scrive Lucio Donati che evidentemente i Ceronesi avevano inoltrato richiesta di procrastinare la

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93 Poiché avevano luogo nella chiesetta di S. Maria del Carmine al Corso, ove i frati non potevano sottrarsi ad ospitare il lorosignore, essendo essa nella giurisdizione di Ramazzotto. In G. MENETTI, La storia, p. 148.

94 G. MENETTI, La storia, p. 150.95 G. MENETTI, La storia, p. 151.96 Isabella d’Este governò direttamente Solarolo dal 1529 al 1539, in seguito alla permuta di beni in Mantova col marito Francesco

Gonzaga (Solarolo era stato ceduto in pegno al cardinale Ercole Gonzaga nel 1514). La corrispondenza è conservata pressol’archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga.

97 Mio compaesano, che ringrazio per la cortese comunicazione e per la disponibilità dimostratami.

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permanenza in Solarolo, poiché la Marchesa, con tono seccato, così si pronuncia “passati ventigiorni, fategli capire di leversi di là”. Si accenna pure a possibili ritorsioni da parte dei nemiciimolesi, cioè dei nemici dei Ceroni contro Solarolo.In una lettera datata 14 giugno 1563 il Commissario scrive ad Isabella:«Recerchato da li Cironi banditi, allogiati qui in Solarolo in (execuzione) de litire de Vs. Ecc.per quel tempo sono stati qui che non poteria dir cum quanta honestà ed obidientia se sono portatiet tanto gientilmente che se fossero frati de obsservantia e molti acostumati et li poverini da semedesimi se rosegano per che li suoi carcerati non pono essere respediti et sono (strasinati) etnon gie vale litere del Rev.mo Mons. Cardinale di Medici nè la sua innocentia per essere ilGubernator de Imola lo quale è Ramazoto li mena in longo ma pur sperano de essere expeditiper essere in Romagna il Capitano Baptistino (…) da Goito quale è socio del capitaneo Galeoto(de….) qual non mancha de sollicitudine sempre che Sig. mia qui sono propinqui alle lor facultàet ali parenti volontiere stariano ancor qui. (Intanto) che li carcerati se expediscano li aricomando a Vs. Ill.ma S.ria in compiacerli de alongare(el) termine per che quela non dubita che spero nel Si.( gnore) Dio che qui male alcuno nonoccorra.(Quale? Tale?) provisione ho fato e farò e per li suoi Boni deportamenti».Con lettera del 23 giugno Isabella proroga l’asilo ai Ceronesi per un mese ancora. Infine in una lettera del 30 Giugno Isabella fa intendere che il Preside della Romagna,evidentemente sollecitato dagli imolesi, si era lamentato con lei per aver dato ospitalità ai“banditi” perciò la marchesa chiude la faccenda con queste parole secche: “che si levino ditorno!”.Lucio Donati commenta che i Ceronesi probabilmente erano ben raccomandati, ma la situazionepolitica del tempo e le posizioni oggettive del feudo di Solarolo non permettevano eccessivi favori.Precisa l’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni e si deduce dalle lettere riportate che i Ficchiospitati a Solarolo non sono direttamente coinvolti nella morte di Raffaele Brunori Ceroni. Perciòfurono solamente fatti allontanare (o spontaneamente si allontanarono) da Imola, che all’epocaera nelle mani di Ramazzotto.

4.4 La fine della signoria di Ramazzotto. «Il 14 gennaio 1532 il papa creava conti della Valle del Senio i Calderini di Bologna, una illustrefamiglia che già da tempo aveva molti beni nella valle. Alla soppressione dell’Abbazia di Valsenioaveva trasformato molti terreni avuti in enfiteusi, come proprietà privata. Probabilmente i Mediciavevano obblighi verso i Calderini e per Ramazzotto fu certamente un brutto colpo vedere chela sua contea doveva fermarsi al Corso di Montebattaglia. A Domenico Maria Calderini e a suo nipote Lodovico, il papa Clemente VII assegnava tutto ilterritorio della valle a cominciare da Castelpagano, Montefiore (valle della Cestina), Baffadi,Casola, Prugno, Valsenio, Mongardino e Settefonti. I Calderini avevano il loro palazzo alla Buratta. Vennero da Bologna a Casola a prendere possessodella nuova contea che reggevano tramite un loro commissario che all’inizio fu Valerio Passeridi Tossignano e in seguito il bolognese Urso Caccianemici.Fu una contea di breve durata anche perché Imola, che si era vista impoverita dallosmembramento del suo contado, iniziò una contesa senza fine con la Santa Sede per riavere ilpossesso di Casola e dintorni.

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98 G. MENETTI, La storia, p. 150.

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Dopo appena cinque anni la contea cessò di fatto98».Nel 1534, con l’avvento di Paolo III al soglio pontificio finì anche la signoria di RamazzottoRamazzotti. Egli, condannato in contumacia per diversi delitti99 e colpito anche da peneecclesiastiche, scampò alla giustizia pontificia riparando presso la figlia Attilia maritata interritorio toscano, presso Pietramala. Morì il 14 agosto 1539100. La pace per i Ceroni, però, non arrivò neppure con la morte del loro più acerrimo nemico poichéoramai la mala pianta della discordia aveva messo profonde radici nella famiglia. «Nel 1552, quando il cardinale di S. Giorgio, Girolamo Ricenati, Legato, ebbe bisogno di metterequiete a Faenza per un tentativo di tumulto generato dal sollevamento di militari, si rivolse allecompagnie del contado sempre poco tenere col capoluogo101. Ebbene, i Ceroni arruolatiassommavano ancora a un trecento unità.Quando i Ceroni avevano modo di sfogare sul campo di battaglia le loro energie prepotenti, c’erapace fra loro, ma quando si trovavano in pace sulle rive del Senio, scoppiavano invariabilmenteferoci rivalità fra le casate.Allontanati i Ficchi ora ci sono due famiglie in lotta fra di loro. È per supremazia? È per qualchedelitto generato da futile motivo? Difficile dirlo. Ora si combattono ferocemente i Rinaldi e iRavaglia. In diciotto mesi ben venti morti; più di uno al mese. I vari gruppi si divorano fra loro».Questa la cronaca di don Domenico Mita102 relativa agli ultimi anni di gloria della famiglia Ceroni:« Il propagarsi dei Ceroni e la loro fortuna suscitò i timori fra quelli lontani, invidia fra i confinantie gonfiò di tanta audacia e furibonda prepotenza i Ceroni stessi (e ciò soprattutto a causa diGellino, Relicco e Garrino nati per tralignare dalla razza generata dai nostri antenati), quantopiù si levarono in alto, tanto più vergognosamente ruzzolarono in basso.Per loro si destarono inimicizie, feroci invidie, odi scellerati generati da futili motivi, non essen-dovi alcuno pronto a spegnere l’incendio nel suo nascere, e crebbero in modo tale che i Lancieri,i più potenti, si divisero in due partiti; da una parte i Ravagli sostenuti soprattutto dai Loli edai Poli e dall’altra i Rinaldi seguiti dai Giacometti e dai Berti.Si sospettavano di male a vicenda e si guardavano in cagnesco e non di rado si azzuffavano conliti.La situazione raggiunse un punto tale che non solo richiamò contro di loro le armi straniere, mali accanì ostinatamente a combattersi senza sosta, tanto che nel breve spazio di un anno e mezzoci furono e da una parte e dall’altra ben venti vittime, e quasi tutte fra i maggiorenti, uccise concrudele ferocia.Gli uni e gli altri sporgevano denunzia o presso il Papa Pio IV o presso il Gran Duca di ToscanaCosimo I, accusando gli avversari di aver commesso numerosi delitti nei territori di quei Principi.Si tirarono dunque addosso anche l’indignazione di quei Signori che non tralasciarono leggealcuna per punirli nei beni e nelle persone. Venivano citati in giudizio e loro non comparivano,così si attiravano l’esilio e la confisca dei beni103».

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99 Scrive don Domenico Mita che «Venne riferito al Papa Paolo III che Ramazzotto per punire la violenza carnale subita dallapropria figlia Attilia, attribuita a Francesco Montino di VaI Abate, aveva fatto morire costui appendendolo per i piedi aduna finestra della Rocca (di Tossignano) e aveva ordinato la strage di tutta la sua famiglia, compreso i figli lattanti». In G.MENETTI, La storia, p. 85.

100 G. MENETTI, La storia, pp. 152-153.101 G. MENETTI, La storia, p. 155.102 G. MENETTI, La storia, pp. 87-89.103 Un esempio in S.BOMBARDINI, Archivio, p. 91. Sebastiano di Babino Ceroni il 24 Novembre 1557 viene condannato a morte

in contumacia per avar ucciso il bargello di Tossignano.

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4.5 Il delitto commesso da Possente Poli.Continua don Mita104:«Ma il delitto più funesto fu quello che commise insensatamente Possente Poli. Poiché era statoprofondamente offeso dai Fabroni (di Marradi), casato nel quale aveva preso moglie, studiavail modo di vendicarsi.Guidò venti dei suoi a Marradi con l’intento di sopprimere i Fabroni che vi trovava, ma non riu-scì nell’impresa e mentre coi suoi armati stava già ritirandosi, si imbattè in Pellinguerra, figliodi Zanotto, custode della Rocca, e, per non restare a mani vuote, lo uccise e se ne fuggì.Era quest’uomo molto caro al Gran Duca (di Toscana) e suo compare, per cui il Serenissimo,informato dell’efferato assassinio, profondamente colpito, decise di vendicarlo nel modo piùimpensato. Infatti, dopo aver avuto abboccamento col Papa (Pio IV), su questa faccenda, affidòad Angelo Guicciardini il comando di duemila soldati con ordini ben precisi».Dice Antonio Metelli105 che «una fiera battitura […] stava per percuotere i Ceroni che nel castelloe nei contorni abitavano, la quale doveva spegnere affatto la potenza e quasi il nome deimedesimi.”“[…] per la morte di Pelinguerra, figliuolo di Gianotto Fabroni di Marradi che era stato castellanonella fortezza di quella terra, avvenuta per le mani di Paolo de’ Ceroni, gli sdegni rompendoogni ritegno traboccarono. Scrissene Cosimo al Pontefice chiedendo pronta e solenne vendettae il Pontefice vedendo che nulla avevano finora giovato i bandi e le confiscazioni non ardì negarla.Fu convenuto che, da una parte le genti del duca, dall’altra quelle del Pontefice, movessero controi Ceroni, sotto la condotta di Angelo Guicciardini e di Francesco del Monte».«Il Guicciardini scese dai monti alpini con l’esercito schierato che andava ingrossandosi perl’afflusso di volontari, nemici dei Ceroni, o attratti dal miraggio di bottino e saccheggio, che manoa mano gli venivano incontro106.Giunse a Susinana il 10 Settembre 1563. Qui lo raggiunsero, secondo quanto era stato concor-dato, un circa mille fra guardie e soldati delle milizie pontificie che i Prefetti avevano arruolatonelle città vicine e nei contadi allo scopo di prestare aiuto al Guicciardini. Le truppe si riunironoe per quattro giorni stazionarono nella valle mettendo a ferro e fuoco quanto si trovava fra Baffadie Sassatello. Violando diritti umani e divini, al pari di Turchi o di senzadio, non tralasciandoalcuna scellerità.Un centinaio di case dei Ceroni, del tutto innocenti, furono date alle fiamme dopo essere statesaccheggiate, senza che alcuno facesse resistenza. (I nostri, evitando i soldati, si erano recatialtrove per non incorrere, se avessero combattuto, nelle più severe repressioni del pontefice).Infine furono catturati Bartolomeo e Lorenzo Ravagli, già da tempo proscritti, che si ritenevanoal sicuro a Castel del Rio presso Ciro Alidosi. Condotti in catene a Firenze qui vennero decapitati.Tutta questa accozzaglia, che più giusto sarebbe dire di banditi invece che di militari, ricevettefinalmente l’ordine dal Prefetto della Provincia di ritirarsi. Cosa che fecero lietamente, carichicom’erano di robe depredate. Il danno di tanta rovina fu stimato a ottantamila monete d’oro.Furono subito spediti a Roma ai piedi del Papa, come ambasciatori del Comune: Pietro Poli eAnnibale Ungania a presentar querela per le ingiurie e i danni ingiustamente subiti. Il Papa,

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103 Un esempio in S.BOMBARDINI, Archivio, p. 91. Sebastiano di Babino Ceroni il 24 Novembre 1557 viene condannato a mortein contumacia per avar ucciso il bargello di Tossignano.

104 G. MENETTI, La storia, pp. 89-90.105 A. METELLI, Storia, vol. 2, pp. 282-284.106 G. MENETTI, La storia, pp. 90-94.

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conosciuto troppo tardi come erano andate le cose, ne restò scosso e fece inviare lettere in cuisi comminava la scomunica ai predatori che, alla terza ammonizione, non avessero restituito ilmal tolto. Quando, a ministero dei parroci, furono divulgati in Toscana gli ordini del Papa, inostri ambasciatori furono fatti segno a minacce e paure da parte dei sicari e così, a mani vuote,dovettero partirsene.Così i Ceroni dei quali la fortuna aveva mutato i loro costumi, privi di mezzi, fiaccati di animoe di forze, costretti dalla necessità, deposero le armi, si diedero con cura ai lavori agricoli, alrestauro delle loro case e a ricercar di nuovo di stringersi fra loro in buoni accordi.Morto il Gran Duca Cosimo il Grande, gli successe Francesco I. Questi trattò con bontà i Cero-ni, accolse le loro suppliche e fece grazia a 120 dei loro già banditi dai suoi stati e tutti riammisenel suo favore.Paolo (o meglio Aldo) Manuzio che era segretario degli Otto, descrive tutto ciò in un documen-to scritto il 4 Luglio 1577. Da quel momento dunque i Ceroni, ritornati nell’ antica obbedienzadi quei Serenissimi Principi, li servirono per molti anni sia in guerra che in pace ottenendo daloro favori e dignità».Aggiunge Antonio Metelli107 che «la battitura data ai Ceroni aveva fruttato migliori consigli fraquella stirpe, la quale veggendosi in odio al Medici e in sospezione del pontefice ed assediatada ogni parte da molti nemici pronti ad offenderla né miglior modo trovando di assicurarsi osostenerne l’impeto che col restringersi validamente insieme ed impor fine alle domestichediscordie erasi raccolta nel borgo di Casola (foglio 396, archivio pubblico notai Casola, atti diser Giacomo Spada) dove i capi delle varie agnazioni cioè Rinaldi, Giacometti, Ravagli, Poli,Lauli avevano fra loro davanti Giovammaria Mariscotti, che vi stava a Commessario, giurataperpetua pace sotto pena di secento scudi d’oro con patto che solo per arsioni o per morti nonper ingiurie o per mutilate membra rompere si potesse».

4.6 Restitutio Offici Casulae Vallis Senni.Risalgono al 1566 alcuni documenti108 nei quali la Comunità Imola chiede la restituzione alPresidente di Romagna ed al Pontefice del territorio di Casola Valsenio. Vi si legge infatti:«Al molto Rev.do Sig. Commissario Mons. Il Preside di Romagna (…) molto detta Comunitàd’Imola li ha supplicato Nostra Grazia che se le restituisca il Governo della Valle di Casola,come aveva avanti che ne fosse privata da Pio IV di S. memoria. Il che è parso a S. Santitàragionevole (di nominare?). Ergo ha voluto farne loro gratia. Così ha concesso che scriva a V.S.R.che piglia prima informatione dagli Huomini di quella Valle, se vogliono tornare sotto il dettoGoverno d’Imola; trovando che se ne contentino, dar ordine che si rinnova il Consiglio che siansi trova(to) in detta Valle, che la città vi mandi il Suo Uffiziale come era solito di fare, per prima,avertendo che quei cittadini che non manchino di tenere le balanze de la pesa equali et di farein modo che S.S.tà resti ben satisfacta delle attioni in proveder lor che non si sono poste conragione de lor lettera non extendendo questa, per altro, mi offro a V.S. Dì Roma, alli 9 del marzo1566». Di seguito la risposta della Comunità di Casola:«Alli Molto Magnifici Sig.ri. Il Sig. Gonfaloniere; Sig.ri Conservatori della Magn. Comunità diImola: Molto Magnifici SS.ri et patroni nostri sempre osse.mi; per l’ultima resolutione di questo

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107 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 288.108 Il recupero e la trascrizione sono da attribuire a don Guerrino Ceroni, parroco di Casola Canina, abile storico e appassionato

conoscitore delle gesta della sua stirpe.

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benedetto negotio di reunirci insieme con questa Magnifica Comunità, habbiamo il CapitanoTonniolo de Loli, mess. Pietro Babini, m. Leone de Ravagli et ser Annibale Ungania, per nostroconseglio eletti et deputati sopra tal negotio con ampla et piena autorità, con permissione chetutto quello per elli sarà fatto in questo negotio, noi l’haveremo per grato, rato e fermo, ai qualila Signoria Vostra li presterà in nome nostro quella audientia, et vorà farlo che in simil negotiosi richiede e facci di bisogno, che il sommo Iddio lo feliciti et sempre conservi. Di Casula il dì5 di Aprile del 1566 Alli servitij delle SS.VV.Mag.ca, li Consiglieri et Huomini della Valle diCasola affettuosissimi».Si deduce, leggendo i nomi dei rappresentanti eletti dai Consiglieri di Casola, quale peso avesseroancora i Ceroni in questa valle, anche dopo la fiera battitura ricevuta dall’esercito guidato daAngelo Guicciardini.Si vedrà nel capitolo successivo che in realtà quanto scrisse Antonio Metelli109 e cioè che dopola fiera battitura ricevuta dall’esercito pontificio i Ceroni rimasero così mogi che in Romagnanon fu più udito parlar di loro non è completamente vero: anzi, dai documenti parrebbe benaltro.

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109 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 284.

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Capitolo 4

1. Le famiglie appartenenti alla ConsorteriaCome si è detto in precedenza, poteva accadere che «i clan più influenti provocassero legamisoprafamiliari e radunassero una vasta clientela, più artificiale, composta da numerosi alleatied amici». Si è parlato di queste alleanze sottolineando come esse, sovente, si rivelassero effimere e si èaccennato al fatto che, certamente per mancanza di testi interni, sfuggono quasi sempre allo storico. La Consorteria dei Ceroni rappresenta decisamente in Romagna una unione di famiglie con lecaratteristiche sopraindicate. Ghislieri1, a proposito della fattione guelfa, dopo aver nominato li Sassatelli d’Imola, dei qualisi è avuto modo di parlare nel capitolo precedente, dice che li contadini della lor fattione sonogli Ceroni (se bene divisi per le inimicizie).Anche se non vi sono documenti espliciti a proposito si suppone che molte famiglie del contadofossero legate ai Ceroni, necessitassero della loro protezione e appoggiassero le loro azioni. Conferma lo storico Leonida Costa che «i Ceroni costituirono nella Valle del Senio […] una sortadi “gens”, vale a dire complessi di famiglie legate saldamente fra loro da una comunanza diorigini, interessi, e, soprattutto da uno spirito di corpo quasi militaresco: quando un nucleofamiliare, a seguito di omicidi, ferimenti, oltraggi, truffe, entrava in lotta con casate nemiche,tutti gli altri, solidali e armati di tutto punto, accorrevano a dar manforte».Si è avuto modo di vedere, del resto, che proprio il venir meno di questa solidarietà interna fula causa del “declassamento” della gloriosa Consorteria a uno dei tanti gruppi validi perl’arruolamento2.Tra le famiglie che sarebbero appartenute alla Consorteria Pietro Salvatore Linguerri Ceroni3

cita i Galli, i Belloni, i Forchini, i Merli ed i Soglia.È poi probabile che anche la famiglia Ozzani, poi detta Tozzoni, della quale già si è avuto mododi parlare, facesse parte della Consorteria.Scrive Pier Giacomo Rinaldi Ceroni4: «si ritiene con una certa sicurezza che la nobile famiglia Tozzoni

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1 G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 30.2 G. MENETTI, La storia, p. 156.3 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 24.4 P.G. RINALDI CERONI, Lo stemma dei Ceroni di Romagna, ciclostilato.

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di Imola, per aver abitato per circa quarant’anni a Casola, facesse parte della Consorteria dei Ceronie che in seguito ne abbia preso lo stemma. I Tozzoni, ricca ma non nobile famiglia di Lucca, furonocacciati dalla città dai ghibellini, essendo di parte guelfa. Si rifugiarono dapprima a Ozzano, vicinoa Bologna e successivamente, non essendo più sicuri nemmeno in quella zona, si trasferirono a CasolaValsenio, che allora era uno dei pochi rifugi sicuri per i guelfi, dove vissero per alcuni decenni (dal1340 al 1376 all’incirca). Terminato il pericolo delle roventi divisioni tra guelfi e ghibellini essi sitrasferirono a Imola, dove prosperarono nel commercio. Quando successivamente acquistarono iltitolo nobiliare adottarono lo stemma che probabilmente per loro era più famigliare, cioè quello deiCeroni, con cui avevano vissuto per molti anni: un cervo rampante (senza giglio nella zampa) colornaturale in campo rosso con in capo tre gigli di Francia in campo azzurro».I Ceroni erano poi legati ai Naldi, dei quali erano diventati parenti grazie a diversi matrimoni.

2. Lotte e tregue. Si è avuto modo di parlare nel capitolo precedente del carattere bellicoso e rissoso degli uominidella Val d’Amone, carattere che li rendeva particolarmente abili nelle armi e facili a menar lemani. Si è detto, altresì, che questo vale particolarmente per la gens Ceronia.Tantissimi sono gli episodi narrati da diversi autori, tra cui in primis Sanzio Bombardini e AntonioMetelli, nei quali i Ceroni si distinguono per queste loro particolari caratteristiche. Moltissimesono del resto le tregue e le paci che essi firmano5 con famiglie rivali della Valle, fatto indicativodi per sé della bellicosità delle persone del tempo in genere. Ognuno poi potrà immaginare quantovalore queste paci e tregue avessero, ironizza monsignor Giancarlo Menetti6.Si ricordano tra le varie paci, le due più importanti firmate nel 1565 e nel 1577 tra le famiglieCeroni e quella firmata nel 1555 tra i Ceroni e i Costa7.Quella che segue è la cronistoria di alcuni episodi, scelti tra i più significativi.

2.1 I Ceroni contro i Caroli. Il delitto Rondanini.«Verso l’anno 1490, un sacerdote della famiglia Ceroni ritornava in patria da Roma con un diplomacol quale il Sommo Pontefice lo nominava Parroco della Pieve di Apro (Pideura)8.Sull’Appennino venne assalito da sicari, derubato del diploma e fatto segno a molte ingiurie epercosse.I Ceroni, persuasi che ciò fosse opera commissionata dalla famiglia Rondanini, che pure aspira-va a quella Pieve, giudicarono di non dover passare sopra, nè tollerare a lungo un’ingiuria cosìgrave e incaricarono Cesare, figlio di Rinaldo, di farne vendetta».Monsignor Giancarlo Menetti afferma che probabilmente l’episodio è da inserire tra i dissiditra i Caroli e i Ceroni, dissidi che avevano mietuto in Val d’Amone già diverse vittime. I Caroli,infatti, erano molto vicini alla famiglia Rondanini e tanto bastava per fare vendetta.Continua don Domenico Mita narrando che Cesare Rinaldi Ceroni «allora, con undici uominiarmati entrò in Faenza; in piazza si imbattè con Sisto Rondanini, segretario dei principi Manfredie uomo di corte; lo uccise a frecciate e scappò dalla città. Uno del gruppo però, durante la fuga,smarrì la via giusta. I suoi compagni, non vedendolo uscir fuori, tornarono in città per dargliuna mano. Ma la faccenda andò in modo diverso da come era stata progettata. Per ordine del

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5 Ampio catalogo in appendice a L.COSTA, Storia ed economia della Valle del Senio nel I° quarto del sec. XVI.6 G. MENETTI, La storia, p. 144.7 Di cui si ha anche il testo, inviato dallo storico Leonida Costa in ciclostilato ai Ceroni in ricorrenza della festa di S. Giacomo

del 6 Agosto 1996.8 G. MENETTI, La storia, pp. 39-41.

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Pretore, infatti, si chiusero subito le porte e fu dato l’allarme. I soldati corsero alle armi, i colpevolifurono tutti arrestati e tradotti dalle guardie nelle carceri della Rocca».La storia poi ebbe lieto fine per i Ceroni, sembra soprattutto grazie all’intervento di Lorenzo ilMagnifico, al quale essi si rivolsero implorando la grazia, essendo egli tutore del principe AstorgioIII, che all’epoca aveva solo sei anni.Pare che lo stesso Lorenzo suggerisse ai Ceroni il modo di uscirne. Fatto sta che «i Ceroni ritornatipertanto pieni di fiducia a casa loro, raccolsero una schiera di uomini, andarono a Faenza e assalitiall’improvviso diciotto persone di corte che si recavano alla chiesa dell’Osservanza, posta fuoridelle mura, li sequestrarono e li condussero subito sotto scorta, come ostaggi, nella rocca di MonteMauro e li liberarono soltanto quando i quattro9 prigionieri in catene di cui si è detto, non fu-rono scambiati con questi personaggi, senza condizioni, così, alla pari».Continuarono comunque i dissidi, forse anche più forti, dopo quest’episodio che aveva lasciatiimpuniti gli assassini.Dice Antonio Metelli10 che «ovunque nella Valle di Amone era guerra e furore» e mentre nellavalle si tentava di riportare la pace «ecco furiosamente insorgere diversi contrasti tra Carrolie Ceroni e ridestando le sopite inimicizie col fuoco e col ferro tirarsi a distruzione».I nipoti di Dodo da Montevecchio (Carroli) pretendevano che i Ceroni «andassero loro debitoridi certa quantità di pecunia. O che i Ceroni sel negassero o che l’odio, che mai non si spegneper accordi quando la contenzione fu prodotta fino al sangue, rodesse i Carroli, avvenne chequesti ruppero ad un tratto e disfecero certe vie rurali per cui solevano tener passaggio Alessandrodi Fecco e Nunzio di Perusino da Cerone».I Ceroni per questo erano costretti a percorrere una via più aspra e nacquero “gravi dispiacenze”.Dalle parole ai fatti, era stata dichiarata guerra.«I Ceroni per dar principio ad una gran vendetta raccoltisi insieme e venuti sotto le case deiCarroli vi appiccarono il fuoco onde essi, colti all’improvviso, ebbero a gran fortuna l’abbandonarlefuggendo di mezzo alle fiamme e sotto i colpi dei loro nemici che poscia le svaligiarono. I Carroli,per rappigliarsi, strettisi anch’essi co’ loro congiunti e parziali entrarono di pien meriggio tuttiarmati nella scuola di Montecchio e corsi alla chiesa di San Leonardo, ove teneva grado di prioreun figliuolo di Rainaldo da Ceronio, scoperchiaronvi una fossa dentro cui giaceva molto granoaccumulato e tutta quanta gliela votarono. Poi le insidie e le morti reciproche crescendo ognorala concitazione e la rabbia maggiori e più funesti casi presagivano». Continua infatti Antonio Metelli11: «le discordie nella valle di Amone per tutto il tempo che arsela guerra in Romagna non vi erano state affatto in silenzio, anzi la sola tra Ceroni e Carroli viera tanto oltre proceduta che già le stirpi piangevano la morte di sei dei loro consorti cadutisotto i pugnali, né per questo facevasi da una parte e dall’altra alcun segno di temperarsi dallatremenda rabbia che li occupava».Sembra poi che si giungesse ad una pace momentanea. Narra infatti lo storico che Vincenzo diNaldo e Ricciardo di Ferroni de’ Galamini si proposero come arbitri per mettere a tacere queglisdegni. «Comprate in proprio nome dalle parti le funeste terre che erano state causa delle spietatemorti quelle distribuirono ne’ contendenti a modo che più poi non avessero ad aprire il campoa nuove risse e condannatili alla restituzione delle maltolte cose e al soddisfacimento dei dannicon intimi baci ed abbracciamenti firmarono tra loro la pace».

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9 Gli altri prigionieri erano già stati liberati grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici.10 A. METELLI, Storia, vol. 1, p. 459 e ss.11 A. METELLI, Storia, vol. 1, pp. 468-469.

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2.2 Storie di Ceronesi.Scrive Sanzio Bombardini12:Nella seconda metà del 1500 i più gravi episodi di banditismo che si verificano in Val di Santernoe di Senio sono in gran parte il frutto della rivalità di cinque famiglie e rispettivi aderenti, cheavevano avuto origine nel castello di Ceruno, sopra Casola Valsenio.Un uomo divenuto potente in quella località, Giovanni detto Lancere da Ceruno, già morto nel1491, aveva lasciato cinque figli:Rinaldo, capostipite dei Rinaldi-Ceroni,Giacomo, che dà origine ai Giacometti-Ceroni,Bartolomeo detto Ravaglio, capo del ramo dei Ravaglia-Ceroni,Paolo (Polo), i cui discendenti si chiameranno Poli-Ceroni,Lolo, che fonderà la famiglia dei Lolli-Ceroni.I figli ereditarono dal padre spirito irrequieto e bellicoso, insieme a notevoli sostanze che li reseropotenti e temuti.Ma forse per questioni di eredità e di prestigio si scatenò tra loro una rivalità senza pari, destinataad accrescersi nei discendenti, che finiscono per diventare gli uomini più facinorosi della zona.La crescente ostilità delle cinque famiglie produce stragi, uccisioni, ruberie, violenze di ognisorta, che si ripercuotono sulle popolazioni e ne accrescono la miseria.Il capostipite dei Ceronesi, il vecchio Lancere, si sarebbe davvero rivoltato nella tomba, se avessepotuto aver notizia di ciò che combinavano i suoi discendenti.Nell’Archivio criminale di Tossignano le storie di Ceronesi incriminati sono all’ordine del giornoe spesso si accompagnano alla descrizione di atroci misfatti.Se ne ha subito un saggio nel primo volume di Atti della Curia, che inizia il 2 maggio 1542.Era stata tesa un’imboscata alle Pedriaghe a Gaspare dal Pozzo e fra i sei aggressori c’era anchemesser Cesare Rinaldi Ceroni. I dal Pozzo furono sorpresi mentre zappavano in un loro campo,Gaspare fu ferito ad archibugiate e suo figlio Andrea, un giovinetto che non aveva ancora pelosul volto, restò ucciso, pare da un colpo sparato proprio dal Ceronese. Ma non ci sono le cartedel processo. Figura soltanto l’interrogatorio di Battista fu Giacomo da Borgo, che partecipò aquella impresa delittuosa. Dopo lunga tortura sulla corda e lamenti continui, egli confessa ilnome di coloro che componevano il gruppo, cioè Giovanni Nanni da Dozza, Spinello da Ponticelli,Lutrecco e Mengone, oltre a lui e al Rinaldi, del quale non voleva fare il nome assolutamente.Prima dichiara che Cesare Rinaldi si recava spesso dal cavaliere Azzali al Serraglio, e talvoltadai Nanni a Dozza, poi confessa di averlo visto anche alle Pedriaghe e non solo quella voltache spararono ai dal Pozzo. Avevano infatti compiuto altri atti banditeschi e teso agguati aMatteo Antonio della Costa, ad Andrea Ferlini e a Salvatore del Zuffa. Appare dunque daquesta confessione che un Cesare Rinaldi Ceroni viveva alla macchia nel 1542 con un gruppodi banditi.

2.3 Scontri tra Ceroni e Cavina. L’eccidio di Valmaggiore.Narra Antonio Metelli che, una volta divenuto papa Giulio Cardinale de’ Medici, col nome diClemente VII, egli «applicò l’animo a fermare i perigliosi moti che vacando la sedia pontificiaerano sorti in Romagna».Francesco Ferro (auditore del Presidente Niccolò Buonafede, vescovo di Chiusi) era stato mandatoper Romagna proprio «affinché in qualità di commissario vi riducesse i cittadini alla pace e la

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12 S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 89-94.

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concordia e la quiete, che da qualche tempo ne erano bandite, ristorasse13».Arrivato a Brisighella egli chiamò i Cavina e i Ceroni, per paura che a causa della loro perpetuainimicizia potessero accorrere guerre, pregando ambo le parti che volessero «quell’amabile concordiatemporanea con più solenne atto riaffermare, affinché qualunque piccolo insulto non avesse a violarlama soltanto per omicidi o per perdita di membra o per fraudolente arsioni di biade o di abiturirompere si potesse. Nel chè, mostrandosi essi ossequianti giurarono sulle sacre pagine ferma estabile osservanza14».Quanto sincera e ferma fosse quella promessa lo si può facilmente capire dal prosieguo delracconto: lo storico narra che non appena il commissario partì, i Ceroni radunarono un buonnumero di guelfi e mossero «a danni di Tossignano, spargendo da per tutto la confusione e lospavento. Quali opere vi commettessero nell’esercizio di questa barbara vendetta non apparedai documenti che ora ci restano, bene è a credersi che fossero spietate e degne della ferociadegli animi irritati dai passati fatti, poiché raccoltosi poco dopo il consiglio generale di quelcastello si prese deliberazione di richiamarsi al presidente di Romagna per quell’accessodeputando due di loro a movere querela contro i suddetti, che armata mano erano andati in offesaa Tossignano».E le discordie tra le due stirpi continuarono ben oltre il 1524, data in cui avvenne, secondoAntonio Metelli, l’attacco a Tossignono. Scrive infatti Sanzio Bombardini15:«Sta sorgendo l’alba del 15 marzo 1560 nella pittoresca località di Valmaggiore, che appartieneallo Stato di Tossignano, di cui è feudatario Antonio Carafa, marchese di Montebello, nipotedi papa Paolo IV.Pare un giorno come un altro e quelli che si sono già alzati attendono alle loro faccende. DonMorando fu Mazzone dei Baldisserri da Ceruno, rettore di S. Maria di Valmaggiore, si dà da farein chiesa, aiutato dal nipote Allegrante figlio di Nesio di Mazzone che convive con lui, perchèquella mattina doveva celebrare un ufficio. Il colono del prete che abita in una casa attigua allachiesa, Pietro fu maestro Martino del Sarto, sta governando le bestie nella stalla, la sorella Ermiliae sua madre Sandra si alzavano per la messa e l’altro fratello Lorenzo di 19 anni era già uscitoper raccogliere delle frasche da dare alle pecore.La maggior parte degli abitanti del paese si trova ancora a letto, quando scoppia il dramma.Ad un tratto esce dalla canonica una cagnetta, affezionatissima a don Morando, e si mette adabbaiare furiosamente nella direzione dei ruderi del Castellaccio che sorge poco sopra la chiesa,anzi vi si avvia risolutamente e corre abbaiando avanti e indietro lungo le «murazze» del vecchiofortilizio, avvertendo la presenza di estranei.Allarmata dal contegno della cagnetta, Ermilia richiama il fratello Lorenzo e lo manda a vederedi che si tratta.E Lorenzo va su, aggirando la muraglia per entrare dal varco della porta, ma ha appena giratol’angolo che quattro uomini armati, appiattati nell’interno, lo afferrano alla gola e gli tappanola bocca.Non si è ancora riavuto dallo stupore che giunge la chiamata della sorella, e poi la voce di DonMorando, uscito di chiesa insospettito, che lo chiama ripetutamente.I Baldisserri Ceroni vivevano di soprusi e di prepotenze nella zona, di cui s’erano praticamente

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13 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 83.14 A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 84.15 S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 119-123.

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impadroniti venendo da Ceruno al seguito di don Morando, perciò stavano sempre all’erta.I banditi provano un senso di smarrimento, temendo di essere scoperti e confabulano tra di loro,poi allentano la stretta e dicono al giovane di rispondere. Ma quello con destrezza si svincola,salta sulla muraglia e si butta dalla scarpata, urlando a squarciagola:«Aiuto, tradimento! Fuora, fuora, che l’è pieno il Castello di gente!»Né si ferma alla chiesa, ma si precipita in basso, verso l’abitato di Sozzuro, sempre gridando:«Arme, arme, Ciruno, Ciruno, a Valmagiore!».Ormai scoperti, i banditi escono in frotta dal castello; sono i Cavina, nemici mortali dei BaldisserriCeroni, che si erano appostati lì durante la notte con l’intento di uccidere don Morando.È una masnada di diciassette uomini, armati di tutto punto, guidati da Gentilotto Cantoni daCavina. Hanno maglie di ferro, stocchi e pugnali alla cintura, impugnano picche, balestre,archibugi e roncole.Oltre al capobanda ci sono altri dodici da Cavina: Domenico e Vincenzo di Tommasino, Cesaredi Ettore, Melchiorre di Rugante, Piero di Sandretto, Stefano di Renzo, Arcangelo di Toso, Masodi Giuliano, Giovannino di Milano, Pino e Babino di Cristoforo della Rocca, Poletto di Tonino,e con loro stanno Gaspare di Cesare da Trarlo, Francesco detto Minuzzolo dei Facchini di Budriodi Lugo, Nicola di Storano da Medicina e Alberto detto Penzolino da Lugo.Don Morando si precipita in casa col nipote e vi si barrica; il bovaro Pietro si chiude nella stallasenza fiatare per lo spavento; la vedova Sandra urla e chiama aiuto dalla finestra della sua casetta,ma poi, sotto la minaccia degli archibugi, si appiatta e zittisce e altrettanto fa l’altro suo figlioMorando di 23 anni, mentre la figlia Ermilia va di corsa verso l’abitazione di Giovanni, fratellodel prete, invocando aiuto, inseguita da un bandito che le gridava: «Ah, porca traditora, che tivoglio ammazzare!», ma non la prese.Intanto i banditi si accaniscono contro la porta della canonica per forzarla con le loro aste, urlando:«Ah, prete, prete, tu non la scaparai questa volta, che ti amazaremo!», la colpiscono a mo’ diariete con una grondaia per l’acqua e infine vi scaraventano contro a più riprese un pesantemortaio di pietra, trovato nei pressi, che serviva per fare l’agliata, ma la porta è solida e resiste;allora per fare presto, prima che accorra gente, si buttano contro la porta della chiesa, senzaalcun riguardo al luogo sacro, e fanno leva tra le fessure per scardinarla.Don Morando e Allegrante accorrono arditamente, armatisi di fagiole e con le punte di ferroattraverso le fessure menavano colpi per tener lontani i banditi, ma uno di essi sparaun’archibugiata che per fortuna non li coglie, e poi facendo impeto infrangono le serramentaabbattendo la porta e invadendo la chiesa, senza riguardo alcuno alla Madonna e ai Santi.I luoghi di culto allora godevano di una immunità che era rispettata perfino dai più ferocifuorilegge (i quali se ne servivano spesso), e anche dalle forze di polizia e dai soldati, che nonpotevano violare il diritto d’asilo.Rapidamente don Morando e il nipote si mettono in salvo nella canonica per la porticina dietrol’altare e fanno appena in tempo a sbarrarla, che già gli assalitori cominciano a percuoterla.Quei furfanti vi sparano contro una seconda archibugiata che per poco non coglie il prete dall’altraparte, ma anche il coraggioso Allegrante, che ha appena 16 anni, si è armato di un archibugioe spara contro i banditi da un finestrino che dà all’interno della chiesa e ciò li rende piùguardinghi. Anzi, visto che anche quella porta resiste e che la sorpresa non è riuscita, pensandoche stiano per arrivare soccorsi, decidono di svignarsela.Intanto le grida e il fragore delle archibugiate hanno svegliato il paese. Giovanni fu Mazzone,di 53 anni, fratello di don Morando, balza dal letto, si veste frettolosamente, impugna una picca

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e seguito dai suoi tre figli, Leone di 25 anni, Marcantonio di 23, Ceruno di 18, anch’essi armatisialla meglio, si precipita verso la chiesa. Anche Nunciata dei Righini di Tirli, la giovane mogliedi Leone, che stava vestendo una sua figlioletta, afferra uno «spontoncino» ed escecoraggiosamente di casa, coi suoi uomini.Mentre si affannano su per l’erta, sotto il castello, in località la Maestà la masnada dei fuorileggerovina loro addosso con la furia di una valanga.Si appicca un zuffa furiosa, rapidissima, tra urla selvagge e colpi all’impazzata; il giovane Cerunoche precede gli altri cade subito sotto una gragnuola di colpi e Gentilotto passando di corsa sichina sul caduto e con un colpo di pugnale gli squarcia la gola; subito dopo, trafitti da numeroseferite e coperti di sangue, cadono anche il padre e gli altri due figli, e su di essi non indugianoi banditi, che li credono morti e stanno correndo verso la strada della Collina che porta alla Paventae alla Faggiola.Il crudele Gentilotto, che chiude la ritirata, non perdona nemmeno la povera Nunciata, che gridavadi spavento ferma sulla strada, le trafigge il braccio sinistro e la mammella con un colpo dibalestra, si china sulla donna caduta per recuperare il verrettone, che strappa dalla ferita e poila fa ruzzolare con una pedata giù dal greppo. Subito dopo ricarica l’arma e la scarica addossoad un giovanetto che sta accorrendo, disarmato, seguito dal padre. Per fortuna il colpo va a vuoto.Si tratta di Michele fu Carlino da Gualdifuso, contadino di Compadretto dei Rinaldi Ceroni diTossignano nel podere di Bigoncio, e del figlio Matteo. Egli conosce bene Gentilotto, perchè èstato contadino per dieci anni di Gentilino di Romano da Cavina a Valunga e anche il banditolo riconosce e lo rimprovera per esser accorso: «Che volevi tu fare qui pover homo, che io soandato a risico de amazare lo tuo figliolo!» e poi si volta ai suoi e grida: «Sono amici, non fateloro del male!».Il contadino nota che uno dei banditi, Francesco detto Minuzolo, sanguinava dal capo per uncolpo di ghiavarina.E così la banda lascia Valmaggiore.Vengono allora raccolti i feriti e portati nella loro casa, fra le imprecazioni degli uomini chegridano: «Siamo stati assassinati da quelli di Cavina!» e il pianto disperato delle donne.Don Morando e Allegrante escono circospetti dalla canonica e il prete monta a cavallo per dirigersia spron battuto verso Tossignano a chiamare messer Gherardo Dolciati, valente fisico e cerusico,perché intervenga con la sua scienza a riparare ai mali della malvagità umana.Sul terreno, solo, guardato pietosamente da una piccola folla silenziosa, al Poggiolino, sotto ilcastello di Valmaggiore, rimane il cadavere di un giovane di 18 anni, vestito di panni bianchi,già ordinato «in sacris», colpito con quattro pugnalate alla testa, ferito in più parti del corpo,con la gola orrendamente squarciata, in un lago di sangue, e gli occhi sbarrati ancor pieni distupore e di paura. È così che trova il povero Ceruno il piazzaro di Fontanelice, Gian GattistaBalotta, mandato dalle autorità a compiere il sopraluogo di rito.Segue poi la denuncia del fatto criminoso da parte del massaro di Valmaggiore, Giacomo fu Tonioda Rebezano, abitante a Sozzurro, davanti al Commissario di Fontana, che dà ordine alla suacancelleria criminale di iniziare gli atti del processo.Ser Fabrizio Magnani, procuratore fiscale, fa citare a più riprese i da Cavina e l’ultima citazionea comparire si fa nella chiesa di Valmaggiore il 30 marzo. Naturalmente i banditi rimangonolatitanti; essi vivevano già alla macchia per delitti precedenti, a cui si aggiungevaquest’ultimo.Anzi i Cavina avevano organizzato ben tre bande armate, una delle quali abbiamo vista in azione;

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una seconda di undici uomini, capeggiata da Enea di Gianino di Simone, comprendeva Bastianodi Ottaviano, don Battista di Rugante, Renzo di Tonino, Bimbo di Renzo, Taviano di Liseo, Giuliodi Gentilino, Cristoforo di Babone, Arcangelo di Domenico, tutti da Cavina, più due di Lugo,Stefano detto il Rosso e Lodovico detto Nigrino.La terza, guidata da Gaspare di Tomasino di Gaspare da Cavina, ne annoverava dieci, cioè ilcapo, più Ballone e Liseo di Ottaviano, don Virgilio e Orazio di Gentilino, don Taddeo, Cristinodi Sandretto, Giovannone di Tonino, tutti da Cavina, a cui si erano aggiunti Girolamo Facchinida Cotignola e Girolamo dei Ricci da Canale Arrabbiato.Contro tutti costoro, che però rimanevano contumaci, pronunciò sentenza definitiva di condannaa morte per decapitazione, confisca dei beni e bando da tutto lo Stato dello Chiesa il Governatoredi Tossignano, messer Giovanni Domenico Troni da Sant’Arcangelo, dottore in leggi, il 26 giugno1561, e a cura del cancelliere per gli affari criminali, ser Donato fu ser Lattanzio dei Sercecchidi Fontana, fu divulgata in tutto il territorio di Tossignano e nella chiesa di S. Maria di Valmaggiore.A conforto dei lettori, aggiungerò che deposero come testi al processo tutti i feriti del 15 marzo,guariti nello spazio di tre mesi dall’arte medica di messer Gherardo, che con un certo orgogliopuò esclamare: «Con la grazia di Dio li ho guariti, ma erano ferite mortalissime!»Giovanni aveva avuto quattro ferite: una al capo e una alla mano sinistra di pugnale, due allaschiena di picca; Marcantonio era stato colpito sei volte: alla mammella destra, tre ferite di piccanella schiena, una al braccio destro, una alla tempia; Leone ha riportato sette ferite, e anchela coraggiosa Nunciata potè dire di averla scampata bella. Il 13 settembre 1590 viveva ancoracol marito Leone al quale aveva portato in dote la cospicua somma di Lb. 600.Si vede che la tempra degli uomini di allora era veramente eccezionale. Quanto a don Morando,avrà fatto per lo meno un monumento alla sua fedelissima cagnetta».

2.4 I Ceronesi contro i Veroli. Lo smacco di Cesena.Un altro episodio che ha per protagonista la famiglia Ceroni è quello che segue, ripreso sempreda Sanzio Bombardini nell’archivio criminale di Tossignano16.«Il 24 gennaio 1573, di sabato, partono da Casola Valsenio nove Ceronesi per andare alla guerra:sono stati assoldati come cavalieri di lieve armatura dal capitano Brunoro Zanfoschi, che neaveva richiesti 10 al «Generale» di Cerone per conto del Duca d’Urbino, scrivendo che glielifacesse trovar pronti a Rimini dopo otto giorni.Era un’impresa militare per conto della Chiesa, approvata anche dal Presidente di Romagna,ad ogni modo i Ceronesi erano abituati a simili avventure perché vivevano di rischio, del soldoe del bottino di guerra, di estorsioni e anche di rendita.Sono ser Babino di Bastiano, che li ha arruolati e fa da capo, anche se fra loro si consideranotutti fratelli, possiede dei beni a Casola e vive di rendita, non ha mai avuto a che fare con lagiustizia (così dice, ed è strano per un Ceronese); il secondo è il giovane ser Obizzo di Perusino,seguito da ser Pompeo di ser Alessandro della Soglia, che ha circa 25 anni ed è notaio, benchèfaccia pochi rogiti; non è stato mai soldato, nè alla guerra, ma ora ne vuol provare le emozioni.Sette anni prima era stato nelle prigioni del Presidente di Romagna per le inimicizie tra i Ceronesi,ma poi avevano fatto la pace ed egli aveva pagato la sua quota di ammenda, anche se non avevacontribuito a romperla. Il quarto della comitiva è ser Morando fu Ricciardo dei Rinaldi-Ceroni,fratello di messer Parino, molto giovane ed elegante nel suo abito rosso; un altro giovane impetuosoè Cesare, detto ser Possente, dei Poli Ceroni; Mamino di Domenico dei Lolli Ceroni è invece

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16 S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 225-231.

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soldato di professione e ha più di trent’anni. È stato processato, ma poi assolto dall’accusa diaver ucciso la sua matrigna, che si era fiaccata il collo giù da una rupe. Fu anche assolto dalGovernatore d’Imola, dopo tre mesi di carcere, dall’accusa di omicidio di un certo Romano daCasola. Anche Leone di Valerio ha più di trent’anni, e dopo aver fatto il fabbro e il calzolaio hapreferito la carriera delle armi, e pure di professione soldato è Virgilio di Masino, di 25 o 26anni. Il nono è Cesare di Garino detto Cesino dei Baldisserri Ceroni di Valmaggiore, tra i 30 ei 40 anni, un uomo rude, che ha sempre lavorato la terra. Ha avuto a che fare con la giustiziauna ventina di anni fa per essere stato a ballare nel territorio di Firenze (si vede che avevacombinato qualcosa di brutto) ed è povero da quando suo padre è stato in prigione e gli sonostati confiscati i beni, ma non ne sa il motivo (cioè non lo vuol dire).Sono tutti a cavallo di buone bestie da sella che valgono circa trenta scudi d’oro l’una, e ciascunoporta due archibugi, uno lungo e uno corto, e la spada; diversi hanno un giaco di maglia e altriun colletto e maniche di maglie di ferro; portano tutti un tabarro di ugual foggia e un feltro biancoin testa per riconoscersi nelle mischie; il contegno e l’aspetto bellicoso li fa ammirati e temuti.A mezzogiorno pranzano a Faenza e vi pernottano nell’osteria di Marco Antonio da Rivalta el’indomani, domenica, desinano nella rocca di Forlimpopoli, nell’abitazione del capitano Brunoro,che li attendeva a Savignano.Il pomeriggio si rimettono a cavallo e all’ora di vespro, circa a ore 22 o 23, giungono al fiumeSavio, che bisogna passare in barca per entrare a Cesena. Al guado c’è affollamento perché,oltre ai normali passeggeri e a loro, stavano giungendo da un sentiero che scende dalla stradadi Teodorano altre genti armate: un drappello di 34 archibugieri provenienti da Teodorano e daCivitella, condotti da ser Enea dei Veroli di Teodorano, assoldati anch’essi come fanti dal capitanoBrunoro per la stessa impresa. Portano tabarri multicolori e sono armati di archibugi, di armiin asta, spade, pugnali, celate, piastrini e guanti di maglia. […]Questi sono i due gruppi che il caso fa incontrare al traghetto di Cesena e i connotati dei singolisaranno completi se si pensa che andavano alla guerra unicamente per la cupidigia di far denaro.Tra i Veroli e i Ceronesi pare anche che ci fosse una fiera inimicizia da quando i Ceronesi andaronotutti contro il Conte di Bagno agli ordini del marchese Antonio Carafa, che fu Signore diTossignano dal 1556 al 1560 e conquistò Montebello per conto del Papa.Era fatale che si producesse uno scontro.Il barcaiolo Nicola di Carlone fa salire tre cavalieri e parecchi pedoni per ogni viaggio. Salgonocosì, senza smontare da cavallo, ser Pompeo, Mannino e Virgilio con diversi fanti di Teodoranoe vengono traghettati e sbarcati di là, dove la strada riprende in salita e porta all’osteria diSant’Antonio, in Borgo, gestita dall’oste imolese Gian Battista di Geraldo.Ma al secondo viaggio scoppia la tragedia.Nella barca ci sono ser Possente, ser Morando e ser Obizzo, che tengono a mano i loro cavalli,e ser Enea Veroli con un folto gruppo dei suoi archibugieri.I fanti cominciarono a brontolare contro i cavalieri, che avrebbero dovuto lasciar passare primaquelli che erano a piedi e ser Possente rispose a un certo Allegruzzo di comprarsi un cavallopure lui.«Sul cavallo tu la guadagni! sarà tuo?» provocò l’altro. «Sicuro, e ho di che comprarne un altro!»«Come l’hai guadagnato?» «Con la spada, rispose il Ceronese sorridendo con ironia, e anchetu puoi fare altrettanto». Crucciato interviene ser Enea e grida «In quanto al merito, credo dimeritare quello et altro!» e il cavaliere: «Se tu lo meriti io non so, ma quando sarai di là tu loguadagnarai, se tu lo vorrai guadagnare!»

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Mentre la barca tocca la riva e ser Possente sta salendo a cavallo, ser Enea gli grida: «O omoda bene, se tu vuoi far questione, io sono omo per farla!» e Allegruzzo, inviperito: «Fermati, tudal feltro, perchè voglio far questione teco!» e aveva già abbassato il cane dell’archibugio. IlCeronese di rimando: «lo non ridevo di te, non ho a fare teco» , ma quello urla: «Ser Possente,(dunque lo conosceva) tira su quello cane!» e subito gli sparò.«Et in uno tratto Ser Enea, Alberto il nipote e Bettino abbassorno li archibusi et tirorno et veddiche quello che portava il feltro bianco, cascò da cavallo», così testimonia Matteo dei Brighi daTeodorano, uno degli armigeri assoldato dai Veroli e quindi insospettabile. Seguì un gran frastuonodi colpi d’archibugio, il fumo degli spari avvolse i contendenti e quando si diradò Possente giacevamorto sull’arenile, ser Enea ferito veniva sostenuto dai suoi, tra i quali c’era un altro ferito aduna gamba, e sulla strada verso l’osteria galoppavano i cavalli di ser Morando colpito a mortee di ser Obizzo ferito al volto da un colpo di lancia e poi raggiunto da un’archibugiata alla spallasinistra mentre fuggiva. […]A Cesena il fattaccio suscita un’impressione enorme.Si temono contraccolpi gravi e il Governatore della città, dottor Fabrizio Buccapaduli si chiudenella rocca, fa sbarrare e custodire le porte dell’abitato, ordina al Bargello di radunare tutti glisbirri e di disarmare coloro che avevano partecipato alla rissa, ma non fa suonare all’arme perchèteme che il tumulto si accresca.Spedisce subito un messo a Ravenna al Presidente di Romagna, chiedendo aiuti e provvedimentiperché la città è piena di soldati di passaggio, che vanno al servizio del Duca d’Urbino da tuttala provincia, condotti dal capitano Brunoro, e bisogna evitare gli scandali. Il giorno seguente,26 gennaio, il dottore in Criminali Vincenzo Lotti, Luogotenente del Presidente, giunge a Cesenacon l’incarico di fare un’attenta indagine sui fatti e spedisce messi a cavallo al Governatore diImola perché non faccia mettere in armi altri Ceronesi, avverte il Conte di Teodorano di tenerea freno le sue genti, i Governatori di Faenza e di Forlì ricevono l’ordine di non lasciar passaregente armata alla volta di Cesena, emana un Bando di deporre immediatamente le armi per tuttii forestieri che si trovano in città e che il barcaiolo non traghetti più uomini armati.Poi invia il suo notaio Domenico Strata a fare la ricognizione di legge sui feriti: ser Enea Veroliè in casa del cav. Bottini, ferito da un’archibugiata con sette pallini alla spalla destra e da altrinove colpi (non ben specificati), soffre moltissimo e non è in condizione di poter essere interrogato.Ser Obizzo da Ceruno, che nel frattempo è stato portato nella rocca di Cesena, è ferito all’omerosinistro da una palla d’archibugio, penetrata per due dita, e da un brutto colpo d’asta alla mascellasinistra, con profondo squarcio, e anch’egli è molto sofferente.Allora si procede all’interrogatorio del Bargello, capitano Maurizio Stefanini da Monte S. Martino,che conosce i Ceronesi perché è stato Bargello anche a Imola, e di molti altri testi, il barcaiolo,il contadino della casetta occupata dagli archibugieri, l’oste e l’ostessa, la zingara e un mercantedi cavalli, come alcuni che erano tra gli assoldati di Teodorano e tutti confermano che a sparareper primi furono quelli a piedi.Il 29 gennaio sono interrogati i due feriti.Ser Enea accusa quelli a cavallo di aver sparato per primi, cogliendolo alla spalla e affermache con lui non c’erano suoi parenti, ma uomini di Civitella e di Cerreto, che non conosce (èevidente che vuol coprire i suoi) ed è assai reticente, dichiara di sentirsi poco in cervello nellerisposte da dare, a causa del dolore al braccio e alla gamba.Ser Obizzo, quando vide cadere l’amico gridò: «O Dio ve aiuti, ser Possente!» e subito fu colpitoal volto da una lancia che per poco non lo disarcionò; siccome gli avversari erano tanti, spronò

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il cavallo e mentre fuggiva prese un’archibugiata alla spalla sinistra. Non vide altro a causa delsangue che gli colava dal viso, né potè metter mano alle armi per la sorpresa. Afferma che serEnea è stato colpito dai suoi uomini che sparavano all’impazzata.Dal 22 febbraio al 26 marzo vengono poi convocati a Ravenna i protagonisti del fattaccio e iCeronesi si presentano tutti, assistiti dal loro legale, ser Callisto Bassi di Tossignano.Essi hanno avuto vecchie inimicizie con quelli di Piano, coi Cavina, coi Ricci, ma non hannomai avuto a che fare con quelli di Teodorano o coi Veroli, che non conoscevano neppure.Virgilio di Masino, che aspettava l’imbarco con gli altri due Ceronesi, non è intervenuto perchècontro la forza non poteva contrastare «e l’offizio del buon soldato è anco di preservarsi» e «sariapazzia andare a rompere il capo nel muro», pertanto non rimaneva che fuggire e non sa comesia stato ferito ser Enea Veroli.A favore dei Ceronesi testimonia anche Dionisio dei Naldi da Brisighella, figlio del prode capitanoVincenzo, che stava arrivando al fiume con una banda di «Brisighelli» e vide i Veroli far violenzae impedire a tutti di traghettare. Così ripete messer Lodovico Naldi, accusando Bettino dei Verolie i suoi di aver bloccato il passo finchè non s’allontanarono col loro ferito. A ser Possente avevanoportato via tutte le armi, lasciandogli alla cintura solo il fodero della spada.La difesa di ser Callisto si propone di dimostrare che i suoi sono uomini onesti, mentre quelli diTeodorano sono conosciuti per disonesti e soliti a formare brigate rissose e violente, con molteinimicizie a Cesena, nel suo territorio, e soprattutto a Meldola; che essi al fiume erano 34, moltomeglio armati dei nove Ceronesi, e hanno preparato l’agguato presso il loro paese e lontano da Cerone;che quello non fu uno scontro, ma un assassinio e che anche gli altri sarebbero stati uccisi, se nonfossero fuggiti chiamando aiuto; quelli di Teodorano, inoltre, hanno fatto violenza privata al barcaiolo,tenendolo in ostaggio e cacciando un contadino dalla sua casa; hanno opposto resistenza con minaccealla Corte; hanno rubato le armi di ser Possente; se ne sono andati a loro piacimento, recando offesaal Governatore di Cesena che li voleva interrogare; molti di essi sono banditi, e infine è pubblicavoce in Cesena che quelli di Cerone sono stati ammazzati senza alcuna provocazione.Il risultato fu che tutti i Ceronesi furono lasciati liberi, compreso ser Obizzo, che nel frattempoera guarito.Il volume del processo finisce così e non sappiamo se i Veroli di Teodorano siano stati condannati.Ma i Ceronesi non erano gente da lasciare invendicate le offese ricevute, e in genere si facevanogiustizia da soli.Sembra confermarlo un interrogatorio fatto a Mario Rinaldi Ceroni di Tossignano 1’8 luglio 1574,dal quale si apprende che era accusato, fra altri crimini, di aver fatto parte di una brigata diCeronesi che l’anno precedente, cioè nel 1573 appunto, si era portata a Teodorano e vi avevaucciso due dei Veroli, secondo la legge dell’occhio per occhio e dente per dente.Il libro del processo rimase in casa di messer Orazio Rinaldi-Ceroni a Tossignano per quattordicianni e solo il 26 gennaio 1587 fu messo nell’Archivio criminale del paese per ordine delGovernatore, quindi il capo riconosciuto della famiglia Rinaldi ebbe il tempo e le informazioninecessarie per vendicarsi di quelli che avevano ucciso Ser Morando. E conoscendo messer Orazioe la sua potenza, c’è da scommettere che Allegruzzo dei Veroli, o qua1cun altro dei suoi, nonson morti di morte naturale nel loro letto».

2.5 I Ravaglia e i Lolli contro i Giacometti Ceroni. L’agguato di Carseggio. Si è visto come anche dopo l’uscita di scena di Ramazzotto Ramazzotti continuasse l’odio tra idiversi ceppi della famiglia Ceroni.

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Scrive infatti Pietro Salvatore Linguerri Ceroni17 che «la dispersione della Signoria de’ Ceroninon produsse la pace nella Valle del Senio, che anzi proseguirono le fazioni interne fra Ceronesispalleggiate anche dagli altri Casolani. Frequenti erano gli omicidii».L’episodio di Carseggio, qui di seguito ripreso dall’Archivio Criminale di Sanzio Bombardini18

è molto significativo, soprattutto fatta attenzione alla data, il 1584, quindi ben vent’anni dopol’attacco a Ceruno dell’esercito pontificio, che avrebbe dovuto, appunto, riportare la pace nellaValle.«Il 28 novembre 1584, sulle ore quattro del pomeriggio, tre giovani tornano dal mercato delmercoledì di Castel del Rio, dove hanno riscosso il denaro per la vendita di una cavalla, e sidirigono verso Tossignano, dove l’indomani c’è il solito mercato del giovedì, prima di far ritornoa casa. Sono Riccio, Lorenzo e Antonio dei Borzati di Castel Bolognese. Lungo la strada vengonoraggiunti da altri tre uomini, Mariotto e Cesare fu Rinaldo dei Giacometti da Ceruno, abitantinel comune di Ossano, Stato di Tossignano, di cui è signore il Cardinale Altemps, e Pietro, dettoPiero da Valsalva, del fu Andrea, loro fratello defunto.Poco dopo sopraggiunge un certo Chilano di Gabriele dei Mita, abitante a Cona, luogo di messerObizzo Alidosi, che porta un archibugio lungo, mentre i Giacometti sono armati di archibugioa ruota.Tutti sono diretti al mercato di Tossignano e così si accompagnano, chiacchierando.Poco oltre l’Ospedaletto di Carseggio, sulla strada, c’è una casetta disabitata, detta la Bottega,e Cesare Giacometti che precede gli altri insieme a Pietro e a Lorenzo di Castel Bolognese,abituato da tempo a stare all’erta per i pericoli che minacciavano la sua gente e i viandanti,lancia un’occhiata sospettosa da una bassa finestrella.Immediatamente dà l’allarme con un cenno di mano significativo e si mette a fuggire, gridandoagli altri di disperdersi per i campi perchè sono caduti in un’imboscata. Mentre i sette uominifuggono alla impazzata, dirigendosi verso l’abitato di Corseggio, scoppiano le primearchibugiate.Mariotto salta dalla strada sul terrapieno seguito dagli altri, poi si abbassa correndo per i campie segue un rialzo di terreno che lo protegge dai colpi. Si è reso conto subito della gravità dellasituazione quando si è visto preso di mira dal suo nemico, Alessandro Ravaglia, il primo uscito.Dalla casetta escono infatti, sparando e gridando: «Carne, carne, ammazza, ammazza!», quelliche vi si erano nascosti in agguato; sono parecchi, i Ravaglia Ceroni di Sassoleone e di Croara,di San Martino e di Monte Romano, che capeggiano la masnada e hanno giurato di far la pelleai Giacometti; i Lolli Ceroni di Casola Valsenio, alcuni dei Galanti di Fontanelice, mentreaccorrono verso gli inseguiti anche i Merlini di Carseggio e di Sassoleone, che stavano appostatisopra la chiesa del paese.I fuggiaschi, tra cui i tre malcapitati giovani di Castel Bolognese, che non sanno nulla dell’odioche c’è fra i Ceronesi, si dirigono verso le prime due case. Il Riccio si trova a salire una scalainsieme a Piero da Valsalva quando viene raggiunto da una schioppettata alla coscia destra esi abbatte, ma il giovane Piero, che ha avuto il cappello forato da una palla, la mascella destracolpita di striscio sopra la barba e la cassa dell’archibugio spezzata da un terzo proiettile, lotrascina dentro, mentre le palle si conficcano nella porta, rompono le imposte e scrostano i muri.È una casa di proprietà di messer Ciro Alidosi. Gli altri cinque sono stati più fortunati: soloMariotto ha avuto la gabbana forata da parte a parte da un colpo, ma è illeso e così gli altri, che

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17 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 75.18 S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 237-246.

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a precipizio si sono rifugiati in una casa attigua, abitata da Camillo Ugolini da Carseggio, chein quel momento non c’è, mentre accorre urlando di spavento la moglie Margherita.Sprangate le porte e impugnate le armi, sorvegliano dalle finestre le mosse degli assalitori,evidentemente delusi per l’insuccesso, ma Mariotto, che è il capo dei Giacometti Ceroni, sipreoccupa anche del nipote Piero che riesce a raggiungere da un cortiletto interno e a far entrareinsieme al Riccio nella stanza dove stavano gli altri. Così i sette uomini sono tutti riuniti e sipuò dire che l’hanno scampata bella.È tale la soddisfazione che Mariotto, intravisto dalla finestra il capo dei suoi avversari, AlessandroRavaglia, gli grida: «Ah, traditore, tu non hai fatto quello che pensavi!» e l’altro inviperito glirisponde: «Quello che non ho fatto lo farò, vi voglio addentare vivi e estirpare, razza di traditori!»,mentre la sua banda urla: «Fòra, fòra, becchi cornuti!». E si dispongono alle cantonate, sempresparando contro porte e finestre, ostinati a porre l’assedio alla casa, dal momento che è fallitala sorpresa.Sono tanti che gli assediati non li hanno riconosciuti tutti: […] una vera armata di banditi, diràil giudice al processo, elencando ben 82 nomi. […]Per tutta la notte e per buona parte del giorno successivo, fino alle 14, le parti avverse sifronteggiano accanitamente, rivelando la loro presenza con qualche colpo d’archibugio, finchèdalla parte del fiume Santerno si sente il rumore di una grande schiera che minaccia e schernisceallontanandosi.Sono i Ravaglia che tolgono l’assedio e scendono verso Macerata. […]I Rinaldi-Ceroni di Tossignano erano partiti alla riscossa. Il loro capo, messer Orazio diCompadretto, aveva avuto notizia al mattino dell’agguato teso ai suoi e con una ventina d’armatisi era portato a Borgo, spedendo subito a Casalfiumanese un suo garzone ad avvertire serBenedetto Morandi, notaio e cittadino bolognese, Vicario del paese per il Comune di Bologna,che un gravissimo episodio di banditismo era in corso nella sua giurisdizione di Carseggio, elo pregava d’intervenire con la sua Corte perchè senza di lui il Rinaldi non voleva sconfinaresul Bolognese per nessun motivo, anche se certi suoi parenti erano in pericolo.Così verso le ore nove si mosse il Vicario da Casale, seguito dal suo messo Silvestro Zimbaloni,e da Antonio, Sabatino, Giovanni e Fabrizio Lolli Ceroni e alcuni altri, i quali tuttavia gli hannodichiarato che andranno con lui, ma non combatteranno mai contro i Ravaglia, ai quali sonolegati da un patto di pace.A Borgo incontrano messer Orazio coi suoi e tutti s’incamminano verso Carseggio.Giunti presso il castello di Gaggio, di cui è signore Nicola Alidosi, gli uomini del Rinaldi scopronoi Ravaglia al di là del fiume, e un vero assembramento d’armati nella villa di Macerata.Scoppia un uragano d’insulti e di provocazioni da parte dei Ravaglia, che sfidavano i Tossignanesia scendere verso il fiume: «Cala, cala, messer Orazio, che adesso è tempo! Becco, fottuto!»Ma il Rinaldi non rispose, anzi disse alle sue genti di non muoversi perché non era venuto acercare un fatto d’arme, ma solo per liberare quei suoi poveri parenti. E fece bene, perchè dall’altodi Gaggio un pastore che sorvegliava il suo gregge e vedeva benissimo le opposte schiere, SantoneSabatini da Fornione, racconterà che dietro un rialzo del terreno erano appiattati ben ventiduetiratori, che avrebbero preso tra due fuochi i Tossignanesi, se fossero discesi verso Macerata.Forse era il gruppo di Cedrecchia, località del Contado di Bologna, presso Monghidoro, datoche prima si era sentito diverse volte il grido «Cedrecchia, Cedrecchia!», segnale d’avviso o dichiamata a raccolta.Così le due schiere si fronteggiano per un paio d’ore, senza sconfinare dai rispettivi territori, e

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mentre messer Orazio attende presso la casa della Mattarina il gruppetto dei suoi di ritorno daCarseggio, il Vicario di Casale intima ai Ravaglia di fermarsi, in nome della giustizia, perchèegli rappresenta la «ragione».Quelli lo invitano ad un abboccamento, ma senza gli armati della «Corte», e ser Benedetto siavvia seguito solo dal suo servo.Gli viene incontro ser Franceschino Ravaglia con Gian Battista ed Ettore, tutt’altro che intimoriti;anzi, quando il Vicario dice che dovranno rendere conto del loro operato all’Uditore del Torrone(Tribunale per i processi criminali di Bologna), ser Franceschino risponde che nella sua tenutadi Macerata ci sono appunto i rappresentanti della Corte maggiore di giustizia, cioè un notaioper gli affari criminali e un Commissario dei banditi.E non mentiva, perchè un cursore del Tribunale sopraggiunge e invita il Vicario a seguirlo finoa Macerata, dove s’incontra con il notaio.Non mi risulta che cosa facessero quei due rappresentanti della legge in mezzo ai banditi, macerto fu strano il loro atteggiamento.Essi non sapevano nulla della sparatoria e il notaio si allontanò con la scusa di fare un sopraluogoa Carseggio.Fatto sta che il povero Vicario stava sulle spine, nè volle rendere testimonianza di quello chegli dissero, ma appena potè si tolse da quell’impiccio e, ritornato dai suoi, riprese la strada perCasalfiumanese. Non fece nemmeno una capatina a Carseggio per vedere che cosa era successoe rassicurare gli abitanti.Così si amministrava la giustizia nel secolo XVI, direbbe Manzoni.Anche i Rinaldi Ceroni, soddisfatti dell’esito positivo della spedizione, se ne tornano a Tossignano.Conclusa la drammatica vicenda, comincia quella giudiziaria.Le malefatte della banda sono ormai di tali proporzioni che il Tribunale del Torrone di Bolognaavoca a sè il compito di istituire un processo generale.Il 29 novembre stesso il notaio Domenico Cesare Capelli, accompagnato dal suo cursore FrancescoFranchi, si reca a Carseggio e comincia gli interrogatorii del ferito, Riccio di Negro dei Borzattidi Biancanigo, contado di Castel Bolognese, poi ascolta la deposizione della padrona di casa,ma costoro possono dire ben poco, quando non si comportano come Benedetto fu Sforza daValsalva, abitante a Carseggio, il quale vangava un suo campo quando cominciò la sparatoriae non volle nemmeno andare a vedere cosa succedeva perchè «in questo paese, quando se faarchibusate, chi non ha che farci se ne sta a far li fatti suoi.»Nei giorni successivi il massaro di Bastia di Codronco, Antonio di Carlino dalla Collina, fa lasua deposizione sull’accaduto, denunciando tutti i veri colpevoli, cioè i Ravaglia, e precisandoche il primo a sparare fu Alessandro Ravaglia. Le archibugiate sono state una cinquantina epiù e l’agguato è stato concordato a Sassoleone, a Casale e a Croara. Le provocazioni contro messerOrazio Rinaldi Ceroni sono state insultanti, ma il contegno del Tossignanese è stato irreprensibilee saggiamente non ha raccolto la sfida.Anche Poggiolino di maestro Lorenzo Poggiolini da Imola, che è partito con messer Orazio daTossignano, dichiara che si sono fermati nel territorio dell’Alidosi, che hanno ascoltato, ma nonaccettato le provocazioni dei banditi e che l’atteggiamento del Rinaldi è stato fermo e risolutonell’impedire atti illegali ai suoi uomini.Il 3 e 4 dicembre nella canonica della chiesa di S. Maria in Casalfiumanese vengono interrogatii protagonisti, cioè Mariotto, Cesare e Pietro dei Giacometti Ceroni, che offrono la stessa versionedei fatti, ammettendo che conoscono assai bene tutti i Ravaglia, coi quali sono anche parenti,

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ma non si spiegano i motivi della loro ostilità, cominciata nell’estate del 1583, quando i Ravagliaassassinarono un loro cugino, violando le paci fra loro pattuite nel 1565 e nel 1577.Viene interrogato anche il Vicario di Casale, che conferma i fatti e giustifica il suo atteggiamentorinunciatario per la presenza di magistrati inquirenti a lui superiori di grado.In realtà, come poteva far rispettare la legge coi suoi pochi armati, fra l’altro alleati dei banditi?Dopo gli interrogatorii effettuati sul posto, la scena si sposta a Bologna.L’l1 gennaio 1585 Mariotto Giacometti Ceroni compare davanti a quella Corte di Giustizia perpresentare contro i suoi nemici le copie delle condanne da loro riportate nel 1582 e nel 1584a Firenzuola, nel 1584 a Tossignano e consegna ai giudici gli strumenti delle paci stipulate frai Ceronesi nel 1565 e nel 1577, accusando i Ravaglia di averle violate.Il giorno stesso vengono citati a comparire davanti alla Curia, sotto pena del pagamento di 100scudi d’oro, quindici banditi […].Il cursore del Tribunale del Torrone recapita le citazioni, che si ripetono tre giorni dopo, secondola prassi, ma senza risultato.Il 14 gennaio vengono citati ben quaranta fuorilegge, e stavolta senza riguardi di casata e diclientela. […]Naturalmente anche costoro non si presentano affatto.Il 14 gennaio 1585 Mariotto si reca di nuovo a Bologna e a nome suo, per suo fratello Cesaree per il nipote Pietro Giulio fu Andrea Giacometti fa annullare dal Tribunale tutte le paciprecedentemente stipulate da parte dei Giacometti Ceroni dopo il proditorio attacco che hannosubito a Carseggio e l’Uditore del Torrone fa proseguire il processo contro i banditi che non sisono presentati e vengono definiti una “armata, id est conventi cola armatorum et bannitorumultra numerum centum quinquaginta hominum”».

2.6 Continuano i dissidi.Neppure dopo il memorabile terremoto del 1725 ebbero fine gli scontri nella Valle del Senio.«Neppure questo castigo giovò a por freno, e sedare le animosità fra i Casolani19. Continuaronoi partiti, e le fazioni ad onta delle reiterate paci in varii tempi stipulate. I Capi delle fazioni avevanoi rispettivi aderenti. I Fazionisti mantenevano uomini in armi col nome di sicarii per usarne avendetta alla circostanza di ogni piccola offesa. Frequentissimi erano gli omicidii e la giustiziarendevasi senza effetto. Non dimenticando di essere Ceronesi vendicavano anche i torti, chevenivano fatti ai loro amici, e s’interessavano a prò di chiunque al loro valore, e protezionericorreva. La loro sola presenza era bastante ad incutere timore, e rispetto. I birri stessi speditia Casola dal Governo non azzardavano di avvicinarsi, se prima non ottenevano dai Capi ilpermesso. Questo sistema durò più di cinquanta anni dopo, finchè essendo riuscito al Governodi far arrestare il Capitano Simone Linguerri Ceroni capo di fazione, e rinchiuso in una fortezza,cominciarono a deporre l’orgoglio, che a poco a poco si dissipò».

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19 P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 75-76.

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3. Lo stemma della casata Ceroni.

Stemma raffigurato nel libro del notaio P.S. Linguerri Ceroni, stampato nel 182520.

Oltre al nome gentilizio ed al palazzo, «altri segni trionfanti dell’alleanza mantenuta o forgiatada poco: l’arme, il blasone21.Il fregiarsi dello stesso blasone o della stessa arme, dello stesso colore, di un segno distintivoconosciuto, sembra sempre, nella mentalità dei nobili, l’affermazione di una fedeltà, di unaalleanza forte come quella del sangue.Anche in tempo di pace e da un paese all’altro, il blasone è un segno di unione tra i differentirami dello stesso clan. Quest’orgoglio dello stemma, il desiderio di segnare col blasone, in modo spesso ostentato,l’appartenenza alla stirpe nobile si affermano nettamente sulle rappresentazioni figurate dellecase e soprattutto precisamente su quelle delle navi.Dovunque in Italia lo stemma indica l’orgoglio della stirpe, la sua potenza e la sua indipendenzaanche di fronte allo Stato, all’ascesa politica del comune».Lo stemma della casata Ceroni è stato approfonditamente studiato dall’ingegner Pier GiacomoRinaldi Ceroni22. Si riportano di seguito le notizie più importanti su di esso.

3.1 Lo stemma originario. Cervo rampante con giglio su zampa destra. Cervo alnaturale, giglio d’oroo, campo azzurro.

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20 Le figura di questo paragrafo, ove non diversamente indicato, sono ricavate dal ciclostilato di P.G. RINALDI CERONI, Lo stem-ma dei Ceroni di Romagna.

21 J. HEERS, Il clan, pp. 138-142.22 P.G. RINALDI CERONI, Lo stemma dei Ceroni di Romagna, pp. 1-9.

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«Come tante famiglie di antiche e nobili origini, anche i Ceroni possiedono la loro leggendariguardante il fondatore della loro casata. Leggenda perchè non abbiamo alcun documento chela possa provare né tantomeno smentire e pertanto essa ci appartiene a pieno diritto. Per conoscerela configurazione originaria dello stemma dei Ceroni è necessario quindi leggere i brani del librodel Mita che riguardano la storia del fondatore della famiglia Ceroni, e di quando egli, dopoaver deciso di abitare questi luoghi selvaggi, decise quale doveva essere il suo stemma araldico.Fin dal tempo in cui Carlo Magno, cacciati i Longobardi dall’Italia, trasmise il regno al figlioPipino, un nobile e valoroso soldato, se fosse forestiero o di questa provincia se n’è perso il ricordolungo i secoli, per togliersi dalle grandi fatiche del servizio militare esercitato dalla giovinezzafino alla matura età, sia in tempo di guerra che di pace, abbandonò l’incarico che aveva e si congedòper poter ritirarsi insieme ai figli, in queste terre e abitarle.Poco tempo dopo, questo vecchio soldato, che aveva iniziato assieme ai vicini a cacciare le bestieselvatiche, (proprio) nel luogo dove oggi c’è il villaggio (di Ceruno ndr.) catturò un meravigliosocervo che i cani avevano stanato dai boschi. Il cervo, ormai senza lena, si fermò, come in atto disupplica ai piedi di quell’uomo chinando la testa.Il nobile soldato, che era di buon cuore, lo allevò con gran cura e lo tenne in vita per molti anni;poi subito costruì qui un villaggio con una torre ben salda eleggendolo a stabile dimora per sé eper i suoi prendendo (il buon) auspicio dal cervo volle che quel luogo fosse da tutti chiamato MonteCervino.In seguito, scegliendosi un nuovo stemma gentilizio, vi dipinse un cervo in campo azzurro che,ritto, tiene un giglio con la zampa anteriore destra.Era come se questo stemma, in modo assai grazioso, volesse trarre auspicio che gli abitanti diMonte Cervino avrebbero goduto, grazie alla bontà del luogo e del clima, vita lunga e felice eavrebbero perseguitato i superbi, cioè i nemici, alla maniera delle bestie selvatiche, come inveceavrebbero onorato ed abbracciato con tutto il cuore i Signori e gli amici.Col volgere degli anni, mutati i tempi ed i costumi, avvenne che il villaggio, per corruzione dellaparola, fu comunemente chiamato Ceronio mentre lo stemma rimase invariato, e la gente che diqui ebbe origine, fu detta da Ceronio o Ceruno.Da quanto descritto dal Mita sembra capire che il cavaliere avesse già un suo stemma gentilizio,ma che, traendo buon auspicio da quello che gli era accaduto durante la caccia, decidesse diprendere il cervo come suo nuovo stemma araldico. Ed il giglio allora cosa può significare?Visto che nulla aveva a che fare con la caccia al cervo, si può pensare che il giglio potesse averun collegamento con il suo precedente stemma o che fosse inserito come rispettoso omaggio alsuo ex padrone il Re di Francia.Riusciamo ad avere ulteriori informazioni sul periodo in cui accaddero le cose sopradescrittee pure la conferma che il giglio sulla zampa è da collegarsi al Re di Francia leggendo quantoscritto da Don Giovanni Antonio Linguerri Ceroni23:La morte d’Adriano (Papa) seguita nel 796 diede luogo, ed occasione a Leone III d’assumere ilTriregno. Contro di lui insorsero alcuni sediziosi del clero romano, che lo arrestarono, nellaprocessione di S.Marco, e lo batterono aspramente. A riparare questo scandalo, ritornò in Italiail Francese Regnante. Guidando seco i Milanesi, e i Faentini, nel 800 assediò Roma, e costringendoa cedere gl’empi sacrileghi liberò Leone dalle mani loro, dal quale ricevette l’Imperiale corona,e fu unto Re d’Italia insieme col figlio Pipino.

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23 Manoscritto sulla storia di Casola Valsenio mai pubblicato, del 1809.

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Facendo poi riferimento al manoscritto del Mita, che, ricordiamolo nel 1809 non era stato datoancora alle stampe, ma che Don Giovanni Antonio sicuramente aveva letto dall’originale, parlandodella leggenda sopra descritta dice:In tale occasione Carlo Magno permise ad un nobile, e prode guerriero, che seguito avea con moltalode i suoi stendardi in rischiose guerre, di ritirarsi ove più gli paresse a condurre in pace, in senoai propri figli, il rimanente di sua vita. Dall’immagine ancora del detto cervo ritto sui piedi didietro prese lo stemma gentilizio ponendogli un giglio sul piede della zampa anteriore che era ildistintivo del francese monarca suo padrone.In seguito aggiunge:Corrotto quindi il nome (del luogo, ndr), come suol accadere, fu denominato Cerone, Cirone, eCeruno l’anzidetto castello, che venne poscia accresciuto di molte Torri, e di comode abitazioni.Essendo i Ceroni uomini d’arme che andavano con le loro truppe a combattere per i diversiprincipi, signori, o Papi (fino a tutto il XVI secolo potevano disporre fino a 300 armati), eraindispensabile per loro riconoscersi facilmente durante la battaglia per evitare confusione ecorrere quindi il rischio di colpirsi a vicenda. Essi vestivano pertanto degli indumenti chepermettevano loro di riconoscersi e di distinguersi dagli altri durante il combattimento.A questo scopo i fanti Ceronesi avevano lo stemma del cervo dipinto sull’ elmo come dice ilnotaio Pietro Salvatore Linguerri Ceroni distintivo che nell’Elmo de’ Ceronesi anche si vedeva,mentre i cavalieri Ceronesi, cioè gli ufficiali, usavano indossare un cappello a larghe falde difeltro bianco24».

3.2 Prima modifica allo stemma. Aggiunta dei tre gigli al capo. XV Secolo (giglid’Angiò).

«Dopo alcuni secoli, poco più di sei seguendo i tempi indicati dai libri, cioè dall’ 800 a dopoil 1450, avviene la prima modifica allo stemma con l’aggiunta dei tre gigli al capo. Fu ciò unaonorificienza data dal Re di Francia a Nuccio Brunori Ceroni per aver combattuto eroicamenteal suo servizio con truppe Ceronesi. Probabilmente, come di solito accadeva, Nuccio avràcombattuto per il Re di Francia con un piccolo contingente di soldati Ceronesi visto che loroandavano in guerra in gruppi più o meno numerosi e l’onorificenza data al loro valore ed inparticolare a Nuccio come loro capitano, fu trasferita all’intera consorteria che fu autorizzataad inserire in capo allo stemma i tre gigli d’oro, detti d’Angiò.Leggiamo ancora dal Mita25 nel capitolo in cui parla dei Brunori Ceroni:

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24 S. BOMBARDINI, Archivio, p. 226.25 G. MENETTI, La storia, p. 48.

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Nuccio (Brunori), valoroso uomo d’armi che aveva a lungo militato in Francia sotto la bandieradi quel re e aveva ottenuto il consenso reale per aggiungere allo stemma dei Ceroni i gigli d’oroche sono l’insegna ricevuta dal cielo dai Re francesi, arricchitosi sufficientemente eresse nella chiesadi S. Lucia a Casola un altare dedicato alla Assunta, che dotò di un podere detto Turricchia (nellaparrocchia di Pozzo), per il mantenimento del Rettore, riservandosi, per i suoi, il diritto di patronato.Riusciamo a definire meglio il periodo in cui Nuccio militava per il Re di Francia attingendonotizie riguardanti la chiesa di S.Lucia dal libro “Le chiese della diocesi d’Imola” (1921) chePadre Serafino Gaddoni, noto storico imolese di questo primo quarto di secolo, scrisse su tuttele chiese, cappelle e organizzazioni caritative della valle del Senio. Parlando dell’altare dell’Assunta sopramenzionato, ne fa risalire la costruzione alla seconda metà del secolo XV.Debbo però ritenere che non tutte le famiglie della consorteria (i Mita ad es.) contribuirono coni loro soldati al buon successo di quella missione, quindi queste non furono autorizzate ad inserirequesta onorificenza nel proprio stemma.Tutti i gigli dello stemma Ceroni sono gigli d’oro di Francia e non gigli rossi del Granducato diToscana sotto cui i Ceronesi hanno tuttavia militato per moltissimi anni».

3.3 Ultima modifica allo stemma. Aggiunta della banda trasversale bianca, dilino. XVI Secolo (1533)).

«Possiamo dire con una certa sicurezza che fin verso la metà del XV secolo tutti coloro cheabitavano a Ceruno o nella sua area portavano il nome di Ceroni, sia che fossero proprio dellafamiglia Ceroni, sia che provenissero da altri luoghi. […]Dalla metà di quel secolo i Ceroni discendenti di Matteo, ritengo perchè molto numerosi e quindiper meglio distinguersi fra loro, iniziano a differenziare il loro nome ed aggiungono cognomeoriginale anche quello del rispettivo ramo famigliare.Questa divisione iniziata solo per riconoscersi meglio fra i membri della numerosa famigliadiventerà dopo il 1533 il segno di una disgregazione del grande ceppo in vari clan coalizzatigli uni contro gli altri. Fino alla gloriosa vittoria del 28 Ottobre 1523 dei Ceroni sulle truppeimolesi guidate dal Capitano Guido Vaini di Imola e da Ramazzotto Ramazzotti diScaricalasino (Monghidoro), la consorteria dei Ceronesi è sempre unita anche se alla vigilia diquesta battaglia iniziano i primi screzi tra i Ficchi Ceroni ed i Ceroni di Matteo detti i Lancieri,è tuttavia solo dopo undici anni che le cose degenerano fino ad un punto di non ritorno.È questo il capitolo più triste della storia della nostra famiglia, infatti dopo essere vissuti percentinaia di anni insieme in un’unica consorteria, in grande armonia, le diverse famiglie di Ceroni,detti anche Lancieri, cioè discendenti di Giovanni detto il Lanciere ed i Ficchi iniziano le ostilitàfra di loro.Accade infatti che Raffaello Brunori Ceroni viene assassinato ad Imola il 14 Maggio 1533 permano di alcuni Ficchi, fra cui il noto Galbetto. A causa di questo atto tutti i Ceroni (Lancieri)stringono un patto di amicizia e costringono i Ficchi ad allontanarsi da Casola. Mentre essi sidirigono in Toscana vengono presi in un agguato, organizzato dai Lancieri, a Biforco, localitàsopra Marradi - FI. Diversi sono uccisi fra cui lo stesso Galbetto.Questo atto di rottura definitiva all’interno della consorteria portò anche a differenziare il simbolofamigliare, cioè lo stemma, onde evitare che potessero sorgere possibili confusioni fra le famiglie;viene per questo messa una banda bianca di lino traverso lo stemma».

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3.3.1 Stemma dei Ceroni (Lancieri)

«Continuiamo la lettura del Mita26:Per istigazione di Ramazzotto cambiarono pure lo stemma che era fino allora comune alle duefamiglie aggiungendovi una fascia di lino traversante il cervo dell’arme in modo da distingueredel tutto i Ceroni dai Ficchi e dai Mita ed emanarono un decreto in forza del quale questo fosselo stemma riservato ai Ceroni anche in futuro, sempre Ficchi e Mita esclusi.L’intersecazione del cervo, se non sbaglio, simboleggia veramente l’odio mortale nella stessa famigliae ognuno converrà che giustamente è stata aggiunta allo stemma la fascia di lino (come benda)per fasciare le reciproche ferite.La famiglia dei Mita, a cui apparteneva lo storico Don Domenico Mita, che era di origine Ficchianche se si era staccata da questi con un ramo proprio, viene accomunata ad essi nella “condanna”da parte degli altri Ceroni. I Mita abitano ancora oggi nelle nostre vallate ed il loro stemma raffigura il solo cervo rampantesenza gigli. Invece la famiglia Ficchi (Fichi o Fechi), che erano di origine perugina prima di arrivare a Casolanel 1225, è praticamente scomparsa come nome. Si hanno però buoni motivi per pensare chequesta famiglia pur differenziandosi dagli altri, continuasse a farsi chiamare Ceroni e che talenome l’abbiano rimasto poi in seguito. […]Quello sopra è lo stemma finale della famiglia dei Ceroni (Lancieri) che dovrebbe essere pertutti con fondo azzurro (le linee orizzontali stanno ad indicarlo), tuttavia sempre per differenziarsi,le varie famiglie con il passare degli anni hanno cambiato il colore di fondo dello stemma. Icolori di fondo dello stemma per le seguenti famiglie ci risulta essere:Rinaldi Ceroni: Il fondo è tutto azzurro (esiste però qualche dubbio in quanto nelle duecassapanche che si trovano nella chiesa di Pagnano, che dovevano essere dei Rinaldi Ceroni,il colore di fondo è rosso). Compadretti (Rinaldi Ceroni): Rosso sotto il Cervo, azzurro sotto i tre gigli. Soglia Ceroni: Verde. Linguerri Ceroni: Azzurro sotto il cervo, rosso sotto i tre gigli. Poli Ceroni: Oro».

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26 G. MENETTI, La storia, pp. 83-85.

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Stemma dei Ceroni nella Chiesa di San Giacomo a Lepreno (BG)

Stemma alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Lo stemma risale al 1604.Trascrizione: Ungariae D. Marcus Cerronius Bresichellensis..

Stemmi alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna27.

Trascrizioni:Stemma a sinistra: Sardin. et Cypr. D. Paulus Polinus Ceronius Imolensis a Saxileone..

Stemma a destra: Romandiolae D. Marcus Cerronius Brisichellensis.

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27 Fotografie e riferimenti presenti nel database degli stemmi della biblioteca dell’Archiginnasio, consultabile in internet.

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3.4 I Motti delle Famiglie Ceroni.Continua l’ingegner Ceroni:«Sia quello dei colori di fondo che quello dei motti d’arme sono argomenti da approfondire meglioche lascio ad ulteriori studi. Siamo a conoscenza dei seguenti motti:- Ceroni di Lepreno “Altiora Peto” (Ad alte cose tendo)- Rinaldi Ceroni “Foris Cervus Intus Leo” (Fuori Cervo Dentro Leone)- Giacometti Ceroni “Sicut Cervus” (Veloce come il cervo)».

4. Il Castello di Ceruno.Il Castello di Ceruno fu costruito nella prima metà del secolo XII e appartenne alla famigliaCeroni, che lo tenne sotto il dominio dei Manfredi28. Nell’anno 1371 Ceruno o Ciruno era unavilla o Comune rurale del contado d’Imola.Del castello, scrive Leonida Costa29, resta oggi solamente una grossa e bassa torre circa quadrata,a scarpata inferiormente, e coperta di tetto a quattro spioventi. Si legge anche in un articolo di Beppe Sangiorgi, pubblicato dal giornale Sabato Sera il 30 gennaio1993, che «nel 1563 il Pontefice e il duca di Toscana mandarono ben quattomila uomini a bruciareCeruno e a disperdere la consorteria dei Ceronesi. Si salvò solo la torre, alta 15 metri per novedi base, e da allora intorno ad essa non ci sono state più guerre, né violenze». Acquistata daun noto avvocato bolognese e restaurata, la torre, continua il giornalista, «ancora per secoli potràcontinuare a ricordare una delle pagine più ignomignose della storia imolese».

5. Tre illustrissimi rappresentanti della gens Ceronia.5.1 Giovanni Cerroni. Racconta don Domenico Mita30:«In quell’epoca (primi secoli del XIV secolo) vi furono anche alcuni oriundi di Ceruno che sidedicarono (allo studio) delle leggi e si diedero con zelo all’apprendimento delle buone discipline.Questi giunsero alla Curia Romana per servirvi, secondo le loro capacità, a tempo e luogo e (aRoma) stabilirono infine una loro colonia.Fra questi, come ne fa fede il Villani e il Sansovino, ci fu un Giovanni Ceroni che nel 1351,per votazione popolare, fu elevato all’onorifico incarico di Governatore della città.Ai giorni nostri alcuni (di questi) Ceroni Romani abitano nella cittadina di Sezze e contano fraloro uomini illustri e di valore nelle scienze, i quali a seconda dell’occasione, si danno oall’educazione dei giovani o all’attività forense o al governo di popolazioni».Resta da dimostrare, come sottolinea Giancarlo Menetti, che questi Cerroni fossero originaridi Ceruno31. Giovanni Cerroni abbandonò il potere e la città nel 1352 e Roma tornò nelle mani dell’aristocraziache restaurò l’autorità senatoria.Si legge32 che Giovanni Cerroni apparteneva «ad una famiglia popolare ben nota nella Romadel Trecento». Le prime notizie che si hanno di lui coincidono al suo ingresso «in posizione diprimo piano nella vita politica della città. Lasciata Roma ai primi di Settembre del 1352 egli

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28 G. CAVINA, Antichi fortilizi, p. 363.29 In un ciclostilato inviato ai Ceroni nella ricorrenza della festa di S. Giacomo, il 6 Agosto 1996.30 G. MENETTI, La storia, pp. 31-32.31 G. MENETTI, La storia, p. 117.32 P. SUPINO MARTINI, v. Cerroni Giovanni, in Dizionario Biografico degli italiani, pp. 29-30.

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si rifugiò in Abruzzo dove comperò un castello e vi stabilì la sua dimora.A Roma è tutt’oggi presente una torre33 detta Torre dei Cerroni, dal nome di un’importante famigliamedioevale, si legge, probabilmente da quella dalla quale ebbe origine Giovanni Cerroni. L’aspettoesterno della cortina affrancherebbe questa tesi, poichè riporta ad un periodo attorno al XII-XIIIsecolo.

Torre Cerroni a Roma.

Stemma che si trova nel corpo di guardia di Castel Sant’Angelo a Roma.

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33 Collocata all’incrocio delle vie Giovanni Lanza e dei Quattro Cantoni è inglobata attualmente nel complesso della CasaGeneralizia dell’Istituto delle Figlie di Maria Ss.ma dell’Orto.

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5.2 Il Cardinale Giovanni Soglia Ceroni. Vescovo di Osimo e Cingoli.

Giovanni Soglia Ceroni nacque a Casola Valsenio l’11 ottobre 1779 da Giovacchino di fuBartolomeo e da Anna Braga, figlia di Carlo Felice34. Di pronta intelligenza, di carattere mitee sensibile, Giovanni venne presto preconizzato prete come lo zio, Mons. Giacomo Braga chedal vescovo d’Imola Gregorio Chiaramonti era stato scelto per suo segretario personale. Il suo maestro di latino, don Giovanni Antonio Linguerri, lo stimava come l’alunno migliore.Giovanni entrò in seminario a Imola con un buon bagaglio di cultura e già discreto latinista.Lo zio previdente ne pilotò la carriera: dopo pochi anni il Soglia è all’Università di Bologna peraddottorarsi in Teologia.

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34 Sintesi di notizie raccolte da Pier Giacomo Rinaldi Ceroni in occasione della richiesta di dedicare Via Soglia, in CasolaValsenio, alla memoria dell’illustre concittadino, denominandola “Via Card. Giovanni Soglia”. Dall’archivio personale del-l’ingegner Rinaldi Ceroni.

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A poco più di ventuno anni, dietro invito dello zio, Giovanni si recò a Roma, dove completòcon successo i suoi amati studi di diritto e fu introdotto alla Corte Pontificia. Ordinato sacerdote ebbe presto il titolo di cappellano privato del Papa che cominciò semprepiù ad apprezzarlo come bravo giurista ed equilibrato uomo di consiglio.Servì il Papa anche quando questi, imprigionato da Napoleone, fu condotto a Savona, dove rimasefino al 9 giugno del 1811.Allontanato poi dall’imperatore, fu rinchiuso per diversi mesi nella Fortezza delle Finestrellein Piemonte, fino a quando la prigionia gli fu mutata in confino. “Scegliesse dove voleva stabilirsima che non fosse a meno di 100 leghe dal Papa”. Così Monsignor Soglia ritornò a Casola.Trovando qui la gioventù bisognosa di un’istruzione adeguata, sorse nella sua mente l’idea didotare il proprio paese di due Istituti, uno maschile ed uno femminile.Il 2 aprile 1814 ad Imola si ricongiunse al Papa, finalmente liberato.Da quel momento rimase a Roma sempre accanto al Pontefice. Qui svolse la funzione dielemosiniere del Papa e insegnò a lungo diritto all’Archiginnasio della Sapienza. Ottenne dal Papa che fossero rivisti i confini della Comunità di Casola con quella di Brisighella,questione che agitò le due Comunità dal 1815 al 1823, cioè anche dopo che con motupropriodel 16 luglio 1816 del Papa, Casola estendeva di nuovo la sua giurisdizione fino al Sintria. Nel 1823 furono iniziati i lavori per i due Istituiti che Giovanni Soglia meditava di creare a Casola. Venne eletto vescovo di Efeso da Leone XII. Destinò un podere ricevuto in eredità dallo zio, Mons. Giacomo Braga, all’Istituto per le fanciulledel popolo. Divenuto Cardiale di Osimo e Cingoli riuscì ad ottenere, verso il 1845, che le Suore MaestreDorotee avviassero l’Istituto per le fanciulle.Convinto che ormai la sua carriera fosse finita e contento di vederla concludersi alla guidapastorale di una diocesi, il Soglia si dedicò a rivedere le ristampe del suo libro di diritto:“Institutionum juris publici ecclesiastici Libri tres” che stampato la prima volta a Roma conobbeben cinque edizioni di cui una spagnola e una francese. A Roma era stato parimenti stampatoil manoscritto di Domenico Mita “Ceroniae Gentis in Aemilia vetusta aliquot monumenta” cheforma la base per una successiva eventuale storia di Casola, e una vita breve di un beato, ilCasolano Giovan Battista Ridolfi. A Osimo volle dare alle stampe anche parte della produzionepoetica del suo maestro Linguerri.Nel 1848 il Card. Orioli, segretario di Stato, inviò una lettera al Soglia, pregandolo di recarsiimmediatamente a Roma per accettare la carica di Segretario di Stato. Orioli è malandato insalute e non se la sente più. Egli accettò e per sei mesi fu segretario di Stato e Presidente delGabinetto Mamiani prima, e quindi di quello che prese il nome da Edoardo Fabbri e che si chiuseper lasciar il posto a quello di Pellegrino Rossi assassinato in Novembre. Date le dimissioni il 10 novembre rientrò a Osimo e qui spese gli ultimi anni della sua vita peril bene della sua diocesi. Morì nella notte tra l’11 e il 12 agosto del 1856. Fu portato come in trionfo a Osimo e qui sepoltonella cattedrale fra il rimpianto di tutti. Casola gli tributò solenni onoranze funebri il 15 ottobre1856.

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5.3 Augusto Rinaldi Ceroni. Il giardino delle erbe.

Augusto Rinaldi Ceroni nasce il 15 dicembre 1913 al Cantone, una casa padronale poco a montedi Casola Valsenio, da Francesco Rinaldi Ceroni e Luigia Fabbri35. Il padre, oltre ad Augusto,gli impone profeticamente il secondo nome di Silvio, dal latino silva, cioè uomo della selva edel bosco. Per tutta la vita Augusto Rinaldi Ceroni dedicherà il suo interesse ed il suo tempo al mondodelle piante. La storia della sua vita, infatti, continua Beppe Sangiorgi, è la storia stessa dellepiante officinali e dell’erboristeria nella seconda metà del ‘900 in Italia. Il Professore, come tutti lo conoscevano, è stato tra i pochi pionieri che hanno raccolto il saperesulle piante officinali in epoca preindustriale e lo hanno difeso e coltivato negli anni deldopoguerra e dell’industrializzazione, quando l’economia, la società ed i modi di vita nazionaliandavano in tutt’altra direzione. Una battaglia condotta caparbiamente insieme allasalvaguardia del patrimonio storico, culturale ed ambientale del territorio del Comune di CasolaValsenio, che non volle mai abbandonare, in nome del grande amore per la sua terra, a costodi rinunciare ad importanti sviluppi professionali e di studio.Durante la sua vita è stato insignito di numerosissimi riconoscimenti ed onori, tra i quali laMedaglia d’oro per la quarantennale attività di formazione culturale dei giovani casolani e perla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturalistico della valle del Senio, conferitaglidall’Amministrazione Comunale di Casola Valsenio il 16 luglio 1984.Anche dopo la sua scomparsa, avvenuta il 14 dicembre 1999, Augusto Rinaldi Ceroni hacontinuato a gratificare il suo paese, lasciando la sua biblioteca scientifica e diversi rari volumidi storia locale alla biblioteca comunale di Casola e al Giardino delle erbe, a lui dedicato.Particolarmente importante è stata la donazione di un volume manoscritto della storia di CasolaValsenio, risalente ai primi dell’800.

6. La consorteria oggi.Scrive Renato Ceroni36: «Sabato 3 giugno 2000 si sono presentati all’ufficio del registro di Imola dodici rappresentantidella famiglia Ceroni di tutta Italia, per ufficializzare “LO STATUTO DI FONDAZIONE DELLARINNOVATA CONSORTERIA DEI CERONI.”.Hanno firmato il protocollo i signori: Averardo Ceroni di Montespertoli (FI), Eugenio Giancarlo

35 Le notizie per questo paragrafo sono tratte da B. SANGIORGI, Augusto Rinaldi Ceroni. Una vita per le piante officinali,Ravenna, 2003.

36 R. CERONI, Lepreno, p. 148.

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Ceroni di Novi Ligure (AL), Matteo Ceroni di Ravenna, Renato Luciano Ceroni di Mestre, RossellaCeroni di Imola, Giovanni Ceroni di Cotignola, Nino Ceroni di Imola, Don Guerrino Ceroniarciprete di Casola Canina, Francesco Rinaldi Ceroni di Castel Bolognese, Lorenzo Rinaldi Ceronidi Lugo, Pier Giacomo Rinaldi Ceroni di Casola Valsenio, Laura Zauli (di madre Ceroni) di Rimini,Giovanni Ceroni di Silvio di Lepreno frazione di Serina (Bergamo) e il conte Domenico SangiorgiCellini di Imola, di madre Giacometti Ceroni. Essi hanno poi eletto a presidente, l’ingegner PierGiacomo Rinaldi Ceroni, vice presidente Vicario il Dr. Renato Ceroni di Mestre e vice presidenteil Dr. Giovanni Ceroni di Cotignola». L’Associazione senza fini di lucro, persegue i seguenti obiettivi: • Riunire tutti coloro che si chiamano CERONI o con cognomi da questo derivato, come indicato

dal regolamento interno.• Promuovere il loro spirito di gruppo e consolidare gli antichi vincoli di parentela. • Approfondire gli studi sulla storia della famiglia con ricerche, pubblicazioni di libri,

monografie, articoli, organizzazione di conferenze, incontri, ecc.• Stimolare gli studi storici della famiglia con borse di studio e premi.• Mantenere viva la festa di San Giacomo a Casola Valsenio, protettore della consorteria dei

Ceroni. • Stimolare i giovani della Consorteria agli studi, arti e mestieri e premiare i più meritevoli.Scrive Renato Ceroni37 che «dall’anno millesettecento i membri della millenaria Casa Ceronidi Ceruno si ritrovano ogni anno a Casola di Valsenio, per mantenere tra loro i forti legami diamicizia, che già dal medioevo permisero alla famiglia di avere la signoria incontrastata dell’altavalle del Senio, di cui rimangono ancora oggi testimonianze nella rocca di Ceruno, al Cardelloe in varie altre costruzioni e anche in chiese della zona».

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37 R. CERONI, Lepreno, p. 149.

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Bibliografia

Memorie biografiche di que’ uomini illustri imolesi le cui immagini sono locate in questanostra iconoteca che si distinsero in ogni ramo di scienze e nelle belle arti presentate allagioventù imolese a modello e ad eccitamento d’imitazione dal loro concittadino CavaliereLUIGI ANGELI, Imola, 1828

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Indice

Prefazione 7

Capitolo 1

1. Le regioni pontificie nel XV secolo. 91.1 Comuni e signorie in Romagna. 10

2. Lo scisma d’Occidente. 112.1 Il Concilio di Pisa. Il grande scisma. 122.2 Gli effetti dello scisma a Imola e Tossignano. 12

2.3La fine della signoria di Lodovico Alidosi dopo il Concilio di Costanza 142.4Il signore: tra storia e leggenda. 163. Il pontificato di Eugenio IV. Continui disordini in Romagna. 17

3.1 La signoria dei Manfredi di Faenza. 184. Nuovi equilibri sotto Niccolò V. 20

4.1 La signoria di Taddeo Manfredi a Imola. 204.2 Nuovi contrasti tra Taddeo e Astorgio Manfredi. 21

5. Galeazzo Maria Sforza a Imola. 226. La signoria di Girolamo Riario e Caterina Sforza. 24

6.1 Il Contado di Imola dopo la morte di Girolamo Riario. 256.2 Caterina al governo di Forlì e di Imola. 25

7. Cesare Borgia in Romagna. La lotta contro Caterina Sforza. 268. L’elezione di Giulio II e la penetrazione veneziana in Romagna. 26

Capitolo 2

1. La Romagna: territorio e società nel secolo XV. 291.1.Vie di comunicazione e contrabbando. 30

2. Potere pontificio e poteri locali. 322.1. Il governo della Provincia. 322.2.Governatori e podestà locali. 342.3. I funzionari camerali della Provincia. Il bargello. 35

3. Il contado di Imola nel XV secolo. 363.1.La giurisdizione dei castelli del contado. 373.2. Il castello di Casola. 38

4. La debolezza del potere pontificio. Gli scontri tra fazioni. 394.1.L’affermazione del potere dei clan familiari: fenomeno tipico del

Medioevo italiano. 394.2.La concordia interna al clan come base per la conservazione del potere. 42

4.2.1. Guerra privata e vendetta. 434.2.2. Contese private e rivolte urbane. Le paci e le tregue. 444.2.3. Potenza militare delle consorterie. 45

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Capitolo 3

1. Guelfi e ghibellini in Romagna. 471.1.Maghinardo Pagani a capo del partito ghibellino. 49

2. I Ceroni: le origini. 502.1.Un fundo qui dicitur Ceroni. 502.2.Ceroni di Romagna, Ceroni bergamaschi? 512.3.Uguccione della Faggiola contro il Castello di Ceruno. La consacrazione

dei Ceroni come paladini guelfi. 522.4. I Ceroni di Lepreno: guelfi o ghibellini? 54

3. I Ceroni, abili condottieri. 543.1. I Ceroni al servizio dei potenti. 553.2. I Ceroni contro i potenti. 56

3.2.1. Taddeo Manfredi e Marsibilia Sforza. 563.2.2. Comparino (o Compadretto) Rinaldi difensore di Monte Maggiore. 583.2.3. Ramazzotto Ramazzotti e Guido Vaini. 59

4. La fine del potere della Consorteria dei Ceroni. 644.1. I Ficchi Ceroni. 644.2. I primi dissidi all’interno della Consorteria. I delitti di S. Lucia

e di S. Cassiano. 664.3.La migrazione dei Ficchi da Casola Valsenio 684.4.La fine della signoria di Ramazzotto. 694.5. Il delitto commesso da Possente Poli. 714.6.Restitutio Offici Casulae Vallis Senni. 72

Capitolo 4

1. Le famiglie appartenenti alla Consorteria. 752. Lotte e tregue. 76

2.1. I Ceroni contro i Caroli. Il delitto Rondanini. 762.2.Storie di Ceronesi. 782.3.Scontri tra Ceroni e Cavina. L’eccidio di Valmaggiore. 782.4. I Ceronesi contro i Veroli. Lo smacco di Cesena. 822.5. I Ravaglia e i Lolli contro i Giacometti Ceroni. L’agguato di Carseggio. 852.6.Continuano i dissidi. 89

3. Lo stemma della casata Ceroni. 903.1.Lo stemma originario. Cervo rampante con giglio su zampa destra.

Cervo al naturale, giglio d’oro, campo azzurro. 903.2.Prima modifica allo stemma. Aggiunta dei tre gigli al capo.

XV Secolo (gigli d’Angiò). 923.3.Ultima modifica allo stemma. Aggiunta della banda trasversale bianca,

di lino. XVI Secolo (1533). 933.3.1. Stemma dei Ceroni (Lancieri) 94

3.4. I Motti delle Famiglie Ceroni. 96

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4. Il Castello di Ceruno. 965. Tre illustrissimi rappresentanti della gens Ceronia. 96

5.1.Giovanni Cerroni. 965.2. Il Cardinale Giovanni Soglia Ceroni. Vescovo di Osimo e Cingoli. 985.3.Augusto Rinaldi Ceroni. Il giardino delle erbe. 100

6. La consorteria oggi. 100

Bibliografia 103

Indice 107

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La Consorteria dei Ceroni è una Associazione senza fini di lucro, costituitasi Sabato 3 giugno2000 in Imola - BO, che persegue i seguenti

Obiettivi

• Riunire tutti coloro che si chiamano CERONI o con cognomi da questo derivato, come indicatodal regolamento interno.

• Promuovere il loro spirito di gruppo e consolidare gli antichi vincoli di parentela.• Approfondire gli studi sulla storia della famiglia con ricerche, pubblicazioni di libri,

monografie, articoli, organizzazione di conferenze, incontri, ecc.• Stimolare gli studi storici della famiglia con borse di studio e premi.• Mantenere viva la festa di San Giacomo a Casola Valsenio, protettore della consorteria

CERONI.• Stimolare i giovani della consorteria agli studi, arti e mestieri e premiare i più meritevoli.

I luoghi di origine dei CERONI

Si ritene che i Ceroni provengano originariamente da due luoghi ben precisi:Lepreno - Serina in provincia di BergamoCeruno - Casola Valsenio in provincia di Ravennae che i due gruppi siano collegati da vincoli di parentela come indicato dal manoscritto di DonDomenico Mita del 1627 che traccia la storia della famiglia dalle sue origini e cioè dall’800D.C. circa.

SAN GIACOMO è il Santo Patrono della Consorteria CERONI

Il santo patrono della consorteria Ceroni è San Giacomo maggiore (S. Jago di Compostela). Infattii Ceroni, edificarono in suo onore una chiesa a Lepreno di Serina (BG), nel 1095 circa, ed unachiesa a Ceruno di Casola Valsenio (RA) nel 1475.Dal 1778 la famiglia dei Rinaldi Ceroni si riunisce annualmente a Ceruno il giorno della suafesta (25 luglio) per ricordare i propri morti e per permettere ai membri della numerosa famigliadi incontrarsi e di conoscersi meglio. Da diversi anni l’incontro annuale, che si tiene in estate,si è allargato a tutti i CERONI ed in occasione di questi raduni vengono tenute relazioni sullastoria del casato e varie attività culturali.

LA CONSORTERIA DEI CERONI Via G. Matteotti 90 - 48010 Casola Valsenio - RA ; Cod. Fisc. 90018830399

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