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L’innovazione organizzativa nelle aziende sanitarie di Angelo Tanese Introduzione La dimensione organizzativa delle aziende sanitarie è forse la più rilevante e al tempo stesso la meno definita del processo di cambiamento attualmente in corso. Se alcuni concetti come la pianificazione strategica, il ciclo di programmazione delle attività e gestione delle risorse, l’orientamento all’utente, appaiono abbastanza chiari o quanto meno evocano qualcosa di preciso e ineludibile nel percorso di rinnovamento del SSN, quando si parla di organizzazione si ha l’impressione di toccare una serie di problemi strutturali e culturali di fondo della sanità, di difficile soluzione. Ad esempio, nelle aziende sanitarie pochi oramai mettono in dubbio la necessità di recuperare efficienza nell’uso delle risorse e di migliorare la qualità dei servizi prestati; i problemi nascono allorché si tratta di definire chi debba occuparsi di fare ciò, con quali ambiti di autonomia, con quali meccanismi di controllo e valutazione, con quale collocazione gerarchico-funzionale all’interno della struttura, e così via. In modo analogo, il problema organizzativo emerge in tutta la sua rilevanza allorché una seria di innovazioni legate all’introduzione di sistemi gestionali (budget, controllo di gestione) o a interventi infrastrutturali (nuove strutture, nuove tecnologie, informatizzazione dei servizi) non riescono a incidere in modo determinante sul miglioramento dei risultati. Spesso in situazioni del genere si finisce per incolpare una generica resistenza al cambiamento o, peggio, una strutturale situazione di ingovernabilità o “irrazionalità” dell’organizzazione, per risolvere la quale non si sa più da che parte cominciare. La spiegazione probabilmente risiede nel fatto che la soluzione di problemi connessi a dati quantitativi (voci di bilancio, prezzi, tariffe) o ad aspetti materiali (edifici, spazi, attrezzature) viene solitamente considerata come una questione prettamente “tecnica”. Viceversa, problemi di integrazione tra servizi, di comunicazione, di motivazione e senso di appartenenza degli operatori, che riguardano sfere immateriali, sarebbero di difficile penetrazione. In realtà, dal nostro punto di vista, la questione di fondo è un’altra: le aziende sanitarie, ma più in generale tutto il SSN, scontano non tanto un deficit di risorse quanto un deficit di conoscenza e di organizzazione. Gli ospedali, i servizi territoriali e amministrativi delle USL, gli stessi assessorati regionali alla sanità, sono sistemi organizzativi che nella maggior parte dei casi hanno conosciuto negli ultimi due decenni uno sviluppo naturale non guidato, una crescita per accumulazioni successive e per giustapposizioni casuali. L’alta complessità del sistema (si pensi ai grandi ospedali metropolitani o al variegato sistema di offerta di servizi privati e convenzionati) non è stata accompagnata da un’adeguata capacità di progettazione organizzativa e di governo. Anche in termini occupazionali e di bilancio, le aziende sanitarie sono normalmente tra le più importanti a Direttore Amministrativo ASL Roma E. Docente di Organizzazione e marketing aziendale e di Gestione del cambiamento organizzativo presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Chieti-Pescara. Il testo è tratto da Hinna L. (a cura di), Management in sanità, Aracne, Roma, 2001.

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L’innovazione organizzativa nelle aziende sanitarie

di Angelo Tanese Introduzione La dimensione organizzativa delle aziende sanitarie è forse la più rilevante e al tempo stesso la meno definita del processo di cambiamento attualmente in corso. Se alcuni concetti come la pianificazione strategica, il ciclo di programmazione delle attività e gestione delle risorse, l’orientamento all’utente, appaiono abbastanza chiari o quanto meno evocano qualcosa di preciso e ineludibile nel percorso di rinnovamento del SSN, quando si parla di organizzazione si ha l’impressione di toccare una serie di problemi strutturali e culturali di fondo della sanità, di difficile soluzione. Ad esempio, nelle aziende sanitarie pochi oramai mettono in dubbio la necessità di recuperare efficienza nell’uso delle risorse e di migliorare la qualità dei servizi prestati; i problemi nascono allorché si tratta di definire chi debba occuparsi di fare ciò, con quali ambiti di autonomia, con quali meccanismi di controllo e valutazione, con quale collocazione gerarchico-funzionale all’interno della struttura, e così via. In modo analogo, il problema organizzativo emerge in tutta la sua rilevanza allorché una seria di innovazioni legate all’introduzione di sistemi gestionali (budget, controllo di gestione) o a interventi infrastrutturali (nuove strutture, nuove tecnologie, informatizzazione dei servizi) non riescono a incidere in modo determinante sul miglioramento dei risultati. Spesso in situazioni del genere si finisce per incolpare una generica resistenza al cambiamento o, peggio, una strutturale situazione di ingovernabilità o “irrazionalità” dell’organizzazione, per risolvere la quale non si sa più da che parte cominciare. La spiegazione probabilmente risiede nel fatto che la soluzione di problemi connessi a dati quantitativi (voci di bilancio, prezzi, tariffe) o ad aspetti materiali (edifici, spazi, attrezzature) viene solitamente considerata come una questione prettamente “tecnica”. Viceversa, problemi di integrazione tra servizi, di comunicazione, di motivazione e senso di appartenenza degli operatori, che riguardano sfere immateriali, sarebbero di difficile penetrazione. In realtà, dal nostro punto di vista, la questione di fondo è un’altra: le aziende sanitarie, ma più in generale tutto il SSN, scontano non tanto un deficit di risorse quanto un deficit di conoscenza e di organizzazione. Gli ospedali, i servizi territoriali e amministrativi delle USL, gli stessi assessorati regionali alla sanità, sono sistemi organizzativi che nella maggior parte dei casi hanno conosciuto negli ultimi due decenni uno sviluppo naturale non guidato, una crescita per accumulazioni successive e per giustapposizioni casuali. L’alta complessità del sistema (si pensi ai grandi ospedali metropolitani o al variegato sistema di offerta di servizi privati e convenzionati) non è stata accompagnata da un’adeguata capacità di progettazione organizzativa e di governo. Anche in termini occupazionali e di bilancio, le aziende sanitarie sono normalmente tra le più importanti a

Direttore Amministrativo ASL Roma E. Docente di Organizzazione e marketing aziendale e di Gestione del

cambiamento organizzativo presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Chieti-Pescara. Il testo è tratto da Hinna L. (a cura di), Management in sanità, Aracne, Roma, 2001.

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livello locale; eppure nello stesso territorio è difficile reperire altre aziende private o pubbliche tradizionalmente così poco attente al proprio assetto e sviluppo interno. Allo stesso tempo, le recenti riforme del servizio sanitario nazionale forniscono alle regioni e alle aziende molti strumenti di intervento per l’avvio di profondi processi di riorganizzazione, con un approccio che mette sempre più in luce la centralità degli aspetti organizzativi nel cambiamento del sistema e nel successo della riforma stessa. In questo capitolo, dopo aver chiarito il significato e le implicazioni profonde del concetto di “autonomia organizzativa”, di cui godono attualmente le aziende sanitarie, analizzeremo più in dettaglio alcune tendenze e esperienze di innovazione verificatesi in Italia negli ultimi anni. 1. Scelte e fabbisogni organizzativi nelle aziende sanitarie 1.1. Significato e implicazioni del concetto di autonomia organizzativa Per comprendere appieno il significato e le implicazioni concrete del concetto di autonomia organizzativa delle aziende sanitarie possiamo schematicamente porre a confronto il modello attuale di SSN, introdotto con la riforma del 1992/93 con l’assetto definito dalla L.833/78. La logica universalizzante della L. 833/78 aveva configurato un sistema in cui il primo principio da rispettare era la garanzia di un servizio unico e omogeneo su tutto il territorio nazionale. Le USL erano mere articolazioni territoriali del sistema e, in un’ottica di predefinizione ex ante del modello, si presentavano con assetti organizzativi identici (almeno formalmente) all’interno della stessa regione e molto simili anche tra regioni diverse. Questa standardizzazione dei modelli organizzativi era la diretta conseguenza di una volontà di costruzione di un SSN forte, cioè di un unico “contenitore” istituzionale all’interno del quale risolvere la frammentazione e la eterogeneità dell’offerta sanitaria ereditata dai precedenti enti mutualistici. Se da un lato questa volontà universalista ha avuto il grande merito di far nascere un sistema sanitario pubblico più forte e omogeneo, dall’altro essa ha creato un divario, sempre più crescente, tra l’assetto formale e quello reale del sistema stesso. Dietro l’apparente omogeneità dei modelli organizzativi formali, infatti, le singole realtà locali hanno realizzato e progressivamente sviluppato sul territorio modelli di offerta dei servizi e di gestione della spesa sanitaria molto diversi tra loro: ospedali superattrezzati e all’avanguardia contro realtà tecnologicamente arretrate, USL e regioni che hanno saputo sviluppare una rete di servizi territoriali contro “deserti” ospedalocentrici, prevalenza dell’offerta pubblica in certe zone e sviluppo ingovernato di strutture private in altre, bilanci in pareggio e deficit insanabili, ecc. Un tale sviluppo “a macchia di leopardo” del sistema è rimasto per molto tempo sottaciuto: deficit, problemi e soluzioni finivano per essere ricondotte al livello centrale1. Omogeneità formale, dunque, ma estrema diversità sostanziale. Con le novità introdotte dai decreti 512/92 e 517/93 e ribadite (almeno negli aspetti che qui ci interessano) dal decreto 229/99, il sistema si – per così dire - “tolto la maschera”: anziché negare la diversità in virtù di modelli organizzativi formalmente omogenei, si è riconosciuto ai singoli elementi del sistema (regioni, aziende sanitarie pubbliche e private,

1 Dall'interno, però, un funzionamento a velocità diverse era facilmente rilevabile, come testimoniano anche ricerche e analisi comparative compiute all’inizio degli anni ’90 (Cerisdi, 1992).

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Università e istituti di ricerca) il diritto-dovere di definire il proprio ruolo, le proprie strategie di sviluppo, il proprio assetto organizzativo. Assegnando maggiore responsabilità alle regioni e istituendo aziende sanitarie dotate di autonomia strategica, organizzativa e patrimoniale, si è riconosciuta la necessità di colmare il divario preesistente tra assetto formale e assetto reale; i modelli organizzativi non sono predeterminati e tutti uguali ma possono essere configurati in funzione delle esigenze locali. All’interno dei vincoli istituzionali del SSN (normativi, di bilancio, di salvaguardia dei principi di servizio pubblico), le aziende sanitarie godono di ampia autonomia nella definizione del proprio assetto organizzativo (Ruffini, 1996). Di qui la possibilità che, anche dal punto di vista formale, esistano all’interno della stessa regione modelli organizzativi differenziati. L’autonomia implica quindi la capacità da parte delle aziende di formulare delle scelte organizzative in funzione di esigenze locali e contingenti (Bergamaschi, 2000). E’ un concetto strettamente legato a quello di responsabilità e alla capacità di programmazione. L’autonomia organizzativa, infatti, non può essere considerata come un attributo normativo, una sorta di status acquisito per decreto, bensì come il risultato di una reale capacità di elaborazione e di attuazione di scelte. La sfida maggiore per le aziende sanitarie in questi ultimi anni è legata proprio alla costruzione di tale capacità, attraverso l’acquisizione di competenze organizzative e manageriali tradizionalmente carenti nelle precedenti USL e mediante il compimento di processi di riorganizzazione. In altri termini, l’autonomia organizzativa delle aziende sanitarie non può essere vista come “la soluzione” ai problemi di funzionamento, ma come una condizione da realizzare sul campo innescando processi di cambiamento e di innovazione reale. Un simile approccio al concetto di autonomia organizzativa sottende un diverso significato del termine stesso di organizzazione e un diverso modo di intervenire sulla dimensione organizzativa delle aziende sanitarie. Non si tratta di elaborare atti, documenti o delibere, ma di agire su quell’insieme di regole, strutture, relazioni, processi, comportamenti e culture che condizionano il perseguimento degli scopi e degli obiettivi dell’azienda. Se l’organizzazione fosse una macchina, sarebbe sufficiente programmarne il funzionamento una volta per tutte e, in caso di guasto, intervenire sul singolo ingranaggio o cambiare il singolo pezzo. Ma poiché l’organizzazione è un sistema sociale, per introdurvi dei cambiamenti occorre agire su quegli elementi che ne condizionano il funzionamento: da un lato gli aspetti strutturali e regolamentari (organigrammi, regolamenti, procedure), dall’altro quelli comportamentali e culturali (valori, atteggiamenti, culture, relazioni interpersonali). Al termine del capitolo torneremo sul problema del cambiamento organizzativo e quindi sulle criticità connesse alla trasformazione di un sistema di relazioni; ciò che ci interessa sottolineare in questa prima parte è che ogni tentativo di innovazione organizzativa all’interno delle aziende sanitarie non dovrebbe prescindere da alcuni presupposti: 1. un approccio aziendale al problema organizzativo richiede che vi sia una coerenza tra

l’organizzazione (la struttura) e le strategie; ogni intervento sull’organizzazione deve creare le condizioni per un miglior perseguimento e raggiungimento degli obiettivi aziendali;

2. l’organizzazione non è né una macchina, né un insieme di regole formali, né uno strumento neutro e manipolabile, bensì un sistema sociale in continua evoluzione e trasformazione; pertanto non può esistere un modello a priori e universale di regolazione e funzionamento di tale sistema, proprio perché per sua natura è specifico e contingente;

3. l’autonomia organizzativa di cui dispongono attualmente le aziende sanitarie deve tradursi nell’avvio di processi di riorganizzazione aventi le seguenti caratteristiche:

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- essere modulati sugli specifici fabbisogni dell’azienda e in linea con gli obiettivi strategici;

- disporre di adeguate risorse, in termini di conoscenze, spazi di manovra normativi, modelli di riferimento, consenso e partecipazione, tempo e risorse finanziarie;

- trasformare dall’interno il sistema, attraverso un graduale e coerente percorso di sviluppo organizzativo, per raggiungere risultati efficaci e durevoli, anziché riproporre un divario tra cambiamenti formali imposti dall’alto e funzionamento reale dell’organizzazione.

1.2. Il Piano di Organizzazione delle aziende sanitarie Lo strumento generale attraverso il quale le aziende sanitarie possono avviare tali processi è il Piano di Organizzazione Rispetto al Piano Strategico, che chiarisce in modo globale finalità, obiettivi e risorse aziendali, il Piano di Organizzazione approfondisce gli aspetti connessi alla dimensione organizzativa, in modo da assicurare la coerenza tra gli orientamenti e gli obiettivi strategici da un lato e la struttura dall’altro. Non sempre le norme regionali che definiscono le linee-guida per l’organizzazione delle aziende sanitarie pubbliche prevedono esplicitamente da parte di quest’ultime la predisposizione del Piano di Organizzazione. La Regione Lombardia, ad esempio, nella L. n.31/97 (Art. 8) prevede che “Il direttore generale della Azienda sanitaria locale e dell'Azienda ospedaliera adotta il piano di organizzazione dell'Azienda e lo sottopone alla approvazione della giunta regionale.” Secondo la L.R. della Regione Abruzzo n. 146/96, il Piano di Organizzazione: a) specifica i criteri che guidano la progettazione organizzativa b) individua le articolazioni organizzative a cui corrispondono specifiche responsabilità e

correlate autonomie, anche attraverso la loro rappresentazione nell’organigramma aziendale

Non sempre le Regioni hanno previsto il Piano di Organizzazione come principale strumento di organizzazione. E’ il caso, ad esempio, della Regione Toscana (L.R. n. 72/98) per la quale tutte le scelte relative allo sviluppo dei servizi e delle attività delle aziende sanitarie devono essere contenute nel Piano Attuativo Locale (così viene definito il documento di programmazione strategica triennale dell’azienda), mentre è il Regolamento Generale che, tra gli altri contenuti definisce anche (art. 21):

- le strutture organizzative e le loro competenze; - le modalità di costituzione e di funzionamento dei dipartimenti di coordinamento

tecnico - le competenze specifiche dei responsabili delle strutture organizzative individuati

e i rapporti tra le strutture medesime; Il Regolamento di Organizzazione, che talvolta è l’unico documento di organizzazione generale delle aziende, è anch’esso uno strumento utile, in quanto chiarisce in modo più dettagliato del Piano le articolazioni, le funzioni e i compiti delle diverse parti dell’organizzazione. Tuttavia, a differenza del Piano di Organizzazione, il Regolamento è un documento statico, che non ha valore di guida di un processo di cambiamento, ma di esplicitazione di un dato assetto; per questo motivo i due documenti non dovrebbero essere considerati

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alternativi e mutuamente escludentisi. Il Regolamento di Organizzazione dovrebbe essere parte dell’attuazione del Piano di Organizzazione. Al di là delle definizioni e coerentemente con l’approccio qui proposto, ogni azienda sanitaria dovrebbe dotarsi di un Piano di Organizzazione, come strumento autonomo di definizione del proprio modello, pur nel rispetto delle linee-guida regionali. Il Piano, così inteso, non può essere visto come la semplice esplicitazione di criteri di progettazione e di strutture organizzative dell’azienda (gli organigrammi), ma deve essere concepito come uno “strumento” di gestione e di innovazione attraverso il quale perseguire gli obiettivi strategici e le finalità istituzionali, creare insomma ulteriori condizioni per l’attuazione del Piano Strategico. In modo schematico, potremmo dire che il Piano di Organizzazione deve accrescere le risorse e le condizioni organizzative per il raggiungimento degli obiettivi aziendali e al tempo stesso ridurre i vincoli e le criticità organizzative (fig. 1).

Tabella 1 - Indice del Piano di Organizzazione Azienda USL di Avezzano-Sulmona (1998) 1. Obiettivi del Piano

1.1. La Legge Regionale 146/96 1.2. Il Piano Strategico Aziendale 1998/2000 1.3. Il Piano di Organizzazione come strumento per l’azienda

2. Analisi dell’attuale modello organizzativo

2.1 Scopo dell’analisi organizzativa 2.2. Il modello organizzativo attuale 2.3. Le caratteristiche del modello organizzativo attuale 2.4. L’attuazione del modello 2.5. Esigenze di riorganizzazione 2.6. La metodologia di analisi adottata 2.7. Le criticità complessive di sistema 2.8. Analisi dei dipartimenti amministrativi 2.9. Analisi dei dipartimenti sanitari di area centrale 2.10.Analisi dei presidi ospedalieri 2.11. Punti di forza dell’organizzazione

3. I fabbisogni organizzativi dell’azienda 4. Il nuovo modello organizzativo 4.1. Area strategica 4.2. Area amministrativa 4.3. Area sanitaria 4.3.1. I dipartimenti sanitari 4.3.2. Area ospedaliera: i modelli di “rete” 4.3.3. Area territoriale 4.3.4. Dipartimenti orizzontali 5. Le linee-guida del cambiamento organizzativo (percorsi attuativi)

5.1. Area della direzione strategica – linee-guida per il cambiamento 5.2. Area amministrativa – Linee-guida per il cambiamento 5.3. Area sanitaria ospedaliera – Linee-guida per il cambiamento 5.4. Area sanitaria ospedaliera – Ipotesi processo di riorganizzazione 5.5. Area sanitaria ospedaliera – Criteri di progettazione dei dipartimenti 5.6. Area sanitaria territoriale – Linee-guida per il cambiamento

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Esso è dunque uno “strumento” al servizio della strategia aziendale: A tal fine, deve essere in grado di fornire:

- un’attenta analisi dei punti di forza e di debolezza dell’assetto organizzativo esistente;

- l’individuazione dei principali fabbisogni organizzativi dell’azienda, in termini di necessità di cambiamento;

- una proposta di riorganizzazione dell’azienda, secondo criteri di progettazione che consentano di ridefinire i livelli di responsabilità, l’articolazione delle funzioni, le modalità di differenziazione e di integrazione delle diverse unità organizzative;

- indicazioni sui percorsi attuativi e di implementazione del nuovo assetto organizzativo aziendale, individuando le fasi e le azioni da intraprendere per attuare efficacemente il processo di cambiamento.

In ultima analisi, il Piano è dunque un documento programmatico aziendale che deve accompagnare e guidare un processo di cambiamento, nelle sue diverse fasi (fig. 2)

MISSIONE AZIENDALE

OBIETTIVI STRATEGICI che tengono conto di

RISORSE E CONDIZIONI ORGANIZZATIVE

VINCOLI E CRITICITA’ ORGANIZZATIVI

PIANO DI ORGANIZZAZIONE accrescere ridurre

Figura 1 – Funzioni del Piano di Organizzazione

Figura 2 – Il processo di cambiamento organizzativo

Analisi organizzativa

Diagnosi organizzativa

Progettazione macrostruttura

Percorsi di attuazione

- Punti di forza e di debolezza dell’attuale modello organizzativo

- Analisi area amministrativa

- Analisi area sanitaria - Processi decisionali - Dotazione di risorse - Relazioni organizzative

- Fabbisogni organizzativi dell’azienda

- Priorità/risorse critiche

- Linee-guida per la progettazione

- Progettazione - Vertice strategico - Livello intermedio - Livello operativo - Unità di staff - Servizi di supporto

- Progettazione microstruttura

- Individuazione responsabili

- Regolamenti - Piante organiche - Sistemi di budget - Sistemi di

incentivazione

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Ovviamente, per portare a compimento il processo non è sufficiente il Piano; per dare attuazione ai diversi interventi di riorganizzazione sarà necessario di volta in volta elaborare specifici documenti o strumenti operativi aventi una forte valenza organizzativa:

- regolamenti di organizzazione (es.: generali, di dipartimento o di distretto sanitario)

- definizione di linee-guida, procedure, protocolli (sia amministrativi che sanitari) - accordi contrattuali relativi al personale e all’applicazione degli strumenti di

incentivazione - atti di gestione del personale (assunzioni, trasferimenti, cessazione di rapporti di

lavoro, ecc.). 1.3. La fase di analisi/diagnosi organizzativa Ogni intervento di riorganizzazione aziendale dovrebbe muovere da un’attenta fase di analisi e diagnosi organizzativa, che consenta di far emergere da un lato i “punti critici” dell’organizzazione specifica su cui intervenire, dall’altro le priorità e le proposte di intervento concreto. Ovviamente occorre distinguere tra interventi di riorganizzazione che riguardano l’intera azienda e mettono in discussione il funzionamento aziendale nel suo complesso, e processi più mirati, che intervengono su singole parti dell’organizzazione e per un periodo di tempo definito. I primi, infatti, sono connessi a veri e propri processi di turnaround aziendali, in cui la dimensione organizzativa del cambiamento diventa solo uno degli ambiti di intervento (assetto economico-finanziario, strategie competitive, nomine dirigenziali, relazioni interistituzionali, strategie di medio-lungo periodo). Nel secondo caso, invece, si tratta di avviare dei processi di sviluppo organizzativo che aiutano l’azienda a migliorare il governo e/o il funzionamento di una o più strutture (es. istituzione e sviluppo dei dipartimenti, creazione del servizio infermieristico, avvio dei distretti sanitari di base, decentramento amministrativo, ecc.) (fig. 3).

Figura 3 - Oggetto del check-up organizzativo

INTERA ORGANIZZAZIONE PROCESSI DI TURNAROUND

SINGOLA PARTE PROCESSI DI SVILUPPO ORGANIZZATIVO

Scopo principale dell’analisi organizzativa è quello di verificare e valutare la validità e l’efficacia dell’attuale modello organizzativo. Si tratta in buona sostanza di far emergere le “criticità organizzative”, sia a livello generale di azienda, sia a livello di singole parti dell’organizzazione (ad esempio area amministrativa, area ospedaliera, area territoriale). Esempi di tali criticità possono essere:

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- l’eventuale presenza di duplicazioni e/o sovrapposizioni nelle attività svolte (ad esempio le procedure amministrative di acquisto, il sistema di prenotazioni degli esami specialistici)

- attività non sufficientemente presidiate (es. servizi territoriali, funzioni di staff alla direzione generale, logistica e servizi informativi)

- eventuali “blocchi” decisionali e operativi nel funzionamento delle strutture, che creano un utilizzo inefficiente delle risorse e/o disservizi per l’utenza (gestione dei pronti soccorso, gestione ricoveri e dimissioni ospedaliere, manutenzioni, integrazione ospedale-territorio o tra ospedali).

Dall’analisi possono emergere anche delle criticità in positivo, vale a dire quelle attività, professionalità, potenzialità di innovazione già presenti in azienda ma che allo stato attuale non sono sufficientemente valorizzate e riconosciute. L’analisi, quindi, deve essere in grado di fornire una ricostruzione dei meccanismi di funzionamento dell’azienda e delle singole strutture; non deve essere una sorta di indagine inquisitoria per scoprire “buoni e cattivi”, ma una fotografia dell’esistente quanto più possibile analitica e “neutra”. In un secondo momento – di diagnosi organizzativa – sarà possibile utilizzare la conoscenza fornita dall’analisi per valutare i punti di forza e di debolezza dell’organizzazione, le coerenze/incoerenze tra la struttura attuale e le strategie aziendali, i fabbisogni specifici di risorse, competenze, regole cui cercare di soddisfare per il futuro. Per condurre in modo appropriato un intervento di analisi/diagnosi organizzativa occorre tener conto di tre aspetti: 1. la natura specifica delle aziende sanitarie come organizzazioni; 2. gli elementi istituzionali, ambientali e strutturali specifici di ogni azienda 3. la distinzione dei diversi livelli di intervento sull’assetto organizzativo. 1.3.1. La natura specifica delle aziende sanitarie come organizzazioni E’ un aspetto ampiamente trattato in letteratura (Borgonovi, Zangrandi, 1988). Solitamente vengono messi in evidenza:

- la natura pubblica del servizio e l’appartenenza ad un sistema istituzionale (SSN) che vincolano al rispetto dei principi classici del sevizio pubblico e al rispetto delle relazioni gerarchico-funzionali con gli altri soggetti del sistema (rapporto Stato-Regioni-Aziende sanitarie);

- l’assenza di un mercato e di un prezzo dei servizi sanitari come regolatore del mercato;

- la personalizzazione del servizio sanitario, erogato in regime di autonomia professionale da parte degli operatori, e la sua difficile misurabilità (si pensi alla componente soggettiva nella percezione della qualità o soprattutto alla difficoltà di valutare l’impatto di servizi che producono effetti sulla salute in modo indiretto o diffuso, come l’attività di prevenzione).

Dal punto di vista organizzativo, oltre a questi aspetti generali, diventano rilevanti anche altre caratteristiche delle aziende sanitarie, di più diretta pertinenza per le scelte strategico-organizzative: a) l’interdipendenza dei processi produttivi: per soddisfare i bisogni di salute dei cittadini in modo unitario occorre un forte coordinamento tra servizi e strutture diverse; dal punto di vista dell’utente, possiamo dire che in sanità uno stesso bisogno viene soddisfatto da

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attività e servizi che fanno riferimento a soggetti diversi all’interno dell’organizzazione (percorsi di prevenzione-diagnosi-cura-riabilitazione) o a organizzazioni diverse (integrazione pubblico-privato o pubblico-pubblico); b) la diversità dell’offerta: ogni azienda sanitaria produce un numero elevato di servizi che devono essere gestiti contemporaneamente; la natura pubblica comporta inoltre una serie di attività di tipo amministrativo e certificativo non direttamente legate alla tutela della salute ma che ampliano ulteriormente le dimensioni della struttura organizzativa; c) la visibilità sociale e il bisogno di legittimazione: la rilevanza politica delle scelte di programmazione sanitaria (come ad esempio il problema della chiusura dei piccoli ospedali, la localizzazione delle sedi dei servizi decentrati, le priorità nell’istituzione di nuovi servizi) e il forte impatto mediatico e sull’opinione pubblica di tutto ciò che riguarda la sanità (e soprattutto la “malasanità”) vincolano l’azienda sanitaria alla ricerca del consenso e del confronto con i soggetti portatori di interesse a livello locale (enti locali, sindacati, associazioni, partiti), in tutte le scelte organizzative di maggior rilievo. In altri termini, proprio per la natura pubblica e le finalità istituzionali di tutela della salute delle aziende sanitarie non esiste una mera razionalità “tecnica” delle decisioni strategiche e organizzative; occorre, in modo più ampio e complesso, una razionalità “politica”, che implementi tali decisioni in uno specifico contesto locale, interagendo con tutti gli altri attori, istituzionali e non; d) la centralità e la complessità della variabile tecnologica nei processi di innovazione: anche se l’attenzione in questi ultimi anni si è concentrata sul contenimento della spesa sanitaria e sull’innovazione “a costo zero” del sistema, sfruttando margini di miglioramento e sacche di inefficienza, è indubbio che l’innovazione in sanità non possa prescindere da una politica di investimenti, di ammodernamento delle strutture, di adeguamento delle tecnologie, di utilizzo delle potenzialità connesse ai sistemi di trattamento e invio di informazioni. I processi di riorganizzazione in sanità appaiono sempre più strettamente connessi a una diversa consapevolezza e utilizzo delle tecnologie biomediche e informatiche, con un eventuale aumento dei costi attualmente in controtendenza con la contrazione delle risorse disponibili. 1.3.2. Gli elementi istituzionali, ambientali e strutturali specifici di ogni azienda E’ bene ricordare che tutte le scelte organizzative possono e devono avere unicamente un carattere contingente, cioè valido per quella specifica azienda in quello specifico contesto. Occorre dunque tenere presente i seguenti aspetti: a) la tipologia di azienda

- azienda USL monopresidio ospedaliero - azienda USL pluripresidio ospedaliero - azienda ospedaliera monopresidio - azienda ospedaliera pluripresidio - azienda ospedaliera policlinico universitario - istituti di ricovero e cura a carattere scientifico - cliniche private

b) le caratteristiche dell’ambiente di riferimento - caratteristiche geografiche del territorio - caratteristiche socio-demografiche della popolazione di riferimento

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- bacino di utenza - situazione epidemiologica e bisogni di salute del territorio - contesto culturale, politico e economico-sociale

c) le strategie aziendali - obiettivi a breve e medio termine (piano strategico) - politiche di investimento e sviluppo

d) la storia organizzativa dell’azienda - situazione pregressa pre-aziendalizzazione (es. in caso di accorpamento di

USL) - eventi e figure di riferimento nella storia dell’azienda - cultura organizzativa e clima interno

e) i vincoli e i riferimenti normativi - linee-guida e atti di indirizzo regionali - piano sanitario regionale - budget annuale

Si tratta di aspetti che non riguardano in senso stretto il modello organizzativo, ma che hanno una valenza organizzativa per le implicazioni che pongono in termini di fattibilità e pertinenza di eventuale processi di riorganizzazione. Si pensi, ad esempio, alla istituzione di un modello dipartimentale in ambito ospedaliero; non si può tenere conto del numero e della localizzazione geografica degli ospedali presenti nell’azienda, delle indicazioni e linee-guida regionali, delle priorità strategiche definite dal piano aziendale; allo stesso modo, è impossibile progettare la rete dei servizi territoriali a prescindere dalla conoscenza delle culture locali, degli orientamenti e delle azioni degli enti locali, della domanda di servizi reale e potenziale dei cittadini, della abitudini consolidate nell’offerta e nell’accesso ai servizi. 1.3.2. La distinzione dei diversi livelli di intervento sull’assetto organizzativo. Per quanto riguarda, infine, i livelli dell’analisi, possiamo individuarne quattro, fortemente integrati: a) il livello macrostrutturale dell’azienda, vale a dire l’articolazione delle funzioni e delle

responsabilità, così come definito dall’organigramma generale dell’azienda; b) il livello delle singole microstrutture, vale a dire la struttura interna, l’organizzazione del

lavoro e l’attribuzione di compiti e funzioni di singole unità o posizioni organizzative; c) i sistemi operativi, vale a dire le procedure amministrative e tecniche, i percorsi del

paziente, i sistemi di programmazione delle attività e di erogazione dei servizi, i flussi di informazione e di comunicazione interni ed esterni;

d) il clima e la cultura organizzativa, che riguardano in modo più specifico gli atteggiamenti, le routines, le relazioni interpersonali, i ruoli di leadership, il grado di conflittualità o di coesione all’interno delle strutture, il senso di appartenenza all’azienda e di condivisione degli obiettivi aziendali, ecc.

L’analisi/diagnosi organizzativa non dovrebbe limitarsi al primo livello, come spesso avviene, ma approfondire i problemi connessi anche agli tre (Costa, Nacamulli, 1996). Nelle tabelle 2,3,4 e 5 si fornisce in modo sintetico il quadro delle problematiche, degli oggetti e degli strumenti di analisi organizzativa per ognuno dei quattro livelli.

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Tabella 2 – Analisi della struttura organizzativa a livello macro

OGGETTO DI ANALISI ASPETTI RILEVANTI

Funzioni/Attività svolte dalle singole unità organizzative

Duplicazioni (attività inutili) Sovrapposizioni (attività non integrate) Carenze (attività/funzioni non garantite)

Relazioni intra- e interorganizzative Relazioni sequenziali Relazioni reciproche Competizione Risorse comuni

Meccanismi di coordinamento Supervisione diretta Grado di standardizzazione Adattamento reciproco/mecc. informali Strutture di coordinamento

STRUMENTI DI ANALISI : dati di attivita’/documenti aziendali/interviste

Tabella 3 – Analisi della struttura organizzativa a livello micro

OGGETTO DI ANALISI ASPETTI RILEVANTI

Attività svolta Tipologia – Gruppi di Attività Omogenee Volumi di attività

Organizzazione del lavoro Criteri di organizzazione del lavoro Regolamenti interni Compiti, mansioni, ruoli

Processi decisionali Tipologie di problemi da risolvere Soggetti che concorrono alla decisione Modalità e criteri di decisione

Personale Analisi quantitativa e grado di turnover Analisi qualitativa (potenzialità/fabbisogni)

Logistica/spazi/attrezzature Dotazione Percorsi Duplicazioni/carenze/inefficienze

STRUMENTI DI ANALISI :dati di attivita/documenti interni/questionari/interviste

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Tabella 4 – Analisi dei sistemi operativi

OGGETTO DI ANALISI ASPETTI RILEVANTI

Sistema di programmazione e controllo

Architettura del sistema Ruoli chiave Strumenti operativi

Sistema informativo

Sistemi informativi e di comunicazione aziendali

Sistemi informativi e di comunicazione interna

Dotazione tecnologica – Strumenti

Sistema di gestione del personale Meccanismi di selezione/inserimento Sistemi di gestione orari e turni Aggiornamento/formazione Sistemi di valutazione e incentivazione

Processi e sottoprocessi Obiettivo di processo Sottoprocessi Team leader o process owner

Flusso di processo (flow chart)

Analisi dei momenti di trasformazione (singole attività e sottoprocessi)

Ruoli coinvolti Strumenti di interfaccia/moduli/documenti Analisi tempi, risorse e costi

STRUMENTI DI ANALISI :documenti aziendali e di U.O./shede/interviste/riunioni

Tabella 5 – Analisi della cultura e del clima organizzativi

OGGETTO DI ANALISI ASPETTI RILEVANTI

Cultura organizzativa Storia organizzativa Eventi o figure rilevanti del passato Aspetti materiali Aspetti simbolici e valori dichiarati

Stile di direzione Gestione del tempo Modalità di interazione con coll/sub Consapevolezza del proprio ruolo Strumenti di direzione

Motivazioni/atteggiamenti

Motivazioni ruoli critici Figure leader Casi di innovazione interna Atteggiamenti nei confronti della direzione Visione del futuro – Aspettative

Resistenze al cambiamento Interessi in gioco Conoscenza degli obiettivi Partecipazione Esperienze passate

STRUMENTI DI ANALISI : questionari/interviste/osservazione diretta

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2. Tendenze evolutive nell’organizzazione delle aziende sanitarie 2.1. I fabbisogni organizzativi a livello macrostrutturale Una panoramica esaustiva delle innovazioni organizzative sperimentate e realizzate nelle aziende sanitarie italiane richiederebbe uno spazio e una trattazione più ampi. Tuttavia, alla luce dei chiarimenti teorici e metodologici contenuti nella prima parte, attraverso il confronto delle esperienze concrete è possibile individuare alcune principali tendenze. Dal punto di vista generale, metteremo in evidenza i principali cambiamenti in atto nei modelli di macrostruttura delle aziende; focalizzeremo poi l’attenzione su due forme di innovazione a nostro parere di particolare rilievo e attualità, vale a dire il potenziamento delle funzioni di staff e l’introduzione di modelli dipartimentali. I modelli organizzativi delle aziende sanitarie, così come ereditati dalle precedenti USL, avevano in generale una struttura molto piatta e larga (fig. 4) Contrariamente infatti al luogo comune che vuole le strutture pubbliche caratterizzate da una molteplicità di livelli gerarchici che “allungano” il modello e rendono molto distante la base dal vertice dell’organizzazione, le strutture sanitarie si sono sviluppate principalmente attraverso la proliferazione in orizzontale di nuovi servizi, specializzazioni e strutture operative, venendo a configurare una struttura in cui i livelli gerarchici “di fatto” erano sostanzialmente due:

- la Direzione Generale: i Direttori Generali hanno sostituito le figure di Presidente del Comitato di Gestione prima e di Commissario Straordinario poi, per cui, pur avendo competenze e poteri molto ampi, si sono trovati a svolgerli senza una struttura di direzione preesistente;

- la direzione delle singole strutture operative: primari di reparti, responsabili di servizi e settori amministrativi.

Come dicevamo, lo sviluppo organizzativo del modello è stato per lungo tempo di tipo principalmente quantitativo: l’istituzione di un nuovo reparto/servizio comportava l’istituzione di un nuovo primariato, quindi l’allargamento del modello in orizzontale (Corradini, 1996).

Figura 4 – Modello organizzativo tradizionale USL

Direzione

U.O. tecnico- amministrative U.O. sanitarie

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Ovviamente si tratta di una astrazione e di una schematizzazione che non tiene conto delle diverse tipologie di USL, dei contesti specifici e dei tentativi in atto in alcune realtà, già prima dell’istituzione delle aziende, di modificare l’assetto organizzativo della USL. Tuttavia, se ragioniamo in termini generali, i problemi che questo tipo di struttura organizzativa e di sviluppo hanno generato sono stati un’eredità comune molto diffusa nelle aziende sanitarie. In sintesi essi possono essere ricondotti a due. 1. II primo è la sproporzione tra le dimensioni del vertice e l’ampiezza della base: aziende

con migliaia di dipendenti e decine di servizi e strutture operative erano abituate a un rapporto tra direzione e servizi molto personalizzato: a seconda delle situazioni un rapporto diretto e informale, formale e burocratico, o una totale assenza di rapporto. La debolezza o l’assenza di funzioni di integrazione organizzativo-gestionale (sistemi di programmazione e controllo, politiche di sviluppo organizzativo e di gestione strategica delle risorse umane, sistemi informativi e di comunicazione interna) da un lato, e l’erronea equazione “autonomia professionale = autonomia organizzativa” dall’altro, ha portato in genere ad una condizione delle strutture operative di :

- forte frammentazione (sono molto più importanti le relazioni verticali interne alla singola struttura che quelle orizzontali tra strutture);

- autoorganizzazione (eterogeneità di modelli organizzativi a livello micro, funzionamento del reparto fortemente vincolato alla capacità organizzative e al carisma del responsabile, in una situazione più simile all’“autarchia” che all’autonomia vera e propria);

- impermeabilità delle strutture alle spinte innovative provenienti dall’esterno (in assenza di un governo complessivo del sistema, ogni cambiamento si realizza se vi è una spinta e un interesse proveniente dall’interno delle singole strutture, altrimenti “perché farlo?”).

2 Il secondo problema, diretta conseguenza del primo, è la debolezza di governo

complessivo e di sviluppo integrato del sistema. In assenza di meccanismi operativi e di una cultura organizzativa che integrino le diverse strutture, facendole sentire parte di un’unica organizzazione, vincolando le loro scelte e i loro comportamenti naturalmente portati all’autonomia, è difficile ipotizzare che l’appartenenza formale allo stesso ente garantisca di per sé il perseguimento di obiettivi comuni. In un contesto del genere, l’unica strada percorribile per chi ha la responsabilità complessiva è quella di moltiplicare relazioni ad hoc con le singole strutture, di dirigere e gestire rapporti ad personam. Non è un caso che la maggior parte delle Direzioni Generali delle aziende sanitarie abbia dovuto sostenere inizialmente un carico pressante e quotidiano di questioni e problemi operativi che, per assenza di filtri e livelli intermedi, risalivano in breve tempo al vertice.

Da questa situazione, ampiamente diffusa, sono emersi dei fabbisogni prioritari nella riprogettazione della macrostruttura aziendale, che possiamo così sintetizzare: 1 Rafforzare le funzioni di direzione generale dell’azienda 2 Semplificare l’assetto organizzativo, rendendo più governabile e più chiaro 3 Superare la frammentazione del livello operativo, rafforzando l’integrazione 4 Chiarire i livelli di autonomia e di responsabilità nell’uso delle risorse 5 Creare le condizioni per l’innovazione e per l’orientamento dell’organizzazione all’utente

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Se questi sono i fabbisogni organizzativi più diffusi2, tra le soluzioni attualmente sperimentate dalle aziende sanitarie ne analizziamo due: il potenziamento degli staff di direzione e l’istituzione dei dipartimenti. 2.2. Il rafforzamento delle funzioni di governo attraverso il potenziamento degli staff L’introduzione di nuove funzioni e uffici di staff nelle aziende sanitarie è un’innovazione che riguarda principalmente la parte alta dell’organigramma aziendale, vale a dire la Direzione Generale, intesa in senso ampio come insieme delle tre figure di Direttore Generale, Direttore Amministrativo e Direttore Sanitario, dalla cui attività individuale e collegiale dipende per buona parte il governo e lo sviluppo dell’azienda. Per unità di staff intendiamo quelle unità organizzative che non sono preposte alla direzione di strutture e di servizi (collocati in posizione di line), ma allo svolgimento di funzioni di supporto tecnico e metodologico alla direzione per lo svolgimento della sua attività di governo e indirizzo dell’azienda (Mintzberg, 1985; Perrone, 1990). Tra tali funzioni possiamo comprendere, ad esempio:

- Pianificazione strategica, budget, controllo di gestione - Organizzazione e sviluppo risorse umane - Relazioni sindacali - Marketing e offerta di servizi a pagamento - URP e comunicazione esterna - Qualità dei servizi alberghieri e accesso ai servizi - VRQ e audit medico - Informatica e telematica sanitaria - Gestione tecnologia - Gestione e valorizzazione patrimonio - Gestione politiche assicurative - Terziarizzazione servizi e politiche di make or buy - Programmazione finanziaria e politiche di investimento

Come si vede, si tratta principalmente di problematiche che devono fornire la necessaria conoscenza, gli strumenti teorici e operativi per la presa di decisioni del vertice aziendale. Le scelte operative connesse all’istituzione di unità di staff riguardano: 1. l’individuazione dei contenuti dell’attività delle funzioni da svolgere: per ognuna delle

funzioni sopra elencate occorre definire in modo più preciso compiti, attività e modalità di integrazione e scambio con altre unità organizzative aziendali;

2. l’individuazione delle professionalità e delle competenze necessarie; 3. l’individuazione della collocazione organizzativa e della specifica soluzione operativa

dello staff; in altri termini, si tratta di decidere dove è collocato il singolo staff all’interno dell’organigramma aziendale e che tipo di rapporto contrattuale con l’azienda intrattengono coloro che ne svolgeranno le funzioni.

In genere lo staff è alle dipendenze della Direzione Generale per tutte quelle funzioni che riguardano l’intera azienda e non sono strettamente collocabili in area amministrativa o sanitaria (es. pianificazione strategica, marketing, sviluppo organizzativo, qualità), mentre

2 Ovviamente si tratta di fabbisogni presenti nella maggior parte delle aziende sanitarie, ma che acquistano poi un peso più o meno rilevante e contenuti specifici a seconda delle singole realtà. Non vogliamo quindi sostenere che essi siano sempre gli stessi o che vi siano soluzioni identiche e modelli organizzativi validi per tutte le aziende. Ricadremmo in un apriorismo e in un astratto formalismo burocratico di cui abbiamo già evidenziato i limiti.

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può essere alle dipendenze del Direttore Amministrativo o del Direttore Sanitario per funzioni specifiche (come la funzione di Gestione delle politiche assicurative nel primo caso o di VRQ – audit medico nel secondo) (fig. 5). Figura 5 – Staff di Direzione Generale e Sanitaria nell’azienda USL di Rovigo In alcuni casi (Regione Toscana, ad esempio) tutta l’attività di Direzione Generale e di staff di supporto alle tre direzioni confluisce in un’unica area definita Centro Direzionale dell’Azienda (fig. 6), cui fanno capo anche i servizi amministrativi e tecnici centralizzati. La collocazione organizzativa in ogni caso dipende dall’assetto specifico della macrostruttura aziendale, e quindi non è possibile individuare una collocazione giusta o sbagliata in assoluto. In aziende di grandi dimensioni e con un modello dipartimentale “forte” (chiariremo il significato di questo modello nel prossimo paragrafo) possiamo anche prevedere un’articolazione degli staff anche a livello di singolo dipartimento. L’importante è che tali funzioni, sempre più rilevanti nel processo di innovazione e cambiamento siano formalmente previste dall’organigramma aziendale e vengano assolte da figure competenti. Con riguardo alla competenza necessaria per lo svolgimento delle funzioni di staff nasce un secondo problema, rispetto al quale sono attualmente presenti soluzioni differenziate:

- ricorso a consulenti esterni (in genere è la soluzioni iniziale in assenza di competenze interne o per funzioni particolarmente innovative e rilevanti, come la pianificazione strategica);

- consulenti esterni a supporto di personale interno, che nel tempo assumerà in modo autonomo il presidio della funzione (spesso questo avviene per le funzioni di sviluppo organizzativo, controllo di gestione, relazioni sindacali)

- personale dipendente dell’azienda, o di nuova assunzione (talvolta si tratta di dirigenti assunti con contratto a tempo determinato) o con un apposita formazione. Nel caso di personale interno il problema si pone anche nel decidere quale tipo di competenza e di professionalità sia necessaria per

DIRETTORE GENERALE

DIRETTORE SANITARIO

CONSIGLIO DEI SANITARI DIRETTORE

AMMINISTRATIVO

Segr. Dir. Gen.

Com. e marketing

Progr. e ContGest

Piani e progr.

Controllo Qualita'

Progetti Europei

Prev e protez.

Servizio Inferm.

Ass. farm. Territor.

Ass. farm. Ospedal.

Dir. Org. Poliamb.

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svolgere funzioni innovative, che esulano dalle competenze tradizionali sia del personale amministrativo che di quello sanitario. E’ il caso, ad esempio, dello staff Acquisti (o Commerciale), in cui coesistono sia problematiche amministrative che sanitarie, o lo staff Qualità aziendale.

Figura 6 – Centro Direzionale dell’azienda USL di Lucca Al di là delle scelte sul nome e sulle professionalità degli staff, occorre poi garantire che tali strutture svolgano effettivamente il loro ruolo di supporto alle decisioni strategiche della direzione; molto spesso dal loro funzionamento dipende in buona parte il consolidamento dei processi di cambiamento e la standardizzazione dei meccanismi organizzativo-gestionali che regolano il funzionamento dell’organizzazione (budget, gestione risorse umane, sistemi informativi, controllo di gestione). Il rischio peggiore nel potenziamento delle funzioni di Direzione Generale è quello di istituire strutture vuote, inutili, scarsamente produttive, o che operano in modo troppo isolato rispetto alle attività di routine e alle reali esigenze dell’organizzazione. L’istituzione degli staff, insomma, proprio per il loro ruolo strategico nel governo dell’azienda, dovrebbe rispondere all’esigenza di coprire un fabbisogno reale dell’organizzazione e non di istituzione di una nuova “casella” sull’organigramma da andare a occupare. 2.3. La semplificazione e l’integrazione organizzativa attraverso l’istituzione dei

Dipartimenti L’organizzazione Dipartimentale ha fatto il suo ingresso nuovamente in Sanità in questi ultimi anni, benché il concetto di dipartimento fosse già presente nella L. 128/69.

Direzione Generale

Direzione Sanitaria

Direzione Amm.tiva

Relazioni pubbl.

Tecnolog Informat.

Controllo di gest

Assicur. qualità

Politiche Person.

Prev prot rischi

Sist. Inf Statist.

Affari generali

Aff Legali contratti

Gestione Person.

Acquis. Beni/serv

Gest. Ec-fin

Magazz.Econom.

Nuove opere

Manut.immobili

Tecnolog sanitarie

Igiene e organizz

Coord. infermier

Educaz salute

Coordin. Tecnico

Epidemiologia

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L’idea che un’aggregazione di reparti ospedalieri in un’unica struttura sia funzionale al miglioramento dell’assistenza non presenta quindi un carattere particolarmente innovativo. Tuttavia è soltanto con l’aziendalizzazione delle USL e i conseguenti processi di riorganizzazione che il modello dipartimentale si configura concretamente come soluzione più idonea all’organizzazione delle aziende sanitarie, e non soltanto in ambito ospedaliero. Innanzitutto proviamo a chiarire cosa si intende per dipartimento, avvalendoci della linee-guida elaborate nel 1996 dall’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali, che lo definisce come “un insieme di Unità Operative affini, omogenee e complementari che funzionano sulla base di obiettivi, regole e/o risorse comuni” (ASSR, 1996). Il fatto che si sottolinei che le risorse possono non essere comuni (“e/o”) ha implicazioni importanti sul funzionamento del dipartimento, come vedremo in seguito. Ciò che ci interessa sottolineare in prima istanza è come questa definizione di dipartimento sia molto ampia. Fondamentalmente essa richiama una qualche forma di integrazione formalizzata tra strutture operative che, pur mantenendo autonomia e responsabilità da un punto di vista clinico-professionale, condividono lo stesso modello organizzativo. Il dipartimento, quindi, così concepito ha una valenza prettamente organizzativo-gestionale, perché è implicito nella sua definizione che, quale che sia il criterio di aggregazione adottato, l’integrazione tra Unità Operative sarà meglio di una loro separazione (fig. 7).

Figura 7 – Il dipartimento

DIPARTIMENTO = Insieme di Unità Operative AFFINI, OMOGENEE o COMPLEMENTARI che funzionano sulla base di OBIETTIVI, REGOLE E RISORSE COMUNI

Es.: Il dipartimento orizzontale tra tre presidi ospedalieri diversi della stessa azienda

Ma quali sono i vantaggi attesi dalla cosiddetta “dipartimentalizzazione”? E’ opinione largamente diffusa che esso “faccia risparmiare”. Tuttavia, l’attenzione all’efficienza di questi ultimi anni rischia di far perdere di vista altri vantaggi, di natura non direttamente economica, che possono derivarne. Possiamo dire che vi sono diverse razionalità sottostanti l’aggregazione di Unità Operative: a) una razionalità economica, giacché è ampiamente dimostrato che a parità di risorse

l’aumento dei volumi di produzione riduce il costo medio; è il principio delle economie di scala che in sanità può essere particolarmente rilevante in quei casi in cui si ha una duplicazione di risorse (attrezzature, posti letto, materiali di consumo, personale) tra Unità Operative che svolgono la stessa attività; mettere in comune tutte o parte di tali

Responsabile Dipartimento

Unità Operative Presidio X Unità Operative Presidio Y U.O. Presidio Z

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risorse comporta una maggiore efficienza data dalla flessibilità nell’uso e dalla riduzione di costi fissi;

b) una razionalità assistenziale, connessa al fatto che l’aggregazione di unità operative può risolvere meglio il problema dell’interdipendenza dei processi produttivi. Questo è evidente per quelle Unità Operative complementari che gestiscono fasi diverse di uno stesso percorso diagnostico-terapeutico (si pensi a un dipartimento che integra le fasi di diagnostica-cura-riabilitazione) e possono in tal modo integrare meglio l’offerta in funzione della domanda. Ma il Dipartimento può altresì aumentare la qualità dell’offerta, laddove integrando Unità Operative simili, innesca un processo di selezione e/o di differenziazione, che può favorire la specializzazione o l’ampliamento delle attività (si pensi a un dipartimento di chirurgia generale in cui le singole Unità che in precedenza svolgevano la stessa attività si specializzano nel trattamento di patologie diverse o al caso in cui una di esse si trasforma in Unità di Day Surgery);

c) una razionalità scientifica, nel senso che il dipartimento rende possibile il confronto tra professionisti, l’ampliamento complessivo della casistica, la possibilità di mettere in comune risorse per svolgere attività di ricerca, sperimentazione, aggiornamento e formazione altrimenti difficilmente gestibile all’interno di una singola Unità Operativa. Allo stesso modo, il Dipartimento può essere il livello di riferimento per la definizione di linee-guida aziendali e percorsi diagnostico-terapeutici aziendali definiti sulla base dell’evidenza;

d) una razionalità organizzativo-operativa, spesso trascurata, ma che può rivelarsi essere la più importante nel processo di cambiamento attualmente in atto, e che attiene ai vantaggi derivanti da una più precisa attribuzione di responsabilità e a una maggiore integrazione nella soluzione di problemi comuni a più Unità Operative. L’esempio può essere quello dello sviluppo delle attività di Day Hospital/Day Surgery, che traggono vantaggio dalla messa in comune di spazi e risorse comuni, della gestione di spazi per la libera professione o per attività ambulatoriali, dalla definizione di procedure comuni di integrazione ospedale-territorio (relazioni con la medicina di base, con l’assistenza domiciliare, con la prevenzione).

Ovviamente, a seconda del tipo di dipartimento che si viene a costituire (quindi a seconda che si tratti di Unità Operative affini, omogenee o complementari) e a seconda anche delle caratteristiche contingenti dell’azienda, potranno prevalere le une o le altre ragioni. Esse sono comunque potenzialmente tutte presenti e ogni progetto di riorganizzazione in chiave dipartimentale dovrebbe muovere da una chiara esplicitazione a livello aziendale delle finalità ad esso sottostanti. In ambito organizzativo nessun cambiamento dovrebbe mai essere avviato “perché si deve”, ma soltanto “perché serve”, nel senso che si colloca, come abbiamo detto, in una definita e esplicita strategia aziendale. Come vedremo, la chiarezza degli obiettivi e un approccio al cambiamento organizzativo che parta dall’individuazione di fabbisogni concreti e non da obblighi normativi o “mode” passeggere, sono due condizioni necessarie per l’esito efficace del cambiamento stesso. Passando a analizzare i diversi modelli di dipartimento occorre schematicamente fare alcune distinzioni: 1. distinzioni relative alla forma dipartimentale, vale a dire al tipo di modello adottato 2. distinzioni relative al contenuto, vale a dire al criterio di aggregazione delle Unità

Operative 3. distinzioni relative al funzionamento, vale a dire alle regole di gestione e direzione

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2.3.1. La forma dipartimentale Per quanto riguarda la forma dipartimentale dobbiamo distinguere tra: a) modelli dipartimentali “forti” e modelli dipartimentali “deboli”

I primi sono quelli in cui tutte le Unità Operative aziendali, siano esse reparti ospedalieri, servizi tecnico-amministrativi, servizi diagnostici o territoriali, unità di staff, confluiscono in un dipartimento. Nella macrostruttura aziendale il dipartimento diventa la struttura organizzativa cardine, il primo livello di direzione all’interno del quale ricadono tutti i livelli inferiori. In un modello dipartimentale “forte” di tipo puro ogni unità organizzativa appartiene ad uno e ad un solo dipartimento. Figura 8 – Il modello dipartimentale “forte”

Nel modello dipartimentale “debole” l’aggregazione di Unità Operative in Dipartimenti non è estesa a tutta l’azienda; si assiste quindi alla copresenza dei dipartimenti e di altre strutture organizzative di primo livello; in alcuni casi si tratta di una fase intermedia di sviluppo organizzativo, durante la quale la dipartimentalizzazione è stata avviata sperimentalmente in alcune aree aziendali e si prevede di estenderla progressivamente, in caso di successo, all’intera organizzazione. Figura 9 – Il modello dipartimentale “debole”

DIREZIONE AZIENDALE

DIPARTIMENTI AMMINISTRATIVI

DIPARTIMENTI SANITARI

DIPARTIMENTI TECNICI

U.O. U.O. U.O. U.O. U.O. U.O. U.O. U.O. U.O.

DIREZIONE AZIENDALE

DIPARTIMENTO

U.O. U.O. U.O.

UNITA’ OPERATIVA

SETTORE SERVIZIO UNITA’ OPERATIVA

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Un caso di modello dipartimentale forte è, ad esempio, quello dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, in cui tutte le Unità Operative, servizi e settori sia in line che in staff sono ricondotti all’interno di dodici dipartimenti. Figura 10 – Modello dipartimentale dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma (1998) b) Modelli dipartimentali “verticali” e modelli dipartimentali “orizzontali” La distinzione è legata alla localizzazione fisica delle Unità Operative aggregate nella stessa struttura o in strutture diverse; la questione concerne principalmente i dipartimenti ospedalieri nel caso in cui l’azienda disponga di più presidi, come è generalmente il caso nelle aziende USL. Ad esempio, nel caso di un’azienda con quattro presidi ospedalieri, possiamo avere dei dipartimenti verticali di presidio, che aggregano cioè unicamente U.O. appartenenti a quell’ospedale (un dipartimento di Medicina che aggrega tutte le U.O. mediche, un dipartimento di Chirurgia che aggrega tutte le U.O. chirurgiche), e dipartimenti orizzontali che aggregano U.O. di presidi diversi (un dipartimento di Diagnostica per immagini che aggrega le radiologie di tutti e quattro i presidi, un dipartimento Cardio-Vascolare che aggrega servizi diagnostici, U.O. mediche e riabilitative di presidi diversi) (fig. 10). Figura 11 – Dipartimenti verticali e orizzontali

DIREZIONE GENERALE

Qualità aziendale

Servizi Malattie polmonari

Scienze chirurgiche

Cardio-scienze

EconomicoFinanziario

Materno-infantile

Scienze mediche

DEA Neuro-scienze

Risorse umane

Patrimonio e inform.

Presidio A

Presidio B Presidio C

Presidio D

Presidio A

Presidio B Presidio C

Presidio D

Dip. Dip.

Dip. Dip.

Dip.

Dip. UO UO

UO UO

UO UO

UO UO

Dip. x Dip. y

Dipartimenti verticali

Dipartimenti orizzontali

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La scelta tra l’uno e l’altro modello, come abbiamo più volte ricordato, dipende da elementi contingenti e da priorità strategiche della singola azienda: il dipartimento verticale rafforza l’integrazione all’interno dei presidi (ad esempio l’uso comune di posti letto, personale, attrezzature) ma può, in realtà caratterizzate da scarsa integrazione e “campanilismi” territoriali, aumentare l’isolamento delle strutture, a scapito dell’omogeneità di trattamento dei pazienti e dell’uso efficiente di risorse; il dipartimento orizzontale spinge l’organizzazione verso logiche di rete, che favoriscono la specializzazione o la cooperazione intra/interaziendale delle strutture ospedaliere (Meneguzzo, 1995). Ovviamente è sempre possibile per un’azienda avere entrambe le forme e, a seconda delle esigenze, istituire sia dipartimenti del primo tipo che del secondo. Una forma particolare di dipartimento orizzontale è il dipartimento “transmurale” o misto che aggrega Unità Operative ospedaliere e servizi o Unità Operative territoriali; tra questi, ad esempio, possiamo trovare in genere il Dipartimento Materno-Infantile (con i consultori distrettuali), il Dipartimento di Emergenza (che comprende anche il servizio 118) o il Dipartimento di Salute Mentale. Un esempio di modello dipartimentale alquanto articolato, con la presenza di dipartimenti verticali, orizzontali ospedalieri e orizzontali transmurali è quello dell’Azienda USL di Viterbo, sul cui territorio sono presenti sei presidi ospedalieri (fig. 12). Figura 12 – Modello dipartimentale dell’Azienda USL di Viterbo (2000) 2.3.2. Criteri di aggregazione delle Unità Operative I criteri di aggregazione solitamente sono classificati nel modo seguente: Dipartimento per Aree funzionali (Es.: Medicina, Chirurgia, Diagnostica per immagini,

Patologia Clinica); Dipartimento per Intensità e gradualità delle cure (Es.: Riabilitazione, Emergenza,

Terapie intensive, Trapianti);

Dipartimento Ospedale (verticale)

Presidio osp.

Dipartimento Ospedale (verticale)

Dipartimento Ospedale (verticale)

Presidio osp. Presidio osp.

Dipartimenti di Polo ospedaliero (orizzontali) - Medicina - Chirurgia - Cardio-vascolare - Onco-ematologico - Diagnostica per immagini - Patologia clinica - Riabilitazione

Dipartimenti interarea ospedale-territorio (orizzontali transmurali) - Materno-Infantile - Emergenza-Utrgenza - Salute Mentale

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Dipartimenti per Settore nosologico (Es.: Onco-ematologia, AIDS e Malattie Infettive, Salute Mentale);

Dipartimento per Fasce di età (Es.: Geriatrico, Materno-Infantile); Dipartimento per Branca specialistica (Es.: Discipline mediche specialistiche, discipline

mediche generiche, discipline chirurgiche specialistiche); Dipartimento d’Organo o apparato (Es.: Cardio-vascolare, Neuroscienze, Apparato

osteo-articolare, Malattie Polmonari). I differenti criteri possono coesistere e possono variare nel tempo. In genere il dipartimento per Aree funzionali è quello più diffuso nelle strutture di piccole dimensioni, mentre i dipartimenti specialistici o d’organo si rilevano nelle strutture più grandi o a carattere scientifico/universitario. Anche in questo caso, poiché l’afferenza di un’Unità Operativa è alternativa ad altre collocazioni possibili, essa deve essere motivata da ragioni contingenti. Ad esempio, un’Unità medica di Neurologia può essere collocata sia in un dipartimento di Area funzionale medica o, in alternativa, in un dipartimento più specialistico di Neuroscienze. Non esiste un criterio di aggregazione “giusto” o valido universalmente, ma scelte che devono essere finalizzate al soddisfacimento di un fabbisogno organizzativo specifico e che devono essere testate e valutate nel tempo (è sempre possibile ridefinire i criteri e la composizione dei dipartimenti, scorporando in un secondo momento da un Dipartimento per Aree funzionali, ad esempio, un Dipartimento d’organo o specialistico). 2.3.3. Il funzionamento del dipartimento Il funzionamento del dipartimento non dipende unicamente dal modello adottato e dai criteri di aggregazione, ma anche (e soprattutto) da una serie di scelte relative ai ruoli, alle funzioni e all’organizzazione microstrutturale del singolo dipartimento. In linea generale possiamo dire che la distinzione di fondo è tra :

- dipartimento “strutturale” - dipartimento “funzionale”

In letteratura si fa spesso confusione nella terminologia, dal momento che con dipartimento funzionale alcuni intendono un dipartimento il cui criterio di aggregazione è per aree funzionali (AA.VV., 1996). Dal nostro punto di vista la distinzione tra strutturale e funzionale non deve essere intesa con riguardo ai criteri di aggregazione delle Unità Operative, quanto ad una serie di altri aspetti elencati in tabella 6, e in particolare al grado di comunanza delle risorse. Quanto più le Unità Operative mettono in comune le risorse (personale, attrezzature, posti letto), quanto più il responsabile di dipartimento assume un ruolo di direttore e gestore di tali risorse, tanto più il dipartimento assume una valenza di “struttura”, in cui si richiede un livello di integrazione interna e di responsabilità direttive molto elevato. Il dipartimento “funzionale” è invece più finalizzato alla definizione di obiettivi congiunti e alla realizzazione di forme di coordinamento che non necessariamente richiedono un’alta comunanza di risorse o una figura di direttore. Va da sé che mentre un’Unità Operativa può teoricamente appartenere a più dipartimenti funzionali, in quanto pur definendo programmi e obiettivi comuni con altre U.O. mantiene comunque la titolarità delle risorse e l’autonomia di gestione dei fattori produttivi, non è possibile che appartenga a più dipartimenti strutturali.

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Tabella 6 – Confronto tra Dipartimento strutturale e funzionale

Variabili Dipartimento strutturale Dipartimento funzionale

Fattori produttivi Allocati al Dipartimento Allocati alle singole Unità Operative

Ruolo del responsabile di dipartimento

Direttore Responsabile gerarchico Coordinatore

Funzioni prioritarie del dipartimento Organizzativo-gestionali Tecnico-scientifiche

Negoziazione di obiettivi e risorse Direttamente con la Direzione Generale

Con la Direzione Generale e con altri Dipartimenti strutturali

Appartenenza delle Unità Operative

Al proprio Dipartimento e a quello soltanto

Eventualmente anche a più Dipartimenti

Tutti gli aspetti relativi al funzionamento del dipartimento possono essere chiariti in un apposito regolamento. In genere, nelle aziende sanitarie vengono elaborati due tipi di regolamento:

- un Regolamento Generale di Dipartimento, valido per tutti i dipartimenti aziendali, che dovrebbe chiarire i seguenti aspetti

Definizione Funzioni Tipologie e criteri di aggregazione Organi di dipartimento (composizione, modalità di nomina e revoca,

funzioni e responsabilità) Risorse di Dipartimento Compiti del Responsabile di Dipartimento Compiti del Responsabile di Unità Operativa Servizi comuni o altri ruoli di coordinamento di dipartimento (es.

coordinatore infermieristico o tecnico) Staff di Dipartimento (eventuale) Relazioni con Direzione Generale Relazioni interdipartimentali Relazioni interne al Dipartimento Sistemi di gestione (es. cenni sul rapporto tra Dipartimento e sistema

budgetario)

- un Regolamento specifico di dipartimento, che chiarisca, all’interno delle regole generali, il funzionamento e l’organizzazione interna del singolo dipartimento.

A conclusione di questo paragrafo, occorre sottolineare che il successo/insuccesso dell’organizzazione dipartimentale non dipende unicamente dalle scelte di struttura organizzativa, che pur sono necessarie per la definizione di livelli, competenze, responsabilità. La struttura organizzativa, sia a livello macro che micro, è il contenitore all’interno del quale si collocano tutte le altre scelte e i successivi passaggi attuativi dei processi di riorganizzazione. Tra questi un posto di rilievo occupano, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dei dipartimenti, l’articolazione del sistema di budget e i meccanismi contrattuali.

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3. L’innovazione organizzativa alla prova dei fatti Ogni innovazione organizzativa va valutata non per la sua originalità o per la sua chiara formalizzazione, ma per i risultati che produce nel breve-medio periodo. Per questo, come abbiamo sottolineato, è importante che ogni riorganizzazione sia preceduta da un’attenta analisi e esplicitazione dei fabbisogni reali; altrimenti diventa difficile adottare un criterio di valutazione del successo/insuccesso dell’innovazione nel rispondere a quelle esigenze emerse in fase di diagnosi. Forse, dunque, il primo problema che si pone attualmente nelle aziende sanitarie è che la molteplicità di processi e di cambiamenti avviati negli ultimi anni rischia di “sfuggire di mano”, per usare un’espressione metaforica, nel senso che si perde la capacità di monitoraggio e di verifica del loro andamento, con il rischio di ridurne la portata. Analisi non fatte, soluzioni bell’e pronte e semplicemente deliberate, assenza di una chiara esplicitazione e comunicazione di obiettivi, tempi e ruoli della riorganizzazione, sono alcuni tra le cause più diffuse di fallimenti nei processi di cambiamento (Tanese, 1999). Quali sono dunque le condizioni o le variabili da presidiare per garantire o – quanto meno – favorire l’efficacia dei processi di innovazione organizzativa? Sulla base delle concrete esperienze di cambiamento di questi ultimi anni, proveremo a elencare le principali, sotto il duplice aspetto di rischio e di fattore critico di successo. 1. Il primo rischio è quello di limitare l’innovazione alla semplice deliberazione formale di

un nuovo assetto Vi sono casi in cui la definizione di una nuova macrostruttura aziendale diventa l’atto principale, se non l’unico, dell’intervento di riorganizzazione complessiva dell’azienda. Il ridisegno dell’organigramma è considerato il fine ultimo del cambiamento, in quanto dal nuovo disegno emergerebbero le nuove strutture aziendali, le posizioni di ciascuna di esse, le relazioni gerarchiche e i compiti assegnati. Da quel momento in poi l’unico problema sarebbe quello di individuare i responsabili delle diverse “caselle”. Per molto tempo le riorganizzazioni sono state interpretate come sinonimo di promozioni e nuove assunzioni, cioè come gestione delle piante organiche e degli avanzamenti di carriera. Come abbiamo detto, la nuova logica aziendale deve andare oltre questo approccio riduttivo, amministrativo e personalistico alla progettazione organizzativa, inserendo tutte le scelte di sviluppo (quindi anche quelle relative alle politiche del personale) in una logica più ampia di modernizzazione e apertura dell’organizzazione. Come abbiamo detto, la variabile critica del cambiamento non è la progettazione o – addirittura, in ottica ancora più riduttiva – la formalizzazione del nuovo assetto. Quest’ultima è un evento puntuale, che sebbene necessario (per le esigenze di trasparenza, rilevanza giuridico-amministrativa e garanzia proprie dell’istituto pubblico), non è sufficiente di per sé a generare il passaggio reale da un vecchio a un nuovo modello. Affinché questo avvenga occorre ragionare in termini di percorso di sviluppo e di graduale adattamento dell’organizzazione alle mutate regole di funzionamento, presidiando le diverse fasi, di cui la formalizzazione è soltanto una (figura 13).

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Figura 13 – L’innovazione organizzativa come processo 2. Il secondo rischio è quello di attribuire troppa importanza al cambiamento della

struttura organizzativa e di sottovalutare gli aspetti connessi ai sistemi operativi e alla cultura organizzativa.

Se la struttura organizzativa può chiarire le linee principali di articolazione di funzioni e compiti all’interno dell’azienda, non si può chiedere ad essa di risolvere tutti i problemi di integrazione e di coordinamento tra le diverse unità organizzative che la compongono. In un’azienda USL, ad esempio, sono presenti diversi potenziali criteri di organizzazione:

- un criterio settoriale-funzionale, sulla base delle discipline medico-specialistiche o delle funzioni tecnico-amministrative;

- un criterio geografico-territoriale, per quanto attiene all’articolazione della rete distrettuale;

- un criterio divisionale e di struttura, per quanto attiene alla direzione di presidi ospedalieri o di aree omogenee (ospedaliera, territoriale, amministrativa);

- un criterio professionale, che riguarda la distinzione tra personale medico, infermieristico, tecnico e amministrativo, e sottogruppi di ciascuno di questi.

Ad esempio, se consideriamo un’infermiera che svolge attività di assistenza domiciliare sul territorio, teoricamente potrebbe avere come referenti un responsabile di distretto (criterio

5. Implementazione del nuovo modello (farlo funzionare)

4. Formalizzazione del modello (renderlo cogente)

3. Progettare il nuovo modello in modo contingente (elaborazione di proposte e soluzioni specifiche)

2. Analizzare la situazione esistente e individuare i fabbisogni organizzativi (partire dai problemi)

1. Chiarire le spinte al cambiamento: (perché farlo?)

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territoriale), un responsabile di dipartimento geriatrico (criterio settoriale-funzionale), un coordinatore infermieristico (criterio professionale). Talvolta, per risolvere questa pluralità di livelli organizzativi, tutti legittimi perché soddisfano esigenze di integrazione diverse ma reali, si istituiscono figure e ruoli di coordinamento che appesantiscono la struttura organizzativa. E’ il caso, ad esempio, della Legge Regionale n. 72/1998 della Regione Toscana, che prevede per ognuno di questi livelli l’istituzione di strutture o ruoli di coordinamento ad hoc. Senza entrare nel dettaglio della Legge (che ha peraltro il merito di evidenziare tutte le esigenze di integrazione e coordinamento sottese all’organizzazione delle aziende sanitarie) vogliamo sottolineare come essa rischi di attribuire eccessivo peso alla struttura come principale strumento di organizzazione aziendale. E’ abbastanza evidente, invece, che l’integrazione e il coordinamento tra unità operative, professionalità e logiche d’azione diverse (si pensi ad esempio al rapporto tra Azienda USL, Dipartimenti Territoriali, Distretti Sanitari e Medicina di base; Longo, 1999) si ottiene agendo su altre variabili, quali i sistemi di programmazione e controllo, i sistemi informativi, la comunicazione e la cultura organizzativa. 3. Il terzo rischio, strettamente connesso al precedente, è quello di dimenticare che

l’organizzazione è essenzialmente fatta di uomini e la persona umana è quindi il centro di ogni processo di apprendimento all’interno di un sistema sociale

Su questo aspetto esiste un’ampia letteratura e studi di casi concreti (Rebora, 1990; Tanese, 2000). A seconda dell’approccio adottato, vengono di volta in volta messe in rilievo :

- le dimensioni psicologiche e motivazionali del cambiamento, che spiegherebbero le resistenze individuali o, in termini positivi, il grado di coinvolgimento e commitment dell’individuo agli obiettivi dell’organizzazione;

- le dimensioni culturali del cambiamento, che chiamano in causa più gli aspetti legati alla comunicazione interpersonale, alla formazione, alla costruzione di valori, linguaggi e logiche d’azione condivise;

- le dimensioni politiche e sociali del cambiamento, che ristrutturando le relazioni di interdipendenza – e quindi di potere – degli attori, generano strategie di adattamento, mobilitazione o resistenza.

Tutte e tre queste dimensioni sono ben visibili all’interno delle aziende sanitarie, soprattutto laddove la persistenza per lungo tempo di situazioni di scarsa innovazione ha generato posizioni di rendita, routines culturali, nicchie di potere difficili da scalfire. Proprio la natura umana, costruita e contingente, dell’organizzazione, può meglio spiegare i fallimenti e i blocchi di progetti di innovazione che sulla carta appaiono realizzabili e fortemente coerenti con gli obiettivi aziendali. Un approccio concreto al cambiamento non deve mai partire dalla qualità o dalla correttezza delle soluzioni, bensì dagli spazi concreti di intervento e di cambiamento presenti nel sistema. 4. Il quarto e ultimo rischio è quello di sottovalutare quegli elementi di specificità e di

contingenza delle aziende sanitarie che vincolano i margini di intervento, e in particolare l’autonomia clinica dei professionisti, la storia passata, l’eterogeneità dei contesti locali, la dotazione di risorse.

Proprio perché l’organizzazione è un sistema sociale, con una sua storia, un suo autonomo percorso di sviluppo, ogni innovazione, per tradursi in processo di apprendimento per l’azienda sanitaria, deve essere sorretto da una strategia di azione (fig. 14) che :

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- parta dal passato, dalla conoscenza del contesto locale, dall’analisi e dalla ricostruzione del percorso evolutivo dell’azienda;

- definisca e chiarisca, attraverso un processo di comunicazione e di condivisione, gli scenari e gli obiettivi futuri;

- valorizzi al meglio le risorse materiali e immateriali, tra cui in particolare la conoscenza, le competenze e le professionalità interne.

Figura 14 – Le condizioni per la gestione del processo di cambiamento Allo stato attuale, per costruire e rafforzare questa capacità di elaborazione e di gestione strategica dei processi di cambiamento occorre costruire e rafforzare l’identità stessa dell’azienda. Come abbiamo visto nella prima parte di questo capitolo, le aziende sanitarie scontano un lungo periodo (le precedenti USL) di governo “debole”, di spinte centrifughe e tendenze alla frammentazione; non è facile recuperare in breve tempo quella cultura organizzativa condivisa e quel “collante” organizzativo forte che favoriscono o addirittura stimolano percorsi di apprendimento e di innovazione. Il più delle volte la Direzione Generale svolge un ruolo di traino, investendo risorse per il cambiamento, che a fatica si traducono in trasformazioni e passi in avanti della struttura. In altri casi, laddove la Direzione non assume neanche questa funzione di stimolo, il rischio è quello di un ulteriore involuzione e frantumazione dell’organizzazione, in una serie di sub-sistemi ancora chiusi o fortemente competitivi. Per questo è necessario in questa fase storica rafforzare le funzioni di governo e l’identità aziendale, attraverso processi di riorganizzazione complessivi e di ampia portata, che richiedono un impegno diretto della Direzione Generale e di tutto il livello direttivo. In ultima analisi, trasformare l’innovazione in apprendimento significa costruire un riferimento comune per tutti i membri dell’organizzazione, ridefinire il “patto” tra individui e organizzazione, consentendo agli uni e all’altra di crescere in un gioco a somma positiva basato sulla fiducia e sulla cooperazione, valorizzare al massimo le risorse disponibili, puntando sulla conoscenza e sulla valutazione continua.

produzione di una CONOSCENZA REALE dei processi organizzativi

e dei risultati prodotti

PARTECIPAZIONE

e COMUNICAZIONE INTERNA

elaborazione di una STRATEGIA

DI CAMBIAMENTO per modificare il sistema

dall’interno ristrutturazione progressiva di

comportamenti, relazioni e cultura

apprendimento di nuove capacità collettive

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