intellettuali e potere

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intellettuali e potere .................................................... .... IL PRINCIPE SENZA CONSIGLIERE .... MERIDIANI RELAZIONI INTERNAZIONALI meridianionline.org novembre2012

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Il Principe Senza Consigliere

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Page 1: Intellettuali e Potere

intellettuali e potere....................................................

....IL PRINCIPE SENZA CONSIGLIERE....

MERIDIANIRELAZIONI INTERNAZIONALI

meridianionline.orgnovembre2012

Page 2: Intellettuali e Potere

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....... INDICE ....................................................................................................................................

pag.3 ‘900. La lotta degli intellettuali per l’affermazione di un’idea di Francesco Ventura

pag. 7 In Italia è scomparsa la figura dell’intellettualeIntervista a Massimo Fini

pag. 11 Antonio Gramsci, o solitudine dell’intellettualedi Marzio Maria Cimini

pag. 15 Heidegger, l’esempio di una vita vis-suta coerentemente in prima persona nel bene e nel male, attraverso la storiadi Jean Marie Rossi

pag. 19 Di come le colonne d’Ercole del po-litically correct limitano il pensiero degli intel-lettualiIntervista a Marco Tarchi

pag. 23 Anche gli intellettuali subisco-no l’anarchia del sistema internazionale nell’epoca post-globaledi Samuele Dominioni

Page 3: Intellettuali e Potere

Il potere delle idee, le idee al potere

‘900. LA LOTTA DEgLI INTELLETTuALI pER L’AffERMAZIONE DI uN’IDEA

Il novecento ha fatto vibrare violentemente il suono delle idee, che prese a prestito dalla politica hanno portato con loro enormi progressi e infiniti lutti alle società umane. Dopo un periodo in cui sembrava che non fossero possibili alternative al pensiero dominante, è tornato urgentemente il bisogno di ripensare la realtà attraverso chiavi di lettura nuove che si adattino ad un mondo sempre più complesso e assetato di idee.

La prestigiosa rivista americana di politica internazionale Foreign Affairs ha pubblicato nel gennaio 2011 un interessante volume intitolato “The Clash of Ideas. The Ideolo-gical Battles that Made the Modern World – And Will Shape the Future”. Il libro, edito da Gideon Rose e Jonathan Tapperman, è una raccolta di saggi politico-filosofici che hanno attraversato il novecento. Tra gli autori più significativi del volume si trova-no Benedetto Croce, Francis Fukuyama e Leon Trotsky. L’intelligenza dei redattori di Foreign Affairs è stata anzitutto nell’aver individuato nel potere delle idee una carat-teristica del secolo passato. Certamente non è possibile esaurire il novecento nel solo scontro di idee. In molti sostengono le tesi

geopolitiche per spiegare sia le due guerre mondiali contro la Germania che la guerra fredda: uno scontro tra le potenze di mare e quelle di terra, con diverse geometrie ma con identici significati. È innegabile però che potenti idee di interpretazione della modernità abbiano segnato la formazione di altrettanto potenti regimi politici.A ben guardare, il ventesimo secolo si pro-pone come tragico e sanguinoso apice di una tradizione lunga quanto la storia delle società umane. Una tradizione che subor-dina la politica alla filosofia e che indirizza la prima su sentieri sicuri. Che ne sarebbe stato dell’Atene di Pericle senza i sofisti, i “maestri di virtù” itineranti che si sposta-vano attraverso le rotte commerciali della

potenza attica? O di Roma senza lo stoici-smo di Seneca, di Cicerone e di molti altri uomini che indicarono nel sacrificio e nella rettitudine il modello comportamentale del vero romano? La storia proseguì nei secoli e dietro ogni grande regnante si poté scor-gere un potente pensiero filosofico – a volte laico, a volte religioso – a sostegno della sua politica. Anzi, si potrebbe azzardare che ogni grande regno sia stato la rappresenta-zione politica di un disegno filosofico. Ne è stato la consacrazione di uno nuovo o la continuazione di uno ereditato. Ne è stato la sua forma immanente, uno spazio nel quale regnasse un’idea di giustizia, nel quale si formassero determinati rapporti sociali ed economici, con diversi gradi di libertà e diverse concezioni dell’amore, dell’onore e della dignità. Con l’avvento delle scienze sociali, del trionfo della Ragione e soprattut-to della scienza economica, il potere degli intellettuali iniziò a configurarsi come qual-cosa di differente dal passato. Non più un’i-dea per un popolo, ma tante idee per uno Stato. Anzi, tante idee per tutti, usufruibili da tutti. Era l’inizio dello “scontro delle idee”. Era l’inizio della modernità, della società che si stava globalizzando, non solo geografica-mente ma anche culturalmente.Iniziava l’ottocento e il nuovo si andava strutturando intorno all’asse economico. L’idea di giustizia trovava fondamento nella

sua dimensione socio-economica di produ-zione-distribuzione-consumo della ricchez-za. Il conflitto veniva esasperato dalla prete-sa scientificità di ogni analisi. Ma era ancora una modernità acerba, e i filosofi conser-vavano saldi legami con la tradizione. Così, gli intellettuali trovavano ancora la maggior ambizione nell’insegnare agli uomini e alla Politica un’idea di mondo. Anche se questa idea era ora costruita intorno all’economia, colonna portante della modernità che aveva sostituito la relazione uomo-dio e uomo-natura nel definire la dignità e la giustizia. Adam Smith e Karl Marx erano economisti, ma anche storici e filosofi. Le loro opere non furono solamente opere economiche, ma veri e propri sistemi di analisi della real-tà, matrici di strutturazione logico-politica del sapere, chiavi di accesso alla conoscen-za. Non è un caso che proprio sulle basi dei loro due pensieri si sia sviluppato l’aspro conflitto senza confini del novecento. Due maniere di interpretare la giustizia econo-mica, quindi sociale, quindi umana. Le idee di Smith e Marx sono poi state riprese e declinate in diversa misura dai loro discepo-li, che raccolsero il testimone e offrirono alla Politica le armi per l’azione di propaganda e l’affermazione e la presa del potere. Perché infine la guerra delle idee fu guerra di potere e per il potere. A volte gli stessi politici si fe-cero intellettuali per rinsaldare e migliorare

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Page 4: Intellettuali e Potere

.................. f Ventura

la

fede e la

direzione politica. È

questo il caso di Antonio Gramsci,

che addirittura coniò il termine di “intellettua-

le organico” per consacrare la funzione dell’intellettuale in

relazione al potere e alla politica in genere. Ma è anche il caso di Lenin e di Hitler.Il novecento ha fatto vibrare violentemente il suono delle idee, portando con se enormi progressi e infiniti lutti alle società umane. La Politica, tuttavia, non è mai stata lasciata sola a se stessa. L’Unione Sovietica, gra-

zie all’idea – e a molti milioni di

morti –, ha condotto intere popolazioni fuori

dall’indigenza, dalla fame e dall’analfabetismo. Gli Stati

Uniti, seguendo un’altra idea – e con altrettanta sofferenza – hanno

condotto l’intero sistema interna-zionale verso progressi scientifici mai

neppure sognati in precedenza e portato prosperità in ampie zone del mondo. Anche l’Unione europea nacque seguendo l’idea che pace e giustizia si sarebbero ottenu-te rincorrendo quel sogno di Federazione europea indicato dal filosofo illuminista Immanuel Kant. Il novecento fu epoca di grandi idee e di grandi conflitti, almeno fino al collasso di uno dei due imperi ideologici. Quest’ultimo segnò la fine del conflitto di idee e avvenne mentre nel campo occiden-tale anglo-sassone era in corso una rivo-luzione senza spargimenti di sangue, ma epocale. Il mondo era pronto ad assaporare un nuovo grande brivido: la fine delle idee.Agli inizi degli anni ‘80 del novecento, nella parte occidentale del mondo, forze politiche che si spacciavano per conservatrici davano il via alla più ambiziosa delle rivoluzioni so-ciali: cancellare la società stessa. Il mondo, in questa ottica, sarebbe dovuto essere lo spazio degli individui e dei mercati. Niente

più comunità, niente più sentire comune, niente più conflitti di idee, niente più idee. Il relativismo assoluto sarebbe stata l’unica filosofia accettabile, perché non prevedeva alcun confronto e alcun conflitto. Il denaro avrebbe unito gli individui di tutto il mondo, e sarebbe stato lo strumento per raggiun-gere la ricchezza e la prosperità. Nella po-tenza di quest’idea si consumava il sacrificio ultimo degli intellettuali per l’idea stessa. Da quel momento in avanti sarebbero serviti

solo tecnici e matematici, che avrebbero studiato le nuove opportunità offerte dalla finanza globalizzata. La democrazia, imper-territa, avrebbe marciato verso il progresso e sarebbe diventata l’unica forma politica accettabile. E proprio perché unica non ci sarebbe più stato bisogno né di scontri, né di confronti. La sua affermazione non avrebbe contemplato altre idee. Quella stes-sa idea si è però infranta fragorosamente sul fallimento del progetto di esportazione della democrazia in Medio oriente. Il ritorno delle civiltà è stata la risposta ai deliranti proget-ti di annullamento delle differenze. Quella stessa idea si è infranta una seconda volta sulla crisi finanziaria, che ha riportato in auge la necessità di pensare il mondo come spazio di società.Oggi, da parte dei politici in occidente, vi è un’interessante ricerca di intellettuali in gra-do di fornire chiavi di lettura nuove, adatte a interpretare un mondo che si è rivelato più complesso di quello che ci si aspettava e che sembra essere sempre più assetato di idee. L’acqua con la quale dissetarsi è spor-ca e ci vorrà del tempo per ridare vitalità al mondo intellettuale-politico. Ma i giochi si sono riaperti. Parafrasando un po’ scherzo-samente l’immortale slogan di Marx, possia-mo esortare: “Intellettuali di tutto il mondo, dividetevi!”

.............................................IL pOTERE DELLE IDEE, LE IDEE AL pOTERE....... 6

Page 5: Intellettuali e Potere

mRI intervista Massimo fini

IN ITALIA è sCOMpARsA LA fIguRA DELL’INTELLETTuALE

L’Italia è in crisi, l’Europa è in crisi, l’occidente stesso è in crisi. Non è solo una crisi economica a minacciare le società occidentali, ma anche un impoverimento dell’universo culturale e l’insano rapporto che lega gli

intellettuali al mondo della politica. Ne parliamo con Massimo Fini, che prima di altri denunciò nel 1986, dalle pagine de L’Europeo, la questione morale che affligge gli intellettuali.

Lei ha scritto forse prima di altri della corruzione degli intellettuali (economica, morale ed intellettuale), quale vero se-gno di collasso di un paese, prima ancora della corruzione dei politici. Quali sono le doti secondo lei che un intellettuale deve avere nel suo rapporto con il pensiero po-litico, prima ancora che con la politica?

L’intellettuale naturalmente deve conoscere, tanto più se si occupa di questioni politi-che e non di letteratura, il pensiero politico: la storia del pensiero politico e il pensiero politico del suo tempo. Il rapporto col pote-re politico è molto semplice: l’intellettuale deve giudicare a 360 gradi. Non è che se una cosa mal fatta la fa qualcuno che si

inserisce nel suo solco di pensiero, allora si glissa sopra, mentre se la fa qualcuno avver-so a quel tipo di pensiero si picchia duro. La critica deve essere a 360 gradi anche laddo-ve nei principi di fondo si concordi.

Lei ha fatto riferimento a quello che po-tremmo definire una lottizzazione politica della società, una sorta di feudalizzazio-ne, nella quale anche l’intellettuale rischia di essere risucchiato. Questo è un po’ il pericolo...

Esattamente. Ed è quello che è successo in modo clamoroso in Italia. L’intellettuale invece deve essere uno che non appartie-ne a nessun feudo. Deve essere un libero

pensatore, ma ciò non toglie che abbia alle sue spalle una Weltanschauung. Deve però avere le mani libere nella critica o, eventual-mente, nell’elogio.

Pasolini, in quel famoso editoriale appar-so sul Corriere della Sera “Cos’è questo golpe? Io so”, diceva che l’intellettuale deve avere il coraggio della verità. Deve saper dire la verità. È ancora possibile parlare di verità (alla quale si può aggiun-gere la giustizia) senza cadere nel dogma-tismo?

Quale sia in assoluto la verità nessuno lo sa a parte quelli che credono in dio. L’intellet-tuale deve semplicemente dire onestamen-te quello che pensa, e non è detto che sia in assoluto giusto, a prescindere da qualsiasi legame di tipo partitico o, se vogliamo, per usare l’espressione che ha usato lei, feuda-le. Pasolini è un buon esempio, nel senso che diceva quello che pensava. Non è detto che tutto quello che pensava Pasolini fosse giusto, ma era il punto di partenza che era giusto e onesto. L’intellettuale, ma anche

il giornalista, non dovrebbe essere legato a gruppi di potere, altrimenti non fa più il giornalista o l’intellettuale. Ad esempio un giornalista dell’Unità degli anni ‘50 – lì giu-stamente poiché dichiarato – non faceva il giornalista, ma il propagandista.

Da tempo oramai il ruolo degli intellettua-li è stato soppiantato da quello dei gior-nalisti, degli opinionisti e addirittura dagli spin doctors come “maestri di pensiero”. Allo stesso tempo la politica sembra pro-gredire senza una reale visione organica di quale futuro voler raggiungere. C’è una relazione tra questi due processi? Ovvero, la politica non guarda più tanto lontano perché è venuto a mancare chi pensasse il mondo in una sua forma organica? Il Principe è rimasto senza Consigliere, per riprendere il titolo di questo dossier?

La figura dell’intellettuale in senso proprio, per lo meno in Italia, è scomparsa. Non mi sentirei di citare un nome di un intellettua-le a livello di Pasolini o di Bertrand Russell. Non c’è più la figura dell’intellettuale, ma c’è anche qualcosa di peggio: al mondo occidentale manca un pensiero filosofico. L’intellettuale in genere è un trasmettitore tra filosofia e realtà. Non c’è ora un pensie-ro filosofico che orienti in linea generale la politica e il presente. In occidente, morto

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NoN c’è ora uN peNsiero filo-sofico che orieNti iN liNea ge-Nerale la politica e il preseNte

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Page 6: Intellettuali e Potere

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Heidegger, non è più nato un filosofo. Non solo, ma direi che gli opinion maker, che una volta erano gli intellettuali, ora sono i conduttori di trasmissioni televisive o can-tanti o cose di questo genere. Conta molto di più l’esposizione mediatica piuttosto che altre doti. Ho detto prima che non ci sono intellettuali in Italia. In realtà ci sono ma non contano niente. Se pensiamo ai pochi filosofi che esistono in Italia – Giorello per dirne uno – la loro parola conta uno rispetto a un rutto di un cantante di prima linea.

Pensa che questo abbia a che fare con l’indebolimento delle autorità statali rispetto alle forze economiche? Che, per dirla in altra maniera, l’intellettuale si sia eclissato perché non c’è più la possibili-tà di incidere efficacemente sui rapporti umani e sociali, che per forza di cose ora sono di natura globale, attraverso una pratica di “buon governo”?

Questo senz’altro, ma sempre solo per quanto riguarda l’occidente, perché per altri luoghi potrebbe essere diverso. È fuor di dubbio che per esempio la cosiddetta glo-balizzazione abbia divorato e distrutto le identità nazionali, da cui poi nascono i fer-

menti intellettuali. Prendiamo il fascismo: sì, è stato una dittatura, ma è stato una dittatu-ra che ha anche espresso al proprio interno pensieri o fenomeni estremamente interes-santi. Basti pensare che noi siamo stati in quegli anni i primi nel design industriale. È chiaro che questo sistema economico tende a omologare tutto a un pensiero standard, che è poi il suo o, meglio, che è quello del meccanismo del pensiero di sviluppo che ci sta sotto. È quindi molto difficile avere un pensiero quando ce n’è uno così potente, che non è neanche un pensiero, ma è un meccanismo, che è unico. Quindi, in un sistema di questo genere, l’intellettuale fa grandissima fatica a emergere perché come minimo viene emarginato, spinto ai margini estremi del sistema. Non è che di intellet-tuali non ce ne siano stati in occidente negli ultimi anni. Penso in Francia a Baudrillard o Virilio. Però stanno ai margini del sistema e la loro parola conta molto poco.

La crisi economica ha rimescolato le carte. Crisi è però un momento di scelta. Quale spazio pensa ci sia nel futuro pros-simo per gli intellettuali, quelli dal pensie-ro olistico e onesto?

Sì, potremmo dire che crisi è anche sinoni-mo di rinascita. È indubbio che la crisi eco-nomica induce non solo gli intellettuali ma anche le persone comuni a riflettere sulla vita che si sta conducendo. Non solo adesso

che è un’epoca di vacche magre, ma sulla vita che si sta conducendo anche quando le cose economicamente vanno bene. Ovvero: se è una vita, questa, degna di essere vis-suta. Non è una cosa che riguarda in sé gli intellettuali, ma riguarda la massa. Mai come in quest’epoca sento le persone riflettere sul modello di vita, non perché adesso c’è la crisi, ma sul modello di vita in quanto tale, cioè quello sintetizzato nelle parole produ-ci-consuma-crepa. La crisi aiuta il pensiero, non c’è dubbio. Se si pensa a un momento critico, come quando si usciva dalla guerra, sì vittoriosa ma con mille problemi come è stato il ‘19 e il ‘22 e ciò che ne è seguito, si vede che da un punto di vista culturale ci sono notevolissime espressioni. Lo stesso vale per la Germania e per l’Europa intera. Gli anni ‘30, che per certi versi sono anni di

........................................................................................CON MAssIMO fINI....... 10

questo sistema ecoNomico teNde a omologare tutto a

uN peNsiero staNdard

l’ iNtellettuale aiuta a porsi dei dubbi, ed è questa la vera fuNzioNe dell’iNtellettuale

Massimo Fini. Giornalista. Attualmente lavo-ra per “Il Fatto Quotidiano”, “Il Gazzettino” e dirige il mensile “La Voce del Ribelle” con la collaborazione di Valerio Lo Monaco. Nella sua ricerca di spazi liberi, Fini ha collabora-to con quasi 100 testate. I suoi ultimi libri sono “Senz’anima” (Chiarellettere 2010) e “Il Mullah Omar” (Marsilio 2011), una biografia controcorrente del leader dei talebani.

crisi, sono stati anni estremamente fecondi dal punto di vista culturale e questo penso possa ripetersi adesso che c’è questa grande crisi. Il pensiero non nasce da un benessere beota, nasce in realtà da un disagio, quasi sempre. Siccome adesso il disagio c’è – non è ancora così profondo come sarà tra non molto – sicuramente produrrà pensieri. Ri-peto, non riguarda solo l’intellettuale, ma ri-guarda la gente normale. L’intellettuale aiuta a porsi dei dubbi, ed è questa la vera funzio-ne dell’intellettuale. Una verità obiettiva non esiste e il dovere dell’intellettuale è porre dubbi su quello che è il pensiero dominante, o i meccanismi dominanti, come in questo caso.

Page 7: Intellettuali e Potere

La cultura al potere

ANTONIO gRAMsCI, O sOLITuDINE DELL’INTELLETTuALE

La più alta intuizione di Gramsci, la più sofferta e acutamente avvertita, e cioè che la cultura, un complesso di idee, è oggi più forte che mai, più forte anche degli interessi, e si fa essa stessa egemonia, amara e contorta

fattispecie del potere, non ha ancora esaurito di proiettare sull’occidente la sua lunga ombra.

Gli occhi chiari di Gramsci, costretti nella gabbia di spesse lenti per quasi tutta la sua vita, erano il filtro perfetto per osservare il mondo. Persino il suo grottesco corpo ricurvo, offeso dalla tubercolosi che lo colpì da bambino, era perfetto per la sua attività preferita: stare alla scrivania. Che poi la sua anima fosse imprigionata in un corpo a sua volta imprigionato in una cella di carcere, non sembra aver fiaccato in alcun modo la potenza penetrante del suo sguardo: mai freddo eppure raggelante, fortemente mio-pe eppure chiaroveggente. Dal carcere di Turi, dove passò lunghi anni e dove fu spedito in barba alle franchigie dell’immunità di parlamentare, la sua voce

non ha smesso d’alzarsi. Col suo metro e mezzo d’altezza, Gramsci giganteggia sull’Italia con la potenza del suo pensiero, costretto così, in un paese che non ama i profeti e che si stanca subito dei suoi eroi, ad incarnare più di chiunque altro, nel XX secolo, la figura che maggiormente lo inte-ressava: l’intellettuale. Gramsci fu crociano, da ragazzo, e a Cro-ce destinò, da uomo, moltissima della sua attenzione di pensatore (tutto il quaderno numero 10). Ma Croce, che da vivo e nella sua lunga vita di abruzzese pingue e sornio-ne (mangiava novecento grammi di pasta al giorno, tra pranzo e cena, tutti i giorni) come un magnete attirò la limatura del

pensiero liberale europeo in un’epoca in cui l’Europa era stretta in una morsa di ecces-si politici forse pur’essi figli del liberalismo, oggi ha una voce fioca. Dopo tanti cambia-menti, per sentirla bisogna spostarsi sotto le arcate di Palazzo Filomarino, perché già in Piazza del Gesù, o in Santa Chiara, non se ne sente più la eco.Gramsci invece ci sveglia ancora nel cuore della notte – una notte di tenebra hegeliana dove brancoliamo sonnambuli – e poiché a lungo non è stato ascoltato, non ha ancora finito di dire quello che aveva da dire. La sua più alta intuizione, la più sofferta e acuta-mente avvertita, e cioè che la cultura, un complesso di idee, è oggi più forte che mai, più forte anche degli interessi, e si fa essa stessa egemonia, amara e contorta fattispe-cie del potere, non ha ancora esaurito di proiettare sull’occidente la sua lunga ombra. In un mondo appiattito e contratto come ci piace rappresentarci oggi il globo terraqueo, la sua lezione non ha perso un grammo d’attualità: solo la costruzione di sé, la for-za mitopoietica, conta. Il resto è inattuale vecchiume, affastellarsi d’armi e di stru-menti che non tornano più utili a nessuno. Gramsci s’accorge che sempre gli uomini sono pronti a ribaltare il mondo se credono in un’idea, e che il ribaltamento poi si riveli

foriero di catastrofi maggiori non impor-ta: la rettitudine è aliena all’animo umano. Dominare questa forza ctonia di passioni è potere; forse, la più alta manifestazione di potere. Ma se tutto è idea, se tutto è pensiero, e se sono i pensieri, e non gli interessi, a muo-vere gli uomini, ecco che tra costoro, e non su costoro, si alza l’eroe, il totem: l’intellet-tuale. Cos’è per Gramsci l’intellettuale? Una felice coincidenza farebbe d’ogni uomo, in quanto dotato di un funzionante cervelletto particolarmente sviluppato, un intellettuale. Ma questa è una brutta piega che hanno fatto prendere al pensiero gramsciano i suoi prodighi esegeti del Pci. È vero, Gramsci dice che ciascun cittadino, cioè qualun-que uomo che vive in società, se giusta-mente indirizzato può farsi intellettuale, e per questo deve essere favorito e aiutato. Ma Gramsci ha un senso troppo doloroso, troppo sanguinante della solitudine per convincere il lettore della facile vita dell’in-tellettuale (lettore che poi non c’è: i suoi celebri Quaderni dal carcere sono – della sua vastissima produzione di critico teatrale, di arringatore politico, di deputato comuni-sta, di intellettuale engagé, di instancabile compilatore di lettere – gli unici che non avessero un lettore immediato, più vicini al

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Page 8: Intellettuali e Potere

.................. MM Cimini

diario che all’opera di consultazione). Accanto a lui siedono Niccolò Machiavelli e Torquato Tasso, due uomini, due intellettua-li di altissimo valore, devastati dall’amarezza della vita e dalla tenebrosità del proprio ani-mo. Machiavelli (cui dedica tutto il quader-no 13) costretto ad un esilio interminabile dopo una carriera sfavillante. Tasso lacerato da un’incurabile malinconia, da un’insoddi-sfazione tenace per il suo operato, da una malattia mentale che lo strappò ad una gio-vinezza scintillante di mondanità e successi. Che Gramsci proprio, che sulla sua genera-zione fu quello che ebbe meno impatto, sia il formulatore della teoria dell’intellettuale organico (cui dedica tutto il quaderno 12), e cioè che vive all’interno della società che deve mutare, che ne conosce gli spasimi e le ferite, le antiche fratture e i soffi al cuo-re, le cicatrici e le tare genetiche, lui che è stato strappato alla rivoluzione e alla società all’acme della sua carriera e che ha vissuto nella solitudine di una cella fredda e squal-lida decenni della sua preziosa esistenza, è una triste nemesi della storia. Esiste, allora, questo intellettuale organico? Ho l’impressione che la sua sia un’esistenza postulata, un atto in potenza, forse in fieri, ma lungi dal reale: l’intellettuale, l’uomo di pensiero che vive del suo pensiero e prati-

ca esclusivamente il suo pensiero fine a se

stesso, non può essere organico, non può

mai starci dentro fino al collo: la sua diversi-

tà lo obbliga a venirne fuori come un Mün-

chhausen dal fango: tirandosi per i capelli. E’

una miserabile fandonia, una bugia troppo

a lungo raccontata, oramai lisa e neppur

più divertente, che in passato ci siano stati

intellettuali organici e che oggi ce ne siano

ancora, seppur in numero assai ridotto. Gli

intellettuali organici di cui parla Gramsci

devono, come lui, come Machiavelli, come

Tasso, o tirarsi via dal magma caldo della

vita o esserne cacciati a pedate, con la vio-

lenza. I venerati maestri (che devono sem-

pre aver fatto la gavetta arbasiniana della

“brillante promessa” e del “solito stronzo”)

non sono più organici di un cuore trapian-

.....................................................................................LA CuLTuRA AL pOTERE....... 14tato in un corpo malato: un elemento estra-neo, che può sempre essere rigettato, sep-pure necessario alla vita. Le idee che dominano il mondo sono sem-pre pensate nel buio recesso di una casa, al lume stancante di una lampadina da 40 watt, il più delle volte nella disperazione. E il famoso scrittore, il grande poeta, il giornali-sta acclamato che si fa passare per “intellet-tuale organico”, d’organico ha solo la stessa costituzione cellulare e genetica di uno scarto corporale, di un eccesso di bile, di una pustola putrescente. L’intellettuale vive e comprende il suo tempo nella solitudine, ed è questo solo elemento che gli consen-te di comprendere veramente a fondo il sistema circolatorio di quel grande corpo. L’intellettuale è un batterio che causa la sua morte prima ancora di quella del suo ospite, poiché ne patisce con maggiore acutezza tutti i mali. Infine il buon intellettuale è quello che d’or-ganico ha perduto tutto, di cui la terra ha as-sorbito le sostanze e se n’è fatte concime: i suoi sedimenti, la potenza del suo pensiero, non si giovano del suo corpo vivo, e sempre l’intellettuale è costretto a morire per essere ascoltato.

Page 9: Intellettuali e Potere

potere, nazismo e onestà intellettuale

HEIDEggER, L’EsEMpIO DI uNA VITA VIssuTA CO-ERENTEMENTE IN pRIMA pERsONA NEL bENE E

NEL MALE, ATTRAVERsO LA sTORIAMa se in uno spasmo d’onestà, così difficile per noi occidentali, realizzassimo che Martin Heidegger, che re-

gna sulla filosofia del novecento, troneggia proprio perché nazista, proprio perché figlio della cultura del suo tempo?

Noi tutti scegliamo di vedere quello che si addice di più a conservare la nostra per-sonale idea di mondo. Non è esattamente una questione di scelta, di libero arbitrio, ma perlopiù si tratta di un’esigenza biologica. E così come ogni cellula collabora con le altre al solo fine di autoconservarsi, allo stesso modo l’essere umano compie le sue scelte alla ricerca della massimizzazione della pro-pria forza o perlomeno della conservazione del proprio status quo. È una questione di potere. Natura umana, o forse natura mol-lusca. Questo è quello che noi sappiamo esserci con certezza, e non vuote parole su come vorremmo fosse la nostra umanità. Prima della filosofia, della sociologia, dell’an-tropologia o della psicologia, deve esserci

per forza la biologia con il suo dato nudo e crudo. Altrimenti tutte le nostre teorie presto o tardi si sveleranno come inesat-te o addirittura false. L’umana tendenza di applicare i fatti alle teorie e non le teorie ai fatti porta presto o tardi alla disfatta. Parafra-sando il gergo medico, abbiamo chiamato questo comportamento scotomia.E proprio di scotomia dobbiamo parlare nel caso di Heidegger. Proprio perché sono settant’anni che tutta l’intellighenzia cultu-rale dell’occidente si occupa del suo caso, scegliendo con una certa ottusa costanza di vedere in lui ciò che serve a se stessa per legittimarsi. Così invece che concentrarsi sul valore di un uomo che è stato forse il più grande filosofo del novecento, questa

burocrazia culturale continua ancora oggi nel tentativo di oscurare o di riabilitare la sua affiliazione al nazismo narrando storielle rassicuranti sul suo conto. Diversamente dal destino costato a Schmitt, e in parte a Jün-ger, Martin Heidegger e il suo pensiero non possono finire nella pattumiera della storia. Heidegger per primo intuì che noi esse-ri umani conduciamo le nostre vite come zombie. Una scoperta da poco diremmo oggi, ma per la metà degli anni venti dovet-te essere come quando Gutenberg inven-tò la stampa a caratteri mobili. Eppure su quell’intuizione descritta in Essere e Tempo del 1927, tutto il mondo occidentale si sa-rebbe arrovellato ancora per molti decenni. Così dicendo che la consapevolezza e la coscienza nella maggior parte delle nostre azioni quotidiane non svolgono alcun ruolo, Heidegger si frapponeva a tutti i filosofi precedenti a lui sostenendo che gli esseri umani non avevano bisogno di confrontarsi con il mondo esterno, perché essi “sono-sempre-già-nel-mondo” e quindi immersi in quell’insieme di abilità tecnica che lui chia-mava mondo. E per chi non ne capisse una mazza di filosofia, fu come prendere Erasmo e il suo libero arbitrio e trattarlo come una favola da leggere ai bambini la sera prima di andare a dormire. Se da una parte dava il “la” alla riflessione sul nostro inconsapevo-le essere degli zombie, dall’altra teorizzava

l’essenza della tecnica di cui oggi chiunque si riempie la bocca parlando appunto di “domino della tecnica”. Un pensiero radicale il suo. Un pensiero che induce a pensare che sposandolo si possa vanificare l’intera morale umana, dal criterio di scelta fino a quello di responsabilità. Perché se tutto è determinato dalla tecnica, che senso ha dire che siamo liberi di scegliere?Va da sé che Heidegger non poteva essere gettato al fuoco con tutto il nazismo, poiché il suo pensiero è de facto alla base dell’i-deologia occidentale. Sempre per parlare di fatti, è innegabile che Heidegger non solo fu nazista della prim’ora, ma lo fu per tutto l’arco della sua vita. Quando, finita la guerra, avrebbe potuto chiamarsi fuori con una scusa qualsiasi, lui non lo fece. Diver-samente fecero molti altri intellettuali, sim-patizzanti e gerarchi che l’occidente aveva bisogno di salvare dalla gogna per ottenere poi un vantaggio nello scontro che iniziava a definirsi con l’Unione Sovietica. Un com-portamento dannatamente onesto per colui che la morale l’aveva resa non solo innocua ma persino futile agli occhi della storia e dell’umanità. Un comportamento così one-sto alla cui luce i recenti tentativi di moltis-simi liberal democratici critici di Heidegger sembrano essere esattamente quello che sono: i fautori del tentativo di demonizzar-lo per la sua affiliazione al nazismo perché

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Page 10: Intellettuali e Potere

................. JM Rossi

altrimenti incapaci

di liquidare il suo pen-

siero perché troppo duro da

sciogliere. Trop-po duro da farci i

conti. E se da una parte lo si demoniz-

za, dall’altra si tenta di riabilitarlo. Si è sostenu-

to che non sia mai stato realmente un nazista, ma

che abbia fatto solo alcuni compromessi per salvare l’au-

tonomia dell’università di Berli-no di cui era il rettore. Si ha fatto

ricorso anche alla scusa secondo cui la sua affiliazione sarebbe stata

solo un errore per un periodo limi-tato – quasi un errore di gioventù. Ma

se in uno spasmo d’onestà, così difficile per noi occidentali, realizzassimo invece

che quest’uomo che regna sulla filosofia

del novecento troneggia proprio perché nazista – proprio perché figlio della cultu-ra del suo tempo? Che cosa succederebbe se guardassimo al nazismo, per quanto è possibile, con lo sguardo dello scienziato e non con gli occhi del manicheo? Che cosa succederebbe se finalmente realizzassimo che buona parte dei successi dell’Occiden-te dopo il 1945 sono sopraggiunti grazie alla cultura e alla tecnologia che si sono sviluppate in Germania sotto la spinta dell’i-deologia nazista? Porre queste domande non farebbe di noi simpatizzanti nazisti, ma piuttosto ci aiuterebbe nella riflessione su quello che ci è successo nel periodo nazio-nalsocialista.Nel 1933 Goebbels iniziò i suoi celebri falò di libri per cancellare gran parte della cultura ostile al regime. Tentò di bruciare le tracce culturali della repubblica di Weimar, e con loro anche i suoi più grandi pensatori come Marx, Mann, Brecht, Adorno, Benjamin, Einstein e Freud. Furono eventi brutali, ma in un certo senso necessari. La Germania di allora non poteva camminare con la zavorra della repubblica weimariana: è un fatto noto che chi ha troppo passato non può avere un futuro. Noi non uccidiamo più i nostri av-versari politici, deprechiamo queste azioni, ma non possiamo neanche tenere il piede in due scarpe, volere capra e cavoli. Proprio in questo, più che nelle sue grandi intui-

zioni, sta il valore della figura di Heidegger, il valore di un uomo onesto con gli occhi bene aperti.

....................................................................pOTERE, NAZIsMO E ONEsTà INTELLETTuALE....... 18

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mRI intervista Marco Tarchi

DI COME LE COLONNE D’ERCOLE DEL poLITI-CaLLy CoRRECT LIMITANO IL pENsIERO DEgLI

INTELLETTuALI La figura dell’intellettuale e il suo rapporto con la politica si sono modificati nel corso dell’ultimo secolo. Ora i nuovi media, la struttura del sistema internazionale sempre più fluido e un sistema economico asfissiante hanno messo ai margini il libero pensiero e hanno spinto gli intellettuali a corteggiare il potere per un posto sotto i

riflettori. Ne parliamo con il politologo Marco Tarchi.

Qual è secondo lei il ruolo principale che un intellettuale deve ricoprire, in relazio-ne al potere politico e di governo, nelle democrazie liberali allo stato attuale?

Le dirò cosa che a mio avviso non dovrebbe fare: appiattirsi nel ruolo di consigliere del Principe, adeguarsi alle convenienze, rinun-ciare ad esercitare senso critico, confondere il proprio ruolo con quello dei politici di professione. Ed è invece quel che di regola accade. Gli “uomini di idee” dovrebbero far sentire la loro voce senza condizionamenti e sforzarsi di apportare un contributo al di-battito sulle soluzioni ai tanti problemi oggi in atto, in quelle condizioni di pluralismo che una democrazia dovrebbe garantire.

Il ruolo dell’intellettuale classico viene a volte fatto coincidere con una struttura della società e della cultura particolar-mente gerarchica e olistica, nel migliore dei casi aristocratica. In una società indi-vidualista, il ruolo dell’intellettuale rischia di essere confuso tra le tante voci del mondo della comunicazione. Che rappor-to vede tra il ruolo dell’intellettuale e il rischio del dogmatismo culturale?

Un rapporto molto stretto, non di rado soffocante. Il mondo intellettuale è oggi dominato da rigidi criteri di legittimazione e discriminazione. Le voci che si colloca-no fuori dal coro (un coro che può, in una limitata misura, essere dissonante dagli

spartiti che regolano il concerto propria-mente politico, ma non deve emettere note stridule) sono messe al bando dai circuiti che contano, coincidenti con i canali della comunicazione di massa. E se un tempo un libro o un manifesto poteva creare scalpore e controbilanciare i silenzi della stampa e persino della televisione, nell’epoca attuale non apparire su uno schermo e non poter contare su una cospicua audience equivale a non esistere. Lo aveva capito e denuncia-to Solzenycin già trenta e più anni orsono: se ti tagliano i fili del microfono, è come se ti avessero tappato la bocca. È stato buon profeta, e ha sperimentato personalmente quel destino. Poi è venuto il turno degli altri “malpensanti”. Mentre allignano in tutte le sedi massmediali i parlatori, i tuttologi, i moralisti che seguono sempre la corrente.

Quale spazio può ritagliarsi un intellet-tuale che si occupa di politica nel mondo dei nuovi media, sempre più istantanei e meno riflessivi?

Uno spazio esiguo, un piccolo interstizio in cui ha perlomeno il gusto di dire o scrivere quel che vuole, sapendo però di offrire una versione aggiornata della metafora del nau-frago che lancia il suo messaggio in bottiglia nell’oceano: ci sono scarsissime possibilità che qualcuno lo raccolga. Internet rilancia soprattutto le voci e le opinioni dei già noti, di coloro che si sono precostituiti un ampio pubblico altrove. Le mode che si connet-tono alla popolarità spingono ad andare a cercare i “famosi” anche in rete. Un’alterna-tiva è lanciare uno scandalo, per far colpo. Ma così ci si trasforma in personaggi dello spettacolo, e della riflessione vanno perse anche le tracce.

Il ruolo dell’intellettuale è passato dall’in-dicare possibili vie ad interpretare clini-camente la realtà. Questo ha però lasciato la politica orfana di chi potesse aiutarla a immaginare futuri percorribili. Questo pensa possa essere legato ad una situa-zione strutturale del sistema internazio-nale? In altre parole, la rinuncia dell’in-tellettuale ad indicare una via è anche la

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Nell’epoca attuale NoN apparire su uNo schermo e NoN poter coNtare su uNa co-spicua audieNce equi-vale a NoN esistere

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Page 12: Intellettuali e Potere

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rinuncia della politica a plasmare e guida-re una collettività davanti a sfide troppo complesse?

Se gli intellettuali interpretassero “clinica-mente” la realtà, sarebbe già un dato posi-tivo. Il guaio è che molti di essi si limitano a commentarla faziosamente, secondo la logica del wishful thinking. Ci sono problemi che promettono di produrre conseguenze di estrema gravità – il primo che mi viene in mente è l’immigrazione, ma se ne potreb-bero enumerare vari altri – ma sui quali un libero confronto di opinioni è impossibile, per non dire impensabile: o ci si allinea ai parametri del “retto pensiero” dominante, o è meglio tacere per evitare di essere messi al bando. La situazione del sistema interna-zionale è certamente una variabile signifi-cativa per comprendere i motivi di questa censura, anche se non so se si possa consi-derarla quella principale. A dettare i criteri di ammissibilità di un’opinione è lo spirito del tempo dell’epoca in cui viviamo, e su di esso incidono molteplici fattori: il peso dell’e-gemonia statunitense, senza dubbio, ma anche gli effetti di medio e di lungo periodo dei grandi traumi del XX secolo. A scoraggia-re gli intellettuali dall’indicare alla politica vie

diverse da quella su cui il nostro tempo si è incamminato è l’anatema scagliato contro tutte le ideologie alternative al liberalismo dai maestri pensatori incoronati dai media, che non perdono occasione per descriverci gli scenari apocalittici ai quali andremmo incontro se osassimo anche solo pensare un mondo migliore di quello in cui viviamo. Un uso sistematico del ricatto della memoria pretende di vincolarci all’eternità dello stato di cose presente. In queste condizioni, il de-stino dei “cani sciolti” è di restarsene in qual-che nicchia poco frequentata, al riparo dai luoghi che contano nel dibattito pubblico, a meno di non correre il rischio di imbattersi negli accalappiacani…

La crisi economica ha rimescolato le car-te. Crisi è anche e soprattutto un momen-to di valutazione e scelta. Quale spazio pensa ci sia nel futuro prossimo per gli intellettuali, quali consiglieri indipendenti della politica?

Come avrà capito, sono tutt’altro che otti-mista. Il sistema di potere attuale ha impa-rato e messo in pratica a proprio profitto la lezione gramsciana: sa che per stabilizzare l’egemonia politica deve garantirsi il con-

senso della società civile, e per questo ne satura i canali comunicativi, esercitando un attento controllo su tutte le fonti di possibile dissidenza. Le parrà una visione estremiz-zata, che acutizza gli schemi analitici della Scuola di Francoforte (la scuola filosofica e sociologica neomarxista rappresentata nel mondo da Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas, ndr), ma è solo una fotografia della realtà che stiamo vivendo. La sofistica-zione tecnologica delle forme comunicative consente ormai a chi dispone delle maggio-ri risorse di far rimbalzare ovunque, in tem-po reale, i messaggi che intende diffondere. In occidente, il samizdat, la circolazione di mano in mano di testi e opinioni “proibiti” che a suo tempo mise in crisi le basi del sistema sovietico, non ha efficacia. Ovvia-mente, agli intellettuali è consentito espri-mersi, e anche di proporsi come consiglieri dei politici, purché però il loro pensiero non varchi le colonne d’Ercole del politically correct. Esibire il sostegno di qualche nome noto dell’accademia o del mondo letterario e artistico fa sempre piacere; vedersi criti-care o porre quesiti scomodi, no. Non mi pare che la crisi economica abbia sinora aperto spiragli significativi in questo panora-ma blindato. Anche se qualche guastafeste comincia a farsi sentire, attirandosi subito l’attenzione malevola dei guardiani dello status quo e le cannonate della loro artiglie-ria pesante.

......................................................................................CON MARCO TARCHI....... 22

iNterNet rilaNcia soprattutto le voci e le opiNioNi dei già Noti

il sistema di potere attuale ha imparato e messo iN pratica a proprio profitto la lezioNe gramsciaNa

Marco Tarchi. Politologo. Attualmente inse-gna all’Università di Firenze, facoltà di Scien-ze Politiche. È presidente del corso di laurea in Scienze Politiche. I suoi ultimi libri sono stati “Contro l’americanismo” (Laterza, 2004) e “La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra” (Vallecchi, 2010). Dirige la rivista Trasgressioni.

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Dal potere dell’azione al potere dell’interpretazione

ANCHE gLI INTELLETTuALI subIsCONO L’ANARCHIA DEL sIsTEMA INTERNAZIO-

NALE NELL’EpOCA pOsT-gLObALEÈ tramontato il tempo degli intellettuali, della Normale di Parigi e dei pamphlet rivo-luzionari. Sembra siano passati secoli. Inve-ce meno di cinquant’anni fa nelle capitali europee e in certe metropoli americane si respirava ancora un’aria di speranza e ideo-logismo escatologico. Solo per considerare la Francia, paese emblematico in tal senso, sulle rive della Senna passeggiavano perso-naggi come Sartre, Aron e Foucault. Il loro pensiero era azione e si espandeva in tutto l’occidente, ma non solo. Si viveva in una “Parigi della mente”. Questa è la descrizione che Tony Judt usa per descrivere l’eccita-mento cognitivo del tempo. Oggi l’influenza che i “maestri del pensiero” esercitano sulla società è decisamente mutata. Gli “uomini d’azione” sono divenuti “maestri dell’inter-

pretazione”. Non ci sono più eminenze che indicano la via attraverso la rigenerazione dell’umanità, nessuno ha più l’autorevolez-za necessaria per stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. La società occidentale sem-bra aver perso i nostromi in grado di guidar-la nell’oscurità del dipanarsi storico. La classe intellettuale è sicuramente una delle espressioni più peculiari del secolo passato. Il concetto che ne sta alla base è stato in altri tempi un grido di richiamo per attirare le attenzioni verso le rivendicazio-ni non realizzate dai philosophes. L’eredità storica ha influenzato il rapporto che via via si è caratterizzato per un odio-amore tra il maître à penser e la classe dominante di turno, creando una relazione che ha deter-minato lo status che l’intellettuale riceveva

nell’ambito della società nella quale era inserito. Il contesto storico di fine ottocen-to-inizi novecento permise alla classe degli intellettuali di trarre la sua legittimità dallo spazio di potere creatosi proprio dalla nuova morfologia sociale determinata dall’avven-to del capitalismo. In una società liberata dagli assolutismi, gli intellettuali assurge-vano finalmente al ruolo di legislatori, o meglio di funzionari dell’umanità. La classe politica e la società erano aperte e feconde verso nuove visioni, idee, discorsi. Durante i totalitarismi del novecento, gli intellettuali videro riconosciuto il loro ruolo dalle diver-se autorità. Fu proprio per questo motivo che si crearono delle profonde spaccature tra il fascino determinato dalla realizzazio-ne dell’ideale e la necessità di mantenere un spirito critico autonomo (che portò alla formazione dell’intellettuale di resistenza). Ma nel complesso la figura dell’intellettuale, e con essa l’importanza della cultura, rimase nettamente funzionale a servire la logica e la dinamica totalitaria. Basti pensare che per Stalin l’intellettuale era l’ingegnere dell’ani-mo umano.Nel corso del secolo scorso gli intellettuali raggiunsero il culmine del riconoscimento del loro ruolo. Con lo sgretolamento dei totalitarismi europei, rimasero però travolti

dalle macerie di quello stesso sistema che li aveva legittimati. La realtà sociale cambiò radicalmente, si andò formando la socie-tà dei consumi, con i suoi bisogni e le sue frustrazioni. Arrivò poi la società “eccitata” ove sono tutt’ora presenti le distorsioni del consumismo amplificate dalle propaggini del mondo dello spettacolo. A che scopo può servire ancora l’intellettuale per il fine politico in una realtà così mutata?Secondo il filologo Alberto Asor Rosa sul finire del XX secolo si verificò un’estinzione “paleontologica” degli intellettuali: le condi-zioni ambientali della società erano mutate verso un contesto dove il lavoro dell’intel-lettuale tout court non aveva più ragion d’essere e di esistere. Ed è così che il mito dell’intellettuale organico, ovvero funziona-le alla società in cui vive, passò in secondo piano. I maître à penser si erano dimostrati inefficaci e pericolosi nel prescrivere ricette per la trasformazione dell’umanità a model-lo di un’idea. Aveva forse ragione Anthony Burgess (l’autore di Arancia meccanica) quando diceva che: “noi non siamo la nuo-va razza e testardamente ci ostiniamo a non voler essere nient’altro che ciò che siamo – creature consapevoli dei propri difetti e creature determinate a dare a modo no-stro qualcosa in merito a quei nostri difetti.”

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.................. s Dominioni

Di fronte all’aftermath totalitario si rivelò la completa cesura tra la visione moderna del mondo rispetto a quella post-moderna ormai in espansione in cui si sollevò una ventata di relativismo della conoscenza che rese impossibile per l’intellettuale continua-re l’attività di legislatore: nessuno più poté professare idee universali e vincolanti alla luce di una fantomatica verità morale ed estetica.A partire dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale, pian piano la classe po-litica volle disfarsi del fardello intellettuale che nel corso del secolo precedente aveva portato l’uomo verso i più bassi e miseri livelli d’umanità di sempre. L’establishment politico, che si era reso conto della fallacia delle dottrine escatologiche, inaugurava un nuovo corso storico dove sembrava non voler più essere condizionato nell’eserci-zio del potere dall’organicità di un’idea, da una visione strutturata di un destino, da un chiaro disegno di ciò che era giusto e di ciò che era sbagliato. Piuttosto trovava linfa vitale al proprio fine nello sfruttare rivendi-cazioni demagogiche. La mutata conside-razione del politico verso gli intellettuali e più in generale verso la cultura come mezzo di partecipazione politica portò la classe politica verso una tendenza a considerare

gli individui sempre più come consumatori

e sempre meno come cittadini. La cultura

allora divenne uno mezzo per lo svago e

sempre meno un mezzo per la dialettica

politica. Tale degradazione del concetto

e della funzione della cultura, amplificato

dalle caratteristiche della società di massa,

generò il fenomeno della incultura. Anzi,

come l’ha definita Franco Fabbri, il fenome-

no della i-cultura, ovvero una programma-

zione limitata della cultura nel circolo mass-

mediatico proprio nell’epoca in cui sarebbe

molto più facile una fruizione di massa dei

suoi contenuti.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman

sottolineava come fosse mutato il servizio

svolto dai maître à penser nei riguardi della

politica e della competizione al potere. In un

.......................................................DAL pOTERE DELL’AZIONE AL pOTERE DELL’INTERpRETAZIONE....... 26saggio apparso nel 1987, Bauman sosteneva che il lavoro intellettuale era paragonabile metaforicamente al ruolo d’“interprete” della società. Esso consisteva pertanto nel cercare di tradurre i comportamenti, le affermazioni, le dinamiche che vi erano all’interno di una comunità in maniera tale che fossero rese comprensibili all’interno di un’altra comu-nità, con una tradizione diversa. Tale attivi-tà si fondava perciò sul presupposto della facilitazione comunicativa piuttosto che su quello della dialettica del potere.Che oggi l’intellettuale rivesta un ruolo e abbia uno status sociale meno influente è evidente. Meno immediato è capire se que-sta sua adombrazione sia dannosa o meno per la società, per gli individui e per la classe politica stessa. La crisi economica ci ha po-sto di fronte a degli interrogativi profondi e che ci destano dall’assopimento consumisti-co ove eravamo caduti. E’ stato un risveglio brusco, e non abbiamo trovato nessuno che ci abbia tranquillizzato. Spaventati, vaghia-mo dunque alla ricerca dell’interruttore per riaccendere la luce. Gli intellettuali, se non fossero relegati ad interpretare tale oscurità, correrebbero in nostro aiuto per tentare di orientare lo sguardo verso un nuovo lucore.

Page 15: Intellettuali e Potere

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meridianionline.orgnovembre2012

Coordinatore Dossier: Francesco VenturaEditing: Elena ZacchettiDesign: Valeria Maggi e Paolo GaninoIllustrazione di copertina: Marianeve Leveque