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Agata Jaworska è una ragazza che è abituata ad emigrare. Polonia, Germania, Canada, Australia, Olanda. più che fuga di cervelli qui bisognerebbe parlare di nomadismo professionale. Con Agata ci siamo incrociati in Olanda, dove, per il momento, la giovane designer sembra intenzionata a fermarsi. Dopo qualche settimana dal primo scambio di opinioni riguardo ad una possibile pubblicazione, è bastato descriverle brevemente il progetto DID su Skype e subito ci siamo ritrovati con un documento di Google aperto sui rispettivi computer sul quale lavorare insieme. Poche ore dopo il contenuto del libro era pressoché pronto. Il modo di fare design di Agata cerca sempre conferma nella traduzione in business model e nella possibilità di generare profitti e benefici per utenti e aziende. Di questi tempi tali qualità sono più che sufficienti per includere Agata nella lista dei designer con cui abbiamo piacere di collaborare per DID.

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un progetto di:

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Il nome di questa rivista è DID (design is dead), essa si concentra sui nuovi modelli, i nuovi modi di fare design, se vogliamo, sulle nuove tecniche di sopravvivenza che alcuni designer hanno messo a

punto.Queste pubblicazioni presentano il modo di lavorare di progettisti che hanno immaginato micro-sistemi economici e modelli sociali innovativi, così come proviamo a fare noi con DID e il sistema del book-on-demand, il quale ci garantisce di ridurre le spese fisse

e, speriamo, di sopravvivere.

DID si concentra non solo sul “come si fa”, ma anche sui motivi per cui quello descritto da ciascun designer

è l’unico modo possibile di fare le cose.

tinyurl.com/designdead

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Pagine per sponsor di DID 1

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Pagine per sponsor di DID 2

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Pagine per sponsor di DID 3

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AGATA JAWORSKA

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INTRODUZIONESkype+Google docs=libro

Agata Jaworska è una ragazza che è abituata ad emigrare.

Polonia, Germania, Canada, Australia, Olanda… più che fuga di cervelli qui bisognerebbe parlare di nomadismo professionale.

Con Agata ci siamo incrociati in Olanda, dove, per il momento, la giovane designer sembra intenzionata a fermarsi per un po’. Dopo qualche settimana dal primo scambio di opinioni riguardo ad una possibile pubblicazione, è bastato descriverle brevemente il progetto DID su Skype e subito ci siamo ritrovati con un documento di Google aperto sui rispettivi computer sul quale lavorare insieme. Poche ore dopo il contenuto del libro era pressoché pronto.

La capacità di adattamento è una delle qualità principali di Agata Jaworska, la sua determinazione nel raggiungere i risultati la completa. Il suo modo di fare design cerca sempre conferma nella traduzione in business model e nella possibilità di generare profitti e benefici perutenti e aziende. Di questi tempi tali qualità sono più che sufficienti per includere Agata nella lista dei designer con cui abbiamo piacere di collaborare per DID.

Giovanni Innella

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BIOGRAFIAAgata Jaworska

Nata a Wrocław, Polonia, il 19 Ottobre del 1979.

Secondogenita di una famiglia di 4 componenti: fratello filosofo, madre fisica, padre dentista. Gli Jaworska sono emigrati in Germania nel 1984 e successivamente in Canada nel 1987.

Agata decide di studiare progettazione di interni presso la Ryerson Univeristy di Toronto, dopo una visita preliminare dell’istituto. Il motivo è semplice: l’atmosfera della scuola sembra serena e stimolante.

Se l’atmosfera è confortevole, probabilmente le sedie non lo sono abbastanza, visto che nel 2003 Agata Jaworska le ridisegna vincendo il premio per la miglior sedia progettata in Canada lo stesso anno. La sedia disegnata dalla giovane designer è tutt’ora utilizzata dalla scuola.

Prima di laurearsi, però, Agata vola in Australia, dove frequenta un programma internazionale di scambi studenteschi. Qui impara il windsurf e a prendersi cura delle mandrie utilizzando il cavallo, nel frattempo prepara la sua tesi, che le garantisce la laurea con lode una volta tornata in Canada.

Seguono le prime esperienze lavorative a Toronto presso lo studio per la progettazione di interni X-Design e Cannon Design, ma quella non sembra ancora essere la strada giusta per la sua carriera professionale.

Così Agata decide di tornare a scuola, per frequentare il corso IM della Design Academy di Eindhoven, diretto dai fondatori di Droog. Nel 2007 si laurea con lode presso l’istituto olandese, la sua tesi “Made in Transit” si piazza al 34° posto della classifica delle 50 migliori invenzioni del 2008 stilata dal Time Magazine.

Al momento Agata Jaworska vive ad Amsterdam, lavora per Droog come “project & content manager”, per la Design Academy Eindhoven come coordinatrice del corso master IM, e per Gijs Bakker Design come responsabile dei rapporti con la stampa.

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Ryerson Chair - Agata Jaworska

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Ryerson Chair nello stampo di curvatura

Ryerson Lounge Chair

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Agata, ci puoi spiegare brevemente chi sei e di cosa ti occupi?

Hai appena citato tre delle istituzioni e autori più rappresentativi del design olandese, ne deduco che tu sia stata adottata dal Dutch design.

Credi di poter lasciare i Paesi Bassi ed unirti ad un altro movimento di design senza problemi? Non hai paura di correre il rischio di essere marchiata per sempre come Dutch designer? Sai, in un mondo in cui le correnti di design si sostituiscono continuamente potrebbe essere

pericoloso associarsi ad uno specifico movimento.

Quando ti ho incontrata per la prima volta alla Design Academy di Eindhoven stavi lavorando su un sistema di illuminazione capace di

seguire chi la utilizza, di cosa si trattava?

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NELLA PANCIA DEL DUTCH DESIGNUn’intervista con Agata Jaworska

Sono una designer canadese di sangue polacco, vivo ad Amsterdam e lavoro per Droog, Design Academy e Gijs Bakker Design.

Io personalmente non sto cercando di far parte della corrente olandese, piuttosto credo di utilizzare questo contesto per esprimermi. Non lo avverto come un limite e conservo sicuramente una certa indipendenza, tuttavia non nego di essere influenzata dalle persone che mi circondano.

E’ vero: il Dutch design è in voga in questo periodo, ma è difficile rimanere al di fuori di ogni movimento o tendenza. Io non seguo nessuno, ma mi concentro sul contributo che credo di dare, e finché sarà così non avrò pentimenti di alcun genere. Vedi, io credo di poter applicare lo stesso metodo a qualsiasi altro movimento o corrente di design

Quelle erano solo un paio di visualizzazione per un potenziale sistema di luci pensato per persone che vivono da sole. (Light that pays attention: tinyurl.com/lightattention and Tangible light: tinyurl.com/tangiblelight). In “Light that pays attention” ho immaginato che l’abitante di questo monolocale potesse essere seguito da una luce ad occhio di bue, capace di capire cosa stesse succedendo. Nella mia visione l’utente poteva anche spostare questa luce e indirizzarla a suo piacimento

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Perché una luce che segue le persone?

Quindi i trend demografici, i dati statistici, sono l’ingrediente principale del tuo modo di progettare? Non segui le tue ispirazioni? I tuoi

sentimenti? Perché, vedi, questo è quello che molte persone spesso si aspettano dai così detti designer concettuali...

Bisogna stare attenti a non limitare il proprio ruolo a quello di chi illustra i trend sociali e demografici...

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nell’ambiente, la luce diventava uno strumento più personale. In Tangible light, la luce prendeva forma grazie ad un materiale facilmente malleabile, diventava così trasportabile e poteva essere attaccata su qualsiasi superficie o condivisa con qualcun altro. Quello era il mio primo progetto alla Design Academy, il tema era “single life, “vita da single”.

I cambiamenti sociali, come l’aumento delle persone che abitano da sole per esempio, offrono spunti imperdibili per disegnare nuovi oggetti. I nostri insegnanti non ci ponevano limiti sul design finale, non ci veniva mai specificato se bisognava progettare una sedia, una pietanza o un edificio. Ci veniva solo chiesto di reagire ad un trend demografico.

Io cerco di riferirmi il più possibile a indicatori di cambiamento oggettivi. Le statistiche demografiche sono uno di questi. Un semplice dato statistico contiene molte informazioni. Questa è la mia ispirazione, mi piace osservare il mondo e ciò che succede. Non parto mai dalla mia opinione personale. Cerco di applicare il rigore concettuale per scopi molto pratici, in quello che faccio cerco di essere il più pragmatica possibile. La parte concettuale emerge solo se si cambia la prospettiva d’osservazione del progetto.

Il mio lavoro mi porta ad individuare cambiamenti, che a volte possono anche sembrare ovvii, ma dopo di ciò cerco di fornire delle risposte o delle direzioni da prendere. Il mio non è mai un atteggiamento nichilista. Per esempio, in collaborazione con l’agenzia di comunicazione KesselsKramer, ho lavorato con Droog per un installazione intitolata S1NGLETOWN alla Biennale di Venezia. S1NGLETOWN era stata pensata come un’astratta comunità di nove personaggi, ciascuno dei quali costretto a vivere da solo per diverse ragioni. Una serie di prodotti,

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Quindi tu parti dai cambiamenti sociali espressi in dati e li usi per innovare, per migliorare la vita delle persone forse. E gli affari? Ti

preoccupi di generare profitti economici per te o per ipotetici clienti?

Ricordo quel progetto... Dopo la laurea è stato esibito al MoMA ed è stato pubblicato dalla rivista Time, eppure le riviste specializzate di

design non gli hanno dedicato molto spazio.

Chi ha riconosciuto il valore della tua idea?

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servizi e architetture li circondavano affrontando il tema del bisogno di autonomia o di comunicazione. Il nostro ruolo era di introdurre questo trend sociale ad un pubblico più interessato all’architettura e suggerire possibili direzioni.

Decisamente si. Ogni volta che immagino o osservo qualcosa mi concentro spesso sul modello economico a monte.E’ quello che ho fatto anche per il mio progetto di Tesi alla Design Academy di Eindhoven, Made in Transit. Ho iniziato osservando il trasporto delle merci, nella realtà globalizzata nella quale viviamo le merci passano molto tempo in viaggio verso le destinazioni più disparate. Di solito si cerca privilegiare la leggerezza e minimizzare gli ingombri, ma io ho cercato di trovare qualcosa di positivo nel sistema tradizionale di trasporto delle merci. Così ho immaginato che il processo di crescita e maturazione potesse avvenire completamente dentro il packaging nel tragitto verso il supermercato. Il ruolo del design è quindi sistematico, nel senso che in tutto il sistema ho introdotto cambiamenti, a partire dal confezionamento, per finire con le abitudini dei consumatori. La vera sfida è implementare tutto il processo e affrontare i sotto-problemi che si generano.

Diciamo che il mondo del design ci ha messo un po’ a coglierne il senso

I primi ad interessarsi sono stati i biologi e gli esperti in orticoltura e trasporto di prodotti alimentari della Wageningen University. Alcuni di questi specialisti avevano intenzione di lanciare Made in Transit nel loro istituto, avrebbero voluto che io proseguissi con un dottorato all’interno dell’università. Dopo averci pensato un po’ ho deciso che non sarei stata la persona adatta perché non avevo sufficienti competenze specifiche, così ho rifiutato. Poi il Netherlands Packaging Center mi ha

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Forse non era di grande effetto estetico o di facile comprensione. A prima vista sembrava semplicemente un packaging leggermente diverso

dal solito. Come ben sai il design si comunica attraverso le immagini, e questo a volte può essere un limite...

Eppure Made in Transit non è un invenzione vera e propria...

Bene, il tuo progetto ha ricevuto la benedizione di MoMA e Time Magazine tra gli altri, diciamo che hai ricevuto fama ed onore... e i

soldi?

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invitato a presentare la mia tesi in occasione di diversi eventi riguardanti l’industria dei cibi freschi e del confezionamento di questi. In seguito il progetto è stato esibito al simposio Utrecht Manifest, infine il MoMA l’ha scelto per la mostra Design and Elastic Mind. Nello stesso periodo il Time Magazine lo ha incluso nella lista delle migliori 50 invenzioni del 2008.

Si, senza coglierne l’innovazione strutturale e le potenziali implicazioni, il progetto non sembra molto interessante. Il problema è che l’innovazione sta in ciò che il prototipo rappresenta, e non nel prototipo stesso.

Hai ragione, il concetto esiste già, per esempio le banane vengono fatte maturare nei container durante il loro trasporto. Il Time Magazine ha attribuito l’invenzione al packaging, che allo stato dell’arte attuale non funziona ancora, il ché non lo rende neanche brevettabile. C’è molta ricerca scientifica sulla quale continuo a lavorare.

Devo ammettere di non aver ricevuto alcun premio in denaro. Io credo che le persone incontrino molte difficoltà nel comprendere il mio progetto e il mio ruolo di designer. Non riescono a definire quale sia il mio “prodotto”, infatti questo non è il packaging; credo che ci siano designer che possano disegnare confezioni di ogni genere molto meglio di me. Non avviene mai che un’azienda di packaging si rivolga a me chiedendomi di riprogettare il loro funzionamento del loro sistema... Certo, mi piacerebbe che questo succedesse, ma non è così che funzionano le cose.Per arrivare ai clienti bisogna essere molto più intraprendenti. Non si può aspettare di ricevere commissioni, ma piuttosto si devono

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Made in Transit è stato incluso nella lista delle migliori invenzioni del 2008, ma tu ti sei laureata nel 2007...

Qual è la tua metodologia di lavoro?

Ho sentito dire che tu vivi all’interno della galleria di Droog, è vero?

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immaginare nuovi modelli economici, ripensare la distribuzione e la produzione, cercare partner commerciali se servono maggiori risorse.La difficoltà maggiore con questo metodo di lavoro è che non stai proponendo qualcosa che i clienti o i partner si aspettano e che sanno come valutare. Io mi sono ritrovata a contattare un distributore e dirgli che poteva anche diventare produttore, questo vuol dire chiedergli di cambiare il suo modello di lavoro in maniera sostanziale. Trovare clienti diventa quindi molto più difficile. Se il cambiamento immaginato è fattibile allora credo che i designer lo debbano adottare loro stessi per primi, correndo rischi, ma anche godendo degli eventuali profitti. Nel caso specifico di Made in Transit il cambiamento va molto al di là dei miei mezzi, quindi questo crea una dipendenza verso altri attori della catena distributiva e produttiva.

Ci hanno messo un po’ a trovarla. Questa è una storia curiosa: uno dei giornalisti della rivista ha trovato un post che riguardava il mio progetto su un blog di cucina di Hong Kong. E’ stata una casualità.

Dipende da quale aspetto del progetto stiamo parlando. Mi capita di dover gestire budget, di comunicare con partner, clienti, designer, o di lavorare con stagisti, di immaginare nuove possibili direzioni per le aziende per cui lavoro, di visualizzarle o di tradurle in documenti testuali. Bisogna saper fare un po’ di tutto... Io credo di essere brava a lavorare con i concept e dare loro una struttura, pianificare i passi successivi.

Vivo in un edificio che è parte della proprietà di Droog, in realtà questo spazio diventerà presto l’ultimo piano del Droog hotel. Questo mi ha reso la vita molto più semplice, evitandomi di dovermi preoccupare di trovare una sistemazione ad Amsterdam. Mi viene il mal di testa solo a pensarci. Con l’aiuto di due stagisti, abbiamo allestito il Droog Lab al piano terra usando esclusivamente materiale avanzato dal negozio di Droog dopo la sua recente ristrutturazione. Altro materiale

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Ma Droog non è morto? Erano innovativi negli anni ‘90, ma chiunque abbia fatto design d’avanguardia più di 10 anni fa ora è finito nella

categoria dei classici, o peggio ancora in quella dell’obsolescenza, della non rilevanza...

Ho letto che Droog ha da poco inaugurato un nuovo negozio nel Soho a New York, in questo momento mi sembra una mossa per così dire

anacronistica, non credi?

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l’abbiamo rimediato dalle diverse attività di Droog. Le scale e il cortile interno sono gli unici gradi di separazione tra la mia vita privata e quella professionale, questo si traduce in una fluidità altrimenti inimmaginabile.

Droog è in una posizione difficile ora, nel senso che, la loro attività rivoluzionaria degli anni ‘90 ha permesso loro di sviluppare dei pezzi che hanno raggiunto una certa fama e che tutti associano a Droog ancora oggi. A volte questo si rivela un punto di forza, altre volte è invece un fardello.In realtà tre anni fa scrissi un articolo di critica sulla loro installazione Garden of Delight al Salone di Milano del 2006 per una rivista di design canadese. Ora, però, più lavoro con Droog più mi accorgo che la loro mentalità continua ad essere attuale e che Droog è più flessibile e aperto di quanto molte persone credano.Per esempio Droog Lab è un’iniziativa nuova che, pur rimanendo coerente con la mentalità di Droog, risponde a ciò che sta accadendo in questo momento in maniera inaspettata. Con questo laboratorio noi reagiamo alla situazione globale attuale, identificando le priorità globali e locali, collaboriamo con designer, studenti ed esperti di diverso genere. Stiamo cercando di promuovere uno scambio di conoscenza tra diverse culture e tipologie di persone. Tutto questo è in un certo senso nuovo per Droog, ma tuttavia rimane in linea con la direzione intrapresa 15 anni fa. Ora per noi è possibile cambiare medium facilmente: non più solo mobili e oggetti, ma anche eventi, cene, negozi temporanei e prossimamente un ristorante e un albergo.

E’ vero, ma è stata una scelta dettata da un piano di investimenti che guarda al lungo termine, piuttosto che dal panico più recente. E poi, agire contro tendenza fa parte della filosofia di Droog.

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Qual’è il tuo ruolo nel Droog Lab?

Tu ti dedichi esclusivamente alle collaborazioni con realtà più grandi, hai citato Droog, la Design Academy di Eindhoven, Gijs Bakker, forse

dovresti fondare un tuo studio di design.

Capisco, ma se lavori solo con organizzazioni che hanno già una loro visione, il rischio è di non riuscire a definire la tua direzione. Potresti

non riuscire più a sviluppare progetti personali come Made in Transit.

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Io ne gestisco i progetti e la visione generale. Insieme con i direttori e fondatori di Droog Renny Ramakers e Gijs Bakker, abbiamo dato vita a Droog Lab, il nostro obiettivo è di farlo diventare un programma di studi in futuro.Lavoro con due stagisti su progetti in corso o in preparazione di quelli che verranno, sviluppiamo i nostri metodi di ricerca e i risultati finali, inoltre ci occupiamo del posizionamento e della diffusione del laboratorio. Al momento stiamo lavorando al progetto Droog al Arab, in collaborazione con Traffic, un partner arabo, e con i designer Jurgen Bey e Saskia van Drimmelen. Il focus è l’identità contemporanea di Dubai. Bisogna confrontarsi con lo sviluppo del lusso locale e con la nuova popolazione di lavoratori immigrati nella metropoli araba. Tutto questo solleva molte domande su cosa può essere definito locale in un contesto come Dubai.

Io non vedo la mia carriera professionale come quella di chi ha uno studio indipendente e che riceve le commissioni da clienti diretti. La mia attività di freelancer per clienti che già operano nel design mi consente di lavorare su progetti che non riuscirei a procurarmi da sola e di collaborare alla pari con professionisti con cui difficilmente mi troverei a lavorare insieme. Non avere un contratto fisso mi consente anche di conservare una certa indipendenza e libertà.

La sfida è quella di evolvere il mio modo di lavorare all’interno del loro sistema, il mio lavoro influenza il loro. La chiave è avere una buona intesa tra le tue ambizioni e quelle delle persone per cui lavori. E fino a questo momento posso dire che la mia crescita professionale ha subito un’accelerazione. Certo, conservo l’ambizione di dedicarmi maggiormente ai miei progetti e mi chiedo spesso dove sarei se avessi intrapreso esclusivamente quella strada, ma, come ho detto, credo

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Se dovessi avviare una tua attività adesso, cosa faresti?

Cosa rende il tuo modello diverso da quello di altri professionisti che offrono consulenze di design?

Ti stai dedicando a progetti indipendenti da quelli per i clienti per cui

lavori?

Credi che istituti come la Design Academy Eindhoven preparino a dovere gli studenti per un modo di lavorare come quello che hai

descritto?

Come hai detto, tu lavori anche nella didattica della DAE, ci puoi dire come funziona lì?

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di essere al posto giusto ora. Mi viene accordato un discreto potere decisionale.

Al momento ho già un’attività propria, semplicemente ho una specifica tipologia di clienti. Il modello che propongo loro consente di interrompere la nostra collaborazione in qualsiasi momento se non dovessero essere soddisfatti. Io preferisco lavorare così: nel mio caso essere consapevole che la continuazione della collaborazione non è garantita produce migliori risultati.

Per esempio gli studi di design di solito hanno un ufficio proprio, io no. Infatti io opero all’interno delle strutture delle organizzazioni per cui lavoro. In pratica non ho spese fisse.

Sto sviluppando nuovi modelli sostenibili, a volte in collaborazione con altri. Molti di questi sono ancora nella fase concettuale, ma la loro direzione è molto interessante.

La Design Academy mi ha dato abbastanza libertà e informazioni per sviluppare la mia visione di cosa è un designer. Non mi è stato insegnato a lavorare come sto facendo oggi. Forse credo che il sistema scolastico potrebbe insegnare in maniera chiara il nuovo modello professionale e forse potrebbe anche adottare esso stesso un metodo innovativo, per esempio, non limitandosi ad esistere necessariamente in un singolo luogo.

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Credi che il design sia morto?

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Il master IM è gestito da 5 insegnanti provenienti da diverse discipline che vengono sostituiti spesso da insegnanti nuovi. Io credo che sia un sistema ben strutturato. Il problema è che non importa quanto la scuola cerchi di evitare di avere uno stile proprio, gli studenti cercano sempre di individuarlo ed adottarlo.Io credo che il master IM dia sufficiente libertà agli studenti per sviluppare la loro direzione, ma gli studenti spesso non sfruttano questa possibilità. Il risultato tende a rifarsi ad un direzione preconfezionata e prevedibile. Quest’anno abbiamo chiesto agli insegnanti di interpretare il brief in maniera più libera e personale e devo dire che questo sta dando buoni risultati.

C’è tutto il potenziale perché il design possa essere più vivo che mai. Il design per come lo si intende comunemente, è per me morto già da un pezzo.

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Pagine per inserzionista-designer di questo numero

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Pagine per inserzionista-designer di questo numero

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MADE IN TRANSITLa produzione itinerante

Le etichette apposte su prodotti di ogni genere sono spesso più simili a carte di imbarco che a informazioni di fabbricazione. Le diciture “made in”, “assemblato a”, “distribuito in” seguite da nomi di Paesi più o meno remoti ci riferiscono un’assoluta ed evidente verità: le merci viaggiano, e anche tanto. Su una nave dall’Africa all’America o in treno dalla Cina all’Europa, beni di consumo di ogni sorta percorrono migliaia di chilometri rinchiusi nelle loro confezioni e nei container fino a raggiungere la destinazione stabilita.

In molti guardano al trasporto delle merci come uno degli effetti collaterali della globalizzazione, ciononostante esso rimane parte integrante della vita dei prodotti, con buona pace di ambientalisti e sostenitori delle produzioni locali.

Il tempo morto delle merci in viaggio, nasconde un potenziale enorme per chi vuole riorganizzare i sistemi logistici e, come sappiamo, il buon design contemporaneo non può prescindere da questo aspetto.

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UPS, che di trasporti se ne intende, ha già colto le possibilità che si nascondono dietro la necessità di spedire le merci in giro per il mondo. Per esempio, i dipendenti UPS sono stati istruiti su come riparare i computer portatili Toshiba durante le fasi di trasporto, accorciando drasticamente i tempi per le riparazioni e generando benefici per entrambe le aziende.A conferma del fatto che quello del corriere è un lavoro che può includere molto di più della semplice consegna di merci, c’è il caso della ditta danese Maersk, la quale estrae petrolio e costruisce le proprie navi, acquisendo sempre più potere.

E così, mentre molti designer cercano di sviluppare sistemi che evitano le spedizioni, qualcun altro accetta la realtà e si sforza di capire come il trasporto possa integrare i meccanismi di produzione.I primi esperimenti di Agata hanno riguardato l’aspetto estetico e, sfruttando le vibrazioni e i movimenti delle merci nelle confezioni, miravano ad apportare cambiamenti sulla forma e sulla superficie. La sfida vera era però quella di innovare in modo sostanziale e strutturale.Le forniture alimentari offrono spunti interessanti: la materia organica

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modello di packaging “Made in Transit”

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è soggetta a cambiamenti naturali che noi possiamo influenzare modificando le condizioni esterne. I cibi viaggiano moltissimo, basti pensare a tutti quei piatti preparati con ingredienti esotici che si consumano in Europa o America, allora ecco che piantare funghi tropicali in confezioni che sono in realtà micro serre inizia ad avere senso.In pratica, i campi di coltivazione si trasformano in entità invisibili e in continuo movimento, consentendo ai funghi di arrivare sempre freschi al supermercato, pronti per essere raccolti dal consumatore.I benefici sono evidenti: si liberano i terreni per la coltivazione, si accorciano i tempi dalla semina alla vendita, si evitano sprechi di sovrapproduzione, si incentiva il trasporto lento ovvero quello su nave o rotaia (che consuma e inquina molto meno di quello aereo), si elimina la delicata operazione della raccolta, che viene effettuata direttamente dal consumatore.Lo stesso principio può essere applicato non solo ai funghi, ma a tutta una varietà di prodotti alimentari esotici.Ma allora perché Made In Transit non esiste già? Perché quando vado al supermercato mi ritrovo a dover comprare ancora i funghi secchi o

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raccolta di funghi per uso alimentare

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conservati sott’olio? Semplicemente perché portare un cambiamento di questo tipo al processo tradizionale di coltivazione-conservazione-trasporto-vendita vuol dire chiedere a tutti gli attori della catena di cambiare qualcosa: a partire dal substrato su cui seminare, passando per la confezione stessa, per finire con l’atteggiamento dei consumatori, senza dimenticare le condizioni di trasporto, regolamentazioni varie e assortite e strategie di vendita. Insomma, convincere tutti che è tempo di cambiare non è una cosa semplice, ma adesso, ci sta pensando l’andamento generale del mercato a far capire il messaggio.

Nel frattempo la ricerca e lo sviluppo relativi al progetto Made in Transit procedono presso la IE Business School di Madrid, dove un gruppo di studenti del Master si cimenta con la produzione di business model e con la realizzazione di prototipi funzionanti. Inoltre la Massey University in Australia sta coinvolgendo alcuni studenti del dottorato per risolvere i problemi legati alla crescita di batteri indesiderati all’interno del packaging. La Wageningen University in Olanda sembra interessata a lanciare un programma di ricerca per studiare le condizioni ambientali da riprodurre nelle diverse microserre e sviluppare un substrato che garantisca migliori risultati. Le istituzioni si trasmettono informazioni attraverso il network generato da Agata e il progetto si completa ad ogni passaggio, ignorando le distanze geografiche. Come dire che non solo i funghi crescono lungo il tragitto.

illustrazioni preliminari del packaging

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S1NGLETOWNNove personaggi in cerca di (design d’) autore

Alla Biennale d’Architettura di Venezia del 2008 Droog, in collaborazione con KesselsKramer, ha presentato un’installazione chiamata S1NGLETOWN

S1NGLETOWN è un progetto che si può spiegare come una ricetta culinaria. La ricetta di S1NGLETOWN è di quelle collaudate: prendi un dato statistico, analizzalo, traducilo in uno scenario e comunica il tutto scegliendo accuratamente dei progetti di design di qualità.

In questo caso il dato statistico ci dice che nel 2006 oltre la metà delle donne Americane vivono da sole, preferendo la vita da single a quella in famiglia. Il trend è diffuso e continuando di questo passo, nel 2026 un terzo della popolazione mondiale vivrà da sola.

Analizzare questo dato vuol dire comprendere chi sono questi nuovi single, e tradurre tutto in uno scenario significa dare loro un nome, farli diventare dei personaggi, capire cosa vogliono, quanto guadagnano, come vivono...

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Una volta fatto questo inizia il lavoro di curatela, vero punto forte di Droog: osservare, ricercare, spulciare l’immenso archivio di materiale di cui dispone il gruppo Olandese, fino a trovare la migliore corrispondenza tra prodotti e personaggi.

Prendi il tutto e servilo bello fresco alla Biennale di Venezia. E così nell’area dell’Arsenale i visitatori incontrano nove personaggi/manichini sospesi a mezzaria, ciascuno di essi ben descritto in maniera sintetica: per esempio c’è l’OPPORTUNISTA GLOBALE, in altre parole l’eterno studente che viaggia ovunque i suoi studi lo conducano e ha investito tutto in mobili richiudibili su pallet (progetto di Mühlhäuser+Krings, fig. 1), il FRESCO DIVORZIATO che dopo il lavoro vaga tra la folla con la sua giacca di velcro (progetto di Song & Olin, fig. 2) sperando di ritrovarsi letteralmente attaccato all’anima gemella di turno, la RICERCATRICE DI SOLITUDINE che vive e lavora a casa e che per uscire usa un vestito gonfiabile che la isola dagli altri (progetto di Anna Maria Cornelia De Gersem, fig.3), insieme a questi tre personaggi ce ne sono altri sei e molti altri prodotti di cui potete scoprire tutto consultando il sito www.s1ngletown.org/.

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Detta così l’installazione S1NGLETOWN sembra facile come preparare una ricetta seguendo le istruzioni di Wilma De Angelis in “A pranzo con Wilma”. Esattamente come in quel programma, però, questa descrizione manca di tutte quelle informazioni che i libri di cucina non riferiscono: dove trovare gli ingredienti migliori, come trasportarli e conservarli, per non parlare del segreto per fare la crema perfetta che invece compariva magicamente già pronta sul tavolo della brava Wilma. Ecco, Agata insignita del ruolo di Art Director e Coordinatrice inseme alla fondatrice di Droog Renny Ramakers, in realtà si è occupata di tutte le operazioni invisibili al pubblico, che poi determinano la differenza tra un progetto ben riuscito ed uno malamente arrangiato.

Si parte con il lavoro di definizione del concept, per poi sbrigare le faccende burocratiche, gestire i budget, firmare i contratti d’assicurazione, firmare i contratti d’assicurazione, comunicare con i singoli designer cernire i progetti (molti arrivano dalla Design Academy di Eindhoven, bacino illimitato di progetti che Agata conosce bene) e coordinare le operazioni con KesselsKramer.

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Ma non è tutto, per quanto in molti possano pensare essere un ruolo dirigenziale e tuttosommato comodo, essere Art Director e coordinatore nel 2008, vuol dire andare in Canada, farsi spedire quei due cestini che i designer hanno identificato come perfetti, impacchettarli in una scatola di 50X50X100cm, portarsela in aereo da Toronto ad Amsterdam e poi da Amsterdam a Venezia, trascinarla dall’aeroporto all’Armeria, il tutto nella cornice di una Venezia bellissima e romantica, ma invasa da migliaia di turisti come sempre. Essere direttore artistico vuol dire anche girare per i negozi di Venezia alla ricerca del termosifone adatto per completare l’installazione, ed una volta trovato portarlo a braccia a destinazione, coordinare il lavoro di una squadra di installatori italiani che non parlano inglese (salvo poi accorgersi che è più facile farsi mandare qualcuno dall’Olanda per montare il tutto), aiutare a smontare l’installazione, raschiare il vinile dal pavimento e, finalmente, affrontare l’acqua alta con un centinaio di scatoloni da sistemare.

D’altronde i piatti a fine trasmissione, mica li lavava Wilma De Angelis.

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EXTRASul monitor di Agata

Questa è una sezione del libro che il designer è libero di usare a sua discrezione.Agata ha scelto di condividere alcuni screenshot del suo monitor.In linea con la filosofia della condivisione e dell’open source, la designer polacca mostra le sue fonti d’ispirazione, i suoi contatti, la sua corrispondenza e dati relativi alla presenza del suo lavoro sul web.

Noi riportiamo tutto in queste pagine.

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