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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 69 GIUGNO 2018 CITTÀ DEL VATICANO Sante musulmane

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 69 GIUGNO 2018 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Sante musulmane

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numero 69giugno 2018

DONNE E SANTE

Una reale speranzaper le musulmane del nostro tempo

SAMUELA PAGANI A PA G I N A 3

SU`ÛD E DHU L-NÛN

L’eremita e la schiavaFRANCESCO CHIABOTTI A PA G I N A 11

FAT I M A DI SIVIGLIA

La madre spirituale di Ibn ‘ArabîSAMUELA PAGANI A PA G I N A 16

AL-SAY Y I D A AL-MA N N Û B I Y YA

Una donna polo dei poliNE L LY AMRI A PA G I N A 20

DONNE DI VA L O R E

Dorothy DayMARIA CLARA LUCCHETTI BINGEMER A PA G I N A 26

CO N S A C R AT E

Donne che abitano il mondo

NICLA SP E Z Z AT I A PA G I N A 29

PAOLO E LE D ONNE

La schiava possedutaESTHER MIQUEL A PA G I N A 32

ME D I TA Z I O N E

Sale e luceA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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DONNE E SANTE

Una reale speranzaper le musulmanedel nostro tempo«Layla e Majnun»

tappeto azero

Con il numero di giugno iniziamo il nostro settimo anno di vita, fracontinuità e innovazioni. Fa parte delle continuità la scelta, per ogninumero, di un tema da approfondire, e ora questo approfondimentoconosce un ulteriore perfezionamento: torneremo più volte sugli stes-si temi, come ci è stato richiesto a più voci. Cominciamo con questonumero a riprendere il tema donne e islam, argomento che abbiamoiniziato a trattare qualche mese fa, e che pensiamo di approfondireanche in futuro, in quanto questione di grande attualità, al centro dimolte discussioni e spesso di equivoci e fraintendimenti. Anche que-sta volta portiamo alla luce un islam diverso da quello che oggi im-maginiamo, un islam aperto a importanti presenze spirituali femmini-li, come spiega Samuela Pagani nel suo articolo programmatico. Lascoperta delle presenze femminili non marginali nella tradizione isla-mica sarà una linea rossa a cui attingere pure in futuro; ci ripromet-tiamo però anche di affrontare temi di immediata attualità, come lapresenza di donne nel jihad e le conversioni di donne occidentaliall’islam.

Proponiamo anche vere e proprie novità, cioè due nuove rubriche,molto diverse tra di loro, che sostituiscono quelle sulla santa del mese esull’artista: Donne di valore e C o n s a c ra t e . Con Donne di valore — espres -sione biblica — progettiamo di offrire brevi ma intense biografie didonne che hanno avuto un peso nella storia, sia cattoliche sia non cat-toliche, sante e laiche. Pensiamo così di riportare all’attenzione dellelettrici e dei lettori anche donne poco conosciute, o delle quali si è in-giustamente perso il ricordo.

Come ben sanno i nostri lettori, abbiamo sempre cercato di darevoce alle donne consacrate che raccontavano le loro esperienze e leloro riflessioni, ma da questo numero la collaborazione con loro di-venterà continuativa. Con la nuova rubrica C o n s a c ra t e vogliamo infat-ti aprire una discussione sui problemi che devono affrontare oggi lereligiose, dalle crisi di vocazioni alle nuove proposte missionarie, dauna necessaria e inedita riflessione sull’essere donne e religiose a unesame del posto che occupano nella vita della Chiesa. Abbiamo lafortuna di poter affidare questa nuova rubrica a una religiosa di vastacultura e di grande esperienza, suor Nicla Spezzati, che è stata persette anni sottosegretario della Congregazione per gli istituti di vitaconsacrata e le società di vita apostolica. (lucetta scaraffia)

L’EDITORIALE

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

MARIE-LUCILE KUBACKI

RI TA MBOSHU KONGO

SAMUELA PAGANI

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

di SAMUELA PAGANI

Nella conclusione della sua monografia su Râbi‘a al-‘Adawiyya, lagrande mistica di Basra morta nell’801, la studiosa inglese MargaretSmith scriveva: «Le donne sante sono una moltitudine […]. Esserappresentano indubbiamente la più sublime altezza che la donnamusulmana può raggiungere. Per il rispetto che gli uomini musulma-ni hanno dimostrato loro e per l’esempio che esse offrono alle donnemusulmane, si può coltivare una reale speranza che anche per le don-ne musulmane del nostro tempo ci sia la possibilità di avanzare versoun più alto standard di vita religiosa e sociale».

La prima edizione del libro di Margaret Smith è del 1928. A queltempo, anche se cominciava a essere minacciato, il potere dei santi e

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delle sante sulle coscienze dei fedeli e l’importanza dei loro santuarinel paesaggio delle città e delle campagne era molto maggiore diquanto non sia ora. Le trasformazioni che hanno investito il mondoislamico contemporaneo coincidono in larga misura con un crepusco-lo dei santi, per riprendere il titolo del libro di James Grehan (2014)sulla religione popolare nella Siria e Palestina ottomane fra il Sette-cento e l’inizio del Novecento. A partire da quest’epoca, nuove divi-sioni territoriali hanno ridisegnato, oltre ai confini politici, la geogra-fia sacra e l’immaginario delle persone. Ai due estremi dell’antico im-pero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, i mausolei dei santisono stati trasformati in musei, come nella Repubblica turca, o com-pletamente rasi al suolo, come in Arabia Saudita. In altri paesi dellaregione, dove la discontinuità non è stata così brutale, la fede neisanti ha perso influenza sociale e prestigio intellettuale di fronteall’ascesa di ideologie secolariste e fondamentaliste. Il disincanto deinuovi intellettuali è colto nella sua dimensione drammatica in unanovella esemplare dello scrittore egiziano Yahya Haqqi, La lampada

di Umm Hâshim, pubblicata nel 1944. La lampada del titolo è quellasospesa sotto la cupola della moschea di Sayyida Zaynab, che domi-na il povero quartiere del Cairo dove vive la famiglia di Ismâ‘îl, for-mata dai genitori e da una cugina orfana. Quando Ismâ‘îl, appenatornato da Londra, dove ha studiato medicina per sette anni, scopreche la madre usa l’olio benedetto della lampada per curare gli occhi

Le trasformazioni che hanno investito il mondo islamico contemporaneocoincidono in larga misura con un crepuscolo dei santi

che comporta una ulteriore diminuzione del potere degli strati popolaridato che nell’islam la santità è in primo luogo «vox populi»

malati della cugina, si precipita furioso nella moschea e distrugge lalampada con una bastonata. Ismâ‘îl compie il suo gesto iconoclastain nome della “scienza” contro la “sup erstizione”. Per le nuove lea-dership secolariste, come per i teologi che condannano il culto deisanti, la “sup erstizione” del popolo è una deviazione dalla verità chedev’essere corretta, se necessario con mezzi violenti.

Nel contesto di una modernizzazione dall’alto, il crepuscolo deisanti comporta in effetti una ulteriore diminuzione del potere deglistrati popolari, dato che nell’islam la santità è in primo luogo vox po-

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puli, un riconoscimento dal basso che spesso conferisce autorità allepersone più umili. Ne è un esempio la diffusa venerazione per lesante, malgrado la presenza discreta delle donne nelle fonti scritte.La figura, certamente letteraria, di Su‘ûd, la maestra di Dhû l-Nûnmorta nel 859 e descritta in questo numero da Francesco Chiabotti,cumula varie marginalità comuni ad altre figure di donne sante: nonsolo ex schiava e nera, ma ex cantante e cortigiana.

Il ruolo attivo del popolo nella creazione dei santi non comportanecessariamente un conflitto con la teologia delle classi letterate. Co-me mostra più avanti l’articolo di Nelly Amri, la teoria della santitàelaborata da Ibn ‘Arabi, che giustifica la possibilità per una donna diraggiungere il grado più elevato della santità e anche di essere profe-ta, ha fornito all’anonimo autore dell’agiografia della santa tunisinaMannûbiyya il quadro concettuale che gli permette di consacrare conun libro il culto di una «rapita in Dio» che aveva sfidato nella suavita le regole della separazione fra i sessi, suscitando severe condanneda parte dei contemporanei.

Il successo del sufismo fino al periodo moderno si deve proprio alsuo ruolo di ponte tra fede popolare e teologia, e anche fra culturaprofana e religiosa, immaginazione poetica e facoltà visionaria.

Oltre che con l’indebolimento degli ampi strati della popolazioneesclusi dai benefici della modernizzazione, il crepuscolo dei santicoincide con la crisi dell’autorità collegata nella cultura islamica allanozione di santità. Ta r b i y a , il termine arabo per educazione, da unverbo che significa “a l l e v a re ”, “far crescere”, è semanticamente vicinoal latino auctoritas, derivato dal verbo augeo. Il carattere generativodella trasmissione della conoscenza è simboleggiato dall’allattamento.Il maestro sufi è infatti a volte rappresentato come una nutrice. Col-legata a un altro simbolo femminile è la capacità del Profeta di acco-gliere con un cuore vergine la discesa della Parola divina. Questa èsecondo alcuni commentatori la spiegazione dell’epiteto ummî (piùspesso inteso come “illetterato”) che gli è attribuito nel Corano(7,157). Nel suo commento su questo versetto, Baghawi (morto nel1122) cita una tradizione che suggerisce che questa facoltà profetica èaccessibile a tutti i credenti. Secondo questa tradizione, Dio annun-cia a Mosè l’avvento della comunità dei credenti musulmani, descri-vendoli così: «Metterò la mia Presenza Pacificatrice (sakîna, equiva-lente dell’ebraico shekinah) nei loro cuori, e loro reciteranno la Toraha memoria, leggendola nei loro cuori: la reciteranno l’uomo e la don-na, il libero e lo schiavo, il piccolo e il grande».

‘Abdallâh Ibn Mas‘ûd, il compagno del Profeta di umili origini acui è stata riconosciuta una particolare autorità per la sua compren-

«Layla e Majnun»(tappeto azero)A pagina 5«Ahmad Ghazzalicon un discepolo»(Gli incontridegli amanti, 1552)

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sione del Corano con l’intelligenza del cuore, era chiamato IbnUmm ‘Abd, il “figlio della madre di un servo”, con un soprannomeche rinviava alla sua filiazione dalla madre invece che dal padre, per-ché solo la madre godeva di prestigio religioso, per la sua fede e lasua familiarità con il Profeta. Secondo Ibn Mas‘ûd, il Profeta avreb-be detto: «Dio non santificherà (yuqaddisu) un popolo che non dà aldebole il suo diritto». Lui stesso avrebbe descritto gli amici di Diocome coloro che «chiedono la pioggia e sono esauditi, fanno germi-nare la terra, pregano contro i tiranni, che sono spezzati, e tengonolontane le sciagure». L’“intimità” (uns) con Dio dà ai suoi amici ilcoraggio di parlargli con inaudita libertà nelle loro preghiere di inter-cessione. Un altro frutto di questa intimità è la fiducia degli animali,un tema che compare spesso nell’agiografia degli asceti musulmanidel periodo più antico.

Di Râbi‘a si dice che gli animali non la fuggivano più per la suacompleta astinenza da cibi animali. Della schiava nera Maymûna al-Sawdâ’ si racconta che portava le pecore al pascolo e mentre lei pre-gava queste si mescolavano senza timore con i lupi. L’asceta ‘Abd al-Wâhid ibn Zayd (morto nel 793) era andato a cercarla dopo aver sen-tito dire da una donna rinchiusa in un asilo di pazzi che Maymûnasarebbe stata la sua sposa in paradiso. L’aveva trovata vestita conuna tunica su cui erano ricamate le parole «non si compra e non sivende». In questo racconto, come nell’idillio fra Su‘ûd e Dhû l-Nûn,l’intimità con Dio ristabilisce, insieme all’amicizia fra l’uomo e l’ani-male, quella fra la donna e l’uomo, disinnescando il nucleo di violen-za insito nelle relazioni di dominio.

Non è sorprendente che le fonti sufi continuino a offrire risorse astudiose e pensatrici musulmane impegnate a riconnettere il discorsomoderno sui diritti e la dignità della donna con il patrimonio classi-co. Questo resta attuale non solo perché dà voce a un ideale di egua-litarismo, ma per la sua capacità di mettere in scena il permanenteconflitto di questo ideale con le profonde forze sociali e psicologicheche ne ostacolano la realizzazione.

«Lo svenimentodi Layla e Majnun»(Nezami, Khamsa1550-1660)A pagina 10«Layla e Majnuna scuola»(Nezami, Khamsa, 1476)

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SU`ÛD E DHU L-NÛN

L’e re m i t ae la schiava

di FRANCESCO CHIABOTTI

Ritirarsi dal mondo può costituire un pericolo ben più grave del mon-do stesso. La solitudine, credersi assieme a Dio, cela il male invisibiledell’illudersi di una tale mistica vicinanza. Come credersi vicini aDio, lontani dalle sue creature? Quando apparvero i primi testi dimistica islamica, i loro redattori dovettero trasformare in dottrina epedagogia spirituale una lunga serie di esperienze che avevanoattraversato i primi secoli dell’islam. Ecco che il ritiro dal mondoviene visto come una prima fase nel cammino del discepolo, e vi sipongono delle condizioni. La prima, essenziale: non ci si ritira dalmale del mondo, si ritira dal mondo il proprio male. La storia chesegue è attribuita a un personaggio enigmatico della mistica islamica.

Dhu l-Nûn d’Egitto è un maestro del IX secolo. Nacque e morì neipressi del Cairo, ma trascorse la maggior parte della sua vita in co-stanti peregrinazioni, lasciando che una strada mai tracciata si facesseoccasione d’incontri straordinari. I suoi insegnamenti sono stati tra-smessi per via orale, processo che rese di certo possibili attribuzioniapocrife, ma la sola incertezza filologica non basta a spiegare e capirel’immenso numero di vicende di cui fu protagonista. Nella sua singo-larità fece scuola, e v’è una coerenza di fondo nel personaggio che la

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La tratta sessualepiaga della societàNon ha mezze misuresuor WinifredDoherty: intervenutadinnanzi alCongresso aWashington lo scorso15 maggio, la religiosastatunitense dellesuore del Buonpastore ha affermatoche oggi come nonmai il trafficosessuale èp ro f o n d a m e n t eradicato nelle nostreso cietà.L’accettazione socialedello sfruttamentoforzato di donne ebambine passa inprimo luogo per labenevola definizionedi lavoratrici delsesso ma «laprostituzione non èné lavoro né sesso».

Un gritopor la vidaDagli Stati Uniti alBrasile, dal paese didestinazione a quellodi partenza: Un gritopor la vida è il nomedella rete, nata nel2007 e legata allaConferenza deireligiosi del Brasile,

DAL MOND O

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tradizione ha tramandato, nella pluralità di scienze che egli incarnò,dall’ascesi ai primordi della mistica, dai pareri giuridici alle scienzepiù occulte. Il suo stesso nome, Dhu l-Nûn, “l’uomo della letteranûn” è una reminiscenza coranica della figura di Giona e la balena,storia di diluvio e salvezza. Furono numerose le donne che, nono-stante la brevità degli incontri, si rivelarono fondamentali nel suopercorso spirituale. Il «sommo maestro» Ibn ‘Arabi l’andaluso, mor-to a Damasco nel XIII secolo, descrisse la biografia di alcune di loronella sua opera dedicata al nostro personaggio, la Vita di Dhu l-Nûn

d’Egitto.

Ma procediamo con ordine. Nell’episodio che riferiamo, il proble-ma della solitudine è illustrato grazie a un incontro con un essere an-cora più solitario di Dhu l-Nûn, una schiava nera, la liutista Su`ûd.

Racconta Dhu l-Nûn che passò un anno ritirato in una foresta,nutrendosi di piante selvatiche e abbeverandosi alle fonti. Descrive ilsuo stato come un’insondabile pienezza spirituale, che scoprì tuttaviafragile il giorno in cui un gemito, proveniente da un antro del bosco,gli ricordò la fraternità umana. Fu come preda di un raptus, incapacedi opporvisi, e si ritrovò nei pressi di un’ombra scura, che avvolgeva-no feroci leoni, senza nuocerle. Si avvicinò e scorse una donna dalcolore nero. Si avvicinò ancora e i leoni fuggirono. Lei lo chiamò pernome, come se lo conoscesse da sempre. «Dhu l-Nûn! Per colui cheè intimo di Dio, estraneo a ciò che Dio non è, ogni cosa è amica, matutto rifugge colui che ha nostalgia della sua specie, nel cui cuore isensi sono penetrati!». Non era la prima volta che sul suo camminosi imbatteva in una figura femminile misteriosa, e non era la primavolta che una tale figura lo riconosceva, chiamandolo per nome. Gliera successo già nei pressi di Antiochia, dove una giovane serva folle,vestita di lana grezza, lo aveva interrogato sull’opera spirituale. Inun’altra peregrinazione una donna viandante gli aveva rimproveratodi essersi presentato a lei come «uno straniero»: esiste forse «estra-neità» assieme a Dio?

Su`ûd continuò: «Dhu l-Nûn, eravate tu e lui, perché mi hai mes-sa di mezzo fra voi due?» Si rivolse ai leoni e chiese loro di restare.«Lui è Dhu l-Nûn, non temete». Dhu l-Nûn voleva andarsene, lapresa di coscienza era troppo forte e le lacrime impossibili a trattene-re. Ma lei gli chiese dove avesse l’intenzione di dirigersi. Quasi im-potente, rispose: «Non è forse abbastanza ciò che è appena succes-so?» Rispose: «No, caro amico! Hai ricercato un’intimità con altri daDio per amore dell’intimità di Dio, e quando gli esseri cari si riuni-scono nel ricordo del comune Amato, non abbandonano per questol’intimità dell’amore!». Dhu l-Nûn si sedette allora con lei, si raccon- «Majnun e animali» (1600)

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veva essere un luogo degno di riunirli, esso non poteva che essere ladimora sacra di Dio alla Mecca, durante il pellegrinaggio annuale.Non la trovò presso la Kaaba, si diresse allora verso la moschea doveriposa il Profeta, a Medina, dove lui, l’Amato, avrebbe saputo riuniregli amanti. E infatti la ritrovò li. Quando lei lo scorse, gli rivolse laparola, una parola severa: «Ti ho visto girare attorno alla Kaaba, maera attorno a me che giravi! Avrei voluto parlarti ma qualcosa mi haimpedito di farlo e sono stata sospinta verso la moschea del Profeta.Finalmente, ora posso parlarti. Dhu l-Nûn, che cosa hai imparato daituoi viaggi?». Rispose: «Essere soddisfatto di Lui, saper accettare vi-cinanza o distanza, unione o esilio, povertà o agio, gloria o umilia-zione, la vita o la morte». Su`ûd gli diede un ultimo insegnamento.«Non avresti potuto essere soddisfatto di Dio se prima Dio non fos-se stato pienamente soddisfatto di te». E recitò un versetto del Cora-no, ripetuto in diversi passaggi del libro: «Dio si compiace degli uo-mini, e gli uomini si compiacciono dunque di Lui...». Certo, il testosacro pone tale sguardo di grazia nell’aldilà, ma Su`ûd sapeva che lecose dello spirito non hanno tempo, o meglio, che tempo e spaziosono riflessi contingenti dell’eternità. «Dhu l-Nûn, da quando ci in-contrammo, nel nostro ritiro, non desidero altro che incontrare Dio,ma non ho nessun merito che potrei vantare in sua presenza, ti scon-giuro, imploralo tu per me, che mi accetti!». Una voce invisibile siintromise, che solo Dhu l-Nûn udì: «Non farlo! Lei appartiene a Dioche ama udire il suo gemito, non metterti di mezzo fra loro due».Allora realizzò cosa fosse quel gemito che lo aveva fatto uscire dallasua solitudine con Dio, o meglio, adesso capì che quel gemito, inrealtà, non lo aveva mai fatto uscire dalla solitudine con Dio. «Dhul-Nûn, non preghi per me?». «No, non posso intromettermi fral’amante e l’amato». Si separarono, e la storia non ci dice se si rin-contrarono mai un giorno.

La vicenda di Su`ûd, la liutista nera, maestra di Dhu l-Nûn, è pa-radossale perché insegna a cercare la conoscenza nell’umano, ma inun umano mai separato da Dio, in un’unione che solo povertà, indi-genza e tristezza possono realizzare. Non un luogo di trascendenza,il tempio della Kaaba, poteva riunirli, ma la presenza umana del Pro-feta, nel quale la tradizione riconosce l’amante perfetto. La storia diDhu l-Nûn è straordinaria, e si perde nella leggenda. Ma per conclu-derla, gli antichi biografi ricercarono quali furono le sue ultime paro-le. In una versione egli disse: «Conoscerlo, anche solo un istante pri-ma di morire!». C’è una parte dell’insegnamento di Su`ûd, in questotestamento spirituale.

tarono i loro esili rispettivi, l’abbandono dei fratelli e delle sorelle, iloro ritiri lontano dagli uomini. Dhu l-Nûn descrive così il loro stato:«Camminavamo come ebbri, mi interrogò sul motivo della mia con-versione a Dio e le raccontai la mia storia, e io le domandai, a miavolta, di raccontarmi la sua». Ed ella raccontò dunque la sua vicen-da. Su`ûd era una schiava che apparteneva a un potente vizir allacorte del califfo a Bagdad. Tale vizir amava bere e organizzava festee banchetti nel corso dei quali lei cantava e suonava, e lui la rivestivadegli abiti che più gli piacevano. Nel corso di una di queste festequalcuno bussò alla porta del palazzo. Prima di aprire, chiesero chifosse. «Un povero giunto a chiedere qualcosa in nome di Dio!». Ilvizir acconsentì. «Fatelo entrare, che si serva secondo il suo deside-rio!». Ma il povero rifiutò di avanzare, per zelo e scrupolo, in un pa-lazzo nel quale si beve e le schiave danzano e suonano. «Datemi damangiare qua fuori, se non volete che me ne vada!». Il vizir in perso-na gli portò un piatto di pietanze e un piatto di frutta, ma il poverogli ordinò di imboccarlo. Il vizir si spazientì: «Basta con questi vez-zi! Come ti permetti?». «Se ti sembro viziato», rispose il povero,«sappi che Lui mi vizia anche più di così». Quando sentì le paroledel mendicante, Su`ûd gridò al suo padrone: «Questo tesoro è perte, non fartelo sfuggire!». Lui la guardò: «Se hai capito questo, vuol

La vicenda della liutista nera, maestra di Dhu l-Nûnè paradossale perché insegna a cercare la conoscenza nell’umano

Un umano mai separato da DioUn’unione che solo povertà, indigenza e tristezza

possono realizzare

che combatte iltraffico e losfruttamento sessuale.All’interno di questoprogetto un gruppo direligiose ha presentatoquanto emerso da unavisita compiuta loscorso aprile in duecomuni della regionedel Rio Negro,nell’Amazzoniabrasiliana, la cuipopolazione è per lagran parte indigena:anche qui il numerodi vittime della trattaè in costante aumento.Le storie emerse sonoscioccanti, specie neicasi in cui le vittimesono bambini ebambine che spessosubiscono i primiabusi in famiglia. Lereligiose hanno anchedenunciato lo scarsocoordinamento tra levarie organizzazioni,alcune legate alleistituzioni pubbliche,che lavorano in difesadelle vittime.

La diplomaziadelle spilleRead my pins,“leggete le miespille”, era solita direla battaglieraMadeleine Albright aigiornalisti che latampinavano fuoridalla sala delConsiglio di sicurezzaquando erar a p p re s e n t a n t ep ermanentestatunitense presso leNazioni Unite. Una

dire che il tesoro è per te. Non tornerai più, vero?». «È così», disselei, «non tornerò più».

Dhu`nûn si congedò per ritornare al suo luogo di ritiro, ma nonriusciva a smettere di pensare a lei e alla sua storia. Le mancava. Pro-vò a viaggiare, ma la peregrinazione lo riportava nel luogo del loroincontro, e lei non era più là. Come ritrovarla? Si disse che se ci do-

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La madre spiritualedi Ibn ‘Arabî

di SAMUELA PAGANI

Conosciamo Fatima bint Ibn al-Muthanna, santa donna vissuta a Sivi-glia fra il XII e il XIII secolo, solo grazie a un suo eccezionale disce-polo, il grande mistico Ibn ‘Arabî (morto nel 1240), che ha lasciato ilritratto di questa sua madre spirituale in tre dei suoi libri. In due diquesti, Ibn ‘Arabî la ricorda fra i maestri che frequentò in Andalusianella prima parte della sua vita. Il terzo è la sua opera maggiore, Le

rivelazioni della Mecca, scritta dopo la sua partenza per l’oriente mu-sulmano. Nel capitolo sull’amore di questo libro, da cui è tratta latraduzione che segue, Ibn ‘Arabî ricorda molti celebri esempi letteraridi uomini e donne rapiti dall’amore di Dio, tratti dalla letteraturaagiografica. Fatima è però l’unica contemporanea di cui è evocata inquesto contesto l’esperienza vissuta, un’esperienza strettamente in-trecciata con quella dello stesso autore. L’episodio, unico in questaversione, dell’incontro fra le sue due madri, quella spirituale e quellaterrena, dà un’idea di quanto il rapporto con questa anziana maestraabbia contato nella sua formazione spirituale e nella sua vitaaffettiva.

Fatima appare qui, a più di novant’anni, circondata da discepoliche la servono con devozione filiale e da donne che la consultano

FAT I M A DI SIVIGLIAper le loro necessità. Come mostrano i ritratti paralleli che Ibn ‘Arabîha dato di lei negli altri libri, in anni precedenti, la sua povertà e lasua condizione di donna «follemente innamorata di Dio» l’avevanoesposta al disprezzo e l’avevano fatta considerare una “idiota”. Unavolta, il muezzin della grande moschea di Siviglia era arrivato persi-no a picchiarla con il suo bastone la notte della festa del Sacrificio.Fatima si sdegnò contro di lui, ma pregò Dio di non punirlo. In se-guito, il muezzin incorse nell’ira del sultano, che però si accontentòdi schiaffeggiarlo rinunciando a infliggergli una punizione più seve-ra. Fatima commentò: «Se non avessi interceduto perché la sua penafosse alleviata, sarebbe stato ucciso». Lo straordinario «rango» di Fa-tima si manifesta, quando è ormai una “vecchia” (in arabo ‘ajûz, dauna radice che esprime la debolezza e l’impotenza), nel suo potere di«dare forma» alla sura detta “a p re n t e ” (Fâtiha). Al di là dell’uso tau-maturgico della preghiera, questo prodigio adombra un ulteriore li-vello di significato. Come Ibn ‘Arabî spiega nel capitolo delle Rivela-

zioni della Mecca sui segreti della sura Aprente, uno dei suoi nomi è«madre del libro» (umm al-kitâb), non soltanto perché è la preghierache inaugura il Corano, ma perché è il simbolo della matrice da cuiil libro ha origine nel mondo divino. La preghiera che sta al serviziodi Fatima è la personificazione di una realtà trascendente, resa possi-bile dalla forza creatrice della recitazione della santa. La missione cheFatima affida alla preghiera, impedire al marito di una devota diprendere una seconda moglie, impedisce il compimento di un attoperfettamente legittimo dal punto di vista della legge islamica, maingiusto nella misura in cui causa divisione e sofferenza.

L’intervento di una donna santa a favore di un’altra donna in unasimile situazione ha un parallelo nel ritratto di Hukayma di Dama-sco, una santa vissuta nella prima metà del IX secolo. Come raccontail suo biografo Sulami (morto nel 1021), un giorno una discepola diHukayma, il cui nome significa “piccola saggia”, o “piccola filosofa”,andò a trovarla e la trovò che leggeva il Corano. Appena entrò, lamaestra la guardò e le disse: «Ho saputo che tuo marito ha deciso diprendere una seconda moglie». «È così», disse l’altra. Hukayma con-tinuò: «Se, come dicono, è un uomo di senno, come può accettareche il suo cuore si distolga da Dio impegnandosi con due mogli? Seia conoscenza dell’interpretazione del versetto: “Il giorno quando anulla serviranno ricchezze e figli e solo varrà chi avrà portato a Dioun cuore sincero” [C o ra n o 26,89]?». «No», rispose l’altra. «La sua in-terpretazione», continuò Hukayma, «è che incontrerà Dio quandonel suo cuore non ci sarà che Lui». La donna raccontò poi che dopoaver sentito queste parole si mise a camminare per i vicoli della cittàdondolandosi per la felicità, con un tale trasporto che temette che la

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gente pensasse che fosse ubriaca. Questa donna era a sua volta unadevota. Si chiamava Râbi‘a bint Ismâ‘îl, e come la più famosa Râbi‘aal-‘Adawiyya di Basra era affiliata alla stessa tribù. Anche suo maritoera un famoso devoto, ma per volontà di lei la loro unione era casta.In questo caso il secondo matrimonio non viene sventato, ma il re-sponso della “piccola saggia” afferma la superiorità spirituale dellamoglie sul marito, e anche il primato del nucleo spirituale del Cora-no rispetto alle sue parti normative.

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strategiacomunicativa adottataanche durante glianni in cui Albrightfu la prima donnadella storia a guidarela diplomazia del suopaese. Bastavaguardare il gioielloappuntato sul suotailleur per capire lostato d’animo delsegretario di stato, edell’amministrazioneClinton: trescimmiette non vedonon sento non parlodopo il rifiuto diPutin di riconosceregli orrori commessidai russi in Cecenia;una broche a formad’ape dinnanzi icontinui ostacoliposti da Arafat allatrattativa sul Mediooriente; un angelod’oro percommemorare le 212vittime degli attentatiin Tanzania e Kenya.Del resto Read mypins: Stories from aDiplomat’s Jewel Boxè il titolo del libro chela stessa Albrightscrisse nel 2009, e dalcanto loro le spillesono state oggetto diuna mostra itineranteper anni. Nel 2017 lasignora che SaddamUssein definì «unserpente senzauguali» (definizioneche non solo lusingòAlbright ma le fecevenire l’idea deimessaggi via gioiello)ha recentementedonato la suacollezione al United

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mio servizio, eppure questo potere non mi distrae daLui». Il giorno in cui mi disse questo, seppi che rangoaveva raggiunto questa donna. Mentre eravamo seduti lì,venne una donna che si rivolse a me. «Fratello — mi dis-se — ho saputo che mio marito, che ora si trova a Jerezde la Frontera, sta per sposarsi laggiù con un’altra don-na. Che te ne pare?». Le dissi: «Vuoi che ritorni?». «Sì»,rispose. Mi voltai verso la vecchia e le dissi: «Madre,non hai sentito la richiesta di questa donna?». Disse: «Etu che vuoi, figlio mio?». Dissi: «Che sia immediatamen-te esaudito il suo desiderio, e il mio, che suo marito tor-ni». «Agli ordini!» disse lei. «Manderò subito la suraA p re n t e a prendere il marito di questa donna». La suraA p re n t e prese forma man mano che la recitava insieme ame. Conobbi il rango che aveva raggiunto quando vidiche con la sua recitazione suscitava la sura Aprente nellaforma di un corpo aereo che poteva mandare dove vole-va. Dopo che le ebbe dato forma, sentii che le diceva:«O sura Aprente, va’ a Jerez e portami lo sposo di que-sta donna! Non lasciarlo finché non lo avrai riportato!».L’uomo partì da Jerez in quello stesso istante, arrivò nel-lo stretto tempo necessario a compiere il viaggio, e si ri-congiunse con sua moglie.

Fatima si dilettava di suonare il tamburino e lo facevacon molta gioia. Quando gliene chiesi il motivo, rispose:«Sono in festa per Lui, perché si è preso cura di me, miha dato un posto fra i suoi amici, e mi ha presa al suoesclusivo servizio. Chi sono io perché questo gran Signo-re mi preferisca ai miei simili? Quanto è fiero il mioCompagno! È di una gelosia indescrivibile! Ogni voltache l’ho trascurato per procurarmi di che vivere con unlavoro, mi ha colpito con una sciagura nella cosa che miteneva occupata». A questo riguardo, mi ha fatto vederecose straordinarie.

Ero costantemente al suo servizio con la mia persona.Le costruii con le mie mani una capanna di giunchi altaquanto lei, dove abitò fino alla sua morte. Mi diceva:«Io sono la tua madre divina, e Nur è la tua madre ter-rena». E quando mia madre veniva a farle visita, le dice-va: «Nur, lui è mio figlio e tuo padre. Onoralo e non di-s p i a c e rg l i ! » .

Ibn ‘Arabî, Le rivelazioni della Mecca,dal capitolo sull’amore (bâb al-mahabba)

Fra le donne dotate di amore e di sapienza, ne ho cono-sciuta personalmente una, che ho servito come discepoloa Siviglia. Si chiamava Fatima, figlia di Ibn al-Muthannail cordovano. Al tempo in cui sono stato al suo servizioaveva più di 95 anni, ma mi vergognavo di guardarla involto perché, malgrado l’età, aveva le guance rosee e lafresca bellezza di una ragazza di quattordici anni nelpieno della sua grazia.

Aveva uno stato spirituale con Dio.

Mi preferiva a tutti gli altri discepoli che la frequenta-vano. Diceva: «Non ho mai visto nessuno come lui:quando viene da me, viene con tutto sé stesso, senza la-sciare fuori alcuna parte di sé. E quando se ne va, se neva con tutto sé stesso, senza lasciare indietro alcuna par-te di sé».

L’ho sentita dire spesso: «Mi sorprendo di chi dice diamare Dio ma è senza gioia. Quando Lui è l’oggettodella testimonianza, l’occhio lo contempla in ogni cosa,senza che Lui sparisca nemmeno per un batter di ciglia.Quelli che stanno sempre a piangere, come possono pre-tendere di amarlo? Non si vergognano? Se sono più vici-ni a Lui di chiunque altro — perché nessuno Gli è più vi-cino dell’amante che Lo contempla — di cosa piangono?Questa è davvero una grande stranezza!». Poi mi diceva:«Che dici, figlio mio, di quel che dico?». E io le rispon-devo: «È come dici tu, madre mia».

Una volta disse: «Strano! Il mio Amato mi ha fattodono della sura Aprente del Libro (Fâtihat al-kitâb): è al

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AL-SAY Y I D A AL-MA N N Û B I Y YA

Una donnapolo dei poli

Dio ha fatto di me il diadema dei santi, il polo dei poli.

Ho ricevuto un patto da Dio che nessuna delle persone

del mio secolo entrerà all’Inferno, a Dio non piaccia; per

quello fra loro che avrà meritato il fuoco, io dirò a Dio:

prendi me al suo posto, e che Dio non voglia deludermi.

Sono la vicaria di Dio sulla terra.

Dio mi ha offerto oro, argento e rubini. Gli ho detto: «Il

tuo volto, Signore, è meglio di tutto questo».

di NE L LY AMRI

A destraMedina raffigurata

in una ceramica

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presso una delle porte della città, Bâb al-Fallâq, nella periferia sud.Se la sua agiografia ricorda i suoi pii ritiri a Jebel Zaghouan (a suddi Tunisi, lungo la via che la collega a Kairouan), in compagnia so-prattutto del discepolo più citato nei suoi Ma n â q i b , ‘Uthmân al-Had-dâd, o ancora il suo vagare tra le tombe, a venirci mostrata è comun-que una santa che vive in mezzo agli uomini e ascolta le loro soffe-renze, e che frequenta i luoghi importanti del sufismo tunisinodell’epoca. Non sembra che abbia esercitato un’attività economica;sarebbe vissuta dei doni dei contemporanei, che ridistribuiva comeelemosina ai più poveri. Non sappiamo se c’è stato un maestro sullasua via; i suoi Ma n â q i b la dotano tuttavia di una genealogia spiritualein cui figurano Junayd (morto nel 910), Jîlânî (morto nel 1165), Ibnal-Fârid (morto nel 1234-1235) e al-Shâdhilî (morto nel 1258), santiche ‘Â’isha ha “visto” durante le visioni, che l’hanno investita dellaloro via e le hanno trasmesso l’autorizzazione a esercitare il ruolo diguida spirituale. Si cerca forse di ricollegare una santa vivamentecontestata in vita a dei santi più antichi e già consacrati? A ogni mo-do se la sua iniziazione a opera di Shâdhilî, il fondatore eponimodella via sufi Shâdhiliyya, così spesso asserita, è priva di consistenzastorica, ‘Â’isha ha comunque avuto contatti con compagni del mae-stro, alcuni dei quali sono citati nella sua agiografia. Muore a set-tant’anni, nel 1267, e viene sepolta a Tunisi, nel cimitero, oggi scom-parso, di Sharaf (attuale piazza Gorjani), che domina la SabkhaSijoumi.

L’agiografia di ‘Â’isha è costellata di discorsi estatici, dove apparechiaramente la funzione cosmica ed escatologica attribuita alla santa,in un’epoca in cui la walâya (termine generico che designa la santitànell’islam) è più che mai, soprattutto con gli scritti d’Ibn ‘Arabî(morto nel 1240), l’erede della profezia e i santi gli eredi dei profeti,in particolare del profeta Muhammad. Nelle ardite parole di vantoche la sua agiografia le attribuisce, la santa dichiara di aver appreso ilCorano da Dio stesso; nell’agiografia islamica molti santi vedono iltesto rivelato “d i s c e n d e re ” sul loro cuore, a immagine del Profeta,senza mai averlo appreso da un maestro. Allo stesso modo ‘Â’isha di-chiara di aver ricevuto dall’arcangelo Michele e da al-Khadir una be-vanda paradisiaca grazie alla quale le sono state concesse nove virtù:scienza, longanimità, certezza, raccoglimento, umiltà, benedizione,tenerezza del cuore, castità e preservazione (dal peccato). Maria, l’ar-chetipo coranico femminile della santità per eccellenza, è molto pre-sente nell’agiografia di ‘Â’isha, che rivendica un triplice legato maria-no, di gratificazione, di purificazione e di elezione. Come Maria, Diol’ha scelta ed è stata visitata dallo Spirito di santità nel quale l’esegesiriconosce il misterioso iniziatore di Mosè (Corano 18,65). Quanto al-

‘Â’isha al-Mannûbiyya (morta nel 1267), questa “rapita” in Dio e oggisanta più venerata in Tunisia, è figura paradossale di santità. In vitasuscitò la riprovazione dei giuristi e rischiò di essere condannata perla sua trasgressione delle norme sociali, il suo celibato e la sua fre-quentazione degli uomini. Santificata dagli uni, vilipesa dagli altri,‘Â’isha, a partire dal XIV secolo, avrebbe tuttavia conosciuto una no-torietà e poi un culto mai più smentiti fino ai giorni nostri; i duesantuari (zâwiya) a lei dedicati (uno a Tunisi, l’altro a Manouba, doveera nata, a qualche chilometro a ovest di Tunisi), continuano ad atti-rare fedeli, devoti e gente di passaggio. Chiamata al-Sayyida (la Si-gnora), senza altro segno d’identità, ‘Â’isha è, a immagine dei santi“folli in Dio”, refrattaria a ogni tentativo di rinchiuderla in un rac-conto biografico, in una traiettoria di vita lineare e riconoscibile. Delresto, il personaggio storico ha poca consistenza. Questa santa, vene-rata sia dalla gente comune sia dalle élite del potere e del sapere, laconosciamo grazie a un’agiografia (manâqib, letteralmente “qualità,virtù, azioni lodevoli”). L’anonimo autore del testo, redatto con ogniprobabilità nel XIV secolo, era imâm della moschea di Manouba e, co-me molti autori di opere di manâqib, era ugualmente versato nellescienze essoteriche ed esoteriche. Questa agiografia, il cui testo nelcorso dei secoli ha conservato una certa stabilità, dal XIV secolo nonha mai smesso di essere ricopiata. Per il loro numero, per gli atti didonazione alla grande moschea al-Zaytūna, molti dei quali da partedei Bey di Tunisi e dei più alti dignitari dello stato, per il loro carat-tere accurato e spesso unico della tradizione manoscritta relativa allasanta, le copie giunte fino a noi attestano la grande venerazione a leiattribuita.

‘Â’isha ha circa vent’anni quando gli Hafsidi cominciano a gover-nare per conto proprio l’Ifrîqiya e muore dieci anni prima della finedel regno di al-Mustansir (1249-1277), che assume ufficialmente il ti-tolo califfale e prolunga il periodo di pace, di sicurezza e di sviluppoeconomico inaugurato dal padre Abû Zakariyyâ’. Sul piano religioso,si affermano sempre più il sufismo e il malikismo. Nata attorno al1198-1199 a Manouba, ‘Â’isha è ritenuta pazza e attira su di sé l’ira elo scherno delle persone che la circondano. All’età di dodici anni ri-ceve la visione di al-Khadir (l’iniziatore dei santi e dei profeti, nelquale si riconosce in generale la figura coranica della sura 18,65.82),che le si presenta con i tratti di un giovane: «Tu sei iscritta sui mieiregistri da tremila anni», le dice. La bambina si spaventa. Per porrefine ai pettegolezzi, suo padre decide di darla in sposa a un suo cu-gino carnale; ‘Â’isha rifiuta e lascia il suo paese natale per stabilirsi aTunisi, la capitale degli Hafsidi, in una sorta di caravanserraglio,

States DiplomacyCenter diWashington, il cuimuseo saràcompletato a breve.

Suor Anitadella tribùKacchi KohliDopo settant’anni dimissione tra lepopolazioni tribalistanziate in Sindh,una delle quattroprovince del Pakistan,la Chiesa cattolicaaccoglie la primareligiosa della tribùKacchi Kohli. È laventinovenne AnitaMaryam Mansinghdella congregazionedella Presentazionedella beata VergineMaria. Nata a TandoAllahyar, piccola cittàvicino a MirpurKhas, ed entrata trale suore dellaPresentazione dopoaver acquisito lalaurea in scienzedell’educazione, daanni suor Anita èimpegnata nel campodell’istruzione. Datempo le religiosesvolgono un ruolodelicatissimo a favoredelle persone piùvulnerabili della zonaa prescindere dareligione o etnia, masicuramente la nuovapresenza di unareligiosa appartenentea una dellepopolazioni tribalilocali potrà ancor piùavvicinare scettici ecritici.

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La pratica religiosa e sociale attribuita ad ‘Âisha l’avvicina a “quel-li del biasimo”, gli ahl al-malâma, il cui stato è nascosto. I santi rapi-ti, letteralmente “portati via”, a immagine del Profeta che Dio feceviaggiare di notte, hanno il loro essere completamente assorbitonell’amore, che toglie loro ogni volontà propria: «Sono settant’anniche il mio cuore è assente in Dio», dice ‘Âisha. Il “rapito” è comple-tamente estinto a se stesso, perso nella presenza divina. Nel sufismo,questi santi sono protetti dal velo della follia (junûn); Dio li riservagelosamente a Sé come ci si riserva un servitore, e perciò sono «igno-rati tra le creature». Ma sono anche una raffigurazione della miseri-cordia divina. Se la Signora di Tunisi si vanta di aver raggiunto lastazione della prossimità a Dio, la sua agiografia esalta anche la suacompassione per i contemporanei, in soccorso dei quali si reca e lecui richieste, grazie alla sua intercessione, vengono esaudite. Così so-no narrati i cinquantadue prodigi in vita e post mortem, tra i quali fi-gurano: guarigioni, liberazione di prigionieri, piogge benefiche, soc-corso nell’indigenza materiale, protezione dei viaggiatori e dei tran-sfughi, predizioni, restituzione delle facoltà mentali e altro ancora.Viene invocata da persone di ogni condizione, persino da studiosi,giuristi o alti funzionari. In questa santità è anche molto presente ladimensione soteriologica. L’autore dei Manâqib attribuisce inoltre allasanta un certo numero di sentenze ed esortazioni; l’ideale di santitàche emana da questo insegnamento spirituale è fatto di rinuncia almondo, di umiltà e di ascesi costantemente abitata dalla Rammemo-razione, il ricordo permanente di Dio, la cui pratica è vivamente rac-comandata. Una santità di scrupolosa osservanza in cui lo svilimentodell’anima carnale, la lotta contro i suoi vani desideri, la morte deisensi, l’invito alla preghiera sul Profeta e al rispetto della sua sunna

(fatti, atteggiamenti e detti) occupano un posto centrale.

Per quanto luminosa, e per molti aspetti singolare, sia stata la san-tità di ‘Â’isha al-Mannûbiyya nel pantheon agiologico dell’Ifriqiya, laSignora di Tunisi non è stata la sola donna in cui i contemporaneihanno riconosciuto le virtù di santità. Certo, le sante dell’islam nonhanno beneficiato del medesimo interesse riservato ai santi; tuttaviala produzione biografica fa emergere grandi figure di santità femmi-nile e attesta un riconoscimento di queste sante, venerate allo stessotitolo dei santi, al di là delle tensioni inerenti alla loro condizione didonna o suscitate da forme a volte disorientanti di santità. Che unadonna, per di più una “rapita” in Dio, incarni agli occhi dei contem-poranei, e sotto la penna di un giurista e imâm, i più altri gradi dellagerarchia spirituale, non mancherà d’interpellare quanti e quante s’in-terrogano sul posto delle donne nell’islam e, più in generale, nellaspiritualità universale.

la sua eredità profetica, per ogni profeta citato (Noé, Adamo, Seth,Abramo, David, Salomone, Mosè, Gesù e Shu‘ayb), ‘Âisha rivendica«la totalità della sua eredità», imitando in ciò il profeta Muhammadche racchiude in sé la totalità dei tipi profetici e integra nella suapersona le virtù specifiche di ognuno di essi (Ibn ‘Arabî). Per quantoriguarda l’eredità di Muhammad in senso stretto, la santa dichiara diaverla ricevuta dal Profeta stesso, in quella che assomiglia molto auna scena d’investitura corredata del suo rituale iniziatico, in cuiMuhammad assume il ruolo di maestro spirituale. ‘Âisha si proclamapiù volte “polo dei poli” (qutbat al-aqtâb; si osservi, tra l’altro, lafemminilizzazione del vocabolo) e “vicario di Dio” (khalîfat Allâh).L’agiografia ci offre persino una scena d’intronizzazione in questastazione di “p olo”, nel corso della quale la Signora ‘Âisha riceve daun’assemblea di santi un patto di fedeltà. Ora, in Ibn al-Fârid (mor-to nel 1234-1235), il polo dei poli (il più alto grado di santitànell’islam), questo axis mundi attorno al quale ruotano tutte le realtàesistenziate e tutti i poli, e che è inviato come misericordia per gliuniversi, è la «realtà», o «essenza», di Muhammad; la luogotenenza(khilâfa) è uno degli altri nomi del qutb e una delle sue funzioni prin-cipali. Il riconoscimento, nel XIV secolo, di questa dignità a una don-na è un segno forte, anche se Ibn ‘Arabî nelle sue Fu t û h â t («Le rive-lazioni della Mecca») si era già fatto apostolo di una perfetta ugua-glianza a questo livello tra gli uomini e le donne «che prendono par-te a tutti i gradi, incluso quello della funzione di polo».

Interno del santuariodi al-Sayyidaa l - Ma n n û b i y y aa Manouba

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DONNE DI VA L O R E

di MARIA CLARA LUCCHETTI BINGEMER

In seguito incontrò un amore più maturo,con il quale visse veramente un periodo di mag-giore stabilità emotiva e affettiva. Si chiamavaForster Batterham ed era un botanico. Con luicontrasse un’unione civile stabile. Vissero a Sta-ten Island, in una casa affacciata sul mare. ConForster Dorothy imparò l’amore per la natura. Eun giorno ebbe la grata sorpresa di scoprirsi in-cinta. In un processo di rinascita interiore ed’intensa gioia ebbe una figlia a cui diede il no-me di Tamar Theresa.

Quella nascita costituì il culmine del suo in-contro con la felicità, grazie al rapporto conForster e, al tempo stesso, una chiamata defini-tiva a vedere in Dio il centro della sua vita:

«Nessuna creatura umana può ricevere o conte-nere un’alluvione così forte di amore e di gioiacome quella che io ho provato spesso dopo lanascita di mia figlia; è venuto da lì il bisogno dilodare, di adorare».

La sua ideologia, la sua militanza e tutto ciòche aveva imparato e vissuto fino a quel mo-mento generarono in lei un grande conflitto in-teriore tra la chiamata di Dio e le rotture chequesta esigeva da lei. La chiamata di Dio pre-valse su ogni altra cosa e Dorothy, con l’immen-sa gratitudine che le colmava il cuore, deciseche la scelta più giusta era battezzare sua figlianella Chiesa cattolica. «Non volevo che mia fi-glia si dibattesse e inciampasse nella vita comeio tante volte mi ero dibattuta e avevo inciam-pato. Desideravo credere, e desideravo che miafiglia credesse, e appartenere a una Chiesa pote-va offrirle una grazia così inestimabile come lafede in Dio, e l’amorevole compagnia dei santi;allora la cosa da fare era battezzarla come catto-lica».

Tamar Theresa fu battezzata prima della ma-dre. Dorothy attese il 28 dicembre di quellostesso anno della nascita della figlia per farsibattezzare, dopo una dolorosa e definitiva rottu-ra con Forster, dovuta certamente all’abisso reli-gioso che si era creato tra loro, divenuto ancorapiù profondo dopo la nascita di Tamar Theresa.Il prezzo che Dorothy dovette pagare per la suadecisione di battezzare la figlia e di abbracciarea sua volta la fede cattolica fu enorme: la finedella sua unione con un uomo che amava e laperdita di diversi amici e compagni.

Iniziò così una nuova tappa nella vita di que-sta donna straordinaria. La sua personalità, l’es-sere portatrice di un corpo femminile, abitatoda desideri e abituato a fremere di piacere allecarezze dell’uomo amato; un corpo che avevagenerato, dato alla luce e nutrito la figlia tantoamata, che da quel momento sarebbe stata laforza della sua vita; un corpo che dopo la sepa-

Dorothy Day

Dorothy Day nacque aNew York nel 1897.Trascorse gran partedell’infanzia e dellaprima gioventù a Chi-cago. Lì studiò perdue anni presso l’uni-versità dell’Illinois Ur-

bana Champaign, prima di tornare a New Yorkcon la sua famiglia nel 1916.

A New York Dorothy trovò lavoro come re-porter di «The Call», l’unico giornale socialistadella città. Lavorò poi per la rivista «The Mass-es», che si opponeva al coinvolgimento degliStati Uniti nella guerra che imperversava in Eu-

ropa e che fu chiusa nel settembre 1917. A no-vembre dello stesso anno, Dorothy Day fu dete-nuta perché era tra le quaranta donne riunitesidavanti alla Casa Bianca per protestare control’esclusione delle donne dal diritto di voto.

A New York la giovane giornalista condusseuna vita molto inquieta, da bohème. Iniziò unarelazione con un giornalista donnaiolo, LionelMoise, del quale s’innamorò perdutamente. Ri-mase incinta e abortì. Fu un’esperienza dolorosache la segnò per sempre. Pensò di essere diven-tata sterile e di non poter mai più avere figli.Ebbe altre relazioni ma non riusciva a dimenti-care quel dongiovanni irresponsabile che di tan-to in tanto riappariva nella sua vita.

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razione dal compagno dovette affrontare la soli-tudine e il peso di lottare come laica e madresingle in una società che discriminava le donnee in una Chiesa ancora molto segnata dal ma-schilismo: tutto ciò suggellò, da allora in poi, ildestino di Dorothy. Ma sarà quello stesso corpoa vibrare di compassione e di solidarietà versotutti gli uomini e le donne povere e infelici cheincrocerà nel suo cammino e a farle sperimenta-re come sue le sofferenze del mondo e dell’uma-nità.

Dopo essersi separata da Forster, incontrò Pe-ter Maurin, il grande compagno e socio nellasua vita spirituale e nel suo lavoro apostolico.In lui Dorothy Day trovò un cristiano e un ri-formatore con cui sperimentò una comunione dimente e di sentimenti. Nel 1933 diedero inizioinsieme al Catholic Worker Movement, che nonsolo pubblicò un giornale influente, che in bre-ve tempo raggiunse una tiratura di oltre millecopie, ma fondò anche numerose case di acco-glienza per servire i senzatetto vittime dellaGrande depressione che si era abbattuta sulpaese dopo il crollo della borsa nel 1929. Inquel momento della sua vita Dorothy Day com-pì il passo definitivo di vivere come e con i po-veri.

Temi come la giustizia e la trasformazionedelle strutture sociali — considerate dalla Chiesadei suoi giovani anni come estranee alla ricercadi una salvezza individuale attraverso una cre-scita spirituale, separata dalla responsabilità perl’organizzazione del mondo — l’avevano abitatada sempre e ora si confermavano e davano sen-so alla sua esistenza. Vedeva chiaramente chenon basta lottare contro gli effetti della povertà.La povertà è un male e va estirpata. Occorrepertanto trasformare la società alla radice. Similiriflessioni mostrano che Dorothy Day, nell’esp e-rienza della sua fede cattolica e della sua misti-ca, riceve da Dio ispirazione e conoscenza, chela pongono ancora più avanti delle più avanzateriflessioni dei cattolici del suo tempo.

Tali riflessioni, che si moltiplicano in tutti isuoi scritti, la presentano come una pioniera dimovimenti che sarebbero emersi solo più tardinella Chiesa. La consapevolezza del peccato so-ciale e del bisogno di soluzioni strutturali inve-ce che di soluzioni meramente palliative e fram-mentarie, per esempio, sarebbe stata molto pre-sente nella teologia della liberazione che esplosecon grande forza nella Chiesa latinoamericananegli anni settanta.

Dorothy Day fu certamente una rivoluziona-ria, ma coerente con ciò che chiamava «rivolu-zione del cuore». Fu certamente una mistica,ma una mistica fuori dal comune. Negli annisessanta fu apprezzata ed elogiata dai leaderdella controcultura, come Abbie Hoffman, chela descrisse come la prima hippie, descrizioneche le piacque e che approvò. Scrisse con pas-sione sui diritti della donna negli anni dieci, masi oppose alla rivoluzione sessuale degli annisessanta, avendone osservato gli effetti devastan-ti negli anni venti.

Riuscì a tenere insieme un atteggiamentoprogressista nella difesa dei diritti umani, socialied economici con un senso molto ortodosso etradizionale della moralità e della pietà cattoli-che. La sua devozione e obbedienza alla Chiesanon erano tuttavia cieche o acritiche. Per esem-pio, condannò pubblicamente il generale Fran-cisco Franco durante la guerra civile spagnola, equesto le valse l’opposizione di molti cattolicinordamericani, religiosi e laici. Dovette cambia-re il nome del suo giornale, «Catholic Worker»perché in apparenza «il termine “cattolico” im-plica una connessione ecclesiale ufficiale, quan-do non era quello il caso». Le sue lotte princi-pali furono a favore della giustizia e della pace.Per esse visse e morì. Il suo pellegrinaggio ter-reno si concluse il 29 dicembre 1980 a Ma-ryhouse, a New York, dove morì tra i poveri.

di NICLA SP E Z Z AT I

Questo spazio, che vogliamo dedicato alla vita consacrata femminilenella pluralità delle sue forme, si apre come areopago in cui la riccatraditio (biblico–teologico-ecclesiale) e l’esperienza pluriculturale delledonne consacrate possa raffrontarsi con la temperie provocativa diun’antropologia femminile che va mutando nel suo impatto con lec u l t u re .

Areopago in cui desideriamo che s’incontrino fondamenti e prassidi vita, visioni in processo e pratiche in impasse per elaborare pensie-ro vivo, duttile e fecondo secondo i principi, che hanno sapore di po-stulati, presenti nell’Evangelii gaudium (222-225). Ci riferiamo soprat-

tutto al primo, il più caro a papa Francesco: «Il tempo èsuperiore allo spazio», enunciato la prima volta nell’enci-clica Lumen fidei (57), ripreso nell’enciclica Laudato si’ (178)

e citato nell’esortazione apostolica Amoris laetitia (3 e 261) sirivela come principio dinamico, vettore di seminagioni nuove,

foriero di radici profonde.

Un postulato che suona anche per noi donne consacrate come in-vito a una lettura comune amorevole e critica su cosa significhi, oggi,per la donna la vocazione alla c o n s e c ra t i o per evangelica consilia; un in-

CO N S A C R AT E «PER E VA N G E L I C A CONSILIA»

D onneche abitano il mondo

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sato devono aiutarci, raccomanda Francesco, ad avere il coraggio diaprire nuovi spazi a Dio. Chi, oggi, cerca ostinatamente di recupera-re il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. La fede di-venta una ideologia tra le tante. Papa Francesco, continuando l’op erabella di Benedetto XVI, scuote la nostra coscienza, riconsegnandoci alcuore della Chiesa: i consacrati e le consacrate sono un punto di for-za nella sua visione.

Cosa significa questo per noi donne consacrate? L’indicazione diFrancesco di privilegiare il punto di vista periferico trova nelle donneterreno fertile: per noi è naturale “scollo carci”, cioè cercare di averegli occhi di coloro a cui guardi, di pensare i pensieri di coloro cheascolti, di intuire i desideri di coloro che stanno desiderando, di sce-gliere i colori con cui gli altri vogliono comporre l’arcobaleno. Guar-dare oltre le cose che appaiono, oltre le ferite mostrate, oltre i senti-menti detti, oltre le parole pronunciate, ci appartiene.

Questo spazio di riflessione, ci invita, pertanto, ad accendere inter-rogativi fecondi, processi di domanda e di discernimento che faccia-no il punto sulle istanze antropologiche e culturali che ci toccano davicino. Non rimuovere il proprio essere donne, non dimenticarlo, mafarne il centro di una riflessione specifica dovrebbe essere un puntoall’ordine del giorno delle donne consacrate, una sfida che provieneda Maria di Nazareth, donna posta dallo Spirito, gratia plena, comemodello-ponte tra le culture del femminile. Nel tempo che abitiamoè inevitabile che si confronti l’identità della donna consacrata con lenuove proposte di identità femminile ispirate dalla società laica, dacui provengono le giovani vocazioni. Quali aspetti innovativi accetta-re, quali sottoporre a un severo vaglio e in alcuni casi addirittura ri-fiutare, giudicandoli conflittuali a una consacrazione permanente divita al servizio di Dio, nella sequela di Cristo, costituisce un compitonuovo e ineludibile, per le varie forme di vita consacrata e nelle isti-tuzioni femminili religiose nella Chiesa. Un invito altresì a una peda-gogia adeguata.

Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia.Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove nellapazienza e nell’attesa. La Chiesa, dice Francesco, ha bisogno delpunto di vista delle donne affinché lo Spirito possa creare. In questospazio le donne consacrate sono ad accendere nel tempo processi dipensiero e di prassi.

vito a lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati im-mediati, un invito che aiuta ad affrontare con pazienza situazioni dicrisi con i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impo-ne; ad assumere la tensione tra pienezza e limite; a non cristallizzarei processi e a non pretendere di fermarli, assegnando priorità al tem-po (cfr. Evangelii gaudium, 223). Il tempo ordina gli spazi, li illuminae li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retro-m a rc e .

Le donne che vivono secondo la c o n s e c ra t i o per evangelica consiliaabitano il mondo nel succedersi dei giorni, provate da una stagionefaticosa. Si mostra con evidenza nell’emisfero nord del mondo la de-crescita della scelta femminile per questa forma permanente di vitaevangelica; sono più numerosi gli abbandoni, e complessivamente ri-sulta affannoso intravvedere orizzonte e traguardo. La crisi si mostracon pari evidenza ma con connotazioni diverse nell’emisfero sud, do-ve al numero incoraggiante di donne, che accolgono l’invito a un di-scepolato permanente nella forma del Vangelo, corrisponde una va-riegata rete di difficoltà di ermeneutica e di formazione nei contesticulturali e pluriculturali.

La complessità che segna in uno spaccato mondiale le societàodierne interroga la vita consacrata con istanze molteplici: ci chiederadici vitali e umile genialità per discernere ciò che appartiene allospazio e ciò che è affidato al tempo. Ci viene chiesta un’opera di di-scernimento ardua da cui trarre un paradigma di vita: radicarenell’identità di donne un discepolato per il Regno che abbia il sapo-re della verità silenziosa del Vangelo e dell’appartenenza ecclesiale, inuna società inclusiva e in un contesto culturale interattivo.

Risuona la sfida del passaggio da strade sicure, perché percorse dalungo tempo, a sentieri inediti appena segnati. Papa Francesco in ta-le stagione complessa si è posto accanto alle consacrate e ai consacra-ti, facendosi guida profetica e compagno di viaggio («io successoredi Pietro, consacrato come voi»); e ha mostrato in modo costanteuna particolare attenzione alla vita consacrata del suo tempo, guar-dando i consacrati e le consacrate con amore pro-vocativo. Lo ha fat-to fin dall’inizio del suo ministero con inviti sodi e creativi, a voltecaustici, come è nel suo stile. Inviti che disincagliano dalla routine,dalle sicurezze di carismi custoditi «come acqua distillata in botti-glia», dal giocare a essere profeti: la tradizione e la memoria del pas-

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La schiavap osseduta

di ESTHER MIQUEL

Tra i numerosi personaggi che Paolo incontra nel libro degli Atti degli

apostoli, la giovane schiava posseduta da uno spirito di divinazione(16, 16-19) risalta per la poca attenzione che ha sempre ricevuto. Pocaattenzione da parte del narratore, che utilizza la sua brevissima appa-rizione nel racconto per giustificare l’arresto di Paolo a Filippi, mache poi si dimentica completamente di lei. Poca attenzione anche daparte dei biblisti, che in generale nei loro commenti la menzionanoappena, quando non la ignorano del tutto.

Questo disinteresse per il personaggio è senza dubbio incoraggiatodall’atteggiamento sprezzante che Paolo, il protagonista del racconto,ha nei suoi confronti. Sebbene fin dal suo primo incontro con Paolola giovane renda una testimonianza costante e veritiera che lui e ilsuo compagno Silas sono servi del Dio altissimo e messaggeri delcammino di salvezza, l’apostolo si disinteressa completamente dellesue parole e della sua persona, finché, stanco di essere costantementeseguito da lei, la esorcizza.

La schiava resta privata dello spirito di divinazione, grazie al qualeotteneva pingui guadagni per i suoi padroni, e questi, furiosi, denun-

ciano i due apostoli alle autorità di Filippi, accusandoli di predicareusanze incompatibili con lo stile di vita dei romani.

Se analizziamo il racconto da una prospettiva narrativa, sorprendeenormemente che, dopo la denuncia, nessun personaggio si ricordidella schiava. Benché l’esorcismo che Paolo ha fatto su di lei sia lacausa immediata della punizione che i due apostoli ricevono da partedelle autorità, con una sessione di frustate e una notte in prigione, néi suoi padroni parlano di lei al cospetto delle autorità né a Paolo vie-ne in mente di menzionarla per giustificarsi o difendersi dall’accusa.

Questo silenzio sembra indicare che, nel contesto socioculturalesuggerito dal libro degli Atti degli apostoli e dai suoi lettori, la vita diuna donna schiava era così irrilevante che nessuno, neppure un se-guace di Gesù, avrebbe sentito la sua mancanza nel resto della storia.Di fatto, il suo breve intervento non sembra avere altra funzione chequella di collegare dal punto di vista narrativo la conversione di Li-dia (16, 13-15) a quella del carceriere (16, 25-34) e, forse, d’intro durreuna nota di umorismo inopportuno nel racconto.

Ebbene, questa conclusione contraddice non solo il carattere esem-plare che il comportamento attento e misericordioso del Gesù terrenodoveva presumibilmente avere, ma anche le speranze e le promesse dirinnovamento religioso e sociale proclamate da molti degli scrittineotestamentari. Contraddice, in particolare, il messaggio con cui ini-

A pagina 34san Paolo raffiguratonella chiesadei Santi Vittore e Coronaa Rivalta (Torino)

PAOLO E LE D ONNE

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ziano gli Atti degli apostoli, dove Pietro spiega il comportamento inapparenza incontrollato dei discepoli a Pentecoste citando un oracolodi Gioele in cui si annuncia la venuta dello Spirito santo su tutto ilpopolo. Quell’oracolo sembra essere stato scelto proprio perché enfa-tizza il carattere estatico e democratico dell’intervento spirituale an-nunciato, che si manifesterà per mezzo di sogni e visioni perfino inpersone socialmente insignificanti come gli schiavi e le schiave.

Certo, Gioele si riferisce allo spirito del Dio d’Israele e a schiavi eschiave israelite, non a schiave pagane possedute da spiriti sconosciu-ti. Tuttavia, lo spirito di divinazione che parla attraverso la schiava diFilippi risulta essere uno spirito veritiero che riconosce Paolo e Silascome autentici servi del Dio altissimo inviati a proclamare il cammi-no di salvezza.

A questo punto va ricordato che il monoteismo ebraico antico dicui Paolo e l’autore degli Atti degli apostoli sono eredi, non rifiutaval’esistenza di altri esseri spirituali o soprannaturali diversi dal Diod’Israele. Questo monoteismo esigeva solo che quegli esseri non rice-

Dopo la laurea inmatematicaall’UniversidadComplutense diMadrid, e un master inArts and Sciencesall’università diHarvard (Cambridge,Massachusetts), EstherMiquel è passata aglistudi filosofici e bibliciall’Università pontificiadi Salamanca e, aG e ru s a l e m m e ,

L’autrice

all’Instituto EspañolBíblico y Arqueológicoe all’École Biblique etA rc h é o l o g i q u e .Dal 1999 concilia illavoro all’Agenziastatale di meteorologiaspagnola con la ricercaindipendente sul Gesùstorico e sulle originidel cristianesimo.

vessero culto e non fossero considerati dei, ma solocreature potenti soggette però all’unico Dio, creatoredi tutto ciò che esiste. Pur essendo vero che alcuni diquegli esseri spirituali o soprannaturali erano presumi-bilmente capaci di opporsi alla volontà del creatore,molti altri lo servivano fedelmente come messaggeri eintermediari. E visto che lo spirito profetico dellaschiava diceva la verità e, a differenza degli spiriti im-puri o maligni che appaiono in altri episodi degli At t i

degli apostoli (5, 16; 19, 13-16), non ledeva l’integrità fi-sica o mentale della ragazza, non sembrano esserci va-lidi motivi per cui Paolo non potesse riconoscerlo co-me uno spirito leale all’unico Dio.

È vero che, per evitare ogni devianza da questa concezione delladivinità, D e u t e ro n o m i o 13, 2-6 ordina di uccidere qualsiasi profeta che,fondandosi su una predizione corretta, proponga il culto ad altri dei,e Deuteronomio 18, 10-12 proibisce la presenza tra gli israeliti di quantiesercitano la divinazione, l’augurio o la magia, o di quanti interroga-no i morti. Ma nel caso che stiamo esaminando non si verifica nessu-na di queste circostanze. La schiava non incoraggia nessuno a rende-re culto ad altri dei, lei stessa non è israelita, e Paolo e Sila non han-no chiesto un oracolo. Si tratta di un segno gratuito proveniente dalmondo dei pagani che, in modo analogo ai segnali celesti interpretatidai magi d’oriente in Ma t t e o 2, 1-12, rende una testimonianza veritieraa favore dell’unico Dio dei giudei. Sorprende quindi che lo stesso

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zionale dell’uomo, con minore capacità di autocontrollo, più propen-sa a lasciarsi ingannare dalle apparenze e in generale più vulnerabile.Queste valutazioni negative erano utilizzate per giustificare la suamancanza di diritti politici diretti, la sua reclusione nell’ambito do-mestico e la sua sottomissione all’uomo nella figura del capofamigliao del tutore.

Un’altra categorizzazione importante della struttura sociale anticaè quella che opponeva liberi e schiavi. Anche se tutti sapevano che leguerre potevano dare all’improvviso l’autonomia a una persona, ilfatto che lo schiavo fosse privato della capacità di decidere il corsodelle proprie azioni faceva di lui, agli occhi degli uomini liberi, unessere inferiore, dal quale non ci si poteva aspettare un comporta-mento autenticamente morale, e tanto meno onesto.

La giovane esorcizzata da Paolo negli Atti degli apostoli è donna edè schiava. Appartiene quindi a uno dei collettivi più disprezzati nelmondo antico ed è sicuramente questa totale mancanza di status so-ciale a giustificare, agli occhi dell’autore del libro e dei suoi lettori,l’atteggiamento negligente del suo protagonista verso di lei.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno socioculturale che si ripetecostantemente nella traiettoria di nuovi movimenti religiosi: certepossibilità di cambiamento promosse dal movimento alle sue originivengono presto frenate da preconcetti culturali profondamente radi-

Paolo, che si è recato a Filippi obbedendo alle indicazioni di un pa-gano apparsogli in una visione notturna (Atti degli apostoli 16, 9-10),non attribuisca alcun valore alla testimonianza estatica della ragazza.

L’atteggiamento di Paolo è ancora più difficile da capire se tenia-mo conto che, secondo gli stessi Atti degli apostoli (17, 23-31), l’ap osto-lo era disposto ad accettare che il Dio vero non solo si era rivelato aIsraele, ma che si lasciava anche scoprire dall’istinto religioso dei pa-gani, come dimostrava l’altare dedicato dagli ateniesi al «dio scono-sciuto». In altre parole, se Paolo era disposto a vedere in un dio acui gli ateniesi rendevano culto una manifestazione velata del Dio ve-ro, perché non poteva riconoscere anche nella proclamazione dellaragazza pagana posseduta una manifestazione indiretta di quellostesso Dio?

Alcuni esegeti cercano di giustificare l’atteggiamento di Paolo neiconfronti della schiava sostenendo che esprime il rifiuto dell’uso a fi-ni commerciali dei poteri spirituali. Questa spiegazione è però pocoplausibile. La schiava posseduta proclama il suo messaggio sul Dioaltissimo e sulla missione di Paolo e Silas al di fuori di qualsiasi con-testo oracolare, in luoghi pubblici e senza che nessuno glielo abbiachiesto. In quelle circostanze, né lei né i suoi padroni si aspettavanoalcun beneficio materiale dalle parole che lo spirito l’aveva sponta-neamente spinta a pronunciare. Inoltre il testo dove si narra l’episo-dio non suggerisce neppure che Paolo fosse a conoscenza del com-mercio di consultazioni oracolari che i padroni della ragazza avevanoo rg a n i z z a t o .

Perciò, in mancanza di una spiegazione alternativa, il suggerimen-to proposto sopra — secondo il quale la causa del disprezzo dell’au-tore degli Atti degli apostoli e del loro protagonista Paolo verso la te-stimonianza dello spirito di divinazione sia l’irrilevanza socioculturaledella persona posseduta — si profila come il più plausibile.

In effetti, non è inusuale che un gruppo umano rifiuti conoscenzeutili e preziose per il mero fatto che i suoi portatori appartengono acollettivi carenti di sufficiente riconoscimento o considerazione socia-le. Ciò era molto comune nelle società agricole e patriarcali del baci-no mediterraneo, dove le categorie e le valutazioni collegate alla co-struzione sociale del genere e allo status erano tanto radicate da esse-re considerate parte della natura delle cose.

Le categorie e le valutazioni sociali, con cui il sistema patriarcaleantico costruiva i concetti di uomo e donna, si distinguono per la ri-gidità delle loro differenziazioni, pensate spesso come opposizioni, eper la loro marcata inclinazione per il maschile a detrimento del fem-minile. Le culture patriarcali caratterizzano la donna come meno ra-

Catacombedei Santi Marcellino

e Pietro (Roma)

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MAT T E O 5, 13-16

«Sale della terra»e «luce delmondo»: sonoespressioni cheisolate dal lorocontesto suona-no arroganti ep re s u n t u o s e .

Chi può avere la pretesa di essere luce per glialtri, di dare sapore alla terra? Chi può presu-mere di risplendere di luce propria? Sembral’atteggiamento di chi si erige a maestro, di chipretende di avere sempre qualcosa da insegnareagli altri e impone con prepotenza il suo mododi vedere e di pensare come fosse la verità asso-luta a cui tutti si dovrebbero sottomettere.«Uno solo è il vostro maestro e voi siete tuttifratelli» ammonisce Gesù (Ma t t e o 23, 8). «Saledella terra» e «luce del mondo»: soltanto lettenel loro contesto, al seguito delle beatitudini, eilluminate dall’insieme delle Scritture, questeespressioni manifestano il loro carattere para-

ME D I TA Z I O N E

Salee luce

a cura delle sorelle di Bose

Cumuli di sale a Salar de Uyuni (Bolivia)A pagina 40 un particolare dell’installazione

«Moon Harvest» di Bruce Munro

cati che continuano a pesare sulla mentalità di molti suoi membri.Ciò si osserva con particolare frequenza in movimenti che, come ilcristianesimo nascente, fondano gran parte delle proprie credenze epratiche su esperienze straordinarie e fenomeni estatici. Il fatto chequesto tipo di esperienze e fenomeni si sottomettano con difficoltà alcontrollo umano, insieme alla convinzione che abbiano un’origine di-vina, li rende particolarmente atti a veicolare impulsi egualitari e ra-dicalmente innovatori: se il dio o lo spirito ispira chi vuole e comevuole, nessuno può pretendere di controllare le sue rivelazioni appel-landosi a un incarico, un rango o una posizione sociale. Tuttavia, fin-ché tra i membri del movimento persisteranno valori culturali contra-ri agli impulsi di cambiamento, continueranno a sorgere leader chepretenderanno di frenarli limitando l’accesso allo straordinario o ri-servandosi il diritto di interpretarlo.

Il libro degli Atti degli apostoli rappresenta una fase della storia delcristianesimo nascente in cui le esperienze straordinarie e i fenomeniestatici continuano ad avere grande valore e autorità, ma il peso dicerti preconcetti culturali legati al genere e allo status inizia a contra-stare il loro impulso democratizzatore.

Così, sebbene molte iniziative ed eventi che fanno avanzare il rac-conto abbiano la propria origine in esperienze straordinarie e feno-meni estatici, il narratore non può dissimulare il suo interesse a limi-tare l’accesso al potere spirituale emanato dagli stessi a certi perso-naggi, il cui tipo di guida si vuole in tal modo accreditare. Vediamo,per esempio, che la comunità di Gerusalemme invia Pietro e Giovan-ni affinché, imponendo le mani su quanti sono stati appena battezza-ti in Samaria, siano proprio questi due capi a far discendere lo Spiri-to su di loro (Atti degli apostoli 8, 14-17). Constatiamo anche che, inaperto contrasto con la tradizione evangelica (Ma rc o 9, 38-40; Luca 9,49-50), l’autore degli Atti degli apostoli non permette che alcuni esor-cisti ambulanti utilizzino il nome di Gesù per liberare un indemonia-to (19, 13-17). Ovvero è più interessato a riservare l’uso efficace delsuo nome a capi accreditati della sua storia che a mostrare i beneficiche Gesù risorto è solito dispensare quando viene invocato.

In modo analogo, possiamo concludere che l’atteggiamento diPaolo verso la giovane schiava nel libro degli Atti degli apostoli indicache il suo autore è più interessato a riservare il privilegio di renderetestimonianza su Dio altissimo ad alcuni apostoli, descritti semprecome uomini liberi dal comportamento onesto, che a glorificare quel-lo stesso Dio per essersi lasciato rivelare attraverso un’umile schiavap osseduta.

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dossale e ci indicano qual è la vocazione del cri-stiano.

«Voi siete il sale della terra»: di per sé il salenon serve alla terra, anzi la rende sterile, ma quiGesù intende dire: «Voi siete il sale della vitaumana sulla terra». Il sale nell’Antico Testamen-to è simbolo di comunione, di fedeltà, tanto chenell’ebraico si è giunti a coniare l’e s p re s s i o n e«alleanza di sale» (Numeri 18, 19; 2 C ro n a c h e 13,5) per definire la fedeltà del patto che Dio hastipulato con il suo popolo. Essere il sale dellaterra significa vivere una presenza di comunionee di pace con gli altri esseri umani su questaterra. Matteo prospetta il fallimento di questavocazione; il sale può diventare insipido. Il ver-bo greco qui impiegato (m o rá i n e i n ) significa «di-ventare stolto». È la stoltezza di chi «ha co-struito la casa sulla sabbia» (Ma t t e o 7, 26) e nonsulla roccia, che è il Cristo stesso; è la stoltezzadi quelle cinque giovani donne che hanno presole lampade ma non l’olio (Matteo 25, 2-3). Il sa-le scipito, «stolto», non serve ad altro che a es-sere «gettato fuori», espressione questa frequen-te nel vangelo di Matteo per designare il giudi-zio.

«Voi siete la luce del mondo»: la luce non ciappartiene; possiamo soltanto accoglierla e ri-fletterla. Soltanto Gesù può dire: «Io sono laluce del mondo; chi segue me non camminerànelle tenebre e avrà la luce della vita» (Giovanni

8, 12). Nessun altro può dirlo di se stesso. Nes-sun trionfalismo, nessuna arroganza! Sarà la vi-ta, saranno gli altri, sarà il Signore a giudicarese siamo sale e luce. A noi spetta mantenere ilnostro sguardo rivolto al Signore, in ogni istan-te, in ogni situazione, senza lasciarci distrarre dafalse luci che cercano di sedurci. «Satana si tra-veste da angelo di luce» (2 Corinti 11, 14) ci ri-corda l’apostolo Paolo. Non dobbiamo negarele nostre tenebre, né nascondere, a noi stessi eal Signore, che nonostante il nostro desiderio diseguirlo e di amarlo, ci sono in noi tante resi-stenze, tanti dubbi, tante esitazioni, e che spes-so diventiamo complici delle nostre tenebre, magiorno dopo giorno dobbiamo accogliere la luceche viene dal Signore, riflettere questa luce suinostri volti, su tutta la nostra persona, sulla no-stra vita quotidiana; dobbiamo credere nella lu-ce per diventare «figli della luce» (Giovanni 12,36), amare per rimanere nella luce («Chi amasuo fratello rimane nella luce», 1 Giovanni 2,10). Allora compiremo quelle opere che Matteochiama «belle» (Ma t t e o 5, 16). Che cosa sono le«opere belle»? Sono quegli atteggiamenti illu-strati nelle beatitudini: la povertà di chi si rico-nosce mendicante presso Dio, il pianto sullapropria e l’altrui tenebra, la mitezza, la fame ela sete di giustizia, la misericordia, la purezza dicuore, la costante ricerca della pace in se stessi econ gli altri, il trovare la propria gioia e la bea-titudine soltanto nel Signore, anche se la nostrasequela desta il rifiuto, lo scherno, le false accu-se. «Beati voi quando vi insulteranno, vi perse-guiteranno e mentendo diranno ogni sorta dimale contro di voi per causa mia» (Ma t t e o 5,11).

Anche l’apostolo Pietro invita ad avere una«vita bella» in mezzo agli uomini «perché alvedere le vostre opere belle diano gloria a Dio»(1 Pietro 2, 12). Questa vita bella stupisce e in-terroga; a chi gliene chiede il motivo, il cristianorenderà conto della speranza che lo abita (cfr. 1

P i e t ro 3, 15).

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