Download - Prove d'Europa: a vent'anni dal Muro
Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De
Michelis, Dimitrij Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani, Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo,
Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De Michelis, Dimitrij
Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani,
Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo, Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Gian Enrico Rusconi, Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De
Michelis, Dimitrij Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani, Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo, Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto
Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Gian Enrico Rusconi,
MITTELFEST, Prove d’Europa1989 - 2009, dalla caduta del Muro alla nuova Europa
A cura di Antonio Devetag, Daniela Volpe, Paola Sain
Progetto graficoPunktone, Gorizia
TraduzioniBusiness Voice
SegreteriaNadia Cijan
Ufficio stampaVolpe&Sain Comunicazione
DistribuzioneMittelFest 2009 edizioni
StampaPoligrafiche San Marco, Cormons
ha collaborato l’Associazione Culturale èStoria di Gorizia
MITTELFEST 2009
CIVIDALE DEL FRIULI 18 / 26 LUGLIO 2009
Direzione ArtisticaFurio Bordon (Prosa)Claudio Mansutti (Musica)Walter Mramor (Danza)
Associazione MittelFestRegione Autonoma Friuli Venezia GiuliaProvincia di UdineComune di Cividale del Friuli
Ente Regionale Teatrale del Friuli-Venezia GiuliaBanca di Cividale S.p.ASocietà Filologica Friulana
Patrocinato daMinistero degli Affari EsteriCEI – Central European Initiative (Albania, Austria, Bielorussia, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Macedonia, Moldova, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ucraina, Ungheria e Italia)
PresidenteAntonio Devetag
Associazione MittelFestTel. +39 0432.730793 | [email protected] | www.mittelfest.org
2008 . Orchestra Sinfonica del Friuli venezia Giulia
5
6
2008 . Cantacronache
2003 . Kagel
7
INDICE
1215232630333740464955
La Nuova Europa e l’EuroregioneRenzo Tondo ..................................................................................................
Le chiavi del futuroAntonio Devetag ............................................................................................
Un Saluto al MittelFestMichail Gorbachev ........................................................................................
La lezione di Solidarność Lech Walesa ..................................................................................................
“Responsabilità europea, un progetto comune” Václav Havel .................................................................................................
Dalla caduta del Muro alla Riunificazione della Germania Axel Hartmann .............................................................................................
Il successo del MittelFest Gianni De Michelis ........................................................................................
Vent’anni dopo Dimitrij Rupel ................................................................................................
Da Alpe Adria alla nuova Europa Adriano Biasutti ............................................................................................
La questione ungherese Imre Kozma .............. ....................................................................................
Quel primo annuncio Riccardo Ehrman ..........................................................................................
9
62667074788286909498
102106110
10
Quel Muro non dispiaceva agli europei Lucio Caracciolo ........................................................................................... L’ambigua lettura del Muro crollatoMarcello Veneziani ........................................................................................
La svolta di Gorbachev Gianni Bisiach ..............................................................................................
Un mondo “ex” Predrag Matvejevic’ .......................................................................................
Ma il “terremoto” continua Sergio Romano ..............................................................................................
1989, ricomincia la Storia Toni Capuozzo ..............................................................................................
Nostalgia del muro? Piero Badaloni ..............................................................................................
Vent’anni di MittelFest Giorgio Pressburger .......................................................................................
I segnali goriziani Roberto Collini ..............................................................................................
Uno sguardo al futuro Andrea Filippi ...............................................................................................
Nuova Europa, nuove opportunità Paolo Possamai ..........................................................................................
Quando la notizia abbatte il confine Alfonso Di Leva ..........................................................................................
Che cosa c’era dietro il Muro? Gian Enrico Rusconi ...................................................................................
11
2009 . Chiara Muti, Le baccanti
12MITTELFEST / PROVE D’EUROPA
i sono avvenimenti, dei quali siamo
stati partecipi testimoni, che hanno
inciso una profonda emozione nel
nostro animo diventando parte
della nostra esperienza e della costruzione della
nostra memoria personale e collettiva.
I cittadini del Friuli Venezia Giulia, soprattut-
to se residenti nella parte orientale di questo
territorio, hanno percepito fisicamente e cultu-
ralmente la realtà ed il significato della “Cortina
di ferro” abbassata ai confini dopo la seconda
guerra mondiale. Hanno anche condiviso con
i loro rappresentanti politici ed istituzionali la
scelta di testimoniare la volontà di superare
quella pesante barriera, sia concreta che psicolo-
gica, dalla quale venivano conseguenze pesanti
anche sullo sviluppo economico e sociale.
Regione Ponte, Confini Aperti, erano parole che
hanno cominciato a significare e costruire tra la
gente una realtà nuova e le istituzioni le hanno
sapute tradurre nella concretezza di nuovi rap-
porti transfrontalieri.
Tra le diverse iniziative, spicca la Comunità di
lavoro Alpe Adria fondata nel 1978.
Si decise di definire “Comunità” un’area che
abbracciava territori di quelli che venivano
allora definiti i due blocchi: il mondo libero e il
mondo comunista. In questa regione si è creduto
nella capacità dei popoli di guardare al concre-
to, alle esigenze del vivere quotidiano e quindi
alla necessità di rapporti senza barriere.
Renzo TondoPresidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
LA NUOVA EUROPAE L’EUROREGIONE
13
Quando cadde il Muro di Berlino, il confine
orientale italiano era già considerato tra i più
aperti ed l’intensificarsi dei rapporti con le
Regioni mitteleuropee portò alla prima edizione
di MittelFest nel 1991, contemporaneamente
frutto, speranza e volontà di una nuova stagione
di convivenza e solidarietà tra popoli di questa
parte d’Europa.
Un nuovo processo di unificazione politica si era
avviato e, ai nostri confini, si è completato nel
2004 con l’ingresso della Slovenia nell’Unione
europea.
Oggi lavoriamo con nuovi strumenti al progetto
di un’Euroregione che trasformi gli ideali e la
cultura della pacifica convivenza nella quotidia-
nità dell’impegno su concreti progetti comuni a
beneficio dei nostri cittadini.
In questi anni abbiamo fatto davvero Prove
d’Europa, ora, dalla cultura alla politica, siamo
pronti a rendere i cittadini veri protagonisti
della nuova Europa.
2008 . The best of Image
14
2004 . Tutyila
edizione 2009 del MittelFest si
aprirà con Antigone, murata viva
per avere voluto agire secondo
coscienza. Dai tempi del Mito
l’Europa frantuma il muro dell’oscurità con il
martello della Ragione.
E forse è questo incessante superarsi la cifra
più originale, realmente unificante della nostra
civiltà? Soltanto vent’anni fa l’Europa pietri-
ficata del dopoguerra, l’Europa dei confini che
sembravano fissati nell’eternità, ribaltò ancora
una volta il corso della Storia.
I popoli, per una volta alleati alla grande poli-
tica, spezzarono il Muro di Berlino e Cortina di
Ferro.
Si liberarono in un attimo tutti gli spiriti d’Occi-
dente, talvolta con il volto numinoso di Apollo,
spesso intrecciando passato e futuro in macabre
Totentanz.
L’Europa, ovvero il dramma della libertà e le
ragioni della cultura: scegliere tra Bene e Male
significa conoscere.
A Cividale, in straordinaria contemporaneità
con gli eventi e per una singolare convergenza
di ingegni, ragioni politiche e lungimiranza, nel
1991 fu creato MittelFest, che da allora dischiu-
de una finestra verso Est, allargando l’orizzonte
della nostra visuale a tante identità in cerca di
un fil rouge in cui riconoscere quella archetipi-
ca, in cui tutti, da Lisbona a Mosca, vorremmo
riconoscerci.
Tutto ciò che avvenne vent’anni fa attorno al
Muro di Berlino era stato preannunciato da
segnali importanti: le travature dell’Impero
sovietico scricchiolavano da quando Solgenitsin,
la cultura del dissenso, personaggi come Papa
Wojtyła, Lech Walesa, Václav Havel, avevano
intrapreso un’inarrestabile battaglia di verità,
scuotendo coscienze assopite o rassegnate.
Antonio DevetagPresidente di MittelFest
15
LE CHIAVI DEL FUTURO
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA
Ma tutto cambiò in pochi mesi e nel 1991 ag-
giornammo le carte geografiche dell’Europa se-
gnando con gioia e curiosità i nomi delle nuove
Nazioni. La terza grande componente culturale
della triade, quella slava, fino ad allora ingrigita
e oppressa dal regime comunista, rientrava al
posto che le spetta da sempre accanto a quelle
latina e germanica. Slovenia, Croazia, Cechia,
Slovacchia, Ucraina... la nuova storia, la Nuova
Europa.
Eppure anche questa Nuova Europa, uscita
dalle macerie del comunismo, è inedita, so-
vrabbondante di energia creativa in quelle sue
propaggini orientali in cui non esiste timore di
confronti - talvolta sfrontati, spavaldamente
impudici, trasgressivi - con l’Altro.
Un’altra Europa ancora poco conosciuta ancora
vergine dai tabù di quel politically correct che
sembra divenuta la cifra noiosa del global way
of life.
I vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, e
gli scenari europei e mondiali che da allora si
sono delineati non potevano essere trascurati da
Mittelfest: il Friuli Venezia Giulia, regione che
ospita e promuove il festival, contribuì in modo
notevole a quella svolta epocale, con iniziative
di rilievo internazionale, come la istituzione
della Comunità Alpe-Adria, concreto apripista
di nuove relazioni Est-Ovest, e una fitta serie di
contatti interregionali e internazionali.
Sul palcoscenico di Mittelfest sono passate in
questi anni le più interessanti voci della musi-
ca, della prosa, della danza di diciotto nazioni:
Slovenia, Albania, Austria, Bielorussia, Bosnia
ed Erzegovina, Bulgaria, Repubblica Ceca,
Croazia, Macedonia, Moldova, Montenegro,
Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Ucraina,
Ungheria.
E per l’edizione 2009 l’area di interesse sarà
estesa in modo specifico alla Russia e alla Ger-
mania.
Attorno al ricordo e alle riflessioni sparse e
autorevoli intorno al ventennale dalla caduta
del Muro, MittelFest 2009 ha incardinato questa
pubblicazione, raccogliendo riflessioni, memo-
rie e contributi su quello storico evento e sulle
conseguenze geopolitiche che, dal 1989 ad oggi,
si sono prodotte.
Personalità culturali, giornalisti impegnati da
tempo su questo terreno di riflessione e diversi
protagonisti di quel cambiamento epocale hanno
concorso a realizzare questa pubblicazione.
Troverete in questo libro, che ci sembra prezio-
so, il ricordo e l’onda lunga di quei giorni nelle
parole di molti protagonisti, così come, nelle
riflessioni di editorialisti e commentatori, le con-
siderazioni e le analisi sul portato della caduta
del Muro in direzione della costruzione di una
“nuova Europa”.
MittelFest quale occasione o tentativo di rianno-
dare i fili sparsi delle varie culture europee, alla
ricerca delle radici del nostro pensiero, che da
Sofocle a oggi sempre ritornano. E si riconosco-
no sorprendenti nella loro inconscia familiarità
nella cornice magica di Cividale.
16MITTELFEST / PROVE D’EUROPA
17Il Muro di Berlino
18
2009 . Sutra
20
PROVE D’EUROPAI PROTAGONISTI
Michail GorbachevLech WalesaVáclav Havel
Axel HartmannGianni De Michelis
Dimitrij RupelAdriano Biasutti
Imre KozmaRiccardo Ehrman
22
2007 . Le ceneri di Gramsci
23
UN SALUTOAL MITTELFEST
Michail Gorbachev
Michail Gorbachev | «Oggi, l’unico punto fermo è che tutto si muove», amava sostenere Mikhail Gorbachev. E nessuno più di lui contribui’ a sostenere questo emblematico aforisma sin da quando, nel marzo del 1985, fu eletto Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico, l’incarico più alto nella gerarchia di partito e nel paese. Fu Gorbachev ad avviare il processo di cambiamento dell’Unione Sovietica che sarà definito “Perestroika”, una radicale trasformazione della società e del paese, che genera un sostanziale mutamento nello scenario internazionale: un nuovo sistema di pensiero associato al nome dello statista, che si rivelò fondamentale nel porre fine alla Guerra Fredda, arrestando la corsa agli armamenti ed eliminando il rischio di un conflitto nucleare. Il 15 marzo 1990 Michail Gorbachev fu eletto Presidente dell’Unione Sovietica. Il 15 ottobre dello stesso anno gli venne assegnato il Premio Nobel per la Pace, a riconoscimento del suo fondamentale ruolo di riformatore e leader politico mondiale. Il 25 dicembre 1991 Gorbachev rassegnò le sue dimissioni da Capo dello Stato. Dal gennaio del 1992 è Presidente della Fondazione Internazionale Non-Governativa per gli Studi Socio-Economici e Politici, the Gorbacev Foundation.
24
Purtroppo non posso partecipare con voi a
questo evento sempre suggestivo, emozionante
e, cosa più importante, ricco di contenuti.
È ancora più significativo che tale
manifestazione si svolga nelle attuali condizioni
di crisi, che coinvolgono tutti i Paesi. La crisi
economica, però, è solo la punta di un iceberg.
Le sue radici sono insite in quel modello di vita
che alcuni paesi hanno scelto da soli, mentre ad
altri invece è stato imposto.
Il mondo necessita di cambiamenti
radicali, di nuove idee, di amministrazioni che
siano adeguate alle sfide di un mondo globale.
Oggi come non mai è decisivo il ruolo della
cultura e dell’arte per la risoluzione di questi
problemi.
Io approvo pienamente l’iniziativa
dei nostri amici italiani, che hanno fondato e
realizzato il progetto MittelFest.
Particolare importanza a questo progetto è data
dal fatto che ricorre nel 20esimo anniversario
della caduta del Muro di Berlino.
Il Muro che ha significato la scissione della
Germania, che è stato il simbolo dell’Europa e
del mondo divisi. Un muro che è passato alla
storia.
Ma con grande dispiacere ancora oggi persistono
molti muri: della diffidenza, della sfiducia tra i
ricchi e gli svantaggiati, tra l’uomo e la natura.
E più ancora i muri che si frappongono tra la
mente e il cuore delle persone.
I partecipanti a MittelFest, con l’attività
creativa e con il loro impegno civile aiutano le
persone ad infrangere questi muri di diffidenza
e sfiducia.
Michail Gorbachev
Mosca, 11 giugno 2009
Agli organizzatori e ai partecipanti del festivalMittelFest 2009.Innanzitutto vorrei portare i miei saluti agli organizzatori del festival internazionale MittelFest 2009, che si terrà in Friuli Venezia Giulia.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
25
2008 . The best of Image
26
LA LEZIONE DI SOLIDARNOŚĆ
Lech Walesa
Lech Walesa | Sindacalista e politico polacco, Lech Walesa iniziò a lavorare nei cantieri navali Lenin nel 1967, per un contrattempo: la sua meta era infatti la città di Gdynia, e solo per un imprevisto contingente si era dovuto fermare a Danzica, dove si impose all’attenzione dei colleghi e dell’intera Polonia fondando il movimento sindacal-politico Solidarność, da allora punta di diamante della rivolta operaia. Nel 1983 gli fu conferito il Premio Nobel per la pace, ma non potè ritirarlo personalmente perchè il Governo non lo avrebbe lasciato rientrare in patria. Sua moglie Danuta lo ritirò al suo posto. Arrestato e poi liberato qualche anno dopo, Walesa continuò ad imprimere una marcia vittoriosa al sindacato, fino a giungere alle libere elezioni nel 1990 nelle quali risultò vincitore. Durante la sua presidenza, fino al 1995, la Polonia cambiò radicalmente: da Paese comunista, oppresso dallo stretto controllo sovietico e con una debole economia, divenne un Paese indipendente e democratico con un’economia di mercato in rapida crescita. Negli anni successivi Walesa si ritirò dalla politica, ma è tuttora un riferimento prezioso, a livello internazionale, con l’attività promossa dalla Fondazione internazionale a lui intitolata.
Per ricordare e valutare gli ultimi 20 anni di libertà e democrazia nella nostra parte d’Europa, bisogna guardare molto indietro e individuare il vero inizio dei cambiamenti. Tutto è cominciato nel 1980 nel cantiere navale di Danzica... Per la prima volta, sotto l’unica bandiera di
Solidarność si incontravano operai, intellettuali,
agricoltori, studenti, giovani, vecchi, credenti e
non credenti. Da quel momento camminavamo
insieme.
Durante le rivoluzioni precedenti in Polonia,
quella del 1956, del 1968, del 1970 e del 1976,
combattevano o gli operai, o gli intellettuali o
gli studenti. Non si è mai riusciti ad unire tutti
per camminare insieme nella stessa direzione.
Questo processo è stato avviato da Solidarność,
che ha cambiato tante altre cose. Era un
movimento che cercava di ottenere cambiamenti
pacifici attraverso il dialogo. Credeva nel
lavoro organico, paziente, e non solo nelle
dimostrazioni di piazza. Dopo le esperienze
dolorose, soprattutto quelle del 1970, quando,
durante le manifestazioni, i comunisti hanno
ucciso decine di operai innocenti, ho capito che
bisognava combattere diversamente, cercando
tattiche e piani diversi; questo approccio ha
dato, dopo diversi anni, i risultati desiderati.
Solidarność è sempre stato dalla parte dei più
deboli, ha combattuto per la dignità umana,
per i diritti delle persone comuni, per il pane,
per il lavoro e per la democrazia. Così abbiamo
superato i difficili anni 80 convivendo con lo
stato maggiore militare, che ha fatto crollare
tanti e ci ha reso più deboli. E’ arrivato
l’anno 1989, Solidarność non era più lo stesso
movimento di massa di dieci milioni di persone
come agli albori degli anni 80 e nonostante ciò,
ancora una volta, siamo riusciti a riscattarci
e a spalancare le porte per la libertà e la
democrazia in Polonia.
Sono trascorsi 20 anni da quegli avvenimenti.
Il 4 giugno del 1989 abbiamo fatto un passo
enorme verso la democrazia e la libertà,
inaspettatamente poi rafforzato attraverso la
creazione della Tavola Rotonda.
Spronati dalla vittoria alle elezioni si
27MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
28prospettavano altri cambiamenti, sfruttando
la sorpresa dei comunisti. Qualche mese dopo,
nel Parlamento polacco prendeva la parola il
primo premier non comunista ad est del fiume
Laba! Quindi, scardinare la porta socchiusa
della libertà è stata una giusta operazione.
La libertà è diventata contagiosa. I dadi sono
cominciati a cadere. Con la nostra vittoria si è
creato un effetto domino che ha portato radicali
cambiamenti in questa parte dell’Europa e del
mondo, contribuendo alla caduta del Muro di
Berlino. Per Solidarność non c’erano confini.
Questa è stata la sua e la nostra forza.
Solidarność non dovrebbe avere confini
soprattutto oggi, in un periodo totalmente
diverso da allora, che impone nuove grandi
sfide, sconosciute decine di anni prima.
Solidarność, pero, deve rimanere lo stesso, con il
suo motto universalmente riconosciuto. Bisogna
ricordarlo, e far sì che non venga dimenticato.
Soltanto in questo modo possiamo sfruttare
una chance storica per l’Europa e per il mondo.
Una chance che raddoppia la possibilità di
creare un nuovo mondo, dopo la guerra fredda.
Oggi viviamo nell’epoca dei vasi comunicanti,
la fortuna di un Paese dipende dalla fortuna
del Paese vicino, così come le sue disgrazie.
Solo collaborando, possiamo sfruttare questa
possibilità completamente e a lungo termine.
Sarebbero un male per tutti l’egoismo e la
lotta per gli interessi particolari. Oggi notiamo
che l’Unione Europea è spesso distratta dagli
interessi personali dei suoi membri, ci si basa
su tattiche e la burocrazia assume un ruolo
importante. Questo quadro d’insieme può far
perdere di vista gli obiettivi di unità, oscurati
dai problemi quotidiani.
Possono venirci in aiuto le idee e i valori intorno
ai quali ci riunivamo contro il comunismo;
i valori intorno ai quali da decine di anni si
costruisce un’idea per una sicura e proficua
coesistenza dei Paesi e dei popoli. All’epoca
della guerra fredda, si parlava di rivalità
e di confronto: una visione che derivava
dall’opposizione dei due blocchi nemici. Oggi
dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare.
Bisogna credere nello spirito di collaborazione
e di solidarietà. Ogni tanto mi sembra che,
per realizzare tutto questo, ci vogliano nuove
generazioni. Ascoltando i pensieri e le idee dei
nostri figli e nipoti appare chiaro che per loro è
tutto più facile. Partono da un altro porto.
Purtroppo, la maggior parte della nostra
generazione è ferma all’epoca precedente. Si
parla molto di globalizzazione e di integrazione
europea, ma non c’è un pensiero globale né un
programma consequenziale per tutti. Si agisce
sempre seguendo i vecchi metodi, che non
portano da nessuna parte. Questo approccio ci
spinge a galleggiare e non a veleggiare. Ognuno
si occupa solo dei problemi nazionali, la Francia
dei suoi, l’Italia dei suoi, la Polonia allo stesso
modo; così viene a mancare la solidarietà.
Quella solidarietà che grazie all’aiuto degli
amici dell’Europa democratica, ha portato
noi polacchi a conquistare in modo pacifico la
libertà, insieme ad altri popoli oppressi.
Credo che Solidarność potrà unire anche
le future generazioni come una memoria
storica di valore sempre attuale. Solidarność
ci potrà aiutare anche a risolvere i problemi
e i dubbi, che, purtroppo, ritornano sempre
sull’evoluzione dell’Europa e del mondo.
Credo che con Solidarność potremo cambiare e
migliorare il mondo di oggi come abbiamo fatto
20 anni fa. Auguro a tutti noi di avere la forza
per seguire questa strada, sulla quale ci potremo
sempre incontrare. Lo dobbiamo al mondo, a
noi stessi e alle future generazioni.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
2006 . Femmine
29
“RESPONSABILITÀ EUROPEA, UN PROGETTO COMUNE”
Václav Havel
Václav Havel | Scrittore, drammaturgo e politico ceco, è stato l’ultimo presidente della Cecoslovacchia ed il primo presidente della Repubblica Ceca. Sull’onda della repressione seguita alla fine della Primavera di Praga nel 1968 fu bandito dal teatro e iniziò un’intensa attività politica, culminata con la pubblicazione del manifesto Charta 77. Dopo la creazione della Repubblica Ceca, Havel si candidò alla presidenza nelle elezioni del 26 gennaio 1993, risultando eletto. Nonostante le precarie condizioni di salute e tre interventi chirurgici è stato rieletto nel 1998. La sua presidenza fu caratterizzata da un orientamento politico anti-comunista di destra moderata e liberale, favorevole ad un’economia di mercato e filo-americano. Havel fu, infatti, il principale sostenitore dell’entrata della Repubblica Ceca nella NATO, avvenuta il 12 marzo del 1999, nonché dell’intervento dell’Alleanza nella guerra del Kosovo del 1999. Havel lasciò la carica dopo il secondo mandato come presidente della Repubblica Ceca, il 2 febbraio 2003
30
31Ci sono persone a Lipsia, Dresda e Berlino che hanno pregato per me quando ero in prigione e gliene sarò per sempre grato. Sapevamo tutti, o perlomeno lo sentivamo, che se la Cortina di Ferro fosse un giorno caduta sarebbe caduto anche il Muro di Berlino e viceversa: se il Muro cadeva, cadeva anche la Cortina. Ed è proprio quanto è accaduto: non
dimenticherò mai il modo in cui la gente
di Praga portava il tè ai cittadini dell’ex
Repubblica Democratica Tedesca, accampandosi
a centinaia nel giardino dell’ambasciata
praghese della Repubblica Federale di
Germania, ed anche il modo entusiasta in cui
salutavano quando gli autobus riportavano quei
tedeschi nella Germania dell’Ovest. Quando
vidi tutto ciò, mi fu chiaro, e lo fu anche al mio
Paese, che non avremmo dovuto attendere molto
tempo per vedere altri cambiamenti.
E infatti è immediatamente seguita la
rivoluzione di novembre. Arrivò all’incirca
nello stesso momento in cui cadeva il muro
tra i tedeschi, e le piazze grandi e piccole delle
città della Repubblica Democratica Tedesca si
riempivano di gente. Gli ideali che i cittadini
Sassoni e quelli Cechi sottoscrissero quei
giorni, nelle loro piazze, erano gli stessi: libertà,
democrazia, legalità e coesistenza civile. Anche
l’atmosfera delle nostre piazze era simile:
condividevamo lo stesso tipo di speranza, la
stessa prontezza a farsi avanti in nome di una
causa comune, abbiamo condiviso la solidarietà
ed il desiderio di capirsi reciprocamente. Come
conseguenza, le autorità della Repubblica post-
novembre sono state tra le prime in Europa
a sostenere l’idea della riunificazione della
Germania.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
32
Credo che molti semplici, ma meritori
esempi di cooperazione tra Cechi e Sassoni,
inclusa l’intensa collaborazione delle
comunità accademiche, abbiano le loro radici
parzialmente, o forse prevalentemente, nella
reciproca comprensione che scaturisce da una
condivisa esperienza storica.
Spesso mi chiedo perché una persona
aiuta un’altra persona, un Paese aiuta un
altro Paese, un continente aiuta un altro
continente. La spinta emozionale, un moto
di compassione o solidarietà non offrono una
spiegazione compiuta. C’è molto di più. Forse
è la responsabilità che rende davvero umano
un essere umano. La coscienza, il senso di
responsabilità per ciò che è oltre me stesso, oltre
il mio mondo e non mi lascia affatto indifferente
sono direttamente correlati all’animo umano ed
alla consapevolezza di sé. La moderna filosofia
ha espresso questo legame molte volte ed in
molti modi, tuttavia è importante ribadirlo.
Non possiamo essere indifferenti agli
avvenimenti che accadono ad altre latitudini del
pianeta e, per capirli, dobbiamo considerarne
le diverse dimensioni: quella morale, spirituale,
filosofica, nonché quella meramente pratica.
Il lavoro di sviluppo che permette ai Paesi
di acquisire e consolidare consapevolezza e
identità nel lungo termine, è difficile, ingrato e
a volte apparentemente infinito. Ma per l’UE, la
Cooperazione allo Sviluppo è una competenza
unica, che può avere effetti di vasta portata
e attraverso la quale possiamo dimostrare di
voler utilizzare la nostra influenza in maniera
Dall’intervento per Project Voice e dalla conferenza tenuta all’Università di Dresda
responsabile. Per questo abbiamo davanti a
noi un’occasione rara, dentro e fuori dai nostri
confini.
L’influenza dell’Europa, passata e presente, sui
cittadini e le società di tutto il mondo è stata
profonda. Nonostante l’ambiguità di molti suoi
valori, per secoli e in modi diversi, l’Europa ha
promosso valori culturali e sistemi di governo
oltre i propri confini. Per questa ragione, se non
per altre, deve agire con responsabilità quando
guarda al futuro; deve unificare, rafforzare e
sviluppare, in modo che la società globale ne
risulti arricchita.
Sono certo che l’Europa abbia una
responsabilità sempre più rilevante e che
questa responsabilità vada assunta anche dai
nuovi Stati membri, Paesi che hanno lottato
a lungo per essere parte dell’Unione europea,
partner legittimi a pieno titolo di coloro che
godono della democrazia da tempi più remoti;
questi Paesi non devono dimenticare che con
la loro appartenenza non hanno accettato solo
diritti e privilegi, ma altresì una parte della
responsabilità dell’Europa.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
33
Axel Hartmann | Console Generale della Repubblica Federale di Germania a Milano da luglio 2006, con ufficio di competenza per il Nord Italia, ha compiuto gli studi accademici presso la facoltà di giurisprudenza delle Università di Gottinga e Würzburg. Già assistente scientifico e docente incaricato di diritto internazionale presso l’Università di Würzburg, nel 1978 diventa relatore di politica tedesca e di sicurezza presso la centrale federale della CDU a Bonn; collaboratore di Manfred Wörner. Nel 1980 entra in servizio per il Ministero Federale degli Affari Esteri della Germania Ovest; nel 1989 è capo aggiunto presso l’Ufficio Ministeriale del Capo della Cancelleria, il Ministro Federale Rudolf Seiters; in questo ruolo, nei mesi che segnano il crollo della DDR e l’avvio dell’unità tedesca, prende attivamente parte alle questioni tecniche e di coordinamento dei dipartimenti federali e della pianificazione politica. Successivamente prosegue i suoi incarichi di rilievo diplomatico nazionale, fino alla nomina a Console Generale per il Nord Italia.
DALLA CADUTA DEL MURO ALLA RIUNIFICAZIONE DELLA GERMANIA
Axel Hartmann
Il 9 novembre 1989 cadde, in maniera del tutto inattesa, il Muro di Berlino. Negli anni precedenti si era verificato un lento
processo di declino dell’assetto stabilito dal
Patto di Varsavia, che aveva preso avvio in
Polonia nel 1980 con il movimento Sindacalista
Solidarność, moralmente appoggiato da Papa
Giovanni Paolo II. In seguito, la stagione di
rinnovamento inaugurata in Ungheria ed
Unione Sovietica – che Michail Gorbachev si
impegnò a riformare dal 1985 – sfociò nella
DDR nelle cosiddette “Dimostrazioni del
lunedì”, con le quali centinaia di migliaia di
cittadini, nell’autunno del 1989, reclamarono
libertà, diritti umani e democrazia, riuscendo
infine a prevalere sul regime comunista.
In seguito all’apertura dei confini ungheresi per
i cittadini provenienti dalla DDR, avvenuta il
10 settembre 1989, il Muro aveva perduto sia
a Berlino che lungo il confine tedesco la sua
funzione di separazione, in quanto la Cortina
di Ferro – definizione con la quale Churchill
aveva indicato la divisione dell’Europa già nel
1946—era in fase di smantellamento. Ma anche
l’assetto stabilito negli anni del dopoguerra,
il sistema di Jalta e Postdam e la situazione
di conflittualità tra Est ed Ovest, che aveva
contraddistinto la politica europea, svanirono
improvvisamente, quasi da un giorno all’altro.
Una grande tensione regnava in Europa quelle
settimane: il vecchio sistema di coordinate
politiche si era dissolto, e nessuno sapeva
cosa sarebbe accaduto in seguito. Non
mancarono tentativi di infiammare il dibattito
sulla riunificazione tedesca: da Israele, Gran
Bretagna, Francia, Paesi Bassi e anche Italia
giungevano commenti critici. Fu l’allora
Presidente degli Stati Uniti George H. W.
Bush a dichiarare ufficialmente per primo
che spettava unicamente al popolo tedesco
la decisione di un’eventuale riunificazione,
non appena fosse stata chiarita la situazione
internazionale. Con sorpresa di molti, il Primo
Ministro spagnolo Felipe Gonzales, all’inizio
del dicembre 1989, appoggiò al Consiglio
Europeo di Strasburgo il Cancelliere Kohl con le
medesime argomentazioni, schierandosi contro
gli oppositori alla riunificazione.
Nei mesi seguenti, i cittadini della DDR si resero
protagonisti di avvenimenti ormai irreversibili:
ottennero libere elezioni, che portarono, il 14
marzo 1990, all’insediamento del primo regime
democratico nel paese, mentre il 23 agosto
34
1990 il Parlamento votò a grande maggioranza
l’adesione alla Repubblica Federale Tedesca.
Tutto ciò avvenne senza violenza: si trattava
della prima rivoluzione pacifica della storia della
Germania.
In pochi mesi furono stipulati diversi
accordi finalizzati all’unificazione economica
e monetaria, e si procedette inoltre
all’implementazione di un procedimento di
allineamento legislativo. Il sistema di economia
pianificata, finanziariamente dissestato e
moralmente compromesso, venne smantellato, e
la DDR, governata da una libera Costituzione,
fu inserita in un contesto di economia sociale di
mercato. Un processo che non ha eguali nella
storia moderna.
Per stabilizzare la situazione di fluttuazione
internazionale, il Cancelliere Kohl garantì ai
partner europei che la Germania non avrebbe
mai più intrapreso un percorso indipendente,
ma sarebbe rimasta integrata nel contesto
dell’Unione. Tale rafforzamento dell’unità
europea trovò espressione nella configurazione
introdotta dal trattato di Maastricht del
1992. Anche l’avvento dell’Euro può pertanto
essere considerato come una conseguenza
dell’unificazione tedesca: la riunificazione delle
due Germanie e l’Unione Europea sono due
facce della stessa medaglia o, per meglio dire,
moneta.
In sedici anni di riunificazione, la parte orientale
del nostro paese ha compiuto notevoli progressi.
Più di 250 miliardi di euro sono stati convogliati
verso la Germania Est, che dispone oggi di
moderne infrastrutture, nuove autostrade
e numerose imprese altamente produttive;
ciò è stato possibile grazie all’iniziativa
della popolazione, ma anche in seguito agli
investimenti effettuati da grossi gruppi
industriali, provenienti anche dall’Italia.
Tuttavia, in seguito all’espansione verso est
dell’Unione Europea e agli effetti dei processi
di globalizzazione in atto, anche la Germania
orientale ha dovuto fronteggiare una situazione
di forte competizione, che può essere superata
solo grazie all’elevata qualità dei suoi prodotti.
Nonostante il tessuto economico di alcune
aree dei nuovi Länder sia caratterizzato da
problematiche come la disoccupazione e
l’emigrazione dei giovani, il bilancio della
riunificazione rimane comunque positivo, grazie
agli indubbi benefici apportati ai cittadini della
ex-DDR.
35MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
36
2008 . Test / Danza verticale
37
Gianni De Michelis | Esponente di spicco del Psi ai tempi di Craxi, è stato più volte ministro: delle Partecipazioni statali (dal 1980 al 1983), del Lavoro (nel 1986), degli Affari Esteri (dal 1989 al 1992), nonché vicepresidente del Consiglio dei Ministri (1988-1989). Segretario nazionale del Nuovo PSI (2001-2007), alle elezioni europee del 2004, è stato eletto deputato del Parlamento europeo. Nel 2007 ha aderito alla Costituente del Partito Socialista. Quale Ministro degli Esteri, si trovò ad affrontare l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq il 2 agosto 1990. Fu uno dei fondatori dell’iniziativa Pentagonale, all’origine dello stesso MittelFest. Nell’aprile 1991 Andreotti, alla guida del suo VII Governo, riconfermò De Michelis al Ministero degli Affari Esteri. E’ stato Parlamentare europeo dal 2004 al 2009.
IL SUCCESSODEL MITTELFEST
Gianni De Michelis
Il MittelFest rappresenta il risultato migliore e più duraturo dell’iniziativa diplomatica che l’Italia svolse negli anni tumultuosi e drammatici che segnarono la fine della Guerra Fredda. Nel corso del 1989 infatti, mentre dalla Polonia
all’Ungheria si moltiplicavano i segni della
disgregazione dell’Impero Sovietico e dei regimi
che nel secondo dopoguerra avevano imposto
la dittatura comunista nei Paesi dell’Europa
Orientale, l’Italia, assieme all’Austria, ma con
un ruolo prevalente, che derivava dalla duplice
appartenenza alla NATO e alla Comunità
Europea, moltiplicò gli sforzi volti ad offrire
una sponda formale ai Paesi, che stavano
modificando la loro situazione interna, anche al
fine di cominciare a creare le premesse affinché
la logica dell’integrazione potesse prevalere su
quella della disintegrazione.
Il primo Paese dell’Europa Orientale, a
cui ci rivolgemmo, fu l’Ungheria, ma,
devo ammetterlo, eravamo convinti che le
soddisfazioni maggiori ci sarebbero venute dalla
Jugoslavia, che, in quel momento, sembrava
presentare il vantaggio del sistema politico
sociale più vicino a quello occidentale e che con
il governo Markovic-Loncar sembrava parlare il
nostro medesimo linguaggio politico.
E fu così che con una tempestività che ebbe del
miracoloso, fummo in grado, già nel corso del
1989, e più precisamente il 10 novembre, di
arrivare a porre la firma a Budapest sul trattato
che istituiva un accordo di cooperazione e di
integrazione, che passò alla storia sotto il nome
di Quadrangolare.
La tempestività fu tale che la firma dell’accordo
coincise con la caduta del Muro di Berlino (per
la precisione la cerimonia ebbe luogo il giorno
dopo ed io stesso ricevetti la notizia dal mio
collega tedesco Ministro Genscher subito dopo il
mio arrivo a Budapest) e anticipò addirittura la
fine del comunismo in Bulgaria, Cecoslovacchia
e Romania.
Ci mettemmo subito al lavoro con il duplice
obiettivo di allargare la partecipazione al resto
dell’Europa Orientale e di rendere possibile
delle attività concrete da attuare in comune,
al fine di suturare la ferita semisecolare
38
rappresentata dalla Cortina di Ferro.
Ricordo che fin dall’ora ebbi a definire la
Quadrangolare (che l’anno dopo si trasformò
in Pentagonale e nel 1991 in Esagonale
con l’adesione di Cecoslovacchia e Polonia)
come una struttura provvisoria (una sorta di
impalcatura da smontare una volta completata
la costruzione) destinata a scomparire via via
che i suoi membri orientali sarebbero stati
annessi in quella che era destinata a diventare
(proprio in quegli anni con il trattato di
Maastricht) l’Unione Europea.
In un certo senso anticipammo tutti nella
direzione di quello che poi chiamammo
l’allargamento, precedendo addirittura il
primo passo concreto in quella direzione e cioè
l’Unificazione Tedesca, che avvenne solo un
anno dopo.
Certo, ci furono anche gli incidenti di percorso
e il dramma juogoslavo ne fu l’esempio più
drammatico.
Questo non ci distolse dall’intensifìcare gli
sforzi nella direzione di azioni integrative e ciò
ci spinse anche e soprattutto nella direzione del
dialogo tra le culture e per questa ragione tra
le iniziative che prendemmo in considerazione,
grazie anche al contributo di molti intellettuali
del Nord-Est, ci fu l’idea di organizzare un vero
e proprio festival culturale della Mitteleuropa,
cioè qualcosa che sottolineasse il recupero di una
dimensione culturale (corrispondente all’area
adriatico-danubiana o, se vogliamo, all’impero
asburgico), che era stata distrutta dalle vicende
politiche della seconda metà del 900.
E fu così che, se non ricordo male, nel luglio
del 1991, a Cividale venne inaugurata la
prima edizione del MittelFest, alla presenza,
non a caso, del Presidente della Repubblica
Italiana Francesco Cossiga e di quella del
Primo presidente espressione della ritrovata
democrazia Ungherese Árpád Göncz, tra l’altro
intellettuale ed autore di teatro.
Sono passati diciotto anni e il MittelFest
è più vivo che mai ed è diventato a buon
diritto un protagonista della vita culturale
europea; nel frattempo l’Unione è passata
da 12 a 27 membri e ciò nonostante anche
la Quadrangolare continua a svolgere le sue
funzioni, pur sempre provvisorie, essendosi
trasformata in Iniziativa Centro Europea
(con 18 Paesi Membri) essendosi dotata di
una dimensione parlamentare, nonché di un
Segretariato Permanente significativamente
collocato a Trieste.
Per fortuna la ricucitura delle cicatrici del XX
secolo è cominciata dalla cultura!
39MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
VENT’ANNI DOPO
40Dimitrij Rupel
Dimitrij Rupel | Dimitrij Rupel è nato nel 1946 a Lubiana. Nel 1976 si è laureato in sociologia alla Brandeis University di Boston (USA) nel 1980 è diventato docente, nel 1990 Professore Ordinario presso la Facoltà di sociologia all’Università di Ljubljana (FSPN). E’ cofondatore e coeditore della rivista Nova revija, uscita per la prima volta nel 1982, in cui nel 1987 uscì – nel famoso numero »57« - Prispevki za slovenski nacionalni program. L’uscita di questo numero significò un confronto con l’organizzazione politica e nazionale jugoslava. Le autorità comuniste rimossero Rupel dal suo incarico, ma non poterono arrestare il movimento democratico. All’inizio del 1989 Rupel istituì il partito Slovenska demokratična zveza che vinse le elezioni del 1990 assieme agli altri partiti non comunisti della coalizione (Demos), mentre nel 1991 raggiunse l’indipendenza della Slovenia. Dimitrij Rupel fu Ministro degli Esteri per i primi due governi democratici (1990-1993), deputato all’ Assemblea nazionale (1992-1994), sindaco di Lubiana (1994-1997), ambasciatore a Washington (1997-2000), dopodiché fino al 2008 – tranne alcune brevi interruzioni – ricoprì l’incarico di Ministro degli Esteri nei governi di J. Drnovšek, A. Rop e J. Janša. Nel 2005 Rupel fu a capo della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), nel primo semestre del 2008 fu invece presidente del Consiglio dell’UE. Rupel ha pubblicato oltre a centinaia di articoli 36 libri, tra cui 16 opere letterarie. Ha da poco terminato il romanzo Predsednik ali Tako, kot je bilo.
L’anno 1989 ha avuto inizio - se non erro - già nel 1975 con l’Atto conclusivo di Helsinki ovvero con l’inizio della Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa (CSCE), evolutasi in seguito nell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). L’Atto di Helsinki, nonostante avesse limitato
il concetto dell’autodeterminazione dei popoli,
lo attualizzò, risvegliando così l’interesse per i
diritti umani e scatenando gli sconvolgimenti
politici nell’ Europa centrale e orientale,
compresa la Jugoslavia e l’Unione Sovietica.
Nel 1975 è uscito, in seguito a diverse serie
complicazioni, anche il mio romanzo Hi
kvadrat, che trattava la polemica con il regime
e soprattutto con l’Armata popolare jugoslava,
la quale - com’è ben noto – svolse il ruolo
principale nell’ultimo tragico atto del dramma
jugoslavo iniziato con la caduta del Muro di
Berlino e protrattosi per un intero decennio.
La Jugoslavia celava molto bene i propri difetti
negli anni settanta e - similmente agli altri Paesi
Ex-Comunisti - investì molto in un’immagine
Lubiana, 4 giugno 2009
forte e tenace. Quegli anni venivano chiamati
anni di ferro e addirittura periodo della
restalinizzazione. Negli anni Ottanta la
disciplina finì col cedere, mentre i comunisti
lentamente si scoraggiarono.
Il nove novembre (09/11) 1989 è caduto il
Muro di Berlino, l’undici settembre (11/09)
2001 invece sono crollate le Torri Gemelle
del WTC. Nel 1990 si riunirono la Germania
dell’Est e la Germania dell’Ovest, il 1991
è segnato dallo sfascio della Jugoslavia e
dell’Unione Sovietica. In seguito a questi
eventi rivoluzionari, denominati come la
fine della guerra fredda o addirittura »la
fine della storia«, l’inizio »del conflitto delle
civiltà« ... il mondo è comunque diverso. Nasce
spontanea la domanda se l’attacco terroristico
41MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
42(2001) sia stato una risposta all’assalto degli
attivisti (1989). Il significato della rivoluzione
dipende dall’ampiezza della visione: per
alcuni, in Occidente, il mondo della stabilità
e della sicurezza è crollato, mentre per altri,
in Oriente, è arrivata la liberazione. In ogni
caso si tratta di un periodo di disfacimento,
di sfascio (Unione Sovietica, Jugoslavia) e di
riorganizzazione del mondo costruito dopo il
secondo conflitto mondiale. La NATO e l’UE
si sono ampliate, ha avuto inizio il dibattito
sulla riforma dell’ONU. Gli eventi rivoluzionari
hanno favorito ovunque lo sviluppo economico e
culturale, la crescita del benessere e l’affermarsi
di grandi aspettative. Questa ascesa dura quasi
da vent’anni. La NATO ha 26 Stati membri,
l’UE ne ha 27, l’ OSCE invece 56. L’ONU
sta affrontando le tematiche del dibattito
sulla riforma del Consiglio di sicurezza, che è
ancora oggi l’espressione dell’equilibrio delle
forze dominanti del 1945. Quali progetti non
sono ancora realizzati? I Balcani, il Caucaso,
l’Ucraina?
Da un lato ci sono gli oppositori ultra-
conservativi della civiltà moderna, tra cui anche
i terroristi. A questi seguono i nazionalisti
comunisti estremi, come lo fu Milošević. Tra
i nemici dei cambiamenti rientrano anche
i nazionalisti »mainstream« nonchè altri
conservatori ancora, tra cui rivestono un ruolo
di grande influenza gli ex comunisti. Oggi il
disfacimento/lo sfacelo sembrano arginati,
le crisi stanno giungendo alla fine. La crisi
jugoslava è praticamente conclusa, in Russia si
adoperano ancora in nome della vecchia gloria.
L’UE non si riesce ad adottare il trattato per
la costituzione. L’allargamento della NATO e
dell’UE stanno frenando. L’Occidente è sempre
più indulgente verso la Russia. La crescita
economica, legata alla conquista dei mercati
dell’Est, è in calo. Dopo la stasi subentra la crisi,
che si dice simile a quella del 1929.
La Slovenia, rispetto agli altri paesi dell’Europa
centrale e orientale, aveva un compito
notevolmente più arduo. Mentre gli Ungheresi,i
Polacchi, i Rumeni ecc. lottavano per la
democrazia, noi Sloveni dovevamo innanzitutto
creare una nazione nostra per così discostarci
ovvero scioglierci dalla Jugoslavia. Possiamo
notare come per diversi popoli dell’ex Jugoslavia
il tempo si sia arrestato, mentre per altri scorre
più lentamente rispetto al resto del mondo.
Anche noi Sloveni abbiamo perso un po’ di
tempo, il che è naturale. Potremmo avere un
vantaggio di qualche anno se a causa di ritardi
storci non avessimo dovuto creare uno stato
indipendente nonchè lottare per un’adeguata
collocazione a livello internazionale. L’impegno
investito nella creazione di uno stato
indipendente ci ha tolto molte forze e attenzioni
che altrimenti avremmo potuto destinare alla
crescita delle istituzioni democratiche. A causa
degli »interessi nazionali« nel 1991 abbiamo
raggiunto un’alleanza tra tutti i partiti politici,
il che ad alcuni fece sorgere il dubbio che le cose
sarebbero andate avanti come sempre.
All’estero molti osservatori benintenzionati
sostenevano Belgrado, soprattutto Ante
Marković, convinti che si adoperasse per
conservare la Jugoslavia. La sovranità
nazionale e l’inviolabilità dei confini sono da
sempre stati principi di estremo rilievo nei
rapporti internazionali, sebbene venissero
sempre più sovente »minacciati« da un nuovo
principio democratico, il diritto dei popoli
all’autodeterminazione. Alcuni videro nello
sfacelo della Jugoslavia - legittimamente - il
preannuncio dello sfacelo dell’Unione Sovietica.
Pertanto temevano lo scoppio di guerre civili e
di un’instabilità su larga scala. Altri tifavano
per la Serbia. Altri ancora rimpiangevano
la fine del monopartitismo e del socialismo
temendo per prima cosa le sue (ma soprattutto
le proprie) »conquiste«. Questi timori hanno
offuscato la vista a più di qualcuno, facendo sì
che non intuisse la necessità e la fermezza degli
avvenimenti storici e soprattutto dei progetti
criminosi del regime di Milošević. Milioni di
persone sono stati vittime di una politica errata
e di una vista offuscata. Conflitti storici e non
si sono protratti per molti anni dagli inizi fino
ai giorni nostri e, in qualche modo, continuano
ancora oggi: fatto questo testimoniato da
conflitti tra popoli e gruppi etnici nei territori
dell’ex Unione Sovietica, dalle difficoltà
della Grusia e dell’Ucraina e dall’instabilità
in Kosovo. Nonostante un ottimale sviluppo
economico e i risultati conseguiti nella
politica estera da parte dell’ONU, dell’OSCE,
dell’Unione Europea e della NATO, la Slovenia
non è uscita del tutto indenne da tali conflitti.
La Slovenia ha proclamato la propria
indipendenza il 25 giugno 1991. L’Unione
Europea - su iniziativa della Germania - l’ha di
fatto riconosciuta già alla fine di quello stesso
anno. Gli sforzi necessari per il raggiungimento
del riconoscimento internazionale durarono
per un periodo relativamente breve e riscossero
un gran successo. Paragonando lo stato delle
cose e gli avvenimenti che caratterizzarono la
vita degli Sloveni prima dell’indipendenza,
il lasso di tempo tra il 1989 e il 2009 è un
periodo alquanto breve, che però fu denso di
avvenimenti e cambiamenti notevoli. Alcuni
avvenimenti e cambiamenti sono il frutto degli
sforzi a livello nazionale nonché dei sacrifici e
delle soluzioni immediate e ingegnose di singoli
individui; comunque sia,abbiamo partecipato
al corso della storia ottenendo così benefici
e ricompense, proprio come gli altri popoli
dell’Europa centrale e orientale.
Alcuni nostri cronisti non hanno fino ad oggi
accettato la compagnia con cui la Slovenia
entrava a far parte dell’UE e soprattutto
nella NATO. Com’è noto, in entrambi i casi si
trattava di »una grande esplosione«, di un gran
ampliamento con dieci1 ovvero sette2 nuovi Stati
membri. L’idea fondamentale dell’allargamento
era quella di spingere i confini orientali
dell’Occidente sempre più verso l’Est, così
come anche attribuire un riconoscimento per la
sofferenza sotto il regime comunista sovietico:
da qui «l’errore« che ai nostri cronisti non è
sfuggito. Al momento dell’allargamento dell’UE
e della NATO i media stranieri spiegavano
– in base all’opinione dei nostri cronisti
erroneamente, in realtà però correttamente
– che si trattava dei Paesi del Patto di
Varsavia, infatti l’ampliamento era destinato
principalmente a loro. I cronisti vogliono dire
che alla Jugoslavia ovvero alla Slovenia l’entrata
nella NATO non era necessaria in quanto da
noi vigeva »il socialismo umano« ed il non
allineamento; e da noi – di certo anche negli
anni Ottanta – si stava bene!
Da un lato è chiaro che il 1989 e il 2009
siano due anni diversi come il giorno e
la notte. Dall’altro invece non posso non
stupirmi di fronte all’atteggiamento negativo,
a volte addirittura sprezzante, nei confronti
dei cambiamenti cruciali in Europa, della
proclamazione di indipendenza della Slovenia
e di altre conquiste raggiunte negli ultimi
vent’anni. Questi commenti negativi e
sprezzanti si stanno moltiplicando - soprattutto
qui da noi in Slovenia - diventando sempre
più intolleranti. Sono convinto che col tempo
43
1 Nel 2004 all’UE aderiscono 10 nuovi Stati membri: Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. “Le ritardatarie” Bulgaria e Romania dovrebbero entrare nell’ UE nel 2007 o nel 2008.
2 Nel 1999 la NATO si allarga a tre nuovi paesi: Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, nel 2004, due mesi prima dell’UE, a sette paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
44questo fervore antidemocratico andrà scemando.
Eppure, quando leggo o sento tali osservazioni,
mi rendo conto che sorprendentemente sono
molto simili alle voci che furono oggetto del mio
turbamento nonché delle mie preoccupazioni
negli anni Ottanta.
Sono passati diversi anni, trenta o più, da
quando mi sono impegnato, venendo così
considerato un critico degli atteggiamenti
antinato e antiamericani jugoslavi. I dibattiti
relativi all’entrata della Slovenia nella NATO
agli inizi di questo secolo hanno causato
notevole agitazione di una parte della
realtà politica slovena e di gran parte dei
media. Pertanto i fautori della particolarità
slovena (che si chiamano anche sostenitori
dell’interesse nazionale sloveno) sono ancora
oggi in stato di choc o di rifiuto. Gli oppositori
della NATO erano, prima di ciò, oppositori
dell’indipendenza, del sistema pluripartitico
e dell’ economia di mercato; quando invece
subentrarono dei cambiamenti, tentarono
di rappresentarli come degli strascichi del
precedente sistema attribuendoli alla politica
slovena autogestita e non allineata che di fondo
sarebbe dovuta essere democratica e che si
sarebbe preparata all’indipendenza ancora
prima del 1990. Questa rappresentazione
mitologica della Slovenia si poteva mantenere
solamente con la negazione della propria
partecipazione al sistema monopartitico
comunista e della somiglianza di fondo con
l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia. Inoltre
all’occorrenza hanno ripudiato la Jugoslavia non
volendo però ammettere che il potere comunista
fosse amorale e sorpassato.
Nei diciassette anni dopo l’indipendenza la
Slovenia si trasformò da repubblica socialista
jugoslava in una nazione europea alquanto
moderna e rispettabile, a cui si può affidare la
direzione di grandi organizzazioni internazionali
e addirittura dell’Unione Europea. In meno di
venti anni la Slovenia ha dovuto discostarsi
e differenziarsi dalla Jugoslavia, creare le
necessarie istituzioni nazionali, come anche
l’esercito e la diplomazia, raggiungere il
riconoscimento internazionale, inserirsi nei
rapporti internazionali cercando di ottenere una
posizione degna di fiducia ovvero di uno stato
affidabile e credibile.
Né la Romania né la Bulgaria dovettero
cimentarsi nella creazione di uno stato nuovo.
Nemmeno i Polacchi e gli Ungheresi dovettero
istituire l’esercito e il corpo diplomatico.
Addirittura l’Estonia, la Lettonia, la Lituania,
la Slovacchia, la Serbia e la Croazia furono in
passato stati autonomi. Perfino il Montenegro fu
un tempo uno stato indipendente.
Alla fine del XX. secolo è emerso che la
Jugoslavia non soddisfa più le necessità dei
propri popoli. I motivi di tale inadeguatezza
sono molteplici: uno di questi è indubbiamente
il fatto che l’unione degli Slavi meridionali
nel corso dei processi di allargamento dell’UE
e della comunità euro-atlantica si è rivelata
insufficiente. Venti milioni di persone e una
Jugoslavia arretrata non potevano tenere
il passo con i grandi processi globali di
integrazione.
Dopo la caduta del Muro di Berlino si sono
mossi solo due dei popoli jugoslavi: quello
sloveno e quello croato. Quando l’Europa
cominciò ad allargarsi con vigore, solamente
la Repubblica Ceca, la Lettonia, la Lituania,
l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia e la
Slovenia riuscirono a reggere i ritmi repentini
dei cambiamenti. In seguito anche la Bulgaria
e la Romania. La maggior parte dei popoli
slavi meridionali – nonostante ci fossimo spesso
lodati per il nostro progressismo e la nostra
vicinanza all’Occidente – è rimasta indietro.
L’Armata Popolare Jugoslava rappresentava
l’esercito di questa arretratezza.
Non molto tempo fa mi hanno proposto
di ristampare il mio romanzo Hi kvadrat
uscito per la prima volta nel 1975. Il libro è
da un certo punto di vista la testimonianza
di garbugli culturali e politici del passato.
Trentatré anni addietro si dovevano misurare
le parole. Pertanto si doveva descrivere i guai
con le autorità becere,la povertà culturale,le
umiliazioni meschine,le paure e ogni sorta di
incresciosi inconvenienti con parole diverse.
In veste di autore di queste righe, una volta,
diciamo dal 1968 in poi, in Jugoslavia venivo
considerato come un intellettuale problematico,
un avanguardista, un sessantottino, un
rappresentante della destra borghese; dal 1989
in poi mi sono immedesimato completamente
con il movimento democratico sloveno e la
nazione slovena, che ho servito impegnandomi
con tutte le forze come deputato, sindaco,
ambasciatore e Ministro degli esteri. Hi
kvadrat è, come ho già detto, la storia di una
tappa del percorso tortuoso che porta dal
socialismo jugoslavo all’indipendenza nonché
ad una Slovenia democratica. Parla inoltre
dell’inflessibilità di una mentalità e di una
generazione che in Slovenia, dopo il secondo
conflitto mondiale, ha preso possesso di ogni
cosa. Questa mentalità – nonostante diversi
miglioramenti e agevolazioni avvenuti dopo il
1975, ma soprattutto dopo l’indipendenza – è
viva e attiva ancora oggi.
Penso che il problema fondamentale si celi nel
fatto che molti cittadini sloveni hanno ancora
oggi qualche difficoltà nell’identificarsi con
la propria nazione e non hanno un sufficiente
riflesso democratico. Solo in quest’ottica è
possibile capire l’apartheid dei funzionari
statali che predicano il rispetto dei diritti umani
dietro ai recinti doppi e alle mura alte delle
loro residenze e – ovviamente non ammettono
alcuna domanda.
Ad alcuni eventi e grovigli, che ho appena
esposto per sommi capi, ho dedicato il mio
ultimo romanzo, che sto portando a termine in
questi giorni. Solo ora che il libro praticamente
è praticamente finito e posso scorgere il
susseguirsi dei singoli episodi racchiusi in
capitoli, mi chiedo dove e fino a che punto
siamo giunti in tutti questi anni. E’ vero quello
che il primo presidente sloveno ha detto alla
vigilia della proclamazione dell’indipendenza,
ovvero che nulla sarà più uguale a prima? Forse
aveva ragione il secondo presidente sloveno,
oggi defunto, quando una volta disse che oggi le
cose vanno peggio rispetto agli anni ottanta? O
forse, proprio come dice il titolo del mio ultimo
romanzo, le cose sono così com’erano?
45MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
46
DA ALPE ADRIA ALLA NUOVA EUROPA
Adriano Biasutti
Adriano Biasutti | Eletto consigliere regionale nella terza legislatura della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, dal 1973 al 1978 ha ricoperto la carica di Presidente del Gruppo della Dc. Successivamente, nella quarta legislatura dal 1978 al 1983, è stato nominato Assessore alla Ricostruzione ed ai Lavori Pubblici. E’ diventato presidente della Giunta regionale nel 1985 e ha guidato la Regione Friuli Venezia Giulia fino al 1991. La sua carriera politica è caratterizzata anche dai mandati parlamentari nelle file della Democrazia Cristiana. Adriano Biasutti ha infatti iniziato la sua attività politica nel movimento giovanile della Dc, di cui è stato delegato regionale, ricoprendo importanti incarichi nel Comitato provinciale del partito.
Nel febbraio del 1985, al termine del biennio di presidenza della Comunità di lavoro AlpeAdria da parte della regione Friuli Venezia Giulia, informai il consiglio regionale sulla attività svolta e sulle prospettive future. A quel tempo la Comunità, nata a Venezia nel
novembre del 1978, era composta da dieci
regioni di quattro Paesi appartenenti a tre
sistemi politico istituzionali diversi, Unione
Europea, Neutrali, Non Allineati, con quattro
lingue ma con un obiettivo unico: l’affermazione
della pace attraverso l’approfondimento della
reciproca conoscenza, lo scambio di esperienze,
l’avvio di una organica collaborazione nei varie
settori di interesse comune, la ricerca degli
elementi unificanti al di là delle differenziazioni
storicopolitiche. Gli anni Settanta erano stati
caratterizzati da grosse crisi economiche,
legate soprattutto alle vicende petrolifere,
da drammatiche crisi civili, dal dilagare del
terrorismo, con uno smarrimento delle coscienze
che si interrogavano con angoscia sul futuro.
Era diffuso un profondo bisogno di pace, di
collaborazione operosa, di una nuova solidarietà
umana, all’interno delle nazioni e nei rapporti
con i popoli vicini.
Le regioni partecipanti si sono ritrovate su
alcune caratteristiche ricorrenti in tutte:
un comune passato storico, una comune
civiltà, comuni problemi di emarginazione
nei confronti dei rispettivi centri decisionali
politico amministrativi, comune necessità di
integrazione delle rispettive vie di collegamento,
comuni situazioni geoeconomiche, comuni
esigenze di difesa dell’ambiente naturale e di
sviluppo di quelle umano. Non veniva detto
apertamente, ma l’obiettivo vero era quello
di superare l’ormai anacronistica e dannosa
barriera costituita dalla “Cortina di Ferro”.
E il cerchio si chiuse con l’adesione di altre
regioni e in particolare delle “contee” ungheresi
che fecero salire a quattro i sistemi politici
istituzionali. Cioè il “Blocco Sovietico” che
significava, con tutte le sue implicanze politiche,
anche COMECON e Patto di Varsavia.
47MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
48Chi partecipava aveva la consapevolezza di aver
contribuito a far nascere un nuovo livello di
politica estera che suscitava grande apprensione
nelle vaste “cancellerie”. Comprendemmo
appieno di aver contribuito al processo di
disintegrazione dei vecchi stati dell’Europa
Orientale, con una contemporanea tendenza
alla riaggregazione verso l’Unione europea, nel
tormentato viaggio verso Lubiana per sostenere
le ragioni della Slovenia che si era staccata
dalla Federazione Jugoslava e che era attaccata
militarmente.
Il MittelFest fu così la prosecuzione naturale di
quella politica nella convinzione che la cultura,
in tutte le sue espressioni, avrebbe rinsaldato
legami e fatto crescere nuove prospettive.
Non fu casuale nemmeno la scelta di Cividale
del Friuli per il suo passato storico e la sua
collocazione geografica. Alla sua apertura
arrivarono cinque presidenti di repubblica
con Francesco Cossiga che fece gli onori di
casa mentre il ministro degli esteri Gianni
De Michelis riunì proprio a Cividale i suoi
colleghi della “Pentagonale”, l’organismo di
cooperazione che nacque sulle ceneri del vecchio
blocco comunista.
Il MittelFest, con luci e ombre, è sopravvissuto
alle vicende tumultuose di questi ultimi anni
e oggi inizia una nuova stagione che lo riporta
alle radici, una vera e propria ripartenza nel
ricordo sempre attuale della caduta del Muro di
Berlino. Non è una divagazione ma una urgente
necessità riesaminare anche con i protagonisti
di quel tempo, accanto alle manifestazioni
culturali, avvenimenti che hanno lasciato un
segno indelebile. Hanno cambiato il mondo o
sicuramente l’Europa ma alcuni processi restano
ancora aperti.
Ed è importante, pur restando solidamente
ancorata a Cividale, che la manifestazione si
propaghi sul territorio perché la condivisione dei
mutamenti e delle iniziative fu comune a gran
parte della regione. Basti pensare all’invenzione
di far riconoscere empiricamente la Slovenia, gli
consentì di non entrare nel tunnel drammatico
del successivo disfacimento della Jugoslavia,
con la visita del presidente della repubblica
Cossiga a Gorizia. Formalmente fu una visita al
comune ma passò il confine a piedi, non c’era
nessun rappresentante del governo italiano
che sull’argomento aveva opinioni diverse, e
incontrò i nuovi presidenti della repubblica e del
consiglio sloveni Milan Kucan e Lojze Peterle.
Per la comunità internazionale l’Italia aveva
riconosciuto la Slovenia mettendola al riparto
da altre ritorsioni e, probabilmente, un fatto del
genere non sarebbe stato possibile in un luogo
diverso da Gorizia.
Le cose da fare, per concretizzare
definitivamente la lungimiranza dei padri di
AlpeAdria, sono ancora tante e i tempi sono
di nuovo difficili. Un MittelFest che riscopre
le motivazioni iniziali può ancora essere un
indispensabile punto di riferimento, può
fare da battistrada ad una nuova stagione di
cooperazione e solidarietà.
Anche perché dalle ceneri di AlpeAdria sta
nascendo “l’Euroregione” nuovo strumento
politico-istituzionale, e il suo messaggio
culturale può alimentare scelta e programmi.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
49
Imre Kozma | Padre Imre Kozma è il religioso ungherese che, nell”estate del 1989, raccolse, alloggiò e sfamò oltre 50.000 profughi che, dalla Germania dell”Est, attraverso l”Ungheria fuggivano in Austria e Germania. Compiuti gli studi superiori con la maturità classica, mentre sembrava destinato ad una brillante carriera calcistica, Imre scelse la strada del sacerdozio e del servizio a Dio ed all’uomo. A lui, in qualità di presidente del Servizio Caritativo dell’Ordine di Malta, si rivolse il 13 agosto 1989 un funzionario dell’ambasciata dell’allora Germania Ovest, per chiedergli di “fornire assistenza ai profughi che arrivavano in massa dalla Germania Orientale”.”Sì, certo” rispose Imre ed in breve si trovò a dare ospitalità a quasi 50.000 tedeschi dell’Est. In occasione di un suo viaggio a Budapest, il ministro degli Esteri tedesco ha consegnato a padre Imre la Gran Croce al merito della Repubblica Federale,la più alta onorificenza che uno straniero possa ricevere dal governo tedesco: “è stato Lei a divellere il primo mattone dal Muro di Berlino” gli ha detto il ministro. Nonostante la sua Presidenza del Servizio caritativo dell’Ordine di Malta, con un esercito di 40.000 volontari e 89 dipendenti, padre Imre rimane ancora un semplice prete di quartiere, che ogni giorno celebra la messa e tiene lezioni di catechismo.
LA QUESTIONEUNGHERESE
Imre Kozma
1989: la nazione ungherese accoglie i tedeschi dell’Est e apre le frontiere.Nel 2009 noi membri del Servizio di Carità Maltese in Ungheria commemoriamo l’accoglienza dei cittadini della Germania Est ed insieme a tutta la nazione ungherese ricordiamo l’apertura delle frontiere. Dobbiamo affermare, con dovuta umiltà, che
nella storia del XX secolo, dopo il 1956, il
ruolo svolto dagli ungheresi nel 1989 è stato in
grado di influenzare la storia di tutta l’Europa e
indirettamente quella di tutto il mondo.
Potrei anche apprezzare quell’atteggiamento che
suggerisce di non tener conto delle nostre azioni
positive e ritiene sia più nobile aspettare che
siano le altre nazioni europee ad intraprendere
ed organizzare manifestazioni commemorative.
Dovremmo forse sfogliare più spesso le pagine
del libro della nostra storia e soffermarci sulla
pagina dove viene ricordato quest’evento.
Il presidente Romano Prodi disse: “Nel caso
della Germania divisa non potremmo parlare
di Europa unita. La caduta del Muro di Berlino
segnò una nuova prospettiva dell’Europa.”
Hans Dietrich Genscher, ministro degli Esteri,
nell’ottobre 1989, durante una messa solenne
tenuta nella chiesa di Zugliget a Budapest
(presso la quale, il 14 agosto 1989, venne
aperto il primo campo d’accoglienza ) ha
menzionato una verità che ci ha scaldato il
cuore: “Il primo mattone del Muro di Berlino è
stato tolto qui, a Zugliget, da padre Kozma, dai
membri del Servizio di Carità Maltese, da Voi
ungheresi.” A questo proposito mi permetto di
50
ricordare il ventesimo anniversario della caduta
del Muro.
Cos’è successo a Zugliget, una parrocchia alla
periferia di Budapest, in una comunità cristiana
pronta a rischiare? Per alcuni mesi si poteva
osservare l’eredità di Cristo tante volte richiesta
ai cristiani, l’amore verso il prossimo, che
secondo me è sempre presente nella società, ma
non in modo così tanto tangibile come in quelle
circostanze. Non si poteva non notare il “ruolo”
della comunità cristiana della parrocchia. I
politici ne hanno tenuto conto, ci contavano,
senza mai parlare di politica, parlando solo
di cose quotidiane da fare. Abbiamo visto un
miracolo: la pace è scesa sulla terra, perché la
politica non ha voluto utilizzare noi, cristiani,
ma ha semplicemente riconosciuto ed accettato
l’importanza del servizio disinteressato da noi
svolto.
Quello che è accaduto nell’estate 1989 è noto
in tutto il mondo. I cittadini della Germania
Est sono arrivati in Ungheria con un progetto
e un obiettivo molto specifico. Negli anni
precedenti l’Ungheria è sempre stato il punto
d’incontro tra i cittadini della Germania dell’Est
e dell’Ovest, di solito nel periodo delle vacanze
estive. Quell’anno molti di loro sono arrivati
con l’intenzione di non tornare più nel proprio
Paese, ma di ripartire per una casa nuova, verso
la parte libera della Germania. Quest’intenzione
è stata bene espressa nel film di Ferenc Tolvaly,
che titolae: “Da casa a casa!”.
A Budapest c’erano circa 30.000 cittadini della
Germania Est. Con le loro tende hanno invaso
i parchi pubblici, hanno occupato le strade con
i camper. Hanno occupato l’Ambasciata ed il
Consolato della Germania Ovest di Budapest.
Noi, membri del Servizio di Carità Maltese
in Ungheria, su richiesta dell’ambasciata e
collaborando con la comunità parrocchiale di
Zugliget, di cui all’epoca ero parroco, abbiamo
aperto le porte per accogliere i profughi. Sopra
la nostra porta ho scritto un messaggio in latino,
inciso sulla porta di un monastero medievale:
“Ianua patet, cor magis!”.
La mia intenzione era quella di incitare tutti a
chiedermi cosa volesse dire questa scritta per
poter esporre la sostanza del nostro messaggio.
Il significato di questa frase latina è: “La nostra
porta è aperta, il nostro cuore lo è ancor di
più!”. Pensavamo così ed abbiamo agito di
conseguenza.
Il ruolo da noi svolto aveva dei precedenti.
La Comunità Parrocchiale di Zugliget era
preparata a questo compito. Questa comunità,
nel decennio precedente, nell’Ungheria
governata dai comunisti, nel territorio
appartenente alla parrocchia – che dal punto di
vista amministrativo coincideva quasi del tutto
col municipio XII di Budapest – ha organizzato
la prima rete sociale realizzata da persone
civili, la cui importanza è stata riconosciuta
e appoggiata dal presidente del consiglio
municipale e dal segretario del partito del
quartiere.
Conoscendo quei tempi è difficile trovare una
spiegazione plausibile per questo atteggiamento,
se non quella che la vita prevale sul potere
umano. Io sono stato spostato a Zugliget, alla
periferia della città, in un posto remoto, per
punizione da parte dell’Ufficio Ecclesiastico
Statale, come si diceva allora. Ero sotto costante
sorveglianza, anche durante gli interrogatori
facevano tutto il possibile per impaurirmi.
Adesso abbiamo smantellato le frontiere,
abbiamo eliminato le barriere che possono
dividere le persone l’una dall’altra, e come per
magia, ci siamo liberati dei pregiudizi politici e
dalle catene dell’onnipotenza della politica.
51MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
52
2009 . Stelle della Nuova Europa
L’utilità di tutto ciò si è rivelata nel nostro
rapporto con gli abitanti dei campi, i quali
si sono rinchiusi in se stessi, avendo paura
perfino uno dell’altro, e non riuscendo a
spiegarsi la nostra mentalità aperta. Portavano
in sé il tremendo peso della diffidenza e della
paura. Hanno iniziato ad aprirsi solo quando
hanno capito che li stavamo proteggendo e
non eravamo lì per tradirli e preparare la loro
“consegna”.
La richiesta d’aiuto è arrivata dall’Ambasciata
della Germania Ovest la sera del 13 agosto
1989. In parrocchia ho ricevuto la visita del
console, mentre il segretario del consolato era
all’aeroporto per accogliere la signora Csilla
(Csilla von Boeselager, da nubile Csilla Fényes)
in arrivo a Budapest.
Il primo campo è stato aperto il 14 agosto 1989.
Da allora ogni anno, questa giornata viene
ricordata come “il Giorno dell’Accoglienza”.
Nel periodo dal 14 agosto al 14 novembre
abbiamo accolto 48.600 persone in quattro
campi. Hanno contribuito alla loro assistenza
quotidiana 6-700 volontari.
Nel 1989, grazie al primo ministro Miklós
Németh, l’Ungheria aveva un governo, erede
spirituale del 1956, stanco della chiusura e
pronto ad aprire le frontiere.
La tanto attesa notizia dell’apertura delle
frontiere è stata annunciata dal ministro
degli Esteri, Gyula Horn, nell’edizione
serale del telegiornale il 10 settembre. Il suo
annuncio, a detta di tanti profughi tedeschi,
ha aperto la strada verso una nuova vita.
Per noi era la conseguenza naturale dello
smantellamento della tanto odiata Cortina di
Ferro. Quest’evento di importanza mondiale
ebbe luogo il 4 maggio 1989 alla presenza del
Cancelliere austriaco Alois Mock e del Ministro
degli Esteri ungherese Gyula Horn. La loro
foto con le forbici da tagliafilo in mano ha
fatto il giro di tutto il mondo. L’abbattimento
del vergognoso Muro di Berlino è stata una
conseguenza necessaria dello smantellamento
della Cortina di Ferro, il Muro è stato spazzato
via dalla rabbia del popolo e non poteva più
ostacolare l’unificazione tedesca.
Vorrei confidare alle generazioni future tre dei
numerosissimi ricordi, custoditi nel mio cuore.
Alcuni giorni dopo l’apertura del primo campo
l’ambasciatore della Germania Ovest, Alexander
Arno, mi chiese di permettere all’ambasciata di
spostare la sua sede presso la nostra parrocchia,
oppure, in mancanza di spazio, sul corridoio
della chiesa. Poiché l’idea iniziale era quella
di svolgere un servizio umanitario e avendo
questa richiesta un espresso significato politico,
ho cominciato a vacillare. Allo stesso tempo,
visto l’effetto travolgente degli eventi, era
impossibile tirarsi indietro. Per tranquillizzarmi
ho telefonato al cancelliere Helmuth Kohl per
esprimergli la mia preoccupazione. Dopo alcune
ore il cancelliere mi ha richiamato, dicendomi
di aver parlato col Segretario Gorbachev che gli
aveva detto che gli ungheresi sono persone per
bene. Helmut Kohl mi disse che questo per lui
era sufficiente. E aggiunse: sia sufficiente anche
per lei, padre Kozma.
È successo prima dell’apertura delle frontiere.
È venuto a trovarmi il console della Germania
Est. Mi ha chiesto di assicurargli un incontro
con gli abitanti del campo. Nel frattempo
ha detto: “Lei perché preferisce i tedeschi
della Germania Ovest a quelli dell’Est?” Ho
vivamente protestato la sua presupposizione,
trovandola offensiva. Naturalmente ho
promesso di soddisfare la sua richiesta,
promessa accompagnata dall’espressione
disapprovante dei tedeschi dell’Ovest presenti,
i quali avrebbero preferito che io rifiutassi la
53MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
54
richiesta. Quando ci salutammo non ho resistito
a commentare l’affermazione. Signor console,
dissi, devo ammettere che preferisco i tedeschi
dell’Est perché in questo momento sono loro ad
avere maggior bisogno di accoglienza e amore.
In occasione del quinto anniversario
dell’apertura delle frontiere abbiamo posto
una targa commemorativa sul muro della
chiesa di Zugliget. L’ambasciatore tedesco di
allora, il signor Otto Raban Heinichen, nel
discorso tenuto durante la manifestazione, ha
pronunciato delle parole da tenere a mente. Il
suo discorso era composto da due sole frasi:
“Vorrei sapere se è mai esistita nella storia una
nazione che abbia aiutato in modo altruista una
nazione più grande e più prosperosa, assumendo
nello stesso tempo un serio rischio. L’unica
spiegazione plausibile è che gli ungheresi hanno
un cuore enorme.”
In occasione del ventesimo anniversario
dell’apertura delle frontiere e della fondazione
del Servizio di Carità Maltese in Ungheria il
messaggio della ventenne “Malta” è: il cuore più
grande ce l’ha l’Ungheria!
I nostri programmi, i nostri interventi di
soccorso per aiutare le vittime di catastrofi
nazionali ed internazionali, hanno incontrato
l’accordo e l’appoggio degli ungheresi (persone
private, imprese, enti). Abbiamo constatato che
le persone sono sensibili ai messaggi sociali,
sono aperte ad aiutare i bisognosi e sono
disposte a collaborare per risolvere i problemi
sociali.
Nel ventesimo secolo l’umanità è stata colpita
da eventi senza precedenti, che hanno avuto
un effetto distruttivo incommensurabile. Dopo
questi avvenimenti la nostra sembianza umana
è come distorta, ma, per fortuna, in fondo
alla nostra anima spaventata si è risvegliata la
sensibilità verso diverse forme di miseria.
Oggi, forse per dono di Dio, questa nuova forma
di sensibilità è divenuta il criterio e la misura
delle persone mature. Oggi ogni lotta contro la
miseria ed il bisogno è supportata dall’accordo
pubblico, con l’intervento dei membri del
servizio di carità maltese, secondo il nostro
credo.
In occasione del ventesimo anniversario
dell’apertura delle frontiere saluto tutti con
immenso affetto.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
Riccardo Ehrman | Corrispondente per anni dalla sede dell’Agenzia Ansa di Berlino, il giornalista italiano Riccardo Ehrman è a buon titolo uno dei protagonisti dello sgretolamento definitivo del Muro, tanto che nell’ottobre 2008 la Repubblica Federale Tedesca lo ha insignito con la “Croce al merito” per il ruolo determinante nel processo di riunificazione tedesca: nella storica conferenza stampa del 9 novembre 1989 fu infatti Ehrman a porre la domanda che portò il mondo alla conoscenza della caduta del Muro. Un’ ora prima della conferenza stampa con il Ministro della Propaganda Günter Schabowski, il telefono squillò nell’ufficio di Riccardo Ehrman. Il giornalista riconobbe la voce all’altro capo del telefono: si trattava di Günter Pötschke, membro del Comitato Centrale della Sed. Fu proprio lui a consigliare ad Ehrman di porre a Schabowski una domanda sulla libertà di viaggio. Così, verso la fine della conferenza stampa, il giornalista italiano chiese al Ministro della Propaganda quando le restrizioni di viaggio sarebbero state tolte. «Anche subito», fu la risposta di Schabowski, che Ehrman rilanciò immediatamente via Ansa: «Un annuncio che equivale alla caduta del Muro di Berlino è stato dato questa sera dal governo». Pochi minuti dopo il Muro cominciava a sbriciolarsi ...
QUEL PRIMO ANNUNCIO
Riccardo Ehrman
55
Io sono quel giornalista italiano - per la precisione fiorentino - corrispondente da Berlino dell’agenzia Ansa, che alla famosa conferenza stampa del 9 novembre 1989, che ebbe luogo nel centro stampa di Berlino Est, formulò la domanda in risposta alla quale il portavoce del politburo della RDT, Guenther Schabowski, annunciò la caduta del Muro. Sia ben chiaro che l’annuncio venne formulato
nel modo oscuro e complicato caro ai portavoce
delle dittature comunista e che il romanziere
inglese George Orwell nel suo profetico “1984”
(scritto nel ’49) definiva “newspeak” cioè un
linguaggio aperto a più interpretazioni.
Schabowski disse più tardi che la mia
era stata una domanda “estremamente
provocatoria, che l’aveva innervosito e spinto
e costretto” ad annunciare le nuove “regole
di viaggio”, il cui testo aveva già in tasca.
Queste “reiseregelungen” (detto in tedesco)
equivalevano all’annuncio della caduta del
Muro. In sostanza egli aveva detto che qualsiasi
cittadino tedesco orientale poteva da quel
momento varcare i confini della RDT, compreso
- si noti bene - quelli di Berlino Ovest, per
poter andare all’estero. Unico requisito: un
documento d’identità valido.
Un annuncio rivoluzionario, fantastico: fino
a quel momento qualsiasi espatrio, anche
nei paesi comunisti, era soggetto non solo al
56
complicato rilascio di un passaporto, ma anche
a quello - assai più difficile - di un visto di
uscita sempre emesso con durata molto limitata.
Se si ricorda che il Muro di Berlino fu costruito
nel 1961, con il preciso scopo di impedire
agli sfortunati tedeschi orientali di passare ad
Ovest, era evidente che l’apertura delle frontiere
equivaleva all’annuncio della caduta dello
stesso Muro. In quel momento era cambiato il
mondo, ma ingannati dal tono frettolosamente
burocratico di Schabowski quasi nessuno lo
comprese.
Il fatto incredibilmente sorprendente fu
che, dopo le parole di Schabowski, solo due
persone - io e il diplomatico tedesco occidentale
Eberhard Grasshoff - abbandonarono la sala
per precipitarsi a telefonare. Questo fece sì
che l’ANSA ebbe un incredibile vantaggio di
37 minuti sulle altre agenzie. Solo trascorso
quel tempo - e vedendo le notizie dell’agenzia
italiana - nelle redazioni di tutto il mondo si
cominciò seriamente a sospettare che qualcosa
di grosso stava succedendo a Berlino. Solo il
cancelliere tedesco Helmut Kohl, che si trovava
in visita ufficiale a Varsavia, fu informato
tempestivamente e piantò tutto per tornare a
casa.
Schabowski, lui stesso un buon giornalista
prima di trasformarsi in un arrogante e
onnipotente leader tedesco orientale, certo
sapeva perfettamente il significato estremo
del suo annuncio e, proprio per questo, aveva
tergiversato fino alla fine della conferenza
stampa prima di leggerlo. C’è da chiedersi se
poi l’avrebbe fatto se non ci fosse stata la mia
domanda…
Se non l’avesse fatto, la RDT, e il Muro,
avrebbero potuto durare qualche giorno o
settimana in più. Questo grande capo tedesco
orientale avrebbe dovuto essere il successore di
Erich Honecker che da poco era stato destituito,
ma alla fine aveva prevalso Egon Krenz, capo
delle gioventù comunista, per il solo fatto che
aveva maggiore anzianità nel politburo. Sono
convinto che con Schabowski al vertice, lo
stato tedesco orientale non si sarebbe disciolto
tanto pacificamente, con l’inevitabile risultato
di procrastinare la trionfale riunificazione della
Germania. So per certo, infatti, che egli era
del tutto contrario alla “unione monetaria”
tra il debolissimo marco tedesco orientale
e il formidabile “Deutschemark”, sigillata
poche settimane dopo la conferenza stampa
e che significò la effettiva fine della seconda
Germania.
Oscar Wilde diceva che la vita è un brutto
quarto d’ora con pochi buoni momenti. Ebbene,
per quanto mi riguarda, posso dire che la
conferenza stampa del 9 novembre 1989 e
subito dopo la caduta del Muro, sono stati i
migliori momenti - i più emozionanti in assoluto
- della mia vita.
57MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / I PROTAGONISTI
2008 . Non essere, progetto Hamlet’s Portraits
58
60
Lucio CaraccioloMarcello Veneziani
Gianni BisiachPredrag Matvejevic’
Sergio RomanoToni CapuozzoPiero Badaloni
Giorgio PressburgerRoberto ColliniAndrea Filippi
Paolo PossamaiAlfonso Di Leva
PROVE D’EUROPALE RIFLESSIONI
QUEL MURO NON DISPIACEVA AGLI EUROPEI
62
Lucio Caracciolo | Giornalista, dirige la rivista italiana di geopolitica “Limes”. Scrive editoriali e commenti di politica estera per il Gruppo Editoriale L’Espresso ed ha pubblicato vari saggi di storia contemporanea, tra i quali ricordiamo “Terra incognita. Le radici geopolitiche della crisi italiana” (Laterza 2001); “Dialogo intorno all’Europa” (Laterza 2002); “Il resto è politologia“ (con Marco Alloni, ADV Advertising Company, 2009).
Lucio Caracciolo
63
Il giorno dopo la caduta del Muro, mi trovavo a partecipare a Roma a un convegno di germanisti italiani e tedeschi. L’impressione, l’emozione erano enormi. Ma quasi tutti i convegnisti dettero di quell’evento un’interpretazione presto smentita dalla storia. Si trattava – secondo costoro – di una geniale
mossa del governo di Berlino Est, destinata
ad allentare la pressione popolare sul regime
e a ristabilizzare la Repubblica Democratica
Tedesca.
Non si trattava di un semplice per quanto
clamoroso errore di valutazione. Molto di
più, esso esprimeva l’aria del tempo, almeno
fra gli intellettuali europei, alcuni tedeschi
inclusi. Per i quali l’impero sovietico, e quindi
il suo avamposto occidentale, non era ancora
al capolinea. Anzi. Disponeva di risorse tali
da consentirgli un orizzonte di speranza, di
riforma. Idea condivisa anche da buona parte
dei dissidenti tedesco-orientali alla fine degli
anni Ottanta, nell’atmosfera della perestrojka e
della Gorbymania. Ancora pochi giorni prima
dell’apertura delle frontiere, questa tesi era
risuonata in grandi manifestazioni di massa
che avevano agitato le piazze della Germania
comunista.
Anche in Europa occidentale l’idea che il tempo
della divisione della Germania fosse scaduto
appariva minoritaria. E lo restò ancora per
qualche mese, dopo quella fatidica notte di
novembre. In diversi casi, più che di un’analisi
si trattava di una speranza. Specie nel campo
della socialdemocrazia e della sinistra europea
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
in genere, che interpretava la sempre più visibile
disintegrazione dei regimi satelliti di Mosca
in Europa centrale e orientale come premessa
di un nuovo riformismo, non certo del trionfo
del capitalismo e della liberaldemocrazia
senza aggettivi. Persino alla vigilia delle
elezioni tedesche che l’anno successivo per la
prima volta coinvolsero i cittadini originari
della Repubblica Federale e quelli appena
integrati in quanto ex sudditi della Rdt, alcuni
analisti scommettevano sull’affermazione della
socialdemocrazia. Tanto più, si ricordava, che
la SPD aveva storicamente le sue roccaforti
nell’ex Germania orientale (o meglio centrale,
visto che quella geograficamente orientale era
stata spartita nel 1945 tra Polonia e Unione
Sovietica). Invece vinse Kohl, confermato alla
cancelleria in quanto protagonista coraggioso
della riunificazione nazionale.
Più in generale, quella rimozione iniziale del
significato del crollo del Muro esprimeva la
riluttanza, quando non l’avversione, degli
europei occidentali alla fine della divisione
della Germania. L’ipotesi dell’integrazione
immediata dei sedici milioni di tedeschi dell’Est
nel corpo della Repubblica Federale era vista
come il prodromo della Grande Germania. Ossia
della rinascita di una potenza visceralmente
imperialista e militarista nel centro del nostro
continente. Dunque, l’annuncio di una nuova
guerra mondiale. Alcuni, fra i quali un ministro
britannico costretto alle dimissioni, parlavano di
“Quarto Reich” alle porte. Altri lo pensavano o
lo suggerivano in privato.
Fra gli avversari della riunificazione tedesca
c’erano - al momento in cui la frontiera fra le
due Berlino s’apriva, in un’orgia di tedeschi
festanti - tutti i leader delle principali potenze
europee. François Mitterrand era più che
preoccupato, tanto da compiere in dicembre la
prima e unica visita di Stato di un presidente
francese nella Repubblica Democratica Tedesca,
tanto per chiarire che per Parigi quello restava
uno Stato sovrano a tutti gli effetti. A Londra,
Margaret Thatcher riscopriva la paura degli
“unni” e convocava nella sua residenza di
campagna di Chequers un seminario di
augusti storici ed esperti della Germania,
cui chiese inquieta se vi fosse da temere il
revanscismo della nuova leadership pantedesca
in gestazione. Fra parentesi, molti di quegli
intellettuali non esclusero affatto tale ipotesi,
connessa a un’interpretazione stereotipata
dell’immutabilità del “carattere nazionale”
germanico. A Roma, Giulio Andreotti aveva
già pubblicamente comunicato, durante un
Festival dell’Unità del settembre 1984, che
lui amava tanto la Germania da auspicare che
ce ne fossero sempre due (ciò che suscitò la
dura reazione diplomatica di Bonn e l’estasi
dei capi della Rdt). Non diverse le sensazioni
di Felipe Gonzalez, a Madrid, e di altri leader
euroccidentali.
Insomma, il braccio europeo della Nato non
voleva la riunificazione della Germania. E fece
di tutto, finché possibile, per ritardarla se non
rinviarla alle calende greche. Opinione peraltro
condivisa da un numero non indifferente di
64
tedeschi, e non solo da dirigenti e funzionari
della nomenklatura comunista che aveva
gestito la Repubblica Democratica Tedesca per
quarant’anni. Molti socialdemocratici e alcuni
democristiani tedesco-occidentali, tra cui lo
stesso cancelliere Kohl, pensavano inizialmente,
almeno nelle prime settimane successive alla
caduta del Muro, a una sorta di confederazione
fra le due Germanie. La Rdt avrebbe conservato
ancora per molti anni la propria sovranità,
finché non fossero maturate le condizioni esterne
e interne per riportare tutti i tedeschi sotto lo
stesso tetto.
L’unico fra i grandi leader occidentali a capire
che il tempo era scaduto e che nessuno avrebbe
mai potuto rivitalizzare il regime di Berlino Est
fu George Bush. Il quale, contro il parere di
alcuni consiglieri e del suo principale alleato – il
premier britannico – volle giocare subito la carta
delle riunificazione tedesca. La sua idea era che
la breccia non del tutto consapevolmente aperta
da Gorbaciov nel Patto di Varsavia e nella stessa
Urss andava allargata e sfruttata per consentire
all’Europa succube di Mosca di emanciparsi
dai russi prima che questi cambiassero registro
e decidessero di azzardare una controffensiva
(effettivamente tentata, con esiti disastrosi, da
alcuni dirigenti sovietici nell’estate 1991). Su
tale linea si schierò, dal dicembre 1989, anche
Kohl. E siccome Gorbaciov non aveva né i
mezzi né la fantasia per reagire, e i dirigenti
della Rdt erano impegnati a salvar se stessi e
le proprie famiglie, il processo di disgregazione
della Germania comunista divenne presto
inarrestabile. Nel giro di pochi mesi quel regime
si avvitava su se stesso e la Rdt era di fatto
annessa dalla Bundesrepublik.
Poteva essere arrestato, o almeno ritardato, quel
processo? La questione è ovviamente oziosa. Ma
evocarla serve a ricordarci che la riunificazione
tedesca, celebrata nemmeno un anno dopo
il crollo del Muro, fu subìta dall’Europa
occidentale, e dalla grande maggioranza dei
paesi dell’Alleanza atlantica. Per i quali,
evidentemente, il pareggio (lo status quo) era
meglio della vittoria (la scomparsa del Nemico).
65MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
66
L’AMBIGUA LETTURADEL MURO CROLLATO
Marcello Veneziani | Marcello Veneziani è giornalista, scrittore, studioso di filosofia. Come giornalista ha iniziato nella redazione barese del quotidiano Il Tempo, per poi passare a Il Giornale d’Italia. È stato fondatore dei settimanali L’Italia settimanale e Lo Stato, direttore editoriale della rivista Il Borghese, editorialista per Il Messaggero, Il Giornale e Libero. E’ autore di numerosi saggi e pubblicazioni: fra le sue ultime opere “Sud. Un viaggio civile e sentimentale” (Mondadori, 2009) e “Rovesciare il ’68. Pensieri contromano su quarant’anni di conformismo di massa” (Mondadori, 2008).
Marcello Veneziani
67Il Muro ha due versanti, due punti di osservazione, uno al di qua e l’altro al di là. Un Muro abbattuto dovrebbe al contrario unificare le vedute, sgombrate le macerie. La caduta del Muro di Berlino ha invece generato, al di là del senso comune, due punti di osservazione divergenti. Quando è crollato è stato possibile affermare
due cose opposte: non ci sono più barriere, si
va verso la società globale e l’ordine mondiale
a una dimensione. Ma si è detto anche il suo
contrario: rinasce la Germania, riprendono
quota le identità nazionali e territoriali,
finiscono i blocchi ideologici e artificiali e
risorgono gli stati nazionali, figli della storia,
della lingua, delle tradizioni. La caduta del
Muro ha avviato o galvanizzato ambo i processi.
Da allora in poi si è parlato di globalizzazione.
In quei giorni pubblicai un libro, Processo
all’Occidente, dedicato –come scrivevo nel
sottotitolo – alla società globale e i suoi nemici.
Che prendeva le mosse proprio dalla caduta
del Muro. Negli anni Novanta la parola globale
diventò ossessiva, e si coniugava sempre alla
caduta del Muro e di conseguenza del regime
sovietico. Ma da allora in poi si parlò pure di
leadership europea della Germania, si parlò di
nuovi nazionalismi rinati all’est sulle rovine del
comunismo, risorsero le piccole patrie; perfino
da noi, il patriottismo locale trovò nella Lega il
suo vettore.
Su quell’ambiguità fu fondato il processo di
unificazione europea che prese le mosse proprio
dalla caduta del Muro. Infatti l’Europa unita
conserva alle sue origini due letture opposte:
può essere intesa come la dis-integrazione
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
degli stati nazionali e il gradino verso la società
globale e lo stato mondiale. E può essere intesa
all’opposto come Europa delle patrie, come
la concepì De Gaulle, ovvero come argine e
risposta alla globalizzazione e come rinascita
della civiltà europea e della geopolitica.
Dagli Stati Uniti giunsero due teorici a
legittimare entrambi i processi. Francis
Fukuyama parlò di fine della storia con
la caduta del Muro di Berlino e Samuel
Hungtinton al contrario vide rinascere sulla
caduta dei due blocchi contrapposti, le differenti
civiltà e il loro scontro.
Di quel Muro caduto conservo un’immagine
riflessa: quella di Ernst Junger, il grande
scrittore tedesco quasi centenario, grande
soldato che aveva vissuto e descritto nei suoi
diari il crollo della Germania, che riceve
in diretta una telefonata dei suoi pronipoti
mentre danzano sulle rovine del Muro. Il suo
fiero carattere di antico prussiano non seppe
trattenere in quell’occasione una pur composta
emozione ed una sofferta euforia perché
una tragedia finiva e la linea finalmente era
attraversata, per dirla col suo linguaggio di
militare e sismografo del nichilismo. Del resto,
Junger aveva scritto “Al muro del tempo”
(uscito in Italia pochi anni dopo l’edificazione
del Muro, tradotto da Evola per le edizioni
Volpe) in cui mostrava che non solo i muri
spaziali ma anche i muri temporali possono
essere abbattuti e varcati. In effetti unificandosi,
le due Germanie abbatterono anche il muro del
tempo, perché il tempo vissuto nella Germania
est non ero lo stesso della sorella occidentale.
La Germania Orientale era anacronistica
rispetto a quella Occidentale, il comunismo
aveva come imbalsamato tracce di Prussia e
persino di Terzo Reich, mentre la Germania
Ovest si era americanizzata e modernizzata più
velocemente.
La caduta del Muro di Berlino fu comunque
un crollo salutare per l’umanità, a differenza
dell’altro crollo di dodici anni dopo, le due
torri a New York. Il terzo millennio non è nato
su atti di fondazione ma su due distruzioni.
Poi ci chiediamo perché prevale la tentazione
dissolutiva…
68MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
69
2008 . Three Duets
70
LA SVOLTA DI GORBACHEV
Gianni Bisiach | Giornalista e regista, ha vinto il premio Mondiale della Televisione (Londra 1963) con l’inchiesta sulla mafia Rapporto da Corleone. Ha ottenuto, insieme a Federico Fellini e Luchino Visconti, il premio internazionale Spoleto Cinema 1970 con il film I due Kennedy, nel quale ha indicato i nomi dei responsabili dell’assassinio di Dallas, confermati nel 1979 dalla Commissione Speciale della Camera dei Rappresentanti di Washington. Nel 1979 divenne capostruttura di Radio Uno, e ideò il fortunato programma Radio anch’io, che raggiunse 4 milioni di ascoltatori e da allora si è succeduto attraverso numerose edizioni. Da molti anni conduce per la RAI il programma Un minuto di storia, in cui racconta ogni giorno un evento accaduto proprio in quella data.
Gianni Bisiach
71Ho un ricordo “forte” sulla caduta del Muro di Berlino, legato a Michail Gorbachev, che ho conosciuto in quegli anni, nel corso della registrazione di un mio programma televisivo sull’assedio di Leningrado.A Gorbachev dobbiamo molto per l’opera che ha svolta in favore della pace nel mondo. Segretario del PCUS dal 1985, ha avviato
l’uscita dal lungo periodo della guerra fredda (e
dell’equilibrio del terrore) stabilendo rapporti
di personale amicizia con Margareth Thatcher
in Inghilterra, ma soprattutto col presidente
americano Ronald Reagan. Con Reagan,
firmò, nel 1987 a Washington, l’accordo
sugli euromissili, che poi portò alla riduzione
bilanciata degli arsenali nucleari mondiali.
Nel 1988 Gorbachev abolì la “dottrina
Breznev” sulla sovranità limitata, decise
l’uscita dall’Afghanistan e il ritiro delle truppe
sovietiche dall’Ungheria e dalla Germania
Orientale che, nel 1989 porterà alla caduta
del governo Honecker e, il 9 novembre, alla
riapertura delle frontiere con la RFT e quindi
alla caduta del Muro.
Per questo, nel 1990, Michail Gorbachev
ottenne il Nobel per la pace. Ma dopo il golpe
del 1991 dovette lasciare il potere. L’assedio
di Leningrado, che io ricordai in una puntata
della mia serie “Grandi battaglie”, è un
episodio particolarmente drammatico della
Seconda Guerra Mondiale, perché coinvolse
tutta la popolazione civile di quella città
e produsse oltre settecentomila morti. Nel
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
ricordare quell’episodio Gorbachev si commosse
in modo particolare. Naturalmente, per
quanto riguarda l’Unione Sovietica bisogna
considerare separatamente il periodo della
guerra, da un lato, e dall’altro quello del
dopoguerra con la cosiddetta ‘Guerra fredda’.
Da questo punto di vista i due personaggi che
più contribuirono a superare lo scontro fra
Unione Sovietica e mondo occidentale sono stati
sicuramente Krusciov e Gorbachev. Fu proprio
quest’ultimo, in particolare, a rendersi conto
che era necessario superare la contrapposizione
strategica dei due emisferi che per tanti anni ha
mantenuto il mondo sull’orlo della terza Guerra
mondiale.
Da questo punto di vista dobbiamo ricordare
che in America e in Russia stavano governando,
in quel periodo, uomini che avevano vissuto
la tragica esperienza della seconda Guerra
Mondiale e soprattutto il trauma di Hiroshima
e Nagasaki, le due città giapponesi che furono
spazzate via dalle bombe atomiche: il mondo
intero comprese da quegli eventi che una terza
guerra mondiale con l’uso della armi nucleari
sarebbe stata l’ultima guerra, perché avrebbe
portato alla distruzione dell’intera umanità.
Negli anni successivi la costruzione delle bombe
all’idrogeno, mille volte più potenti di quelle
usate sul Giappone, e l’immagazzinamento di
ventiquattromila testate nucleari in America
contro le ventiquattromila sovietiche, resero
potenzialmente possibile la distruzione
dell’intera superficie del pianeta, e quindi la
scomparsa del genere umano.
Oggi la generazione che detiene il potere nel
mondo non è forse altrettanto sensibile a questi
problemi perché la seconda Guerra mondiale
è ormai lontana nel nostro ricordo. E qui,
tornando alla caduta del Muro di Berlino e
successivamente alla salita al potere di una
nuova generazione, osservo che certamente
Gorbachev avrebbe portato avanti una politica
di amicizia con gli Stati Uniti, mentre i suoi
successori sono progressivamente tornati
alla precedente politica di scontro fra le due
superpotenze che oggi sembra un po’ oscurare il
ventesimo anniversario della caduta del Muro di
Berlino.
Di questo Gorbachev mi ha parlato con
preoccupazione sino da allora.
72MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
73
2001 . Marionette di Podrecca
UN MONDO “EX”
74
Predrag Matvejevic’ | Scrittore e saggista, è nato a Mostar nel 1932 da padre russo e madre croata della Bosnia-Erzegovina. Professore all’Università di Zagabria e poi alla Sorbona a Parigi, insegna attualmente letterature slave all’Università La Sapienza di Roma. Dopo la “caduta del Muro”, si è opposto a tutti le moderne “democrature”, ossia, come egli stesso li definisce, i nuovi regimi instauratisi in alcuni paesi dell’Est. Tra le sue opere Breviario mediterraneo (Garzanti, Milano 1991); Epistolario dell’altra Europa (Garzanti, Milano 1992); Ex Jugoslavia. Diario di una guerra (Magma, Milano 1995); Il Mediterraneo e l’Europa (Garzanti, Milano 1998); I signori della guerra (Garzanti, Milano 1999); Un’Europa maledetta (Baldini e Castoldi, Milano 2005).
Predrag Matvejevic’
Fino a qualche tempo fa osservavamo in primo luogo l’EST europeo e un sistema sociale che crollava in questa parte della pianeta. Da meno di un anno fa, nel 2008 - 2009, non guardiamo solo in questa direzione.I nostri sguardi s’incrociano e si perdono in lontananza, creando una paura quasi universale. Essa sembra unirci più di una globalizzazione
che cercava, a modo suo, di “avvicinarci” gli uni
agli altri. Oggi, quasi tutto il mondo diventa più
o meno “ex”. L’unisce la nostra inquietudine.
La caduta del Muro di Berlino e la fine della
guerra fredda hanno visto una parte del mondo
vivere un’esistenza in qualche modo postuma:
un ex-impero, numerosi ex-stati ed ex-patti
tra stati, tante ex-società ed ex-ideologie,
ex-cittadinanze ed ex-appartenenze, e anche
ex-dissidenze ed ex-opposizioni. Era legittimo
domandarsi cosa significasse, in realtà, essere o
dirsi «ex».
Essere stato cittadino di un’ex-Europa
più o meno affrancata, di una ex-Unione
Sovietica disgregata, di una ex-Iugoslavia
distrutta? Essere diventato un ex-socialista
o ex-comunista, ex-tedesco dell’Est, ex-
cecoslovacco - ciò è solo ceco o solo slovacco,
membro di un ex-partito o partigiano di un
ex-movimento?
75MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
76
L’Est non aveva diritto esclusivo sullo statuto
di «ex». In Occidente e altrove, si conoscono
bene degli ex-stalinisti, degli ex-colonialisti,
degli ex- sessantottini (tanti, dappertutto), tutta
una ex-sinistra diventata nuova destra, una
vecchia destra convertita al «neo liberalismo»,
una ex-democrazia cristiana suddivisa tra
destra e sinistra, che ha talvolta impoverito
il cristianesimo senza arricchire per contro
la democrazia; una ex-socialdemocrazia
imbastardita sulla quale si sono innestati
alcuni ex-progressisti pentiti; un ex-socialismo
occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse
radici, un ex-franchismo o un ex salazarismo
diventati “europeisti”. Probabilmente, domani
si parlerà di una ex Unione Europea che
avrebbe rinnegato un vecchio continente inerte
ed indeciso, colpevole per molti motivi. C’è un
odore di ancien régime attorno a noi, odore
d’infezione o di avaria. La morale sembra
si adatti alle mille e una maniera di voltare
gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore
come una sopravvivenza.
Siamo anche testimoni di tante cose inattese
e sorprendenti: quasi nessuno pensava che il
“capitalismo finanziario” potesse fare tanto
male al capitalismo stesso, metterlo in questione
in questo modo. Si pensava - e si prevedeva
una volta - che la lotta di classe facesse questo
lavoro, radicalmente. Tanti di noi erano ingenui.
La “crisi” che stiamo vivendo non permette
più ipotesi scolastiche o riferimenti partitici.
Dobbiamo viverla, non tutti nello stesso modo,
ma coinvolti spesso malgrado noi stessi.
Dalla nostra esperienza precedente (penso a noi
che abbiamo vissuto nell’ ex Europa dell’Est),
sappiamo che lo statuto di «ex» è più grave di
quanto non sembri a tutta prima: quell’«ex» è
visto e vissuto come un marchio, talvolta come
delle stimmate. E’ di volta in volta un legame,
involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi
di un rapporto ambiguo, quanto di una qualità
ambivalente. Essere «ex» è, da una parte,
avere uno statuto mal determinato e, dall’altra,
provare un sentimento di disagio.
Tutto ciò concerne tanto gli individui che la
collettività, tanto la loro identità quanto le
modalità della loro esistenza: una specie di
ex-istanza, a un tempo retroattiva e attuale.
Il fenomeno è nello stesso tempo politico (o
geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale,
psicologico. Pone più di una questione morale e
mette in causa una morale precedente.
Non si nasce «ex», lo si diventa. Tanti
rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o
del presente sono in atto, auto-giustificazioni
o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti o
all’indietro, modi di rifare o di disfare, se non la
propria vita, almeno il nostro sguardo sulla vita.
Lo choc per quanto è accaduto e sta accadendo
sembra tanto violento quanto imprevisto.
Le transizioni, per quanto male assicurate
all’Est, prevalgono ancora sulle trasformazioni.
L’Occidente guarda innanzi tutto affari suoi.
La democrazia proclamata in vari Paesi del
mondo appare più spesso con le caratteristiche
di una democratura (ho coniato questo termine
all’inizio degli anni 90 del secolo scorso per
definire un ibrido tra democrazia e dittatura,
non solo nei paesi detti dell’Est). Un populismo
penoso è sempre stato pronto a sostenere quasi
tutti i regimi dubbiosi. La laicità è stata poco
popolare in gran parte dell’Est e dell’Occidente,
senza parlare del cosiddetto “Terzo mondo”.
Il «giocattolo nazionale» non ha mai perso
la sua attrattiva. La cultura nazionale si
converte facilmente in ideologia della nazione
e sbocca spesso su progetti nazionalisti. L’idea
di emancipazione scompare dall’orizzonte,
“invecchiata” o “utopica”. I nostri discorsi sono
quasi inevitabilmente sfasati, il loro centro di
gravità sembra spostato.
Il mondo «ex» è pieno di eredi senza eredità,
di svariate mitologie che si escludono
reciprocamente: riedizioni del passato e del
presente, immagini disparate e rimesse insieme
alla leggera, schermi frapposti in fretta o griglie
di lettura mal applicate, paradigmi messi in
questione dalla loro stessa defi izione.
Le utopie e i messianesimi si vedono sistemati
tra gli accessori di un passato irrecuperabile.
Un aggiornamento della fede e della morale
non sembra essere perseguito che in ambienti
limitati ed occasionalmente. Fino a poco tempo
fa un post-modernismo cercava, senza troppa
fortuna, di imporsi sull’arte e sul pensiero
per rimpiazzare ciò che nell’epoca precedente
era stato acclamato come «moderno»: un
ex-modernismo criticabile, certamente, ma non
insignificante.
Le avanguardie, che hanno proclamato e
svolto i loro ruoli sono ormai «classificate».
Le fonti della grande letteratura, generatrice
di simboli, sembrano esaurite. Forme di
decostruzione tendevano a sostituirsi a sintesi
poco soddisfacenti. Una nuova storia rifiutava
di sottoporre la lunga durata, come faceva la
precedente, al vaglio degli avvenimenti. La
vecchia università non è riuscita a riformarsi.
L’invocazione dell’«immaginazione al potere» è
già da tempo dimenticata. Tutta una ex-cultura
non riusciva, se non con gravi difficoltà, a
impadronirsi in un modo giusto e utile di quelle
innovazioni che erano offerte o richieste non
solo dalla tecnologia.
Le alternative non sono state create ne’ dalla
destra ne’ - ahimè! - dalla sinistra. Cerchiamo
almeno di superare la paura. So che questo
slogan sembra troppo modesto, ma non ne vedo
un altro più affidabile.
77MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
78
MA IL “TERREMOTO” CONTINUA
Sergio Romano | Editorialista del Corriere della Sera, ha lavorato come giornalista a Milano, Parigi, Londra e Vienna e ha iniziato la carriera diplomatica nel 1954. È stato direttore generale degli Affari Culturali del Ministero degli Esteri (1977-1983), rappresentante alla NATO (1983-85); dal settembre 1985 è stato ambasciatore a Mosca, durante i cruciali anni della perestrojka, fino al momento in cui si è dimesso dalla carriera diplomatica, nel marzo 1989. Ha insegnato nelle università di Firenze, Sassari, Pavia, Berkeley e Harvard. Dal 1992 al 1998 è stato professore di Storia delle relazioni internazionali alla Bocconi di Milano. I suoi ultimi libri sono: “Con gli occhi dell’Islam (Longanesi 2007) e “Storia di Francia dalla Comune a Sarkozy” (Longanesi 2009).
Sergio Romano
Il Terzo dopoguerra, come fu chiamato il periodo aperto dal crollo del Muro di Berlino e dal collasso dell’Urss, può essere diviso in due fasi di lunghezza pressoché eguale. La prima fu quella che i geologi definiscono
la fase delle scosse di assestamento: una lunga
serie di crisi statuali, guerre civili e guerre di
secessione che agitarono sino alla fine degli anni
Novanta tutti i paesi del comunismo europeo.
La Cecoslovacchia si ruppe dolcemente,
come se il confine tra le terre dell’impero
d’Austria e quelle del regno d’Ungheria fosse
soltanto una fragile cucitura, mal imbastita
dai sarti di Versailles. La Jugoslavia si ruppe
sanguinosamente, in parte lungo i confini
tracciati dal maresciallo Tito alla fine della
Seconda guerra mondiale, in parte lungo quelli
etnico-religiosi che attraversavano la Bosnia e la
Serbia.
Le scosse più lunghe e i traumi maggiori
sconvolsero l’Unione Sovietica. L’opinione
pubblica occidentale ebbe qualche notizia di
prima mano sulla guerra cecena del 1994-1996,
ma quasi non si accorse di ciò che accadde nei
territori al di là del Dnienster tra Moldavia
l’Ucraina, nel Nagorno-Karabach, nell’Ossezia
del Sud, in Abkhazia e in alcune repubbliche
dell’Asia Centrale. Non capì, ad esempio, che il
collasso dello Stato sovietico stava provocando
un fenomeno non troppo diverso, sul piano
quantitativo, da quello che si era prodotto
alla fine della Seconda guerra mondiale
quando dodici milioni di tedeschi fuggirono o
furono cacciati dai territori orientali del Terzo
Reich, dalla Polonia, dal Sudenland, dalla
Transilvania. Ma i “flüchtlinge”, in questo caso,
erano soprattutto russi, spinti dalle circostanze
ad abbandonare il Baltico, il Caucaso, il Caspio
e l’Asia centrale.
Il processo d’assestamento terminò alla fine
degli anni Novanta quando la terra si stancò
di tremare. Ma era cominciato nel frattempo
un altro terremoto: la distruzione dei pilastri
dell’economia dirigista in tutti i paesi del
blocco comunista. Mentre l’Europa occidentale
avanzava verso l’integrazione economica con la
creazione di un mercato unico e di una moneta
comune, l’Europa centro-orientale smantellava
i gosplan, i kombinat, i kolchoz, i sovchoz e il
gigantesco arsenale dell’economia di comando.
Malauguratamente la ricostruzione avvenne con
le ricette altrettanto ideologiche del teologi del
79MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
liberismo e del Fondo monetario internazionale.
Il risultato delle privatizzazioni a passo di carica
fu la nascita in pochi anni di una oligarchia
economica che si appropriò delle risorse naturali
del proprio paese e fece un uso banditesco della
sua colossale ricchezza.
La seconda fase cominciò agli inizi del nuovo
secolo. Dopo la presidenza sostanzialmente
cauta e temporeggiatrice di Bill Clinton, la
Casa Bianca di George W. Bush decise che
era arrivato il momento di rifare il mondo
a immagine e somiglianza degli Stati Uniti.
L’islamismo radicale (un fenomeno che era
andato progressivamente crescendo negli
anni precedenti) offrì l’occasione che i neo-
conservatori avevano atteso e preparato.
L’assalto alle torri gemelle ebbe la funzione del
colpo di pistola di Sarajevo: la miccia necessaria
al lavoro degli incendiari.
Dopo la guerra afghana (una sorta di ouverture
o prologo) il primo atto andò in scena in
Iraq perché Saddam Hussein era il più
congeniale dei “bad guys” offerti dal mercato
internazionale. Ma la strategia di Bush aveva
obiettivi più ambiziosi fra cui il rovesciamento
del regime iraniano, la trasformazione politica
dell’intera area medio-orientale, la riduzione
all’obbedienza della Corea del Nord. La
macchina s’inceppò a Baghdad, ma questo non
impedì Bush di spostare l’azione in Europa
dove la Nato partì alla conquista dell’Europa
centro-orientale e di alcune fra le più importanti
repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Il risultato
fu il conflitto georgiano e quella che qualcuno,
con un po’ di retorica, ha definito una nuova
guerra fredda fra la Russia e l’Occidente
Mentre Bush tentava la creazione di un nuovo
ordine mondiale guidato da Washington, la
Federal Reserve di Alan Greenspan concepiva
ed esportava nel mondo il modello finanziario
che avrebbe permesso agli americani di
consumare ricchezza non ancora prodotta
e di scaricare i propri debiti sulle spalle di
risparmiatori e investitori stranieri, soprattutto
cinesi. Come tutte le piramidi anche questa
era visibilmente destinata a crollare. Ma dalla
bolla olandese dei papaveri ai nostri giorni,
l’ingordigia prevale spesso sulla saggezza.
Il secondo decennio dopo la caduta del Muro
termina così con nuovi terremoti. L’edificio
investito dalle scosse, in questo caso, è quello
dell’autorità e del prestigio degli Stati Uniti nel
mondo. E anche in questo caso, come dopo il
crollo dell’Urss, vi saranno ricadute politiche
incalcolabili e imprevedibili. Speriamo che
il nuovo inquilino della Casa Bianca ne sia
consapevole.
80MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
81
2003 . Per la dolce memoria di quel giorno
2009 . Nervi - Il corpo eroico
82
1989, RICOMINCIA LA STORIA
Toni Capuozzo | Vicedirettore del TG5, dal 2001 cura e conduce Terra!, il settimanale della testata. Negli anni ’80 ha scrtto per Reporter, Panorama Mese ed Epoca. E’ approdato alla tv con inchieste e approfondimenti su un tema spinoso come quello della mafia, di cui si è occupato per Mixer di Giovanni Minoli. Il suo approdo finale è stato la tv, nelle testate di Mediaset (TG4, TG5, Studio Aperto e L’istruttoria), per le quali ha lavorato come inviato di guerra. Ha scritto diversi libri, e ha vinto il Premio Ilaria Alpi come inviato di guerra, il Saint Vincent per il servizio dedicato al dramma delle foibe, l’Ernest Hemingway e il premio “Cinque stelle per il giornalismo”.
Toni Capuozzo
A me successe con la caduta del Muro di
Berlino. Ero trattenuto in Italia da una colla-
borazione editoriale: mi ero assunto il compito
di “revisionare” alcuni testi di geografia per un
editore di libri scolastici. La revisione di un testo
che manterrà i nomi degli autori è un’operazio-
ne complessa, qualcosa di più di un semplice
aggiornamento. Nel mio caso lo era ancora di
più, perché l’editore aveva assegnato il compito
a me, che non sono un docente o un geografo di
professione, per sveltire quel testo, per renderlo
di più agevole e curiosa lettura per i ragaz-
zi. Terminai nell’estate il volume riguardante
l’Italia, e incominciai un po’ a ritroso quello
riguardante l’Europa e i continenti extraeuropei,
completando Asia e Oceania, Africa e Americhe
prima di chiudere con il mio proprio continente.
E il destino volle che lo affrontassi proprio nei
mesi e perfino nei giorni in cui l’Est europeo era
come un domino impazzito. Scrivevo e riscrive-
vo, inviavo bozze e subito dopo telefonavo di-
cendo di considerarle decadute, e di aspettarse-
ne di nuove. E così assistevo a quello che stava
succedendo con un sentimento misto di gioia - il
mondo cambiava in meglio - e di disappun-
to, perché sapevo che avrei dovuto riscrivere
qualche capitolo un’altra volta. Ma per il resto,
fui uno spettatore normale: come non si poteva
essere felici, ed essere consapevoli della portata
di quanto stava avvenendo, davanti a un’Eu-
ropa finalmente non più spezzata, davanti al
ritorno della democrazia per popoli che a lungo
avevano vissuto in un mondo a parte, davanti
allo sgretolarsi inesorabile del “nemico” – certo,
non lo era per tutti, neanche e forse soprattutto
nell’Europa libera – che aveva condizionato la
83
A volte la Storia, e le emozioni che solleva, è contraddetta da piccole vicende personali, che insidiano il senso di essere parte di un grande avvenimento, sia pure come testimone distante, e macchiano di meschinità le frasi di rito: “io c’ero..”, “mi ricordo bene …”
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
2009 . Sutra
84
85nostra vita, che aveva dettato le trame di mezzo
secolo di conflitti combattuti nel terzo mondo, e
determinato il clima di una guerra senza sangue
che avevamo finito per chiamare, appunto,
guerra fredda ? Qualche osservatore più entu-
siasta di altri parlò addirittura di “fine della
storia”. Se la storia era stata il duello tra due
blocchi, la scomparsa di uno dei due non poteva
voler dire che l’umanità, infine, avrebbe potuto
dedicarsi, come un tutt’uno, allo sviluppo, alla
ricerca scientifica, al debellare miseria e malat-
tie, alle scoperte spaziali e a tutto ciò che era
stato finora segnato da ostilità destinate a svuo-
tarsi, a comparire. Ci sbagliavamo, e abbiamo
impiegato qualche anno ad accorgercene. Non
ci bastò il sanguinoso decennio di dissoluzione
della Jugoslavia a farci capire che il conflitto tra
due superpotenze che tutto sommato condivide-
vano una razionalità fatta di buon senso - io non
ti attaccherò perché se lo facessi ci distrugge-
remmo a vicenda - lasciava il posto a guerre più
disordinate, più folli, segnate dai rancori etnici
e religiosi, alla resa dei conti più indelebili degli
odi ideologici. Forse è stato solo l’11 settembre
delle due Torri a disilluderci definitivamente, a
farci capire che il vecchio equilibrio del terrore,
che in fondo aveva assicurato al mondo quasi
cinquant’anni di pace, era sostituito da un più
tenebroso terrorismo senza bandiere ideologiche,
senza leader che sbattessero le scarpe sui seggi
delle Nazioni Unite, senza eserciti di professione
contrapposti, senza progetti di società contrap-
posti. A riguardare adesso quei giorni, e le feste
e i violini ai piedi del Muro, e gli amici che te
ne portavano in regalo un frammento colorato,
sarebbe ingiusto rimproverarci quella gioia.
Finiva una vergogna, e un’epoca cupa. Finiva
quella che per noi era un curiosità, un viaggio
in una metropolitana che si affacciava su un
mondo altro, di Trabant e marchi che sembra-
vano banconote da gioco Monopoli, e atlete
mascoline e agenti segreti temibili. Finiva la
solitudine della vetrina dell’Occidente, soccorsa
da un ponte aereo, e confortata da quel discorso
incancellabile di John Fitzgerald Kennedy: “Io
sono un berlinese”. Finivano le fughe riuscite e
quelle fallite, e sapeva di morte più inutilmente
tragica la fine, sull’asfalto, dell’ultimo fuggiti-
vo, appena la primavera precedente. Avevamo
ragione di gioire. Eravamo illusi nel pensare che
il fatto di voltare pagina ci aprisse un futuro
di ottimismo e serenità. Il mondo si è fatto più
complicato, e quegli arsenali da guerra fredda
hanno lasciato il posto a guerre asimmetriche,
e ben più sporche e imprevedibili, e ai vecchi
nemici di un tempo, impegnati in un duello con
regole condivise, tra contendenti che si temono
e si rispettano, si è sostituito uno scontro che
non sappiamo bene come chiamare, che non
abbiamo voluto e ci ritroviamo addosso così
indecifrabile che termini come “guerra fredda”
o “Cortina di Ferro” mattono quasi tenerezza,
adesso, come iniquità di un tempo più facile.
Non c’è da averne nostalgia, ma da avere la
consapevolezza amara che, finita una Storia, ne
cominciava un’altra, come una sfida alla nostra
festa, giusta e ingenua, ai piedi del Muro che si
sbriciolava.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
86
NOSTALGIADEL MURO?
Piero Badaloni | Giornalista, scrittore e politico italiano, dal dicembre 2006 è direttore di Rai International. Ha iniziato la sua carriera giornalistica nel 1971 in Rai, occupandosi di reportage e di inchieste. Per i servizi sul terremoto in Irpinia divenne nel 1980 “Cronista dell’anno” dall’Unione nazionale cronisti italiani. In seguito si è proposto come autore e conduttore di molti programmi giornalistici, come Droga che fare, Italia Sera, Unomattina. Dal 1989 al 1991 ha condotto Piacere Rai Uno, affiancato da Simona Marchini e Toto Cutugno. Nel 1991 è diventato responsabile di Linea Notte. Tornato in Rai dopo alcuni anni di impegno politico ed istituzionale, è diventato corrispondente dapprima dalla sede di Parigi, poi di Bruxelles, infine di Berlino.
Piero Badaloni
Il cemento armato è coperto da decine di
affreschi allegorici dipinti dai giovani arrivati da
tutto il mondo, quando il 9 novembre di venti
anni fà il muro crollò sotto i colpi di piccone
dei berlinesi, che non ne potevano più di quella
barriera della vergogna.
Nel frattempo erano morte 230 persone
nel tentativo di scavalcarlo, eludendo la
sorveglianza dei micidiali “vopos”, le guardie di
frontiera della ex Germania comunista.
Quella notte fu un susseguirsi di canti e balli:
attraverso la televisione, il mondo intero
assistette a scene che fino a qualche giorno
prima era impensabile solo immaginare.
Appena undici mesi dopo, i due tronconi della
Germania divisa dopo la guerra, si riunirono in
un nuovo Stato: la capitale ritornò a Berlino.
Il 9 novembre del 1989 rappresenta una data
importante per la libertà e la democrazia
tedesca, ma per molti cittadini della ex DDR fu
anche l’inizio di una grande illusione: quella di
poter diventare finalmente, anche loro, cittadini
di serie A.
Un obiettivo che è stato realizzato solo in parte,
come ha sottolineato anche Gunter Grass, il
premio Nobel della letteratura, nonostante
da allora siano stati versati dalle casse dello
Stato federale a quelle dei Lander orientali
più di 1500 miliardi di euro per ricostruire
infrastrutture cadenti e rilanciare una economia
in dissesto.
Il divario fra Est ed Ovest resta ancora, nella
testa e nelle tasche dei tedeschi orientali. A
est, la gente lavora di più e guadagna di meno,
mentre la disoccupazione è a un livello due volte
superiore a quella dell’Ovest.
Anche dall’altra parte del paese i cittadini si
lamentano, ma per motivi opposti, cioè per lo
scarso spirito di iniziativa dei loro connazionali
orientali, per la loro mentalità giudicata troppo
87Era lungo 106 chilometri quel muro eretto nell’agosto del 1961 a Berlino, per fermare l’esodo incessante di tedeschi dall’est all’ovest. Ora ne è rimasto in piedi solo uno spezzone, poco più di mille metri, davanti al fiume che traversa la città, la Sprea.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
88piagnucolosa e per la mancanza di gratitudine.
Un sondaggio pubblicato qualche tempo fa
ha lanciato l’allarme: il 21% dei tedeschi
occidentali vorrebbe di nuovo il Muro. A Est
invece, cresce una nostalgia sempre più forte
per il vecchio regime, che soffocava le libertà
individuali, ma assicurava a tutti il minimo
indispensabile per vivere.
Una nostalgia che si manifesta attraverso
la difesa a oltranza dei simboli della DDR,
a partire dal palazzo della Repubblica, uno
sgraziato blocco di cemento armato costruito
accanto al Duomo, in fondo al viale dei tigli.
Era la sede del parlamento della Germania
orientale e dell’assemblea del Sed, il partito
socialista unificato.
Ora il comune lo vuole abbattere, per
rimettere al suo posto il vecchio castello degli
Hohenzollern, raso al suolo dalle autorità
comuniste: è già pronto il progetto ma un
comitato di cittadini si oppone.
Altro simbolo al centro di un duro scontro
giudiziario, il logo della vecchia bandiera
della DDR, un martello con il compasso in
una corona di spighe. Un imprenditore lo
ha registrato come marchio: i fabbricanti di
magliette con quel disegno ora dovranno pagare
per venderle.
L’ideatore del logo, un anziano editore dell’est,
ha fatto ricorso in tribunale per far valere la sua
primogenitura artistica, ma ha perso la causa.
Le ragioni del commercio sono state più forti di
quelle legali.
Anche perché la “ostalgie”, la nostalgia dell’est,
tira sul mercato: sono riapparse le vecchie
sigarette, la zuppa di lenticchie e le salsicce al
fegato, piatti tradizionali al tempo della DDR.
Persino l’ometto con il cappello, che nei
semafori della Berlino Est indica quando
passare e quando fermarsi, è preferito dai turisti
al pedone stilizzato che nella parte Ovest della
capitale svolge la stessa funzione.
Il comune vorrebbe dappertutto lo stesso
segnale, naturalmente quello dell’Ovest, ma
è nato un movimento spontaneo per salvare
l’ometto con il cappello: ne hanno fatto persino
un gadget, che nei negozi di souvenir va a ruba.
Non è chiaro se si tratta di una vittoria del
capitalismo o di una beffa postuma del
socialismo reale. Nel dubbio proclamiamo la
nostra predilezione per l’ometto dell’Est: è più
simpatico e, soprattutto, originale.
In realtà, a parte le battute, il rischio che il
muro risorga davvero è molto concreto. Magari
non più come quello di venti anni fa, di cemento
armato e ben visibile, ma ancora più pericoloso
perché radicato nel terreno viscido della grande
finanza internazionale, che sta alzando una
barriera di veti davanti alle richieste di aiuto dei
paesi della ex Unione Sovietica, appena entrati
nell’orbita dell’Europa democratica, e in grande
affanno per la crisi economica.
Crisi economica, lo ricordiamo a chi ha la
memoria corta, provocata dal comportamento
irresponsabile di alcune banche americane ma
anche e sopratutto dalla politica guerrafondaia
di Bush padre e figlio, che ora messi da parte
in patria, presentano il conto a chi ha cercato
invano di opporsi a quella politica.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
89
2004 . One hundred minutes
90
VENT’ANNIDI MITTELFEST
Giorgio Pressburger | Regista, scrittore e drammaturgo italiano, è nato a Budapest ed è arrivato in Italia nel 1956, a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria. E’ una delle figure più rappresentative del panorama culturale italiano e internazionale: attivo in molteplici campi, dal teatro alla lirica, dalla narrativa alla saggistica, ha svolto anche attività istituzionale come Assessore alla Cultura del Comune di Spoleto e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Budapest. E’ stato direttore artistico di MittelFest dal 1991 al 2003. Fra le sue più recenti pubblicazioni “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008), “Sulla fede” (Einaudi, 2004) e “L’orologio di Monaco” (Einaudi, 2003).
Giorgio Pressburger
91
I preparativi per dar vita a MittelFest sono cominciati vent’anni fa. Il primo festival ha avuto luogo nel luglio del 1991, a Cividale del Friuli, dove tuttora, anno dopo anno continua a svolgersi.Per tredici anni ne sono stato il Direttore
artistico e tra mutamenti politici, guerre nei
paesi partecipanti, bombardamenti, battaglie,
nascite di nuovi Stati, l’ho portato avanti, nello
stesso spirito con cui era cominciato.
Lo spirito di ricomposizione di un’unità
culturale che pareva essere scomparsa nelle
suddivisioni artificiali avvenute dopo la Seconda
Guerra Mondiale. Occorreva una nuova Europa
perché quell’unità ritornasse visibile. Nel 1989,
con l’avvenimento chiamato tutt’oggi “la caduta
del muro” (di Berlino) quella nuova Europa
poteva iniziare la sua vita.
L’atmosfera festosa con la quale era stata
celebrata la nascita dell’organismo che
idealmente riuniva invece cinque paesi
dell’Europa centrale (Austria, Cecoslovacchia,
Ungheria, Yugoslavia, Italia) tutt’oggi è viva
nel ricordo di coloro che assistettero al primo
Festival, alla prima iniziativa in assoluto della
Pentagonale. Con la scissione della Yugoslavia e
della Cecoslovacchia, e con l’entrata successiva
di nuovi Paesi nella Pentagonale, i membri
sono diventati diciassette. E quell’organismo
continua a vivere con il nome di Iniziativa
Centrouropea.
Quindici anni più tardi, dieci Paesi fino ad
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
92
allora separati entrarono a far parte dell’Unione
Europea, una delle creazioni politiche più
importanti degli ultimi due millenni della nostra
civiltà.
Sono questi gli eventi ai quali appartiene un
semplice incontro tra compositori, musicisti,
gente di teatro, di cinema, letterati di cinque
Paesi. Quelle persone non avevano mai smesso
di essere in contatto tra loro, a volte correndo
pericoli, non avevano mai smesso di sperare in
un futuro incontro amichevole.
Quando le strade di Cividale si riempirono di
volti mai visti, di parole e lingue mai sentite
prima pareva che tutto dovesse aggiustarsi nel
modo migliore, per sempre. Seguirono invece
giorni sanguinosi, i bombardieri sfrecciavano
sopra le nostre teste giorno e notte. A poche
decine di chilometri dalle nostre case iniziò un
nuovo spargimento di sangue. Poi è passato
anche quello, ma le conseguenze di quei conflitti
tra Paesi un tempo federati e ora desiderosi di
dividersi sono ancora lì, come slavine che non
vogliono sciogliersi.
Intanto MittelFest ha continuato la sua vita.
Tranne un anno, il 1993, quando non ebbe i
finanziamenti da parte della Regione Friuli-
Venezia Giulia, e dei Ministeri, per sopravvivere.
Sembrava che l’inverno fosse ritornato per
sempre.
Nel nostro Paese partiti politici un tempo
egemoni, crollarono, si disfecero in poche
settimane.
Quel periodo si chiama ancora oggi l’epoca di
“mani pulite”. Quell’organismo che abbiamo
chiamato MittelFest, nato con sacrifici ed
entusiasmo, pareva dover scomparire insieme ai
quarant’anni di vita politica che oggi in Italia si
ricordano come la Prima Repubblica.
Seguirono mesi di inutili anticamere, telefonate,
lettere, incontri, trattative. Tutto importava
in quel momento tranne che quella fonte
della convivenza civile che spesso, abusando,
menzioniamo con la parola “cultura”. Allora
questa era passata in secondo ordine a nome
della politica da ristrutturare, oggi succede lo
stesso a nome del mercato, e, ultimamente della
crisi del mercato mondiale.
Ma per volontà di un nuovo Assessore Regionale
alla Cultura il festival inopinatamente rinacque
nel 1993. Quell’assessore aveva capito che
per una collettività (come la Regione) era
indispensabile quella “cosa” che si chiama arte
e cultura, così come lo è l’assistenza medica, il
lavoro,la libertà.
Tuttavia per undici dei tredici anni ogni volta
abbiamo dovuto ricominciare da zero. Il festival
non aveva uno statuto, un finanziamento sicuro,
un organigramma. Lottava per la sopravvivenza
anno dopo anno.
Poi, nel 2001 lo statuto arrivò.
93
E arrivò il periodo in cui quel festival, ormai
noto in Italia e nel mondo, divenne terreno
di appetiti e contese. Così, dopo averlo
traghettato attraverso calamità d’ogni tipo,
lasciai quel luogo di incontri, scambi, amicizie e
avvenimenti con la coscienza d’aver contribuito
a qualche cosa di cui il mondo, ma sicuramente
l’Europa aveva bisogno. Alcuni avvenimenti
di quei tredici anni, sono tutt’ora vivi nella
memoria, nostra e in quella degli abitanti di
Cividale, ma anche nella mente di uomini di
teatro e di musica di mezza Europa.
Spettacoli come “La Medea magiara” recitata
in cinque lingue contemporaneamente in
piazza Paolo Diacono, o La Divina Commedia
il cui percorso si snodava nelle vie della città,
o “Danubio” di Magris, in cui il pubblico
si identificava con il fiume e i personaggi,
come sulle sponde del grande corso d’acqua,
apparivano nelle finestre e sui balconi,
l’esecuzione di “Planctus Marie” dei Codici
Cividalesi, “Brundibar” l’operina scritta per
i bambini di Teresienstadt, nel lager nazista,
“Praga Magica” che si svolgeva nella nella città
a luci spente, “America” di Kafka e alcuni altri
ancora.
Gli spettacoli, i concerti, gli incontri avvengono
nell’effimero eppure a volte lasciano segni che
restano nella memoria collettiva.
Le famose tragedie e commedie che si
recitavano nell’Atene antica durante i giochi
olimpici, dopo la “prima”, magari per
cinquecento anni non venivano ripresi.
Eppure sono parte irrinunciabile della nostra
civiltà.
Faust, il famoso dramma di Goethe, finisce con
sette versi, nei quali il coro dei santi eremtiti
afferma che “l’effimero qui/ diventa eterno”.
Noi certo non aspiriamo a nulla di simile, ma
a compiere il nostro dovere nell’ambito di una
delle civiltà più feconde della terra, questo sì.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
94
I SEGNALI GORIZIANI
Roberto Collini | Dal 1999 è il direttore della Sede Regionale della Rai del Friuli Venezia Giulia. Giornalista professionista, laurea in scienze della comunicazione, è stato responsabile della redazione goriziana del Messaggero Veneto e inviato speciale per le testate nazionali del Giornale Radio. Con le sue radiocronache ha raccontato cinque edizioni delle Olimpiadi, undici del Giro d’Italia e dieci del Tour de France. E’ stato consigliere nazionale dell’Ussi, segretario regionale della Federazione della stampa, responsabile delle sedi regionali nell’esecutivo deli giornalisti Rai, direttore della rivista La Provincia Isontina. E’ consigliere di annibistrazione della Fondazione ente lirico Teatro Verdi di Trieste e del Consiglio di Indirizzo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia nonchè rappresentante Rai nella Comunità italofona e del Circom, organismo europeo che raggruppa le televisioni regionali.
Roberto Collini
95MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
Diventando un senso, un sentimento, una
percezione intensissima ogni qualvolta si passi
attraverso quei valichi che un tempo divideva-
no – ed ora congiungono- le nostre terre e quelle
della verde Slovenia.
La storia, anche da queste parti, ha fatto il suo
cammino, curando le grandi ferite, ricucendo
gli strappi della violenza e della follia, facendo
maturare, giorno dopo giorno, il seme della
ragione,
del dialogo, della convivenza.
Riportando l’orologio del tempo ai giorni in
cui goriziani e giuliani, sloveni e friulani, si
sentivano figli della stessa terra e agivano, pur
nel rispetto delle orgogliose diversità, per un
interesse comune.
Il “secolo breve” ha segnato profondamente le
vicende di questo lembo orientale della Pa-
tria, di questo angolo d’Italia che fa da cornice
all’Isonzo e alla sua campagna, che si fa acca-
rezzare dal dondolare del Carso, protetto dalle
ultimi balconi delle Giulie e che si affaccia
sull’Adriatico.
La Grande Guerra qui ha seminato croci e
distruzioni; l’Ultima il dolore e la rabbia, il
dramma dei deportati, la disperazione degli
esuli, e si è lasciata alle spalle una linea bianca
di calce spenta sulla quale le diplomazie hanno
costruito, con il filo spinato,una inaccettabile
barriera.
Le stagioni della violenza fascista e dell’odio
titino hanno lasciato così passo al gelo della
“guerra fredda”, alla contrapposizione feroce,
all’accentuazione degli steccati, ad una frattura
sempre più aspra.
Ci sono voluti più di vent’anni perché matu-
rasse, nelle coscienze delle genti, prima ancora
che in quelle degli amministratori, il senso del
recupero di un dialogo, di un confronto civile.
di un nuovo sentire comune dei problemi che
il confine – o linea di demarcazione che dir si
voglia – avevano creato. E proprio partendo dai
Libertà! L’urlo lanciato dai giovani tedeschi dell’Est assiepati sul muro della Porta di Brandeburgo la sera del 9 novembre di vent’anni fa, sospinto dal vento della democrazia, ha contaminato anche le nostre terre.
96minuscoli temi di interesse condiviso ( come
nella stessa logica che ha animato poi la politica
dei “piccoli passi”) si sono creati i presupposti
per la costruzione di un percorso sul terreno del
confronto.
Gorizia, con la sua vocazione naturale ad essere
città del dialogo, della tolleranza, del rispetto
delle diversità, ha saputo così con intelligenza
realizzare un ponte- non soltanto ideale- attra-
verso il quale far passare pensieri e progetti per
la costruzione della nuova Europa.
Gli Incontri Culturali Mitteleuropei, il concorso
di canto corale Seghizzi, il Festival internazio-
nale del Folclore, sono stati, a cavallo degli anni
Sessanta e Settanta, formidabili strumenti in
grado di favorire lo sviluppo di grandi fermenti
culturali, di avvicinare nuovamente le genti del
Centro-Europa, di decodificare messaggi di pace
e convivenza da trasmettere poi ai rispettivi
governanti.
Il Trattato di Osimo, pur con le sue contraddi-
zioni fatte di concessioni soprattutto sul terreno
della speranza per migliaia e migliaia di esuli
cotretti ad abbandonare ogni avere in Istria e
Dalmazia pur di poter riaffermare la loro or-
gogliosa appartenenza all’Italia, ha segnato – a
metà degli anni Settanta – un ulteriore momen-
to di dialogo e ha reso un po’ più permeabile il
confine.
Quello stesso confine che occhi lungimiranti
hanno iniziato a guardare non più solo come
una profonda ferita, ma come una opportunità,
da cogliere senza forzature, passo dopo passo,
facendo germogliare il frutto della ragione e del
vivere civile.
Il maresciallo Tito è stato per quasi quarant’an-
ni il “collante” della ex Jugoslavia e la sua
scomparsa, nel 1980, ha segnato l’avvio del
drammatico processo di disgregazione della
Repubblica Federativa. Alle pretese egemoni
hanno risposto, via via, il Kosovo, la Bosnia, la
Croazia e la Slovenia. L’indipendenza di Lu-
biana, raggiunta nel 1991, ha determinato una
svolta nelle vicende storiche di queste terre e
nella realizzazione del progetto di ampliamento
dell’Europa Comunitaria.
Il 30 aprile del 2004, al Piazzale della Transal-
pina di Gorizia, un tempo simbolo del “muro”
che divideva l’Europa Occidentale dall’Est, una
grande festa di popolo ha salutato la caduta
dell’ultimo, anacronistico, diaframma, che divi-
deva le nostre genti.
Ma dovevano passare altri tre anni prima che,
alla vigilia del 2008, fossero cancellati anche
fisicamente i confini e la gente potesse tran-
quillamente muoversi in questi territori senza
“barriere psicologiche”.
Lo scenario creato dalla Storia propone ora una
nuova sfida alla nostra realtà. Si rende neces-
saria una attenta operazione di lettura delle
opportunità che sono state aperte dalla caduta
degli steccati.
Agli storici viene affidato il difficile compito di
ricercare momenti di sintesi sul terreno della
memoria condivisa nel tentativo di cancellare
anche gli ultimi retaggi del passato.
Agli amministratori si chiede di applicare in
modo intelligente il concetto di città ponte
(estendibile, peraltro, alla regione) superando
divisioni interne e contrapposizioni in modo da
far riaffiorare tutta la ricchezza delle diversità,
ritenute da sempre un patrimonio inalienabile
delle nostre genti.
Perché solo così avrà un senso compiuto quel
concetto di “libertà” che ognuno di noi sente
esplodere nell’animo ogni volta che attraversa il
“vecchio confine”.
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
97
2008 . Lo sfarzo nella tempesta
98
UNO SGUARDO AL FUTURO
Andrea Filippi | Direttore del quotidiano Messaggero Veneto di Udine, Andrea Filippi diventa giornalista professionista nel 1989 alla Gazzetta di Mantova, quotidiano facente parte della Finegil che fa capo all’Editoriale l’Espresso. Inizialmente si occupa di cronaca nazionale ed estera e di sport, per poi assumere l’incarico di caposervizio del settore attualità, quindi quello di capocronista e infine di caporedattore centrale. Nell’aprile 2003 si trasferisce al Messaggero Veneto Udine con l’incarico di vicedirettore e nel maggio 2005 viene nominato direttore responsabile del quotidiano friulano.
Andrea Filippi
99MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
I vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino sono una data particolarmente importante per il Friuli Venezia Giulia. Non sono solo l’anniversario della fine del regi-
me comunista per l’Europa divisa per 28 anni
fra Est e Ovest da una barriera in cemento alta
tre metri e mezzo, ma qualcosa di più profondo.
Questa regione, dopo l’89, ha rappresentato
infatti lo snodo fondamentale fra due pezzi di
Europa rimasti lontani per decenni e di nuovo
vicini sia culturalmente sia economicamente.
Come territorio baricentrico rispetto all’Italia, ai
Paesi dell’Est entrati nell’UE e a quelli di immi-
nente ingresso come le repubbliche dei Balcani,
il Friuli Venezia Giulia è stato anticipatore del
processo di avvicinamento, sia come piattafor-
ma logistica al centro di tutti i commerci della
produzione tra Est e Ovest, sia come ponte cul-
turale fra nazioni e popoli che si incontravano
dopo troppo tempo. Attraverso il Friuli, infatti,
non è transitato e transita solo gran parte del
mercato che dall’Oriente è diretto in Italia, ma
anche gran parte del prodotto culturale diretto
al mondo intero. E di cui il MittelFest è una
delle voci più alte.
Possiamo affermare che la specialità della no-
stra regione, nata nel 1964 ma figlia del trattato
di Parigi, sia stata la testa d’ariete dell’Occi-
dente per poter sfondare quel muro, quella
barriera prima che fisica culturale che ha tenuto
distanti due mondi. Termini come cooperazione
trasnfrontaliera, come Alpe Adria sono stati i
tentativi – quasi sempre riusciti – di anticipare
un processo di avvicinamento che già negli anni
Settanta era percepito come indispensabile. La
stessa nascita di Autovie venete e molti dei pro-
getti che hanno visto la nostra concessionaria
muoversi fuori dei confini regionali e nazionali
indicano che la vocazione a fare da snodo fra
Est e Ovest è connaturata nel nostro territorio e
nel nostro sistema socio-economico.
A vent’anni da quella data storica, dunque, la
riflessione deve riguardare il futuro del Friu-
li Venezia Giulia e non il passato. La nostra
autonomia e il nostro statuto, fondato su ragioni
storiche e culturali, devono oggi essere non sol-
tanto salvaguardati, ma se possibile addirittura
rafforzati, perché non costituiscono un privile-
gio, ma la vera e propria assunzione di respon-
sabilità di un territorio nei confronti di un Paese
2009 . Chopin - Vukan: visual notes
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
101e dell’intera Unione Europea. Oltre che la prova
di capacità di gestione diretta delle proprie
risorse, ricavate dalla compartecipazione dei
tributi riscossi nel territorio della regione.
Questa responsabilità, che poi è la matrice
intima di qualsiasi riforma federale, fu chiara
anche subito dopo il terremoto, quando questa
Regione ha anticipato i principi stessi del Fede-
ralismo di cui ancora oggi in Italia, proprio in
questi mesi, si discute in Parlamento. Più tardi,
nel 1996, dopo il Muro, ottenendo che il settore
della Sanità fosse gestito in piena autonomia
dal Friuli Venezia Giulia e non più dallo Stato,
fu messo un ulteriore tassello nel disegno di un
grande federalismo europeo, che vedesse macro-
aree cooperare al di là del confini di stato.
Un ulteriore passo avanti è – e sarà sempre
di più – l’Euroregione fra con il Veneto e la
Carinzia, oltre che la Slovenia e parte della
Croazia, che altro non è che lo sbocco finale di
quell’idea dell’Alpe Adria di cui già il presiden-
te Antonio Comelli pose le basi, in tempi non
sospetti, quando cioè immaginare una Slovenia
in Europa e senza più confini era poco più che
un sogno.
Ma oggi, proprio perchè questo disegno non
perda valore, a vent’anni dalla caduta del Muro
serve che la condizione geopolitica della nostra
regione ottenga ulteriori strumenti specifici di
intervento. Le imprese del Friuli subiscono la
concorrenza dei Paesi vicini con cui un tempo
lavoravano in simbiosi, dove sono in vigore più
favorevoli regimi di tassazione a cui si aggiunge
il più alto livello di aiuti comunitari consen-
tito negli Stati del Centro e dell’Est Europa
di recente ingresso nell’Unione Europea. Per
questo è stato importante avere ottenuto nel
percorso di attuazione del federalismo fiscale,
la possibilità di concedere a questa Regione una
“Fiscalità di sviluppo”. La vicinanza con altri
Paesi, con regimi fiscali più favorevoli, può far
sorgere la tentazione alle imprese, soprattutto
dopo l’abolizione delle barriere fisiche dei confi-
ni con la Slovenia, di spostare le proprie attività
produttive in quelle terre, per ottenere vantaggi
in termini di fisco e di costo del lavoro ed anche
di costi di energia.
Ma la specialità non trova la sua ragione solo
nei rapporti economici. Si afferma anche nel
plurilinguismo e nella presenza delle minoranze
con le quali la regione ha costruito da sempre
ottimi rapporti di collaborazione. In questo
senso, ciò che dà unità a questi popoli è l’idea
comune che l’area di confine – così come la si
intende oggi – costituisca volano per accrescere
l’importanza di questo territorio e non già per
mortificarlo.
102
NUOVA EUROPA, NUOVE OPPORTUNITÀ
Paolo Possamai | Direttore del quotidiano Il Piccolo di Trieste da novembre 2008, inizia la carriera al settimanale locale Nuova Vicenza, al quale collaboravano tra gli altri Ilvo Diamanti, Paolo Madron e Gian Antonio Stella. Dal 1989 diventa cronista politico e dal 1998 inviato del Mattino di Padova, e dallo stesso anno collabora alle pagine economiche di Repubblica. Direttore della Nuova Venezia e Mestre dal giugno 2005, è collaboratore della Fondazione Nord Est guidata da Innocenzo Cipolletta. Ha pubblicato il “Rapporto sulla società e l’economia del Nordest”, nelle edizioni dal 200 ad oggi, e nel 2008 ha firmato per Marsilio “Il nordest sono io”, libro-intervista a Giancarlo Galan.
Paolo Possamai
103MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
Un muro è uno strumento di difesa. Un muro implica separazione. Un muro aiuta a occultare. Un muro potrebbe raccontare tanti segreti, ascoltando chi abita da un parte e dall’altra. Ma un muro può contenere anche la propria alterità, la propria negazione: può essere forato da una porta. Ebbene, del muro che percorreva fino a ieri e
ha per secoli attraversato il cuore dell’Europa,
sia pure in modo discontinuo e cangiante, la
città di Trieste è stata porta tra le rare, tra le più
sorprendenti per capacità di attrazione.
A vent’anni dalla caduta del Muro per antono-
masia, da quando Berlino è ritornata capitale
e non più città simbolo sbranata dagli opposti
in politica, è bene interrogarsi su quel che è
avvenuto in questo tempo e su quel che sta
avvenendo nelle città affacciate a quel che fu un
vero confine. Che sta avvenendo a Trieste o a
Gorizia, per esempio? Se badiamo all’etimologia
di “confine”, che contiene appunto la parola
“fine”, ci sovviene che il mondo occidentale
terminava dinanzi agli occhi di chi aveva casa
a Gorizia e a Trieste. Il triestino e il goriziano
avevano di fronte la frontiera, l’estremo lembo
della terra del loro Paese e l’inizio del territorio
di un altro Stato.
Ma che succede quando la fine non esiste più,
quando là dove c’era il confine inizia la possibi-
lità di nuove relazioni, di nuove avventure? Che
succede quando cade il Muro e si aprono spazi
nuovi, chances di incontri, di scambi, di legami?
Possono essere colte, queste opportunità, o può
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
sopravvivere il ricordo del Muro e – per una
sorta di riflesso condizionato – chi abita quei
luoghi può muoversi in un ambiente mentale
che mantiene i confini e le frontiere.
Il rischio esiste tutto, se Trieste in particolare
non farà memoria e coscienza del suo ruolo di
storica porta con l’Est europeo, con la Balcania
soprattutto ma non solo. Ne è testimonianza
il sorprendente impasto di etnie e razze che
appaiono semplicemente scorrendo l’elenco del
telefono, traccia evidente del ruolo di incrocio
commerciale e di magnete culturale esercita-
to da Trieste. Da questo impasto va tratta la
lezione più vera della storia di Trieste, che è una
straordinaria capacità di integrazione e assimi-
lazione. L’inverso dell’azione di un muro. Ma
esiste pure la possibilità di esaltare le differenze,
le contrapposizioni storiche, le colorazioni poli-
tiche e di nazionalità d’origine. In questo bivio è
contenuto un pezzo essenziale della sfida: aprire
o chiudere la porta, rispetto all”altro” che abita
in città, ma non di meno rispetto ai paesi che
stanno di là dall’ex confine.
A quest’ultimo proposito, occorre capire per
esempio sul pratico terreno delle infrastrutture e
degli scambi commerciali come Trieste intende
porsi con il suo porto. Porto che fu, per decreto
dell’imperatrice Maria Teresa datato 1719, il
porto dell’impero. Mutatis mutandis, Trieste po-
trebbe profittare della caduta del muro e ambire
a riscoprire il suo antico ruolo di porto al servi-
zio della mittel-Europa, ma anche a divenire la
testata portuale del “terzo mare” russo (che è la
pianura liquida chiamata Adriatico).
Del resto, che la caduta del muro abbia implica-
to formidabili chances di sviluppo lo dimostrano
con inequivoca evidenza i dati statistici, secondo
cui di gran parte dei paesi balcanici l’Italia – e
in particolare il Nordest – è primo o secondo
partner commerciale. In queste dinamiche, Trie-
ste è chiamata a giocare un pezzo fondamentale
del proprio destino, imprigionato negli ultimi 70
anni nella dimensione della nostalgia.
Nostalgia che può essere letta con la valenza
dei due termini presenti nel vocabolario tede-
sco: nostalgia di un bene perduto, nostalgia di
un’esperienza sempre agognata e mai raggiun-
ta. Tra una realtà passata e un desiderio mai
tramutato in fatto.
Ma il muro è caduto, la “fine” della terra è stata
cancellata e nuove avventure chiamano chi
voglia uscire dalla propria casa.
104
105
2003 . Lindsay Kemp, Per la dolce memoria di quel giorno
106
QUANDO LA NOTIZIA ABBATTE IL CONFINECrossborder news, per costruire l’Europa e gli Europei
Alfonso Di Leva | Giornalista, dal 1997 e’ responsabile della sede regionale dell’ Ansa per il Friuli Venezia Giulia. E’ nato a Potenza, ha 52 anni, vive e lavora a Trieste. Laureato in Sociologia, ha lavorato per la rai e per i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Avvenire, Corriere del Giorno e Giornale del Sud. Ha diretto la rivista del Mediocredito del Sud; è stato vicepresidente dell’ Associazione della Stampa di Puglia e Basilicata e Segretario dell’ Ordine dei Giornalisti della Basilicata.
Alfonso Di Leva
107MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
E non è solo quella locale e neanche quella “glo-
cal”, la dimensione virtuale nella quale le tec-
nologie fanno vivere e viaggiare le notizie locali
rendendole fruibili in tempo reale da qualunque
angolo del mondo, purché ci sia un collegamen-
to Internet e qualcosa che somigli anche solo
vagamente a un computer.
C’e’ una terza dimensione che, per una par-
te dell’Europa, è nata la sera del 9 novembre
1989, proprio nel momento in cui e’ cominciato
a cadere il Muro di Berlino: è quella, per gran-
dissima parte ancora da esplorare, delle noti-
zie che non si fermano alla frontiera, che anzi
abbattono i confini, che non muoiono davanti ai
Muri, siano essi di mattoni o di qualunque altra
cosa, Storia e Pregiudizi compresi.
Crossborder news; informazione transfronta-
liera; notizie senza confini: chiamatela come
volete, purché sia un’informazione che parli
del territorio e degli uomini e delle donne che
lo abitano, delle persone che a quel territorio
danno cuore e cervello e che ne costruiscono la
Storia e la Cronaca.
Se quel Muro non fosse caduto, forse oggi non
sarebbe nemmeno immaginabile parlare di
questi racconti, di queste notizie per le quali il
sistema dell’informazione è in ritardo di de-
cenni, almeno un paio di decenni, quelli che ci
separano, appunto, dall’autunno del 1989.
Per giornali, radio e televisioni, quel Muro, a
Berlino, non sembra ancora definitivamente
crollato. Sicuramente si è sgretolato in qualche
parte, anche importante. Sono comparse delle
crepe, si e’ aperto qualche varco, talvolta anche
di grande valore: si pensi ad Arte, la televisio-
ne culturale europea che trasmette sul digitale
terrestre francese e tedesco, o alle pagine che
qualche quotidiano e diverse riviste dedicano
La domanda è: fra nazionale e globale, c’è una terza dimensione nell’informazione?La risposta è: sì.
108MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / LE RIFLESSIONI
all’informazione d’oltre confine.
Ma nell’insieme, le “prove d’Europa” nel si-
stema dell’informazione non sembrano ancora
uscite dai laboratori, dalla sperimentazione, dai
tentativi di costruire ponti piuttosto che abbat-
tere Muri e confini che, invece, dopo Berlino
sono stati progressivamente spazzati via.
Ritardi? Non solo. La strada delle news senza
confini sembra lastricata delle stesse buone
intenzioni che hanno imbrigliato il grande sogno
europeo nelle gabbie delle Politiche Centrali,
della Burocrazia, delle Circolari, dei Regola-
menti, dei Fondi e dei Programmi.
Mi piace, invece, pensare alle notizie che vivono
sui “confini che non ci sono più”; che passano
da una parte all’altra delle vecchie frontiere; che
aiutano a conoscere e far conoscere le comunità
che su quelle terre vivono; che contribuiscono,
in questo modo, a far cadere pregiudizi e ipocri-
sie; che dopo le frontiere fra gli Stati, danno una
mano ad abbattere i confini fra le persone e le
comunità.
Notizie che non raccontano di burocrazia,
trattati, leggi e regolamenti, ma di vita vissu-
ta. Notizie che attraversano le frontiere come
nei decenni scorsi hanno saputo fare strade e
ferrovie; come hanno sempre fatto l’economia
e la cultura; come in alcuni casi riesce a fare la
sanità e la protezione civile. Notizie che parlano
delle comunità e della loro vita; delle loro risorse
e dei loro problemi; delle loro proposte, dei loro
progetti e delle loro passioni, fino ad annullare
il confine e farne un ricordo del passato, proprio
come un ricordo è ormai il Muro di Berlino.
Notizie che siano “prove d’Europa” per far
crescere gli Europei e costruire l’Europa dal
basso. Una sfida, sicuramente; un sogno, forse;
un progetto, sneza ombra di dubbio, già nero
su bianco, anche su uno dei confini più tormen-
tati del Continente, quello dell’estremo Nordest
d’Italia, dove l’ANSA e l’agenzia slovena STA,
la Rai e Radiotelevisione Slovenia di Capodi-
stria, insieme a Informest e ad altri partner,
hanno deciso di mettersi insieme dar vita a una
piattaforma multimediale e multicanale d’infor-
mazione locale transfrontaliera.
Quando mi chiedono che cos’è per me l’Europa,
rispondo sempre che l’Europa è quel Miracolo
della Storia che, dopo la caduta del Muro, dopo
l’abbattimento di quei confini sui quali i miei
nonni hanno combattuto a mille chilometri
dalla loro casa (senza conoscerne il motivo), sta
facendo della mia generazione la prima che non
ha conosciuto la guerra. Quei confini non pos-
sono tornare e non possono più esistere neanche
per le notizie.
109
Gian Enrico Rusconi
PROVE D’EUROPAL’ANALISI
Il saggio che segue è un’anticipazione della pubblicazione Berlino. La reinvenzione della Germania, di prossima uscita per edizioni Laterza dai temi della Lectio Magistralis tenuta al V Festival èStoria di Gorizia
110
CHE COSA C’ERADIETROIL MURO?
Gian Enrico Rusconi | Germanista, storico e politologo, collabora con il Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Torino. Ha fatto frequenti soggiorni di studio negli Stati Uniti e soprattutto in Germania. Vincitore della Goethe-Medaille (1997), assegnata dai Goethe-Institute tedeschi agli studiosi stranieri che hanno contribuito all’arricchimento dei rapporti tra la cultura tedesca e le altre culture è anche editorialista de “La Stampa” di Torino e collabora regolarmente alla rivista il Mulino. Tra i suoi scritti più recenti: Non abusare di Dio (Rizzoli, 2007); L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra (Il Mulino, 2005); Cefalonia. Quando gli italiani si battono (Einaudi, 2004); Germania Italia Europa. Dallo stato di potenza alla “potenza civile” (Einaudi, 2003); Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia (Einaudi, 2000).
Gian Enrico Rusconi
1. “Caduta del Muro di Berlino” è di-
ventata espressione idiomatica nel linguag-
gio politico e pubblicistico. E’ luogo comune
definire epocale ciò che è accaduto la notte del
9 novembre 1989. Un evento, cioè, che segna in
modo irreversibile un passaggio tra due epoche
storiche. Così in effetti è stato - per la Germania
innanzitutto.
In effetti l’incredulità diffusa quella sera e quel-
la notte (“wahnsinnig/pazzesco” era la parola
più frequentemente pronunciata) segnalava
qualcosa di più dello stupore per l’inattesa aper-
tura dei varchi di controllo del Muro (innalzato
nel lontano 1961), consentita da un’autorità
politica ormai in stato confusionale. Era l’oscura
intuizione che stava accadendo qualcosa di mol-
to più grande. Ma l’alto funzionario che annun-
ciava ai cittadini della Repubblica democratica
tedesca (DDR1) la possibilità di attraversare da
subito – senza particolari restrizioni - i posti di
blocco che separavano Berlino Est da Berlino
Ovest, non sospettava lontanamente che stesse
decretando la fine della DDR, tra un’inconteni-
bile emozione collettiva e un paralizzante caos
burocratico.
Accanto alla rivisitazione di alcuni momenti di
quella vicenda, passata alla storia con il nome di
Wende/svolta, oltre che di “rivoluzione pacifi-
ca”, ci preme qui ricordare il contesto geopoliti-
co internazione e globale in cui essa si colloca e
da cui riceve il suo pieno significato. Ci interessa
capire il lascito morale, culturale e politico
dell’esperienza della ex-DDR e quindi il pro-
blema della ricostruzione di una storia comune
delle due Germanie.
Diciamo subito che il giudizio politico nega-
tivo senza reticenze nei confronti del regime
SED (il “Partito socialista unitario” chiamato
correntemente “comunista”) non giustifica la
riduzione di quarant’anni di esistenza politica e
sociale della popolazione orientale ad una “nota
a pie’ di pagina della storia mondiale”, di cui
avrebbe parlato amaramente Stefan Heym. Le
informazioni che oggi abbiamo sull’apparato
di sorveglianza poliziesca della sfera privata
dei cittadini (la Stasi2), macchina di sofisticata
intelligence ma nel contempo di assoluta impo-
tenza (dunque di non-intelligenza) politica, non
lasciano spazio ad alcuna indulgenza verso chi
si è fatto volontariamente coinvolgere. Ma non
si può e non si deve ridurre la DDR al “paese
della Stasi”.
Ma il lavoro di elaborazione (ancora una volta
la Aufarbeitung che è stata praticata per il
nazionalsocialismo) delle esperienze sociali,
umane, culturali in essa vissute risulta assai più
difficile del previsto.
2. L’ apertura dei varchi di passaggio del
Muro, seguita nei giorni successivi dallo spon-
taneo suo smantellamento materiale, conserva
nell’immaginario collettivo una forza simbolica
straordinaria, icona di un “evento inaudito” per
i tedeschi e per gli europei e tutto il mondo che
ne fu testimone attraverso una partecipazione
mediatica, televisiva live, senza precedenti.
Ma è sorprendente la rapidità e la naturalezza
con cui nella narrazione oggi corrente la conse-
guenza politica di quel evento – la riunificazione
- sia considerata retrospettivamente come ovvia,
mentre non lo era affatto nelle prospettive e
nelle attese internazionali di allora.
Anzi, proprio questo è stato il passaggio cru-
ciale della vicenda che ha paralizzato e diviso il
movimento di protesta di massa, il Bürgerbewe-
gung, che tra l’ottobre e il novembre era stato il
soggetto collettivo trainante e dirompente, con
111MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
conseguenze politiche decisive.
Nel novembre 1989 e per alcune settimane
successive la politica (la grande politica interna-
zionale, le intenzioni politiche degli oppositori/
riformatori che volevano una DDR riformata in
senso socialista) esclude il nesso necessario tra
la caduta del Muro e la riunificazione delle due
Germanie. Oggi, con il senno di poi, si attribu-
isce questo atteggiamento alla miopia di non
aver capito che il baricentro della crisi non era
Berlino est ma Mosca, in preda ad una implosio-
ne politica senza precedenti. Il motore originario
della dinamica del 1989/90 va ricercata nella
crisi irreversibile del sistema sovietico, prigionie-
ro delle sue contraddizioni interne,aggravate dal
fatto d’avere conseguenze dirette sugli equilibri
geopolitici mondiali. In quel contesto è cruciale
il fallimento della strategia “riformatrice” di
Gorbachev che, anziché rinnovare il sistema co-
munista, lo porta al collasso manifesto del 1991.
La DDR anticipa questo risultato, anche se la
soluzione “nazionale” mimetizza la vera sostan-
za di quanto sta accadendo: il tracollo del siste-
ma economico-sociale socialista come tale. Esso
si colloca in un orizzonte geopolitico e cronolo-
gico ancora più ampio: tra la ritirata militare
sovietica dall’Afghanistan e la (prima) guerra
contro l´Iraq di Saddam che segna il passaggio
all’età che la pubblicistica ama spesso a definire
– a torto o a ragione – di “scontro di civiltà”.
3. In un primo tempo la caduta del Muro,
la pressione popolare a favore della riunifica-
zione, la possibilità concreta di un nuovo Stato
nazionale unitario sono uno choc per gli intel-
lettuali di sinistra (ma non solo), che riattivano
con toni ansioni i temi post-nazionali, i motivi
del patriottismo costituzionale e della memoria
dell’Olocausto per mettere in guardia da una
restaurazione della Grande Germania. Alla testa
di questo movimento di protesta ci sono autori
del calibro di Jürgen Habermas e Günter Grass.
Il primo parla con enfasi polemica di “naziona-
lismo del marco”, il secondo della minacciosa
ricostituzione di un Großdeutschland e Quarto
Reich.
Intanto però, impercettibilmente, avviene un
fatto curioso: a sinistra vengono messe in sordi-
na le consuete polemiche contro la vecchia Bun-
desrepublik, il suo potenziale autoritario, i suoi
(veri o presunti) deficit di legittimazione che
erano stati i cavalli di battaglia polemica degli
anni Settanta. La democrazia di Bonn acquista
tacitamente - agli occhi dei suoi critici di ieri - i
tratti di un buon governo liberaldemocratico
che potrebbe essere ora messo in pericolo dalle
ambizioni di una nuova Machtpolitik di una
restaurata Grande Germania.
Anche qui si tratta di un equivoco. Per gran
parte della popolazione orientale la riunificazio-
ne è semplicemente la scorciatoia per ottenere
democrazia e benessere, sanzionando il falli-
mento definitivo del sistema economico socia-
lista che aveva promesso benessere e sicurezza
socio-economica, senza adottare alcuna logica
di mercato e soprattutto senza creare meccani-
smi democratici. L’esistenza di un buono Stato
sociale non poteva surrogare l’inesistenza di
istituzioni democratiche. La proposta di una
nuova DDR democratica e socialista, avanzata
dai rappresentanti dell’opposizione interna al
regime, usciti allo scoperto o fattisi coraggiosi
all’improvviso, è percepita da gran parte della
popolazione come non credibile e fuori tempo
massimo.
Di fatto la riunificazione non porta a nessun
revival di nazionalismo, a nessuna rinascita di
una prepotente identità nazionale tradizionale –
temuta da molte parti, apparentemente confer-
112
mata da alcuni episodi di xenofobia dei primi
anni Novanta.
Con il passare del tempo si troverà tacitamen-
te anche un equilibrio tra i paradigmi sino ad
allora polemicamente contrapposti di “identità
storica nazionale” e di “patriottismo costituzio-
nale”. Quello che mancherà in questo processo
sarà un significativo contributo da parte dei rap-
presentanti intellettuali orientali, molti dei quali
sono tutti presi dai problemi della loro liquida-
zione/sistemazione (Abwicklung ).
Anticipando quanto cercheremo di sviluppare in
seguito, possiamo dire che la fine della DDR e
la dissoluzione della sua entità/identità politica
nella Bundesrepublik è imputabile a quattro
fattori: la definitiva sottrazione di legittimità
al sistema socialista da parte della stragrande
maggioranza della popolazione; l’insuperabi-
lità dei suoi problemi strutturali economici; la
complessa interazione di dipendenza materiale,
mediale e culturale ( in atto da decenni) dalla
Germania federale; il venir meno del sostegno
sovietico.
Di fronte a questo nodo complesso, continuare a
parlare di annessione (Anschluss) o di coloniz-
zazione della DDR è superficiale e demagogico.
Centrale per noi rimane – come vedremo - il
tema della legittimazione, importante ancora
oggi nella sua forma retrospettiva, per così dire,
nella ricostruzione della memoria e della storia
comune tra i due Stati tedeschi.
Detto questo, che milioni di uomini e di donne
abbiano accettato passivamente, con maggiore
o minore rassegnazione e adattamento, oppure
con convinzione più o meno intensa il sistema
socialista non è un dettaglio che si possa bana-
lizzare, se si vogliono costruire rapporti autentici
di cittadinanza. Le strategie di adattamento o
di sopravvivenza non devono essere riservate a
terapie psicologiche o ad analisi di antropologi.
Rimangono un dato storico e politico da studia-
re.
4. Facciamo un passo indietro nel tempo.
All’inizio del 1989 ( l’anno in cui si celebra il
quarantennale della Costituzione della Re-
pubblica democratica tedesca) appare come
l’ultimo territorio-riserva del socialismo reale
in un’Europa orientale in marcia verso l’eco-
nomia di mercato, la democratizzazione e
l’occidentalizzazione, con la ricerca di nuovi
punti di riferimento politico internazionale. Poi
quasi all’improvviso nell’estate dalla „riserva
socialista” DDR incomincia la fuga in massa di
cittadini – soprattutto giovani e giovani famiglie
– che cercano asilo nelle ambasciate tedesco-oc-
cidentali di Praga e di Budapest. E’ importante
sottolineare che senza questo contesto geo-poli-
tico esterno sarebbero difficili se non impossibili
le fughe con il loro contraccolpo delle manife-
stazioni di protesta di massa di Lipsia, Dresda
e Berlino che si moltiplicano per settimane nel
settembre/ ottobre.
La questione della libertà di viaggiare è un
fattore di protesta particolarmente insidioso per
l’autorità della DDR perché apparentemente
legittimo, se non mette in discussione il sistema.
Ma proprio l’incapacità di reazione da parte del
governo fa sì che il movimento per la libertà
di viaggiare diventi l’elemento catalizzatore e
scatenante del più vasto movimento per gli altri
diritti di cittadinanza. Inaspettatamente una
grande massa i cittadini della DDR esce dalla
sua “normale” passività. I termini per defini-
re questa mobilitazione sono diversi e fluidi:
protesta di massa, movimento di cittadini, vero
113MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
e proprio movimento per i diritti civili e politici
(Bürgerrechtsbewegung ). Per qualche settima-
na sembrano coesistere e coincidere. Le parole
d’ordine stesse sono fluide ma dirompenti e
paralizzanti per un regime che aveva il monopo-
lio della parola.
La messa in crisi manifesta del sistema non è la
conseguenza di una resistenza tenace e aperta
di un sindacato interno sostenuto dagli intel-
lettuali come in Polonia; non è l’esito finale di
una lunga attività di opposizione sotterranea
quale è stata praticata a Praga; non è neppure il
risultato di una scaltra politica di riforme messa
in atto tempestivamente in Ungheria dalla
segreta complicità tra partito e popolazione. Le
autorità della DDR sono prese in contropiede da
un inatteso movimento di protesta di massa che
non osano contrastare con le maniere forti anche
perché non hanno più il sostegno di Mosca. La
popolarità e le attese di molti cittadini verso la
strategia riformatrice di Gorbachev, che pure
era detestata dalla nomenklatura della SED,
funzionano come fattori paralizzanti del gover-
no di Berlino-Est. Anche se verosimilmente da
tempo era in atto un sottile processo di erosione
del consenso all’interno delle strutture partitico-
politiche.
Si arriva così alla grande manifestazione del
4 novembre. Nella Alexanderplatz di Berlino
ha luogo una imponentissima dimostrazione di
massa. Si rendono visibili alcuni intellettuali –
oppositori “frondisti” del regime ma anche altri
che sino a quel momento erano ben collocati
nelle sue pieghe. Questi intellettuali si sentono
interpreti anzi virtuali artefici di una politica
rinnovatrice – ma sempre socialista. Sono affa-
scinati dall’idea di una rivoluzione senza terrore.
In realtà commettono l’errore di esaltare come
“rivoluzione non-violenta” attiva quella che è
l’implosione di una struttura di potere, improv-
visamente rivelatasi fragile sovrastruttura.
Un documento del gruppo “Demokratie Jetzt”
descrive entusiasticamente quanto è accaduto:
il Palazzo della Repubblica “era traboccante di
quei 500.000 che, per sempre, considereranno
questo giorno di novembre come il giorno della
sovranità del popolo; senza violenza infatti loro,
i cittadini e le cittadine di questo paese, hanno
preso possesso di questa casa insieme con i loro
bambini, hanno guardato raggianti di felici-
tà dalla terrazza verso la folla in movimento,
consapevoli del potere del popolo presente nella
parola pacifica ‘noi siamo il popolo’ “.
In realtà questo entusiasmo durerà poco. “Nei
‘brevi cinque giorni gloriosi’ dopo il 4 novembre
a Berlino il movimento dei cittadini sembrò il
vincitore del rivolgimento. Successo insperato e
sconfitta inattesa stavano una appresso all’altra.
In quel momento, infatti, si annunciava una
nuova e non meno drammatica svolta. Punto
d’avvio era un episodio non programmato, che
alla fine sarebbe diventato il simbolo vero e pro-
prio dell’autunno tedesco: la caduta del Muro”
Questo evento, se da un lato toglie allo Stato
della SED l’ultimo strumento per discipli-
nare i suoi cittadini, dall’altro mette in linea
di collisione l’opposizione e i suoi progetti di
riforma interna ( per altro, sostenuti da appel-
li irrealistici3) con la volontà della massa dei
cittadini che sono decisi a coniugare benessere
e democrazia attraverso la strada più breve:
riunificando il loro Stato con quello occidentale.
Naturalmente non si preoccupano per niente
né delle procedure dell’operazione né delle sue
implicazioni internazionali. Non nascondono
affatto la volontà di delegare ogni responsabilità
al governo e alla politica del governo di Bonn.
114MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
2009 . Giuseppe Battiston, Orson Welles’ Roast
115
Le elezioni del 18 marzo 1990 sanzioneranno
di fatto questo atteggiamento. Dopo di che il
movimento di massa si ritirerà nella passività.
E’ l’ultimo atto dell’ ”evento inaudito”.
5. Ma tra il novembre e il dicembre nes-
suno sa esattamente quale direzione si possa o
si debba prendere. Neppure il cancelliere della
Bundesrepublik di Bonn Helmut Kohl, che
passerà alla storia come il “cancelliere della
riunificazione”.
Procede con grande circospezione e tatticismo.
Davanti alla caduta del Muro non pensa affatto
alla riunificazione, ma ad un avvicinamento
progressivo tra i due Stati in una Confedera-
zione. Non disponendo in realtà di un piano
strategico, Kohl si fa guidare da un intuito
spregiudicato. Dapprima cerca rapporti pari-
tari con la controparte statale della DDR, poi,
davanti alle difficoltà di procedere speditamente
sulla strada dell’intesa intergovernativa, mentre
cresce l’irrequietezza della popolazione punta
senz’altro sull’entrata delle “regioni orientali”
nello Stato federale tedesco nei termini previsti
dalla “Legge fondamentale”.
Per questa operazione il suo unico forte pun-
to di appoggio internazionale è il presidente
degli Stati Uniti George W. Bush (senior), ma
può contare anche sulla remissività del leader
sovietico Michail Gorbachev. Kohl gode anche
del cauto consenso della Comunità europea,
nonostante alcuni rappresentanti degli Stati-
membri più importanti non nascondano le loro
perplessità e timori..
In questo contesto non è fuori luogo ricordare
che si rivelerà fallace l’illusione (e la giustifica-
zione espressa più volte soprattutto dal ministro
degli esteri Hans–Dietrich Genscher ) che la
riunificazione tedesca accelerasse e perfezionas-
se il processo di democratizzazione dell’intera
Europa orientale, in particolare sud-orientale, e
facilitasse la riforma interna dell’Unione sovie-
tica. Lo scoppio della guerra jugoslava, involon-
tariamente accelerato dal governo tedesco, ma
condiviso dagli altri governi europei, favorevole
alla tempestiva separazione delle repubbliche
slovena e croata dalla Federazione jugoslava,
sarebbe stata una brutale smentita della aspet-
tativa che la riunificazione tedesca avesse dato
inizio ad un nuovo ordine democratico nell’inte-
ra Europa orientale.
Alla fine il fattore tempo gioca un ruolo deter-
minante, costringendo a prendere le decisioni in
poche settimane.
Dal punto di vista giuridico-costituzionale la
riunificazione si istituzuonalizza applicando
l’art. 23 della Legge fondamentale del 1949,
che aveva previsto per l’allora ancora “prov-
visoria” Bundesrepublik l’accesso (Beitritt) da
parte delle regioni orientali. In questo modo nel
1990 si è voluto evitare ogni forma di rifonda-
zione costituzionale della democrazia tedesca
tramite la consultazione dei cittadini o anche
tramite una risoluzione paritetica tra le rappre-
sentanze parlamentari della DDR e della BRD
che confermasse solennemente la legittimità
della Germania unita. La decisione di affidarsi
esclusivamente all’art 23 allora sembrò fun-
zionale ad un rapido processo integrativo. In
realtà questo atteggiamento era (consciamente
o inconsciamente) il segno della negazione o
rimozione della specifica realtà storica della
DDR e dell’esperienza vissuta dalla sua popo-
lazione dalla storia tedesca complessiva. Come
se quarant’anni di storia di milioni di tedeschi
potesse essere ridotta al tempo di attesa della
riunificazione.
116
6. A questo punto è opportuna qualche
considerazione retrospettiva sulle forme di legit-
timazione politica dei due Stati tedeschi. Comin-
ciamo dalle dichiarazioni ufficiali. Il fondamento
della legittimazione della Repubblica democra-
tica tedesca era l’antifascismo, l’anticapitalismo
e il connesso progetto socialista. L’antifascismo
forniva gli argomenti alla decisione politica (alla
“narrazione legittimante” o al “ mito fondati-
vo” – come si dice oggi) della socializzazione
dell’industria e dell’abolizione del latifondo
all’est dell’Elba – dal momento che industriali e
latifondisti erano dichiarati senz’altro responsa-
bili dell’ascesa di Hitler e della attuazione della
sua politica. In questo modo la DDR traeva la
propria legittimazione da un rapporto diretto sia
pure critico e punitivo (tramite espropriazioni e
statalizzazioni) con la storia tedesca, mentre la
BRD doveva ricercare le sue ragioni legittimanti
(o “miti fondanti”) nel presente, nelle presta-
zioni collettive della ricostruzione e del miracolo
economico, rimuovendo in qualche modo il
passato. Solo gradualmente, con il passare degli
anni tra gli elementi fondativi del nuovo Stato
occidentale si è menzionata anche l’opposizio-
ne anti-hitleriana, identificata innanzitutto nel
tentato attentato del 20 luglio 1944.
La costituzione nel 1949 di due Stati tedeschi
ideologicamente e politicamente separati e ostili
non elimina il riferimento ad una comune “na-
zione tedesca”, sia pure diversamente giudicata.
Il primo testo costituzionale della DDR parla in-
fatti di “Stato socialista della nazione tedesca”.
Questa dizione viene cancellata anni più tardi,
nel 1974 ( tredici anni dopo l’erezione del Muro
di Berlino), tramite una riforma costituzionale
che parla di “Stato socialista degli operai e dei
contadini”. Contemporaneamente tuttavia il go-
verno della SED inaugura una politica culturale
di ricupero delle grandi tradizioni nazionali,
dichiarando di incarnare la vera e migliore tra-
dizione storica della Germania.
La BRD, da parte sua, ha rivendicato sin
dall’inizio la rappresentanza della nazione tede-
sca nella sua interezza come tale. Nel Preambolo
del Grundgesetz si legge che il popolo tedesco di
tutti i Länder (di cui segue l’elenco) riafferma
l’unità statale e nazionale. E conclude solenne-
mente: „Il popolo tedesco intero si impegna a
completare l’unità e la libertà della Germania in
libera autodeterminazione”. Nella Repubblica
di Bonn il principio dell’unità della nazione non
è mai stato cancellato come traguardo finale
ideale - basti ricordare le irritazioni sollevate in
Germania a metà degli anni Ottanta dall’allora
ministro degli esteri italiano Giulio Andreotti,
che si augurava il permanere di due Germanie.
Ma la riunificazione era di fatto tacitamente
rimandata sine die, in un futuro che la quasi
totalità dei politici e della popolazione tede-
sca considerava irraggiungibile. Di qua e di
là del Muro era ormai radicata la convinzione
che l’esistenza dei due Stati tedeschi fosse una
soluzione storica e politica accettabile. Non era
soltanto l’opinione di pubblicisti e di polemisti
ma di tutti gli storici e scienziati politici più
influenti. Ritenevano definitivamente risolta
la questione nazionale tedesca con la “doppia
statualità” BRD e DDR e ancora alla fine degli
anni Ottanta avrebbero vivacemente contestato
chi avesse sostenuto che era ancora aperta una
“questione tedesca”, intesa come vulnus del di-
ritto dei tedeschi di vivere in una unica nazione.
E’ vero che le massime autorità istituzionali
della Repubblica federale avevano continuato
a ripetere ritualmente l’assioma dell`unità della
nazione tedesca, ma nessuno pensava seriamen-
117MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
te che si sarebbe realizzata – tanto meno nei
modi in cui sarebbe effettivamente accaduto tra
il novembre 1989 e l’ottobre 1990.
7.Torniamo nella Repubblica democratica
tedesca. Dopo gli anni Settanta, anche sotto la
pressione mediatica dei modelli di benessere
occidentali, invano contrastati e diffamati con
appelli moralistici, il governo della DDR punta
sulla promessa di benessere - o quantomeno sui
valori della sicurezza economico-sociale - come
nuove elemento di legittimazione. Con la parola
d’ordine dell’unità tra politica sociale e politica
economica lo Stato socialista si presenta come
istituzione che si prende cura dei suoi cittadini
(Versorgungs- und Betreuungsstaat), rispar-
miando loro tutti i problemi esistenziali di un
decoroso corso della vita, problemi cui invece
sono esposti i cittadini di un sistema capitalisti-
co.
C’è anche un sottile cambiamento culturale
non privo di contraddizioni. Infatti, dall’alto, la
generazione dei „patriarchi“ antifascisti storici
tiene ferma e immobile l’ideologia e la prassi
politica del socialismo di stampo marx-leninista,
mentre nei quadri intermedi direttivi avanza
una nuova generazione pragmatica e tecno-
cratica. Ma la combinazione tra una ideologia
socialista ormai sclerotizzata e una pratica
tecnocratica alla lunga non regge.
Dalla metà degli anni Settanta e negli Ottanta
le società industriale avanzate (tra cui si può in
qualche modo includere anche la DDR) si impo-
ne drammaticamente la necessità del passaggio
verso l’età cosiddetta post-industriale, l’era
delle nuove tecnologie, della società dei servizi e
della comunicazione. La DDR si scopre priva di
capacità innovative: la produzione industriale,
la produttività del lavoro e la politica dei redditi
entrano in una fase di paralisi. La politiciz-
zazione del consumo promossa dal regime,
accompagnata dall’evidente insufficienza dei
beni di consumo rispetto agli standard tedesco-
occidentali, diventa un boomerang, un potente
fattore di delegittimazione del sistema.
In questo prospettiva diventa chiaro perché
la voglia di democratizzazione del 1989/90 è
associata alle aspettative di benessere di stile
“occidentale”, ed è naturale che si guardi ad
una rapida riunificazione come soluzione a por-
tata di mano – senza aver bisogno di retoriche
nazionali/nazionaliste. L’onere di rispondere alle
attese politiche, sociali, economiche, culturali
connesse all’abbandono del modello socialista
è riposto nell’adesione ad una nazione unita
garantita da un solido Stato sociale.
8. Dopo la Wende - termine che con il
tempo si è affermato per designare “la svolta”
per antonomasia del 1989/90 - è constatazio-
ne diffusa che la divisione statuale tra le due
Germanie abbia ceduto il posto ad una divisione
spirituale, culturale e sociale più sottile, non mi-
surabile soltanto con indicatori economici o con
il mancato abbattimento dei dislivelli economici
e sociali tra le regioni occidentali e orientali. Si
è denunciata l’assenza di una autentica solida-
le comunità politica nazionale. Mentre gli uni
(prevalentemente occidentali) imputano i costi
esorbitanti della riunificazione all’eredità pesan-
te del passato DDR, altri (soprattutto orientali)
la imputano alcune decisioni sbagliate prese
dopo la Wende.
Sebbene sia praticamente unanime l’opinione
che non ci fosse alcuna realistica alternativa al
trasferimento nelle regioni orientali dell’ordine
sociale occidentale, oggi si deplora che in tema
118
119MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
di politica sanitaria, familiare e di cura infantile
si siano lasciate cadere norme e istituzionali che
godevano di ampio consenso nella popolazione
della DDR e che comunque avrebbero consentito
una vita migliore. La convinzione diffusa che la
sperequazione nello stato di benessere materiale
sia un “deficit di equità” tra Occidente e Oriente
avvelena i rapporti e i ricordi.
Non c’ è dubbio che larghi strati di popolazione
hanno sofferto assai più di quanto loro stessi
non sospettassero al momento della riunifica-
zione nell’impatto brutale con cambiamento di
sistema – nelle campagne come nelle aree urba-
ne esposte alla speculazione edilizia. Accanto e
più efficacemente delle analisi di economisti e
sociologi, tutto questo è stato raccontato dagli
scrittori (da Günter Grass a Rolf Hochhuth, per
ricordare i più noti a livello internazionale). A
scanso di fraintendimenti, va notato per altro
che in queste impietose narrazioni, quasi nulla
si salva del sistema socialista precedente con
i suoi ottusi uomini di partito e incompetenti
burocrati.
Naturalmente non manca chi afferma che si
esagera nel denunciare il trauma e quindi la
miseria materiale delle regioni orientali, anche
se rimane vero che non si è visto quello svilup-
po fiorente incautamente promesso da Kohl nel
1990. Soprattutto, non hanno ancora conquista-
to autonomia economica sufficiente per reggere
il confronto con le regioni occidentali, salvo che
in aree privilegiate (Rostock, Dresda o Erfurt).
Alcuni ottimisti infine asseriscono che ci si è
sbagliati nel timing della rinascita delle aree
orientali, non nel trend del loro sviluppo. E’
vero che la pura trasposizione del sistema occi-
dentale nelle regioni orientali ha accentuato la
crisi dello Stato sociale in tutte le regioni, ma,
economicamente e socialmente parlando, l’Est
tedesco non ha e non avrà il destino del Mezzo-
giorno italiano – se si vuole usare un confronto
che spesso viene fatto.
Oggi la storiografia è concorde nel riconoscere
che la politica di Kohl – al di là delle buone
intenzioni - era guidata da una mentalità e da
un assunto sbagliati, legati al vecchio model-
lo di sviluppo che aveva portato al successo
la Bundesrepublik postbellica. Era un doppio
errore: innanzitutto la situazione della DDR
dei primi anni Novanta era inconfrontabile con
quella della Germania occidentale dei primi
anni Cinquanta, quanto a risorse materiali, a
strutture e infrastrutture tecniche e a fattori
umani; in secondo luogo il Modell Deutschland
aveva mostrato proprio nei decenni successivi –
e segnatamente negli anni Ottanta - i suoi limiti
insuperabili ed era stato un grave errore di Kohl
non aver introdotto tempestivamente i necessari
correttivi.
Pensare poi che la riunificazione potesse addirit-
tura offrire una chance di rilancio dell’economia
nazionale, senza richiedere alcun nuovo impe-
gno finanziario ad hoc è stato un altro errore
di valutazione. Verosimilmente, per calcolo
elettorale Kohl ha assicurato i tedeschi che non
ci sarebbero stati costi e sacrifici aggiuntivi per
la riunificazione, mentre in realtà ci sarebbero
state forme di finanziamento camuffate e rela-
tivi aggravi tramite il credito e la politica della
sicurezza sociale. E’ stato un difetto di capacità
e di guida politica.
Di fatto la terapia d’urto dell’economia di
mercato, sostenuta da massicci strumenti statali
di sostegno e la politica attiva di sostegno del
lavoro, non ha raggiunto nelle regioni orientali
l’obiettivo di una rapida e ed energia creazione
di strutture economiche capaci di autosostener-
2008 . Legno, diavoli e vecchiette... Storie di marionette
120
121MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
si. Il segnale più drammatico è stata l’altissima
disoccupazione e le sue conseguenze sociali.
Tutto questo ha acuito il dilemma cui la popola-
zione orientale era particolarmente esposta e in-
difesa, per la passata esperienza – il dilemma tra
l’affidarsi alle misure di protezione e di assisten-
za di Stato e l’ attivarsi per raggiungere capacità
di iniziativa e di responsabilità autonoma.
Limitarsi a denunciare tutto questo come ef-
fetto di liberalismo selvaggio o di colonialismo
tedesco occidentale è troppo facile. Certo, ci
sono (stati) innumerevoli esempi di arroganza
e di insensibilità da parte di individui e gruppi
(spesso neppure molto qualificati) arrivati dalla
Germania occidentale. Ma c’erano situazioni
oggettive disastrose, caratterizzate da mancan-
za di competenze locali e assenza di personale
qualificato autoctono ( magari trasferitosi nelle
regioni occidentali dopo la unificazione).
9. Di fronte a quanto è accaduto nell’au-
tunno/inverno 1989, ci si è resi conto tardiva-
mente di quanto insufficienti, se non addirittura
fuorvianti, fossero le informazioni a disposizio-
ne nella Repubblica federale sulle condizioni
materiali e culturali reali della DDR. Oggi si
riconosce che c’è stato un deficit di conoscenza
scientifica oltre che un atteggiamento politico
inadeguato, cui non è più possibile rimediare,
se non con una più attenta ricostruzione ex-post.
Per la conoscenza della società della DDR e
soprattutto per capire l’atteggiamento della
popolazione ancora oggi, è essenziale l’analisi
delle narrazioni retrospettive e delle connesse
memorie, che si sono lentamente palesate o sono
state finalmente messe a fuoco dagli osservatori.
Ad esse si collegano le narrazioni postume, per
così dire, sulla legittimazione di cui godeva la
DDR e quindi i giudizi sul passaggio alla nuova
realtà politica.
Accanto al discorso ufficiale dominante che
giustifica la “rivoluzione democratica” del
1989 con la delegittimazione senza riserve del
precedente regime dittatoriale della SED, si
fanno sempre più frequenti contro-narrazioni
che in qualche modo rilegittimano il passato,
denunciando nel contempo “la colonizzazione”
sociale, materiale e culturale delle regioni orien-
tali a seguito dell’Anschluß da parte del sistema
capitalistico occidentale. Questa visione è diven-
tata parte integrante della cultura politica della
PDS (il partito successore della SED ed ora
confluito nella Linke nazionale), a prescindere
dalla tattica delle alleanze politiche che questa
formazione mette in atto a livello nazionale e
regionale
Ma c’è una terza posizione, per certi aspetti più
interessante e verosimilmente più condivisa. Si
basa sulla diffusione (ormai non più subcultu-
rale) di narrazioni biografiche e operazioni di
memoria presuntivamente comune che pongono
al centro la rivalutazione di storie di vita o bio-
grafie, presentate come situazioni di costrizione
oggettiva, anche se sottratte ad una azione poli-
tica diretta. E’ un atteggiamento caratterizzato
da sottili tratti impolitici.
Per parecchio tempo la maggioranza della po-
polazione tedesco-orientale dopo la caduta del
Muro non parve interessata a mettere a fuoco
il proprio passato: doveva fare i conti con un
presente imperscrutabile e con le illusioni e le
paure di un futuro incerto. La cronaca in com-
penso era piena delle malefatte della Stasi.
Con il passare degli anni si è rafforzata l’imma-
gine di una esistenza condotta e vissuta in con-
dizioni oggettive di “dominio”, talora evidenti
talaltra impalpabili. In verità, questa imma-
122gine è accolta volentieri soltanto da chi aveva
effettivamente avuto esperienze di persecuzione.
L´idea di essere stati “dominati” è bene accetta
anche da chi vuole rendere credibile la sua “col-
laborazione” e quindi il suo incolpevole – perché
coatto - coinvolgimento nell`apparato di potere.
La DDR come “storia di dominio” tout court
incontra invece resistenza in chi ha creduto nel
regime o ha cercato di conviverci, di scendere a
patti con esso.
Ma il quadro è molto variegato, scalato anche
generazionalmente. La prima generazione che,
dopo un’esperienza giovanile hitleriana, si era
convertita con convinzione al comunismo e vi
aveva investito identità ed energie, con la fine
della DDR si ritrova con un itinerario biografico
devastato. Ma dappresso segue una generazione,
che, pur essendosi integrata in qualche modo
nel sistema sinceramente, volontaristicamente
o per assenza di alternative, aveva sperato sino
alla vigilia del tracollo in un suo mutamento
migliorativo. In questa generazione si trova sia
chi si riconverte rapidamente al nuovo sistema
liberal-democratico, sia chi rimane ne presto
deluso secondo un ampio spettro di gradi di
rassegnazione e adattamento. C’è infine chi
aveva vissuto nella nicchia della vita artistica,
delle forme subculturali giovanili creando o
credendo di godere di forme di vita alternative.
Paradossalmente, con la scomparsa della DDR,
lungi dall’aprirsi finalmente spazi di libertà, per
questi ultimi viene meno per essi il quadro di
riferimento polemico del loro stile di vita alter-
nativo; sentendosi ora esposti senza difese alla
logica della competizione e del mercato.
Sullo sfondo, c’è il basso continuo della no-
stalgia verso uno Stato sentito come garante
di assistenza sociale e verso una società di
solidarietà, dove la vita non era commercializ-
zata e l`atteggiamento dominante era (almeno
ideologicamente) di tipo egualitario. “Quella
che viene difesa è una esperienza di sicurezza
non soltanto nell`ambito materiale e sociale,
ma anche nell`ottica della pianificabilità della
vita, la tenuta dei rapporti, la calcolabilità dei
cambiamenti. In breve, un senso di controllo
(passivo) sul futuro, che garantisce tranquillità
e certezza”.
Ciò che spesso accomuna queste reazioni è un
atteggiamento sostanzialmente depoliticizzato,
se non impolitico. Il sistema DDR nella sua spe-
cificità partitico-politica viene rimosso o igno-
rato – forse come risposta anche ad una lettura
iper-ideologica troppo frequentemente offerta
dagli storici e dagli analisti politici occidentali,
concentrati sulle posizioni del partito e delle
istituzioni ufficiali. Trascurando o sottovalutan-
do la rilevanza delle strategie della contratta-
zione quotidiana della gente comune, le analisi
storico-politiche correnti non colgono i pesanti
limiti del potere della SED, pur molto penetran-
te con i suoi capillari apparati di controllo, sulla
vita normale e quotidiana. E quindi non hanno
comprensione per l’ostinazione che si è espres-
sa negli spazi nascosti e difesi della società del
socialismo reale. Con il risultato che questi spazi
permangono – a loro modo – ancora oggi dopo
due decenni di unità tedesca come luoghi di
resistenza contro altre forme invasive, o vice-
versa come reazione alla indifferenza sociale del
capitalismo trionfante.
Da qui la domanda che attende ancora una
risposta esauriente: che cosa c’era davvero
all’ombra del dominio/potere della SED ?
Com’era l’esistenza quotidiana dietro al Muro?
Solo paura e oppressione? Solo opportunismo
e manipolazione ? Il quotidiano era il luogo
che alimentava l’impotenza degli impotenti
e la potenza dei potenti – come continuano
123ad affermare gli esponenti dei movimenti dei
diritti civili e politici, custodi intransigenti della
illegittimità senza attenuanti della DDR? O ci
si poteva considerare “cittadini” senza far parte
della nomenklatura e senza per questo sentirsi
prigionieri,“residenti coatti nello Stato” ?
Nel caso della DDR, spostare lo sforzo cono-
scitivo sul quotidiano non significa allargare
genericamente l’ambito della conoscenza - come
avviene solitamente nello studio delle società
occidentali. Quello spostamento contiene infatti
uno specifico giudizio politico. Diventa mol-
to istruttivo anche per capire e spiegare altre
esperienze del socialismo reale nei paesi dell’Est
Europa - e più in generale le società governate
da una dittatura.
In primo piano si pone la questione della diffe-
renza tra privato e pubblico. Da un lato sareb-
be assurdo negare una “felicità privata” o la
legittimità di una “nicchia in cui si è felici” (di
cui conservare memoria positiva) separata dalla
“infelicità pubblica”. Dall’altro, però – proprio
in Germania – vale il verdetto (adorniano) della
impossibilità di una vita privata “vera” in una
vita collettiva “falsa”. Ovvero, per dirla nel
linguaggio di alcuni esponenti della “politica
della memoria” ufficiale, coltivare ricordi pia-
cevoli (che non siano quelli privatissimi) della
vita nella DDR mette in pericolo il “consenso
antitotalitario”contro il regime.
In contrasto con questa posizione si è obiettato
(giustamente, a mio avviso) che continuare a
sostenere che la vita nella DDR fosse inautentica
e moralmente compromessa rischia di estraniare
molti tedeschi orientali dalla nuova Germania
democratica unita.
Alla luce di questa problematica vale l’invito,
avanzato da alcuni studiosi, ad un mutamento
di paradigma nella lettura del passato della
DDR, passando dalla semplice de-legittimazione
del sistema socialista alla sua storicizzazione.
Questo mutamento non significa affatto una ri-
abilitazione dello Stato della SED, ma un passo
importante verso la riappropriazione critica del
passato tedesco nel suo insieme.
10. Una annotazione finale. Per definire
tutto quanto è successo e sopra sinteticamente
descritto è giusto parlare di „rivoluzione“ ? An-
che se il concetto più diffuso è quello di Wende/
svolta? Nella letteratura e nella pubblicistica
ci sono altri termini ancora: Umbruch / rivol-
gimento, Zusammenbruch /crollo, Implosion /
implosione. Ognuno di essi ha una sua giusti-
ficazione, una sua storia; risponde soprattutto
a sensibilità soggettive diverse o ad occasioni
particolari, oltre che a veri o presunti indicatori
oggettivi.
Naturalmente, il concetto più forte è quello di
“rivoluzione” quasi sempre accompagnata, oltre
che dall’aggettivo “democratica”, anche da “pa-
cifica”, “non violenta”. Ma non mancano quali-
ficativi riduttivi o negativi: rivoluzione mancata,
fallita, tradita (secondo una vecchia tradizione
tedesca). E’ chiaro che queste aggettivazioni
indicano attese o speranze andare deluse.
Ma se ci atteniamo ad una definizione politica
tecnica, per cosi dire, che indica un mutamento
radicale dell’ordine socio-politico – mutamento
di Costituzione, sistema politico e strutture so-
ciali – non c’è dubbio che quella del 1989/90 è
stata una “rivoluzione” – che ha avuto successo
a confronto di quella del 1848 o, se vogliamo,
quella del 1918/19, per rimanere nella storia te-
desca. Rivoluzione in senso democratico, anche
se sappiamo per esperienza che la democrazia
non risolve affatto tutti i problemi che promette
di risolvere …
MITTELFEST / PROVE D’EUROPA / L’ANALISI
Il Mittelfest si svolge a Cividale del Friuli, l’anti-
ca Forum Julii romana, città dalla storia remota
e affascinante.
Nell’Alto Medioevo i Longobardi vi lasciarono
eccezionali testimonianze d’arte.
Un’ideale città-festival, con le incantevoli stradi-
ne medievali, i caffè dall’eleganza mitteleuro-
pea, i locali che offrono il meglio della gustosis-
sima cucina friulana.
Cividale è anche il capoluogo di una zona Doc,
i Colli Orientali del Friuli, dove si producono
vini i qualità ineguagliabile, con tesori autocto-
ni come il rosso Pignolo, o i bianchi Verduzzo
e Picolit, al top dell’enologia italiana. Attorno
a Cividale si aprono a ventaglio le Valli del
Natisone, estremo lembo nordorientale d’Italia,
disseminate di paesi caratteristici immersi in fitti
boschi di faggi, querce, castagni in un ambiente
sorprendentemente intatto.
Il MittelFest e Cividale: un’occasione unica per
vivere lo spettacolo dal vivo e lasciarsi affasci-
nare da una tradizione culturale e storica che
affonda le sue radici nel cuore dell’Europa.
Cividale del Friuli,città del MittelFest
124
126
Fotografie di:Luca d’Agostino | pagg. 4, 6, 7, 13, 14, 22, 25, 29, 36, 58, 69, 73, 81(in alto), 89, 97, 105, 120Hugo Glendinning | pagg. 18, 84Antonio Agostini | pag. 52MittelFest | pag. 17Comune di Cividale | pagg.124, 125Ensemble Micha van Hoecke | pag. 11Compagnia Arearea | pag. 81(in basso)Budapest Dance Theatre | pag.100 Fondazione Teatro Piemonte Europa | pag.115
Mittelfest ringrazia, per l’apporto offerto alla presente pubblicazione:
Vladimir Polyakov, the Gorbachev Foundation
Piotr Gulczinsky, presidente Fondazione Lech WalesaAndrzej Gulczinsky, Fondazione Lech Walesa
Sabina Tancevova, Václav Havel’s staff
Giulia Del Fabbro, Ministero per gli Affari Esteri
Ambasciate Italiane a Mosca, Varsavia, Lubiana
Adriano Ossola e Dalia Vodice, Associazione Culturale èStoria - Gorizia
Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia
© 2009 Associazione MittelfestTutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata.Finito di stampare nel luglio 2009.
I Presidenti di MittelFest dal 1991 ad oggi
Mario PuiattiAlessandra GuerraGiovanni Pelizzo Marino PlazzottaPaolo MaurensigDemetrio VolcicLorenzo PelizzoFurio HonsellAntonio Devetag
I Direttori Artistici di MittelFest dal 1991 ad oggi
Giorgio PressburgerTamas AscherJovan CirilovJiri MenzelGeorge TaboriCarlo de IncontreraCesare TomasetigMimma Gallina Daniele AbbadoOreste BossiniGiorgio BattistelliMoni OvadiaFurio BordonClaudio MansuttiWalter Mramor
Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De
Michelis, Dimitrij Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani, Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo,
Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De Michelis, Dimitrij
Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani,
Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo, Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Gian Enrico Rusconi, Michail Gorbachev, Lech Walesa, Václav Havel, Axel Hartmann, Gianni De
Michelis, Dimitrij Rupel, Adriano Biasutti, Imre Kozma, Riccardo Ehrman, Lucio Caracciolo, Marcello Veneziani, Gianni Bisiach, Predrag Matvejevic’, Sergio Romano, Toni Capuozzo, Piero Badaloni, Giorgio Pressburger, Roberto
Collini, Alfonso Di Leva, Andrea Filippi, Paolo Possamai, Gian Enrico Rusconi,