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Gilbert Keith Chesterton L'osteria volante www.liberliber.it

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Gilbert Keith ChestertonL'osteria volante

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: L'osteria volanteAUTORE: Chesterton, Gilbert KeithTRADUTTORE: Dàuli, GianCURATORE: NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: L'osteria volante / G. K. Chesterton ; introduzione, versione e note di G. Dauli. - Milano : Edizioni paoline, stampa 1960. - 307 p. ; 17 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 11 luglio 2016

INDICE DI AFFIDABILITA’: 1 0: affidabilità bassa

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1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

REVISIONE:Catia Righi, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Indice generale

INTRODUZIONE..........................................................7CAPITOLO IUN SERMONE SULLE OSTERIE..............................11CAPITOLO IILA FINE DELL’ISOLA DEGLI ULIVI.......................23CAPITOLO IIIL’INSEGNA DE «LA VECCHIA NAVE»...................36CAPITOLO IVL’OSTERIA METTE LE ALI......................................47CAPITOLO VLO STUPORE DELL’AGENTE..................................61CAPITOLO VIIL BUCO NEL CIELO.................................................74CAPITOLO VIILA SOCIETÀ DELLE ANIME SEMPLICI................90CAPITOLO VIII«VOX POPULI VOX DEI».......................................103CAPITOLO IXL’ALTA CRITICA E MR. HIBBS..............................116CAPITOLO XIL CARATTERE DI QUOODLE...............................132CAPITOLO XIVEGETARIANISMO IN SALOTTO........................145CAPITOLO XIIVEGETARIANISMO NELLA FORESTA................161

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CAPITOLO XIIILA BATTAGLIA DEL TUNNEL...............................178CAPITOLO XIVLA CREATURA CHE SI DIMENTICA....................197CAPITOLO XVLE CANZONIDEL «CLUB» DELLE AUTOMOBILI.....................210CAPITOLO XVII SETTE STATI D’ANIMO DI DORIAN..................227CAPITOLO XVIIIL POETA IN PARLAMENTO..................................241CAPITOLO XVIIILA REPUBBLICA DI PEACEWAYS........................259CAPITOLO XIXL’OSPITALITÀ DEL CAPITANO.............................274CAPITOLO XXIL TURCO E I FUTURISTI.......................................286CAPITOLO XXILA STRADA AL LABIRINTO..................................299CAPITOLO XXIILA CHIMICA DEL SIGNOR CROOKE...................319CAPITOLO XXIIILA MARCIA SU IVYWOOD....................................334CAPITOLO XXIVGLI ENIGMI DI LADY GIOVANNA.......................347CAPITOLO XXVIL SUPERUOMO.......................................................362

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Gilbert Keith Chesterton

L'osteria volante

Introduzione traduzione e note diGian Dàuli

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INTRODUZIONE

Di G. K. Chesterton, artista e uomo, abbiamo parlato con ampiezza e, speriamo, in modo esauriente, nel presentare «Il Napoleone di Notting Hill», inserito in questa stessa collana. E, per non ripetere cose già dette rimandiamo a quella prefazione i lettori curiosi di notizie bio-bibliografiche che avessero iniziato la loro lettura con questo secondo volume.

Qui, invece, vorremmo aggiungere, quasi più per noi stessi che per i lettori, le ragioni che ci fanno prediligere questo lavoro rispetto ad altri del genere. Certo, il fatto è questo che, anche dopo la minuziosa e ardua fatica del tradurre, è rimasto intatto in noi il godimento di questo libro, godimento che non è facile giustificare con la ragione: ci piace, ecco tutto! E così il lettore non si domandi – come si fa tutte le volte che si chiude un libro – che cosa l’autore abbia voluto fare e che cosa abbia voluto dire, per non trovarsi nell’imbarazzo e per non sciupare le sue sensazioni, senza dire che sarebbe irriverente verso un artista come il Chesterton, che ha sempre messo la maggior precisione nell’essere impreciso, e la maggiore finitezza nel dare ai suoi felici epigrammi la seduzione dell’infinito. Il lettore deve, dunque, accingersi a

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leggere questo libro con la stessa disposizione d’animo con la quale, evidentemente, il Chesterton lo ha scritto: col senso della giocondità, pura e semplice, e col gusto primitivo del burlesco. Che si tratti poi di un romanzo, di un racconto, di una fantasia, di un grottesco, poco importa; certo è un’opera d’arte originalissima e questo basta. Chi volesse poi precisare e definire questa «Osteria volante» credo che non troverebbe parola più appropriata di quella inglese «romance». Gli inglesi annettono alla parola «romance» un’idea d’irreale, d’avventuroso e di fantastico che noi non riconosciamo necessariamente alla parola «romanzo». (Il romanzo vero e proprio è detto dagli inglesi «novel» e la «novella» è detta «short story», racconto breve).

Si potrebbe dunque affermare che si tratta qui – come negli altri dello stesso ciclo: «Il Napoleone di Notting Hill», «Il Ritorno di Don Chisciotte», «L’uomo che fu giovedì», «La sfera e la Croce», ecc. – di un «romance» in cui l’irreale, il fantastico, l’avventuroso si incontrano e si scontrano a ogni pagina in un brillante e grottesco arruffio.

Il suo contenuto può parere anche una beffa, se questa definizione non ci richiamasse le storie molto realistiche dei nostri novellieri trecenteschi e quattrocenteschi. Qui, invece, di realistico, non c’è nulla: tutto è genialmente sproporzionato e inverosimile. L’eroe stesso – l’ineffabile Capitano irlandese Dalroy, che riempie il volume delle sue rodomontate, delle sue canzoni e delle sue risate – è

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un’amena caricatura di alcuni tratti più singolari del popolo e della razza da cui viene, e, nello stesso tempo, rende assai bene, sullo schermo artistico, lo spirito paradossale e rumoroso, fresco ed allegro, sagace e umoristico dell’artista che l’ha creato.

Al Capitano Dalroy – che sembra talora appena uscito dalla taverna del Cignale o della Sirena, dove i sudditi più scapigliati della buona regina Bess facevano a gara nel bere, cantare e sparlare – al Capitano Dalroy – simbolo dell’eterna giovinezza sfrenata e spregiudicata, burlone come Falstaff, cavalleresco come Don Chisciotte, ridanciano ed arguto come una creatura di Rabelais – si contrappone Lord Ivywood, formalista convenzionale, prezioso, insensibile e freddamente fanatico. In questo contrasto sta, forse, il maggior pregio del «romance», per i cui viali l’autore scorrazza liberamente e disordinatamente, ora facendo improvvise digressioni, ora sostando un po’ come in contemplazione, ora perseguendo le sue eccentricità epigrammatiche che balzano su, davanti ai suoi passi, come tante farfalle d’ogni colore.

Ci sono nel popolo inglese alcune eminenti virtù le quali hanno solo la disgrazia di essere troppo spesso oscurate dalla loro stessa caricatura. La fede è una virtù, e guai agli individui e ai popoli nei quali manca: ma la fede può essere oscurata dal fanatismo, cioè dalla sua caricatura. In Inghilterra ci sono uomini di fede ed un gran numero di fanatici. È, per eccellenza, il paese degli «ismi» e degli «isti»: un paese di cause e di

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paladini. Lord Ivywood, che non ha mai voluto bene in vita sua ad un cane, ma che ha sempre avuto molto a cuore la causa dei cani, personifica assai bene tutto quel mondo inglese artificioso e insincero che ha sempre una causa da propugnare e una missione cui consacrarsi.

Puritanismo, vegetarianismo, proibizionismo e non so quale altro «ismo» offrono al Chesterton altrettanti elementi per la sua fantastica scorribanda nella quale l’ironia si alterna alla satira, il quadro di costume al quadretto di genere, il personaggio alla macchietta, l’aria viziata del mondo convenzionale alle sane ventate del mondo libero e giocondo, che ha per sfondo, da una parte il mare, e dall’altra il bruno profilo delle profonde foreste d’Inghilterra.

GIAN DÀULI

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CAPITOLO IUN SERMONE SULLE OSTERIE

Il mare aveva preso una tinta di un verde-pallido e il pomeriggio aveva già sentito il tocco di fata della sera, quando una giovane donna, dai capelli neri, vestita artisticamente, in un abito tutto increspato, color rosso-rame, camminava con un’aria distratta lungo il viale di Pebbleswick-sul-Mare, strascicando il parasole e fissando il lontano orizzonte. Essa aveva un motivo per guardare all’estremo lembo del mare, motivo che molte giovani donne hanno avuto nella storia del mondo. Ma nessuna vela era in vista!

Sulla spiaggia, sotto il viale, v’era una successione di piccoli gruppi di bagnanti, che facevano circolo intorno ai soliti oratori delle stazioni balneari – negri e socialisti, ciarlatani e predicatori evangelici. C’era un uomo che lavorava intorno a delle scatole di cartone, e la gente stava lì ad osservarlo per delle ore, nella speranza di poter scoprire che diavolo facesse. Vicino a lui ce n’era un altro in cilindro, con una grossissima Bibbia e una piccolissima moglie, la quale se ne stava silenziosa al suo fianco, mentre egli dava pugni nell’aria contro la eresia del «Sublapsarianismo Milniano» così diffuso nelle stazioni di bagni alla moda. Non era facile

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seguirlo, perchè egli era eccitatissimo, ma, di tanto in tanto, le parole «i nostri amici sublapsariani»1 ricorrevano nella sua eloquenza con un tono di lamentazione ironica. Vicino a lui c’era un giovanotto che parlava di cose di cui nessuno riusciva a capire un’acca (e lui meno che meno), ma che, apparentemente, attraeva la curiosità del pubblico per il fatto che portava una collana di carote intorno al cappello. E, in realtà, egli aveva raccolto più denaro di tutti gli altri. Venivano poi i negri. Poi ancora un uomo che presiedeva a un servizio religioso per i bambini e batteva il tempo con una pala di legno. Più avanti c’era un ateo, furiosissimo, che, di tanto in tanto, additava il servizio religioso per i bambini e parlava delle più belle cose della Natura corrotte dai segreti dell’Inquisizione – rappresentata naturalmente sul posto dall’uomo colla pala di legno! L’ateo, che portava una rosetta rossa, era molto sprezzante anche verso il suo uditorio. «Ipocriti!»

1 Il «sublapsarianismo» o «infralapsarianismo» è una variazione caratteristica del Calvinismo. Secondo Calvino Iddio ha predestinato da tutta l'eternità, con volontà antecedente e assoluta, una parte dell'umanità alla dannazione eterna, l'altra alla vita eterna. Tuttavia egli abbracciò successivamente due teorie circa i motivi su cui si fonderebbe tale dottrina della predestinazione. Dapprima sostenne che la predestinazione è indipendente dal fatto del peccato originale, poi la fece dipendere da esso. Per questo i suoi seguaci si divisero in due schiere: i Supralapsariani (predestinazione precedente la caduta originale) e i Sublapsariani (predestinazione conseguente la caduta originale) (N. d. E.).

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esclamava, e la gente gli gettava allora del denaro. «Gonzi e codardi!» e la gente gliene gettava dell’altro. Ma fra l’ateo e il servizio religioso per i bambini, c’era un vecchietto con una faccia da gufo, un fez rosso in testa e un vecchio ombrello verde che andava roteando. La sua faccia era bruna e rugosa come la superficie di una noce; il suo naso era di quelli che noi siamo soliti associare all’idea del giudaismo, e la sua barba aveva la forma delle barbe persiane. La giovane donna non lo aveva mai visto prima d’allora; egli era infatti nuovo in quel museo familiare di mattoidi e di imbroglioni. La nostra giovane donna era di quelle nelle quali un senso reale di umorismo si trova sempre in contrasto con una certa tendenza del carattere alla noia e alla malinconia: ed essa si arrestò un momento e si appoggiò ad una ringhiera per ascoltare.

Ci vollero ben quattro minuti prima che potesse capire una parola di ciò che l’uomo andava dicendo: egli parlava l’inglese ma con un accento così straordinario, che si poteva sospettare sulle prime che parlasse nella sua lingua orientale. Tutti i suoni della sua articolazione erano curiosi, e il più curioso di tutti era il modo con cui prolungava i suoi u in uuu. Talchè per dire puro, diceva puuuro.

Gradualmente la giovane fece l’orecchio al dialetto e cominciò a capir le parole, ma ci volle ancora un po’ prima che arrivasse a capire quale fosse l’argomento del discorso. Le parve che la sua trovata fosse che la civiltà inglese era stata fondata dai Turchi o, forse, dai Saraceni

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dopo le loro vittorie nelle Crociate. Pareva anche che egli fosse persuaso che gli Inglesi non avrebbero tardato a persuadersi della cosa, e citava, in prova di ciò, il diffondersi dell’antialcoolismo. La giovane era la sola persona che lo stesse ad ascoltare.

— Guuu-ardate – egli disse, agitando un dito ricurvo e bruno – guuu-ardate alle vostre osterie, le osterie di cui scrivete nei vostri libri. Esse non sono mica state aperte sulle prime per vender l’alcool che bevono i cristiani. Sono state aperte per vendere la bevanda islamica non alcoolica. Ve ne potete convincere pensando al nome delle vostre osterie. Sono nomi orientali, nomi asiatici. Voi avete una famosa osteria alla quale i vostri omnibus vanno in pellegrinaggio. È detta «L’Elefante e il Castello». Questo non è un nome inglese. È un nome Asiatico. Voi obietterete che ci sono dei Castelli in Inghilterra e io non dico di no. C’è il Castello di Windsor. Ma dov’è – egli esclamò con foga, agitando la sua ombrella verde in direzione della giovane, in un irato trionfo oratorio – dov’è il Castello-Elefante? Si è cercato in tutto il parco di Windsor: ma non vi si è trovato un solo elefante!

La giovane dai capelli neri sorrise e cominciò a credere che quest’uomo fosse più interessante di tutti gli altri. Secondo il costume che prevale nei luoghi di bagni, essa lasciò cadere una moneta di due scellini nella coppa di rame rotonda che le stava accanto. Con un senso di nobiltà e disinteresse, il vecchio signore, in fez rosso, non fece atto di accorgersene e continuò

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calorosamente, per quanto scuramente, nella sua argomentazione.

— Dunque, voi avete in questa città un bar che si chiama «Il Bull»2.

— Già: «Il Bull» – disse la giovane signora con interesse e con una voce dolcemente melodiosa.

— Voi avete un bar detto «Il Bull» – egli continuò in una specie di furia astratta – e senza dubbio sentite tutta la ridicolaggine di ciò.

— Niente affatto – disse la giovane deprecando garbatamente.

— Perchè ci dovrebbe essere uuun Bull – egli gridò l’u secondo il suo solito. – Perchè ci dovrebbe essere un Bull in connessione con un luogo pubblico di svago? Chi pensa a un Bull in un giardino di delizie? Che bisogno c’è di un Bull quando noi osserviamo donzelle danzare o versare la spumeggiante limonata di rosa? Voi stessi, amici miei – e si guardò intorno con una aria raggiante, come se parlasse ad un’enorme folla – voi stessi avete un proverbio che dice: Non è un buon affare avere un Bull in un negozio di ceramica. Del pari, amici miei, non sarebbe un buon affare avere un Bull in un negozio di vino. Tutto questo è chiaro.

Egli piantò la sua ombrella dritta nella sabbia e cominciò a picchiare un dito contro l’altro, come un uomo che fa dei conti.

2 Bull significa toro: ma qui si mantiene la parola inglese, altrimenti non sarebbe intelligibile il gioco di parole che il lettore troverà più avanti.

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— È chiaro come il sole e la luna – disse solennemente – è chiaro come il sole e la luna che questa parola Bull, che non richiama alcuna idea di riposo e di piacere, è semplicemente la corruzione di un’altra parola che richiama, invece, idee di riposo e di piacere. La parola non è Bull ma Bul-Bul3.

La sua voce si fece improvvisamente acuta come una tromba e le sue mani si aprirono a ventaglio come la foglia d’una palma tropicale.

Dopo questo colpo ad effetto, egli si calmò un poco e si appoggiò gravemente alla sua ombrella.

— Voi troverete la stessa traccia di nomenclatura asiatica nei nomi di tutte le vostre osterie inglesi – egli continuò. – Anzi, la troverete, ne sono quasi certo, in tutti i vostri termini che si riferiscono, in qualunque modo, alle vostre feste e ai vostri svaghi. Ecco qui, amici miei: proprio il nome di quello spirito insidioso che dà forza alle vostre bibite è un nome arabico: alcool. Non è forse ovvio che questo altro non è se non l’articolo arabo «Al» come in «Alhambra», come in «Algeria»; e noi non abbiamo bisogno di accennare il fatto che esso compare in molti altri nomi che si riferiscono alle vostre allegre istituzioni, come nella vostra birra Alsop, nel votro Ally Sloper4 e nella

3 Bulbul è parola turca, per usignolo, che Moore e Byron hanno introdotto nell’inglese.

4 La birra Alsop è una delle più popolari in Inghilterra; Ally Sloper è il nome di un personaggio buffo e immaginato dal popolino, come Punch, Gianduia, Meneghino, ecc. Anni or sono,

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istituzione, in parte allegra, dell’Albert Memorial. Sopra tutto, nella più grande festa dell’anno che voi celebrate; nel vostro giorno di Natale, che così erroneamente pensate sia connesso colla vostra religione. Ebbene, forse che il giorno di Natale, voi fate il nome delle nazioni cristiane? Dite forse: io voglio un po’ di Francia? prenderò un po’ d’Irlanda o un po’ di Scozia o un po’ di Spagna? No-o. – E il suono della negativa sembrava strascicarsi come il belare di una pecora. – Voi dite: io prenderò un po’ di turckey5; che è il nome che voi date al paese dei servi del Profeta.

E una volta ancora egli tese le sue braccia sublimemente verso l’est e verso l’ovest e fece appello alla terra e al cielo. La giovane signora, guardando l’orizzonte del mare con un sorriso, battè leggermente le sue mani in guanti grigi, come a una perorazione. Ma il vecchietto col fez era tutt’altro che esaurito.

— In risposta a ciò voi obietterete... – egli cominciò.— Oh, no, no, – sospirò la giovane signora come

rapita in un sogno, – io non faccio obiezioni, non faccio obiezioni di sorta!

— In risposta a ciò, voi obietterete – proseguì il suo precettore – che alcune osterie prendono il nome dai simboli delle vostre superstizioni nazionali. Voi mi farete subito osservare che la Golden Cross è in faccia a

c’era anche un giornaletto umoristico che si intitolava Ally Sloper.

5 Anche qui, per conservare il gioco di parole, bisogna usare le parole del testo, Turkey, che significa Turchia e anche tacchino.

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Charing Cross e mi parlerete in lungo e in largo di King’s Cross, Gerrard’s Cross e di tutte le Croci che si trovano in Londra e presso Londra. Ma voi non dovete dimenticare – e qui egli tese maliziosamente la sua ombrella verso la signora, come se stesse per pungerla – nessuno di voi, amici miei, deve dimenticare l’enorme numero di Crescenti che ci sono in Londra: Denmark Crescent, Mornington Crescent, St. Mark’s Crescent, St. George’s Crescent, Grosvenor Crescent, Regent’s Park Crescent e perfino Royal Crescent! E perchè dovremmo tacere di Pelham Crescent? Perchè? Ovunque, io dico, si rende omaggio al santo simbolo della religione del Profeta! Paragonate con questa fila di Crescenti – questa città consiste quasi tutta di crescenti – il magro numero di Croci che restano a testimoniare l’effimera superstizione verso la quale voi foste, in un momento di debolezza, inclinati.

La folla sulla spiaggia andava rapidamente diradandosi, avvicinandosi l’ora del tè. L’occidente si faceva, venendo sera, sempre più chiaro, finchè la luce del sole parve scomparire dietro il pallido mare e risplendere come attraverso una parete di sottile vetro verde. La stessa trasparenza del cielo e del mare poteva fare a questa giovane – per cui il mare aveva del romantico e del tragico – l’effetto di una specie di radiosa disperazione. L’ondata fatta di milioni di smeraldi rifluiva lentamente, mentre il sole spariva, ma il fiume della scempiaggine umana correva e correva in eterno!

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— Io non pretendo affermare – disse il vecchio signore – che non ci siano difficoltà nella mia proposizione; o che tutti gli esempi siano così evidentemente veri come quelli di cui ho dato ora la dimostrazione. No-o-o. È evidente, diciamolo pure, che «La Testa del Saraceno» è una corruzione della storica verità: «Il Saraceno è in testa». Non dirò che sia egualmente evidente che «The Green Dragon» fosse in origine «The Agreeing Dragoman»6, per quanto io speri di poterlo un giorno provare nel mio libro. Dirò solo qui che è certo più probabile che un’osteria, la quale volesse attrarre nel deserto il viaggiatore, si intitolasse a una guida o a un corriere amichevole e trattabile, piuttosto che a un mostro vorace! Qualche volta la vera origine è molto difficile a rintracciare, come nell’osteria che commemora il nostro grande guerriero maomettano, Amir Ali Ben Bhoze, che voi avete così bizzarramente abbreviato in Admiral Benbow! Qualche volta è anche più difficile per chi cerca la verità. C’è un sito dove si beve, qui vicino, che si chiama «La Vecchia Nave»...

Gli occhi della giovane rimasero sull’arco dell’orizzonte rigidi come l’arco stesso: ma tutta la sua faccia si alterò e si colorì. La spiaggia era quasi deserta, ora: l’ateo era inesistente come il suo dio; e coloro che avevano sperato di scoprire che diavolo si facesse con quelle scatole di cartone, se n’erano andati a prendere il

6 Qui il gioco è sull’assonanza: «The Green Dragon» significa «Il Drago Verde» e «The Agreeing Dragoman» il «Dragomanno Compiacente».

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loro tè senza averlo saputo. Ma la giovane donna era ancora là appoggiata alla ringhiera. Il suo volto si era improvvisamente ravvivato e pareva quasi che il suo corpo non si potesse muovere.

— Conviene ammettere – continuò il vecchio dall’ombrella verde – che letteralmente non c’era traccia di nomenclatura asiatica nelle parole «La Vecchia Nave». Ma anche in questo caso, chi cerca la verità si può mettere in contatto coi fatti. Ho interrogato il proprietario de «La Vecchia Nave» che è, secondo gli appunti che ho preso nel mio taccuino, un certo signor Pump...

Le labbra della giovane tremarono.— Povero vecchio Pump – mormorò ella. – Me n’ero

dimenticata! Egli deve essere infastidito quasi quanto me. Spero bene che costui non farà sciocchezze. Sarebbe meglio che non se ne occupasse!

— E il signor Pump mi ha detto che l’osteria era stata battezzata da un suo intimo amico, un Irlandese che era stato capitano nella Reale Marina Britannica, ma aveva dato le dimissioni in segno di protesta per il modo con cui gli Inglesi trattano l’Irlanda. Sebbene avesse lasciato il servizio, egli conservò ancora tanto spirito marinaresco da dare all’osteria del suo amico il nome della sua vecchia nave. Ma siccome il nome della nave era Il Regno Unito...

La sua ascoltatrice, che invece di sedere ai suoi piedi si protendeva in avanti sopra la sua testa, chiese nella solitudine della spiaggia, con una voce forte e chiara:

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— Potete dirmi il nome del Capitano?Il vecchio ebbe un sussulto, battè le palpebre e sgranò

tanto d’occhi, come un gufo spaventato. Avendo parlato per delle ore, come se avesse avuto un uditorio di migliaia di persone, egli sembrò improvvisamente molto imbarazzato trovando che aveva un uditorio di una sola persona. In quel momento lui e lei sembravano quasi le sole creature umane sulla spiaggia; quasi le sole due creature viventi, eccettuati i gabbiani. Il sole, nello scomparire definitivamente, sembrava che si fosse spezzato come si spezzerebbe un’arancia sanguigna, e strisce di una luce rosso-sangue si disegnavano sul cielo basso e uguale. Questa luce tarda e improvvisa fece scolorire il fez rosso e l’ombrella verde dell’uomo, ma la sua figura oscura rimase inalterata; solo appariva più agitata di prima.

— Il nome – egli disse – il nome del Capitano! Mi risulta che era Dalroy. Ma quello che io desidero di farvi notare, quello che io desidero dimostrare è che anche qui, colui che cerca la verità trova il filo delle sue idee. Il signor Pump mi ha spiegato che egli sta rimettendo in ordine la sua osteria per festeggiare il ritorno del Capitano, il quale, a quanto pare, si è arruolato in una piccola marina, ma l’ha poi lasciata e sta per venire a casa. Ora, fate bene attenzione, tutti voi, amici miei – egli disse ai gabbiani – che anche qui tutto è strettamente logico!

Egli disse questo ai gabbiani perchè la giovane signora, dopo averlo guardato per un momento fissa,

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con occhi attenti, ed essersi appoggiata pesantemente alla ringhiera, gli aveva rivolto le spalle ed era scomparsa subitamente, nel crepuscolo. Cessato anche il rumore dei suoi passi, non si udiva più che il mugghiare del mare, lo stridìo di qualche uccello e il suono di un continuato soliloquio.

— Fate bene attenzione – proseguì l’uomo, roteando la sua ombrella con tanta furia, che quasi si apriva come una verde bandiera al vento, e poscia piantandola nella sabbia, nella quale i suoi antenati guerrieri avevano così spesso piantato le loro tende. – Fate bene attenzione voi tutti a questo fatto meraviglioso, che quando, essendo sorpreso per il momento, imbarazzato, confuso, potreste anche dire, per l’assenza di ogni assoluta traccia di influenza orientale nella frase «La Vecchia Nave», io domandai da quali paesi facesse ritorno il Capitano, il signor Pump mi disse solennemente: – Dalla Turchia. Dalla Turchia! – Dal paese più vicino alla Religione. Lo so che gli uomini dicono che non è la nostra patria. Che cosa importa da che parte veniamo, se portiamo il messaggio del Paradiso? Noi lo portiamo a galoppo di cavallo e non abbiamo tempo di fermarci qua e là. Ma quello che noi portiamo è il solo credo che abbia avuto riguardo per quella che voi chiamate, con le vostre risonanti parole, la «verginità della ragione umana», che non ha collocato alcun uomo più in alto del Profeta ed ha rispettato la solitudine di Dio!

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E, ancora una volta, egli aprì le braccia, come se parlasse a un meeting di milioni di ascoltatori, solo solo, sulla nera spiaggia del mare.

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CAPITOLO IILA FINE DELL’ISOLA DEGLI ULIVI

Il grande drago dai colori mutevoli che si dimena intorno al mondo come un camaleonte, era di un verde pallido là dove bagnava Pebbleswick, ma di un bleu vivo là dove si rompeva contro le isole Jone. Una delle innumerevoli isolette, quasi poco più di una roccia, piana e bianca, nella distesa azzurra, era celebrata come l’isola degli ulivi; non perchè fosse ricca di tale vegetazione, ma perchè, per un capriccio del suolo o del clima, vi crescevano due o tre ulivi di un’altezza senza pari. Anche nel calore pieno del sud, infatti, non è cosa solita per un albero di ulivo diventare più alto di un pero comune: ma i tre ulivi che colà si ergevano, avrebbero potuto essere scambiati, eccetto che per la forma, per pini o larici del nord, di una misura moderata. L’isola era anche connessa con qualche antica leggenda greca intorno a Pallade, patronessa dell’ulivo; perchè tutto quel mare parlava delle prime favole dell’Ellade e dalla piattaforma di marmo, sotto l’ulivo, si poteva vedere il grigio profilo di Itaca.

Sull’isola e sotto gli alberi, c’era una tavola all’aperto, coperta di carte e di calamai. Quattro uomini vi sedevano intorno: due in uniforme e due in abiti

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borghesi neri. Aiutanti di campo, scudieri, e simili personaggi, se ne stavano ritti in gruppo sullo sfondo, e dietro di essi si vedeva una fila di due o tre corazzate che emergevano dal mare.

Perchè si stava per dare la pace all’Europa!Era da poco finita la lunga agonia di uno dei molti e

vani sforzi diretti a spezzare la potenza della Turchia e a salvare le piccole tribù cristiane. C’erano state molte altre riunioni del genere nell’ultima fase della guerra, quando, una dopo l’altra, le minori nazioni avevano abbandonato la lotta o le grandi erano intervenute per far loro coercizione. Ma le parti in causa si erano oramai ridotte a queste quattro; perchè le Potenze dell’Europa, essendo d’accordo sulla necessità di una pace su una base turca, erano contente di lasciare questi ultimi negoziati all’Inghilterra e alla Germania, che avevano i mezzi per far rispettare le condizioni che si sarebbero pattuite. Cera, naturalmente, un rappresentante del Sultano, e c’era pure un rappresentante del solo nemico del Sultano, che non fosse ancora venuto a patti.

Una piccolissima potenza, infatti, aveva, da sola, combattuto per mesi e mesi con tale tenacia e con tali successi (sia pure temporanei) da suscitare la più alta meraviglia. Un Principe oscuro e a mala pena riconosciuto, che si faceva chiamare il «Re d’Itaca», aveva compiuto nel mediterraneo orientale gesta di tanto valore da non essere indegne dell’audace confronto che richiamava il nome della sua isola. I poeti non potevano fare a meno di domandarsi se non si

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trattava di Ulisse redivivo; e i patrioti greci, ancorchè fossero stati essi stessi costretti a deporre le armi, non potevano fare a meno di sentire una grande curiosità di conoscere la stirpe greca o il nome greco che vantava la nuova eroica casa reale. Fu perciò con non poco spasso che il mondo finalmente scoperse che il discendente di Ulisse era un impudente avventuriero irlandese di nome Patrick Dalroy, il quale era stato un tempo nella marina da guerra inglese, e aveva avuto dei guai a cagione delle sue simpatie feniane e aveva dato le dimissioni. Da allora era passato attraverso molte avventure, sotto molte uniformi, e aveva messo se stesso, e altri, in più di una critica situazione per una straordinaria mistura di cinismo e di donchisciottismo. Nel suo fantastico piccolo regno era stato, naturalmente, generale, ammiraglio, ministro degli esteri e ambasciatore di... se stesso; ma si era sempre preoccupato di interpretare i desideri del suo popolo nelle cose essenziali della pace e della guerra. Era stato, appunto, per volontà del suo popolo che era venuto finalmente a deporre la sua spada. Oltrechè per la sua abilità professionale, egli, soprattutto, era famoso per una enorme forza muscolare e per la sua statura. È costume oggidì, nei giornali, affermare che la semplice forza muscolare e barbarica nulla conta nelle azioni militari moderne. Ma questa può essere un’opinione esagerata come la sua opposta. In guerre come queste dell’Oriente, nelle quali tutte le popolazioni sono leggermente armate e gli assalti personali sono comuni, un capo capace di difendersi ha

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un effettivo vantaggio, e non è poi vero, nemmeno generalmente parlando, che la forza non sia utile. Questo fu ammesso da Lord Ivywood, il ministro inglese, il quale faceva osservare a Re Patrick l’indiscutibile superiorità del modello leggero di cannone da campagna turco; e il Re di Itaca, dicendo che di ciò era più che convinto, osservò che lo avrebbe preso con sè e sarebbe partito portandoselo via sotto il braccio. Questo pure era concesso dal più grande dei guerrieri turchi, egualmente famoso per il suo coraggio in guerra come per la sua crudeltà in pace, ma che portava sulla fronte uno sfregio, fattogli dalla spada di Patrick dopo tre ore di combattimento mortale, e ricevuto, sia detto per la verità, senza ira o vergogna, perchè il Turco è sempre grande in queste cose. Nè la cosa era messa in dubbio dal signor Hart, un amico finanziario del ministro tedesco, che Patrick Dalroy – dopo avergli chiesto per quale delle sue finestre desiderasse essere gettato in casa – aveva gettato per la finestra della camera da letto, al primo piano, e lo aveva fatto con una esattezza così ben calcolata, che egli si era trovato sul letto già in posizione per essere visitato dal medico. Ma, quando s’è ben detto tutto, un gentiluomo irlandese dai muscoli d’acciaio, sopra un’isola, non può guerreggiare in eterno contro l’intera Europa; ond’è che egli venne con rassegnazione, ma senza perdere il suo buon umore, a offrire i patti, dettatigli dalla sua patria adottiva. Egli non avrebbe nemmeno potuto pigliare a pugni tutti i diplomatici (per il che avrebbe posseduto e

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la forza fisica e la inclinazione) perchè, colla parte più sana del suo cervello, capiva benissimo che essi, come lui, non facevano che obbedire a degli ordini. Perciò egli sedette pesantemente alla piccola tavola con un’aria assonnata, nella uniforme bianco-verde della marina di Itaca (da lui inventata), grosso come un toro, mostruosamente giovane per le sue dimensioni, con un collo da toro e due occhi azzurri di toro e dei capelli rossi che stavano così irti da sembrare che la sua testa avesse preso fuoco, come disse qualcuno.

Il personaggio dominante sopra tutti gli altri presenti alla riunione, era Oman Pascià colla sua forte faccia emaciata dall’ascetismo della guerra, con capelli e baffi che sembravano più bruciati dal fulmine che imbiancati dall’età, con un fez rosso in capo e, fra il fez e i baffi, uno sfregio al quale il Re di Itaca evitava di guardare. I suoi occhi avevano una strana mancanza di espressione.

Lord Ivywood, il ministro inglese, era probabilmente il più bell’uomo d’Inghilterra, salvo che, tanto i suoi capelli come la carnagione, mancavano quasi affatto di colore. Contro quell’azzurro mare marmoreo, egli avrebbe quasi potuto sembrare una di quelle vecchie statue marmoree che sono impeccabili nelle linee, ma mostrano solo ombre di grigio e di bianco. Se i suoi capelli apparivano color argenteo opaco o bruno-chiaro, era solo per la luce; e la sua splendida maschera non mutava mai di colore o di espressione. Era uno degli ultimi vecchi oratori parlamentari e, tuttavia, era un uomo relativamente giovane. Qualunque cosa dovesse

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dire, egli sapeva dirla con bella fioritura di linguaggio; eppure, anche quando le sue labbra vibravano di vita, la sua faccia rimaneva sempre morta. Aveva tutte le piccole vecchie abitudini dei Parlamentari del passato: per dirne una, si alzava in piedi come in un Senato, quando parlava agli altri tre in quella solitudine del mare!

Per tutto ciò egli dava l’impressione di una personalità, in contrasto col signore che gli sedeva vicino, che non parlava mai, ma la cui faccia parlava per lui. Era costui il Dottor Gluck, il ministro tedesco, le cui fattezze non avevano nulla di tedesco, nè lo sguardo tedesco, nè l’aria sonnolenta tedesca. La sua faccia era vivida come una fotografia a colori marcati ed era mobile come un cinematografo, ma le sue labbra scarlatte non si aprivano mai per parlare. Gli occhi, fatti a mandorla, pareva brillassero di tutte le luci fuggevoli dell’opale, e i baffetti neri arricciati pareva qualche volta si riarricciassero da sè, come farebbe un nero serpentello vivo; ma non un suono usciva dalla sua bocca. Egli mise una carta davanti a Lord Ivywood. Lord Ivywood si infilò un paio di occhiali per leggerla e con gli occhiali parve di dieci anni più vecchio.

Era semplicemente l’ordine del giorno contenente le ultime cose che dovevano essere definite in quest’ultima conferenza. Il primo punto diceva: – L’ambasciatore di Itaca chiede che le ragazze prese negli harem dopo la cattura di Pylos, siano restituite alle loro famiglie. Questo non si può concedere.

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Lord Ivywood sorse in piedi. La sola bellezza della sua voce fece una grande impressione a chi non l’aveva mai udita.

— Eccellenze e signori – egli disse – un uomo di Stato, la cui politica io certo non approvo, ma alla posizione del quale nella storia, io non potrei ragionevolmente aspirare, vi ha reso familiare una frase intorno a «una pace con onore»7. Ma quando noi dobbiamo celebrare una pace fra soldati storici come Oman Pascià e S. M. il Re di Itaca, io penso che possiamo ben parlare di «una pace con gloria».

Egli sostò un istante, durante il quale perfino il silenzio del mare e della roccia sembrò pieno di un applauso generale, avendo con tanta perfezione dette queste parole!

— Io credo che un solo pensiero domini le nostre menti, quali possono essere state le nostre molte differenze in questi lunghi e difficili mesi di trattative. Io credo che uno solo ora sia il nostro pensiero. Che la pace, cioè, sia integrale come la guerra, che la pace possa essere ardita come la guerra.

A questo punto fece un’altra pausa e sentì come un fantastico applauso che veniva non dalle mani, ma dalla testa dei presenti. E continuò:

— Se noi dobbiamo smettere di combattere colle armi, sarà bene che smettiamo anche di contendere colle

7 Si tratta della famosa frase pronunciata da Disraeli quando fece ritorno a Londra dal Congresso di Berlino.

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parole. Un’amnistia sembrerebbe la cosa più adatta, quando una pace così sublime sta per suggellare una così sublime lotta. E se c’è una cosa che un vecchio diplomatico vi possa consigliare, io vorrei darvi questo consiglio: che legami amichevoli o domestici che sono stati fatti durante questo periodo turbolento non siano nuovamente disturbati. Poichè sono abbastanza attaccato alle vecchie idee. Nè io sarò così antiliberale da non estendere agli antichi costumi dell’Islam quanto vorrei estendere agli antichi costumi della Cristianità. Per una proposta che ci è stata presentata noi dovremmo ora recriminare sul fatto se certe donne hanno lasciato le loro case volontariamente o meno. Ora, per parte mia, non so concepire una controversia più pericolosa a iniziarsi e più impossibile a concludersi. Io oso dire che esprimo il pensiero di voi tutti quando affermo che, quali siano stati i torti commessi da una parte e dall’altra, le case, i matrimoni, le sistemazioni familiari di questo grande Impero Ottomano debbono rimanere come sono oggidì.

Nessuno si mosse, eccetto Patrick Dalroy che portò per un momento la mano all’elsa della spada e fissò tutti i presenti con occhi fierissimi. Ma subito dopo lasciò ricadere la mano e diede improvvisamente in una grande risata.

Lord Ivywood non vi fece caso, ma riprese in mano l’ordine del giorno e inforcò un’altra volta gli occhiali, che lo facevano apparire più vecchio. Lesse – a bassa voce, naturalmente – il secondo punto. Il ministro

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tedesco, con una faccia tutt’altro che tedesca, aveva scritto questa nota per lui: – Tanto Coote come i Bernstein insistono che per il marmo ci devono essere i Cinesi. Non ci si può fidare, presentemente, dei Greci nelle cave.

— Ma, mentre – continuò Lord Ivywood – noi desideriamo che queste istituzioni fondamentali, come la famiglia Maomettana, rimangano quali sono anche in questo momento, non siamo certo propensi a un ristagno sociale. Nè pretendiamo che la grande tradizione dell’Islam sia capace da sola a far fronte alle necessità dell’oriente. E vorrei chiedere seriamente alle Eccellenze Vostre perchè mai noi dovremmo esser così vani da supporre che il solo rimedio per l’Oriente sia necessariamente l’Occidente. Se occorrono nuove idee, se è necessario nuovo sangue, non sarebbe forse più naturale fare appello alle vivissime e laboriosissime civiltà che formano la vostra riserva dell’Oriente? L’Asia in Europa, se il mio amico Oman Pascià mi permette questa osservazione critica, ha significato finora un’Asia in armi. Quand’è che vedremo l’Asia in Europa e nello stesso tempo un’Asia in pace? Queste, comunque, sono le ragioni che mi inducono a dare il mio assentimento a uno schema di colonizzazioni.

Patrick Dalroy saltò in piedi, su dalla sedia afferrandosi a un ramo d’ulivo che aveva sopra la testa. Egli si mise in posizione, appoggiandosi con una mano al tronco dell’albero e semplicemente li fissò ben ben in viso. Ma tosto gli venne di riflettere alla inanità della

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semplice forza fisica. Egli avrebbe potuto scaraventarli tutti quanti in mare, ma con quale risultato? Altri uomini dalla parte del torto sarebbero stati accreditati alla campagna diplomatica e il solo uomo che era dalla parte della ragione, sarebbe stato discreditato in tutto e per tutto. Nella sua furia, scosse il ramo d’ulivo sopra la sua testa. Ma egli non disturbò affatto Lord Ivywood che aveva appena letto il terzo punto del programma («Oman Pascià insiste sulla distruzione dei vigneti») e si era nel frattempo impegnato in una perorazione che in seguito divenne famosa e si può trovare in molti testi scolastici di retorica. Egli era nel mezzo di essa prima che l’ira e la stupefazione permettessero a Dalroy di seguire le parole.

— ...e non dobbiamo forse nulla – diceva il diplomatico – a quel gesto di alto rifiuto per cui, molti secoli fa, il Grande Mistico dell’Arabia allontanò la coppa di vino dalle sue labbra? Non dobbiamo nulla alla lunga vigilia di una razza eroica, alla lunga astinenza colla quale si è voluta condannare la bellezza del vino come velenosa? La nostra è un’età nella quale gli uomini sempre più si convincono che tutti i «credi» hanno in serbo l’uno per l’altro, e che ogni religione ha un segreto per il suo vicino. Se è vero – ed io invoco ancora l’indulgenza di Oman Pascià dicendo che, a parer mio, è vero – se è vero che noi dell’Occidente abbiamo dato qualche luce all’Islam facendogli apprezzare la pace e l’ordine civile, non possiamo dire che l’Islam, a sua volta, ci darà la pace in mille case e ci

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incoraggerà a sopprimere quella maledizione che tanto ha contribuito a guastare e a confondere la virtù della cristianità d’Occidente? Già nel mio paese non si verificano più quelle orge che fecero orribili le notti delle più nobili famiglie. Già la legislazione va liberando il popolino, con misure draconiane, dalla schiavitù del liquore che tutto distrugge. Non v’è dubbio che il Profeta della Mecca vada raccogliendo i frutti della sua predicazione; il cedere i vigneti in questione al più grande dei suoi campioni è l’atto più indicato per una giornata come questa; per una felice giornata che può ancora liberare l’Est dalla maledizione del vino. Il valoroso principe che finalmente viene oggi a noi coll’offerta di un ramo d’ulivo, anche più glorioso della sua spada, può, noi ben lo comprendiamo, considerare la cessione con un senso di sentimentale tristezza; ma io sono sicuro che verrà un giorno in cui egli per primo se ne rallegrerà. E vorrei richiamare alla vostra memoria che non il vino soltanto è stato il segno della gloria del Sud. C’è un altro albero sacro non macchiato da ricordi violenti, innocente del sangue di Penteo o di Orfeo dalla lira spezzata. Noi dimostreremo fra breve, da questo posto, come tutte le cose passano e periscono:

Far called, our navies melt away,On dune and headland sinks the fire,

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And all our pomp of yesterdayIs one with Nineveh and Tyre8.

Ma fino a quando il sole potrà illuminare e la terra dare frutti, uomini e donne più felici di noi guarderanno a questa isoletta solitaria che dirà da se stessa la sua storia: perchè essi vedranno questi tre sacri ulivi ergersi in eterna benedizione sull’umile posto da cui venne la pace del mondo!

Gli altri due guardavano a Patrick Dalroy, la cui mano teneva stretto l’albero, mentre il suo ampio petto si gonfiava per lo sforzo titanico che faceva. Un piccolo sasso si mosse ai piedi dell’albero, come se fosse una cavalletta che saltasse; quindi le radici attorcigliate dell’ulivo uscirono lentamente dalla terra come le membra di un drago che si svegliasse dal sonno.

— Io offro un ramo d’ulivo – disse il Re di Itaca barcollando e sporgendo l’albero sradicato la cui vasta ombra, più vasta dell’albero, si proiettò sopra l’intero concilio. – Un ramo d’ulivo – aggiunse affannato – più glorioso e più pesante della mia spada.

Poi fece un altro sforzo e lo scaraventò nel mare di sotto. Il tedesco che non era tedesco, aveva sollevato il braccio paurosamente come per ripararsi quando l’ombra era passata sopra di lui. Ora si alzò e, vedendo che l’irlandese stava strappando il secondo albero, si

8 Chiamate lontano, le nostre flotte dileguano, – sulla duna e sul capo il fuoco si estingue – e tutta la nostra pompa di ieri – è una cosa sola con Ninive e Tiro.

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allontanò dalla tavola. Il secondo albero venne su più facilmente, e prima di mandarlo a raggiungere il primo, Dalroy ristette un momento come se giocherellasse con una torre.

Lord Ivywood mostrò più fermezza, ma poi si alzò con atto di tremenda protesta. Solo il pascià turco se ne rimaneva immobile, cogli occhi smarriti. Dalroy sradicò anche il terzo albero, lo buttò in mare e lasciò, così, l’isola nuda.

— Ecco fatto – disse Dalroy quando il terzo ed ultimo ulivo piombò nell’acqua. – Ora me ne andrò. Oggi ho visto qualche cosa che è peggiore della guerra: il suo nome è Pace.

Oman Pascià si alzò e gli tese la mano.— Voi avete ragione – disse egli in francese – e io

spero che ci incontreremo ancora in quella che è la sola vita buona. Dove andate ora?

— Me ne vado a «La Vecchia Nave».— Volete dire che intendete far ritorno alle corazzate

del Re inglese?— No, – rispose l’altro. – Me ne vado a «La Vecchia

Nave», che si trova dietro dei meli, presso Pebbleswick, dove l’Ule scorre fra gli alberi. Temo che colà non vi vedrò mai!

Dopo un istante di esitazione, egli afferrò la mano del grande tiranno e si diresse alla sua barca senza degnare di uno sguardo i diplomatici.

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CAPITOLO IIIL’INSEGNA DE «LA VECCHIA NAVE»

A pochi è toccato il nome di famiglia: Pump, e, di questi, pochi ebbero la pazzia di chiamare per giunta un bambino col nome proprio di Humphrey. A tale estremo tuttavia erano ricorsi i parenti dell’oste de «La Vecchia Nave», così che il loro figliuolo finì per essere chiamato Hump dai suoi più cari amici e Pump da un vecchio Turco dall’ombrella verde. Tutto ciò (o tutto ciò che ne seppe) egli sopportò con un malinconico sorriso, perchè il suo era un temperamento stoico.

Il signor Humphrey Pump se ne stava fuori della sua osteria, la quale era quasi sulla spiaggia, riparata solo da un filare di meli nani, attorcigliati e salati dall’aria marina; ma di fronte ad essa c’era un giuoco di bocce, chiuso fra alte sponde, e al di là il terreno si abassava improvvisamente, così che la strada scompariva nella profondità e nel mistero di piante più alte. Il Signor Pump se ne stava proprio sotto l’insegna della sua osteria: un palo di legno, piantato nell’erba, dipinto di bianco sosteneva una tavola di legno quadrata, pure dipinta di bianco e decorata con la figura di una nave, così grottesca che si sarebbe detta disegnata da un ragazzo; ma in essa, il patriottismo del signor Pump

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aveva insinuato una larga e sproporzionata croce rossa, di San Giorgio!

Il signor Humphrey Pump era uomo di media statura, con delle spalle larghe, che vestiva una specie d’abito da caccia con alte uose. Era in quel momento proprio intento a ripulire e a ricaricare un fucile a due canne, un’arma corta ma potente, che egli aveva inventato o almeno perfezionato e che, sebbene abbastanza eccentrica paragonata colle armi ultimo modello, pure non era nè inadatta al suo scopo nè del tutto fuori corso. Perchè Pump era un uomo di particolare destrezza, che sembrava avere cento mani come Briareo: egli faceva ogni cosa da sè, ed ogni cosa in casa sua aveva alcun che di diverso dalle cose che si trovano nelle altre case. Era anche furbo come Pan, e un famoso bracconiere, in fatto di uccelli e di pesci, di fiori e di frutta. La sua mente era come un ricco terreno nel quale riposavano, più o meno consapevolmente, memorie e tradizioni; ed egli aveva un modo curioso di parlare per allusioni, e quasi reticente, perchè faceva sempre conto che ognuno conoscesse la sua contea e le sue storie intimamente, come la conosceva lui. Conseguentemente, era solito accennare anche alle cose più straordinarie e misteriose senza che un solo muscolo della sua faccia, la quale sembrava di legno rugoso, si muovesse. I suoi capelli neri finivano da una parte e dall’altra in due basette che gli davano una certa aria di cavallerizzo nello stile di uno sportsman dei tempi andati. Aveva un sorriso piuttosto malizioso, ma i suoi occhi castani avevano una

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espressione riposata e dolce. Egli era intimamente Inglese.

Di solito i suoi movimenti, per quanto rapidi, erano freddi e calcolati; questa volta, però, posò il fucile sulla tavola fuori dell’osteria in modo piuttosto brusco e si fece avanti pulendosi le mani con animazione e con deferenza. Al di là dei bassi alberi di melo e contro il mare, era comparsa l’alta sottile figura di una giovane vestita di un abito color rame, con un largo cappello che ne ombreggiava la faccia grave e bella per quanto un po’ bruna di carnagione. Ella strinse la mano al signor Pump, che cerimoniosamente le offrì una sedia chiamandola Lady Giovanna.

— M’è venuto il desiderio di dare un’occhiata a questi vecchi luoghi – disse ella. – Noi abbiamo passato dei giorni felici qui, nella nostra fanciullezza! Immagino che voi non vedrete quasi più alcuno dei vostri vecchi amici, ora.

— Pochissimi – rispose il signor Pump grattandosi una delle basette, con un’aria riflessiva. – Lord Ivywood, lo sapete bene, è diventato un metodista9 bigotto da quando ha acquistato questo posto e il suo gran lavoro è di far chiudere bar e birrerie a destra e sinistra. Il signor Carlo è stato mandato in Australia per aver fatto comprendere la sua disapprovazione. È stata

9 Il metodismo più che una dottrina fu un risveglio di vita spirituale, suscitato da John Wesley, in seno all’anglicanesimo ufficiale e decadente del XVIII secolo.

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una severa punizione, ma la vecchia Lady era un terrore!

— Non avete mai avuto notizie – chiese Lady Giovanna Brett, con un’aria indifferente – di quell’irlandese, il Capitano Dalroy?

— Sì, più spesso che degli altri – rispose l’oste. – Pare che abbia fatto meraviglie in tutte queste faccende greche. Ah, la sua è stata una grande perdita per la nostra marina!

— Hanno insultato il suo paese – disse la giovane, le cui guance si colorirono. – Dopo tutto, l’Irlanda era la sua patria ed egli non aveva torto di risentirsi sentendone parlare in quel modo.

— E quando trovarono che lo aveva dipinto di verde, – continuò il signor Pump.

— Dipinto di verde chi? – chiese Lady Giovanna.— Il capitano Dawson – proseguì il signor Pump

senza scomporsi. – Il capitano Dawson aveva detto che il verde era il colore dei traditori irlandesi, e allora Dalroy lo dipinse di verde. La tentazione era forte; stavano appunto dipingendo questa siepe e il secchio dei colori era lì, sotto mano; ma, naturalmente, la cosa non poteva a meno di pregiudicare la sua carriera.

— Che storia straordinaria! – esclamò Lady Giovanna aprendo gli occhi e dando in uno scoppio di risa; – deve passare ai posteri come una leggenda nella vostra contea. È la prima volta che odo questa versione. Che sia questa l’origine de «l’Uomo Verde» che c’è laggiù, in città?

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— No, no – fece Pump semplicemente. – Quello era là fino dai tempi prima di Waterloo. Lo aveva tenuto il povero vecchio Noyle, finchè lo misero via. Vi ricordate, eh, il vecchio Noyle, Lady Giovanna? Sempre vivo, mi dicono, e sempre occupato a scrivere lettere d’amore alla Regina Vittoria. Solo, ora, naturalmente, non sono più impostate.

— Avete avuto notizie del vostro amico Irlandese recentemente? – chiese la giovane senza distrarre lo sguardo dalla linea dell’orizzonte.

— Sì, ricevetti una sua lettera la settimana scorsa – rispose l’oste. – Sembra probabile che egli faccia ritorno in Inghilterra. Ha preso parte a negoziati per uno di questi greci e i negoziati pare che siano finiti ora. E, guardate che curiosa coincidenza: chi rappresentava l’Inghilterra in questi stessi negoziati era proprio Lord Ivywood.

— Già – disse Lady Giovanna – egli ha evidentemente una grande carriera davanti a sè.

— Io vorrei che non trattasse noi come ci tratta – mormorò Pump. – Non credo che rimarrà in piedi una sola osteria in tutta l’Inghilterra. Ma gli Ivywood sono sempre stati un po’ tocchi. Basta ricordare suo nonno.

— Non mi pare cortese da parte vostra – disse Lady Giovanna con un sorriso – chiedere a una signora di ricordarsi di suo nonno.

— Voi sapete che cosa voglio dire – continuò Pump con un’aria comica. – E, da parte mia, non ho mai voluto giudicare troppo male; tutti quanti abbiamo le

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nostre manìe. Per mio conto, non mi piacerebbe che una cosa simile si facesse al mio maiale; ma non vedo perchè uno possa prendere seco il proprio maiale e metterlo sulla panca di chiesa. Non era una panca pubblica. Era una panca di famiglia.

Lady Giovanna si mise ancora a ridere:— Che orribili storie vi hanno mai contato! – disse

ella. – Basta, me ne devo andare, signor Hump, voglio dire signor Pump! Ero abituata a chiamarvi Hump... Oh, Hump, credete che saremo ancora così felici un giorno?

— Dipende dalla Provvidenza, immagino – disse egli guardando al mare.

— Oh, dite ancora la Provvidenza – esclamò la giovane. – È come chi dicesse: «Mosterman Ready»10.

Con le quali parole inconcludenti ella riprese il sentiero lungo gli alberi di mele e rientrò costeggiando il mare a Pebbleswick.

L’osteria de «La Vecchia Nave» sorgeva un poco più in là del vecchio villaggio peschereccio di Pebbleswick, il quale, a sua volta, era distante circa un chilometro dalla nuova stazione balneare di Pebbleswick-sul-Mare. Ma la signora dai capelli neri si avviò lungo un viale alberato costruito a est e a ovest collo stolto ottimismo di tutte le stazioni balneari, e, come si trovò vicina alla parte più affollata, ristette ad osservare con qualche attenzione i gruppi che erano sulla spiaggia. Erano

10 È il titolo di un romanzo per ragazzi, popolarissimo, del Cap. P. Marryat. L’allusione si spiega perchè nelle avventure di Mosterman Ready la Provvidenza è tutto.

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press’a poco gli stessi che aveva visti un mese avanti. I ricercatori della verità (come avrebbe detto l’uomo in fez), che si riunivano là tutti i giorni per scoprire che diavolo facesse l’uomo con le scatole di carta, non erano ancora venuti a capo del mistero, nè parevano ancora stanchi della loro curiosità. Piccole monete erano sempre gettate nel cappello dell’ateo, che fulminava colla sua oratoria e insultava tutti quanti, e la cosa era inesplicabile, perchè la folla era, evidentemente, indifferente, mentre l’ateo, evidentemente, era sincero. L’uomo dal collo lungo, che dirigeva gli inni della Chiesa Bassa11 colla piccola pala di legno, era, per la verità, scomparso, perchè i servizi religiosi per ragazzi di questo genere, sono di solito dei trattenimenti peripatetici; ma l’uomo, il cui solo titolo alla curiosità del pubblico era la corona di carote intorno al cappello, stava ancora là e pareva che avesse raccolto più denaro di prima. Lady Giovanna, tuttavia, non potè vedere traccia del vecchio ometto in fez. La sola ipotesi che le venne di fare, fu che gli affari gli fossero andati male, e, essendo di cattivo umore, pensò anche che dovevano essergli andati male perchè, in tutte le sciocchezze che diceva, c’era pure qualche cosa, per quanto pazzesca, di cui tutti quegli altri idioti dovevano essere incapaci. Ella non confessò a se stessa la verità: che, cioè quello che

11 Denominazione di un settore della chiesa anglicana, il più vicino all’Evangelismo protestante delle origini, sebbene contaminato anch’esso dal liberalismo.

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rendeva interessanti per lei l’uomo dell’osteria e l’uomo in fez, era l’argomento di cui avevano parlato.

Continuando la sua passeggiata lungo il viale, il suo sguardo si imbattè in una ragazza in nero, con dei capelli biondi e una faccia tremula e intelligente, che ella era sicura di aver visto altra volta. Si ricordò, infatti, poco dopo, che era una certa Miss Browning, che aveva lavorato per lei come dattilografa, due o tre anni prima, e tosto le si avvicinò per salutarla, in parte per un sentimento buono e genuino e in parte per sottrarsi ai suoi pensieri piuttosto fastidiosi. Il tono con cui le parlò fu così franco e amichevole, che la giovane in nero prese coraggio e le disse:

— Ho tanto desiderato di presentarle mia sorella, la quale è molto più brava di me, sebbene viva in casa, il che, immagino, non è più di moda. Ella conosce tanti intellettuali! Sta conversando ora appunto con questo profeta della Luna, di cui tutti parlano. Permetta che la presenti.

Lady Giovanna Brett aveva incontrato molti profeti della luna e di altre cose, ma aveva la spontanea cortesia che redime i difetti della sua classe, e seguì Miss Browning fino a un sedile sul viale. Salutò la sorella, con grande gentilezza; e questo deve dirsi a tutto suo credito, perchè aveva provato una certa diffidenza nell’avvicinarla. Accanto a lei, infatti, sedeva ancora, col suo fez, ma in abito nero e nuovo fiammante, con ogni apparenza di prosperità, il vecchio gentiluomo, che

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aveva tenuto sulla spiaggia una conferenza intorno alle osterie d’Inghilterra.

— Egli fece una conferenza alla nostra «Società Etica» – bisbigliò Miss Browning – sulla parola alcool. Proprio sulla parola alcool. È stata una conferenza interessantissima. Ha parlato dell’Arabia, dell’Algebra, sapete bene, dimostrando come tutto quanto venga dall’Est. Interesserebbe molto anche lei.

— Certo – disse Lady Giovanna.— Potete vedere anche voi – l’uomo in fez stava

dicendo alla sorella di Miss Browning – che i nomi delle vostre osterie non avrebbero senso, se non ricordassero l’illimitabile influenza dell’Islam. C’è un bar frequentatissimo in Londra, uno dei più distinti, uno dei più centrali, che si chiama il «Ferro di Cavallo». Ora, amici miei, perchè mai dovrebbe venire in mente a chicchessia di chiamare ferro di cavallo un bar? Io vi ho già dimostrato che il fatto stesso che voi avete in città un bar che si chiama Il Bull...

— Vorrei chiedere... – cominciò Lady Giovanna improvvisamente.

— ...un bar che si chiama il Bull – continuò l’uomo in fez, che non voleva essere interrotto – ed io vi ho dimostrato che Bull richiama un’immagine disturbatrice, mentre Bulbul richiama un’immagine rassicurante! Perchè, dunque, dare a un posto simile il nome di ferro di cavallo, proprio il ferro inchiodato all’unghia del cavallo, invece di dargli il nome dello stesso nobile animale? Certo è chiaro, certo è evidente,

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che il termine «ferro-di-cavallo» è un termine criptico, un termine esotico, un termine coniato nei giorni in cui l’antica fede maomettana di questa terra inglese era oppressa dalla superstizione dei Galilei che passavano anche di qui. Quella forma piegata, quella duplice forma piegata che voi chiamate «ferro-di-cavallo», non è forse chiaramente il Crescente? – ed egli aprì le braccia lunghe e distese, come aveva fatto sulla spiaggia – il Crescente del Profeta, del solo Dio?

— Vorrei chiedere – riprese Lady Giovanna – che spiegazione dareste voi dell’osteria detta dell’«Uomo Verde», che sorge al di là di quella fila di case.

— Esattamente! Esattamente! – gridò il Profeta della Luna in grande eccitamento. – Il ricercatore della verità non avrebbe probabilmente potuto trovare un esempio più ad hoc. Amici miei, ci potrebbe forse essere un uomo verde? Voi sapete che c’è l’erba verde, ci sono le foglie verdi, c’è il cacio verde, c’è la chartreuse verde. Ma io vi domando se voi, con tutte le vostre conoscenze sociali, abbiate mai saputo di un uomo verde. Non v’ha dubbio, amici miei, non v’ha dubbio che questa è una versione imperfetta, una versione abbreviata delle parole originali. Che cosa volete di più chiaro di questo: che l’espressione originale, l’espressione ragionevole, l’espressione-ragione, l’espressione altamente storica, era l’«uomo dal turbante verde», un’allusione, cioè, alla ben nota uniforme dei discendenti del Profeta? La parola «turbante» è proprio una di quelle di origine

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straniera e non familiare, che verosimilmente deve essere stata cancellata e finalmente soppressa.

— C’è da queste parti una leggenda – disse Lady Giovanna con voce ferma. – Un grande eroe, udendo un insulto al colore sacro della sua sacra isola, per tutta risposta, pare che abbia coperto tutto l’insultatore di quel colore.

— Una leggenda! Una favola! – gridò l’uomo in fez tornando ad aprire trionfalmente le sue mani. – È evidente che una cosa simile non può essere avvenuta.

— Oh, sì, è avvenuta realmente – disse adagio la giovane Lady. – Ci sono poche consolazioni per noi in questo mondo, ma qualcuna c’è. Oh, è avvenuta realmente!

E, salutato garbatamente il gruppo, ella riprese la sua passeggiata piuttosto distratta lungo il viale del mare.

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CAPITOLO IVL’OSTERIA METTE LE ALI

Il signor Humphrey Pump era ancora davanti alla sua osteria; il fucile, carico e pulito, stava sulla tavola e la bianca insegna della Nave dondolava sempre alla brezza marina; ma si capiva, dall’espressione della sua faccia, che qualche cosa gli dava da pensare. Teneva nelle sue mani due lettere, una diversa dall’altra, ma entrambe riferentisi allo stesso difficile problema. La prima diceva:

«Caro Hump,

«Io sono così infastidita, che devo chiamarvi ancora semplicemente col vostro vecchio nome. Voi capirete bene che non posso disgustarmi colla mia famiglia: Lord Ivywood è un po’ mio cugino, e per questa e per altre ragioni, se io dovessi offenderlo, farei morire dal dispiacere la mia povera vecchia mamma. Voi sapete che il suo cuore è debole; voi sapete tutto ciò che occorre sapere in questa contea. Basta: lo scopo di questa mia è di avvertirvi che si sta tramando qualche cosa contro la vostra vecchia osteria. Io non so dove mai andremo a finire. Solo un mese fa, ho udito sulla spiaggia uno straccione di ciarlatano con un ombrello

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verde dire le cose più pazzesche di questo mondo. Tre settimane or sono, mi hanno detto che egli teneva delle conferenze alla «Società Etica» e che faceva quattrini. Ebbene, l’ultima volta che vidi Ivywood – vi debbo andare perchè così vuole la mamma – vidi ancora da lui quel mattoide in abito da sera e ho udito gente, che pretende di saperla lunga, parlare di lui in termini elogiativi. Lord Ivywood è completamente sotto la sua influenza e crede ch’egli sia il più grande profeta che il mondo abbia mai visto. E Lord Ivywood non è un imbecille; anzi, non si può far a meno di avere per lui dell’ammirazione. Io vi dico tutto, Hump, perchè penso che questa sarà forse l’ultima lettera onesta che scriverò in vita mia. E vi avverto che Lord Ivywood è sincero – il che è una cosa terribile! Egli sarà il più grande uomo di Stato inglese, ed è sua seria intenzione di rovinare le vecchie navi. Se mai vedeste anche me all’opera, vi prego di perdonarmi. Lascio alla vostra amicizia la persona di cui abbiamo fatto parola, e che io non rivedrò più. È il secondo regalo che posso farvi, e chissà che non sia migliore del primo. Addio.

J. B.».

Pare che questa lettera abbia addolorato il signor Pump, più che imbarazzarlo. La seconda lettera, invece, aveva avuto per lui l’effetto contrario: pare che lo abbia imbarazzato, più che addolorato. Eccone il contenuto:

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«Signore,

«I membri della commissione Imperiale per il Controllo dei Liquori sono stati invitati a richiamare la vostra attenzione sul fatto che voi non avete tenuto conto delle raccomandazioni della Commissione stessa sotto la sezione 5 A della Legge sulla Disciplina dei Luoghi di Pubblico Divertimento; e che voi siete ora sotto la sezione 47 C della Legge che modifica la suddetta Legge sulla Disciplina dei Luoghi di Pubblico Divertimento. I capi di accusa per i quali un procedimento legale sarà iniziato contro di voi sono i seguenti:

1° Violazione della sotto-sezione 23 f della Legge, la quale proibisce che siano esposte delle insegne pittoriche sopra stabilimenti che rappresentino un valore tassabile inferiore alle 400 sterline all’anno;

2° Violazione della sotto-sezione 113 d della Legge, che proibisce la vendita di liquori contenenti alcool, in qualunque osteria, hôtel, taverna o bar, eccetto nel caso in cui ne sia fatta domanda mediante esibizione di un certificato medico, rilasciato da un dottore riconosciuto dal Consiglio Medico Statale, o nei casi, specificamente eccettuati, del Claridge’s Hôtel e del Criterion Bar, dove l’urgenza è stata già provata.

«Poichè voi non avete accusato ricevuta di precedenti comunicazioni al riguardo, questa lettera ha lo scopo di annunciarvi che un’azione legale sarà immediatamente presa contro di voi.

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«Con osservanzaIVYWOOD, Presidente

J. LEVESON, Segretario».Il signor Humphrey Pump sedette alla tavola davanti

alla sua osteria e si mise a fischiare un’aria volgare che, aggiunta alle sue basette, poteva proprio farlo prendere per uno stalliere. Ma la sua faccia non tardò a prendere l’espressione di uomo di spirito e intelligente. Coi suoi occhi vivaci, ora, guardava il mare, ma non pareva che il mare avesse molti consigli da dare. Egli avrebbe potuto affogarvisi, il che per Humphrey Pump sarebbe stato meglio che essere separato da «La Vecchia Nave». Anche l’Inghilterra avrebbe potuto affogare nel mare, il che sarebbe stato meglio per l’Inghilterra, che non avere più luoghi come «La Vecchia Nave». Ma questi non erano rimedi seri nè razionali. Il mare non poteva che fare del male a lui, come lo aveva fatto ai suoi meli. Il mare era, in sostanza, un brutto affare.

C’era una figura solitaria che camminava sulla sabbia, ma fu soltanto quando si fece vicina ch’egli saltò in piedi, con un grido.

L’ex-Re di Itaca veniva su a caso e lentamente dalla spiaggia, in direzione de «La Vecchia Nave». Una lancia di una corazzata che si poteva ancora vedere all’orizzonte l’aveva messo a terra, ed egli vestiva ancora l’uniforme verde-mare e argento che aveva inventato per una marina che non era mai esistita troppo

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e che ora, poi, non esiste affatto. Dal suo fianco pendeva una spadina navale diritta che i termini della capitolazione gli avevano permesso di tenere, e dentro l’uniforme e accanto alla spada, c’era quello che c’era sempre stato: un pezzo d’uomo, con degli occhi un po’ stralunati e con dei capelli rossi e disordinati, la cui disgrazia era di avere un buon cervello, ma, nello stesso tempo, una forza corporale e delle passioni corporali che potevano più del suo cervello.

Egli si era lasciato cadere di peso sulla sedia fuori dell’osteria, prima che l’oste avesse trovato parole per esprimere la sua meraviglia e il suo compiacimento nel rivederlo. Le sue prime parole furono: – Avete del rhum?

Quindi, quasi a spiegare la sua richiesta, aggiunse: – La mia vita di marinaio, mi immagino, è finita. Per questo devo avere del rhum.

Humphrey Pump sapeva che cos’erano le amicizie, e capì perfettamente il suo vecchio amico. Entrò nell’osteria senza dir parola e ne uscì poco dopo facendo rotolare, prima con un piede e poi con un altro (come se giuocasse a foot-ball con due palle in una volta) due oggetti che rotolavano facilmente. Uno era un barilotto di rhum, e l’altro era una forma di cacio che sembrava un tamburo. L’oste si frugava in tasca per cercarvi un suo strumento con cui aprire il barilotto, quando il suo amico irlandese saltò in piedi, come se si destasse improvvisamente, e cominciò a parlare con l’accento tipico del suo paese.

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— Oh, grazie, Hump, mille volte grazie; ma, francamente, no, non voglio nulla da bere. Ora che so che posso averne, ne faccio senza volentieri. Ma ciò che voglio – e in così dire, picchiò un pugno con tanta forza sulla tavola, che quasi ne spezzò una gamba – ciò che voglio è che mi si dica, senza tante sciocchezze, che diavolo succede in questa vostra Inghilterra!

— Ah! – fece Pump, palpando le due lettere meditativamente – cosa intendete per «sciocchezze»?

— Dico che son sciocchezze – esclamò Patrick Dalroy – quando voi mettete il Corano nella Bibbia e non i Libri Apocrifi. E dico che è una sciocchezza permettere a un pazzo di proporre di rizzare un Crescente sulla cattedrale di San Paolo. So che i Turchi sono nostri alleati, ora. Ma lo sono stati anche prima d’ora, eppure io non ho mai udito dire che Palmerston o Colin Campbell abbiano avuto a che fare con simile robaccia.

— Lord Ivywood è pieno di entusiasmo, lo so – disse l’irlandese, ammiccando con l’occhio. Egli guardava ora nella foresta color grigio e porpora, che si stendeva ai loro piedi dietro l’osteria e nella quale la bianca strada scendeva e scompariva. Quella rapida strada pareva come il principio di un’avventura, ed egli era un avventuriero.

— Ma quanto al Crescente sulla cattedrale di San Paolo, – continuò Pump, riprendendo a pulire il suo fucile – voi esagerate. Non si trattava di ciò esattamente. L’idea del dottor Moole, se ho ben capito, era di una

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specie di duplice emblema, una combinazione della croce col Crescente...

— Da chiamarsi Crescente – suggerì ridendo Dalroy.— E non si può mica dire nemmeno che il dottor

Moole sia un prete – continuò Pump mentre seguitava a pulire l’arma. – Anzi, dicono che sia un ateo o quello che chiamano un agnostico, come lo Squire Brunton che era solito mordere gli alberi di olmo presso Marley. I signori hanno di queste bizzarrie, Capitano, ma esse non sono mai durate a lungo, che io mi sappia.

— Eppure, credo che questa volta si tratti di una cosa seria – fece il suo amico, scuotendo la rossa capigliatura. – Questa è l’ultima osteria in tutta l’Inghilterra. Vi ricordate «La Testa del Saraceno» in Plumbea lungo quella spiaggia?

— Certo – fece l’oste.— Vi sono passato ora, ed è stata distrutta – disse

Dalroy.— Distrutta dal fuoco? – chiese Pump posando per un

momento il fucile.— No, – fu la risposta di Dalroy – distrutta dalle

limonate. Gli hanno portato via la licenza. Io ne ho fatto una canzone che adesso vi canterò. – E con un’aria divenuta improvvisamente baldanzosa, egli si mise a cantare, con una voce stentorea, questi versi sopra un motivo da lui inventato.

«The Saracen’s Head» looks down the lane,Where we shall never drink wine again,

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For the wicked old women who feel well-bredHave turned to a tea-shop «The Saracen’s Head».«The Saracen’s Head» out of Araby came,King Richard riding in arms like flame,And where he established his folk to be fedHe set up a spear, and «The Saracen’s Head».But «The Saracen’s Head» outlived the Kings,It thought and it thought of most horrible things,Of Health and of Soap and of Standard Bread,And of Saracen drinks at «The Saracen’s Head».

— Allò – gridò Pump a questo punto – ecco che viene il nobile Lord. Ed io immagino che quel giovane cogli occhiali sia un membro della Commissione, o qualche cosa di simile!

— Venga, venga pure – esclamò Dalroy, e continuò a cantare con una voce che pareva un terremoto:

So «The Saracen’s Head» fulfils its name,They drink no wine – a ridiculous game —And I shall wonder until I’m dead,How it ever came into «The Saracen’s Head».12

12 «La Testa del Saraceno» guarda giù verso il viottolo – dove noi non berremo più vino, – perchè le perfide vecchie che si sentono ben nutrite – hanno trasformata «La Testa del Saraceno» in una bottega da tè.

«La Testa del Saraceno» venne dall’Arabia. – Re Riccardo cavalcava con le sue armi fiammeggianti – e dove stabilì che i suoi si fermassero per mangiare – piantò una lancia e «La Testa del Saraceno».

Ma «La Testa del Saraceno» sopravvisse ai Re – e pensò, e pensò le cose più orribili: – la Salute e il Sapone e il Pane

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Come l’ultima eco di questa sfuriata lirica si perdeva fra gli alberi di melo e giù lungo la ripida strada bianca nella foresta, il Capitano Dalroy si buttò indietro sulla sedia e fece un cenno di saluto amichevole a Lord Ivywood che stava lì ritto sul prato, colla sua solita aria fredda, ma colle labbra leggermente serrate. Dietro di lui c’era un giovanotto nero con un paio di occhiali e un mucchio di carte, stampate, sotto il braccio: presumibilmente, J. Leveson, il segretario. Nella strada c’era anche un gruppo di tre persone, che fece a Pump un curioso effetto di incongruità, come un gruppo di attori in una farsa in tre atti. Il primo era un ispettore di polizia in uniforme: il secondo un operaio con un grembiule di pelle, che pareva un falegname, e il terzo era un vecchio con un fez scarlatto, ma, per tutto il resto vestito d’un abito inglese, alla moda, nel quale, per l’altro, non sembrava che si trovasse molto a suo agio. Egli andava facendo delle rimostranze riguardo all’osteria, col falegname e coll’ispettore, che a mala pena trattenevano le risa.

— Bellissima poesia, mio Lord, – disse Dalroy allegramente. – Adesso ve ne canto un’altra. – E diede un colpetto di tosse, per prepararsi la gola.

— Signor Pump, – disse Lord Ivywood nella sua bella voce che suonava come un campanello. – Ho

standard – e le bibite Saracene a «La Testa del Saraceno».Così «La Testa del Saraceno» risponde al suo nome: – non

bevono vino, una cosa ridicola, – ed io mi domanderò fino alla morte – come mai venne ne «La Testa del Saraceno».

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voluto espressamente venire di persona per mettere ben in chiaro che ogni indulgenza vi è stata usata. La semplice data di questa osteria la mette sotto lo statuto del 1909. È stata eretta quando il mio bisnonno era signore del maniero che allora, se non erro, portava un altro nome...

— Ah, mio Lord, – interruppe Pump con un sospiro – come sarei più contento di avere a che fare col vostro bisnonno, sebbene egli abbia sposato cento negre invece di una, piuttosto che vedere un gentiluomo della vostra famiglia togliere a un povero diavolo il pane da mangiare.

— La legge è stata fatta per recar sollievo ai poveri – continuò Lord Ivywood, senza irritarsi – e i suoi vantaggi saranno da ultimo sentiti da tutti i cittadini egualmente.

Egli si volse un momento al nero segretario, dicendo. – Voi avete la seconda relazione – e ne ricevette, in risposta, un documento.

— È spiegato qui chiaramente – continuò Lord Ivywood, mettendosi gli occhiali – che lo scopo della legge è, in gran parte, di proteggere il risparmio delle classi più umili e bisognose. Il paragrafo 3 dice: «Noi vivamente consigliamo che il deleterio alcool sia vietato, eccetto che in quei pochi posti che il Governo può specificatamente esentare, per parlamentari o altri pubblici ufficiali, e che la ostentazione provocante e demoralizzante delle insegne delle osterie sia proibita, meno che nei casi specificatamente permessi. L’assenza

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di tali tentazioni contribuirà non poco, secondo la nostra opinione a sollevare le precarie condizioni finanziarie delle classi operaie». Questo mi pare che sia una buona confutazione di quanto asserisce il signor Pump, cioè che la nostra inevitabile azione di riforma sociale sia opprimente. Il signor Pump può credere che la cosa sia dura per lui, ma (e qui la voce di Lord Ivywood prese il suo commovente tono oratorio) quale miglior prova potremmo noi desiderare della insidiosità del veleno addormentatore che noi denunciamo, quale miglior prova potremmo noi offrire della corruzione civica che noi cerchiamo di curare, del fatto che uomini buoni e degni, che hanno stabilita la loro reputazione nel paese, possono, vivendo in luoghi come questo, diventare così sordidi e incuranti del bene sociale – o per i fumi del vino, o per le loro meditazioni da ubriachi, sul passato – da vedere il caso solo come un caso proprio e ridere della lunga agonia dei poveri?

Il Capitano Dalroy, che aveva osservato tutto questo tempo Lord Ivywood, col suo sguardo acuto, parlò questa volta con una calma che non gli era abituale.

— Scusate un momento, mio Lord, – disse egli – ma c’è un punto, nella vostra spiegazione, che io temo di non aver ben capito. Voi avete detto che le insegne delle osterie devono essere abolite, e sta bene; ma dove, in via eccezionale, saranno ancora permesse, sarà ivi permesso anche di vendere liquori? In altre parole: supponiamo pure che un Inglese trovi solo un’osteria e solo un’insegna in tutta l’Inghilterra; ma se il posto avrà

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un’insegna d’osteria, avrà dunque anche il vostro amabile permesso di essere una vera osteria?

Lord Ivywood era uomo che sapeva dominare i suoi nervi, il che gli era stato di grande aiuto nella sua carriera politica. Egli non perdette tempo a discutere col Capitano sul locus standi della questione, e rispose semplicemente:

— Sì, la cosa sta come voi dite.— Così ovunque io troverò un’insegna di osteria

permessa dalla polizia, potrò entrare e chiedere un bicchiere di birra, pure permesso dalla polizia.

— Sì, se voi troverete ancora delle insegne d’osteria; ma noi speriamo presto di averle tolte di mezzo tutte quante.

Il Capitano Patrick Dalroy si alzò, alto com’era dalla sedia e, dandosi una stiratina, disse al suo amico:

— Ebbene, Hump, il meglio che ci resti a fare è di portare con noi le cose importanti.

Con due calci formidabili lanciò il barilotto di rhum e la forma di cacio oltre la siepe, sulla strada che scendeva; e su di essa, barilotto e cacio rotolarono andando giù verso la foresta, dove la strada scompariva. Quindi egli afferrò il palo su cui era l’insegna dell’osteria, lo scosse due o tre volte e, finalmente, lo tirò su, come si tirerebbe un ciuffo d’erba.

Tutto ciò era avvenuto prima che alcuno avesse potuto muovere un passo; ma, come egli mise il piede sulla strada, il policeman gli si fece innanzi per tagliargli il passo. Dalroy gli diede il palo dell’osteria

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sulla faccia e sul petto, con tanta forza, che il disgraziato cadde indietro e andò a finire nel fosso che fiancheggiava la strada. Quindi, volgendosi all’uomo in fez, gli puntò il palo sul suo nuovo gilet bianco e lo mise a sedere comodamente sulla strada, con un’aria seria e pensierosa.

Il segretario nero fece l’atto di accorrere in aiuto, ma Humphrey Pump, con un grido, prese il suo fucile dalla tavola e lo puntò contro di lui. Bastò questo per arrestare J. Leveson che, allarmato, arretrò in modo quasi da cadere indietro. Dopo alcuni secondi, Pump scendeva la collina col suo fucile sotto il braccio, andando dietro al Capitano che spingeva avanti il barilotto e la forma di cacio a furia di calci. Prima che il policeman fosse riuscito a tirarsi su dal fosso, erano scomparsi entrambi nel buio della foresta. Lord Ivywood, che era rimasto impassibile durante tutta questa scena senza dare segno di impazienza o di timore (e nemmeno di ilarità, aggiungeremo noi), alzò la mano e fermò il policeman che si apprestava a inseguirli.

— Noi ci renderemmo semplicemente ridicoli, e con noi renderemmo ridicola la legge se – egli disse – inseguissimo ora questi ridicoli teppisti. Dati i mezzi di comunicazione moderni, essi non possono sfuggire, nè possono, nel frattempo, fare alcun male. Ciò che è invece importante è distruggere la loro base di operazione e le loro provviste. Per la legge del 1911, noi abbiamo il diritto di confiscare e distruggere tutto quello che si trovi in un’osteria dove la legge è stata violata.

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Ed egli rimase là per alcune ore, sul prato, osservando, mentre le bottiglie venivano fatte a pezzi e le botti sventrate, pascendosi di quel suo fanatico piacere, piacere che la sua natura strana, fredda, coraggiosa, non poteva attingere nè dal mangiare, nè dal bere, nè dalla donna.

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CAPITOLO VLO STUPORE DELL’AGENTE

Lord Ivywood aveva la debolezza propria degli uomini che vivono soltanto di libri: egli ignorava, non dico il valore di altre fonti di informazione, ma perfino la loro esistenza. Così Humprey Pump sapeva benissimo che Lord Ivywood lo considerava un perfetto ignorante che andava in giro con un volume di Pickwick in tasca ma sarebbe stato incapace di leggere alcun’altra cosa. Ma Lord Ivywood non sospettava che tutte le volte che Humphrey lo guardava, pensasse anche che egli avrebbe potuto facilmente nascondersi in un bosco di piccoli faggi, poichè i suoi capelli grigio-scuri e la sua faccia cenerognola riproducevano esattamente le tre tinte predominanti di un tale crepuscolo silvano. C’è da temere che, in sua gioventù, il signor Pump abbia gustato delle pernici e dei fagiani in circostanze nelle quali Lord Ivywood era, non solo inconsapevole della sua ospitalità, ma perfettamente sicuro che sarebbe stato impossibile eludere la vigilanza dei suoi guardiacaccia. Pure, non è prudente per uno che si considera superiore alle cose fisiche, il parlare di impossibilità fisica.

Epperò Lord Ivywood aveva avuto torto di dire che nella moderna Inghilterra i fuggiaschi non avrebbero

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potuto mettersi in salvo. Si possono fare, a dir la verità, molte cose nella moderna Inghilterra, se si ha l’accortezza di osservare nella loro realtà certe cose che altri generalmente osservano solo nei quadri o di cui sentono solo parlare: se voi avete osservato, per esempio, che molte delle siepi, le quali fiancheggiano le strade, sono più alte e più dense di quanto non appaia e che anche un uomo di grossa corporatura può distendersi dietro di esse prendendo meno posto di quello che voi supponiate; se voi avete osservato che molti suoni naturali sono più simili l’uno all’altro di quello che possa credere un orecchio anche finissimo: come, ad esempio, il suono del mare e quello del vento tra le foglie; se avete osservato che è più facile camminare colle calze, che colle scarpe, purchè sappiate come mettere giù il piede; se voi avete osservato che il numero dei cani che mordono, in qualsiasi circostanza, un uomo è assai minore del numero degli uomini che attenteranno alla vostra vita in una carrozza ferroviaria; se voi avete osservato che non è facile annegare nemmeno in un fiume, se la corrente non è forte e se voi non fate di tutto per suicidarvi; se avete osservato che le stazioni di campagna hanno delle sale d’aspetto inutili, nelle quali nessuno va; e se avete osservato che la gente di campagna vi perdonerà d’averle parlato, ma dirà male di voi per tutta la giornata se non lo fate.

Grazie all’esercizio di queste ed altre arti e scienze, Humphrey Pump fu in grado di condurre il suo amico attraverso i campi, in veste per lo più di bracconiere e

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talora anche di scassinatore di case, per uscire finalmente da una pineta, col barilotto, la forma di cacio e l’insegna, sopra una strada bianca, in una parte del paese dove, per il momento, non potevano essere ricercati.

Di fronte essi avevano un campo di frumento e alla loro destra, sotto l’ombra di alcuni pini, un cottage, un poverissimo cottage, che sembrava fosse schiacciato dal suo tetto di paglia. L’irlandese dai capelli rossi ebbe un curioso sorriso. Egli piantò ritta, nella strada, l’insegna e andò a picchiare alla porta.

Questa gli fu aperta da un vecchio cadente, con tante e tali rughe, che le fattezze del suo volto vi sembravano perdute dentro, come in un labirinto.

Egli non parve accorgersi dell’insegna, ch’era stata piantata nel terreno, alla destra del cottage, ma, con quel tanto di vita che rimaneva nei suoi occhi, guardò meravigliato la statura del Capitano Dalroy, la sua strana uniforme e la spadina che gli pendeva accanto.

— Mille scuse – disse il Capitano, cortesemente – forse siete sorpreso nel vedere la mia uniforme. Questa è la livrea di Lord Ivywood. Tutti i suoi servitori devono vestirsi così. Anzi, mi dicono che lo debbono anche tutti i suoi fittavoli e voi stesso forse... Vi domando scusa per la mia spada. Lord Ivywood tiene molto che ognuno dei suoi uomini abbia una spada. Voi sapete il modo magnifico che ha di dire le cose: «Come possiamo noi sostenere – mi diceva ieri mentre io gli spazzolavo i calzoni – come possiamo noi sostenere che tutti gli

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uomini sono fratelli se rifiutiamo loro il simbolo della virilità? O come possiamo parlar di moderna emancipazione se neghiamo al cittadino l’arma che, in tutti i tempi, ha segnato la differenza fra l’uomo libero e lo schiavo? Nè possiamo temere che di quest’arma si faccia alcun uso barbarico, come insinua il mio onorevole amico che sta pulendo i coltelli, perchè questo dono è un atto sublime di fiducia nella vostra universale passione per i severi splendori della pace; e colui che ha il diritto di colpire è generalmente colui che ha imparato a rispettare».

Dicendo tutte queste corbellerie rapidamente e con larghi gesti della mano, il Capitano Dalroy introdusse il barilotto e il formaggio nella casa dello stupito contadino. Il signor Pump lo seguiva placidamente, col fucile sotto il braccio.

— Lord Ivywood – disse Dalroy, gettando il barilotto del rhum sul tavolo – desidera di bere con voi. Non crediate alle storie che si vanno dicendo, secondo le quali Lord Ivywood sarebbe contrario al bere. Noi, in cucina, siamo soliti chiamarlo Lord Ivywood-dalle-tre-bottiglie. Ma devono essere bottiglie di rhum: nient’altro che rhum, per gli Ivywood! «Il vino può farsi giuoco di noi – egli diceva l’altro giorno (ed io ho notato la frase che mi è parsa felicissima anche per Sua Signoria; egli stava in cima alla scala ed io, che ne pulivo gli scalini, mi sono fermato per prender nota delle sue parole) – il vino può farsi giuoco di noi, ma nelle Sacre Scritture non troverete una sola parola di

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condanna per lo spirito più dolce, sacro a tutti coloro che viaggiano per mare; mai voce di prete o di profeta che si sia alzata per rompere il silenzio delle Sacre Scritture su quanto riguarda il rhum». Quindi egli mi spiegò – continuò Dalroy, facendo segno a Pump di stappare il barilotto – che il grande segreto per evitare i cattivi effetti che un barilotto di rhum potrebbe avere per giovani inesperti, è quello di mangiar insieme del cacio, specialmente questo cacio che abbiamo portato con noi. Non mi ricordo più il suo nome.

— Cheddar – disse Pump gravemente.— Ma badate bene – continuò Dalroy, in tono quasi

feroce, scuotendo il suo indice come un ammonimento verso il vecchio. – Badate bene, niente pane col cacio! Tutta la devastazione fatta dal cacio nelle case, un tempo felici, di questo paese, si deve all’insana abitudine di mangiare pane e cacio. Voi non avrete pane da me, amico mio. Anzi, Lord Ivywood ha ordinato che ogni allusione a questa ignorante e depravata abitudine sia eliminata dal Libro delle Preghiere. Bevete, amico!

Egli aveva già versato un po’ di spirito in due grossolani bicchieri e in una tazza da thè mezzo rotta che il vecchio aveva tirato fuori, ed ora brindava alla sua salute.

— Grazie di tutto cuore – disse il vecchio, mettendo fuori per la prima volta la sua voce fessa. Poi bevve e la sua faccia cambiò, come se fosse stata una vecchia lanterna nella quale si fosse accesa la luce.

— Ah – egli disse – mio figlio è marinaio.

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— Io gli auguro un buon viaggio – fece il Capitano. – E vi canterò anche una canzone intorno al primo marinaio che mai ci sia stato nel mondo e che (come osserva acutamente Lord Ivywood) visse prima dei tempi del rhum.

Egli sedette su uno sgabello di legno e alzò la sua voce stentorea, battendo il tempo sulla tavola, colla tazza da thè.Old Noah he had an ostrich farm and fowls on the largest scale,He ate his egg with a ladle in an egg-cup big as a pail,And the soup he took was Elephant Soup and the fish he took was Whale,

But they all were small to the cellar he took when he set out to sail,And Noah he often said to his wife when he sat down to dine:«I don’t care where the water goes if it doesn’t get into the wine».

The cataract of the cliff of heaven fell blinding off the brinck,As if it would wash the stars away as suds go down a sink,The seven heavens came roaring down for the throats of hell to drink,And Noah he cocked his eye and said: «It looks like rain I think,The water has drowned the Matterhorn as deep as a Mendip mine,But I don’t care where the water goes if it doesn’t get into the wine».

But Noah he sinned, and we have sinned; on tipsy feet we trod,Till a great big black teetotaller was sent to us for a rod,And you can’t get wine at a P.S.A., or chapel, or EisteddfodFor the Curse of Water has come again because of the wrath of God,And water is on the Bishop’s board and the Higher Thinker’s shrine,But I don’t care where the water goes if it doesn’t get into the wine.13

13 Il vecchio Noè teneva un allevamento di struzzi e di polli su larga scala. – Egli mangiava il suo uovo con un mestolo in un portauovo grande come un paiolo, – e la zuppa che prendeva era

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— Questa è la canzone favorita di Lord Ivywood – concluse Patrick Dalroy bevendo. – Cantatecene una voi, ora.

Con sorpresa dei due umoristi, il vecchio cominciò, di fatto, a cantare con voce tremula:

King George that lives in London Town,I hope they will defend his crown,And Bonyparte be quite put down,On Christmas Day in the morning.Old Squire is gone to the Meet to-day,All in his...14.

zuppa di elefante, e il pesce che mangiava era balena. – Ma tutti erano piccoli in confronto della cantina che egli prese quando si mise in mare. – E Noè diceva spesso a sua moglie, quando si sedeva a pranzo: – «Poco mi importa dove vada l’acqua, purchè non vada nel vino!».

La cateratta del cielo cadde in modo da oscurarlo. – Pareva che volesse lavar via le stelle come la saponata che va giù nell’acquaio. – I sette cieli vennero giù tuonando per abbeverare le gole dell’inferno – E Noè ammiccò con l’occhio e disse: «Pare che piova. – L’acqua ha affogato il Cervino ed è profonda come la miniera di Mendip. – Ma poco mi importa dove l’acqua vada, purchè non vada nei vino!».

Ma Noè peccò e noi pure peccammo; noi abbiamo camminato traballando – fino a che un grosso nero astemio ci fu mandato per castigo. – E voi non potete aver vino ai Pleasant Sunday Afternoons o in una cappella o all’Eisteddfod. – Perchè la Maledizione dell’Acqua è venuta un’altra volta per l’ira di Dio, – e l’acqua è sulla dispensa del Vescovo e nel santuario dell’Alto Pensatore. – Ma a me poco importa dove vada l’acqua, purchè non vada nel vino!

14 Re Giorgio vive nella città di Londra. — Io penso che difenderanno la sua corona – e che Bonaparte sia abbattuto la

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È forse una fortuna per la rapidità di questa storia che la favorita canzone del vecchio, che consiste di quarantasette versi, fosse interrotta da un curioso incidente. La porta del cottage si aprì, e un uomo con una faccia da pecora, vestito di fustagno, entrò restando fermo sulla soglia per qualche secondo, e quindi disse senza tanti complimenti:

— Della birra!— Come? Come? – chiese civilmente il Capitano.— Quattro birre – disse l’uomo, senza scomporsi;

quindi, avendo visto Humphrey, parve trovare qualche altra parola nel suo vocabolario.

— Buon giorno, Mr. Pump. Non sapevo che avevate fatto far San Michele a «La Vecchia Nave».

Pump, con un sorriso malizioso, fece segno al vecchio che aveva appunto sospeso di cantare.

— È affare di Mr. Marne, adesso – disse Pump. – Ma, finora, non ha in magazzino che questo rhum.

— Meglio che niente – disse il laconico Mr. Gowl; e mise sulla tavola alcune monete sotto gli occhi di Marne, che le guardò meravigliato. Mentre stava per dire addio, e si passava il dorso della mano sulla bocca, la porta si aprì un’altra volta lasciando passare, col sole, anche un uomo che portava un fazzoletto rosso.

— Buon giorno, Mr. Coote – dissero i tre, uno dopo l’altro.

mattina del giorno di Natale.Il vecchio Scudiero è andato a caccia oggi, – tutto in...

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— Un bicchierino di rhum? – domandò Humphrey Pump, garbatamente.

Anche Mr. Coote ebbe un po’ di rhum e lui pure mise alcune monete sotto gli occhi del vecchio contadino tutto stupito. Mr. Coote stava dicendo che i tempi erano cattivi, ma che la vista di un’insegna di osteria era sempre un conforto, quando la compagnia si accrebbe per l’arrivo di un chiassoso e popolarissimo calderaio che ordinò non so quanti bicchieri dicendo che aveva fuori il carro e l’asino, che aspettavano. Ne seguì una prolungata, vivace e confusa conversazione intorno all’asino e al carro nella quale ognuno espresse la sua opinione in merito; nè andò molto che Dalroy si persuase che il calderaio voleva fare affari.

Colpito improvvisamente da un’idea, si precipitò fuori per dare un’occhiata al carro e all’asino. Subito dopo rientrò e chiese al calderaio quanto volesse, facendo poi lui stesso un’offerta assai maggiore di quanto il calderaio si sarebbe mai sognato di domandare. Il che parve una pazzia compatibile solo in un gentiluomo. Però il calderaio bevve ancora un po’ di rhum, al momento del pagamento, dopo di che Dalroy, facendo tante scuse, sigillò il barilotto e lo portò fuori insieme colla forma di cacio, per riporli in fondo al carro. Il denaro, tuttavia, era ancora là, monete d’argento e di rame, davanti alla barba bianca del vecchio Marne.

Non ci sarà bisogno di dire, per chi conosce il curioso e silenzioso spirito del camaraderie dei poveri inglesi,

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che essi uscirono tutti quanti a osservare Dalroy mentre metteva la roba sul carro e riadattava i finimenti dell’asino: tutti, meno il vecchio contadino che sedeva come ipnotizzato alla vista del denaro. Mentre se ne stavano colà videro scendere dalla strada, là dove si piegava sopra la collina, una figura la cui apparizione sebbene ancora lontana, non fece loro molto piacere. Era un certo Mr. Bullrose, agente dei fondi di Lord Ivywood.

Mr. Bullrose era un uomo piccolo e quadrato, con una testa pure quadrata, con dei riccioli neri, con una faccia che rassomigliava molto a una rana, con occhi fissi di tipo comune. Non era un buon uomo. Un agente di campagna raramente è un buon uomo. Il padrone spesso lo è; e anche Lord Ivywood aveva una sua magnanimità, per cui molte persone avrebbero desiderato di avere a trattare con lui personalmente. Mr. Bullrose era fastidioso. Tutti i tiranni che hanno senso pratico devono essere fastidiosi.

Evidentemente, egli non capì che cosa succedesse davanti al cottage di Mr. Marne, ma intuì che doveva essere qualche cosa di male. Da tempo aveva l’intenzione di dare lo sfratto al vecchio contadino, senza pensare menomamente a compensarlo. Aveva sempre sperato che il vecchio morisse; ma volendo agire di premura, pensava di poterlo mandar via su due piedi perchè il vecchio non aveva pagato il suo affitto della settimana. L’affitto non era tanto, ma era anche troppo alto per il contadino che non aveva modo di guadagnarsi

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il denaro necessario e nemmeno di prenderlo a prestito. Dove si vede tutta la cavalleria del nostro sistema aristocratico di proprietà terriera.

— Addio, amici miei, – diceva intanto Dalroy nella sua fantastica uniforme: – tutte le strade conducono a Rhum, come ha detto Lord Ivywood al recente congresso ecclesiastico, e noi speriamo di far ritorno presto e di mettere su qui un hôtel di prim’ordine del quale non tarderemo a mandar in giro le circolari.

La faccia dura da ranocchio di Bullrose si fece anche più brutta per la meraviglia; e gli occhi si fecero sporgenti, sì da somigliar più a quelli di una lumaca che a quelli della rana. L’allusione inescusabile a Lord Ivywood avrebbe di per sè sola giustificato uno scatto di collera da parte sua se – cosa ben peggiore! – non ci fosse stata quell’altra allusione a un hôtel senza licenza da erigersi proprio sulle terre di Sua Signoria! Questo ed altro avrebbe provocato uno scatto se l’agente non fosse rimasto come intontito e irrigidito alla vista di una insegna già piantata davanti al povero cottage del vecchio Marne.

— Ora l’ho nelle mie mani – mormorò Bullrose. – Non è possibile che egli paghi, e se ne andrà quindi via di qui! Così dicendo tra sè e sè, si diresse a passo rapido verso la porta del cottage, quasi nello stesso momento in cui Dalroy si avvicinava alla testa dell’asino, come per metterlo in marcia.

— Sentite bene, il mio uomo – esclamò Bullrose mettendo piede nel cottage. – Questa volta vi siete

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servito da voi. Sua Signoria è stata fin troppo indulgente con voi, ma adesso basta! La vostra imprudenza, avendo fatto quello che avete fatto fuor del vostro cottage, ben sapendo quali sono le idee di Lord Ivywood, ha passato ogni misura. – Egli si fermò un momento e quindi, in tono di scherno, aggiunse: – Per ciò, se non avete da pagare il vostro affitto fino all’ultimo centesimo, andate via. Noi non ne possiamo più, con gente della vostra fatta!

Il vecchio raccolse nella mano un mucchio di monete e le spinse attraverso il tavolo verso l’agente. Bullrose sedette sopra uno sgabello di legno, col suo cilindro in testa, e cominciò a contarle con aria dispettosa. Le contò una volta, due, tre. Quindi le guardò anche più fissamente di quanto avesse fatto il vecchio.

— Dove avete preso tutto questo denaro? – chiese con una voce grossa. – Lo avete rubato?

— Non sono abbastanza furbo per rubare – disse il vecchio.

Bullrose guardò lui e poi ancora il denaro e si ricordò che Ivywood, sebbene freddo, era un magistrato giusto quando sedeva in Corte.

— Sia come sia – aggiunse poi – noi abbiamo in mano abbastanza per farvi fare il sacco. Non avete forse contravvenuto alla legge (per tacere dei regolamenti che un affittuario deve osservare!) erigendo fuori della porta quella fantastica insegna?

Il vecchio stava zitto.— Eh? – fece ancora l’agente.

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— Ah! – fu la risposta.— C’è o non c’è l’insegna d’un’osteria davanti a

questa casa? – gridò Bullrose picchiando un pugno sopra la tavola.

Il vecchio lo guardò a lungo con una faccia paziente e rispettosa, e poi disse: – Può darsi che sì e può darsi che no.

— Ah, può darsi? Ve lo darò io il può darsi – gridò Bullrose saltando in piedi e cacciandosi il cilindro indietro sulla nuca. – Io non so se voi siate tanto ubriaco da non veder nulla, ma io vi dico che ho visto l’insegna fuori della porta, coi miei occhi. Uscite e dite di no, se lo potete.

— Ah! – fece ancora il vecchio dubbiosamente.Egli uscì dietro l’agente, che aprì la porta sbattendola

furiosamente e si fermò sulla soglia. Colà egli stette fermo per un po’ senza parlare. Nella sua testaccia si urtavano, ora, due idee: l’idea derivata dalle vecchie storie di fate, nelle quali tutto si può credere, e l’altra derivata dal moderno scetticismo per il quale nulla si può credere, nemmeno quello che si vede coi propri occhi. Non c’era insegna, non c’era segno di una insegna in tutto il paesaggio!

Sulla faccia vizza del vecchio Marne spuntò una di quelle risate che dormono dal Medioevo in qua.

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CAPITOLO VIIL BUCO NEL CIELO

Quella delicata tinta di rubino, che è uno dei più rari, ma anche dei più squisiti effetti della sera, coloriva la terra, il cielo e il mare, come se tutto il mondo fosse immerso in un bagno di vino, e colorava di scarlatto la rossa e forte testa di Dalroy, là, sulla sodaglia, dove, in compagnia del suo amico, si era fermato per fare una sosta. Uno dei suoi due amici stava riesaminando un fucile a due canne, e l’altro, intanto, manducava dei cardi.

Anche Dalroy stava ruminando, colle mani in tasca e gli occhi rivolti all’orizzonte. Verso terra, le colline, i boschi e i pianori erano avvolti in una luce rossorosa ma questa luce si faceva porporina verso il mare, dove, in distanza, si andavano accumulando delle nubi come per un temporale. Era verso il mare che lo sguardo di Dalroy si dirigeva. Improvvisamente egli si scosse e parve come se si fregasse gli occhi, o, almeno, le rosse sopracciglia.

— Per bacco, noi stiamo semplicemente ritornando nella direzione di Pebbleswick – egli disse. – Ecco là quella piccola cappella di latta, presso la spiaggia.

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— Lo so – rispose l’amico. – Noi abbiamo fatto proprio come la lepre. Siamo ritornati sopra i nostri passi. Nove volte su dieci, è la cosa migliore che, nelle nostre circostanze, si possa fare. Il parroco Whitelady faceva sempre così quando gli davano la caccia perchè rubava i cani. Io ho seguito le sue tracce: è sempre bene andar dietro ai migliori esempi. A Londra dicono che Dick Turpin sia andato a cavallo fino a York. Ebbene, non è vero niente, ed io lo so perchè mio nonno conobbe intimamente i Turpin a Cobble’s End; e una volta, il giorno di Natale, gettò uno di essi nel fiume. Io immagino ciò che egli veramente avrà fatto e come si sarà formata la leggenda. Se Dick era furbo deve essere corso sulla vecchia strada del nord che conduce a York gridando: «York! York!» prima che la gente lo riconoscesse: quindi, avendo fatto la cosa per bene, avrà potuto, dopo mezz’ora, ritornare per le vie di Londra tranquillamente, colla sua pipa in bocca. Dicono che la massima di Bonaparte fosse: – Andate dove non dovete essere attesi – e suppongo che come soldato avesse ragione. Ma per un borghese che vuol far perdere le sue tracce alla polizia, come nel caso nostro, non credo che tale massima sia da seguirsi. Io direi piuttosto: – Andate dove dovete essere attesi – e vi troverete che la gente non farà (come non fa per tutto il resto) ciò che deve.

— Sta bene – disse il Capitano – ma questo tratto di qui al mare io lo conosco così bene, che non avevo proprio nessun desiderio di rivederlo. Sapete – chiese poi improvvisamente, indicando una macchia bianca di

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sabbia nella sodaglia, cento passi più distante – sapete che cosa rende quel posto là così famoso nella storia?

— Sì, – rispose Mr. Pump: – è là che la vecchia comare Grouch uccise il Metodista.

— Voi siete in errore – disse il Capitano. – Un episodio del genere non solleverebbe in alcun caso commenti o deplorazioni. No, quel posto è famoso perchè una ragazza molto male allevata, una volta perdette colà un nastro dei suoi capelli e qualcuno l’aiutò a cercarlo.

— Qualcuno bene allevato? – chiese con un sottile sorriso Pump.

— No – disse Dalroy guardando il mare – qualcuno che è stato... abbassato. – Quindi, riscuotendosi ancora dai suoi pensieri, indicò colla mano un altro punto della boscaglia e disse: – Sapete la storia di quel vecchio muro che sorge laggiù, oltre l’ultimo avvallamento?

— No – fu la risposta – a meno che vogliate alludere alla storia del Circolo del Morto, una storia di molto tempo fa.

— No, non alludo al Circolo del Morto – disse il Capitano. – La storia straordinaria di quel muro è questa: una volta vi cadde sopra l’ombra di qualcuno e quell’ombra fu più desiderabile della sostanza di tutte le altre cose viventi. È questo! – egli esclamò con forza, riassumendo il suo fare canzonatorio. – È questa circostanza, Hump, e non l’insignificante incidente, abbastanza comune, di un uomo che morì mentre andava al circolo, è questo l’evento storico che Lord

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Ivywood sta per commemorare ricostruendo il muro con oro sonante e coi marmi greci rubati dai Turchi dalla tomba di Socrate e con una colonna di oro massiccio alta più di cento metri e sormontata da una colossale statua equestre di un Irlandese fallito, a cavallo di un asino, col volto rivolto verso la coda.

Egli alzò la gamba sopra il suo asino, come per dare un’idea della posizione dell’Irlandese fallito; quindi, rimessosi in posizione, tornò a guardare alla linea porporina che limitava l’orizzonte sul mare.

— Sapete, Hump, – egli disse – io penso che gli uomini d’oggigiorno abbiano tutti quanti delle idee sbagliate su ciò che riguarda la vita umana. Pare come se si aspettino ciò che la Natura non ha mai promesso, e, viceversa, fanno di tutto per rovinare ciò che la Natura ha dato loro realmente. In tutte queste cappelle atee di Lord Ivywood, non fanno che parlare di Pace, Perfetta Pace, Fiducia in Dio, Gioia Universale e di anime sorelle. Ma non sono per questo molto più allegri degli altri, e tutto quello che fanno, è di distruggere tanti buoni scherzi, tante buone storie, tante buone canzoni e tante buone amicizie, abbattendo «La Vecchia Nave». – (Egli diede un’occhiata all’insegna abbandonata ai suoi piedi, quasi per assicurarsi che non era stata rubata). Poi continuò: – Ora, a me sembra che tutto questo sia un domandar troppo e un ottenere troppo poco. Io non so se Dio abbia fatto l’uomo per essere in tutto e per tutto felice. Ma Dio certamente vuole che gli uomini si divertano un po’, ed io, per mio conto, intendo d’andare

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avanti divertendomi. Se non posso soddisfare il mio cuore, voglio almeno soddisfare il mio buon umore. I cinici, che si credono molto bravi, hanno l’abitudine di dire: «Siate buoni e sarete felici; ma non starete molto allegri». I cinici hanno torto in questo come in tutto il resto. Essi dicono proprio il contrario della verità. Dio sa se io pretendo essere buono; ma anche un birbante qualche volta deve combattere il mondo colle stesse armi di un santo. Io sono persuaso di aver combattuto il mondo; et militavi non sine... : qual è la parola latina di scherzo? Io non ho pretese di Pace e di Gioia e di tutto il resto particolarmente, in questo lembo di foresta. Io non sono stato felice Hump, ma mi sono divertito.

Il silenzio del tramonto era rotto solo dal fruscio dell’asino che brucava l’erba; Pump non disse una parola di scoraggiamento, e fu Dalroy ancora che riprese la sua parabola.

— Così io credo, Hump, che si giuochi troppo colle nostre emozioni, e questo luogo ha certamente un effetto strano su di me. Al diavolo, tutto quanto! Ci sono tante altre cose da fare in quel po’ di vita che ci rimane. Non mi piace affatto tutta questa schermaglia di sentimenti. Il solo effetto che ha è di rendere la gente infelice. Dato il mio umore di questi giorni, preferisco fare qualche cosa. E tutto ciò, mio caro Hump, io ho messo in rima, in una Canzone contro le Canzoni, che ora vi reciterò.

— Non vi consiglio di recitarmela qui – disse Humphrey Pump, prendendo su il suo fucile e mettendoselo sotto il braccio. – Qui, all’aperto,

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sembrate troppo grosso, e la voce si fa troppo grossa. Ma io vi porterò al Buco nel Cielo di cui avete parlato tanto e vi nasconderò colà, come ero solito nascondervi al vostro maestro, non mi ricordo più il nome, un uomo che si ubriacava solo col vino greco.

— Hump – gridò il Capitano. – Io abdico al trono di Itaca. Voi siete assai più saggio di Ulisse. Qui io fui tentato di fare mille cose, dal suicidio al ratto, e tutto per la semplice vista di quel buco nella sodaglia dove noi eravamo soliti goderci i nostri picnic. E intanto io avevo dimenticato che noi eravamo soliti chiamarlo il buco nel cielo. Per Bacco, che bel nome, nel doppio senso della parola!

— Io credevo che non ve ne foste dimenticato, per lo scherzo che vi fece su il giovane Matteo!

— Purtroppo – disse il Capitano, passandosi il palmo della mano sulla fronte – me ne devo essere dimenticato nella furia di qualche selvaggio corpo-a-corpo in Albania!

— Veramente non era uno scherzo molto spiritoso – disse Pump semplicemente. – Per quelli ci voleva sua zia! Peccato che sia andato troppo oltre, col vecchio Gudgeon!

Dette le quali parole, egli fece un salto e parve come se la terra lo inghiottisse. Ma non ebbero da camminare a lungo per giungere all’orlo del buco nella sodaglia, di cui avevano parlato. E una delle verità che il cielo nascose a Lord Ivywood, ma rivelò a Pump, è che ci sono nascondigli i quali possono sembrare coperti,

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quando siete vicino, pur essendo aperti e visibili da qualche posto elevato, anche a una certa distanza. Dalla parte da cui egli si accostò, il buco sembrava coperto da una massa naturale di felci e di scope. Pump vi entrò e scomparve come in una storia di fate.

— In perfetto stato! – gridò poi, dal basso sottotetto di foglie. – Una volta dentro lo riconoscerete subito anche voi. Questo è il vero posto per recitarmi il vostro canto, Capitano. Mi par ieri quando mi avete cantato proprio qui, Capitano, quella vostra canzone irlandese che avevate fatta a scuola e in cui c’entravano, che so io, e cuori e maniche; e la signorina e il maestro non ne poterono udire una sola parola perchè un parapetto di sabbia come questo attutisce ogni suono. Sono cose che si devono sapere, queste, ed è un peccato che non le insegnino ai giovani! Basta, ora mi canterete quella vostra canzone il cui scopo è di dimostrare che non bisogna avere del sentimento o delle cose simili.

Dalroy stava guardando fissamente quella caverna dei suoi picnic d’un tempo, così dimenticata, eppure divenutagli ancora una volta, e d’un tratto, così familiare. Pareva che non pensasse più a cantare canzone alcuna e che brancolasse nella buia casa della sua fanciullezza. Sotto le felci si sentiva il leggero sgocciolare di una piccola sorgente, ed egli si ricordò che qualche volta avevano cercato di far bollire dell’acqua in un pentolino. Si ricordò anche di una lite per il pentolino che si era rovesciato, lite che in quel suo

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primo amore lo aveva lasciato per vari giorni terribilmente angustiato.

Quando l’energico Pump rimise la testa fuori del tetto, alquanto spinoso, per uscire a prendere le loro cose, Dalroy si ricordò anche di una spina che lo aveva punto in un dito e che gli aveva arrestato i battiti del cuore con un senso di dolore e nello stesso tempo quasi di musica. Quando poi Pump ritornò col barilotto del rhum e colla forma di cacio, che mandò giù a rotoli con un calcio nel buco, si ricordò, con uno scoppio di risa, che in quei giorni lontani egli stesso si era rotolato giù, parendogli di fare una gran bella cosa. Gli era parso allora come di lasciarsi andar giù per uno dei lati lisci del Cervino! Ma ora osservò che l’altezza era poco più del secondo piano di uno di quei bassi cottages che egli aveva visto al suo ritorno. Capì che era diventato più grande; grande nel senso corporale. Che lo fosse diventato altrimenti ne dubitava!

— Il Buco nel Cielo! – egli esclamò. – Che bel nome! Che poeta ero io in quei giorni! Ma vorrei sapere se il buco serve per entrare o per uscire!

Alle ultime luci del sole, che era ormai tramontato, la fantastica ombra del quadrupede dalle lunghe orecchie, che Pump aveva condotto su una nuova e vicina pastura, si profilò sulla sabbia. Dalroy guardò la lunga esagerata ombra dell’asino e diede in una di quelle risate esplodenti come le porte degli harems, quando furono chiuse dopo la guerra turca! Egli era di solito un uomo

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anche troppo loquace, ma non dava mai una spiegazione di queste risate!

Humphrey Pump si sprofondò nel nido e cominciò a lavorare a modo suo intorno al barilotto, per aprirlo, dicendo:

— Domani vedremo di procurarci qualche altra cosa. Per questa sera accontentiamoci di mangiare formaggio e di bere del rhum. Ed ora, Capitano, avanti con la canzone contro le canzoni.

Dalroy bevve un po’ di rhum in un bicchierino che Pump teneva provvidenzialmente nel taschino del suo panciotto. E, intanto, la sua faccia si era colorita e la fronte appariva rossa quasi come i capelli. Evidentemente, egli era riluttante.

— Perchè, poi, dovrei essere io a cantare tutte le canzoni? – egli disse. – Perchè non ne cantate una voi, corpo del diavolo? Anzi, ora che vi penso – continuò accentuando il suo accento irlandese, forse per effetto del rhum che non aveva più bevuto da molti anni – ora che vi penso: che ne è di quella vostra canzone? Tutti gli episodi della mia fanciullezza mi ritornano in mente, in questo benedetto e maledetto buco, e mi ricordo quella vostra canzone, che non è mai esistita e non esisterà mai. Non vi ricordate, Humphrey Pump, quella notte in cui vi ho cantato non meno di diciassette canzoni fatte tutte da me?

— Me ne ricordo – disse l’inglese un po’ asciutto.— E non vi ricordate – continuò l’allegro irlandese,

con solennità – che io vi minacciai, se non aveste

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prodotto una lirica poetica di vostra invenzione, scritta e cantata da voi...?

— Sì, mi ricordo che mi minacciaste di... andare avanti voi, a cantare – disse Pump imperturbabile. – Sì, me ne ricordo.

Con calma, tolse ora dalle sue tasche che, ahimè, somigliavano più alle tasche di un bracconiere che a quelle di un oste, un pezzo di carta piegato e sdrucito.

— La scrissi quando me lo chiedeste – disse egli con semplicità, – e non ho mai tentato di cantarla. Ma vi prometto che la canterò io stesso quando voi avrete cantato la vostra canzone contro quelli che cantano.

— Accettato! – gridò con eccitazione il Capitano. – Per udire una vostra canzone non so che cosa non canterei. Dunque, questa è la Canzone contro le Canzoni.

Ed egli cominciò, alzando la sua voce nel silenzio della sera:

The song of the sorrow of Melisandeis a weary song and a dreary song,The glory of Mariana’s grange had got into great decay,The song of the Raven Never Morehas never been called a cheery song,And the brightest things in Baudelaire are anything else but gay.

But who will write us a riding songOr a hunting song or a drinking song,Fit for them that arose and rodeWhen day and the wine were red?

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But bring me a quart of a claret out,And I will write you a clinking song,A song of war and a song of wineAnd a song to wake the dead.

The song of the fury of Fragoletteis a florid song and a torrid song,The song of the sorrow of Tara is sung to a harp unstrung,The song of the cheerful Shropshire LadI consider a perfectly horrid song,And the song of the happy Futurist is a song that can’t be sung.

But who will write us a riding song,Or a fighting song or a drinking song,Fit for the fathers of you and me,That knew how to think and thrive?But the song of Beauty and Art and LoveIs simply an utterly stinking song,To double you up and drag you downAnd damn your soul alive15.

15 Il canto del dolore di Melisenda è un canto assai noioso e monotono, – la gloria della nonna di Marianna era molto decaduta, – il canto del Corvo Mai Più non si è mai potuto dire un canto allegro – e le cose più brillanti in Baudelaire sono tutto quello che volete, fuorchè gaie.

Ma chi ci canterà un canto del cavalcatore – o un canto del cacciatore o un canto del bevitore – degno di coloro che si levarono e montarono a cavallo – quando il giorno e il vino erano rossi? – Ma portatemi una bottiglia di chiaretto – ed io vi canterò un canto vibrante – un canto di guerra e un canto di vino – e un canto da svegliare un morto!

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— Ancora una goccia di rhum, – concluse affabilmente l’ufficiale irlandese, – e sentiamo finalmente la vostra canzone.

Con una gravità inseparabile dal convenzionalismo proprio della gente di campagna, Mr. Pump aprì il foglio sul quale, venendo meno alla sua grande tolleranza nazionale, aveva dato sfogo ai propri sentimenti. Egli lesse il titolo posatamente e per intero: – Canzone contro i droghieri, di Humphrey Pump, solo proprietario de La Vecchia Nave, Pebbleswick. Alloggio e stallaggio. Celebre per avervi preso stanza in diverse occasioni la Regina Carlotta e Jonathan Wilde e per essere l’osteria dove l’uomo scimpanzè fu scambiato per Bonaparte. Questa canzone è scritta contro i droghieri:

God made the wicked GrocerFor a mystery and a sign,That men might shun the awful shopsAnd go to inns to dine;Where the bacon’s on the rafter

Il canto della furia di Fragoletta è un florido canto e un canto torrido, – il canto del dolore di Tara è cantato. – Il canto dell’allegro Fanciullo del Shropshire – io lo considero un canto veramente orribile, – e il canto del beato Futurista – è un canto che non si può cantare.

Ma chi ci scriverà un canto del cavaliere – o un canto di battaglia o un canto della bottiglia – degno dei padri tuoi e miei – che seppero pensare e prosperare? – Il canto della Bellezza, dell’Arte e dell’Amore – è semplicemente un canto mefitico – da farvi in due e da buttarvi a terra – e da dannare la vostra anima viva!

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And the wine is in the wood,And God that made good laughterHas seen that they are good.

The evil-hearted GrocerWould call his mother «Ma’am».And bow at her and bob at herHer aged soul to damn,And rub bis horrid hands and askWhat article was next,Though mortis in articuloShould be her proper text.

His props are not his children,But pert lads underpaid,Who call out «Cash!» and bang aboutTo work his wicked trade;He keeps a lady in a cageMost cruelly all day,And makes her count and calls her «Miss»Until she fades away.

The righteous minds of innkeepersInduce them now and themTo crack a bottle with a friend,Or treat unmoneyed menBut who hath seen the GrocerTreat housemaids to his teasOr crack a bottle of fish-sauceOr stand a man a cheese?

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He sells us sands of ArabyAs sugar for cash down;He sweeps his shop and sells the dustThe purest salt in town,He crams with cans of poisoned meatPoor subjects of the King,And when they die by thousandsWhy, he laughs like anything.

The wicked Grocer grocesIn spirits and in wine,Not frankly and in fellowshipAs men in inns do dine;But packed with soap and sardinesAnd carried off by grooms,For to be snatched by DuchessesAnd drunk in dressing-rooms.

The hell instructed GrocerHas a temple made of tin,And the ruin of good innkeepersIs loudly urged therein;But now the sands are running outFrom sugar of a sort,The Grocer trembles; for bis time,Just like his weight, is short16.

16 Dio fece il malvagio Droghiere – per un mistero e per un segno – che tenesse gli uomini lontani dalla sua orrida bottega – e li mandasse invece a pranzare all’osteria – dove il lardo è appeso al soffitto – e il vino è nella botte – e Dio che ha creato il buon

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Il Capitano Dalroy si era così riscaldato col liquore, che la sua ammirazione per la canzone di Pump si fece non solo rumorosa ma anche movimentata. Egli saltò in piedi e, alzando il suo bicchiere, disse:

— Voi dovete essere Poeta Laureato, Hump; voi avete ragione, mille ragioni: è ora di finirla con tutto ciò.

riso – si è incaricato di farli eccellenti.Il Droghiere dal cuore perfido – chiama sua madre Signora – e

si inchina a lei per mandare al diavolo – quale altro articolo voglia – sebbene in articulo mortis – dovesse essere per lei l’altro articolo.

I suoi aiutanti non sono suoi figlioli – ma ragazzi impertinenti, mal pagati – che gridano: Pagare! e si muovono – per fare il suo brutto commercio. – Egli tiene una signora in una gabbia – tutto il giorno crudelmente – e l’obbliga a fare i conti; – la chiama Signorina – fino a quando la poveretta svanisce.

L’animo retto degli osti – li induce di tanto in tanto – a bere una bottiglia con un amico – o a regalarne una a chi non ha un soldo, – ma chi ha mai visto il Droghiere – invitare al tè le sue donne di servizio – o stappare una bottiglia di salsa di pesce – o regalare una forma di cacio a qualcuno?

Egli ci vende sabbia di Arabia – per zucchero, e ce la fa pagare in contanti; – egli spazza il suo negozio e vende la polvere – come il sale più puro della città. – Egli ingozza con scatole di carne avvelenata – i poveri sudditi del Re, – e quando essi muoiono a migliaia, – egli ride come se nulla fosse.

Il malvagio Droghiere traffica – in spiriti e in vini; – non così francamente e in buona compagnia – come gli uomini che vanno a pranzare nelle osterie, – ma impaccati con saponi e sardine – e portati via da camerieri – per essere poi presi di nascosto da Duchesse – e bevuti segretamente nei salottini.

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Egli corse in cima alla duna di sabbia e, afferrando l’insegna, indicò verso la spiaggia che si faceva sempre più scura un punto dove il capanno di latta era quasi isolato.

— Ecco là il vostro tempio di latta – disse. – Diamogli fuoco.

Si trovavano a qualche distanza da Pebbleswik, lungo la costa e, un po’ per il crepuscolo, un po’ per l’ondulazione del terreno, non lo si poteva vedere. Nulla ora era in vista se non il capanno di latta e tre ville in costruzione, di mattoni rossi.

Dalroy pareva che guardasse il capanno e le tre case vuote con malevolenza.

— Guardate – egli gridò. – Babilonia!Brandì l’insegna in alto, come una bandiera, e si

avviò a grandi passi verso il posto, lasciando cadere una pioggia di maledizioni.

— Entro quaranta giorni, Pebbleswick sarà distrutta – egli esclamò. – I cani leccheranno il sangue di J. Leveson, Segretario, e gli Unicorni...

— Andiamo, torniamo indietro, Pat, – gridò Humphrey. – Voi avete bevuto troppo rhum.

— I leoni ruggiranno in questo posto! – gridava il Capitano.

Il Droghiere istruito dall’inferno – ha un tempio fatto di latta – dove la rovina dei buoni osti – è apertamente augurata. – Ma ora la sabbia sta per finire – e il Droghiere trema perchè i suoi giorni, – come i suoi pesi, vengono a mancare.

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— E magari anche gli asini – disse Pump. – Intanto, immagino, è il turno di quest’altro asino.

E così dicendo, cominciò a ricaricarlo; poi lo slegò e lo condusse via.

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CAPITOLO VIILA SOCIETÀ DELLE ANIME SEMPLICI

In un tramonto anche più molle e più triste del solito, Lady Giovanna Brett camminava ancora una volta pensosamente lungo la riva del mare. La sera era piovigginosa e opprimente; la stagione balneare era pressochè al termine; ed ella era quasi sola sulla spiaggia; ma aveva preso l’abitudine di andare su e giù con passo inquieto lungo il viale, perchè ciò sembrava soddisfare un qualche inconsapevole bisogno della sua psicologia alquanto complicata. Malgrado le meditazioni del suo cervello, i suoi sensi rimanevano eccezionalmente attivi. Ella potè fiutare il mare che si abbassava quasi all’orizzonte; e nello stesso modo potè udire, nel bisbiglio delle onde e del vento, il fruscio della sottana di un’altra donna dietro di lei. Non ci si può sbagliare riguardo ai movimenti di una signora, generalmente molto dignitosa e piuttosto lenta, quando càpiti che abbia premura.

Si voltò a guardare la signora, che si affrettava, per raggiungerla; alzò un po’ le ciglia e stese la mano. Era Lady Enid Wimpole, cugina di Lord Ivywood; una signora alta e graziosa, che guastava la sua eleganza con un costume di moda che era ad un tempo funereo e

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fantastico. Aveva capelli di un biondo pallido ma copiosi, una faccia bella ma, osservata attentamente, sensibile, modesta e perfino patetica. I suoi occhi azzurri erano alquanto prominenti, con quella espressione di freddo fanatismo che si nota negli occhi delle signore le quali sono solite di chiedere la parola nei meetings pubblici.

Giovanna Brett era essa pure, come è stato detto, una parente di Lord Ivywood, ma Lady Enid era la prima cugina di Lord Ivywood e, di fatto, come una sua sorella. Perchè essa dirigeva la casa per lui e per sua madre, ed era così incredibilmente vecchia, che sopravviveva soltanto per soddisfare, secondo l’opinione convenzionale, la funzione inutile e muta di chaperon. E Ivywood non era persona da sollecitare alcuna attività da parte di una vecchia signora che esercitava tale funzione. Nè, per la verità, lo era Lady Enid sulla cui faccia sembrava brillare lo stesso inumano, distratto senso comune che brillava sulla faccia di suo cugino.

— Oh! sono così felice di avervi raggiunta – ella disse a Giovanna. – Lady Ivywood desidera tanto che veniate a passare la fine della settimana con noi, mentre c’è ancora Filippo. Egli ha tanto ammirato il vostro sonetto su Cipro e vuol parlarvi della sua politica in Turchia. Naturalmente ha un gran da fare, ma io lo vedrò questa sera dopo il meeting.

— Nessuno non lo hai mai visto – disse sorridendo Lady Giovanna – se non prima o dopo un meeting.

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— Siete voi un’Anima Semplice? – chiese Lady Enid incidentalmente.

— Se io sono un’anima semplice? – chiese Lady Giovanna aggrottando le nere ciglia. – Cosa volete dire?

— C’è questa sera una loro riunione nella piccola Universal Hall, e Filippo la presiederà – spiegò l’altra signora. – Egli è molto seccato perchè dovrà abbandonare il meeting poco dopo, dovendo recarsi alla Camera, ma Leveson gli succederà nella presidenza, per il resto della riunione. È assicurata anche la presenza di Misysra Ammon.

— Di chi mai? – chiese Lady Giovanna.— Ma sì, dell’uomo di cui tutti parlano; lo sapete

bene quanto me. È alla sua influenza che noi dobbiamo le Anime Semplici.

— Oh! – disse Lady Giovanna Brett.Quindi, dopo un lungo silenzio, chiese: – Chi sono le

Anime Semplici? Mi interesserebbe assai poterne incontrare qualcuna! – E in così dire volse la faccia pensosa verso il mare oscuro.

— Volete dunque dire, mia cara, che non ne avete ancora incontrata alcuna?

— No. Io ho incontrato solo un’anima semplice in tutta la mia vita.

— Ma dovete venire al meeting, allora – esclamò Lady Enid colla sua fredda gaiezza. – Dovete venire subito. Filippo sarà certamente eloquente su un argomento come questo. E quanto a Misysra Ammon, sarà, come sempre, meraviglioso.

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Senza avere alcuna idea chiara del dove andasse e del perchè andasse, Giovanna si lasciò condurre in un gran capannone costruito in ferro, oltre gli ultimi alberghi, da cui veniva una voce che essa credette di riconoscere. Quando entrò vide Lord Ivywood in piedi, in abito nero da sera, ma col paletot gettato sullo schienale della poltrona. Al suo fianco, pure in abito nero per quanto meno elegante, era l’omuncolo che aveva udito già predicare sulla spiaggia.

Nessun altro era sul palco ma, immediatamente sotto il palco, vide seduta Miss Browning, la sua vecchia conoscente stenografa, che stava appunto stenografando il discorso di Lord Ivywood. A un metro o due di distanza da lei, sedeva la sorella, che pure stenografava le parole del nobile Lord.

— Quello là è Misysra Ammon – sussurrò Lady Enid, con un certo eccitamento, e alzando il dito indicò l’uomo che sedeva sul palco accanto al presidente.

— Dov’è l’ombrello? – chiese Giovanna. – Certo egli non può fare a meno di un ombrello!

— ...almeno è evidente – Lord Ivywood stava dicendo – che in una di quelle, che sembravano impossibilità per i nostri antenati, non è più una impossibilità. L’Est non è più l’Est e l’Ovest non è più l’Ovest; perchè un piccolo istmo è stato tagliato e l’Atlantico e il Pacifico sono un solo mare. Nessun uomo, ve l’assicuro, ha fatto, per questa poderosa opera di unione, più di colui la cui parola avrete il piacere di udire questa sera: ed io sono profondamente addolorato

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che affari, non dico più importanti, ma certo più pratici, mi impediscano di rimaner qui a godermi la sua brillante eloquenza che ho già tante volte apprezzata. Il signor Leveson ha gentilmente acconsentito a prendere il mio posto, e tutto quello che posso fare è di esprimere tutto il mio consenso per gli ideali e gli obiettivi intorno ai quali l’oratore vi intratterrà questa sera. Da tempo mi sono persuaso che sotto la maschera alquanto dura, che la religione maomettana ha portato per secoli – non molto dissimile dalla maschera che ha portato la religione degli ebrei – l’Islamismo ha in sè la possibilità di divenire la più progressiva di tutte le religioni; e in un secolo o due noi potremo vedere la causa della pace, della scienza e delle riforme, appoggiata dappertutto dall’Islam, così come è dappertutto appoggiata da Israele. Non è senza significato, io credo, che il simbolo di tale religione è il Crescente, qualche cosa che cresce. Mentre gli altri credi hanno emblemi che implicano più o meno una precisa finalità, per questo grande credo di speranza la sua stessa imprecisione è il suo orgoglio. E gli uomini cammineranno senza paura sopra nuovi e meravigliosi sentieri, seguendo la curva crescente che contiene e preserva per essi l’eterna promessa dell’orbe.

Era naturale, dato il suo carattere, che Lord Ivywood, malgrado la premura che realmente aveva, sedesse, dopo ciò, per ricevere gli applausi che scoppiarono da ogni parte della sala. Quell’atto del sedere, come lo stesso applauso, era una parte artistica della perorazione. Quando si sentì l’ultimo battimano egli

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scattò dalla sedia, si gettò il paletot sopra il braccio, strinse la mano al conferenziere, e si inchinò al pubblico e sparì rapidamente.

Mr. Leveson, coi doppi occhiali, si fece avanti quasi timidamente, si accomodò nella sedia presidenziale e in poche parole presentò l’eminente mistico turco Misysra Ammon, detto anche Profeta della Luna. Lady Giovanna trovò che l’accento inglese del Profeta era alquanto migliorato, per la compagnia che aveva frequentata, ma egli aveva ancora il vezzo di prolungare i suoi u indefinitamente, e i suoi argomenti avevano sempre quella bizzarra illogicità del suo discorso contro le osterie pronunciato sulla spiaggia. A quanto pareva, il tema della sua conferenza era l’Alta Poligamia, ma egli cominciò con una specie di difesa generale della civiltà maomettana e in particolare dell’accusa che le si fa di sterilità e inconclusività.

— È proprio nelle cose pratiche – egli stava dicendo – è proprio nelle cose pratiche, se voi le considerate equamente, che i nostri metodi sono superiori ai vostri. I miei antenati hanno inventato le spade ricurve appunto perchè colle spade ricurve si taglia meglio. I vostri antenati invece possedevano spade diritte, forse per la romanticheria di essere, come voi dite, diritti anche moralmente. Ma ecco qui un esempio più chiaro di cui io stesso ho esperienza. Quando ho incontrato per la prima volta Lord Ivywood, non ero abituato alle vostre cerimonie, ed ebbi una piccola difficoltà nell’entrare nell’Hôtel Claridge dove Sua Signoria mi aveva

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invitato. Un servo dell’hôtel stava ritto al mio fianco sulla scala. Io mi chinai per levarmi le scarpe ed egli mi chiese che cosa facessi. Io gli dissi: «Amico mio, mi levo le scarpe».

Si sentì come una risatina soffocata da parte di Lady Giovanna, ma il conferenziere non vi badò e continuò nella sua bella semplicità:

— Io gli dissi che nel mio paese, quando si vuol mostrare rispetto per un luogo, non ci leviamo il cappello ma le scarpe. E perchè io insistevo nel volermi tenere in capo il cappello e nel volermi levare le scarpe, egli ebbe a osservare che Allah mi aveva tocco il cervello! Ora, non era ridicolo?

— E come! – fece Lady Giovanna mentre si premeva il fazzoletto sulla bocca per non farsi sentir ridere. Qualche cosa, come un vago sorriso, passò anche sul volto di due o tre fra le più intelligenti Anime Semplici ma, nella loro maggioranza, quelle Anime erano semplici davvero; gente ingenua, con dei capelli flosci, delle sottane che sembravano cortine verdi e delle facce più secche che mai.

— Ma io gli ho spiegato a lungo e minutamente che era assai più pratico, più prudente, più utile levarsi le scarpe, che il cappello. Pensate un po’, gli dissi, quante lamentele ci sono per le scarpe, mentre nessuna se ne sente per il cappello. Voi vi lamentate se nel vostro salotto trovate i segni di un paio di scarpe infangate. Ma s’è mai sentito che alcuno si sia lamentato perchè in un salotto c’erano i segni di un cappello infangato? Quante

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volte i vostri mariti vi colpiscono colla punta delle loro scarpe, ma siete mai state colpite dai vostri mariti col cappello?

Egli si guardò intorno con un’aria così seria e raggiante, che Lady Giovanna, dopo aver avuto un impeto di ilarità, ne ebbe uno quasi di simpatia. Con tutto ciò che vi era di più sano nella sua anima, troppo complicata, essa avvertì la presenza di un uomo che era proprio in buona fede.

— Il servo che stava sulla scala non volle ascoltare le mie spiegazioni – continuò Misysra Ammon pateticamente. – Egli disse che se mi fossi fatto vedere colle scarpe in mano si sarebbe formata una folla alla porta. E in realtà, dei giovani facevano già del chiasso.

Lady Giovanna Brett si alzò improvvisamente e si volse a guardare il pubblico che stava dietro di lei nella sala. Capì che se avesse continuato a guardare a quella faccia seria dal naso ebraico e dalla barba persiana, sarebbe scattata e avrebbe insultato pubblicamente il conferenziere. Essa pensò che lo spettacolo di tutte le Anime Semplici, viste in blocco, avrebbe avuto su di lei un effetto sedativo. E lo ebbe infatti. Almeno ebbe un effetto che avrebbe anche potuto dirsi deprimente. Però Lady Giovanna si rimise a sedere con un perfetto controllo di se stessa.

— Ora, perchè sto qui io a raccontarvi una storia semplice delle vostre strade di Londra, una storia che può capitare tutti i giorni? – chiese il filosofo d’Oriente. – Dopo tutto, il piccolo incidente non ebbe alcun effetto

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pregiudizievole; Lord Ivywood, in fine, uscì. Egli non tentò nemmeno di spiegare la cosa al servo del Claridge, che pure stava lì fermo sulla scala. Si limitò a ordinargli di raccogliere e di consegnarmi una delle scarpe che, mentre io facevo il mio discorso sulla innocenza del cappello, mi era caduta in fondo alla scala. Così tutto finì bene per me. Ma perchè, ripeto, sto io qui a contarvi di queste storielle?

Egli aprì ancora le mani a ventaglio, nel suo modo orientale. Quindi le battè l’una contro l’altra, così improvvisamente, che Lady Giovanna ebbe un sussulto. Ma si trattava semplicemente di un gesto enfatico della sua eloquenza. Ed egli tirò innanzi:

— Perchè, amici miei, questo è il miglior esempio che io vi potessi dare dell’accusa erronea e calunniosa che ci si fa, quando si dice che noi manchiamo di sentimento domestico, semplicemente per il modo con cui trattiamo le donne. Io mi appello a qualsiasi signora, a qualsiasi signora cristiana! Forse che la scarpa non ha effetti più gravi, nella casa, che un cappello? La scarpa va in giro, rompe le suole, lascia sul tappeto il terriccio del giardino. Il cappello se ne rimane quieto, invece, sul suo attaccapanni. E come rimane quieto sull’attaccapanni, perchè non potrebbe rimanere egualmente quieto sulla nostra testa?

Lady Giovanna applaudì calorosamente, insieme con qualche altra signora, e il saggio, incoraggiato, continuò:

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— Non vi pare dunque, care signore, che questa nostra religione possa essere intelligibile anche in altre cose, così come è intelligibile riguardo alle scarpe? Qual è la obiezione comune che i nostri degni amici fanno alla nostra poligamia? Che è uno sfregio fatto alla donna. Ma come può esserlo, amiche mie, quando noi ammettiamo appunto nella nostra casa un così gran numero di donne? Quando nella vostra camera dei Comuni voi mettete cento deputati inglesi accanto a un piccolo deputato Gallese, voi non dite: «Il Gallese è sopra tutti, egli è il vostro Sultano; possa egli vivere in eterno!». Se la vostra giuria comprendesse undici grandi signore e un piccolo uomo, voi non direste: «Questo è ingiusto per le grandi e grosse signore!». Perchè repugnereste, dunque, voi, o signore, da questo grande esperimento poligamico che lo stesso Lord Ivywood...

Gli occhi neri di Giovanna erano ancora fissi sopra la faccia paziente e rugosa del conferenziere, ma ella non afferrò più una sola parola di tutto il resto della conferenza. Ella si fece pallida, per un’intima emozione, ma non battè ciglio.

La porta della sala era aperta e di tanto in tanto venivano dei rumori anche da quella parte deserta della città. Due uomini passavano lungo il viale che costeggiava il mare. Uno di essi cantava. Era una cosa comune per gli operai cantare, andando a casa la sera dopo la loro giornata di lavoro; e la voce, ancorchè stentorea, era troppo lontana perchè Lady Giovanna potesse afferrare le parole. Se non che, quelle parole

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Giovanna le conosceva. Le pareva di vederle ancora davanti a sè, scritte in lettere rotonde, sopra la pagina rosa di un vecchio album di scuola che conservava a casa. Essa conosceva le parole e l’aria:

I come from Castlepatrick, and me heart is on me sleeve,And any sword or pistol boy can hit ut with me leave,It shines there for an epaulette, as golden as a flame,As naked as me ancestors, as noble as me name.For I come from Castlepatrick, and me heart is on me sleeve,But a lady stole it from me on St. Gallowglass’s Eve17.

Improvvisamente, e con un senso di pena, Giovanna vide con gli occhi della fantasia un pezzo di sodaglia rotta, con un profondo buco nella sabbia, così bianca da accecare nel sole. Nessuna parola, nessun nome; solo il posto.

The folk that live in Liverpool, their heart is in their boots;They go to hell like lambs, they do, because the hooter hoots.When men may not be dancin’,though the wheels may dance all day;And men may not be smokin’; but only the chimneys may.But I come from Castlepatrick, and me heart is on me sleeve,But a lady stole it from me on St. Poleander’s Eve.

17 Io vengo da Castlepatrick, e il mio cuore è sulla mia manica, – e ogni ragazzo può colpirlo, col mio permesso, colla spada o colla pistola. – Risplende come una spallina, è d’oro come una fiamma, – è nudo come i miei antenati ed è nobile come il mio nome. – Perchè io vengo da Castlepatrick e il mio cuore è sulla mia manica, – ma una signora me lo rubò la vigilia di S. Gallowglass.

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The folk that in black Belfast, their heart is in their mouth,They see us making murders in the meadows of the South;They think a plough’s a rack,they do, and cattle-calls are creeds,And they think we’re burnin’ witcheswhen we’re only burnin’ weeds;But I come from Castlepatrick, and me heart is on me sleeve,But a lady stole it from me on St. Barnabas’s Eve18.

La voce si era improvvisamente arrestata, ma gli ultimi versi erano così distinti, che, evidentemente, il cantore si era avvicinato, invece di allontanarsi.

Fu solo dopo ciò, e come attraverso una nube, che Lady Giovanna udì l’imperterrito Orientale venire alla conclusione del suo eloquente discorso.

— ...E se voi non respingete il sole che ritorna, levandosi dall’Oriente ogni mattina, voi non respingerete nemmeno questo esperimento sociale,

18 La gente che vive in Liverpool ha il cuore nelle scarpe; – va all’inferno come pecore, perchè fischia il fischio dell’officina – dove gli uomini non possono danzare, sebbene le ruote possano danzare, e tutto il giorno, – dove gli uomini non possono fumare, ma lo possono solo le ciminiere. – Ma io vengo da Castlepatrick e il mio cuore è sulla mia manica, – ma una signora me lo rubò la vigilia di S. Poleander.

La gente che vive nella nera Belfast ha il cuore nella bocca: – ci vede commettere delitti sui prati del Sud; – crede che l’aratro sia uno strumento di tortura e i richiami delle bestie atti di fede, – e crede che bruciamo delle streghe quando bruciamo delle erbacce. – Ma io vengo da Castlepatrick, e il mio cuore è sulla mia manica; – ma una signora me lo rubò la vigilia di S. Barnaba.

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questo grande metodo poligamico, che pure si è levato dall’Oriente e sempre vi fa ritorno. Perchè questa è quell’Alta Poligamia, che viene come lo stesso sole dall’Oriente, ma è nel suo splendore meridiano soltanto quando il sole è alto in cielo.

Essa badò appena al signor Leveson, quando ringraziò il conferenziere della sua affascinante orazione e invitò quella delle Anime Semplici che avesse domande da fare, a porle. Fu soltanto quando le Anime Semplici diedero prova della loro semplicità con la solita riluttanza e modestia, che qualcuno si alzò a parlare. E fu soltanto dopo che qualcuno ebbe parlato per un po’, che Lady Giovanna gradatamente si accorse che si trattava di un discorso fuori del comune.

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CAPITOLO VIII«VOX POPULI VOX DEI»

— Io non dubito – disse il signor Leveson, trattenendo un sorriso – che dopo l’eloquente e storico discorso che abbiamo ascoltato, qualcuno vorrà ora fare all’oratore delle domande; e noi speriamo anzi in una discussione. Certo, qualcuno avrà delle domande da rivolgere all’oratore. – Quindi egli rivolse uno sguardo interrogativo a un signore dalla faccia stanca che sedeva nella quarta fila e disse: – Mister Hinch?

Ma il signor Hinch scosse la testa in segno di rifiuto e disse: – No, non posso.

— Saremo lieti – disse ancora Leveson – se qualche signora volesse fare qualche domanda.

Nel silenzio che seguì, si sentì che l’uditorio, per un intuito psicologico, si aspettava che prendesse la parola una signora di larghe proporzioni che sedeva alla fine della seconda fila. Ma essa rimase immobile come una statua di cera. – Altre domande? – chiese allora il signor Leveson, come se ce ne fosse stata già qualcuna. E parve dir ciò con un senso di sollievo.

Ci fu un certo movimento in fondo alla sala e nella seconda metà di essa. Si potevano udire a bassa voce

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esclamazioni come queste: – Andiamo, George! Rispondigli, George! Andiamo, domanda qualche cosa!

Il signor Leveson, alzò lo sguardo improvvisamente con un’aria quasi allarmata. Egli si accorse solo allora che alcuni popolani malvestiti e volgari si erano infiltrati nell’assemblea. Essi non erano dei veri contadini, ma di quei mezzi-contadini che fanno vari mestieri lavorando ai margini delle grandi stazioni balneari. Tra loro non si chiamavano Mister; ma c’era invece la tendenza a chiamarsi George.

Il signor Leveson capì la situazione e vi si acconciò. Egli fece deliberare ciò che lo stesso Lord Ivywood avrebbe fatto in una circostanza analoga, ma lo fece con una timidezza che Lord Ivywood non avrebbe tradito. E la stessa educazione sociale, che lo fece vergognare di trovarsi con gente simile, gli fece sentir vergogna della sua vergogna. Lo stesso spirito moderno che gli dava un senso di ripugnanza per quei cenciosi gli consigliava anche di nascondere la sua ripugnanza.

— Io sono certo – egli disse nervosamente – che tutti saremmo molto lieti se alcuno dei sopravvenuti volesse muovere qualche domanda. Noi siamo tutti democratici, naturalmente – egli disse, guardando verso le nobili signore con un sorriso sarcastico – e crediamo nella Voce del Popolo e in altre cose del genere. Se il nostro amico in fondo alla sala vuol formulare brevemente la sua domanda non insisteremo perchè la metta per iscritto.

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Si sentirono rinnovati e grossolani inviti a George (quel campione giustamente battezzato) ed egli si fece avanti colle gambe che stentavano un po’ a muoversi e disse le sue osservazioni stando in piedi in mezzo alla sala.

— Ecco, io vorrei domandare al proprietario...— Un momento – fece il signor Leveson, afferrando

l’opportunità per far dell’ostruzionismo, il che è tutto quello che generalmente sa fare un presidente moderno. – Se si tratta di questioni d’ordine, le domande devono essere rivolte a chi presiede; se concernono la conferenza, devono essere fatte al conferenziere.

— Ebbene io chiedo al conferenziere – disse il paziente George – se non è giusto che quando avete qualche cosa di fuori dobbiate poterla avere anche di dentro? (Disordinati applausi, in fondo alla sala).

Il signor Leveson si trovò imbarazzato, avendo la sensazione che la cosa si mettesse male. Ma l’entusiasmo del Profeta della Luna proruppe in modo tale che travolse anche il conferenziere.

— Ma è proprio l’essenza di tutto il nostro messaggio – egli esclamò aprendo le braccia come se volesse abbracciare tutto il mondo – che le manifestazioni esteriori siano tutt’uno con le manifestazioni interiori. Amici miei, è proprio questa verità che il nostro amico ha enunciata, quella che spiega l’apparente mancanza di simbolismo nell’Islam. Noi abbiamo l’aria di trascurare il simbolo, perchè noi insistiamo sul simbolo soddisfacente. Il mio amico che è nel centro della sala,

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potrebbe girare tutte le nostre moschee e chiedersi ad alta voce: – Dov’è la statua di Allah? – Ma potrebbe l’amico stesso eseguire, realmente, una completa e generalmente approvata statua di Allah?

Misysra Ammon sedette molto soddisfatto della sua risposta, ma nessuno menomamente pensò che la stessa soddisfazione avesse provato il suo amico nel centro della sala. Egli infatti, si passò il rovescio della mano sulla bocca con un’aria insoddisfatta e disse: – Non si offenda, signore. Ma non è detto nella Legge, signore, che se la cosa è di fuori, noi siamo in piena regola? Io sono entrato qui naturalmente, come ho potuto; ma non ho mai visto un posto come questo in vita mia. (Grasse risate, in fondo alla sala).

— Nessuna necessità di scuse, amico mio, – esclamò il saggio Orientale enfaticamente. – Capisco che voi non siete forse familiare, come sarebbe necessario, con simili scuole della verità. Ma la Legge è tutto. La Legge è Allah. L’intima unità si...

— Ebbene, non è dunque la Legge? – ripetè l’ostinato George. Ed ogni volta che egli pronunciava la parola Legge, i poveri, che ne sono le principali vittime, applaudivano calorosamente. – Io non sono di quelli che fanno delle chiassate. Io non ho mai fatto delle chiassate in vita mia. Io sono un uomo ossequiente alla Legge (nuovi applausi). Ma non è detto nella Legge che se tale è l’insegna e tale la vostra professione, voi avete il dovere di servirci?

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— Temo di non capir bene – disse con calore il Turco. – Che dovere ho io?

— Il dovere di servirci – risposero insieme più voci grosse dal fondo della sala che intanto si era andata riempiendo assai più.

— Servire voi! – gridò Misysra, saltando su come una molla. – Il Santo Profeta venne dal cielo per servire voi. Per mille anni, amici miei, non ha avuto altra sete che quella di servire voi! Il nostro più alto profeta non è altro che un servo di Dio, come lo sono io, come lo siete voi tutti. Per nostro simbolo noi usiamo persino un satellite e onoriamo la Luna solo perchè serve la Terra e non pretende di essere il Sole.

— Mi pare – disse il signor Leveson, alzandosi anche lui, con un’aria piena di tatto – che il nostro conferenziere abbia risposto a quest’ultimo punto nel modo più eloquente ed efficace. Le automobili stanno aspettando le signore che sono venute da lontano, ed io credo che i nostri procedimenti...

Tutte le signore stavano già mettendo al collo le loro sciarpe, con visi che esprimevano qualche cosa fra la meraviglia e il terrore. Ma Lady Giovanna se ne stava lì, in attesa, tremando per eccitamento che non si sapeva spiegare. Hinch, che finora non aveva parlato, si era furtivamente avvicinato al banco della presidenza e aveva sussurrato al presidente:

— Voi dovete far andar via tutte le signore. Non riesco ad immaginare che cosa si prepari, ma qualche cosa certamente si prepara.

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— Ebbene? – ripetè il paziente George – essendo così la Legge, dov’è?

— Signore e signori – disse Leveson con le sue maniere più garbate. – Credo che abbiamo avuto una serata interessantissima e...

— Niente affatto – gridò una voce nuova e più garbata da un angolo della sala. – Dov’è?

— Questo è quanto abbiamo il diritto di sapere. Dov’è?

— Dov’è che cosa? – gridò perdendo la pazienza il segretario che presiedeva. – Che cos’è che volete?

George, ossequiente alla Legge, si voltò a mezzo, fece un gesto verso l’uomo che era nell’angolo e disse:

— Che cos’è che tu vuoi, Jim?— Io vorrei avere un goccio di whisky – disse l’uomo

nell’angolo.Lady Enid Wimpole che si era trattenuta anch’essa

per non lasciar sola Lady Giovanna, la prese per i polsi e disse con voce acuta:

— Oh, noi dobbiamo raggiungere la nostra automobile, cara. Qui si tiene un linguaggio orribile!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Lontano, sulle sabbie del mare, dove l’impronta di due ruote e di quattro zampe veniva lentamente cancellata dall’alta marea, Humphrey Pump conduceva l’asino e il carretto, nell’acqua che gli arrivava fin quasi alla caviglia.

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— Spero che ora l’avrete smaltita – egli diceva al suo compagno, che camminava pesantemente con una spada diritta che gli batteva sui fianchi, – perchè, francamente, è stato un giuoco balordo quello di andare a piantare la vecchia insegna proprio davanti all’aula della conferenza. Io non vi ho spesso parlato così, Capitano, ma non credo che altri, in tutta la contea, vi potrebbe trarre dall’imbarazzo così come faccio io. Tuttavia, l’essere andati laggiù a spaventare le signore, via, è stata una cosa stupida, come non s’è mai più vista, dalla Follia del Vescovo in poi! Avrete ben sentito come le signore gridavano quando noi ci siamo allontanati!

— Io ho sentito qualche cosa di peggio prima di allontanarci – disse il suo compagno, senza alzare la testa. – Credete forse che non abbia sentito lei ridere?

Ci fu una pausa. Poi Pump riprese, con quell’incorruttibile correttezza che era alla radice del suo carattere inglese, e può sempre salvare l’anima di un Inglese: – Non volevo dirvi una cosa sgarbata, ma la verità è che non sapevo come diavolo cavarmi da quella situazione. Voi siete più coraggioso di me, ecco, ma io confesso che ho avuto paura per entrambi. Se non avessi conosciuto la strada che mena al tunnel perduto, avrei ancora paura adesso!

— La strada che mena a... cosa? – chiese il Capitano alzando per la prima volta la testa rossa.

— Ma sì che voi ne sapete quanto me del tunnel di Ivywood-Senza-Naso – disse Pump con aria indifferente. – Non vi ricordate che noi eravamo soliti

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cercarlo quando eravamo ragazzi? Solo che chi lo ha trovato sono stato io.

— Abbiate compassione di uno che è stato a lungo in esilio – disse Dalroy umilmente. – Io non so che cosa lo accori di più, se quello che egli ha dimenticato o quello che ricorda.

Pump rimase silenzioso per un po’ e quindi disse con tutta serietà: – Ecco, i londinesi dicono che bisogna fare delle statue, delle iscrizioni, degli epitaffi, e Dio sa cosa per coloro che hanno trovato qualche nuova diavoleria e hanno saputo farla trionfare. Ma solo un uomo che conosce il suo paese per cinquanta chilometri in giro sa che ci furono molte persone, e persone di ingegno, che hanno trovato nuove diavolerie ed hanno poi dovuto nascondersi perchè non hanno saputo farle trionfare! C’è stato il Dottor Boone, lassù a Gillin-Hugby, che si è messo contro il Dottor Collison e la vaccinazione. Il suo metodo di cura ha salvato sessanta malati che avevano preso il vaiuolo, mentre, colla sua vaccinazione, il Dottor Collison ne ha mandati all’altro mondo novantadue che non l’avevano preso. Ma il dottor Boone dovette tener la cosa nascosta: naturalmente, perchè a tutte le donne da lui curate erano cresciuti i baffi. Era questo il risultato della sua cura. Ma non era questo risultato che gli premeva di far noto. Poi c’è stato il vecchio diacono Arthur che scoprì i palloni. Egli li scoprì molto prima che fossero scoperti. Ma allora la gente era sospettosa di questi ordigni – si riparlava allora di stregoneria, malgrado tutto ciò che dicevano in

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chiesa – ed egli dovette firmare una carta per dichiarare donde gli era venuta l’idea. Ma è naturale che nemmeno voi avreste volentieri firmato una carta per dire che l’idea vi era venuta da un idiota del villaggio, col quale facevate insieme bolle di sapone; e questo è tutto ciò che egli ha potuto firmare, perchè il vecchio Diacono era un uomo onesto! Poi c’è stato Jack Arlingham col suo campanello: tutte storie che dovete ricordare! Ebbene, lo stesso è capitato a colui che ha fatto questo tunnel – uno dei pazzi Ivywood. – C’è più d’uno, Capitano, che ha la sua statua nelle grandi piazze di Londra per avere aiutato a costruire i treni ferroviari. C’è chi ha il suo nome nell’abbazia di Westmister per aver fatto qualche cosa, nella scoperta di piroscafi. Il povero vecchio Ivywood scoprì gli uni e gli altri d’un colpo, e fu chiuso in un manicomio. Egli aveva l’idea che potesse costruire un treno in modo che scivolasse per un tunnel nel mare, per ivi trasformarsi in piroscafo, e dal modo con cui egli la presentava, la cosa sembrava possibile. Ma la sua famiglia si era così vergognata della cosa che non volle che si parlasse nemmeno del tunnel. Io non credo che alcuno sappia dove sia, eccetto me e Bunchy Robinson. Noi vi arriveremo in due o tre minuti. Hanno smosso le rocce da questa parte e lasciato crescere la vegetazione dall’altra; ma io vi ho fatto passare prima d’ora un cavallo da corsa per salvarlo dal Colonnello Chepstow e credo che riuscirò a farvi passare questo asino. Francamente, penso che sia il solo posto dove noi potremo essere sicuri dopo ciò che

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abbiamo lasciato indietro, a Pebbleswick! È il miglior posto al mondo per starcene quieti e ricominciare poi da capo. Eccoci arrivati. Voi crederete di non poter passare dietro quella roccia. Invece ci passerete, anzi ci siete già passato.

Dalroy si trovò, con suo stupore, dietro una roccia, in una caverna oscura, all’altra estremità della quale si vedeva del verde in una luce incerta. Udendo dietro di sè le zampe dell’asino e i passi del suo amico, egli si volse, ma non potè veder nulla, perchè il luogo era scuro come una cantina piena di carbone. Rivolse ancora lo sguardo al punto chiaro e verde e, andando avanti, si compiacque di notare che si faceva più largo e più brillante come un grosso smeraldo, fino a che si trovò in un boschetto di alberi sottili, ma piantati l’uno accanto all’altro, e così vicino all’entrata della caverna, che evidentemente la cosa era stata fatta per nascondere quel tunnel e farne perdere le tracce. La luce che passava attraverso gli alberi era così tremula che non si sarebbe potuto dire se fosse luce dell’alba o quella della luna.

— Io so che c’è dell’acqua qui – disse Pump. – Quando hanno fatto il tunnel è saltata fuori dalle rocce, e non sapevano come arrestarla. Colla selvaggina del bosco e il mare vicino, noi troveremo da mangiare, in un modo o nell’altro, quando il formaggio sarà finito. Quanto agli asini, possono mangiare qualunque cosa. A proposito – soggiunse un po’ imbarazzato – voi non ve ne avrete a male se vi dico, Capitano, che il rhum sarà meglio che lo teniamo per le grandi occasioni. È il

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miglior rhum che si possa trovare in Inghilterra, e può essere l’ultimo se vanno avanti con queste storie. Basterà per noi sapere che è lì e che lo possiamo avere quando vogliamo. Il barilotto è ancora quasi pieno.

Dalroy tese la mano e strinse quella del compagno. – Hump, – egli disse con tutta serietà, – voi avete ragione. È un patrimonio sacro per l’Umanità, e noi ne berremo solo per celebrare grandi vittorie. Anzi, ne berremo ora un goccio per celebrare la nostra vittoria sopra Leveson e il suo tabernacolo di latta.

Ne bevve un bicchiere e quindi sedette sopra il barilotto, come per metterlo in riparo da ogni tentazione. I suoi occhi grandi ed azzurri si fissarono nel crepuscolo di smeraldo che egli aveva davanti a sè. Egli stette a lungo senza più parlare. Finalmente osservò: – Mi pare che abbiate detto, Pump, che un vostro amico, un signore per nome Bunchy Robinson, se ben ricordo, era pure un frequentatore di questo luogo.

— Già, ne conosceva la strada – rispose Pump conducendo l’asino a pasturare.

— Credete che avremo il piacere di una sua visita?— Temo di no, a meno che le guardie della prigione

di Blackstone se lo lascino sfuggire – rispose Pump, e mise intanto la forma di cacio sotto l’arco del tunnel. Dalroy se ne stava sempre seduto col mento nella mano guardando al mistero del piccolo bosco.

— Mi sembrate in pensiero, Capitano – disse Pump.— I pensieri più profondi sono i più semplici – disse

Dalroy. – Questa è la ragione per cui io credo nella

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Democrazia; molto più di voi, vecchio reazionario inglese. E il più profondo dei pensieri semplici è quello che si racchiude nel detto Vanitas vanitatum. Non è pessimismo; è anzi, l’opposto. È la futilità dell’uomo che ci fa credere che egli sia un dio. Pensate a questo tunnel e come il povero pazzo doveva camminare su quest’erba vigilandone la costruzione coll’anima eccitata e volta all’avvenire. Egli doveva vedere il mondo mutato e il mare pieno dei suoi nuovi piroscafi; ed ora – e la voce di Dalroy parve commossa – ora, qui, c’è una buona pastura per gli asini; e tutto è quiete!

— Già – disse Pump.— E penso a un altro Lord Ivywood, passato alla

storia, che ebbe anche lui una grande visione. Perchè è, dopo tutto, una grande visione; e sebbene quell’uomo sia un mattoide, è però un uomo coraggioso. Anche lui vuol fare un tunnel – fra l’Est e l’Ovest – per rendere più indiano l’impero britannico; e per effettuare quella che egli chiama l’orientalizzazione dell’Inghilterra e io chiamerei la rovina della cristianità. E mi domando ora se il chiaro intelletto e la coraggiosa volontà di un pazzo saranno forti abbastanza da aprire un tale tunnel, come tutto ora farebbe credere. O se vi sarà abbastanza vita in Inghilterra da lasciarlo, come è stato lasciato questo tunnel, sepolto nelle foreste inglesi e inutilizzato presso il mare.

Ci fu ancora silenzio fra loro due, solo rotto dal ruminare dell’asino. Come aveva detto Dalroy, tutto era quiete colà.

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Ma non ci fu quiete in Pebbleswick, quella notte, quando la polizia dovette intervenire nella lotta che si era impegnata fra coloro che giuravano di aver visto l’insegna dell’osteria fuori dell’aula della conferenza e quelli che giuravano di non averla vista. E i bambini e gli studiosi, cercando, la mattina dopo, conchiglie ed altre cose del genere sulla spiagga del mare, trovarono brandelli dell’abito del signor Leveson e pezzi delle pareti di ferro dell’aula della conferenza.

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CAPITOLO IXL’ALTA CRITICA E MR. HIBBS

Pebbleswick vantava un intraprendente giornale della sera che si chiamava il Globe di Pebbleswick, il cui direttore ricordava, come uno dei suoi colpi giornalistici, il fatto che il giornale era uscito in edizione straordinaria, colla notizia della scomparsa misteriosa dell’insegna, quasi contemporaneamente alla scomparsa della stessa. I sandwichmen, così detti perchè chiusi da una parte e dall’altra entro due tavole di legno su cui erano appiccicati i bollettini del giornale col sommario del suo contenuto, recavano questa notizia:

«L’OSTERIA CHE SVANISCE»

Racconto fantastico di PebbleswickEsclusivo del giornale

E il giornale conteneva un resoconto abbastanza corretto di ciò che era avvenuto, o sembrava che fosse avvenuto agli occhi dell’esterrefatto George e dei suoi numerosi amici. «George Burn, falegname di questa città, con Samuel Gripes, carrettiere al servizio dei Signori Jay e Gubbins, birrai, insieme con altri numerosi e ben noti residenti, passavano davanti al nuovo edificio

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eretto sul Viale dell’Ovest, adibito a scopi di vario trattenimento e detto comunemente la «Universal Hall». Vedendo innanzi ad esso una delle vecchie insegne di osteria, ora così rare, pensarono logicamente che il luogo avesse licenza di vendere bevande alcooliche, che tanti altri posti, da queste parti, hanno recentemente perduta. Le persone che erano dentro la hall, invece, non sapevano nulla della cosa, e quando questi signori (dopo alcune scene deplorevoli nelle quali tuttavia non c’è stata alcuna vittima umana) uscirono ancora sulla spiaggia, costatarono che l’insegna era stata distrutta o rubata. Nessuno di essi aveva bevuto nè avrebbe avuto la possibilità di bere. Il mistero è dunque tale che deve essere chiarito».

Ma questo resoconto relativamente fedele era spontaneo e dovuto non poco alla incidentale onestà del giornalista. Inoltre, i giornali della sera sono spesso più onesti di quelli della mattina, perchè sono scritti da poveri giornalisti, pagati male, e in gran furia; e non c’è tempo per gente più prudente di correggere ciò che essi scrivono. Ma quando, la mattina dopo, comparvero gli altri giornali, la storia dell’insegna scomparsa subì una percettibile alterazione. Nel quotidiano che aveva la maggiore vendita e la più grande influenza in quella parte del mondo, il problema era trattato da uno che, nel mondo non giornalistico, era conosciuto per il signor Hibbs Comunque. Questo nome di Comunque gli era stato appiccicato per la grande cautela che caratterizzava i suoi giudizi critici, talchè tutto quello che scriveva

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dipendeva sempre da congiunzioni come ma, tuttavia, sebbene, e simili. Poichè il suo stipendio aumentava (perchè tanto i direttori come i proprietari dei giornali amano uno stile siffatto) e i suoi amici diminuivano (perchè anche gli amici più generosi non possono non sentirsi urtati da un successo che non ha in sè il sapore infettivo della gloria) egli si considerò sempre più un vero diplomatico, un uomo che sapeva dire sempre la parola che ci voleva in tutte le circostanze. Ma non potè sfuggire alla sua Nemesi intellettuale, perchè, alla fine, divenne così diplomatico da apparire incomprensibile, tanto era oscuro e denso! La gente che lo conosceva non aveva difficoltà a credere che ciò che egli aveva detto fosse cosa giusta, cosa piena di tatto, cosa che doveva salvare la situazione, ma aveva poi gran difficoltà nello scoprire che mai fosse questa cosa. Nella prima fase della sua carriera, egli aveva mostrato uno speciale talento per uno dei peggiori trucchi del giornalismo moderno; il trucco di trascurare il punto più importante di una questione e di appigliarsi a quello meno importante. Così egli era capace di scrivere: «Checchè noi possiamo pensare pro o contro la vivisezione dei fanciulli poveri, il punto su cui tutti siamo d’accordo è che, ad ogni modo, deve essere fatta da chirurghi ben esperti». Ma nella fase seguente e più oscura della sua diplomazia, egli non solo trascurava deliberatamente il punto importante della questione, ma si afferrava a qualche cosa che non aveva nulla a che vedere colla questione stessa. Però, nella sua ultima e pessima

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maniera, come si dice dei pittori, egli era capace di scrivere: «Checchè noi possiamo pensare pro o contro la vivisezione dei fanciulli poveri, nessun intelletto moderno può mettere in dubbio la decadenza del Vaticano». Il nomignolo di Comunque gli fu dato per un articolo scritto quando il Presidente degli Stati Uniti fu ferito con una pistolettata tiratagli da un pazzo, in Nuova Orleans; nel quale articolo si leggeva il seguente periodo: «Il Presidente passò una buona notte, e le sue condizioni sono molto migliorate. L’assassino, comunque, non è un tedesco, come, sulle prime, si supponeva». La gente nulla capiva di quel misterioso comunque fino al punto di diventar matta e da voler quasi tirar essa stessa delle pistolettate!

Hibbs Comunque era un uomo allampanato, con i capelli giallicci che gli stavano ritti sulla testa e dei modi che sembravano melliflui, ma in fondo erano diffidenti. All’università di Cambridge era stato amico di Leveson ed entrambi si erano sempre vantati di essere stati in politica dei moderati. Ma se voi aveste avuto il vostro cappello schiacciato sul naso da uno che poco prima si fosse proclamato un cittadino ossequiente alla legge, e se foste stato costretto a scappare colla vostra marsina strappata e con dei pezzi di ferro e di legno gettativi alle spalle da uomini un po’ più energici di voi, avreste finito voi pure per uscire da una tale avventura con sentimenti che non si potrebbero esattamente dire moderati.

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Hibbs Comunque aveva già composto un articoletto sugli incidenti di Pebbleswick, che lasciava trapelare la verità della storia, per quanto i suoi articoli potessero lasciar trapelare cosa alcuna. I motivi che lo avevano guidato nello scrivere erano stati, come sempre, complessi. Egli sapeva che il padrone milionario del giornale aveva un debole per lo Spiritualismo; e qualche cosa poteva sempre nascere dal non sopprimere una storia così meravigliosa. Sapeva che due almeno dei bottegai o dei prosperosi artigiani che avevano raccontato la cosa erano dei forti sostenitori del Partito. Sapeva che era bene andar contro (gentilmente e non efficacemente) Lord Ivywood, perchè Lord Ivywood apparteneva al partito avversario. E non c’era modo migliore di andar contro di lui, senza offenderlo, che far sì che il giornale sembrasse prestar fede, almeno per il momento, alla storia attestata da tante persone e non inventata (come tante altre storie) in redazione. Per tutte queste considerazioni, Hibbs Comunque aveva scritto il suo articolo, nel quale la storia era data come genuina, quando improvvisamente comparve Leveson, col colletto strappato e gli occhiali rotti, e la lunga conversazione che questi ebbe con Hibbs ebbe per effetto di far mutare il tono dell’articolo. Ma, naturalmente, egli non scrisse un nuovo articolo: egli non apparteneva a quell’ordine divino di persone che fanno tutte le cose di nuovo! Tagliò e rimaneggiò il suo scritto in maniera che ne uscì il più straordinario articolo che mai avesse pubblicato in passato e che è

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ancora ricordato da quelle degne persone che fanno collezione della peggiore letteratura di questo mondo.

Cominciava colla formula familiare: «Qualunque sia il concetto, largo oppure rigido, che abbiamo del vecchio discusso problema della moralità o immoralità di una insegna di legno, come tale, noi saremo tutti d’accordo nell’affermare che le scene accadute a Pebbleswick furono veramente indegne per la maggior parte, se non per tutte le persone che vi si trovarono in mezzo». Dopo di che, il fatto degenerava in tutto quello che di più irrilevante si potesse immaginare. Era un articolo meraviglioso! Il lettore poteva da esso farsi un’idea di tutte le opinioni del signor Hibbs su tutti gli argomenti, tranne su quelli per cui l’articolo era stato scritto. La prima metà della frase che seguiva metteva bene in chiaro che il signor Hibbs (se fosse stato presente) non avrebbe preso parte al massacro di S. Bartolomeo o agli eccidi di Settembre. Ma la seconda metà della sentenza faceva capire, con altrettanta chiarezza, che, siccome questi due fatti non si dovevano ormai ripetere ed ogni tentativo per impedire che mai fossero avvenuti sarebbe stato probabilmente alquanto in ritardo, egli provava la più cordiale amicizia per la nazione francese. Semplicemente insisteva nel dire che la sua amicizia doveva esprimersi solo in francese. Doveva dirsi «entente» nella lingua insegnata ai turisti dai camerieri. Non doveva per nessun motivo essere stata «understanding» nella lingua compresa dal popolo. Dalla prima metà della frase che veniva dopo, si poteva

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facilmente inferire che Hibbs aveva letto Milton o, almeno il passo intorno ai figli di Belial; dalla seconda metà, che egli non si intendesse affatto di vini cattivi, per tacere dei buoni. La frase seguente cominciava coll’accennare alla corruzione dell’Impero romano e finiva col parlare del Dr. Clifford. Quindi c’era una difesa della teoria «eugenica» e una condanna della coscrizione che era contro l’«eugenica». Questo era il contenuto dell’articolo, che si intitolava: I disordini di Pebbleswick.

Eppure, sarebbe ingiusto per il signor Hibbs Comunque, se noi tacessimo il fatto che questo articolo, per quanto cattivo, provocò una massa di lettere da parte del pubblico. Coloro che scrivono ai giornali è da supporre che formino un piccolo corpo eccentrico non dissimile da quello di coloro che governano uno Stato moderno. Ma, a differenza degli avvocati, dei finanzieri, dei deputati o degli uomini di scienza, sono persone d’ogni sorta, sparse per tutto il paese, di tutte le classi, di tutte le contee, di tutte le età, di tutti i sessi, di tutte le sette e di tutti i gradi di pazzia. Le lettere che tennero dietro all’articolo di Hibbs sono degne di essere rilette.

Una cara vecchia signora, che abitava nel centro più fitto delle Highlands, scrisse per dire che poteva benissimo esserci stata sulla spiaggia una nave naufragata durante il meeting. «Il signor Leveson può non essersene accorto o, data l’ora tarda della sera, può benissimo essere stata scambiata per un’insegna, specialmente da parte di qualche miope. Anche la mia

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vista è andata declinando recentemente, ma io continuo a leggere il vostro giornale». Se la diplomazia del signor Hibbs gli avesse lasciato un solo nervo sano, egli avrebbe riso o pianto o si sarebbe ubriacato o sarebbe andato a nascondersi in un convento, per una lettera di questa natura! Ma, dato l’uomo, egli si limitò a prenderne le misure con una matita, per vedere se entrava in una colonna.

Poi ci fu una lettera di un teorico, e un teorico della peggiore specie. Non c’è niente di male nel fatto che un teorico costruisca una teoria per ogni nuovo evento. Ma il teorico che parte da una teoria falsa, e, quindi, in tutto quello che vede pretende di vederne la conferma, è il nemico più pericoloso della ragione umana. La lettera cominciava come una palla sfuggita per lo scatto del grilletto. «Tutta la questione non è forse contemplata dalla Bibbia (Esodo, IV - 3)? Io accludo qui parecchi opuscoli nei quali mi pare di esser riuscito a provare inconfutabilmente il punto in questione, che nessuno dei Vescovi o dei cosidetti Ministri della Libera Chiesa ha mai tentato di confutare. La connessione fra la verga o il palo e il serpente, così chiaramente indicata nella Sacra Scrittura, è affatto trascurata da coloro che si fanno ben pregare per prostituire la religione ai loro scopi. Mosè ci offre chiaramente la testimonianza di una verga che si tramuta in un serpente. Noi sappiamo che coloro che bevono sono atti a credere a una bugia e sostengono di vedere un serpente. È dunque spiegabile come questi disgraziati possano affermare di aver visto un palo.

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Possono averlo visto prima o dopo il noto mutamento che...». La lettera continuava per nove pagine scritte fittamente, e questa volta possiamo scusare il signor Hibbs che la giudicò un po’ lunga.

Quindi ci fu il corrispondente scientifico che disse: «La cosa non può essere derivata dalle qualità acustiche della sala?». Per conto suo non aveva mai creduto negli edifici costruiti con latta ondulata. La stessa parola «hall» (sala) – egli aveva aggiunto scherzosamente – veniva spesso così alterata dagli echi improvvisi di queste ripetute curve metalliche, da suonare come la parola «hell» (inferno), provocando non pochi pasticci teologici e anche delle persecuzioni poliziesche. Alla luce di questi fatti egli desiderava richiamare l’attenzione del direttore su alcuni curiosissimi particolari intorno alla supposta presenza o assenza di un’insegna d’osteria. Notava che molti testi, e specialmente i più rispettabili, si riferivano costantemente a qualche cosa che si supponeva fosse «outside» (fuori). La parola «outside» si incontrava almeno cinque volte nelle deposizioni di coloro che avevano protestato. «Ora è fuori di dubbio che, per un’analogia scientifica, noi possiamo inferirne che la frase «inn sign» (insegna d’osteria) è un errore acustico per «inside» (dentro). La parola «inside» era naturale che ricorresse in una discussione sul fabbricato e sull’individuo, quando si dibatteva una questione igienica». Questa lettera era firmata: «Studioso di

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Medicina», e le sue parti meno comprensibili erano state scelte per essere pubblicate nel giornale.

C’era poi uno, dotato di vero umorismo, il quale scrisse che non c’era nulla di strano nel caso in questione. Egli stesso (diceva) aveva visto spesse volte l’insegna di un’osteria, quando vi era entrato, e non era più stato capace di vederla quando ne era uscito. Questa lettera (la sola che avesse un sapore letterario) fu sdegnosamente gettata nel cestino dal signor Hibbs.

Un signore, evidentemente colto, si limitava a fare una supposizione. Nessuno aveva mai letto quella storia di H. G. Wells nella quale si dimostra che i piedi di un uomo possono essere in una parte del globo e i suoi occhi in un’altra? Egli metteva davanti l’ipotesi per quello che valeva. Il cestino, nel quale il signor Hibbs Comunque buttò questa lettera, perchè tenesse compagnia a tante altre, dimostrò il valore che aveva.

Poi c’era un tale il quale vedeva, naturalmente, nella faccenda tutto un complotto di stranieri contro l’Inghilterra. Ma siccome non risultava chiaro, da ciò che scriveva, se la malvagità degli stranieri si fosse esercitata nel piantare l’insegna davanti alla sala della conferenza o nello strapparla di là e portarla via, il suo argomento non aveva peso. (Il resto della lettera si riferiva esclusivamente al linguaggio volgare di un italiano, venditore di gelati, che non si capiva bene come entrasse nella faccenda).

E, in fine, c’erano le lettere di coloro i quali, quando hanno da risolvere un cosa che non arrivano a capire,

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sono del parere di abolire tutto ciò che lo ha determinato. Conosciamo bene questa gente. Se un barbiere taglia la gola del suo cliente perchè l’innamorata ha cambiato compagno per una danza o per una gita sull’asino nel parco di Hampstead, c’è sempre della gente che protesta contro ciò che ha condotto a un simile risultato. Cose simili non avverrebbero se si abolissero i barbieri o se si abolissero i rasoi o se si abolisse la ripugnanza che le ragazze provano per coloro che portano la barba incolta o se si abolissero le ragazze, o se si abolissero i parchi, o se si abolisse la danza, o se si abolissero gli asini. Quanto agli asini, temo che non saranno mai aboliti!

Di asini ce n’erano in quantità, sul terreno comune di questa particolare controversia. Alcuni se la prendevano con la democrazia, perchè il povero George era un falegname. Altri con la immigrazione straniera, perchè Misysra Ammon era un Turco. Alcuni proponevano che non si dovessero ammettere più le donne alle conferenze, perchè in quella, senza che ne avessero avuto la minima colpa, avevano creato dei disordini. Alcuni dicevano che bisognava chiudere tutti i luoghi di villeggiatura. Chi ce l’aveva particolarmente con le spiagge di mare; chi, un po’ vagamente, proponeva di rimuovere il mare. Tutti costoro erano persuasi che se i sassi e le alghe marine, o i visitatori un po’ strani, o il cattivo tempo, o i capanni dei bagnanti fossero una buona volta spazzati via senza pietà, non sarebbe accaduto quello che era accaduto. Il punto debole di tutti

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costoro era uno solo: che, cioè, nessuno sembrava avere la più lontana idea di ciò che era accaduto! E in questo erano da scusarsi. Nessuno sapeva ciò che era accaduto; nessuno lo sa nemmeno oggi; il che si capisce; altrimenti non sarebbe affatto necessario scrivere questa storia. Nessuno, certo, immaginerà che questa storia sia stata scritta per altro motivo, eccetto quello di dire tutta la verità e null’altro che la verità.

Quella vaga e curiosa furbizia, che era la sola qualità posseduta dal signor Hibbs Comunque, ottenne pertanto una vittoria, perchè egli diede il là a tutti i giornali settimanali, che seguirono le sue tracce con più intelligenza e con meno trepidazione. Pareva sempre più chiaro che della cosa si dovesse dare una spiegazione frivola e scettica e che poi non se ne dovesse più parlare.

La storia dell’insegna e della cappella di latta dove si faceva dell’alta etica fu discussa in tutti i settimanali più seri, e specialmente in quelli religiosi, per quanto i giornali della Chiesa Bassa19 mostrassero tutto il loro disprezzo per l’insegna, mentre quelli della Chiesa Alta lo mostrassero soprattutto per la cappella. Tutti erano d’accordo che c’era qualche cosa di incongruo nell’avvicinamento e che la cosa doveva essere trattata come favolosa. I soli organi intellettuali che parevano inclinati a credere alla verità dell’accaduto erano gli

19 Denominazione di un settore della chiesa anglicana, il più vicino all’Evangelismo protestante delle origini, sebbene contaminato anch’esso dal liberalismo.

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Spiritualisti, e la loro interpretazione non aveva quella solidità che avrebbe soddisfatto il signor George. È passato quasi un anno prima che nei circoli filosofici ci si persuadesse che l’ultima parola in argomento era stata detta. Un giudizio sull’incidente in relazione alla storia naturale e soprannaturale lo si ebbe nella celebre opera del Professor Widge sulla Storicità dei Fenomeni Petro-Piscatori», che esercitò una così profonda influenza sul pensiero moderno quando comparve in serie nell’Hibbert Journal. Tutti ricorderanno la tesi fondamentale del Professor Widge: che cioè, il critico moderno deve applicare alla taumaturgia del Lago di Tiberiade lo stesso principio critico che il Dr. Bunk ha con tanto successo applicato alla taumaturgia del racconto di Cana: «Autorità inappellabili come Pink e Toscher – scriveva il Professor Widge – hanno ora dimostrato, con una forza che nessun intelletto emancipato può mettere in dubbio, che la taumaturgia Acqua-Vinica di Cana è in contrasto con la psicologia del «maestro della festa» come risulta dalle analisi delle moderne ricerche; ed è in realtà in contrasto con tutta la psicologia Giudeo-Aramaica allo stato del suo sviluppo; senza dire della sua incongruità con le idee elevate del maestro etico in questione. Ma, sollevandosi a più alti livelli di conquista morale, si troverà probabilmente necessario applicare il principio di Cana ad altri e successivi eventi della narrazione. Questo principio, naturalmente, è stato interpretato da Huscher nel senso che tutto l’episodio non è storico; mentre l’altra teoria

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che il vino non era alcoolico ed era, naturalmente, fuso nell’acqua, può vantare come suo sostenitore il nome imponente di Minns. È chiaro che se noi applichiamo la stessa teoria al miracolo dei Pesci dobbiamo o dar ragione a Gilp il quale sostiene che i Pesci erano solo artificiali (vedi il libro del Rev. Y. Wyse, «Il Cristo-Vegetarianismo come Sistema Mondiale» dove la tesi è messa innanzi con forza) oppure dobbiamo, sull’ipotesi di Huscher, togliere alla storia dei pesci ogni pretesa di verità.

«La difficoltà provata dai critici più audaci (anche da Pooke) nell’adottare questa attitudine completamente distruttiva, è la riconosciuta improbabilità che una narrazione così dettagliata si basasse sopra una semplice frase come quella a cui si riferiscono i critici antistorici. Si sostiene da Pooke, con la sua caratteristica dialettica, che, secondo la teoria di Huscher, un detto metaforico, ma non insignificante, quale «Io vi farò pescatori di uomini» deve essere stato amplificato in una storia realistica di eventi, la quale, per altro, non contiene alcun riferimento, nemmeno nei passi evidentemente interpolati, a uomini che siano stati trovati nelle reti, quando queste venivano tirate su dal mare o meglio dalla laguna.

«Deve sembrare presuntuoso, o anche di cattivo gusto, per chiunque nel mondo moderno dissentire da Pooke su qualsiasi argomento; ma io oserei fare l’ipotesi che lo stesso splendore accademico e la posizione unica del venerabile Professore (il cui novantesimo genetliaco

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è stato così ben celebrato l’anno scorso a Chicago) gli permettano di farsi una nozione solo intuitiva del modo come si formino gli errori del volgo. Io chiedo venia se mi permetto di ricordare un caso a me noto (non per esservi stato presente, ma per aver attentamente studiato tutto ciò che se ne disse e se ne scrisse) che presenta un curioso parallelo con quell’antico caso per cui – secondo la legge di Huscher – un detto sarebbe stato trasformato in un incidente realmente avvenuto.

«Il caso che voglio ricordare è occorso a Pebbleswick, nel sud dell’Inghilterra. La città era da tempo in uno stato piuttosto pericoloso di eccitamento religioso. Misysra Ammon – il grande genio religioso che ha poi modificato tutto il nostro atteggiamento di fronte alle religioni del mondo – aveva parlato sulla spiaggia a migliaia di uditori entusiasti. Le loro riunioni erano state spesso interrotte dai servizi religiosi dei ragazzi, condotti come sapete secondo la più intransigente ortodossia, e dalla lega della Rosetta Rosas, la formidabile organizzazione atea e anarchica. Come se tutto questo non fosse bastato, la vecchia e popolare controversia fra Milniani e Completi Sublapsariani si accese un’altra volta su quella spiaggia fatale. Ora viene naturale di congetturare che nella atmosfera riscaldata di Pebbleswick qualcuno abbia citato il testo: «Una cattiva ed adultera generazione cerca un’insegna. Ma nessuna insegna le sarà data, altro che l’insegna del profeta Giona».

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«Una mente come quella di Pooke non lo crederà, eppure è fuori di discussione che l’effetto di questo testo sui contadini ignoranti dell’Inghilterra del Sud è stato quello di mandarli in giro in cerca di un’insegna, e precisamente di una di quelle insegne delle vecchie taverne che ora, fortunatamente, vanno scomparendo. L’«insegna del profeta Giona» nei loro cervelli ottusi diventò l’insegna della nave dalla quale Giona è stato gettato in mare. Perciò andarono in giro alla ricerca della «Insegna della Nave» ed alcuni hanno creduto, per un’allucinazione, anche di vederla. L’intero episodio fa proprio il paio col racconto biblico ed è una trionfante conferma della legge di Huscher»20.

Lord Ivywood fece in pubblico l’elogio del Professor Widge, dicendo che egli aveva ributtato dal suo paese quello che poteva essere un mare di superstizioni. Ma, per la verità, era stato il povero Hibbs a menare il primo colpo che aveva stordito il cervello di tutti quanti.

20 Chesterton procedendo nella sua requisitoria, attacca con un tono più amaro che divertito, le dottrine aberranti di alcune sette che proliferavano sul suolo inglese agli inizi del secolo. Un misto di superstizione, saccenteria e cattiva fede che denotano solo la mancanza di quell'equilibrato senso della realtà caratteristico dell'autentica fede cristiana. (N. d. E.)

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CAPITOLO XIL CARATTERE DI QUOODLE

Per i numerosi giardini, per le terrazze, per le stalle e simili locali, appartenenti a Lord Ivywood, si aggirava un cane, che era noto sotto il nome di Quoodle. Lord Ivywood però non lo chiamava Quoodle. Egli aveva quasi una incapacità a pronunciare un tal suono. Lord Ivywood non amava i cani. Ma, naturalmente aveva a cuore la Causa dei Cani e, anche più aveva a cuore il suo self-respect intellettuale e la sua coerenza in ogni cosa. Egli non avrebbe mai tollerato che un cane, in casa sua, fosse maltrattato fisicamente; nè, quanto a questo, che fosse maltrattato un sorcio e nemmeno un uomo. Ma se Quoodle non era maltrattato fisicamente, era però socialmente trascurato: e questo è quanto lo addolorava. Perchè i cani preferiscono la compagnia alla stessa gentilezza.

Lord Ivywod probabilmente avrebbe voluto venderlo; ma consultati gli esperti (come era solito fare per tutto ciò di cui non si intendeva, ed anche per molte cose di cui si intendeva) aveva avuto l’impressione dai loro pareri che il cane, considerato dal punto di vista tecnico, non gli avrebbe, vendendolo, fruttato gran che, soprattutto per la curiosa mistura delle qualità che

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possedeva. Era infatti una specie di bull-terrier, ma aveva troppo del bull-dog, e questa circostanza indeboliva il suo prezzo per quanto rafforzasse le sue mascelle. Lord Ivywood si persuase anche del fatto che il cane avrebbe potuto servire a qualche cosa come cane da guardia, anche se non avesse avuto l’abilità di scovare la selvaggina come un pointer e che, anche avanti cogli anni, sarebbe sempre stato svalutato per la sua disgraziata maniera di nuotare come un terrier. Ma le impressioni di Lord Ivywood possono essere state confuse come lo erano quando pensava alla Pietra Nera della Luna o ad altro argomento del giorno. La vittima di questo miscuglio di virtù continuava, quindi, ad aggirarsi al sole sulla proprietà di Lord Ivywood, non mostrando altro di tale miscuglio se non la sua grande bruttezza.

Ora Lady Giovanna Brett apprezzava, invece, i cani. Era un po’ la sua natura e molto la sua disgrazia che tutto ciò che in lei era naturale sopravvivesse a tutto ciò che era convenzionale; ed essa era capace di fiutare l’odore del biancospino o del mare alla stessa distanza che un cane può fiutare il suo pranzo. Come la maggior parte degli aristocratici essa poteva spingere il suo cinismo fino ai sobborghi di Satana. Era quasi irreligiosa come Lord Ivywood o anche più. Essa sapeva essere frigida e sostenuta quando ne aveva la voglia e nel gran talento sociale di annoiarsi lo poteva battere in tutti i giorni della settimana. Ma, nonostante le sue sofisticherie e la sua ambizione, c’era fra i due questa

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differenza, che le comunicazioni di lei colla natura non erano tagliate, mentre lo erano quelle di Lord Ivywood. Per essa la season era realmente la season anche nella campagna e non solamente la season nella città. Per essa galli e galline erano appendici naturali di una casa inglese, e non (come le aveva provato Lord Ivywood colla enciclopedia alla mano) semplici animali di origine indiana, importati recentemente da Alessandro il Grande. E così per lei un cane era un cane e non uno degli animali nobili o ignobili, nè qualche cosa la cui vita era sacra, o qualche cosa cui si dovesse mettere la museruola, o che non dovesse essere vivisezionata. Essa sapeva che si doveva praticamente provvedere ai cani, come provvedeva ai cani gialli in Costantinopoli Abdul Hamid, la cui vita Lord Ivywood stava scrivendo per la serie dei Potentati Progressisti. Nè, con tutto questo, faceva essa del sentimentalismo per i cani, nè era ansiosa di viziarli con carezze e dolcini. Però le venne fatto naturalmente, passando, di accarezzare il suo pelo per il rovescio e chiamarlo con un nome che subito si dimenticò.

Il giardiniere che stava tagliando l’erba si arrestò un momento a guardare perchè egli non aveva mai visto il cane comportarsi in quel modo.

Quoodle si era alzato, si era scosso, e trotterellando davanti alla signorina, l’aveva condotta verso una scala laterale di ferro che essa non aveva mai usato prima di allora. Fu allora che essa osservò con speciale attenzione il cane e ne provò un godimento umoristico,

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come quando si era fermata ad ascoltare le parole del sublime Profeta Turco. Perchè il complicato quadrupede aveva le gambe arcuate del bull-dog e, visto di dietro, le ricordava in modo ridicolo l’andatura boriosa di un piccolo Maggiore che andasse al suo club.

Il cane e la scala la portarono in una lunga serie di camere che si aprivano l’una entro l’altra. Esse facevano parte di quella che anni addietro era l’ala disabitata della casa Ivywood, abbandonata e chiusa, probabilmente perchè portava i segni delle bizzarie di quell’antenato pazzo, la cui memoria l’attuale Lord Ivywood non considerava molto opportuna per la sua carriera politica. Ma parve a Lady Giovanna di notare ora indizi di un recente tentativo di riabilitare il luogo. In una delle camere vuote c’era una secchia di calce da imbiancare, in un’altra c’era una scala a piuoli, qua e là bastoni per sostenere i panneggi e, finalmente, nella quarta camera, un panneggio che pendeva dalla vecchia travatura in legno ed aveva un aspetto lussuoso, a colori oro-aranciato con striature rosse che davano l’idea di serpenti per quanto non si vedessero nè occhi, nè bocche.

Nella camera che seguiva essa vide una ottomana a strisce bianche e verdi, isolata sul nudo pavimento. Vi sedette, un po’ per burla perchè le venne in mente una delle storie più comiche di questo mondo: di una certa signora la quale era appena iniziata in Teosofia ed era solita riposarsi sopra un simile oggetto, che aveva poi scoperto essere un Mahatama, coperto dei suoi

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vestimenti orientali e rigido in uno stato d’estasi. Pur troppo non poteva sperare di sedere anche lei sulle spalle di un Mahatama, ma bastò il pensiero per farla ridere, perchè le pareva che la cosa avrebbe fatto fare a Lord Ivywood la figura d’un imbecille! Lady Giovanna non sapeva se Lord Ivywood le piacesse o meno, ma è certo che sarebbe stata felice di fargli fare la figura dell’imbecille. Nel momento in cui si era messa a sedere sull’ottomana, il cane, che era venuto trotterellando dietro di lei, si era pure seduto sull’orlo della sua sottana.

Dopo un minuto o due essa si rialzò (e il cane pure) e tornò a guardare lungo la prospettiva delle ampie camere, nelle quali uomini come Filippo Ivywood dimenticano di essere semplicemente degli uomini. Entrò in un’altra camera che presentava maggiori indizi di restauri, e poi in un’altra ancora che ne presentava di più. Evidentemente i lavori in progresso erano stati cominciati all’altra estremità. Ed ecco improvvisamente comparire Lord Ivywood, che veniva nella sua direzione, col suo abito nero e con una faccia più bianca ancora, per contrasto. Le sue labbra si muovevano perchè egli parlava a se stesso, come fanno molti oratori. Egli non parve accorgersi di lei ed essa stava per gridargli: – Ma siete cieco! – quando Lord Ivywood, avvicinandosi maggiormente, la vide, e la salutò cortesemente.

Giovanna capì allora perchè la sua faccia pareva anche più incolore del solito. Egli portava sul dito

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indice, così come i suoi antenati avrebbero portato un falco sul polso, un uccelletto semitropicale dai colori vivacissimi, di cui la espressione della testa, del collo e dell’occhio era assolutamente l’opposto della sua. Giovanna non aveva mai visto una creatura con una testa così viva e impertinente. Il suo occhio provocante e la sua cresta a punta pareva volessero sfidare cinquanta galli da combattimento! Niente meraviglia (pensò Lady Giovanna) che, accanto a questo animaletto sgargiante di colori, i capelli sbiaditi e la faccia rigida di Ivywood sembrassero i capelli e la faccia di un cadavere ambulante.

— Non indovinereste mai che cos’è questo uccelletto – disse Ivywood nella maniera più gentile. – Ne avrete sentito parlare mille volte senza sapere esattamente che cosa fosse. Questo è un bulbul.

— È vero, non l’avevo mai visto – rispose Giovanna. – Io pensavo che fosse come un usignolo.

— Già – fece Lord Ivywood – ma questo è il vero bulbul d’Oriente: Pycnonotus Haemorrhus. Voi penserete a Daulias Golzii.

— Sì – replicò Giovanna con un debole sorriso. – È un’ossessione. Quand’è che penserò a Daulias Galsworty? Era Galsworty? – Quindi, compresa della austerità della faccia del suo compagno, carezzò con un dito il pugnace e sfarzoso uccelletto dicendo: – È proprio un caro cosino.

Il quadrupede che abbiamo chiamato più sopra Quoodle non approvò affatto tutto ciò. Come la maggior

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parte dei cani gli piaceva la compagnia degli esseri umani quando erano silenziosi; e li tollerava quando, tutt’al più, parlavano fra di loro. Ma una conversazione fatta con un altro animale qualsiasi che non fosse un bull-terrier offendeva il Signor Quoodle nei suoi sentimenti più delicati. Egli fece sentire un leggero grugnito. Giovanna istintivamente si chinò e ne accarezzò il pelo un’altra volta, avvertendo la necessità di distogliere l’ammirazione generale da Pycnonotus Haemorrhus. Essa portò il discorso sulle decorazioni di quell’ala della casa, poichè ormai erano giunti all’ultima della lunga serie di camere, dove c’era un pannello incompiuto ma squisitissimo, di legno bianco e colorato, intarsiato alla maniera orientale. In un angolo il lungo corridoio finiva svoltando in una cameretta fatta a torre rotonda, da cui si poteva ammirare il paesaggio, e che parve a Giovanna, che aveva conosciuto la casa dalla sua fanciullezza, una innovazione. D’altra parte un vuoto oscuro, lasciato nell’angolo più basso a sinistra del pannello orientale, improvvisamente le ricordò qualche cosa che essa aveva dimenticato.

— Se non mi sbaglio – essa disse (dopo un momento di ammirazione estatica) – c’era qui una scala che conduceva all’ortaglia o alla vecchia cappella o a qualche cosa di simile.

Ivywood assentì gravemente col capo: – Sì – disse – conduceva, come dite, alle rovine di una cappella medioevale. La verità è che conduceva anche ad altre cose che non posso considerare onorevoli oggidì per la

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nostra famiglia. Tutto quello scandalo burlesco intorno al fiasco del tunnel (vostra madre ve ne deve aver parlato) temo che non abbia molto giovato al credito della nostra famiglia, in paese; e poichè si trattava solo di un pezzetto di terra, presso il mare, io l’ho chiuso con delle siepi e l’ho lasciato inselvatichire. Ma io chiudo qui la stanza per un’altra ragione. Voglio che veniate a vedere.

Egli la condusse nella torretta dove finiva la nuova architettura; e Giovanna, per il suo istinto della bellezza, non potè trattenere una esclamazione di ammirazione. Cinque finestre aperte, di uno squisito e leggero profilo saraceno, guardavano sui parchi e sulle foreste sprofondate nel manto rosso-rame dell’autunno fino ai colori iridescenti del mare. Non una casa, nè il segno di un essere vivente in vista; e per quanto familiare essa fosse con quella costa, ebbe l’impressione di guardare da un nuovo punto di vista sopra un nuovo paesaggio di Ivywood.

— Scrivete sonetti? – disse Ivywood con una emozione nella voce che essa non aveva mai notato prima d’allora.

— So a che cosa pensate – disse Giovanna dopo una pausa: – The same hath oft...

— Sì – egli rispose. – Questa è pure la mia impressione... «of perilous seas in fairy lands forlorn».

Ci fu un’altra pausa e il cane cominciò a fiutare in tutti gli angoli della torricella.

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— Voglio che sia così – disse Ivywood con un accento basso e stranamente commosso. – Voglio che questo segni la fine della casa. La fine del mondo. Non vi pare di sentire qui la vera bellezza di tutta questa arte orientale che si colora come si colora il margine delle cose; come si colorano le piccole nuvole del mattino? Credereste – aggiunse poi, abbassando ancor più la voce – che ha su di me il potere di farmi sentire assente, lontano, come se fossi qualche viaggiatore orientale che si è perduto e che gli uomini vanno cercando? Quando io vedo quei colori strani e mutevoli mi pare di essere migliaia di leghe lontano dal luogo in cui mi trovo.

— Avete ragione – fece Giovanna guardandolo un po’ sorpresa. – Provo anch’io la stessa sensazione.

— Quest’arte – continuò Ivywood come in sogno – prende le ali dal mattino e riposa nei recessi più reconditi del mare. Dicono che non rappresenta forme umane; eppure noi possiamo leggere il suo alfabeto come i geroglifici dell’alba e del tramonto che stanno sull’orlo della veste di Dio.

— Io non vi ho mai sentito parlare così prima d’ora – disse Giovanna e accarezzò un’altra volta le penne di un livido viola dell’uccelletto orientale.

Il signor Quoodle a una tal vista non potè più resistere. Evidentemente egli non era stato molto impressionato nè dalla torricella nè dall’arte orientale in genere, ma, nel vedere l’attenzione di Giovanna rivolta ancora al suo rivale, egli se ne andò via senz’altro; e avendo trovato il buco destinato ad essere chiuso, ma

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che, per ora, metteva ancora sopra un’oscura, vecchia scala, egli la infilò e scese in basso. Lord Ivywood pose gentilmente l’uccelletto sul dito della giovane e si accostò a una delle finestre aperte sporgendosi in fuori.

— Guardate – disse – non esprime tutto ciò quello che noi sentiamo? Questa specie di casa delle fate non dovrebbe essere appesa all’ultima parete del mondo?

E fece avvicinare anche lei alla finestra, fuori della quale era appesa la gabbia artisticamente lavorata in metallo giallo.

— Pare di muoverci in una novella delle Mille e Una Notte – osservò Lady Giovanna. – Come se questa fosse la torre dei Genî giganti, con delle torrette che vanno su fino alla luna, e questo fosse il Principe fatato chiuso in un palazzo d’oro, sospeso alla stella della sera.

Poi, come per un misterioso avvertimento, si volse, si guardò intorno e disse:

— Dov’è il cane?Ivywood pure si volse e disse: – Ma c’era una cane

qui?— Sicuramente – fece Giovanna e gli restituì

l’uccelletto che egli introdusse delicatamente nella gabbia.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il cane, che essa cercava, era sceso, come s’è detto, per la scala oscura e uscito fuori alla luce in una parte del giardino che egli non aveva mai visto prima d’allora

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nè, a dir vero, altri al pari di lui aveva visto da qualche tempo. Era tutto un groviglio di erbacce, e il solo oggetto lavorato dalla mano dell’uomo era una cappella gotica quasi interamente ricoperta da ortiche e da funghi. La maggior parte di questa vegetazione metteva un colorito bruno sulle rovine della cappella, ma lungi dalla casa prendeva delle tinte aranciate e purpuree abbastanza vivaci per la decorazione orientale di Lord Ivywood. Qualche sguardo immaginoso che si posò più tardi sul luogo trovò una specie di allegoria in questi santi ed arcangeli diroccati che nutrivano così effimeri parassiti; ma il signor Quoodle non aveva mai posato ad allegorista, epperò cercò semplicemente di farsi largo in quella verde giungla inglese. Le punture dei cardi e delle ortiche non gli davano poca noia, ma egli continuò ad andare avanti col naso per terra come se avesse realmente fiutato qualche cosa che lo interessava. E, infatti, aveva fiutato qualche cosa cui un cane – eccetto che in occasioni speciali – prova più interesse che per un altro cane. Spezzando l’ultima barriera di cardi, si trovò, finalmente, in un tratto di terreno semicircolare e abbastanza sgombro, dove crescevano degli alberi sottili, e dove lo sfondo era formato dall’arco di un vecchio tunnel. Esso era mascherato da una siepe di legno, e aveva, in tutto l’insieme, l’aria di un cottage da pantomima. Sul davanti c’era un uomo in un abito da caccia tutto a sbrendoli, che sosteneva una vecchia padella sopra una fiamma piuttosto irregolare, da cui però veniva un forte odore di rhum. Nella padella, ed

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anche sopra una specie di barile che era lì accanto e serviva da tavola, si vedevano di quei funghi grigi, bruni e perfino aranciati che si erano appiccicati agli alberi e ai draghi della cappella decaduta.

— Allò, vecchio mio! – disse l’uomo tranquillamente senza alzare gli occhi dalla padella. – Venuto a farci visita? Avanti pure. – Egli diede un’occhiata al cane e poi tornò a guardare la sua padella. – Se la tua coda fosse più corta di dieci centimetri, varresti almeno cento sterline. Hai fatto colazione?

Il cane gli si avvicinò e cominciò ad annusare intorno ai suoi gambali di pelle mezzi stracciati. L’uomo non interruppe la sua operazione, ma piegò un ginocchio e abbassò una mano fino a fare una carezza sotto la mascella del cane – uno stimolante questo che (lo hanno dimostrato uomini di scienza) ha per i cani lo stesso effetto che un sigaro ha per un uomo. Nello stesso tempo una voce stentorea, come quella di un orco, venne dal tunnel mascherato: – A chi diavolo parlate?

E da un buco, nell’angolo del cottage da pantomima, spuntò fuori una enorme testa, con dei capelli rossi e ritti, e due occhi azzurri sgranati come gli occhi di una rana.

— Hump, – gridò l’orco – tutti i miei consigli morali sono stati dati al vento. Durante l’ultima settimana io vi ho cantato quattordici canzoni e mezza, tutte di mia composizione, e voi invece, mi andate a rubare dei cani. Ho paura che seguite proprio l’esempio di Don Come-Si-Chiamava.

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— No – disse l’uomo della padella imparzialmente. – Don Whitelady mi ha dato un buon esempio nel far perdere le sue tracce, tornando sui suoi passi a Pebbleswick, e in ciò l’ho seguito. Ma quanto al rubar cani credo che egli abbia agito stupidamente. Era giovane e allevato nella santa religione, ma io conosco troppo bene i cani per rubarli.

— Va bene – disse l’uomo dalla testa rossa – ma come mai avete lì quel cane?

— Sono io che mi lascio rubare da lui! – disse l’altro della padella. E, per verità, il cane sedeva ritto, con un’aria perfino arrogante, ai suoi piedi, come se egli fosse un cane messo lì di guardia a un alto stipendio, e fosse stato lì prima della costruzione del tunnel!

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CAPITOLO XIVEGETARIANISMO IN SALOTTO

La compagnia che si era adunata ora per ascoltare la parola del Profeta della Luna era più scelta di quella della Società delle Anime Semplici, composta di elementi diversi e per lo più della piccola borghesia. Miss Browning e sua sorella, la signora Mackintosh, erano presenti perchè Lord Ivywood le aveva impiegate come dattilografe, e dava loro molto da fare. C’era anche il signor Leveson, perchè Lord Ivywood aveva una grande fiducia nella sua abilità di organizzatore, e anche il signor Hibbs, perchè Leveson aveva fiducia nel suo giudizio politico, per quanto non sempre riuscisse a capirne qualche cosa. Leveson aveva dei capelli diritti e neri ed un’aria imbarazzata. Hibbs aveva i capelli diritti e biondi e aveva pure un’aria imbarazzata. Ma il resto della compagnia apparteneva al mondo di Lord Ivywood, o al mondo della finanza che, come sul continente, si intrufola anche in Inghilterra fra gli aristocratici. Lord Ivywood accolse con manifestazione di speciale calore anche un distinto diplomatico straniero, il quale era nientemeno che il silenzioso rappresentante della Germania, che aveva seduto accanto a lui nell’ultima conferenza nell’Isola degli

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Ulivi. Il Dottor Gluck non indossava più il suo vestito nero ed austero, ma una uniforme diplomatica, tutta ornamenti, colla relativa spadina e decorazioni prussiane, austriache, turche, perchè doveva poi passare dalla casa di Ivywood a una funzione a corte. Ma quelle sue labbra arricciate, quei suoi baffi tirati in su e quei suoi occhi a mandorla inespressivi non avevano mutato, più di quello che muti la faccia di un manichino di cera nella vetrina di un parrucchiere. Anche il Profeta aveva fatto un miglioramento nel suo abbigliamento. Quando aveva arringato la folla sulla spiaggia, il suo abito, fatta eccezione del fez, era stato quello sdruscito ma rispettabile di un qualunque impiegatello della City. Ma ora che era venuto fra aristocratici non ci potevano essere incongruenze di sorta. Egli doveva proprio comparire come un loto o un tulipano colto fresco fresco in Oriente. Perciò egli indossava una lunga e fluente veste bianca, filettata di rosso, e in testa aveva un turbante di un verde pallido, quasi gialliccio. Egli doveva avere tutta l’aria di esser venuto in Europa sopra il tappeto volante, o di essere caduto un momento prima dal suo paradiso della Luna.

Le signore del mondo di Lord Ivywood erano presso a poco quelle che noi già conosciamo. C’era Lady Enid Wimpole, con un vestito così tremendamente complicato che sembrava una processione, e Lady Giovanna Brett sempre bella come una spagnuola, che non si faceva però illusioni sul suo castello in Spagna. C’era anche la grossa e risoluta signora, che non aveva

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voluto fare domande a Misysra dopo la sua prima conferenza e che era nota come Lady Crump, la distinta Femminista, la quale aveva l’aria di essere gonfia di domande fatali per l’Uomo, ma di esser passata da uno stato di ostilità parlante a uno di ostilità silenziosa. Durante tutta la riunione essa si mantenne muta con occhi malevoli. E c’era la vecchia Lady Ivywood coi suoi più vecchi e più fini merletti, e i suoi modi più vecchi e più fini, con quell’aria cadaverica ch’è propria di tutti i genitori degli intellettuali.

— Su che cosa verterà la vostra conferenza? – chiese Lady Enid al Profeta.

— La mia conferenza – fu la risposta – sarà sul Maiale.

Era cosa tipica della sua semplicità, degna veramente di rispetto, che egli non si preocupasse mai della incongruenza dei suoi testi e dei suoi simboli, da cui filava poi a migliaia le sue pazzesche teorie. Lady Enid sopportò quello che di urtante aveva il titolo della conferenza senza perdere quella espressione di voluta dolcezza che essa sapeva assumere tutte le volte che parlava con qualcuno.

— Il Maiale è un vasto argomento – notò il Profeta disegnando nell’aria grandi segni, come se abbracciasse un maiale premiato per le sue dimensioni. – Comprende molti elementi di trattazione. È strano per me che i Cristiani abbiano a ridere di sorpresa perchè noi ci consideriamo contaminati dal maiale. Eppure voi cristiani stessi lo considerate come una sudiceria, tanto

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che ne usate il nome quando volete esprimere qualche cosa per cui sentite il più grande disprezzo e la più grande ripugnanza. Voi date del «porco» a uno, mia cara signora; non gli date mica il nome di un altro animale; non lo chiamate mica «alligatore».

— È vero – disse la signora. – Meraviglioso!— Eppure – continuò trionfalmente il Profeta

incoraggiato – questo terribile maiale, questo mostro, il cui solo nome quando è bisbigliato è tale da confondere i vostri nemici, voi, mia cara signora, lo lasciate venire presso di voi: voi incorporate sostanzialmente questo grande maiale nella vostra persona.

Lady Enid Wimpole appariva un po’ sconcertata per questa condanna delle sue abitudini, e Lady Giovanna fece cenno a Lord Ivywood di levarla d’imbarazzo dando inizio alla conferenza. Ivywood condusse la compagnia in una camera assai più larga, che era piena di poltrone, con in fondo una specie di leggìo; aveva ai lati tavole con sopra rinfreschi d’ogni genere. Cosa tipica dell’entusiasmo mezzo-fittizio di quel mondo aristocratico, una lunga tavola conteneva solo cibi vegetariani, specie di origine orientale, (come fosse stata la tavola, preparata nel deserto, per qualche fastidioso eremita) mentre altre tavole erano zeppe di patés di selvaggina, di aragoste e di bottiglie di champagne – ed erano le tavole più frequentate! – Perfino il signor Hibbs, che in coscienza avrebbe considerato più disonorevole entrare in un bar che in un

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postribolo, non poteva annettere alcuna idea disonorevole allo champagne di Lord Ivywood!

Lo scopo della conferenza, e tanto meno della riunione, non doveva essere quello di discorrere del grande e terribile maiale. Lord Ivywood, la cui mente vulcanica era sempre fervida di fantasie, che si traducevano poi per lui in ambizioni, voleva avere un dibattito sulla dieta dell’Est e dell’Ovest, e aveva pensato che Misysra Ammon avrebbe potuto opportunamente iniziarlo, parlando del veto che gli orientali hanno messo sulla carne di porco e su tutti gli altri cibi grossolani di carne. Si riservava poi lui di continuare la conversazione.

Il Profeta cominciò con una delle sue fantastiche stramberie. Informò la compagnia che gli inglesi avevano sempre avuto un odio recondito e un grande disgusto per il porco, come un simbolo di malvagità. E diede la prova del suo asserto, richiamandosi al costume inglese di disegnare un porco con un occhio chiuso. Lady Giovanna sorrise, ma si domandò (con quell’aria dubbiosa attraverso cui aveva guardato da un po’ di tempo molte cose moderne) se la cosa era realmente molto più fantastica di tante altre di cui le avevano parlato gli scienziati.

Egli aggiunse che una luce anche più viva della verità si sprigionava dall’uso della parola «gammon» (prosciutto affumicato) che ancor ora esprime non più il timore, ma il razionale disprezzo della «immagine porcina». «Rowley», disse il Profeta solennemente. E

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poi, dopo una lunga pausa: «Rowley, Gammon e spinaci». Lady Giovanna tornò a sorridere: ma di nuovo si domandò se la inferenza era proprio molto più fantastica della storia che aveva letto in un libro, dove si provava la impopolarità del Cattolicesimo al tempo dei Tudor dalle parole «hocus pocus».

Egli si tuffò poi in uno stupefacente labirinto psicologico fra i primevi peccati rossi della Genesi e la comune parola inglese «ham» (prosciutto affumicato). Ma ancora una volta Lady Giovanna si domandò se la cosa era più stramba delle altre che aveva udito dire sull’«Uomo Primitivo» da gente che non l’aveva mai visto.

Egli avanzò l’ipotesi che gli Irlandesi erano allevatori di porci per il fatto che erano una casta inferiore e spregevole, e schiavi dei Sassoni che hanno i porci in grande disdegno. E in questo Lady Giovanna lo trovò ragionevole come il vecchio Arcidiacono, per quello che questi aveva detto dell’Irlanda anni fa, e che aveva fatto cantare a un irlandese di sua conoscenza «The Shan Van Voght», mandando poi in pezzi il piano.

Giovanna Brett era stata pensierosa in questi ultimi giorni. In parte per la scena nella torretta, dove era stata meravigliata del lato artistico e sentimentale di Lord Ivywood, che essa non avrebbe mai sospettato in lui, e in parte per le notizie inquietanti sulla salute di sua madre, che, sebbene non allarmanti, le avevano fatto sentire come essa fosse sola al mondo. In altre circostanze essa si sarebbe semplicemente divertita

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nell’ascoltare le corbellerie del conferenziere. Oggi provava uno strano desiderio di analizzarlo e di trovare una spiegazione del come un uomo potesse apparire così equilibrato e così convinto pur trovandosi sempre lontano le mille miglia dalla verità. Ascoltandolo attentamente, e tenendo gli occhi abbassati sulle sue mani, le parve di trovare questa spiegazione.

Il conferenziere cercò realmente di provare che la «immagine porcina» non era mai stata usata nella storia o nella letteratura inglese, se non per esprimere un senso di disprezzo. E il conferenziere, indubbiamente, ne sapeva più di lei di letteratura e di storia inglese, e più anche di tutti gli altri aristocratici che gli facevano corona. Ma essa notò che ciò che egli conosceva era sempre appena il frammento di un fatto. Ciò che costantemente egli mostrava di non conoscere, era la verità che si nascondeva dietro il fatto stesso. Ciò che egli non conosceva era l’atmosfera: era la tradizione.

Misysra Ammon sapeva infatti, meglio di tutti i suoi presenti, che Riccardo III fu chiamato un «cinghiale» da un poeta del settecento e un «porco» da uno del cinquecento. Ciò che egli non sapeva erano le abitudini sportive e araldiche del tempo. Egli non sapeva (ciò che venne fatto immediatamente di intuire a Lady Giovanna, sebbene non ci avesse mai pensato prima d’allora) che le bestie coraggiose e dure a morire erano bestie nobili secondo la legge della cavalleria. Conseguentemente un cinghiale era un nobile animale e un emblema comune di tutti i grandi capitani.

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Misysra Ammon sapeva, meglio di tutti i suoi uditori, che non c’è mai stato un Lord Bacon. Si dice Lord Bacon erroneamente, mentre si dovrebbe dire Lord Verulam o Lord St. Albans. Ciò che egli non sapeva, e sapeva invece Lady Giovanna (sebbene la cosa le fosse balenata in quel momento), era che quando tutto s’è ben detto e fatto, un titolo è una specie di scherzo, mentre la cosa seria è il cognome. Bacon era un gentiluomo, e il suo cognome era Bacon, per quanto diversi siano stati i titoli che egli si prese. Ma Misysra cercò seriamente di provare che «Bacon» (prosciutto affumicato) era un termine spregiativo, appioppatogli durante il periodo della sua impopolarità o dopo la sua caduta.

Misysra sapeva ciò che nessuno dei presenti sapeva, e cioè che il poeta Shelley ebbe un amico per nome Hogg che una volta si comportò con lui come un traditore. Ecco che Misysra tentò di dimostrare che l’uomo era chiamato «Hogg» (porco) unicamente perchè aveva tradito Shelley. E addusse il fatto, in connessione con Shelley, che un altro poeta, virtualmente suo contemporaneo, era detto «Hogg». Ciò che egli non sapeva era ciò che Giovanna sapeva senza saperlo: il genere di persone di cui si trattava; le tradizioni di aristocratici come gli Shelley e di gente come gli Ettrick Sherpherd.

Il conferenziere concluse con un passo di un’oscurità impenetrabile su certe frasi nelle quali entrava la parola porco in composizione con altre – passo che Giovanna rinunciò, senz’altro a capire.

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— Ma può credere simili cose Filippo Ivywood? – essa si chiese, e mentre faceva questa riflessione Ivywood si alzò.

Egli aveva, al pari di Pitt e di Gladstone, la improvvisazione della dizione: le sue parole rotolavano regolarmente e andavano a finire al loro posto, come tanti soldati in un esercito ben disciplinato in rapida avanzata. E non andò molto che Giovanna si accorse che l’ultima fase della conferenza, così mostruosamente oscura, era proprio quella che forniva a Ivywood lo spunto del suo dire. Nè potè sottrarsi al sospetto che la cosa fosse stata combinata prima.

— È a mia memoria – disse Lord Ivywood – ma non è necessario che sia alla vostra, che, quando è stato mio dovere precedere l’ammirato conferenziere a cui ora è mio privilegio di tener dietro, io ho avanzato una ipotesi che, per quanto semplice, parve a molti paradossale. Io ho chiaramente o implicitamente affermato l’opinione che la religione di Maometto è, in un certo senso, una religione in progresso. Questa opinione è così contraria, non solo alla conversazione storica, ma alla nozione comune, che non avrò motivo di sorpresa o di censura se ci vorrà un po’ di tempo prima che possa entrare nella testa del pubblico inglese. Ma io credo, signore e signori, che questo tempo è stato ora notevolmente abbreviato dalla notevole esposizione alla quale abbiamo oggi prestato orecchio. Perchè questa questione della posizione che l’Islam ha preso di fronte ai cibi, offre un eccellente esempio del suo costume

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peculiare di purificazione progressiva, come pure offre un esempio più popolare la posizione da esso presa di fronte alle bibite. Si tratta, infatti, di una luminosa dimostrazione di quello che io chiamo il principio del Crescente: il principio cioè di un perpetuo sviluppo verso una implicata e infinita perfezione.

«La grande religione dell’Islam non proibisce di per sè di mangiar carne. Ma, coerentemente a quel principio di sviluppo, che è la sua stessa vita, ha segnato la via della perfezione, forse non ancora interamente raggiungibile, della nostra natura; ed ha preso, come esempio, il pericolo che viene dal mangiare carne, levando in alto la ripugnante carcassa come un monito e come un simbolo. Nell’emergere graduale dell’umanità da una dieta grossolana e sanguinaria, il Semita è stato in testa a tutti. Egli ha messo, per così dire, un simbolico embargo sulla bestia tipica, la bestia delle bestie. Coll’istinto del vero mistico egli esonerò da tali feste cannibalesche la creatura che fa appello per due versi all’alta morale vegetariana. Il porco è ad un tempo, la creatura che, per la sua importanza più ci muove a pietà, e la cui bruttezza più ripugna al nostro gusto.

«Sarebbe sciocco affermare che non nascono difficoltà dalle differenti fasi di evoluzione morale nella quale si trovano le varie razze. Così si dice comunemente, provandolo con qualche documento, o citando qualche fatto, che i seguaci del Profeta si sono specializzati nell’arte della guerra, e sono venuti in contatto – un contatto non invariabilmente amichevole –

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con quegli Indù dell’India che si sono invece specializzati nelle arti della pace. Egualmente gli Indù, bisogna confessarlo, hanno preceduto l’Islam in materia di cibo, come l’Islam ha preceduto la Cristianità in materia di bevande. È bene ripetere, signore e signori, che tutto quello che si dice sulle differenze fra gli Indù e i Maomettani, lo si dice dai Cristiani, ed è quindi sospetto. Ma anche in questa questione, come possiamo noi non vedere i pericoli di ignorare quanto ci sia di benefico nel veto sulla carne di porco? Forse che un Impero non ci è quasi sfuggito di mano, perchè le nostre mani erano ingrassate con grasso di vacca? E il pozzo di Cawnpore non si è forse riempito di sangue, anzichè d’acqua, solo perchè noi non abbiamo voluto far caso all’istinto orientale riguardo al versare sangue sacro?

«Ma se si proponesse, con qualsiasi graduazione, di avvicinarsi all’abbandono della carne raccomandato principalmente dal Buddismo, e, in parte dall’Islamismo, si domanderà sempre, da coloro che odiano la stessa visione del Progresso: – Dove tirerete voi una linea? Possiamo mangiare ostriche? Possiamo mangiare uova? Possiamo bere latte? – Certamente. Certamente che lo potete. Potete mangiare o bere qualunque cosa essenziale alla vostra fase di evoluzione, purchè vi stiate evolvendo verso un ideale, sempre più chiaro, di vita corporale. Se – egli disse gravemente – io posso arrogarmi il diritto di un consiglio vorrei dirvi che potete mangiare dozzine di ostriche oggi, se siete disposti a mangiarne appena cinque domani! Poichè in

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quale altro modo si è raggiunto il progresso nei costumi pubblici e privati? Non sarebbero forse i primitivi cannibali sorpresi per la distinzione che noi facciamo fra uomini e bestie? Tutti gli storici fanno alti elogi degli Ugonotti, e del grande Principe Ugonotto Enrico IV. Nessuno ha mai negato che l’aspirazione che ogni francese potesse avere una gallina nella sua pentola, era per quel tempo un’alta aspirazione. Non è mancare di rispetto verso di lui, se noi sollevandoci verso più alti orizzonti, e spingendo lo sguardo in più ampie prospettive, ci fermiamo a fare sulla gallina qualche considerazione. E così facendo noi vediamo sfilarci davanti figure più alte di Enrico di Navarra. Io darò sempre un alto posto, come glielo ha sempre dato l’Islam, a quella figura, mitica o no, che noi vediamo presiedere ai fondamenti della Cristianità. Io non posso mettere in dubbio che la favola, altrimenti incredibile e ripugnante, che dice della corsa di porci sul mare, fu una allegoria della sua divinazione: «uno spirito, invero, maligno, risiede in tutti gli animali, in quanto ci tentano a divorarli». Io non posso mettere in dubbio che il Prodigo, che lascia i suoi peccati fra i porci, è un’altra illustrazione della grande tesi del Profeta della Luna. Ma qui pure il progresso e la relatività continuano ininterrottamente la loro avanzata, e non pochi di noi possono essersi innalzati al punto da deplorare che la gioia delle voci, salutanti il ritorno del Prodigo, sia stata guastata dal gemito di un agnello!

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«Per il resto, chi ci domanda dove noi andiamo, mostra di non conoscere il significato della parola Progresso. Se noi arriveremo a vivere della luce, come gli uomini dicono che viva il camaleonte; se qualche magia cosmica, a noi ignota finora, come ci era ignoto fino a qualche tempo fa il radio, ci permetterà di trasmutare i metalli in carne, noi conosceremo tutte queste cose, quando le avremo conquistate. Per ora ci basta di aver raggiunto uno stato spirituale, nel quale la cima che tagliamo non ha occhi per rimproverarci, e le erbe che cogliamo non hanno proteste contro la nostra crudeltà, come la mandragola».

Lord Ivywood si rimise a sedere, mentre le sue pallide labbra ancora si muovevano. Per un accordo, fatto antecedentemente, il signor Leveson allora si alzò per svolgere un ordine del giorno sul Vegetarianismo. Egli espresse l’opinione che il veto degli Ebrei e dei Maomettani messo al porco, si poteva considerare l’inizio del vegetarianismo. Disse che era un gran passo, e dimostrò come il credo potesse essere progressivo. Osservò che le persecuzioni degli Indù, da parte dei Musulmani, erano probabilmente state esagerate, e aggiunse che la nostra esperienza nell’Ammutinamento Indiano aveva dimostrato come noi avessimo avuto torto di non tener conto abbastanza dei sentimenti orientali. Disse che, a parer suo, il vegetarianismo era più avanti del cristianesimo ortodosso. Affermò che bisognava essere pronti per gli altri progressi, e quindi si rimise a sedere. E siccome egli aveva, punto per punto,

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ripetuto ciò che aveva detto Lord Ivywood, sarà inutile aggiungere che il nobile signore si congratulò con lui per la baldanza e l’originalità del suo discorso.

Pure, per un accordo fatto prima, il signore Hibbs si alzò delicatamente, per assecondare l’oratore e sostenerne l’ordine del giorno.

Egli si vantò di essere uomo di poche parole. Non era un oratore come Bruto. Era soltanto quando si trovava nel suo ufficio, colla penna in mano e il tavolo pieno di opere da consultare, che egli provava quel senso di responsabilità che costituiva il piacere della sua vita. Ma in questa occasione egli era stato più brillante del solito, in parte perchè gli piaceva di trovarsi nella casa di un Lord, in parte perchè non aveva mai bevuto champagne prima d’allora e lo aveva trovato di suo gusto, e in parte, in fine, perchè egli vedeva nell’argomento del Progresso un’eccellente opportunità per dar ragione a tutti.

— Comunque – disse Hibbs, con un colpetto di tosse – noi pensiamo che sulle differenze fra Indù e Musulmani non ci può essere dubbio circa la responsabilità delle Chiese Cristiane. Se le Chiese Libere avessero presa una posizione netta di fronte alla domanda dei signori Opalstein, noi nulla avremmo udito sulle differenze fra un credo e l’altro. Invece la cosa, così come era, gli richiamava Napoleone. Egli dava la sua opinione per quello che valeva, non aveva paura di dire colà ad ogni costo, anche in quella compagnia, che l’argomento della vegetazione asiatica aveva occupato al Congresso Wesleiano meno tempo di quello che vi

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avrebbe dovuto occupare. Era egli, naturalmente, l’ultima persona a muovere dei rimproveri a chicchessia. Tutti conoscevano del resto le benemerenze del Dottor Coon. Tutti sapevano, al pari di lui, che un lavoratore per il bene sociale più strenuo di Carlo Chadder, non aveva mai aiutato le forze del Progresso. Ma quella che in realtà non era una indiscrezione, poteva passare per una indiscrezione, e forse ne avevano avuto abbastanza recentemente. Era una bellissima cosa parlare del caffè, ma era doveroso ricordare, senza fare offesa ai Canadesi, ai quali noi tanto dobbiamo, che tutto era avvenuto prima del 1891. Nessuno aveva l’intenzione di offendere i nostri amici Ritualisti, e lui meno di chiunque altro, ma egli non esitava a dire che la domanda era di quelle che si potevano fare sebbene indubbiamente, da un certo punto di vista, le capre...

Lady Giovanna fece un movimento brusco sulla sedia, come se fosse stata presa da un dolore improvviso. E, in realtà, essa aveva provato in quel momento il dolore cronico che la coglieva di tanto in tanto nella sua vita. Essa era coraggiosa se si trattava di dolori corporali, come lo sono tutte le donne, anche quelle dell’aristocrazia, ma il tormento che di tanto in tanto la prendeva era di quelli a cui erano stati dati molti nomi filosofici, ma nessuno così filosofico come il nome di Noia.

Essa capì che non avrebbe potuto resistere un altro minuto. Se fosse rimasta lì ad ascoltare, anche ciò che egli aveva da dire sulle capre, sarebbe morta! Si alzò

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dalla sedia e sgusciò in un angolo, come per avvicinarsi a una delle tavole sulle quali stavano i rinfreschi. E così potè uscire di là e si trovò nei nuovi appartamenti orientali quasi finiti. Si lasciò cadere sopra una ottomana, e spinse lo sguardo verso la torretta nella quale Ivywood le aveva fatto capire che anche lui sapeva che cosa fossero il sentimento della bellezza e il desiderio della pace. Anche lui, evidentemente, aveva una sua poesia che assomigliava più a quella di Shelley che alla poesia di Shakespeare. Ciò che aveva detto intorno a quella torretta fatata era vero: sembrava proprio di essere alla fine del mondo. Essa era là per ricordarle che, dopo tutto, c’è sempre un limite sereno. Si appoggiò al gomito e si sollevò con un sorriso. Un cane di un aspetto brutto, ma familiare venne a strofinarsi vicino a lei. Essa alzò la testa e vide qualche cosa che le parve, in un senso più cristiano e catastrofico, proprio come la fine del mondo!

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CAPITOLO XIIVEGETARIANISMO NELLA FORESTA

Il fatto che Humphrey Pump stesse cucinando un fungo in una vecchia padella (che egli aveva trovato sulla spiaggia) era eminentemente caratteristico dell’uomo. Egli non aveva la pretesa di aver appreso alcunchè dai libri: si sarebbe potuto dire che egli era uno scienziato che la scienza aveva avuto la disgrazia di perdere. Era un naturalista inglese di vecchio stampo, come Gilbert White o anche Izaak Walton, che aveva imparato non accademicamente, come un professore americano, ma praticamente, come un indiano americano. E tutte le verità che un uomo ha trovato come un uomo di scienza, sono leggermente diverse dalle verità che ha trovato come uomo; perchè la famiglia, gli amici, le abitudini, l’atmosfera sociale di un uomo hanno già avuto su di lui la loro influenza, prima che egli abbia imparato teoricamente cosa alcuna. Per esempio, qualunque eminente botanico saprebbe dire in una seduta della Royal Society quali funghi sono mangiabili; così, per una nozione vaga, come saprebbe dire che i funghi sono un lusso moderato che si può permettere la borghesia, mentre i tartufi, pure appartenendo alla stessa famiglia, sono costosissimi e

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permessi solo alla gente assai ricca. Invece i vecchi naturalisti inglesi, di cui il primo fu forse Izaak Walton, e Humphrey Pump forse l’ultimo, hanno costatato per loro esperienza (talora per una disastrosa esperienza) che alcuni funghi sono buoni ed altri no, ma che i buoni, in complesso, sono la maggioranza. Però un uomo come Humphrey Pump non aveva paura di un fungo, come tale, più che ne avesse di un animale, come tale. In lui non era il preconcetto che un crescimento grigio o purpureo sopra un sasso dovesse essere velenoso, così come non era in lui il preconcetto che un cane, che usciva dal bosco e gli si avvicinava, dovesse essere idrofobo. Egli conosceva bene i funghi; quelli che non conosceva li trattava con una certa cautela, ma per lui erano, in complesso, creature amiche dell’uomo.

— Vedete – egli disse al Capitano – si possono benissimo mangiare vegetali, se voi sapete che vegetali sono e se ne mangiate quanto ne potete. Ma i signori, generalmente, commettono due errori. Anzitutto, essi non sono mai stati obbligati a mangiare una carota, o una patata, perchè erano le sole cose che avevano in casa; e così non hanno mai imparato ad essere affamati di carote, come lo potrebbe essere un asino. Essi conoscono i vegetali solo come condimento. Sanno che l’anatra si mangia coi piselli, e così, quando diventano vegetariani, pensano solo ai piselli, senza l’anatra. Sanno che l’aragosta si prende coll’insalata, però quando diventano vegetariani pensano solo all’insalata, senza l’aragosta. L’altro errore è anche peggiore. C’è

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molta gente da queste parti, e più ancora nel nord, che prende la carne raramente. Ma quando la prende la divora. Coi signori c’è invece un altro guaio. Quegli stessi che non vogliono mangiar carne, in realtà non vogliono mangiare nulla. Il vegetariano che va in casa di Ivywood è, generalmente, come una mucca che voglia vivere con un filo d’erba al giorno. Io e voi, Capitano, siamo stati per qualche tempo vegetariani, per non consumare il nostro formaggio, e la cosa non c’è stata difficile perchè abbiamo mangiato quanti vegetali abbiamo potuto.

— È molto più difficile essere astemi – rispose Dalroy – per non consumare il nostro rhum! Ma non nego che, tutto sommato, la dieta vegetariana mi fa star meglio. Anche perchè penso che posso sempre lasciarla quando voglio. E ora che ci rifletto – egli gridò con uno dei suoi periodici ritorni a un’energia animale – perchè, se devo essere un vegetariano, non dovrei bere? Perchè non dovrei avere una bevanda puramente vegetariana? Perchè non dovrei prendere i vegetali nella loro forma, per così dire più alta? I modesti vegetariani devono evidentemente attenersi alla birra e al vino, che sono bevande per eccellenza vegetariane, invece di ingozzarsi con sangue di toro e di elefante, come fanno, immagino, tutti questi mangiatori di carne. Voglio dire che bere del decente liquore fermentato è proprio il trionfo del vegetarianismo... Che ispirazione mi viene! Potrei farne una canzone. Ecco qua:

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You will find me drinking rum,Like a sailor in a slum,You will find me drinking beer like a Bavarian.You will find me drinking ginIn the lowest kind of inn,Because I am a rigid Vegetarian21.

— Ma certo! Mi si apre davanti un panorama di felicità verbale e di edificazione spirituale! Ha cento e cento aspetti! Vediamo un po’: come si potrebbe seguitare?... Così, presso a poco:

So I cleared the inn of wine,And I tried to climb the sign,And I tried to hail the constable as «Marion».But he said I couldn’t speak,And he bowled me to the Beak,Because I was a Happy Vegetarian22.

— Francamente, io credo che qualche cosa di istruttivo per la razza umana risulterà da tutta questa faccenda!

21 Mi troverete a bere rhum – come un marinaio in una catapecchia, – mi troverete a bere birra come un bavarese. – Mi troverete a bere gin – nella più bassa delle osterie – perchè io sono un rigido vegetariano.

22 Così io ho vuotato l’osteria di tutto il vino – e ho cercato di arrampicarmi sull’insegna; – ho cercato di far venire il policeman chiamandolo «Marion». – Ma egli disse che io non potevo parlare – e mi fece rotolar giù come una palla al Beak – perchè io sono un felice vegetariano!

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In quella il quadrupede Quoodle venne fuori dal bosco, un minuto più tardi del solito, e si mise a sedere accanto al piede sinistro di Humphrey con un’aria preoccupata.

— Bravo! – disse il Capitano. – Pare che tu abbia preso simpatia per noi. Chissà se a casa sua se ne prendono cura, Hump. Io non voglio dir male di Ivywood. Non voglio che la sua anima abbia mai motivo di accusare la mia per tutta l’eternità di una meschina detrazione. Io voglio essere giusto verso di lui, appunto perchè lo odio come si odia l’inferno, avendomi portato via tutto ciò che avevo di più caro. Ma io non credo di dir nulla più di ciò che confesserebbe egli stesso (perchè il suo cervello non è offuscato), quando dico che egli non è un uomo capace di capire un animale. Questa è anche la ragione, per cui egli non ha mai potuto capire il lato animale di un uomo. Egli non sa ancora adesso, Hump, che la vostra vista e il vostro udito sono centocinquanta volte più acuti dei suoi. Egli non sa che il mio sangue circola meglio del suo. Questo spiega come si accompagni a gente straordinaria: egli non guarda mai a codesta gente come io e voi guarderemmo a un cane. Mi ricordo di un certo Gluck, il quale (certo per influenza dello stesso Ivywood) era suo collega alla Conferenza Turca, come supposto rappresentante della Germania. Mio caro Hump, egli era un uomo che un gentiluomo come Ivywood non avrebbe dovuto toccare nemmeno colla punta di una bacchetta. Non per la razza cui

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apparteneva, ma per la specie di individuo che era: un comune, volgare levantino, un tipo di spione. Basta, non bisogna perdere la pazienza quando si parla di gente simile; anzi, per consolarmi, ricorro al mio solito costume di versificare:

Oh I knew a Doctor Gluck,And his nose it had a hook,And his attitudes were anything but Aryan;So I gave him all the porkThat I had, upon a fork;Because I am myself a Vegetarian23.

— Se siete veramente un vegetariano, venite, dunque, a mangiare qualche vegetale – disse Hump. – Il fungo, detto Capello Bianco, lo si può mangiare freddo e senza cuocerlo; ma quelli detti Punte Rosse devono essere cotti.

— Avete ragione, Hump – disse mettendosi a sedere come se volesse tacere, e si preparasse a mangiare con un buon appetito. – Io starò zitto, come dice il poeta:

I am silent in the Club,I am silent in the pub,I am silent on a bally peak in Darien;For I stuff away for life

23 Oh, io conobbi un dottor Gluck – il suo naso era fatto ad uncino – e i suoi atteggiamenti erano tutto fuorchè ariani; – così io gli diedi tutto il porco – che avevo su una forchetta – perchè io sono vegetariano.

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Shoving peas in with a knife,Because I am at heart a Vegetarian24.

Dopo di che egli si gettò sul cibo con grande avidità, ne consumò in breve una buona parte, gettò uno sguardo invidioso al barilotto, e quindi saltò ancora in piedi. Afferrò l’insegna dell’osteria, che era appoggiata al cottage, e la piantò, come una picca, nel terreno, lì accanto. Quindi riprese a cantare con voce anche più alta:

O Lord Ivywood may lop,And is also free to top,And bis privilege is sylvan and riparian.But...25

— Sapete – disse Hump, che pure aveva finito il suo pasto – che ne ho abbastanza di questa vostra canzone?

— Abbastanza di questa canzone? – gridò l’irlandese indignato. – Allora ve ne canterò un’altra, anche più lunga, sempre intorno ai vegetariani, e mi vedrete per giunta ballare, e ballerò fino a quando voi scoppierete a piangere per la disperazione, e mi offrirete metà del vostro regno. Ed io domanderò, per finirla, che mi si dia

24 Io taccio nel club – taccio nell’osteria – taccio su un bel picco di Darien – perchè io tesoreggio per la vita – mettendo via piselli con un coltello – perchè io sono nel mio cuore un vegetariano.

25 Oh, Lord Ivywood può fare – e disfare quello che vuole – e i suoi privilegi sono silvani come pure rivieraschi – ma...

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la testa del signor Leveson da mettere in padella. Perchè questo, lasciatemelo dire, è un canto di origine orientale, celebrante i capricci di un antico sultano babilonese, e dovrebbe essere cantato in un palazzo d’avorio, con palme e accompagnamento di bulbul.

E cominciò a buttar fuori un’altra delle sue canzoni sul vegetarianismo:

Nebuchadnezzar the King of the Jews,Suffered from new and original views,He crawled on his hands and knees, it’s said,With grass in his mouth and a crown on his head.With a wowtyiddly, etc.

Those in traditional paths that trodThought the thing was a curse from God,But a Pioneer men always abuseLike Nebuchadnezzar the King of the Jews26.

Mentre cantava questa canzone, Dalroy si mise realmente a ballare come una danzatrice di teatro, e la sua enorme figura aveva qualche cosa di ridicolo nella luce del tramonto. Egli brandiva l’insegna di legno e la

26 Nabucodonosor, re degli Ebrei, – soffrì per vedute nuove e originali; – si disse che egli andava carponi sulle mani e le ginocchia, – con dell’erba nella bocca e la corona sulla testa. – Quelli che camminavano per le solite vie tradizionali – credettero che egli fosse maledetto da Dio, – ma gli uomini sempre maltrattano i pionieri – come Nabucodonosor, re degli Ebrei.

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faceva girare intorno alla sua testa. Quoodle aprì gli occhi, drizzò le orecchie, e parve molto interessato a queste straordinarie evoluzioni. Improvvisamente, con uno di quegli scatti che hanno anche i cani più sedentari, Quoodle si persuase che quella danza era un gioco e allora cominciò ad abbaiare e a correre intorno al ballerino, facendo, alle volte, dei salti così alti che pareva volesse arrivare alla sua gola. Ma, sebbene il marinaio non avesse una conoscenza dei cani, così profonda come poteva averla un uomo di campagna, quale Hump, egli ne sapeva abbastanza (come sapeva abbastanza d’altre cose) per non averne paura; e la voce con cui cantava avrebbe potuto farsi sentire anche su quella di cinquanta cani:

Black Lord Foulon the Frenchman slew,Thought it a Futurist thing to do.He offered them grass instead of bread.So they stuffed him with grass when they cut off his head.With a wowtyiddly, etc.

For the pride of his soul he perished thenBut of course it is always of Pride that men,A Man in Advance of his Age accuse,Like Nebuchadnezzar the King of the Jews.Simeon Scudder of Styx, in Maine,Thought of the thing and was at it again.He gave good grass and water in pails

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To a thousand Irishmen hammering rails.With a wowtyiddly, etc.

Appetites differ; and tied to a stakeHe was tarred and feathered for Conscience’ Sake.But stoning the prophets is ancient newsLike Nebuchadnezzar the King of the Jews27.

Con un abbandono insolito in lui, egli ballò e ballò in mezzo ai cardi, fino a quando si inoltrò, ballando, nella giungla di erbacce che stava intorno alla diroccata cappella. E il cane, convintosi ora che si trattava non solo di un giuoco, ma di una spedizione e, forse, di una spedizione di caccia, corse davanti a lui lungo il sentiero che egli aveva già aperto colle sue zampe. Prima che Patrick Dalroy si desse una ragione di ciò che facesse, o prima anche che si ricordasse che portava in una mano

27 Il nero Lord Foulon uccise il Francese – pensando che fosse una cosa Futurista da farsi. – Egli offrì loro erba invece di pane, – quindi lo riempirono d’erba quando gli tagliarono la testa. – Egli morì dunque per l’orgoglio della sua anima – ma naturalmente è sempre per l’orgoglio che gli uomini – accusano un uomo che precorre il suo tempo, – come Nabucodonosor, re degli Ebrei. – Simeone Scudder di Styx, nel Maine, – pensò alla cosa e vi ritornò sopra: – egli diede della buona erba e dell’acqua in secchie – a migliaia di irlandesi che costruivano delle ferrovie. – Gli appetiti differiscono; e legato a un palo, – egli fu incatramato e coperto di penne, perchè così voleva la coscienza. – Ma da un pezzo si sa che i profeti sono presi a sassate, – come Nabucodonosor, re degli Ebrei.

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quella ridicola insegna, egli si trovò di fronte al portico aperto di una specie di torre angusta, all’angolo di un fabbricato che, per quanto la memoria lo servisse, gli pareva di non aver mai visto prima d’allora. Quoodle, immediatamente, corse su tre o quattro scalini della oscura scala e quindi, puntando ancora le sue orecchie, si voltò per vedere se il compagno lo seguisse.

È possibile domandar troppo ad un uomo. Certo era domandar troppo a Patrick Dalroy di non accettare un invito così eccentrico. Però, ripiantata l’insegna fra i cardi e le ortiche di fuori, egli curvò la sua gigantesca figura, per entrare nel portico e salire sopra la scala. Era questa assai oscura, e fu soltanto dopo averne saliti due rami, che cominciò a rivedere la luce. Questa veniva da una fenditura nel muro, che gli pareva spezzettata come l’entrata di una grotta di Cornovaglia. La fenditura era anche così in basso, che non fu facile per lui farvi passare il suo enorme corpo, ma il cane era già passato con un’aria di familiarità e si era, un’altra volta, fermato per guardarsi indietro e vedere se il suo compagno lo seguisse.

Se egli si fosse trovato dentro una qualsiasi casa ordinaria, si sarebbe tosto pentito della sua scappata e sarebbe tornato indietro. Ma si trovò in un luogo quale non aveva mai visto prima e quale non avrebbe creduto possibile.

La sua prima impressione fu come di camminare negli appartamenti chiusi e misteriosi di un castello del sogno. Tutte le camere avevano come l’atmosfera di una

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novella di «Mille e una notte». E l’ornamentazione era della stessa tradizione; pomposa e sgargiante, ma dura e senza fattezze definitive. Sembrava come se una casa di porpora fosse stata costruita entro una casa verde e dentro questa fosse costruita una casa d’oro. Le linee delle porte e delle altre parti delle camere erano tutte increspate come le onde del mare: però questo dava l’impressione che il luogo fosse bello ma che fosse dentro qualche cosa di male.

Provava poi anche un’altra impressione, che non poteva analizzare, parendogli essere come una mosca sul soffitto o sulle pareti. Forse la sua immaginazione ritornava ai Giardini Pensili di Babilonia o al Castello Orientale del Sole o a quello Occidentale della Luna? Ricordò che una volta, durante una malattia avuta da ragazzo, aveva osservato una tappezzeria moresca che dava l’impressione di file sopra file di corridoi vuoti che continuavano all’infinito. E si ricordò pure che una mosca camminava lungo una delle linee parallele, e alla sua fantasia infantile era parso che i corridoi fossero tutti morti, ma improvvisamente si animassero quando la mosca vi passava.

— Per Bacco! – egli esclamò. – Che questa sia proprio la verità intorno all’Est e all’Ovest? Che l’Est lussurioso offra tutto ciò che occorre, per le avventure, eccetto l’uomo che sappia goderle? Questo spiegherebbe assai bene la tradizione delle Crociate. Forse è quello che Dio volle significare con l’Europa e con l’Asia. Noi vestiamo i personaggi e loro dipingono

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le scene. Basta, sia come si voglia: fatto è che tre cose, le meno asiatiche che si possano immaginare – un buon cane, una spada dritta e un irlandese – sono perdute in questo palazzo asiatico senza fine!

Ma mentre egli passava attraverso questo telescopio di colori tropicali, ebbe veramente la sensazione di quella fatalistica libertà degli eroi (dovremo dire dei malfattori?) delle «Mille e una notte». Egli era preparato per ogni eventualità. Non sarebbe stato sorpreso se, di sotto il coperchio di uno dei vasi di porcellana che stavano in un angolo, fosse uscita una striscia di fumo azzurro o giallo, come se qualche olio magico vi fosse stato dentro. Non sarebbe nemmeno stato sorpreso se di sotto i cortinaggi o le porte chiuse fosse venuto fuori un filo serpeggiante di sangue, o se fosse saltato su un negro, ancora con il suo arco in mano, dopo aver appena compiuta l’opera sua. Non sarebbe stato sorpreso se si fosse inoltrato nella camera silenziosa di qualche Sultano addormentato, svegliare il quale avrebbe significato la morte fra i tormenti. Eppure, egli fu più sorpreso di ciò che vide, tanto che ebbe la certezza di aggirarsi nel labirinto del suo stesso cervello. Perchè ciò che vide era in fondo a tutti i suoi sogni.

Ciò che vide era appropriato a quell’intima camera orientale, più di qualunque cosa che egli potesse immaginare. Sopra un divano sparso di cuscini color arancio e rosso sangue, riposava una giovane donna di grande bellezza, con una pelle abbastanza olivastra per sembrare una donna araba; che poteva essere benissimo

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una principessa degna di una favola araba. Ma, per la verità, non fu la sua concordanza con quella scena, quanto la scordanza, che gli diede un tuffo al cuore. Non perchè la donna gli fosse ignota, ma perchè gli era così familiare, improvvisamente si arrestò.

Il cane corse avanti e la principessa sul sofà gli fece una calorosa accoglienza sollevandolo sulle gambe di dietro.

— Bismillah! – disse affabilmente il viaggiatore orientale – che la vostra ombra si faccia più piccola e più grande! Il Capo dei fedeli ha dato l’incarico al suo schiavo più indegno di riportarvi un cane. A cagione di un ritardo temporaneo nel raccogliere i quindici più grossi diademi della Luna, egli è stato costretto a rimandarvi il cane senza collare. I colpevoli del ritardo saranno tosto battuti a morte, con code di serpenti...

L’effetto della terribile sorpresa, che ancora si disegnava sulla faccia della giovane donna, gli fece cambiar tono.

— Insomma, – egli disse – in nome del Profeta, spero bene, Giovanna, che questo non sia un sogno!

— No, non è un sogno! – disse la fanciulla aprendo la bocca per la prima volta – e non so se dovrei augurarmi che lo fosse!

— Ma che cosa siete voi mai – interruppe ragionevolmente il sognatore – se non un sogno o una visione? e che cosa sono tutte queste camere, se non un sogno o un incubo?

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— Questa è la nuova ala di casa Ivywood – disse Giovanna con una certa difficoltà. – Lord Ivywood l’ha riordinata in uno stile orientale: egli stesso è là dentro, a dirigere un interessantissimo dibattito sul vegetarianismo orientale. Io sono uscita e mi sono rifugiata qui, solo perchè la camera era troppo calda.

— Vegetariani! – gridò Dalroy con una improvvisa e impetuosa esasperazione. – Quella tavola mi pare che sia poco vegetariana! – E in così dire, indicò una delle anguste e lunghe tavole che erano state preparate in quasi tutte le sale centrali, piene di carni fredde accuratamente elaborate e di vini costosi.

— Egli deve ben mostrarsi di mente aperta e liberale – disse Lady Giovanna, che pareva quasi sul punto di perdere la pazienza. – Non può mica pretendere che la gente diventi immediatamente vegetariana, quando non lo è mai stata fino ad ora.

Dalroy si avvicinò alla tavola e disse: – I vostri amici ascetici pare che abbiano fatto strage di champagne. Voi non lo credete, Giovanna, ma io non ho assaggiato una goccia d’alcool, da un mese a questa parte.

E così dicendo, riempì di champagne un largo bicchiere ordinario e lo tracannò d’un sorso.

Lady Giovanna si rizzò in piedi con un leggero tremito.

— Questo non va, Pat – esclamò. – Oh, non dite sciocchezze: sapete bene che poco mi importa dell’alcool e di tutto il resto. Ma voi siete nella casa di

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Lord Ivywood non invitato, ed egli non lo sa. Ciò è indegno di voi.

— Lo saprà, lo saprà come si deve – aggiunse egli quietamente. – So che cosa costa esattamente un bicchiere di champagne.

Ed egli scrisse qualche parola sul rovescio di un menu sulla tavola e vi depose sopra tre scellini.

— Ecco che fate anche più torto a Lord Ivywood! – disse Lady Giovanna, diventando anche più bianca. – Voi lo sapete, al pari di me, che non prenderebbe un centesimo del vostro denaro.

Patrick Dalroy la guardò fisso, per qualche secondo, con una espressione sulla sua faccia aperta e larga, che essa non potè comprendere.

— Cosa veramente curiosa, – disse egli poi – siete proprio voi che fate ora torto a Lord Ivywood. Io lo credo capace di mandare al diavolo l’Inghilterra o la stessa creazione, ma, sinceramente, so benissimo che egli non è capace di venir meno alla sua parola. Più la sua parola è stata arbitraria e letterale, e più egli la manterrà. Voi non capirete mai un uomo come quello, se non capite ch’egli è capace di essere devoto a una definizione – certo, perfino a una definizione!

— Per carità, non fatemi adesso della filosofia! – disse Lady Giovanna.

— No, io voglio soltanto che vediate bene il punto del mio argomento. Lord Ivywood mi ha detto chiaramente che io posso entrare, e pagare per avere un bicchierino di liquore fermentato, in qualunque posto

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dove sia di fuori, bene in vista, un’insegna. Ed egli, state sicura, non revocherà questa sua concessione. Se egli mi trova qui, mi potrà mandare in prigione per qualunque accusa, di ladro o vagabondo o quel che più gli piace, ma egli non protesterà per lo champagne. E accetterà i tre scellini. Ed io renderò onore alla sua gloriosa coerenza!

— Io non capisco una sola parola di ciò che dite – osservò Lady Giovanna. – Come siete entrato qui? Come posso io farvi uscire? Non capite che siete in casa di Ivywood?

— Già, ma c’è un nome nuovo fuori della casa – osservò Patrick, e condusse la giovane signora alla fine del corridoio per cui era entrato, e precisamente nella torretta.

Seguendo le sue indicazioni, ella si sporse alquanto fuori del davanzale della finestra dove era il brillante uccelletto orientale nella sua gabbia brillante. Quasi sotto, immediatamente, in faccia all’entrata della scala semichiusa, si ergeva un’insegna di legno, solida e ferma, come se fosse stata là per dei secoli.

— Tutto ritorna all’insegna de «La Vecchia Nave»: vedete? – disse il Capitano. – Posso offrirvi qualche cosa degno di una dama?

Il volto di Lady Giovanna tradì una emozione che essa avrebbe preferito nascondere.

— Meno male! – gridò Dalroy genialmente. – Vi ho fatto ridere, finalmente!

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La prese e la strinse a sè e quindi sparì dalla torretta come un baleno, lasciando lei ritta, con la mano nella nera capigliatura.

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CAPITOLO XIIILA BATTAGLIA DEL TUNNEL

Ciò che Lady Giovanna Brett provò quando ritornò dal secondo colloquio avuto nella torretta sarebbe difficile dire. Quello che è certo è che essa aveva una grande curiosità di sapere ciò che Dalroy avesse scritto sul menu. Perciò si diresse rapidamente verso la tavola dove egli aveva messo il foglio di carta; ma quando vi fu quasi vicina i suoi passi rallentarono. Perchè là, ritto in piedi, era Lord Ivywood, che stava appunto leggendo con calma lo scritto. Egli depose il menu e, vedendo Giovanna, sorrise di un sorriso gentile.

— Anche voi siete uscita – disse. – Anch’io: fa veramente troppo caldo. Il dottor Gluck sta facendo un discorso assai originale, ma, nonostante ciò, io non ho potuto resistere più a lungo. Non vi pare che le mie decorazioni orientali siano un vero successo? Il disegno è vegetariano: no?

Egli la condusse su e giù per i corridoi, facendole notare mezzelune color limone e melagrana e rosse; e i due furono tanto assorti nella loro contemplazione, che passarono due o tre volte davanti alla porta aperta della sala dove avveniva il dibattito, senza accorgersene. A un tratto, però, Giovanna potè udire distintamente la voce

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dell’oratore che diceva: – Invero, noi dobbiamo la conoscenza della contaminazione del porco prima agli Ebrei, che ai Maomettani. Io non condivido quel pregiudizio contro gli Ebrei, che è così comune nella mia famiglia e in tutte le famiglie aristocratiche della Prussia. Io credo che noi aristocratici Prussiani dobbiamo tutto agli Ebrei. Gli Ebrei hanno dato alle nostre rudi teutoniche virtù quella tournure di raffinatezza, quella superiorità intellettuale che...

Ma qui le parole del conferenziere furono sopraffatte dalla voce di Lord Ivywood, che parlava con entusiasmo della coda del pavone nella decorazione. Poi udirono gli applausi sommessi e il rumore della gente che si alzava dalle sedie perchè la riunione era finita.

Prima che la comitiva si disperdesse, Ivywood avvicinò le persone che voleva fermare. Egli parlava ora a Leveson, pregandolo di fare qualche cosa che evidentemente nè l’uno nè l’altro desideravano che fosse fatta.

— Se vostra signoria insiste – diceva adagio Leveson – andrò io stesso, naturalmente. Ma ho tante altre cose urgenti da sbrigare qui, per Vostra Signoria, e se si potesse trovare un altro...

Se Lord Ivywood avesse mai osservato bene un uomo in vita sua, si sarebbe accorto che Leveson soffriva di una vecchia malattia umana, scusabile in tutti quanti, e tanto più scusabile in uno che aveva avuto recentemente il cappello schiacciato sulla testa e che aveva dovuto scappare per mettere in salvo la pelle. Ma, come

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sempre, Lord Ivywood non si avvide di nulla e disse semplicemente: – Ebbene, trovatemi qualcun altro: per esempio, il vostro amico Hibbs.

Leveson corse immediatamente da Hibbs, che stava bevendo un altro bicchiere di champagne in uno degli interminabili buffets.

— Hibbs, – disse Leveson un po’ ansiosamente. – Volete fare un favore a Lord Ivywood? Egli dice che voi avete tanto tatto! Pare che un uomo si aggiri sul terreno, sotto la torretta. È un uomo che Lord Ivywood sarebbe in dovere di mettere nelle mani della polizia, se fosse realmente colà. Ma può darsi che non ci sia e che abbia mandato il suo messaggio per mezzo di qualcun altro, in qualche altro modo. Naturalmente Lord Ivywood non vuole allarmare le signore e magari fare lui stesso una figura ridicola mettendo in moto la polizia per nulla. Vuole, dunque, che qualche amico scenda abbasso e ispezioni il posto – si tratta di un giardino abbandonato – e gli riferisca se c’è o no qualcuno. Vi andrei io stesso se la mia presenza non fosse necessaria qui.

Hibbs assentì, con un segno del capo, e riempì un altro bicchiere.

— Ma c’è un’altra difficoltà – continuò Leveson. – Non è uno da pigliarsi sotto gamba: è «un uomo eccezionale e pericoloso», per usare le parole di Lord Ivywood; e pare che abbia trovato un ottimo posto in cui nascondersi; un tunnel abbandonato che conduce sulla spiaggia, al di là del giardino e della cappella. Il luogo lo ha scelto bene per poter scappare nel bosco, se

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qualcuno venisse dalla spiaggia, e svignarsela lungo la spiaggia se alcuno venisse dal bosco. Ma ci vorrebbe del tempo per far venir qui la polizia, e ce ne vorrebbe molto più per farla appostare dall’altra parte del tunnel, sulla spiaggia, tanto più che fra Pebbleswick e qui, il mare arriva, in due o tre punti, fino agli scogli. Quindi noi non dobbiamo spaventarlo; se no, ci scappa. Se abbasso incontrate qualcuno, parlategli molto naturalmente e tornate poi su ad informarci. Noi non chiameremo la polizia fino a che voi non sarete di ritorno. Parlate come se voi pure foste un vagabondo. Sua Signoria desidera che la vostra presenza appaia affatto accidentale.

— Desidera che la mia presenza appaia affatto accidentale – ripetè Hibbs gravemente.

Dopo che Leveson se ne fu andato di corsa, Hibbs tracannò altri due o tre bicchieri di vino, tutto compreso dell’alta missione diplomatica che stava per intraprendere, per soddisfare un Lord. Quindi passò per l’apertura, scese le scale e in qualche modo riuscì a portarsi nel giardino abbandonato.

Era già sera e la luna rischiarava la cappella decaduta, colla fungaia che la ricopriva. La brezza serale, assai fresca, ebbe un salutare effetto sopra il signor Hibbs. Egli trovava un piacere indefinibile nella scena che lo circondava, specie in un fungo che era bianco, con dei puntini bruni. E rise al pensare che dovesse essere proprio bianco, con dei puntini bruni! Quindi disse, articolando abbastanza bene le sue parole: «Sua

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Signoria desidera che la mia presenza appaia affatto accidentale». E cercò di ricordare qualche altra cosa che Leveson aveva detto. Tentò di penetrare in quel ginepraio di pruni e di erbacce, al di là della cappella, ma costatò che il terreno era più ineguale e più difficile di quanto avesse supposto.

Sdrucciolò e cercò di salvarsi gettando un braccio intorno a un angelo di sasso, rotto, in quel mucchio di frammenti gotici; ma l’angelo non era fisso e si mosse sul suo zoccolo.

Per un momento, il signor Hibbs ebbe l’aria di ballare un valzer coll’angelo, al chiaro della luna, in atteggiamento amoroso e irriverente. Dopo, la statua rotolò da una parte ed egli rotolò dall’altra; e giacque così colla faccia sull’erba, emettendo suoni indecifrabili. Avrebbe potuto rimaner così per qualche tempo, almeno per la difficoltà di rialzarsi, se non ci fosse stata una altra circostanza. Il cane Quoodle lo aveva seguito di ufficio giù per le scale, e gli aveva tenuto dietro; e vedendolo ora in una posizione incomoda, cominciò ad abbaiare, come se la casa fosse in fiamme.

Questo fece venir fuori dalla parte più intricata del bosco un pezzo d’uomo che guardò il caduto con non dissimulata meraviglia.

Hibbs diceva con voce sommessa che veniva su dalla sua faccia nascosta: – Desidera che la mia presenza appaia quasi affatto accidentale.

— Così è – disse il Capitano. – Posso aiutarvi ad alzarvi? Vi siete fatto male? – Gentilmente rimise in

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piedi il caduto e lo osservò. La caduta aveva fatto riacquistare i sensi al rappresentante di Lord Ivywood, che, avendo sulla guancia sinistra un graffio rosso, pareva anche più brutto.

— Mi dispiace tanto – disse sinceramente Patrick Dalroy. – Venite a sedere nel nostro accampamento. Il mio amico Pump sarà di ritorno a momenti, ed egli è un ottimo dottore.

Può darsi che il suo amico Pump fosse o no un ottimo dottore; certo è che, quanto al Capitano, era affatto incapace di prestare il minimo rimedio. Aveva così poco talento per diagnosticare la natura di un male che, avendo fatto sedere Hibbs sopra un tronco d’albero all’entrata del tunnel, gli diede poi (per un atto automatico di ospitalità) un bicchierino di rhum.

Dopo averlo sorseggiato, gli occhi di Hibbs si riaprirono, ma sopra un nuovo mondo.

— Comunque la pensiate voi, individualmente, e comunque la pensi io... – egli disse e guardò nello spazio con una specie di umoristica sagacità.

Quindi introdusse la mano nella tasca, automaticamente, come se avesse qualche lettera da consegnare. Non vi trovò che il suo vecchio taccuino giornalistico che egli portava sempre con sè quando c’era la possibilità di intervistare qualcuno. Sentendoselo fra le dita, tutte le sue idee presero un altro giro. Lo trasse fuori e disse:

— E che cosa direste voi del vegetarianismo, colonnello Pump?

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— Direi che perde terreno – rispose colui che aveva ricevuto questo titolo complesso, sgranando tanto d’occhi.

— E quale direste voi che sia il miglior cibo vegetariano per un forte vegetariano? – chiese Hibbs, voltando una pagina del suo taccuino.

— Cardi! – rispose il Capitano. – Ma io non me ne intendo molto!

— Lord Ivywood è un forte vegetariano – mormorò Hibbs. – Raccomanda tutto. Parlategli naturalmente. È quello che faccio. Gli parlo naturalmente!

Humphrey Pump veniva, in quella, dalla parte meno folta del bosco, conducendo l’asino che aveva fatto appunto un pasto vegetariano. Il cane balzò in piedi e corse ad essi. Pump era forse l’uomo più educato di questo mondo e non disse verbo. Ma gli bastò un’occhiata per accorgersi dello stato in cui era Hibbs.

— Lord Ivywood – continuava a mormorare il giornalista diplomatico – disse: «Parlate come se andaste anche voi vagabondando». Proprio così. Questo è tutto. Questo è quello che io devo fare: parlare come se fossi anche io un vagabondo. Dall’altra parte del tunnel: mare e scogli. Non suppongo che possano nuotare.

Egli prese ancora il suo taccuino e cercò invano la matita. «Ecco un buon argomento per provocare delle corrispondenze: Possono nuotare i policemen?».

— Policemen? – fece Dalroy in mezzo al silenzio. Il cane alzò gli occhi e l’oste li tenne abbassati.

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— Tornare da Ivywood, una cosa – ragionava il diplomatico. – Far venire i policemen dall’altra parte, altra cosa. Non fare una cosa e non fare l’altra. Desidera che la mia presenza appaia affatto accidentale. Eh?

— Metto i finimenti all’asino! – disse Pump.— Passerà per la porta? – chiese Dalroy indicando la

palizzata colla quale alla meglio avevano nascosto l’entrata del tunnel – o devo farla senz’altro a pezzi?

— Passerà benissimo – rispose Pump. – Ci ho ben pensato quando l’ho fatta. E prima di caricarlo credo che sarà meglio condurlo all’altra estremità del tunnel. La miglior cosa che voi possiate fare è di tirar su una di queste piante per sbarrare la porta. Questo li ritarderà di qualche minuto. Per quanto credo che siamo stati avvisati in tempo.

Condusse l’asino fino al carro e gli pose su i suoi finimenti; poi, con calma, fece passare carro ed asino attraverso la porta di legno temporanea del tunnel, avendo naturalmente Quoodle, che era curioso, alle calcagne.

— Scusate se prendo un albero – disse civilmente Dalroy al suo ospite come uno che chiedesse a un altro un fiammifero. E, in così dire, sradicò un albero, come aveva fatto nell’isola degli Ulivi e se lo gettò sulle spalle come la clava di Ercole.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Su, in casa Ivywood, Lord Ivywood aveva telefonato alla polizia di Pebbleswick due volte. La risposta non si era mai fatta aspettare tanto e, sebbene egli non esprimesse mai la sua impazienza con inutili parole, questa volta la espresse con inutili passi in su e in giù. Egli non voleva far venire la polizia prima di aver avuto notizie dal suo ambasciatore; ma aveva pensato che una conversazione con qualche autorità della polizia, che egli ben conosceva, avrebbe facilitato la cosa. Vedendo Leveson rannicchiato in un angolo gli si avvicinò e gli disse bruscamente:

— Voi dovete andare a vedere che cosa è successo a Hibbs. Se avete altri doveri qui, vi autorizzo ad abbandonarli. Altrimenti dovrò pensare...

In questo momento il campanello del telefono squillò e il nobile impaziente corse all’apparecchio. Non c’era altro per Leveson da fare che andare alla ricerca di Hibbs come era stato richiesto, o cadere in disgrazia di Ivywood. Si avviò dalla parte donde Hibbs era uscito e quando fu vicino a una delle tavole del buffet, bevve due bicchierini di champagne. Ma nessuno attribuisca a Leveson i moventi dissoluti di Hibbs. Leveson non bevve per suo piacere. In realtà non seppe nemmeno che cosa bevesse. Il suo movente era uno solo e facile a spiegarsi: la paura.

Quando arrivò in fondo alla scala e poi entrò nel giardino per cercare le tracce del suo diplomatico, egli era alquanto più animato. Ma nulla potè osservare che lo mettesse sulla buona strada: non si udiva un rumore,

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solo si sentiva in lontananza una voce che cantava. La voce si fece poi più distinta e le prime parole che Leveson potè afferrare furono le seguenti:

No more the milk of cowsShall pollute my private houseThan the milk of the wild mares of the Barbarian;I will stick to port and sherryFor they are so very, very,So very, very, very Vegetarian28.

Leveson non sapeva di chi fosse la larga e orribile voce con cui queste parole erano cantate. Ma ebbe subito dopo lo strano sospetto di riconoscere la voce, per quanto alterata, che faceva coro:

Because they are so very,So very, very, very Vegetarian.

Fu preso dal terrore e credette di indovinare che cosa era successo. Con un senso di sollievo pensò che ora aveva un buon pretesto per ritornare in casa e avvertire dell’accaduto. Si mise a correre come una lepre con la grossa voce che echeggiava dietro di lui come la voce di un leone. Trovò Lord Ivywood in consultazione con il Dottor Gluck; e anche con l’agente Bullrose, che aveva

28 Latte di vacche – non contaminerà la mia casa privata – più del latte delle selvagge cavalle del Barbaro. – Io mi atterrò al vino di Porto e al Sherry – perchè essi sono così, così, così vegetariani.

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ancora gli occhi sgranati come quel giorno che aveva visto l’insegna volante sparire lungo un viottolo di campagna inglese, ma che, per rendergli giustizia, era il più coraggioso dei consiglieri di Lord Ivywood.

— Temo che il signor Hibbs abbia inavvertitamente... – balbettò Leveson – abbia inavvertitamente... Temo che l’uomo riesca a scappare. Fareste meglio, mio Lord, a chiamare subito la polizia.

Ivywood si volse all’agente: – Voi – gli disse – andate a vedere che cosa succede. Io pure vi seguirò appena avrò telefonato; e chiamate alcuni dei servitori con dei bastoni ed altro. Fortunatamente le signore sono andate a letto. – E detto ciò corse a telefonare.

Bullrose scese nel labirinto di erbacce che, per molte ragioni, potè attraversare più facilmente di Hibbs. La luna s’era fatta grande e brillante di modo che tutta la scena era illuminata da una luce argentea, come di giorno. E in questa luce egli vide un pezzo d’uomo dai capelli rossi che aveva sotto il braccio una enorme forma di formaggio e teneva l’indice teso verso un cane con il quale stava conversando.

Era dovere dell’agente di tenere a bada l’uomo, che egli subito riconobbe per quello stesso dell’insegna, e così prevenire la sua fuga. Ma c’è della gente che non può essere cortese nemmeno quando lo vorrebbe, e tale era Bullrose.

— Che cosa fate qui? – chiese egli.— Non cadere, per altro, nell’errore comune, caro

Quoodle, – Dalroy stava dicendo al cane – di supporre

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che la frase «buon cane» sia usata in senso assoluto. Un cane è buono o cattivo secondo uno schema limitato di doveri, creato dalla civiltà umana...

— Che cosa fate qui? – chiese ancora l’agente.— Un cane, mio caro Quoodle, – continuava Dalroy

– non può essere così buono o così cattivo come un uomo. Un cane non può essere così insufficiente come lo può essere un uomo.

— Volete rispondermi sì o no? – gridò l’agente.— La cosa è tanto più patetica – continuava

imperterrito Dalroy con il suo monologo, cui Quoodle sembrava prestare una magnetica attenzione, – la cosa è tanto più patetica, in quanto questa insufficienza mentale la si trova spesso nel buono; per quanto ci siano, io immagino, numerosi esempi del contrario. Per esempio: la persona che è lì a pochi passi da noi è, ad un tempo, stupida e cattiva. Ma bada bene, Quoodle, che questo dipende da un suo difetto morale, non mentale. Se io dovessi dirti un momento o l’altro: «Saltagli addosso, Quoodle», oppure: «Tienlo ben fermo, Quoodle», lo direi, bada bene, solo perchè è cattivo, non perchè è stupido. Il fatto che è stupido non mi giustificherebbe nel dire: «Tienlo ben fermo, Quoodle», con la intonazione realistica che dò ora alla mia voce...

— Maledizione, chiamatelo indietro! – gridò il signor Bullrose ritirandosi perchè Quoodle si avvicinava a lui col sangue di bull-dog che gli bolliva nelle vene.

— Nel caso che il signor Bullrose trovasse prudente arrampicarsi sopra un albero o magari sopra una insegna

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– proseguì Dalroy (e intanto Bullrose si era afferrato all’insegna de «La Vecchia Nave» che era più grossa di tutte le altre piante circostanti) – tu lo terrai d’occhio e così gli ricorderai che è stata la sua cattiveria, e non, come egli potrebbe credere, la sua stupidità che lo ha messo in una posizione così elevata.

— Qualcuno di voi la pagherà – disse l’agente che si era arrampicato su per il palo dell’insegna e vi stava appiccicato come una scimmia, mentre Quoddle, dal basso, continuava a guardarlo con sempre vivo interesse. – Qualcuno la pagherà! Ecco intanto che Sua Signoria arriva con la polizia.

— Buon giorno, mio Lord, – disse Dalroy mentre Ivywood, più pallido del solito veniva dal bosco, verso di lui. Era un destino che il pallore della sua faccia dovesse sempre essere messo in rilievo da qualche forte contrasto, ed anche ora soffriva gli stessi effetti per i colori sgargianti dell’uniforme diplomatica del Dottor Gluck che camminava dietro di lui.

— Sono felice di vedervi, mio Lord – disse Dalroy. – È sempre così ingrato aver da trattare con un agente. Specialmente per l’agente.

— Capitano Dalroy – disse Lord Ivywood con dignità e serietà. – Sono dolente che ci troviamo così un’altra volta, ma la colpa non è mia. Debbo dirvi che la polizia sarà qui fra pochi minuti.

— Ed è tempo che venga! – fece Dalroy. – Io non ho mai visto nulla di così degradante in tutta la mia vita. Naturalmente sono spiacente che si tratti di un vostro

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amico, ma è sperabile che la polizia non lascerà andare la cosa su per i giornali. Ma la legge è uguale per tutti e sarebbe una vergogna se un uomo in quello stato se la cavasse solo perchè ha bevuto in casa vostra.

— Io non vi capisco, – disse Ivywood. – Di che cosa parlate?

— Come?! di lui! – replicò il Capitano facendo segno verso un tronco d’albero, presso l’entrata del tunnel – del povero diavolo per cui aspettiamo la polizia.

Lord Ivywood guardò nella direzione indicata e i suoi occhi si riempirono di stupore. Al di sopra del tronco si vedevano le suole di due paia di scarpe, mentre il resto di Hibbs era caduto dietro il tronco in basso, e pareva che l’uomo fosse là soddisfatto della sua posizione. Lord Ivywood si mise gli occhiali che lo facevano apparire parecchi anni più vecchio, guardò e disse con accento duro: – Che cosa è questo?

Il solo effetto della sua voce sul fedele Hibbs fu quello di fargli muovere leggermente le gambe in segno di riconoscimento di un superiore feudale. Evidentemente ogni tentativo di alzarsi sarebbe stato disperato; però Dalroy, avvicinandosi a lui, lo tirò su per il colletto della camicia e lo mostrò alla compagnia.

— Non avrete bisogno di molti poliziotti per portarlo in prigione – disse il Capitano. – Mi dispiace, Lord Ivywood, ma sarebbe inutile da parte vostra chiedermi di chiudere un occhio. Non lo potremmo. (Ed egli scosse la testa implacabilmente). Il signor Pump ed io abbiamo sempre tenuto un’osteria rispettabile. «La

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Vecchia Nave» ha una riputazione ottima per tutto il paese: un’osteria nella quale molte famiglie venivano ad alloggiare. Nessuno può dir nulla sul conto de «La Vecchia Nave». E se voi credete di poter mandare tutti i vostri ubriaconi...

— Capitano Dalroy, – disse semplicemente Ivywood – sembra che voi siate in un errore nel quale non sarebbe onorevole lasciarvi. Checchè significhino questi straordinari eventi, e checchè si abbia a fare per questo signore, quando io vi ho detto che la polizia stava per venire, volevo dirvi che stava per venire per voi e per il vostro alleato.

— Per me! – esclamò il Capitano con una stupenda aria di sorpresa. – Per me, che non ho mai fatto nulla di male nella mia vita!

— Voi avete venduto alcool contrariamente alla Clausola V della Legge...

— Ma io avevo una insegna – gridò Dalroy eccitato. – Me lo avete detto voi stesso che io sarei stato in piena regola se avessi avuto una insegna. Guardate alla nostra nuova insegna dell’«Agente Agile».

Bullrose era rimasto silenzioso, sentendo che la sua posizione non era certo dignitosa e sperando che il suo padrone se ne sarebbe andato. Ma Lord Ivywood alzò gli occhi fino a lui e credette di trovarsi in un pianeta di mostri.

Come Dalroy si riebbe della sorpresa, disse: – Tutto è corretto e convenzionale, vedete. Non ci poteva mandare in prigione perchè non abbiamo una insegna:

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ne abbiamo piuttosto una extra e... vivente! E non ci potete mandar dentro come ladri e vagabondi. Noi abbiamo, come richiede la legge, «visibili mezzi di sostentamento» – e in così dire si fece saltare sotto il braccio il grosso cacio, facendolo suonare come un tamburo. – Visibile e percettibile a occhio nudo – aggiunse, mettendo la forma di cacio fin quasi sotto gli occhi di Ivywood.

Quindi si rivolse improvvisamente, spalancò la porta da pantomima dietro di lui e gettò nel tunnel il cacio che andò, rotolando, fino all’altra estremità, dove si udì la voce di Humphrey Pump che gli dava il benvenuto. Il cacio era l’ultima cosa di loro proprietà ch’era ancora a questa estremità del tunnel, ed ora che se ne era andato anche lui, Dalroy si voltò indietro con tutt’altra aria:

— Ed ora, Ivywood – egli disse – di che cosa posso io essere accusato? Ecco, voglio farvi una proposta. Io sono disposto ad arrendermi quietamente alla polizia quando verrà, se voi vorrete farmi un favore. Lasciatemi almeno scegliere il mio delitto!

— Non capisco – rispose l’altro. – Quale delitto? quale favore?

Il Capitano Dalroy sguainò la diritta spada che ancora pendeva dalla sua uniforme tutta sgualcita. La fine lama lampeggiò nella luce lunare ed egli l’appuntò verso il dottor Gluck.

— Prendete la sua spada dal piccolo porta armi – egli disse – è quasi lunga come la mia, o, se volete, la scambieremo. Venite con me per dieci minuti su quella

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striscia d’erba. E allora può darsi, Ivywood, che voi siate liberato dalla mia presenza in modo non indegno di nemici che una volta sono stati amici; oppure può darsi che quando la polizia venga... ci sia qualche buona ragione per arrestarmi.

Ci fu ancora un lungo silenzio.— Il signor Bullrose vi farà da testimonio da un trono

sollevato sopra il terreno – disse Dalroy; – quanto a me, io ho già messo il mio onore nelle mani del signor Hibbs.

— Io debbo declinare all’invito del Capitano Dalroy – disse finalmente Ivywood in un tono curioso. – Non tanto perchè...

Prima che potesse continuare, Leveson venne dal bosco gridando: – La polizia è qui!

Dalroy, che amava lasciare ogni cosa a suo posto, fino all’ultimo momento, afferrò la insegna, la scosse, ne fece cadere Bullrose come un frutto maturo, e quindi si gettò nel tunnel avendo il clamoroso Quoodle alle calcagna.

Prima che Ivywood avesse avuto il tempo di raggiungere l’entrata del tunnel, Dalroy l’aveva chiusa con un grosso pezzo di legno. Egli non aveva avuto nemmeno il tempo di ringuainare la sua spada.

— Abbattete questa porta! – gridò Ivywood. – Certamente non hanno ancora finito di caricare il loro carro.

Sotto i suoi ordini e anche contro la loro volontà, Bullrose e Leveson sollevarono il tronco d’albero

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lasciato libero da Hibbs e, dopo di averlo bilanciato avanti e indietro per due o tre volte, lo scaraventarono come una catapulta contro la porta.

Caduta questa, Lord Ivywood si gettò subito dentro. Ma in quella si udì una voce che veniva quietamente dall’altra estremità del tunnel. C’era qualche cosa di commovente, ma anche di terribile, in una voce umana che veniva da una così inumana oscurità. Se Filippo Ivywood fosse stato realmente un poeta e non il suo contrario, cioè un esteta, avrebbe saputo che, sempre nel passato, il popolo di Inghilterra aveva gridato il suo oracolo da una caverna.

— Mio Lord, vorrei dirvi una parola. Io ho imparato il mio catechismo e non sono mai stato coi Radicali. Voglio che voi vediate ciò che mi avete fatto. Voi avete rubato una casa che era mia, come quella là è vostra. Voi avete fatto di me un sudicio vagabondo; io che ero un uomo rispettato in chiesa e sul mercato. E ora mi volete mandare in prigione? Se è lecito, volete ora che vi dica che cosa penso io di voi? Credete forse perchè voi andate su, a Londra, a discutere coi Lord in Parlamento, e portate a casa una quantità di carte e di parole, credete che la cosa faccia qualche differenza? Per quello che posso dir io, voi siete un padrone cattivo e crudele, come quello che Dio un giorno puniva, come lo Squire Varney che le donnole uccisero in Holy Wood. Be’, il parroco ha sempre detto che noi possiamo tirare ai ladri. Ora desidero informare Vostra Signoria che io ho qui un fucile.

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Ivywood si inoltrò nell’oscurità e parlò con una voce nella quale si sentiva un’emozione ignota.

— La polizia è qui – egli gridò. – Ma vi arresterò io stesso!

Un colpo d’arma da fuoco partì ed echeggiò lungo il tunnel: le gambe di Lord Ivywood si piegarono ed egli cadde al suolo con una palla sopra al ginocchio.

Quasi nell’istante stesso un grido e un abbaiare di cane annunciarono che il carro si allontanava completamente equipaggiato. Era anzi più che completo, perchè, mentre si mosse, il signor Quoodle vi era saltato su e di là guardava intorno solennemente.

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CAPITOLO XIVLA CREATURA CHE SI DIMENTICA

Ad onta del naturale tumulto per la ferita di Lord Ivywood e delle difficoltà della polizia nel trovare la strada che conduceva alla spiaggia, i fuggitivi de «L’Osteria Volante» sarebbero stati certamente catturati se non fosse sopravvenuto un curioso incidente provocato dalla sagace disquisizione di Lord Ivywood sul vegetarianismo.

La scoperta di Lord Ivywood era avvenuta ad un’ora piuttosto tarda, a causa di un lunghissimo discorso che Giovanna non aveva udito e che aveva avuto luogo pochi momenti prima che il dottor Gluck facesse le sue osservazioni. Il discorso era stato tenuto naturalmente da un eccentrico e la maggior parte di quelli che lo ascoltavano, erano in un modo e nell’altro, altrettanto eccentrici. Ma si trattava però di un eccentrico eccezionale, ricchissimo, di ottima famiglia, membro del Parlamento e parente di Lady Enid: un uomo ben conosciuto nel campo delle arti e delle lettere, una personalità insomma che poteva permettersi il lusso di essere o un rivoluzionario, o un seccatore, a suo piacimento.

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Dorian Wimpole si era reso famoso dapprima sotto il nome di «Poeta degli uccelli». Un suo volume di versi nel quale egli si era sforzato di tradurre in fantastici colloqui le diverse grida e gorgheggi di questi filosofi alati, non mancava di una certa ingenuità ed eleganza. Ma disgraziatamente egli era uno di quelli propensi a considerare troppo seriamente le loro idee e la loro fantasia e sulla cui stravaganza non è lecito scherzare. Così che quando in un altro lavoro «La favola dell’Angelo» egli si sforzò di dimostrare che gli uccelli erano creature superiori all’uomo, i suoi lettori lo trovarono alquanto noioso. E quando in un articolo dedicato a Lord Ivywood, che si occupava allora della costruzione di un villaggio modello, Peaceways, egli disse che le case avrebbero dovuto avere la stessa architettura dei nidi, molti si accorsero che il suo stile non era più semplice ed elegante. Ma il peggio avvenne quando egli non si accontentò più degli uccelli e scrisse pagine e pagine di una specie di psicologia sui giardini zoologici in generale. E la lettura di tali poemi era resa ancor più difficile dal fatto che egli non premetteva alcuna parola di spiegazione agli inni, ai canti d’amore e di guerra dei vari animali. Uno dei suoi canti d’amore così incominciava:

Her head is high against the stars,Her hump is heaved in pride29.

29 La sua testa è alzata verso le stelle, – la sua gobba è agitata dall’orgoglio.

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Parole piuttosto strane da indirizzarsi a una signora, ma procedendo nella lettura ci si accorgeva che i diversi personaggi dell’idillio non erano altro che cammelli. Oppure, leggendo il poema «La Marcia della Democrazia» il lettore restava stupefatto nel trovare i seguenti versi:

Comrades, marching evermore,Fix your teeth in floor and door30.

finchè egli scopriva che simili parole erano indirizzate da un topo ai suoi simili.

Una volta Lord Ivywood aveva quasi litigato col suo poetico parente a proposito di alcuni versi: «Il canto dell’ubriachezza», e si calmò solo quando gli fu spiegato che la bevanda incriminata non era altro che l’acqua e che i bevitori erano bisonti.

In altri versi una giovane vacca marina descrive in modo perfetto e suggestivo il suo ideale come marito; e nel sonetto «Maternità» una madre scorpione è realmente convincente, benchè non molto amabile e graziosa.

Ma a sua discolpa dobbiamo dire che il poeta afferma che nessuna creatura terrena, per quanto piccola e meschina, deve essere dimenticata; ed egli agiva secondo questo principio.

30 Compagni, marciando incessantemente, – piantate i vostri denti nel pavimento e nella porta.

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Biondo come suo cugino, Dorian Wimpole aveva l’occhio azzurro languido e sognatore: vestiva sempre colla massima cura e portava al dito un anello con una pietra raffigurante una divinità egiziana. Il suo discorso, enfatico e spaventosamente lungo, aveva per soggetto un’ostrica. Egli protestava contro l’insinuazione di alcuni filantropi, che erano anche sotto altri aspetti vegetariani, e sosteneva che organismi così semplici potevano onestamente essere considerati come eccezioni. – Gli uomini – diceva – cercano sempre di avvilire qualche abitante dell’universo, di porre in oblio qualche creatura che deve invece essere ricordata. – E questa creatura era appunto l’ostrica. E fece una dettagliata, pittoresca relazione sulla tragedia dell’ostrica, parlando anche di pesci fantastici, di banchi di corallo, di animaletti striscianti sulla spiaggia, e della verde oscurità del mare.

— E pensare – gridò egli – che con terribile ironia noi consideriamo l’ostrica come un prodotto indigeno del paese: ed invece essa non è che un’esule nell’universo. Che cosa vi è di più pietoso dell’eterno delirio dell’anfibio impotente? Che cosa vi è di più terribile della lacrima di un’ostrica? E la natura stessa l’ha fissata coll’aspro suggello dell’eternità. La creatura di cui ci si dimentica porta contro l’uomo una testimonianza che non può essere dimenticata. Le lacrime di una vedova, di un prigioniero possono essere asciugate come le lacrime di un fanciullo: svaniscono come la nebbia mattutina, come le piccole pozzanghere

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dopo un uragano. Ma la lacrima di un’ostrica è una perla.

«Il poeta degli uccelli» era così eccitato dopo il suo lungo discorso, che si avviò verso la sua automobile con gli occhi spiritati: il guidatore che lo aspettava da un pezzo mandò un sospiro di sollievo.

— A casa, per il momento – ordinò il poeta, e volse verso la luna una faccia ispirata.

Molto amante dell’automobilismo che, secondo lui, alimentava la sua vena poetica, era dal mattino che girava qua e là nella sua macchina, ed era felice di poter immergersi nei suoi pensieri senza dover rivolgere la parola a qualcuno. Indossò una giacca di pelo, ma si dimenticò di abbottonarla, tutto compreso dalla bellezza della notte lunare. Concepiva solo due cose: la rapidità della sua automobile e la rapidità dei suoi pensieri. Si sentiva onnisciente; gli sembrava di volare con gli uccelli che costruivano i loro nidi nei boschi, di correre con gli scoiattoli saltellanti di ramo in ramo, d’essere simile all’albero che sotto il soffio impetuoso del vento si piega ma non si spezza.

Improvvisamente si chinò e picchiò sul vetro anteriore dell’automobile; e il guidatore inarcando le braccia, fermò bruscamente la macchina. Nella chiara luce lunare, sul ciglio della strada, Dorian Wimpole aveva visto qualche cosa che lo interessava enormemente, sia come Wimpole che come Dorian.

Accanto ad una siepe, caricando una carretta, tirata da un asinello, stavano due uomini assai male in arnese:

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uno con gli abiti quasi a brandelli, l’altro in una specie di costume variopinto e con i capelli così rossi che sembravano quasi una parrucca. Due oggetti rotondi e cilindrici, simili a piccole botti, giacevano vicino alle ruote del carro, insieme a un palo di legno. Molto probabilmente l’uomo cogli abiti a brandelli aveva già dato da mangiare e da bere all’asinello, e stava ora accomodandogli la bardatura. Ma Dorian Wimpole non poteva certo immaginarsi che un uomo simile fosse capace di tali cose. Egli sapeva solo di essere un gentiluomo, un magistrato, un membro del Parlamento, e via dicendo, e non poteva permettere simili barbarie verso un animale. Si diresse quindi verso il carro ed esclamò:

— Voi state caricando troppo questa povera bestia: siete passibili di ammenda: venite con me al più vicino posto di polizia.

Humphrey Pump che era sempre stato pieno di riguardi per gli animali e per i signori (poco importa se aveva cacciato una palla nella gamba di un signore), stupefatto e meravigliato non trovò che rispondere. Indietreggiò di un passo e fissò con gli occhietti luccicanti il poeta, l’asino, il barile, il formaggio e l’insegna.

Ma il Capitano Dalroy, più pronto e più ardito, fece un profondo inchino al poeta e magistrato, e domandò sfacciatamente:

— Vi interessate di asini senza dubbio?

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— Mi interesso di tutte le cose che gli uomini dimenticano – rispose il poeta con tono orgoglioso – ma specialmente di quelle cose che, come questa, sono più facilmente poste in oblìo.

Da queste due frasi Pump capì che i due eccentrici signori si erano inconsciamente riconosciuti e si guardò bene dall’intervenire. Smosse la polvere della strada con la sua scarpa tutta sdruscita, poi si diresse verso l’automobile per scambiare due parole con il guidatore.

— È molto lontano da qui il primo posto di polizia? – domandò.

La risposta fu molto breve e concisa: – Non so. – Ma qualche cosa nel tono della voce spinse il signor Pump a guardare il guidatore. E si accorse che non era solo il raggio della luna che rendeva pallida la faccia del povero diavolo.

Pump gli lanciò un’altra occhiata e vide che l’uomo si appoggiava all’automobile con un braccio e che questo braccio tremava. Conosceva troppo bene i suoi compatrioti per capire che doveva parlare senza aver l’aria di nulla.

— Spero che sarete presto arrivati! Mi sembrate un po’ stanco.

— All’inferno! – esclamò il guidatore, e sputò sul terreno.

Pump tacque e l’altro proruppe imbestialito:— È da stamattina che sono in giro! Niente colazione,

niente pranzo! E adesso ci mancava anche l’asino!

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— Ma non vorrete certo dire che non avete mangiato nulla tutt’oggi? – disse Pump in tono molto serio.

— Oh no! – rispose ironicamente l’uomo. – Oh no!Pump si volse indietro e con la mano sinistra afferrò

il formaggio che pose poi sul sedile accanto al guidatore, ficcò la mano destra in una delle sue innumerevoli tasche e ben presto la lama di un coltello a serramanico brillò alla luce lunare.

L’uomo fissò per alcuni istanti il formaggio, poi prese il coltello in una mano tremante e cominciò a mangiare: la felicità del suo volto nella bianca luce aveva in sè qualche cosa di spettrale e di orribile.

Ma Pump era saggio in tutte le sue cose: e ben sapeva che se un po’ di cibo qualche volta previene l’ebbrezza, un piccolo eccitante qualche volta previene una indigestione. Era materialmente impossibile impedire all’uomo di continuare a mangiare, era meglio, quindi, dargli da bere un po’ di rhum, dato poi che si trattava di un rhum squisito. Riattraversò quindi la strada, prese il barilotto, lo pose vicino al formaggio e riempì una piccola tazza che portava sempre con sè in tasca.

A tale vista gli occhi dell’uomo scintillarono di terrore e di desiderio.

— State attento a quello che fate, – mormorò. – È proibito! Rischiate la galera; bisogna che ci sia o una ricetta del dottore o una insegna!

Humphrey Pump per la terza volta attraversò la strada. Esitò un istante, ma poi, sicuro che i due gentiluomini occupati a discutere e a disputare non si

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sarebbero accorti di nulla, prese il palo, lo portò vicino all’automobile e lo rizzò tra il barile e il formaggio.

Il guidatore teneva il bicchiere con mano tremante, come aveva tenuto il coltello, ma quando vide l’insegna al di sopra della sua testa, sembrò non già che raccogliesse tutto il suo coraggio, ma bensì che tirasse in su, verso la luce, dal fondo di un mare impenetrabile, un coraggio dimenticato. Ed era il coraggio dimenticato del popolo.

Il povero diavolo si guardò attorno, poi, rapido, trangugiò una sorsata del gustoso liquore. Non pronunciò parola, ma i suoi occhi luccicarono stranamente. Humphrey Pump lo osservava pieno di ansietà e anche di paura: sembrava diventato di pietra. Finalmente disse:

— Mascalzone! gli darò io qualche cosa che di certo non s’aspetta!

— Che cosa volete dire? – domandò l’oste.— Come! – rispose il guidatore, ritornato

improvvisamente composto e tranquillo – gli darò un asinello!

Il signor Pump si turbò.— E credete – disse, cercando di parlare alla leggera

– che gli si possa affidare un asinello?— Oh sì! È molto gentile con gli asini: e gli asini

sono molto gentili con lui!Pump lo guardò dubbioso come se non capisse che

cosa l’altro volesse dire. Poi lanciò un’occhiata ai due gentiluomini che stavano ancora parlando dimentichi,

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nel calore della disputa, di ciò che li circondava, del luogo e dell’ora tarda.

Quando il Capitano cominciò a spiegare che l’asino gli apparteneva di diritto perchè l’aveva comprato a un prezzo equo da un calderaio, Wimpole si vide costretto ad abbandonare l’idea del posto di polizia; non gli rimaneva che dissipare la superstizione della proprietà personale.

— Io non ho nulla – disse il poeta, allargando le braccia. – Non ho nulla nel senso però che ho tutto. Tutto dipende se si usa la ricchezza o il potere pro o contro le più nobili utilità dell’universo.

— Davvero – replicò Dalroy – e in qual modo la vostra automobile serve le più nobili utilità dell’universo?

— Mi aiuta a comporre poemi – rispose il signor Wimpole con onesta semplicità.

— E se potesse esser usata per qualche utilità ancor più nobile (se fosse possibile) – domandò l’altro – allora cesserebbe di essere di vostra proprietà?

— Certamente, e non me ne lamenterei. E neppure voi avreste il diritto di lamentarvi se questo asino, che voi cercate di umiliare, cessasse di essere vostro.

— E che cosa vi fa credere che io cerchi di umiliarlo? – domandò Dalroy.

— Credo fermamente – replicò Dorian Wimpole in tono asciutto – che voi vogliate cavalcarlo – (ed infatti il Capitano aveva fatto per gioco la mossa di montare a cavalcioni sul mite animale). – Non è vero?

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— No, – disse il Capitano. – Io non cavalco mai un asino. Ho paura.

— Paura di un asino? – esclamò Wimpole incredulo.Ci fu un breve silenzio, poi Wimpole continuò

freddamente:— Oh! ma ormai siamo superiori a simili paragoni!— È davvero meraviglioso vedere come si è

facilmente superiori alla crocifissione altrui.— In questo caso – osservò il poeta – si tratta della

crocifissione dell’asino.— Ma voi dovete aver disegnato quella vecchia

caricatura romana dell’asino crocifisso – disse Patrick Dalroy in tono meravigliato. – Come vi mantenete bene: sembrate tanto giovane! Se l’asino è crocifisso, deve essere allora tolto dalla croce. Ma siete poi capace – aggiunse gravemente – di togliere dalla croce un asino? È un’arte difficilissima e rarissima! Tutta questione di furberia. Proprio come i dottori in presenza di malattie sconosciute. Stabilito dunque che io, per le più nobili utilità dell’universo, sono indegno di custodire questo asino, mi sento tuttavia una certa responsabilità nel cederlo a voi. Sarete capace di capire questo asino? È una bestia di animo molto delicato, molto complesso. Come posso essere sicuro che dopo una così breve conoscenza, voi sarete buono di capire e di interpretare tutte le sue simpatie e antipatie?

Il cane Quoodle, che fino a quel punto era rimasto immobile come una statua sotto ad un albero, si rizzò, attraversò la strada, poi ritornò al suo posto. Un rumore

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di ruote lo aveva scosso, ma Dorian Wimpole era troppo immerso nei suoi ragionamenti filosofici per occuparsi dei movimenti del cane e dei rumori circostanti.

— Io non mi siederò sul suo dorso – disse orgogliosamente – e voi potete esser sicuro di lasciarlo nelle mani della sola persona capace di comprenderlo: dell’uomo cioè che fruga le terre e i cieli e i mari in modo da non dimenticare nessuna creatura vivente, anche la più infima.

— Ma questa è una creatura bizzarra – osservò il Capitano, ansiosamente. – Ha un mucchio di strane antipatie. Non può sopportare, per esempio, un’automobile specialmente poi se vibra e palpita come la vostra anche quando è ferma. Non si occupa di pellicce, ma se continuate a indossare una giacca di velluto marrone, un momento o l’altro vi morderà. E dovrete tenerlo lontano da certe persone. Ma non credo che nemmeno voi le conosciate: son quelle che credono che l’uomo con meno di 200 sterline all’anno sia sempre ubriaco e rozzo, e che l’uomo con più di 2000 sterline all’anno sia padrone del mondo. Se volete tenere il nostro caro asinello lontano da queste persone... Olà, olà!

Profondamente turbato, il Capitano si slanciò verso il cane che a sua volta si era slanciato verso l’automobile e vi era saltato dentro. Il Capitano salì sulla macchina per tirare fuori il cane, ma prima che egli potesse attuare il suo progetto, l’automobile si allontanò a corsa pazza. Il Capitano vide l’insegna de «La Vecchia Nave» eretta

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come uno stendardo, e Pump seduto tranquillamente accanto al guidatore con il formaggio e il barile.

Tutto ciò accadde precipitosamente; ma il Capitano ebbe ancora la presenza di spirito di alzarsi e di urlare a Wimpole:

— L’avete proprio lasciata in buone mani. Non sono mai stato crudele con un’automobile.

E nella solitaria foresta, al chiaro di luna, Dorian e l’asinello rimasero a guardarsi in faccia.

Per un’anima mistica, ammesso che sia un’anima, il che non accade molto spesso, non vi è nulla di più suggestivo e di più simbolico che un poeta e un asino. E l’asino era proprio un vero asino; e il poeta un vero poeta; benchè a volte i due si confondano facilmente. Non si saprà mai quale fu l’interesse dell’asino per il poeta. Ma l’interesse del poeta per l’asino era genuino: e sopravvisse anche a quella intervista privata nella solitudine e segretezza di un bosco. Ma credo che anche il poeta sarebbe rimasto illuminato se avesse potuto vedere il pallido volto spaventato dell’uomo seduto al volante. Se l’avesse visto, egli si sarebbe forse ricordato il nome o avrebbe forse incominciato a capire la natura di un certo animale che non è nè un asino nè un’ostrica; della creatura cioè che l’uomo tanto volentieri dimentica, da quando dimenticò Dio in un giardino.

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CAPITOLO XVLE CANZONI

DEL «CLUB» DELLE AUTOMOBILI

Più di una volta, mentre l’automobile fuggiva attraverso boschi e praterie illuminate dalla luna, Dalroy si sporse dal finestrino e cercò di parlamentare, ma invano, col guidatore. Alla fine si limitò a chiedergli dove era diretto.

— A casa – rispose l’uomo con voce strana – da mia madre.

— E dove abita? – domandò Dalroy pieno di diffidenza.

— Lontano; non l’ho più vista da quando sono nato.— Ma ricordatevi – osservò Dalroy – che potete

essere arrestato. L’automobile non è vostra, ma di quel signore che avete lasciato solo in un bosco senza nulla da mangiare.

— Ha l’asino; e se ha fame se lo mangerà.Humphrey Pump aprì il vetro che lo separava dalla

parte posteriore dell’automobile e si volse a parlare al suo amico.

— Ho paura che per il momento non si fermerà, qualunque cosa gli diciate. È pazzo come dicono che fosse pazza la zia di Moody.

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— Davvero? – si informò il Capitano. – Non l’ho mai sentito dire a Itaca.

— È meglio che lo lasciate stare – continuò Pump. – Sarebbe capace di andare a sbatter contro un treno espresso come dicono che fece Dandy Mutton quando guidava soprappensiero. Rimanderemo poi, più tardi l’automobile a Ivywood in un modo o nell’altro. E non credo che gli capiterà nulla di male a quel signore per passare una notte con un asino. Vi assicuro che gli asini a volte possono insegnare molte cose.

— È vero che egli negò il principio della proprietà privata – disse Dalroy riflettendo – ma immagino che pensasse a una semplice cosa colle fondamenta nel suolo. Forse egli si immagina che una cosa su ruote come questa sia un possesso più permanente. Ma non riuscirò mai a capirci nulla – e si passò la mano sulla fronte. – Ma avete notato com’è strana questa gente?

L’automobile continuò la sua corsa, mentre Pump manteneva un dignitoso silenzio, e l’Irlandese continuò:

— Quel poeta da strapazzo non era certo cattivo. Lord Ivywood non è crudele, è inumano. Ma quell’uomo non era inumano. Era ignorante come tante altre persone bene istruite. Ma ciò che è strano in loro è che si sforzano di essere semplici, ma non rinunciano mai a una cosa complicata. Se devono scegliere tra carne di bue e qualche cibo in salamoia, rinunciano alla carne di bue. Se devono scegliere fra un prato e un’automobile, scelgono l’automobile. E volete sapere il perchè? Perchè essi rinunciano solo a quelle cose che li

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legano agli altri uomini. Se andate a pranzo con un milionario astemio e sobrio, vedrete che egli non rinuncerà nè agli antipasti, nè alle cinque o sei portate, nè al caffè, ma bensì egli abolirà i vini e i liquori perchè anche i poveri come i ricchi sono ghiotti di vini e di liquori. E ancora: egli non rinuncerà alla posateria d’argento, ma rinuncerà alla carne; perchè i poveri sono ghiotti della carne... quando possono averla. E ancora: egli non si glorierà dei suoi giardini, e dei suoi saloni, perchè i poveri possono farne anche a meno. Ma vi dirà tutto orgoglioso che egli si alza molto presto al mattino: perchè il sonno è una cosa che fa molto piacere ai poveri. Non si è mai sentito dire che un moderno filantropo abbia rinunciato alla sua dattilografa o ai suoi servi. Mai più. Egli non rinuncia che alle cose più semplici e più comuni: al manzo, alla birra, al sonno, perchè questi piaceri gli ricordano che egli è solo un uomo.

Humphrey Pump assentì, ma non rispose nulla, e la loquacità di Dalroy non trovò sfogo migliore che nel ricordare e nel cantare alcune canzoni composte dallo stesso Capitano.

— Tale era il caso del defunto signor Mandragon, ben conosciuto dall’aristocrazia inglese come un semplice democratico venuto dall’Ovest, finchè venne ucciso da sei uomini colle cui mogli aveva avuto a che fare.

Mr. Mandragon the Millionaire he wouldn’t have wine or wife,He couldn’t endure complexity; he lived the simple life;

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He ordered his lunch by megaphone in manly simple tones,And used all his motors for canvassing voters,and twenty telephones;

Besides a dandy little machine,Cunning and neat as ever was seen,With a hundred pulleys and cranks between,Made of iron and kept quite clean,

To hoist him out of his healthful bed on every day of his life,And wash him, and brush him, and shave him,and dress him to live the Simple Life.

Mr. Mandragon was most refined, and quietly, neatly dressedSay all the American newspapers that know refinement best;Quiet and neat the hair and hat, and the coat quiet and neat,A trouser worn upon either leg, while boots adorn the feet;

And not, as any one might expect,A Tiger Skin, all striped and specked,And a Peacock Hat with the tail erect,A scarlet tunic with sunflowers decked,— That might have had a more marked effect

And pleased the pride of a weaker manthat yearned for wine or wife,But fame and the flagon for Mr. Mandragonobscured the Simple Life.

Mr. Mandragon the Millionaire, I am happy to say, is dead,He enjoyed a quiet funeral in a crematorium shed,And he lies there fluffy and soft and grey,and certainly quite refined,

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When he might have rotted to flowers and fruitwith Adam and all mankind.

Or been eaten by bears that fancy blood,Or burnt on a big tall tower of wood,In a towering flame as a heathen should,Or even sat with us here at food,

Merrily taking twopenny rum and cheese with a pocket-knife;But these were luxuries lost for him that lived for the Simple Life31.

31 Il signor Mandragon, il milionario, – non voleva avere nè vino nè moglie. – Non poteva soffrire complicazioni: viveva una vita semplice. – Ordinava la sua colazione per megafono in toni semplici e dignitosi – e adoperava tutte le sue automobili per andare a sollecitare i voti degli elettori; – e venti telefoni – e anche una piccola graziosa macchina – ingegnosa e pulita come non si è mai visto – con cento pulegge e manovelle – fatte di ferro e tenute ben pulite – per sollevarlo fuori dal suo comodo letto ogni giorno della sua vita, – e lavarlo e spazzolarlo e raderlo – e vestirlo, per vivere la vita semplice.

Il signor Mandragon era molto distinto e ben vestito, – dicono tutti i giornali americani che si intendono di distinzione, – distinti e semplici i capelli e il cappello, distinto e semplice l’abito – un pantalone per ogni gamba, mentre le scarpe gli adornavano i piedi: – e non come qualcuno potrebbe aspettarsi – una pelle di tigre tutta a strisce e a chiazze – e un cappello da pavone con piume – una tunica scarlatta ornata di girasoli – che avrebbe potuto avere un effetto più grande – e soddisfatto l’orgoglio di un uomo più debole che desiderasse vino e moglie. – Ma la fama e le bottiglie per il signor Mandragon oscuravano la vita semplice.

Il signor Mandragon, il milionario, son felice di dirlo, è morto; – egli godè di un quieto funerale in una cella crematoria, – e giace là, peloso e soffice, grigio e certamente molto distinto, – quando

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Il signor Hump aveva fatto molti tentativi per arrestare questa canzone, ma i suoi sforzi erano stati vani, come pure senza alcun risultato era stata la sua preghiera di far fermare la macchina. L’irato guidatore, quasi eccitato dalla voce poderosa che gli risuonava alle spalle, aveva continuato la sua corsa a gran velocità: e Pump credè opportuno di ricominciare a chiacchierare.

— Caro Capitano, – disse con voce amichevole – non sono completamente del vostro parere. Non bisogna mai esagerare in nulla. Un conto è non fidarsi degli stranieri e un conto è sprezzarli e reputarli tutti sleali. Guardate gli americani, per esempio. Ce ne sono passati molti di americani per Pebbleswick! Ebbene, io non ho mai trovato un americano cattivo, un americano stupido, un americano insomma che non mi andasse a genio...

— Scommetto che voi volete dire – interloquì Dalroy – che non vi fu mai un americano che non apprezzasse «La Vecchia Nave».

— Può darsi: ad ogni modo mi pare che «La Vecchia Nave» apprezzasse molto gli americani.

egli avrebbe potuto imputridire tra i fiori e i frutti con Adamo e tutto il genere umano – o essere mangiato dagli orsi che amano il sangue – o bruciato in cima a un’alta torre di legno – tra una gran fiamma come solevano i pagani – oppure sedere qui con noi a mangiare – allegramente prendendo due soldi di rhum, – e tagliando il formaggio con un coltello a serramanico: – ma queste sono voluttà ignote a lui che viveva una vita semplice.

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— Che tipi straordinari siete voi altri inglesi! – esclamò l’Irlandese pensieroso. – Son quasi sicuro che farete carriera.

Dopo un momento di silenzio continuò:— Avete ragione, Pump, non bisogna giudicare gli

americani come li giudico io. In tutti i paesi del mondo i ricchi sono proprio la feccia, la parte peggiore della popolazione: e i veri americani sono gentili, intelligenti, lavoratori. Forse ciò dipende dal fatto che i veri americani sono in realtà irlandesi.

Pump non rispose nulla, e il Capitano riprese:— Tuttavia è duro per un uomo, specialmente per un

uomo che, come me, appartiene a un piccolo paese, il pensare come devono essere orgogliosi gli americani di essere americani. Non mi piacerebbe di dover scrivere un inno nazionale americano, ma fortunatamente nessuno pensa a darmi tale incarico. E il vergognoso segreto della mia incapacità nello scrivere un canto patriottico americano morirà con me!

— E sareste capace di comporre un inno inglese? – domandò Pump sfacciatamente. – Peggio ancora, non è vero?

— Inglesi, sanguinari, tiranni! – esclamò Patrick indignato. – Non potrei immaginarmi una canzone fatta da un inglese come la immaginerei fatta da questo cane!

Il signor Humphrey Pump trasse gravemente da una tasca un pezzo di carta sulla quale aveva già scritto il canto dei droghieri, e cercò una matita.

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— Olà – gridò Dalroy – volete forse comporre una ballata per Quoodle?

Quoodle, nell’udire il suo nome, rizzò le orecchie. Il signor Pump sorrise timidamente. Nel segreto della sua anima si sentiva molto orgoglioso per l’ammirazione di Dalroy per i suoi antecedenti tentativi poetici, e aveva una certa quale abilità nel comporre versi, aiutato in ciò dalle sue conoscenze letterarie che, se non erano molto vaste, non erano nemmeno da disprezzarsi.

— A patto però – disse – che voi scriviate un inno per gli inglesi.

— Benissimo – rispose Patrick con un sospiro che non indicava certo nè riluttanza nè mala voglia. – Dobbiamo cercare di passare nel miglior modo possibile il tempo finchè questa macchina si fermerà. «Le Canzoni del Club dell’automobile»: che bel titolo rimbombante!

E cominciò a scarabocchiare su un libriccino, lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Pump e al cane i cui atteggiamenti lo divertivano immensamente. Il proprietario de «La Vecchia Nave» succhiava con profonda attenzione la matita e non distoglieva lo sguardo dal cane. Ad ogni poco currugava le folte sopracciglia e buttava giù qualche parola. E il cane Quoodle con quel potere proprio dei cani di tutto capire o fingere di capire, se ne stava seduto sulle zampe posteriori col capo piegato da una parte, fermo ed immobile come se posasse per un ritratto.

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Ne venne di conseguenza che il poema di Pump, benchè piuttosto lungo, come spesso avviene ai componimenti dei poeti inesperti, fu finito prima di quello di Dalroy più breve, e la cui fine testimoniava una certa fretta.

E quindi la canzone conosciuta sotto il titolo di «Senza nasi», ma la cui vera denominazione è: «Il Canto di Quoodle», fu la prima ad essere resa nota. Eccone alcune strofe:

They haven’t got no noses,The fallen sons of Eve;Even the smell of rosesIt not what they suppose;But more than mind disclosesAnd more than men believe.

They haven’t got no noses,They cannot even tellWhen door and darkness closesThe park a Jew encloses,Where even the Law of MosesWill let you steal a smell.

The brilliant smell of water,The brave smell of a stone,The smell of dew and thunder,The old bones buried under,Are things in which they blunderAnd err, if left alone.

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The wind from winter forests,The scent of scentless flowers,The breath of brides’ adorning,The smell of snare and warming,The smell of Sunday morningGod gave to us for ours.

*

And Quoodle here disclosesAll things that Quoodle can,They haven’t got no noses,They haven’t got no noses,And goodness only knowsesThe Noselessness of Man32.

32 Essi non hanno avuto naso – i caduti figli di Eva; – anche l’odore delle rose – non è quello che essi credono; – ma più l’animo scopre – e più gli uomini credono.

Essi non hanno avuto naso, – essi non possono nemmeno dire – quando la porta e l’oscurità chiudono – il parco che una siepe circonda, – dove anche la legge di Mosè – vi lascerà rubare un odore.

Il brillante odore dell’acqua – il forte odore di una pietra – l’odore della rugiada e del tuono, – le vecchie ossa seppellite – sono cose nelle quali essi sbagliano – ed errano se lasciati soli.

Il vento delle foreste invernali, – l’odore dei fiori senza odore, – il sospiro dell’ornamento delle spose, – l’odore del serpe e dell’avvertimento, – l’odore delle mattine domenicali – Dio ce li diede per noi.

E Quoodle scopre – tutte le cose che Quoodle può: – essi non hanno avuto naso, – essi non hanno avuto naso – e Dio solo sa – la «senza-nasità» degli uomini.

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Anche questo poema è un po’ affrettato alla fine e l’editore che non mira che alla verità, è obbligato a confessare che le critiche del Capitano aiutarono alla formazione di questi versi che furono poi, in seguito, migliorati dallo stesso «Poeta degli Uccelli».

La caratteristica principale di questo canto realistico sui cani, era un coro assordante a base di «Bau Bau» iniziato dal signor Patrick Dalroy e imitato con molto successo dal signor Quoodle.

Dalroy dal canto suo trovò qualche difficoltà nell’adempiere il suo compito di leggere il breve poema da lui composto sui sentimenti propri ad un inglese. La sua voce, nel declamare, era piuttosto vaga ed incerta come se l’autore non avesse ben trovato il nocciolo della questione. E il compilatore, che non mira che alla verità, è obbligato a confessare che i versi erano proprio i seguenti:

St. George he was for England,And before he killed the dragonHe drank a pint of English aleOut of an English flagon.For though he fast right readilyIn hair-shirt or in mail,It isn’t safe to give him cakesUnless you give him ale.

St. George he was for England,And right gallantly set freeThe lady left for dragon’s meat

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And tied up to a tree;But since he stood for EnglandAnd knew what England means,Unless you give him baconYou mustn’t give him beans.

St. George he is for EnglandAnd shall wear the shield he woreWhen we go out in armourWith the battle-cross before.But though he is jolly companyAnd very pleased to dine,It isn’t safe to give him nutsUnless you give him wine.33

— È proprio una canzone piena di filosofia e di pensieri profondi – disse Dalroy scuotendo il capo. –

33 San Giorgio era il protettore dell’Inghilterra – e prima di uccidere il Drago – bevve una pinta di birra inglese – da un fiasco inglese – perchè, sebbene egli digiuni volentieri, in camicia da penitente o in corazza, – non è prudente dargli delle torte – senza dargli della birra.

San Giorgio era il protettore dell’Inghilterra; – e molto galantemente liberò – la ragazza abbandonata per il pasto del drago – legata a un albero: – ma dacchè egli sostenne l’Inghilterra, – a meno che voi non gli diate del lardo, – voi non dovete dargli delle fave.

San Giorgio è il protettore dell’Inghilterra – e indosserà lo scudo, che egli ha conquistato, – quando noi usciamo in armi – coll’insegna della battaglia davanti. – Ma, benchè egli sia un allegro compagno – e gli piaccia mangiare, – non è prudente dargli delle noci – senza dargli il vino.

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Credo proprio che sia la verità sugli inglesi. I vostri nemici dicono che voi siate stupidi: e voi vi vantate di essere illogici, e facendo così fate una cosa molto stupida. Come se mai alcuno fosse riuscito a creare un impero o qualunque altra cosa dicendo che due e due fanno cinque. E non si diventa di certo più interessanti e più abili ignorando alcune cose, anche se si trattasse di qualche giocherello o di chimica. Ma è proprio vero, Pump. Voi, inglesi, siete un popolo eminentemente artistico, e quindi andate avanti per associazioni, come ho detto nel mio canto. Voi non potete avere una cosa disgiunta da quell’altra cosa, che ci va naturalmente insieme. Voi non potete immaginarvi un villaggio senza il suo relativo parroco e senza il padrone. E allora dicono che siete un popolo conservatore. Ma, caro Pump, voi non vi volete separare dalle cose perchè siete troppo sensitivi, non perchè siete stupidi. È una bugia, ed è una adulazione quando vi dicono che voi avete un debole per il compromesso. Credete a me, Pump, ogni rivoluzione è un compromesso. Pensate forse che Wolfe Tone o Carlo Stewart Parnell non siano mai venuti a compromessi? Ma è proprio perchè avete paura di un compromesso che voi non volete fare rivoluzioni. Se voi voleste proprio disfare per poi rifare «La Vecchia Nave», o Oxford, dovreste decidervi su ciò che vorreste lasciare o prendere. E il vostro cuore si spezzerebbe, Humphrey Pump!

Dalroy fissò lo sguardo davanti a sè, e poi soggiunse ancor più lugubremente:

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— Questa vostra maniera estetica ha solamente due svantaggi che io ora vi spiegherò. Il primo è quello stesso che ci ha spinto a fuggire. Quando ciò che voi avete fatto di bello, di armonioso, è direttamente governato da un essere nuovo, con uno spirito nuovo, allora sarebbe centomila volte meglio per voi vivere sotto le molteplici costituzioni di Condorcet e Sieyès. E quando l’oligarchia inglese è condotta da un inglese che non ha spirito inglese, ecco allora apparire Lord Ivywood e tutto questo incubo, questa ossessione di cui solamente Dio può prevedere la fine.

L’automobile proseguiva veloce e il Capitano così terminò:

— E il secondo svantaggio, o mio caro esteta, è questo. Se per caso, sbagliando pianeta, voi capitaste in qualche isola dell’Atlantico, l’Antartide per esempio, che non volesse accettare tutte le vostre immagini, e alla quale voi non potreste dare tutto, allora voi vi decidereste probabilmente a non dare nulla. E direste in cuor vostro: fra breve, forse, si troveranno in grandi strettezze e da quel momento, per quell’isola voi diventereste il più crudele e il più cattivo dei prìncipi.

L’alba era giunta, e Pump che ben conosceva le regioni inglesi, si accorse che l’ultima cittadina da loro attraversata era di un tipo affatto nuovo, il tipo delle cittadine delle regioni occidentali.

La frase del guidatore a proposito della madre doveva essere uno scherzo, e certamente egli si era diretto da quella parte per puro caso.

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La luce mattutina illuminava pallida e scialba le strade. Alcuni operai mattinieri, più stanchi al mattino che non la maggior parte degli uomini alla sera, camminavano con aria rassegnata come se ben conoscessero l’inutilità di imprecare contro il loro turpe destino. Due o tre case che sembravano troppo stanche per star ritte, ispirarono nuovi pensieri al Capitano.

— Vi sono due generi di idealisti – disse. – Quelli che idealizzano la realtà, e quelli, più rari, che convertono in realtà l’ideale. I popoli artistici e poetici come gli inglesi, generalmente idealizzano la realtà. E io ho espresso tutto ciò in un canto che...

— Oh, no! – protestò l’oste – non ora, Capitano...— In un canto – proseguì Dalroy imperterrito – che vi

farò sentire adesso con tutte le differenti intonazioni e...Si fermò perchè l’universo fuggente sembrò fermarsi:

le siepi, lanciate alla carica, fecero alt come a un segnale di tromba, le foreste che correvano rimasero rigide, le ultime poche case vacillanti si misero in posizione di attenti. Un rumore simile a un colpo di pistola, proveniente dall’automobile aveva posto fine alla corsa, come un altro colpo consimile avrebbe potuto iniziarla.

Il guidatore discese con passo incerto e girò attorno all’automobile in attitudine tragica. Aprì parecchi sportellini insospettati, toccò alcune cose, girò delle viti.

— Bisogna che cerchi di tornare indietro fino a quel garage, signore – disse finalmente con voce aspra e dura.

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Poi si guardò attorno, e parve mordersi le labbra come un gran generale che ha commesso qualche errore. La sua fronte si corrugò, ma quando riprese a parlare la sua voce aveva perso quel tono aspro ed era tornata monotona come al solito.

— Sono in un bell’imbroglio, e non so come farò a tornare indietro!

— Tornare indietro! – ripetè Dalroy spalancando gli occhi. – Indietro dove?

— Vedete, signore, volevo dimostrargli che ero io che guidavo l’automobile e non lui. Per sfortuna ho quasi rovinato la macchina. Ebbene, se voi potete restare nell’automobile...

Il Capitano Patrick Dalroy saltò fuori con tanta fretta che quasi ruzzolò al suolo. Il cane lo seguì abbaiando furiosamente.

— Hump – disse Patrick, – ho scoperto tutto; adesso so che cosa mi dispiaceva tanto negli inglesi.

E dopo un momento di silenzio riprese:— Aveva ragione quel francese di dire che voi fate

dimostrazioni in piazza per liberarvi dal vostro cattivo umore, non dal vostro tiranno. Il vostro amico era pronto a ribellarsi scappando via coll’automobile. Ribellarsi restando fermo era impossibile. Leggete il «Punch»? Sì, vero? Ebbene, Pump e il «Punch» devono essere i soli superstiti dell’età vittoriana. Vi ricordate quel disegno raffigurante due malandrini irlandesi, appiattati dietro un muro con dei fucili per uccidere un padrone? Uno di loro dice che il padrone è in ritardo, e

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aggiunge: «Spero che non sarà successo nulla a quel povero signore!». Ebbene, è proprio così; conoscevo intimamente quell’irlandese, ma voglio rivelare un segreto. Quell’irlandese era un inglese!

Il guidatore aveva, intanto, trascinato l’automobile fino al garage che era separato da una vicina latteria da una stradetta oscura ed angusta. Il Capitano Dalroy vi scomparve chiamando a sè con un cenno il guidatore. Dopo pochi istanti l’uomo riapparve frettoloso ficcandosi in tasca delle carte sciolte. Entrò nella rimessa e ne uscì subito portando un fagotto sul braccio.

Il signor Humphrey Pump osservò tutto ciò con profondo interesse. Evidentemente quel luogo doveva essere un punto di ritrovo degli automobilisti. Infatti un’automobilista alto e grosso, col volto nascosto dalla cuffia e dagli occhiali, si avvicinò a lui, gli porse un paio di occhiali, una cuffia, un camiciotto da guidatore e gli disse:

— Indossate questi arnesi, Hump, e poi andremo nella latteria ad aspettare l’automobile.

— Quale automobile, o cercatore della verità?— L’automobile che io compro perchè voi la

guidiate.Il guidatore pentito e confuso, dopo molte avventure,

riuscì a ritornare nel piccolo bosco illuminato dalla luna, dove egli aveva lasciato il suo padrone e l’asino. Ma il suo padrone e l’asino era scomparsi.

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CAPITOLO XVII SETTE STATI D’ANIMO DI DORIAN

La luna, questo enorme orologio di tutti i pazzi, che quella notte brillava così chiara e luminosa, doveva proprio esser nata fortunata. Non solo aveva iniziato il signor Hibbs ai misteri di Dionisio, e il signor Bullrose alle abitudini arboree dei suoi antenati, ma aveva anche provocato grandi cambiamenti nel signor Dorian Wimpole, il «Poeta degli Uccelli». Egli non era nè più cattivo nè più pazzo di Shelley; era un uomo reso sterile da un mondo pieno di falsità. Egli non aveva avuto la benchè minima intenzione di far digiunare il suo guidatore, e non concepiva certo di qual delitto morale si fosse macchiato, dimenticandolo. Man mano che le ore passavano, tutto solo nel bosco con l’asino e con la luna, l’animo del povero poeta passò attraverso varie fasi mutevoli ed incostanti.

Il primo stato d’animo, mi rincresce a dirlo, fu pieno di furore e di rabbia. Dorian Wimpole non sospettava nemmeno lontanamente che il suo guidatore potesse avere motivi di odio contro di lui, e credeva che il povero uomo fosse stato comprato o impaurito dai demoniaci torturatori dell’asinello. Ma il signor Wimpole in quel momento fu più abile a torturare un

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guidatore, di quanto il signor Pump lo fosse mai stato nel torturare un asinello: nessun uomo nel pieno possesso delle sue facoltà mentali può odiare un animale. Prese a calci con somma violenza alcuni grossi ciottoli, desiderando in cuor suo che ciascuno di essi fosse quel furfante di guidatore; strappò delle piccole felci illudendosi che fossero i capelli del guidatore stesso, benchè non gli assomigliassero nemmeno lontanamente. Picchiò poi coi pugni contro un albero, la cui forma, immagino, gli ricordava quella dell’infedele, ma desistette ben presto dall’impresa perchè si accorse che in quel pugilato l’albero aveva il sopravvento. Ma in ogni cosa, in ogni luogo egli rivedeva quell’uomo funesto.

Il lettore si sarà accorto che il signor Wimpole aveva fatto un gran passo avanti in quella che egli avrebbe chiamato la scala cosmica. Infatti, per bene amare un individuo bisogna odiarlo; specialmente se è un uomo povero che non è separato da noi dalla sola rigidezza sociale. Desiderare di ucciderlo è riconoscere che esiste. Molti si sono attaccati alla democrazia, semplicemente perchè provavano un desiderio infinito di prendere un bastone e di battere il loro maggiordomo. E lo stesso signor Humphrey Pump ci attesta che il cavalier Merriman inseguì il suo bibliotecario con la pistola alla mano attraverso tre villaggi, e dopo d’allora fu per sempre un radicale!

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Dorian Wimpole, dopo i suoi scatti di furore, si sentì un po’ sollevato, e ben presto passò ad un secondo stato d’animo, più calmo e più riflessivo.

— Solo le scimmie agiscono così! – brontolò. – E poi chiamano l’asino uno degli animali più vili! Voleva montare in groppa a un asino, quell’individuo. Mi piacerebbe veder l’asino montare in groppa a lui!

Il mite animale volse i grandi occhi verso colui che lo accarezzava, e Dorian Wimpole con somma meraviglia scoperse che quell’asino gli piaceva proprio. Dopo un più attento esame di coscienza si accorse anche che fino ad allora egli non aveva mai amato alcun animale, i suoi poemi erano stati sinceri, ma freddi. Quando asseriva di amare un pescecane egli voleva dire che non aveva nessun motivo per odiarlo: e questo bastava. In realtà non c’è nessun motivo di odiare un pescecane, benchè ci siano mille ragioni per evitarlo. Ma a questo punto il suo amore per le creature subiva alcune modificazioni. L’asino era un compagno, non una mostruosità. Gli era caro perchè gli era vicino, e non perchè fosse lontano. L’ostrica lo aveva attirato perchè era così diversa dall’uomo, a meno che il portare la barba si possa considerare come segno di vanità mascolina. Idea un po’ strana, forse; ma non aveva egli stesso insinuato una certa vanità femminile nelle ostinazioni di una perla? Ma in quella veglia solitaria tra i mistici pini egli si sentiva sempre più attirato verso l’asino perchè gli ricordava l’uomo più di qualsiasi altra cosa lì attorno,

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perchè aveva occhi per vedere, e orecchie per udire, anche se quest’ultime erano un po’ troppo sviluppate.

— Colui che ha orecchie per udire, oda! – disse, accarezzando affettuosamente quelle lunghe orecchie pelose. – Non hai alzato mai le tue orecchie verso il cielo? Non sarai tu il primo ad udire le trombe del giudizio universale?

L’asino fregò contro di lui il suo muso umido, quasi accarezzandolo. E Dorian si domandò come potesse essere la carezza di un’ostrica. Tutto intorno a lui era bello, ma non umano. Solamente in un momento di ira aveva potuto trovare in un alto pino le fattezze di un ex-cocchiere di Kennington. Gli alberi e le felci non hanno orecchie da poter scuotere, nè miti occhi da muovere. Ed accarezzò l’asino di nuovo.

Ma l’asino l’aveva riconciliato con il paesaggio e nel suo terzo stato d’animo Dorian Wimpole si accorse quanto era bello. Dopo un più attento esame sentì che quella bellezza aveva in sè qualche cosa di umano, o meglio sentì che era almeno per metà umana; l’aureola della luna calante dietro il bosco era bella perchè era simile alla pallida aureola dei santi; e i giovani alberi avevano un certo che di nobile e di puro, perchè tenevano le loro cime erette come vergini. A poco a poco nella sua anima si assiepavano delle idee a lui quasi totalmente sconosciute e specialmente un’idea che egli aveva udito chiamare «l’immagine di Dio». Gli sembrava che tutte le cose, dall’asino alle felci, fossero nobilitate e santificate dalla loro somiglianza parziale

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con qualche altra cosa. Erano come disegni fatti da un bimbo; i primitivi semplici schizzi della Natura nel suo primo quaderno di pietra.

Si gettò a terra su un mucchio di aghi di pino per godere l’oscurità sempre crescente del bosco man mano che la luna calava. Non c’è nulla di più bello e di più solenne di un bosco di pini dove gli alberi fitti si ombreggiano l’uno con l’altro, e le strisce di argento si alternano a quelle color grigio cupo e queste al nero scurissimo.

Felice ed ozioso Dorian raccolse un ago di pino e cominciò a filosofare su di esso:

— Sedere su degli aghi! – pensò. – Eva, nell’Eden, doveva certamente adoperare questi aghi. E la vecchia leggenda aveva ragione. Pensate per esempio di sedere su tutti gli aghi di Londra! su tutti gli aghi di Sheffield! su qualsiasi ago, purchè non siano, beninteso, gli aghi del Paradiso! Oh, sì! la vecchia leggenda aveva proprio ragione! Gli aghi di Dio sono più soffici dei tappeti degli uomini.

Si dilettò ad osservare il piccolo bosco incantato, gli animaletti che strisciavano fuori dai verdi ripari. Si ricordò che la vecchia leggenda diceva che una volta tutte le bestie erano docili e comiche come l’asino. Pensò che Adamo aveva posto un nome a tutti gli animali e disse a uno scarafaggio: – Ti chiamerò «girandolone».

Le lumache e i vermi lo divertivano molto e provava per essi un interesse che non aveva mai avuto prima;

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l’interesse che un uomo in prigione ha per un topo, l’interesse di chiunque non può muoversi e scopre il fascino delle piccole cose. A volte passavano dei lunghi intervalli prima che uno di questi animaletti si avvicinasse a lui, ma egli aspettava pazientemente, desideroso di far la loro conoscenza. Uno di essi soprattutto attrasse la sua attenzione: era un po’ più lungo degli altri e voltava la testa verso la gamba anteriore sinistra dell’asino. A differenza degli altri vermi aveva anche una testa. Dorian Wimpole non era molto versato in storia naturale; una volta si era occupato a studiare quali fossero le cause del riso della iena. Ma le sue cognizioni, in questo caso, non gli servivano a nulla. Era abbastanza istruito tuttavia per sapere che un verme non ha la testa, soprattutto non una testa piatta e quadrata, e che una creatura strisciante con una testa simile si trova ancora qualche volta nelle campagne inglesi, benchè non sia fortunatamente molto comune. Ne sapeva abbastanza dunque per attraversare la strada e schiacciare, come fece, con il tallone l’immonda bestiola.

Ciò fatto, trasse un gran sospiro di sollievo. L’asino, la cui gamba era stata in così grande pericolo, guardò la vipera morta senza che i suoi occhi perdessero la loro dolcezza mansueta. Ed anche Dorian fissò a lungo la vipera non riuscendo a comprendere quali sentimenti lo invadessero; finchè alla fine si ricordò di aver paragonato il piccolo bosco all’Eden.

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— E anche nell’Eden... – disse, ma le parole di Fitzgerald gli morirono sulle labbra.

Mentre stava lottando con tali parole e tali pensieri, qualche cosa avvenne intorno a lui; qualche cosa che egli aveva descritto molte volte e che aveva letto in mille libri, ma che non aveva mai visto. Attraverso il fitto fogliame occhieggiò una debole, pallida luce, più misteriosa ancora del chiarore lunare. Entrò attraverso le innumerevoli porte e finestre del bosco, timida e silente, ma fiduciosa. La sua bianca veste si rigò d’oro e porpora; il suo nome era: alba.

Già da qualche tempo gli uccelli avevano cantato, ma invano, al «Poeta degli Uccelli». Ma la luce del giorno irrompente nel bosco e sulla strada, ebbe su di lui uno strano effetto. Dorian rimase a contemplarla muto ed attonito finchè essa non ebbe compiuto la sua opera; finchè gli alberi, le felci, l’asino vivo e la vipera morta non apparvero distinti e chiari come al meriggio o in un quadro preraffaellita. E allora il quarto stato d’animo si impossessò di lui; attraversò la strada, prese l’asino per la briglia ed esclamò con voce gioiosa, facendo eco a un gallo che proprio in quel punto cantava in un vicino villaggio:

— Al diavolo! non tutti sono capaci di uccidere una vipera. Scommetto che il dottor Gluck non ne uccise nemmeno una. Andiamo, vecchio mio, in cerca di avventure.

Il trovare e il combattere il male è il principio di ogni allegria, e anche di ogni farsa. Tutto il bosco selvaggio

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sembrava più allegro ora che la vipera era stata uccisa. Tutti i letterati vogliono dare a emozioni naturali un nome letterario, ma non è fuori di posto il dire che Dorian Wimpole era passato dallo stato d’animo di Maeterlinck a quello di Whitman, e da quello di Whitman a quello di Stevenson. Senza alcuna ipocrisia egli aveva domandato gli uccelli dorati dell’Asia o i polipi purpurei dei mari del Sud: e senza alcuna ipocrisia ora egli domandava qualche comica avventura lungo una semplice strada inglese. Non fu certo colpa sua se la sua prima avventura fu anche l’ultima; e fu troppo comica per poterne ridere.

Già il cielo mattutino incolore era diventato azzurro pallido, macchiato qua e là da quelle tenui nuvolette rosate che certamente hanno dato origine alla leggenda che i maiali possono volare. Gli insetti nei prati facevano un tal rumore che ogni filo d’erba pareva chiacchierasse. L’orizzonte non era interrotto che da oggetti che sembravano incoraggiare una tale confusa commedia. C’era un mulino a vento che il mugnaio di Chaucer avrebbe potuto abitare o che l’eroe del Cervantes avrebbe potuto espugnare; un vecchio campanile che Roberto Clive avrebbe potuto scalare. Lontano, verso Pebbleswick e verso il mare, si vedevano due tronconi di legno che ancora oggi Humphrey Pump dichiara essere gli avanzi di una sfortunata altalena per bambini, ma che i turisti considerano come i resti di un antico patibolo. Animati

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da simili visioni, Dorian e l’asino si incamminarono in fretta. L’asino gli ricordava Sancio Pancia.

Dorian Wimpole continuò a sognare e a meditare finchè una tromba d’automobile non lo scosse, finchè il terreno non tremò per l’improvviso arresto di una macchina, e una mano non si posò pesantemente sulla sua spalla. Alzò gli occhi e si vide dinanzi un ispettore di polizia. E qui incomincia il quinto stato d’animo che è chiamato comunemente «stupore».

Dorian lanciò un’occhiata all’automobile: l’uomo che stava seduto al volante non distoglieva lo sguardo dal suo compagno. Ma sul sedile posteriore, c’era un individuo che lo incuriosiva, perchè era sicuro di averlo già visto altre volte. Lungo e sottile, con le spalle cadenti, l’uomo indossava un abito piuttosto sporco e malandato, ma che tuttavia dava l’impressione che in altre occasioni doveva essere stato lindo e ordinato. Una ciocca di capelli giallicci stava ritta sulla fronte dando l’idea di un piccolo corno, un’altra ricadeva sull’occhio sinistro come per porre ad effetto la parabola di un trave in un occhio. Ma con o senza trave gli occhi erano leggermente stralunati. L’individuo così descritto, con moto nervoso, si aggiustava continuamente la cravatta; il suo nome era Hibbs e si era rimesso da poco da esperienze completamente nuove per lui.

— Che cosa diavolo volete? – domandò Wimpole al poliziotto.

Il suo volto innocente e stupefatto, e i suoi modi di fare misero nell’imbarazzo l’ispettore.

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— Ecco, si tratta di questo asino! – disse.— Credete forse che io l’abbia rubato? – esclamò il

gentiluomo indignato. – Ma come! dei ladri mi rubano la mia «Limousine», io salvo la vita di questo animale a rischio della mia, e mi vogliono arrestare per furto!

Ma il suo aspetto parlava più in suo favore della sua lingua: l’ispettore consultò alcune carte, poi si diresse verso l’automobile per consigliarsi con l’individuo male in arnese.

— Si tratta proprio di un asino simile – Dorian lo udì dire. – Ma la vostra descrizione degli individui da voi visti, non coincide.

Il signor Hibbs si ricordava molto vagamente quegli individui nè sapeva dire ciò che aveva visto realmente e ciò che aveva sognato. Se avesse parlato con sincerità avrebbe descritto una specie di incubo della foresta durante il quale egli si era trovato in potere di un orco mostruoso con i capelli di fuoco, vestito come Robin Hood. Ma per non tradirsi egli non osava dire a nessuno, nemmeno a se stesso, la verità. La sua unica preoccupazione era di non ammettere che era ubriaco, di non nominare nessuno a cui Lord Ivywood potesse chiedere delle informazioni, e di non perdere la sua riputazione di sagacità e di tatto.

— Quest’uomo ha un abito di velluto e un soprabito guarnito di pelliccia – continuò l’ispettore. – E invece voi avete parlato di un uomo che indossava una specie di uniforme.

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— Quando diciamo «uniforme» – disse il signor Hibbs, corrugando la fronte come sotto un enorme sforzo intellettuale, – quando diciamo «uniforme» dobbiamo distinguere. Quelli che non la pensano come noi – e a questo punto sorrise di compatimento – non l’avrebbero forse chiamata «uniforme». Ma... certamente... ecco, non era per esempio un’uniforme di polizia. Ah! Ah! Ah!

— Spero di no – disse l’ispettore brevemente.— E così... in un certo qual modo... poteva sembrare

nell’oscurità del velluto scuro.L’ispettore, a questa ipotesi, rispose meravigliato:— Ma se c’era la luna!— Già, già, – gridò Hibbs con la voce strozzata. – Ma

il chiaror della luna sfigura ogni cosa: i fiori, gli alberi...— Ma se avete detto che quell’individuo aveva i

capelli rossi!— Un tipo biondo! un tipo biondo! rossiccio,

biondastro! – Poi scosse il capo e pronunciò solennemente: – Teutono! proprio Teutono!

L’ispettore cominciò a stupirsi di esser stato messo sotto la guida di un simile originale.

Il fatto è che Leveson, mascherando il suo terrore personale sotto una forma di attività frettolosa, aveva trovato Hibbs accanto a una finestra, mentre cercava di rimettersi con qualche medicamento.

Giudicandolo abbastanza in gamba, non aveva avuto scrupolo di inviarlo con la polizia al primo

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inseguimento. Anche un mezzo ubriaco avrebbe facilmente riconosciuto il Capitano.

Ma se il suo stato generale era ancora sotto gli effetti della sua intemperanza, i timori e l’astuzia di Hibbs erano ben desti. Era quasi sicuro che quell’uomo in pelliccia aveva a che fare con il mistero: in generale la gente così ben vestita non va a spasso con un asino. Ma aveva paura di offendere Lord Ivywood e nel medesimo tempo temeva di esporsi con il poliziotto.

— Voi avete piena libertà di agire nell’interesse del pubblico – disse gravemente. – Credo che il meglio che possiate fare per il momento, è di assicurarvi di quest’uomo.

— E l’altro? – domandò l’ispettore. – Credete che sia riuscito a sfuggire?

— L’altro? – ripetè Hibbs, guardando il distante mulino a vento con gli occhi semichiusi come per concentrarsi onde rispondere a una domanda delicata.

— Ma diamine! voi dovete pur sapere se erano due uomini, o se ce n’era uno solo!

Hibbs si accorse con orrore che era proprio questo che egli non sapeva. Egli aveva sempre udito dire, e lo aveva anche letto nel giornali umoristici, che un ubriaco «vede doppio», contempla per esempio due lampioni dei quali uno è puramente soggettivo. Se l’ebbrezza aveva prodotto in lui lo stesso fenomeno, come poteva dire se gli uomini erano due o uno?

— O due, o uno! – disse con noncuranza. – Ci occuperemo di questo più tardi; non potranno poi essere

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molti. – A questo punto scosse risolutamente la testa. – Del tutto impossibile. – E come il defunto Lord Goschen diceva:

— Si può provare tutto con le statistiche.Ma nel frattempo ci fu un’interruzione dall’altra parte

della strada.— E fino a quando devo aspettare qui il vostro

beneplacito? – urlò perdendo la pazienza il «Poeta degli Uccelli». – Andiamo, asino mio, e speriamo di capitare meglio la prossima volta. Questi non sono che campioni inferiori della tua razza.

E così dicendo, afferrò la briglia dell’animale e si allontanò rapidamente.

Ma questo tentativo di fuga, così sembrò all’ispettore, fece pendere l’intelligenza del poliziotto dalla parte sbagliata della bilancia. Se Wimpole fosse rimasto tranquillo per qualche minuto ancora, l’ispettore, che non era del tutto stupido, avrebbe finito per non credere più alla storia di Hibbs. Ma così come andarono le cose, ci fu una breve lotta, dopo di che l’onorevole Dorian Wimpole, con l’asino, fu condotto al villaggio vicino, di lì all’ufficio di polizia e, finalmente, in una cella, nella quale si iniziò il sesto stato d’animo. Ma le sue proteste furono così clamorose, e i suoi abiti parvero così eleganti, che, dopo molte discussioni, quello stesso pomeriggio, Dorian fu portato a Ivywood, dove c’era un magistrato infermo per un colpo d’arma da fuoco.

Trovarono Lord Ivywood sdraiato su un divano tra innumerevoli idoli e statuette cinesi.

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Lord Ivywood li guardò entrare impassibile, quasi aspettasse con stoica calma l’arrivo di un nemico. Ma Lady Enid Wimpole, che lo assisteva, lanciò un grido di meraviglia, e i tre cugini rimasero a guardarsi in faccia.

Tutti e tre erano biondi, ma mentre due di essi esprimevano lo stupore, il terzo era l’immagine della rabbia repressa.

— Me ne rincresce molto, Dorian, – disse Lord Ivywood, dopo che ebbe udita tutta la storia. – Temo che questi fanatici siano capaci di tutto, e voi avete ragione di protestare per il furto dell’automobile...

— Non capite nulla, Filippo, – rispose il poeta – e non me ne importa nulla dell’automobile. Protesto solo contro l’esistenza, su questa terra di Dio, di questo pazzo (e indicò Hibbs) e di quest’altro pazzo (e indicò l’ispettore) e anche di questo pazzo (e indicò Lord Ivywood). Ve lo dico francamente, Filippo: se ci sono veramente questi due uomini pronti a ridurre al niente i vostri piani e a rendere la vostra vita un inferno, ebbene, io sono felice di mettere la mia automobile a loro disposizione. E adesso me ne vado.

— Non vi fermate a pranzo? – domandò Lord Ivywood, con fredda cortesia.

— No, grazie! – rispose l’irato poeta. – Me ne torno in città!

E il settimo stato d’animo di Dorian Wimpole ebbe la sua apoteosi al «Café Royal», a base d’ostriche.

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CAPITOLO XVIIIL POETA IN PARLAMENTO

Durante questa scena singolare tra Dorian Wimpole e Lord Ivywood, Lady Giovanna stava guardando fuori dalle magiche finestre di quella torretta che era, ora, l’ultimo limite del maniero di Ivywood. La scaletta e il foro attraverso il quale il cane Quoodle aveva l’abitudine di andare e venire erano state da lungo tempo chiuse e cementate con grande abilità. Lord Ivywood aveva ordinato che nessuna forma di animale dovesse apparirvi: ma, forte della libertà che questo dogma gli concedeva, egli aveva abbellito questa ala remota del suo maniero con sole e luna, sistemi solari e stelle, tra i quali spiccavano una magnifica Via Lattea e alcune comete. Le cose erano state fatte abbastanza bene (come tutte le cose comandate da Filippo Ivywood). Quando tutte le finestre erano ben chiuse e le tende azzurrine calate, un poeta un po’ brillo avrebbe potuto benissimo immaginare di osservare una notte stellata attraverso il mare. E (ciò che è più importante) anche Misysra (il gran pensatore) non avrebbe mai osato chiamare la luna un animale vivente, senza cadere nel peccato dell’idolatria.

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Ma Giovanna, guardando un cielo e un mare reali, da finestre reali, non si occupava della tappezzeria astronomica. Per la millesima volta, si faceva una domanda alla quale fino ad allora non era stata capace di rispondere. Era la scelta tra un’ambizione e una memoria. E la questione, che faceva oscillare il piatto della bilancia, era che l’ambizione si sarebbe probabilmente materializzata e la memoria no. Eterno problema, dacchè Satana divenne il re del mondo. Ma le brillanti stelle luccicavano sul mare tranquillo, e pesavano come diamanti.

E come già un’altra volta, a questo punto della sua meditazione, Giovanna udì il fruscìo della veste di Lady Enid che si avvicinava.

— Giovanna! venite: solamente voi potete convincerlo.

Giovanna guardò Lady Enid, che stava per scoppiare in lacrime. Diventò pallida e domandò di che si trattasse.

— Filippo vuole andare a Londra, subito, nonostante la ferita – esclamò Enid. – E non vuol darci ascolto.

— Ma che cosa è successo? – domandò Giovanna.Lady Enid Wimpole era assolutamente incapace di

spiegare gli avvenimenti, e l’autore se ne assumerà l’incarico. Lord Ivywood, nello sfogliare alcune riviste, si trovò tra le mani un giornale, cui diede un’occhiata.

— Le notizie della Turchia – disse il signor Leveson nervosamente – sono nell’altra pagina.

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Ma Lord Ivywood continuò a leggere la pagina dove non c’erano le notizie della Turchia, con lo stesso aspetto dignitoso di quando aveva esaminato il messaggio del Capitano.

Il paragrafo che lo interessava aveva questo titolo:«Echi del mistero di Pebbleswick. Nuova apparizione

dell’Osteria Volante».E sotto, in lettere più piccole:«Ci annunciano da Wyddington che la misteriosa

insegna da «La Vecchia Nave» è stata ancora una volta vista in questa regione: benchè investigatori scientifici l’abbiano voluta relegare nel limbo delle vecchie superstizioni contadinesche. Secondo la versione locale, il signor Simmons, un lattaio di Wyddington, si trovava nel suo negozio, quando due automobilisti vi entrarono, ed uno di loro domandò un bicchiere di latte. Essi erano coperti da ampi spolverini e portavano la cuffia e gli occhiali, di modo che ben poco si sa della loro identità. Uno di essi era di statura altissima. Quest’ultimo uscì un momento e ritornò ben presto con uno di quei miserabili straccioni che infestano le vie delle nostre ricche città. Il signor Simmons, disgustato dall’apparenza del mendicante, si rifiutò dapprima di servirgli il bicchiere di latte che il primo automobilista voleva offrirgli. Poi acconsentì; ma sopravvenne ben tosto un incidente contro il quale egli si sentì in diritto di protestare.

«L’uomo altissimo disse al mendicante: – Ma come siete pallido, amico mio! – e fece un segno all’automobilista più piccolo, il quale prese un bariletto

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che era tutto il loro bagaglio, e fece cadere alcune gocce di un liquido giallastro nel bicchiere dello straccione. Questo liquido non era altro che rhum. Immaginatevi le proteste del signor Simmons.

«L’automobilista più alto si difese calorosamente come se avesse fatto un’azione lodevolissima.

«— Ma come! – disse. – Ho trovato quest’uomo quasi svenuto di freddo e di fame e gli ho dato un po’ di rhum per rianimarlo. Anche il peggiore pirata se trovasse un naufrago sperduto su una zattera nell’immensità del mare, gli darebbe qualche cosa per rianimarlo, salvo poi ad impiccarlo più tardi. – Il signor Simmons replicò con molta dignità che egli non si occupava nè di zattere nè di naufraghi, e che non poteva permettere un simile linguaggio nel suo negozio; e aggiunse che, permettendo l’uso di bevande alcooliche nella sua latteria, egli diventava passibile di multa, dato che non v’era alcuna insegna che ne permettesse la consumazione. Fu allora che l’automobilista diede questa stupefacente risposta: – Ma voi sfoggiate una insegna, mio caro! Credevate forse che non fossi capace di scoprire «La Vecchia Nave»?

«Il signor Simmons, ormai pienamente convinto dell’ubriachezza dei suoi visitatori, rifiutò un bicchiere di rhum che gli veniva offerto, e uscì per chiamare una guardia. Ma quale non fu la sua sorpresa nello scorgere questa guardia occupata a disperdere una folla considerevole che stava guardando qualche cosa dietro a lui! Egli vide, come dice egli stesso nella sua

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deposizione: – ciò che doveva essere una insegna di quelle taverne una volta così frequenti in Inghilterra. – Non gli fu possibile spiegare la presenza nei suoi fondi di quella cosa che tuttavia legalizzava gli atti dell’automobilista; e la polizia rifiutò di interessarsi dell’affare».

«Ultime notizie. – I due automobilisti sembra abbiano lasciato la città in una piccola macchina a due posti. Non si sa dove siano diretti, ma l’unico incidente che possa servire a scoprire le loro tracce è il seguente: mentre stavano sorbendo un secondo bicchiere di latte pare che uno di essi abbia rivolto la sua attenzione verso una secchia di latte, di forma a lui ignota: si trattava del famoso «latte di montagna», tanto raccomandato dai dottori. L’automobilista più alto, che mostrava di ignorare molte cose della scienza moderna e sulla società, domandò al suo compagno di dove provenisse; e questi gli rispose che era stata fabbricata nel villaggio modello di Peaceways, sotto la sorveglianza personale del suo filantropico inventore, dottor Meadows. A queste parole, il primo individuo comperò l’intero recipiente dicendo che gli sarebbe stato utile per ricordarsi l’indirizzo».

«Recentissime. – I nostri lettori saranno lieti di udire che la leggenda de «La Vecchia Nave» cade ancora una volta davanti allo scetticismo della scienza. Il nostro incaricato si recò a Wyddington, subito dopo la partenza dei due mariuoli: ma osservò invano la facciata del

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negozio del signor Simmons: non v’era alcuna traccia dell’insegna».

Lord Ivywood depose il giornale e fissò le decorazioni del muro con l’espressione che deve avere un grande generale quando scopre il mezzo per distruggere i suoi nemici, anche se fosse a detrimento dei suoi precedenti piani di battaglia. Il suo profilo pallido e classico era immobile, come quello di un cammeo; ma chi lo conosceva si sarebbe accorto che i suoi pensieri correvano come un’automobile lanciata a gran velocità. Di lì a poco volse il capo e disse: – Ordinate a Hicks di preparare la macchina grande tra mezz’ora, e dite al giardiniere di tagliare un bastone e di farne una specie di gruccia. Parto per Londra, questa sera.

Il signor Leveson spalancò la bocca per lo stupore.— Il dottore ha parlato di almeno tre settimane –

disse: – Posso domandarvi dove andate?— Al parlamento, a Westminster.— Ma forse posso portarvi io un biglietto.— Certamente – assentì Ivywood – ma temo che non

vi permetterebbero di fare un discorso.Alcuni minuti più tardi, Enid Wimpole entrò nella

stanza e si sforzò invano di fargli mutar decisione. Quando, a sua volta, Giovanna apparve, essa vide Filippo appoggiato a una gruccia piuttosto rudimentale e lo ammirò come non l’aveva mai ammirato prima. E, osservandolo, mentre, discese le scale, si accomodava nel miglior modo possibile nell’automobile, sentì che

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c’era in lui qualche cosa degna della loro antica razza, e che in lui soffiava quel vento divino che si chiamava «Volontà». E nel breve ululato dell’automobile che si metteva in marcia, le parve di udire il suono delle trombe che chiamavano i loro antenati alle glorie della terza crociata.

Tali onori immaginari non erano del tutto immeritati. Lord Ivywood si era reso conto di tutta la situazione, in un batter d’occhio, e per affrontarla aveva formato un piano degno di Napoleone. E nella sua mente, intanto, riassumeva i punti essenziali dell’impresa.

In primo luogo, era quasi sicuro che Dalroy si sarebbe recato al villaggio modello, non foss’altro per deliziarsi nel provocare qualche baruffa in un posto come quello.

In un secondo luogo, sapeva che se non fosse riuscito a raggiungere Dalroy, a quell’indirizzo, non l’avrebbe mai più trovato; egli e il signor Pump si sarebbero ben guardati di lasciare altri indizi dietro di sè.

In terzo luogo, dopo un attento esame della carta geografica, aveva concluso che con la macchina che avevano a loro disposizione, i due fuggitivi avrebbero impiegato per lo meno due giorni ad arrivare a destinazione: e che prima di tre giorni non avrebbero potuto concluder nulla.

In quarto luogo, comprendeva che da quando Dalroy aveva brandito l’insegna e gettato il poliziotto nel fosso, Dalroy aveva ritorto la legge di Lord Ivywood contro Ivywood. Lord Ivywood aveva pensato che, col restringere l’uso delle vecchie insegne a pochi posti

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scelti e col proibire tali simboli artistici agli altri luoghi, egli sarebbe riuscito a togliere virtualmente al popolo il liquore fermentato. La combinazione era quella alla quale mirano tutte le legislazioni. Un’insegna poteva diventare un favore concesso dalla classe governante a se stessa. Se un gentiluomo reclamava i privilegi di un pezzente, la via gli sarebbe stata aperta, ma se un pezzente reclamava i privilegi di un gentiluomo, la via gli sarebbe stata chiusa. E così, a poco a poco, le vecchie insegne che, sole, dànno il diritto di vendere bevande alcooliche, sarebbero diventate oggetti di curiosità.

Il calcolo era esatto; ma egli non aveva pensato alla possibilità che un legno potesse muoversi, di qua e di là. Fino a quando i suoi nemici potevano inalberare la loro insegna, poco importava se il risultato era godimento o delusione per il volgo. In ambedue i casi significava scandalo, o risse. Ma ancor peggiore dell’apparizione de «La Vecchia Nave» sarebbe stata la sua scomparsa.

Lord Ivywood comprendeva che la sua stessa legge li lasciava liberi, perchè le autorità locali esitavano ad agire davanti a un simbolo così esclusivo e quindi così solenne. Bisognava dunque alterare la legge, ma subito, prima che i fuggitivi potessero andarsene dal villaggio modello di Peaceways.

Era giovedì, il giorno in cui ogni membro del Parlamento poteva presentare dei progetti di legge detti «non contenziosi» e averli subito approvati senza votazione, a meno che qualche altro membro non si

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opponesse. Ma era impossibile che vi fossero delle proteste per una modificazione, da parte di Lord Ivywood, di una legge di cui lo stesso Ivywood era stato il presentatore.

E finalmente ecco quale era il cambiamento che Lord Ivywood si proponeva di fare. Le parole della legge (Lord Ivywood le sapeva a memoria) dicevano: «Sotto la protezione di una simile insegna si possono vendere bevande alcooliche». Bastava invece dire: «I liquidi contenenti alcool possono essere venduti solo tre giorni dopo la messa a posto dell’insegna». Il Parlamento non si sarebbe certo rifiutato di approvare un cambiamento di così scarsa importanza. E la rivoluzione de «La Vecchia Nave» e dell’ex-Re di Itaca sarebbe stata annientata per sempre.

E prima che il grande orologio della torre di Westminster fosse in vista, questo piano napoleonico si era già tutto concretato e stabilito nell’animo di Lord Ivywood.

Ma, disgraziatamente, proprio nella stessa ora, un altro gentiluomo appartenente indirettamente alla stessa famiglia del primo, dopo aver lasciato il ristorante in Regent Street, aveva diretto i suoi passi verso Whitehall ed aveva visto l’orologio illuminato dall’alta torre di Santo Stefano.

Il «Poeta degli Uccelli» aveva, come molti altri esteti, solo delle vaghe nozioni, tanto sulla città, che sulla campagna. Ma egli ricordava dove si può mangiar bene, si ricordava di esser socio di molti circoli aristocratici di

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Londra; così che quando vide in riva al fiume quello che viene erroneamente citato come il miglior circolo di Londra, si rammentò improvvisamente che aveva il diritto di entrare anche in quel palazzo, benchè non sapesse bene di quale collegio elettorale facesse parte. Sapeva però che in regime di oligarchia le cose procedono secondo le persone e non secondo i diritti. Da anni non aveva messo piede in quel palazzo, essendosi permanentemente appaiato con un famoso patriota che aveva accettato un impiego importantissimo dal Governo, in un manicomio privato34. Anche nei suoi bei tempi non aveva mai preteso di occuparsi seriamente di politica. Una volta sola aveva fatto un bel discorso in Parlamento, a proposito dei gorilla; ma si era accorto che parlava contro il proprio partito. Era un luogo, quello lì, dove si recavano solamente coloro che, come Lord Ivywood, dovevano fare qualche cosa che non poteva esser fatta in nessun altro posto.

Ivywood era un pari «per cortesia»; il suo posto era nella Camera dei Comuni e nel partito di opposizione. Pratico del luogo benchè vi si recasse raramente, invece di entrare subito nella sala delle deliberazioni, si fece accompagnare nel salotto per fumatori, benchè egli non fumasse, e indirizzò un biglietto breve, ma compilato

34 Quando un deputato inglese si assenta dall’aula del Parlamento, si accorda con un deputato del partito contrario, perchè, in caso di votazione, non risulti il voto dell’uno, nè quello dell’altro: questo, nel gergo parlamentare, si dice «appaiarsi».

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con diligenza, a un membro del Governo, che sapeva essere nel palazzo. Poi attese.

Intanto al di fuori anche Dorian Wimpole attendeva appoggiato al parapetto del ponte di Westminster, in muta contemplazione del fiume. Mai come allora si era sentito così vicino alle ostriche, e anche con quella bevanda vegetariana che porta il nobile nome di Nuits. Si sentiva l’animo sereno e tranquillo, in pace con tutti e con tutto, anche colla politica. Era sera, proprio quell’ora quando lungo le rive del fiume si accendono le lampade rosse ed oro che sembrano luci di spiriti; mentre ancora la luce del giorno indugia e s’attarda in tinte pallide e delicate.

Sentiva salire dal fiume qualche cosa di quella tristezza sorridente e gloriosa che due inglesi hanno espresso sotto la forma di una bianca neve, evanescente come un fantasma: Turner in pittura, e Enrico Newbolt in poesia. Dorian era ritornato sulla terra come un uomo caduto dalla luna; in fondo egli non era solo un poeta ma anche un patriota, e i patrioti sono sempre un po’ malinconici. Ma alla sua malinconia si univa quella fede e sicurezza incrollabile che tutti gli inglesi, anche in questi tempi di modernismo, provano alla vista di Westminster, o dell’alta cupola di San Paolo, dominante su un’altura.

While flows the sacred river,While stands tre sacred hill,35

35 Mentre scorre il fiume sacro, – mentre troneggia la sacra

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egli mormorò, ricordandosi la ballata del Lago Regillo, studiata a scuola:

While flows the sacred river,While stands the sacred hill,The proud old pantaloons and nincompoopsWho yawn at the very length of their own liesIn that accursed sanhedrim wherePeople put each other’s hats on in a poisonous roomWith no more windows than hell,Shall have such honour still36.

Sollevato da questa interpretazione di Macaulay, in uno stile detto «verso libero» o poesia liberata dai ceppi di un metro convenzionale, Dorian Wimpole si diresse verso il palazzo e vi entrò.

Non avendo l’esperienza di Lord Ivywood entrò nella Camera dei Comuni coll’impressione che l’assemblea non si fosse ancora riunita, e sedette su una panca. Ma a poco a poco distinse le forme di sei o sette persone mezzo addormentate, e udì una voce monotona che leggeva senza prendersi cura della punteggiatura e del significato: «...che questa proposta debba essere considerata solo nel modo giusto; non posso credere che collina.

36 Mentre scorre il fiume sacro, – mentre troneggia la sacra collina, – i valorosi vecchi pantaloni e gli stupidi, – che sbadigliano in tutta la lunghezza della loro vanità, – in quel maledetto sinedrio dove – la gente mette reciprocamente il proprio cappello in una stanza avvelenata, – che non ha più finestre dell’inferno, – avranno ancora tale onore.

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l’onorevole membro aumentasse la sua riputazione, mettendola in ciò che quelli che la pensano come me, devono considerare come in modo sbagliato, ed io oso dichiarare che se nel suo desiderio di stabilire questa grande questione egli prende una misura così affrettata e rivoluzionaria, a proposito dei lapis da lavagna, egli non può impedire agli estremisti di applicarla ad altre matite; e mentre io, se lo potessi, sarei l’ultimo ad eccitare il calore e le personalità di questo dibattito, devo confessare che, secondo me, l’onorevole signore ha egli stesso incoraggiato questo calore in un modo che, senza dubbio, egli ora rimpiange. Io non voglio adoperare termini ingiuriosi, e voi, signor presidente, non mi permettereste di certo di usare termini ingiuriosi, ma io devo dire a faccia a faccia all’onorevole deputato che gli strumenti per i quali mi ha biasimato, non sono consoni a questa discussione. Io sarei l’ultima persona...».

Dorian Wimpole si era alzato per andarsene quando vide una persona porgere un biglietto a un giovanotto dagli occhi semichiusi che, dal banco ministeriale, governava i destini dell’Inghilterra... Vedendolo uscire, Dorian concepì l’ardita speranza che potesse accadere qualche cosa di più comprensibile, e lo seguì vivacemente.

Il sonnacchioso governante della Gran Bretagna scese negli appartamenti inferiori di questo tempio della libertà, ed entrò in una stanza dove Dorian, con suo sommo stupore, vide suo cugino Ivywood seduto ad una piccola tavola, con una gruccia al fianco, calmo e sereno

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come sempre. Il giovane gli si sedette vicino, e tutti e due si immersero in una animata conversazione, di cui Dorian non udì sillaba. Si ritirò allora in una sala vicina e bevve una tazza di caffè e alcuni bicchierini di un eccellente liquore.

Ma si era posto in modo da poter sorvegliare ogni mossa di Ivywood, e attese pazientemente.

La sola cosa che gli sembrasse strana era che di quando in quando un campanello suonava in parecchie stanze, contemporaneamente. E tutte le volte che il campanello squillava, Lord Ivywood scuoteva il capo come se facesse parte del macchinario elettrico. E tutte le volte che Lord Ivywood scuoteva il capo, il giovanotto si alzava, saliva le scale, e ritornava poco dopo a riprendere la conversazione. Ma il poeta si accorse anche che altre persone, in altre stanze, salivano rapidamente le scale allo squillo del campanello, e che poi ritornavano con passo più calmo, come soddisfatti di un dovere compiuto.

Egli non sapeva che questo dovere era il governo rappresentativo e che in tal modo, le suppliche e i lamenti del Cumberland o della Cornovaglia, giungevano alle orecchie del re d’Inghilterra.

Improvvisamente il giovane si alzò, senza che vi fosse stato alcuno squillo di campanello, e se ne andò. Il poeta lo udì mormorare, mentre si allontanava da Lord Ivywood: «I liquidi contenenti alcool possono essere venduti solo tre giorni dopo l’impianto dell’insegna. Va bene, ma dovete aspettare una mezz’ora circa».

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Nel vedere Ivywood avanzarsi, appoggiato penosamente alla gruccia, Dorian provò per lui gli stessi sentimenti di Giovanna. Alzandosi di scatto dalla sua poltrona, si avvicinò a Ivywood e gli disse:

— Voglio domandarvi scusa della mia sgarbatezza, Filippo. Ma che cosa volete! I boschi di pino e le celle di una prigione non sono certo fatti per migliorare il carattere di un uomo: ma dovevo capire lo stesso che voi non avevate nessuna colpa. Non sapevo che sareste venuto in città questa sera in simili condizioni. Ma non dovete abusare troppo delle vostre forze. Sedetevi un momento.

Gli parve che il volto freddo ed impassibile di Filippo si addolcisse un poco: ma con certi individui come Lord Ivywood non si può esser mai sicuri di nulla. Tuttavia Lord Ivywood depose la gruccia e si sedette accanto al cugino. Dorian allora picchiò un pugno sulla tavola e chiamò ad alta voce: – Cameriere! – come se si trovasse in un ristorante affollato. Poi, prima che Lord Ivywood potesse protestare, disse: – Sono proprio contento di avervi incontrato. Sarete venuto per fare un discorso, immagino. Mi piacerebbe tanto sentirlo. Non siamo sempre stati della stessa opinione, è vero, ma se c’è ancora qualche cosa di buono in letteratura, sono i vostri discorsi riportati sui giornali. Ah! quella vostra finale: «La morte è l’ultima chiusura delle porte di ferro della sconfitta»; bisogna riportarsi all’ultimo discorso di Strafford, se vogliamo trovare un periodo così inglese.

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Voglio proprio udire il vostro discorso. Ho un posto di sopra!

— Come volete! – si affrettò a rispondere Lord Ivywood. – Ma non farò certo un gran discorso. – E fissò il muro dietro il capo di Wimpole, corrugando la fronte.

Era necessario per il suo progetto che la Camera non facesse alcun commento su quella piccola modificazione della legge.

Un cameriere si avvicinò, vivamente impressionato della presenza e delle condizioni di Lord Ivywood. Ma siccome l’illustre infermo rifiutò qualsiasi genere di liquore, suo cugino fu così gentile da servirsene una razione doppia, e di riprendere la conversazione con queste parole:

— Scommetto che parlerete ancora su questa faccenda dei bar. Forse anch’io dirò qualche cosina. Ci ho pensato molto la scorsa notte. E sapete che cosa direi alla Camera? Direi: Potete voi abolire le osterie? E avete voi l’autorità sufficiente per abolirle? E, sia che abbiate ragione o torto, potrete voi in seguito proibire al contadino di bere un bicchiere di birra? Forse che in questo momento voi potete proibire a me di bere un bicchierino di chartreuse?

Il cameriere, udendo queste parole, si avvicinò per ricevere gli ordini, ma si arrestò per ascoltare ancora.

— Ricordatevi del curato! – continuò Dorian, rivolgendosi distrattamente al cameriere, – di quel piccolo curato che, dovendo fare un sermone sulla

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temperanza, predicò sul testo: «Fate che non siano sommersi dall’inondazione». E veramente, o Filippo, voi navigate in cattive acque! Voi volete abolire la birra! Voi volete far dimenticare al Kent i suoi luppoli e al Devonshire il suo sidro! I destini dell’osteria devono essere decisi in quella piccola stanza qua sopra.

— Ma state attento che il vostro destino non venga deciso in una osteria. State attento che gli inglesi non si riuniscano a giudizio contro di voi, che la sola taverna che sia realmente dimenticata, e chiusa, e considerata come la dimora della pestilenza, non sia quella dove io bevo questa sera, e ciò perchè è la taverna peggiore di tutto il regno, peggiore di quelle dove i marinai si ubriacano, e le ragazze finiscono male. Ecco quello che dirò – esclamò Dorian alzandosi. – Ecco quello che dirò. E badate bene – gridò con improvvisa passione – che distrutta non sia quella de «La Vecchia Nave», ma bensì quella della «Mazza».

Lord Ivywood lo osservava quietamente: la sua mente fertile aveva concepito un’altra idea. Sapeva che suo cugino, benchè eccitato, era capace di fare un bellissimo discorso e che qualsiasi discorso, bello o brutto, avrebbe mandato a rotoli il suo piano, e avrebbe permesso all’osteria di volar via di nuovo. Dorian si era seduto, passandosi la mano sulla fronte con un gesto stanco. E Lord Ivywood si ricordò che un uomo che ha passato tutta una notte in un bosco, e che la sera dopo beve un po’ abbondantemente, può soccombere facilmente anche a qualche cosa ben più salubre che l’ubriachezza.

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— Mi immagino che parlerete fra poco – riprese Dorian. – Avvertitemi, vi prego, perchè voglio avere il piacere di sentirvi. Ma ora mi sento un po’ stanco. Mi avvertirete?

— Sì, – disse Lord Ivywood.Ci fu un istante di silenzio, poi Lord Ivywood

esclamò:— Le discussioni sono necessarie, ma a volte

intralciano il governo parlamentare, invece di aiutarlo.Non ricevette alcuna risposta. Dorian aveva chiuso gli

occhi, e si era profondamente addormentato. Nello stesso momento il sonnacchioso membro del governo apparve sulla porta, e fece un segno.

Filippo Ivywood si alzò, appoggiandosi alla gruccia, e lanciò un’occhiata a Dorian. Poi se ne andò, lasciando dietro di sè, non solo il dormiente, ma anche una sigaretta non accesa, il suo onore, e tutta l’Inghilterra dei suoi padri, tutto ciò infine che differenzia il grande palazzo accanto al fiume da una qualsiasi taverna, dove i marinai si ubriacano. Salì le scale e in mezz’ora definì ogni cosa, con l’unico discorso da lui pronunciato senza alcuna traccia di eloquenza. E da quell’ora egli non fu che un fanatico, cogli occhi fissi nel futuro.

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CAPITOLO XVIIILA REPUBBLICA DI PEACEWAYS

In un piccolo borgo vicino a Windermare, o per meglio dire nel paese caro a Wordsworth, vi è una casetta, e in questa casetta vive un contadino, un vecchio allegro e rumoroso, con una faccia tutta rughe, e una piccola barba bianca, che offre subito al visitatore l’opportunità di vedere suo padre, un uomo ancor più vecchio di lui, con una barba bianca un po’ più lunga. E tutti e due insieme, poi, iniziano il neofita alle gioie della compagnia di un uomo più che centenario, ma ancora molto in gamba.

Il miracolo pare sia dovuto esclusivamente al latte, e il più vecchio dei tre ne parla a lungo e con compiacenza. Tutti gli altri suoi piaceri sono puramente aritmetici. C’è certa gente che conta gli anni con dispetto; egli contava i suoi con giovanile vanità. Alcuni fanno collezione di francobolli o di monete; egli fa collezione di giorni. I giornalisti lo intervistano sui tempi storici, attraverso i quali egli è passato, senza ricavarne nulla, eccetto che egli ha cominciato a nutrirsi esclusivamente di latte a un’età quando gli altri abbandonano questo alimento. Se gli domandate se viveva nel 1815, vi risponderà che proprio in quell’anno

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scoperse che il latte migliore era il latte di montagna del dottor Meadows. E non capirebbe nulla in fatto di date, se gli diceste che in quello stesso anno, al di là della Manica, in un campo vicino a Bruxelles, ragazzi della sua classe conquistarono l’amore divino, e morirono giovani. Fu il filantropico dottor Meadows a scoprire quella tribù immortale, e su di essa eresse gran parte del suo sistema dietetico, per non dir nulla delle case e delle latterie di Peaceways. Egli vi attirò molti discepoli: giovani che volevano diventar vecchi, e vecchi che desideravano diventar vecchissimi. Non diremo che essi aspettassero il primo capello bianco, con la stessa ansia con cui un giovanetto attende la prima peluria sul suo labbro ancor infantile; ma è certo che sembravano aver dimenticato le belle donne, gli allegri simposi, e soprattutto l’idea, ormai antiquata, della bella morte gloriosa. Insomma erano felici in questa seconda fanciullezza.

Peaceways si compone di una serie di casette disposte a semicerchio intorno a un nucleo centrale di case che compongono la città propriamente detta, lontano da ogni comunicazione, cosicchè i suoi abitanti possono godere indisturbati il cielo azzurro e i boschi verdeggianti, ed occuparsi dei lavori campestri. Ma un giorno una piccola automobile, molto sporca, si fermò nel bel mezzo della città, accanto a un verde praticello; ne scesero due uomini, uno altissimo, l’altro piuttosto basso di statura, che si posero a sedere sul prato.

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Prima di entrare in città si erano arrestati accanto a un fiumicello, si erano tolti le cuffie, avevano mangiato un pezzo di pane, comprato a Wyddington, e bevuto l’acqua del ruscello che scorreva nella vallata di Peaceways.

— Ho idea che l’acqua m’incominci a piacere – disse il più alto dei due. – E pensare che la consideravo una bevanda pericolosa. In teoria bisogna darla solamente alle persone svenute: e in questi casi fa molto bene, meglio dell’acquavite. E poi sarebbe un vero peccato sprecare dell’acquavite per delle persone svenute. Ma adesso non son più assolutista come una volta, e permetterei alla gente di bere l’acqua anche senza l’ordine del medico. Era la moralità troppo severa della gioventù, la mia innocenza, la mia bontà. Credevo che se avessi bevuto dell’acqua una volta sola, ne avrei presa l’abitudine. Ma adesso vedo anch’io le buone qualità dell’acqua. Come fa piacere, quando si ha sete, come gorgoglia! sembra viva! Dopo l’altra, è proprio la bevanda migliore. Come dice quella canzone:

Feast on wine or fast on water,And your honour shall stand sure,God Almighty’s son and daughterHe the valiant, she the pure;If an angel out of heavenBrings you other things to drink,Thank him for his kind intentions,Go and pour them down the sink.

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Tea is like the East he grows in,A great yellow MandarinWith urbanity of mannerAnd unconsciousness of sin;All the women, like a harem,At his pig-tail troop along;And, like all the East he grows in,He is poison when he’s strong.

Tea, although an Oriental,Is a gentleman at least;Cocoa is a cad and coward,Cocoa is a vulgar beast,Cocoa is a dull, disloyal,Lying, crawling cad and clown,And may very well be gratefulTo the fool that takes him down.

As for all the windy waters,They were rained like tempests downWhen good drink had been dishonouredBy the tipplers of the town;When red wine had brought red ruinAnd the death-dance of our times,Heaven sent us Soda WaterAs a torment for our crimes.37

37 Banchettate col vino o digiunate coll’acqua, – il vostro onore rimarrà sicuro, – figlio e figlia di Dio Onnipossente, – lui coraggioso e lei pura; – se un angelo dal cielo – vi porta altre cose da bere – ringraziatelo per le sue buone intenzioni, – ma andate e versatele nella fogna.

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— Ma davvero quest’acqua è squisita! Chissa di quale vendemmia? – e sbattè le labbra. – Direi quasi del 1881!

— Ci si può sempre ingannare con il gusto! – rispose il suo compagno. – Mi ricordo di un certo tale, a cui piaceva scherzare, che servì dell’acqua in bicchierini da liquori, e tutti la considerarono un liquore eccellente e domandarono dove lo si poteva comprare... eccetto un ammiraglio che disse che sapeva troppo d’oliva. Ma l’acqua ci servirà certamente.

Patrick assentì e disse:— Ah, se non fosse per questo! – e diede un calcio al

barilotto. – Ma spero di fare presto una bella bevuta. Mi pare di leggere una storia delle fate, e che questo semplice rhum si sia trasformato in oro, in un enorme tesoro. E poi ci fa proprio divertire. Che facezia ho detto

Il tè è come l’Est dove esso cresce – un gran mandarino giallo, – molto gentile di modi – e senza peccato: – tutte le donne, come in un harem, – ai attruppano al suo codino di porco; – e come l’Est dove esso cresce, – è veleno quando è forte.

Il tè è orientale – è almeno un gentiluomo; – la cioccolata è bassa e vile, – la cioccolata è una cosa volgare, – la cioccolata è cattiva e sleale, – mentitrice, ingannatrice e falsa. – E si può ben essere riconoscenti – al pazzo che la getta via.

E tutte le bevande acquose – furono rovesciate giù come un uragano, – quando il buon vino fu dichiarato disonorevole – dai bevitori della città! – Quando il rosso vino ebbe portato disastri, – e la danza della morte dei nostri tempi, – il cielo ci mandò acqua e soda, – coma un castigo per i nostri delitti.

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questa mattina? Ah sì! mi ricordo. Dov’è la mia secchia del latte?

Per una mezz’oretta si occupò così attentamente della sua secchia del latte che Pump si sentì invadere dall’ansietà. Quando finalmente si decise a rialzare il capo, Dalroy corrugò la fronte ed esclamò:

— Che cos’è quell’affare là?— Che cosa? – domandò il suo compagno.— Quello! – disse il Capitano, ed indicò una figura

che si avvicinava lungo la strada parallela al fiume.La figura in questione aveva una lunga barba, e i

capelli ondeggiavano sulle spalle. L’espressione del volto era seria e concentrata. Il suo abito, secondo il signor Pump, assomigliava ad una camicia da notte, ma in realtà era una tunica di peli di capra; non portava scarpe ai piedi e camminava rapidamente. Arrivata a una certa volta del ruscello, si volse bruscamente e ritornò verso la tranquilla cittadina di Peaceways, avendo così compiuta la sua passeggiata igienica.

— Sarà un abitante di quella città del latte – osservò Humphrey Pump tranquillamente. – Mi pare che siano tutti matti.

— Non me ne importa nulla – disse Dalroy – anch’io son pazzo qualche volta. Ma i matti hanno un solo merito: sono sempre logici. Ora qual è il rapporto logico tra il vivere solo di latte e il portare i capelli lunghi? La maggior parte dell’umanità vive di latte quando non ha affatto capelli. Ed ora, come collegano questi individui le due cose? In questo modo: latte... acqua... acqua per

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farsi la barba... radersi... capelli? Oppure: latte... bontà... cattiveria... forzati... capelli? Qual è il rapporto logico tra l’avere troppi capelli e il non avere scarpe? Quale può essere? Capelli... baule di capelli... baule di pelle... scarpe di pelle? Oppure: capelli... barba... ostriche... mare... remare... piedi nudi? L’uomo ha facilità di sbagliare, specialmente quando chiama movimento ogni errore che fa... ma perchè tutte le pazzie dovrebbero vivere insieme?

— Perchè tutti i pazzi dovrebbero vivere insieme – disse Humphrey – e se voi aveste visto ciò che successe a Crampton, con l’idea delle fattorie modello, voi lo capireste. Va benissimo tutto, Capitano: ma se lo potessero, impedirebbero ben volentieri a un ospite di grande importanza di seppellirsi fino al collo nel sudiciume. – Pump tossì, e stava per riprendere la conversazione, quando vide il suo compagno afferrare il barilotto e saltare in automobile dicendo: – Presto, Hump, conducetemi dove vivono quegli affari là.

Ma non arrivarono in città senza aver fatto prima un’altra fermata. Lasciarono il fiume e seguirono l’uomo con la lunga barba e con la tunica di peli di capra: questi si fermò a una casetta nei sobborghi del villaggio, e i nostri avventurieri si fermarono anch’essi per curiosità. L’uomo riapparve dopo alcuni istanti, ma un più attento esame li fece accorti che non si trattava del primo individuo, ma di un altro nello stesso abbigliamento. E molti altri individui, tutti ugualmente vestiti, entravano ed uscivano dalla stessa casa.

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— Deve essere il loro tempio – borbottò Patrick – dove sacrificano un bicchiere di latte a una mucca, o qualche cosa di simile. Benissimo, ma aspettiamo un momento che la congregazione si disperda!

Quando l’ultimo fantasma dai lunghi capelli scomparve, Dalroy saltò giù dall’automobile, piantò l’insegna nel terreno e picchiò alla porta.

Il supposto proprietario del luogo, che stava salutando gli ultimi due capelluti idealisti, era un uomo che non sembrava per nulla adatto alla parte che era chiamato a recitare.

Nè Pump nè Dalroy avevano mai visto un uomo più arcigno. La sua faccia rubiconda non indicava giovialità, ma semplicemente una indigestione stagnante di testa. I baffi erano folti e neri, le sopracciglia ancor più folte e nere.

Dalroy si ricordava di aver visto qualche cosa di simile nei volti delle persone obbligate contro voglia alla sottomissione: ma non riusciva a metterlo in rapporto con le perfezioni di Peaceways. E lo strano era che quell’uomo era fiorente e prosperoso; i suoi abiti fini e ben tagliati, la sua casa ampia e spaziosa.

Ma ciò che li imbronciava ancor di più era che l’individuo non manifestava alcuna curiosità nel vedere degli stranieri introdursi in casa sua, ma piuttosto attendeva inquieto e imbarazzato. Mentre Dalroy, scusandosi di averlo disturbato, gli domandava cortesemente alcune informazioni su Peaceways, l’uomo girava il suo occhio rotondo e sporgente

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dall’armadio alla finestra, e poi sui visitatori; alla fine si alzò e guardò fuori.

— Oh sì, signore! Un bellissimo posto, molto salubre – disse lasciando un’occhiata attraverso alla inferriata. – Molto... oh diamine! Che cosa vuol dir ciò? Molto salubre. Certamente, gli abitanti hanno delle piccole stranezze.

— Bevono solamente latte puro, è vero? – domandò Dalroy.

Il padrone di casa lo guardò in malo modo, e brontolò:

— Sì, così dicono. – Poi si accostò di nuovo alla finestra.

— Ne ho comprato un po’ – disse Patrick accarezzando la secchia del latte che portava sul braccio, come se non potesse separarsi dalla scoperta del dottor Meadows. – Volete un bicchiere di latte, signore?

Il grande occhio rotondo roteò come in preda all’ira o a qualche emozione.

— Ma che cosa volete? – esclamò. – Chi siete?— Agenti e distributori del latte di montagna del

dottor Meadows – disse il Capitano con semplice orgoglio. – Desiderate assaggiarlo?

L’uomo stupito prese un bicchiere dell’innocente liquido e lo assaggiò: l’espressione del suo volto cambiò di colpo.

— Oh! Oh! – disse facendo una smorfia straordinaria. – Che buffa gherminella! Voi volete scherzare, eh? – Poi

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si avvicinò inquieto alla finestra e aggiunse: – Ma se siamo tutti amici, perchè mai gli altri non entrano? Non ho mai visto un affare procedere con tanta calma!

— Chi sono gli altri? – domandò il signor Pump.— Oh! i soliti abitanti di Peaceways che vengono

sempre qui prima di andare al lavoro. Il dottor Meadows non li fa lavorare molto; dice che non fa bene alla salute, ma esige la massima puntualità. E come si affrettano quando odono l’ultimo segnale!

Spalancò bruscamente la porta e disse sotto voce, ma in tono di impazienza:

— Entrate dunque! Non fate gli stupidi!Patrick lanciò un’occhiata sulla strada e vide uno

spettacolo molto strano. Generalmente la folla che si raccoglieva davanti alle case, sulle quali egli attaccava l’onorata insegna de «La Vecchia Nave», guardava meravigliata e divertita la detta insegna. Qui, invece, venti o trenta persone, nelle loro camicie da notte (come avrebbe detto Pump), passeggiavano in su e in giù come sonnambuli, facendo mostra di non accorgersi dell’insegna: guardavano la campagna, l’orizzonte, le nuvolette mattutine, ed ogni tanto scambiavano qualche parola tra di loro.

Ma quando il proprietario della casa si rivolse ad uno di questi esseri, ostentatamente distratti, e domandò che cosa diamine succedeva, il povero diavolo, nutrito a latte, volse i dolci occhi verso l’insegna. Gli occhi rotondi si volsero anch’essi nella stessa direzione, e si spalancarono ancor di più, pieni di profondo stupore.

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— Ma che cosa avete fatto alla mia casa? – esclamò l’uomo. – Non possono certamente entrare fino a quando c’è quell’affare lì.

— Se volete, lo tolgo subito! – disse Dalroy, e tolse via l’insegna come si toglie un fiore da un giardino, con grande stupore degli uomini sulla strada che si credevano trasportati nel mondo delle fate. – Ma vorrei in cambio che mi deste qualche spiegazione su tutto ciò.

— Aspettate che abbia servito questi uomini – disse il padrone.

Gli individui dalle tuniche di peli di capra entrarono, l’uno dietro l’altro, come tante pecore (o meglio come tante capre), nella casa ora priva di insegna, e furono subito forniti di bevande alcooliche che il signor Pump giudicò essere di qualità molto scadente. Quando l’ultima capra fu uscita, il Capitano Dalroy disse:

— Mi pare che questo sia scompigliare ogni cosa. Secondo la legge odierna, si possono smerciare bevande alcooliche solamente là dove ci sia una insegna.

— La legge! – esclamò l’uomo in tono di disprezzo. – Credete forse che questa povera gente abbrutita abbia più paura della legge che del dottore?

— E perchè dovrebbero aver paura del dottore? – domandò Dalroy innocentemente. – Ho sempre sentito dire che Peaceways è anche repubblica democratica...

— Al diavolo anche la democrazia! – risuonò la risposta. – Forse che egli non è proprietario di tutte le case, e può mandarci via quando vuole? Forse che egli non paga tutti gli stipendi, e può farci morire di fame in

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un mese? La legge? – e sbuffò. Appoggiò i gomiti sulla tavola e spiegò più chiaramente.

— Io ero un birraio, ed avevo la più grande birreria dei dintorni. Due sole case non mi appartenevano, e i magistrati ben presto tolsero ogni permesso. Dieci anni fa, in ogni angolo, avreste potuto vedere gli annunzi della birra di Hugby. Poi vennero quei maledetti radicali, e il nostro duce Lord Ivywood si schierò dalla loro parte, e permise a questo dottore di comprare tutte le terre qui intorno, con l’obbligo che non vi fossero taverne. E così rovinò il mio mestiere per poter vendere il suo latte. Fortunatamente non mi prese alla sprovvista, e, come avete visto, faccio ancora qualche affaretto, di nascosto. Ma non è nulla in confronto del lavoro che avevo prima; che cosa volete, hanno paura che il vecchio Meadows scopra tutto! – E il buon uomo sputò sul pavimento.

— Anch’io sono un radicale – disse l’irlandese, piuttosto freddamente – e per tutte le informazioni sul partito conservatore, rivolgetevi al mio amico, signor Pump, che conosce tutti i segreti dei suoi capi. Ma mi sembra un radicalismo piuttosto originale: mangiare e bere agli ordini di un padrone che è un pazzo, semplicemente perchè è anche un milionario. Oh Libertà! che complicati sviluppi sociali si fanno in tuo nome! Ma perchè non prendete a calci quel vecchio idiota? Senza scarpe! È forse per questo che non vi permettono le scarpe? Ficcatelo allora in una secchia di latte; non può aver nulla in contrario.

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— Non so – disse Pump tranquillamente. – La zia del signor Cristiano non era del parere; ma le donne son sempre un po’ strane.

— Sentite – esclamò Dalroy eccitato – se io pianto di nuovo l’insegna e sto qui ad aiutarvi, vi ribellerete? Voi agirete dentro i limiti della legge, e vi prometto che si pentiranno di ogni privata coercizione. Inalberate l’insegna e vendete liberamente i vostri prodotti, e passerete nella storia come un liberatore!

Il signor Hugby si limitò a guardare tristemente la tavola. Il sentimento rivoluzionario non fioriva in lui.

— Ebbene – disse il Capitano – volete venire con me e dire: Udite, udite! Ha ragione! Quale eloquenza! quando io farò il discorso in piazza? Su via. C’è ancora posto nella nostra automobile.

— Verrò, se lo desiderate – rispose il signor Hugby. – È certo che se avete il permesso, potremo ricominciare a lavorare! – Si mise il cappello e seguì il Capitano e l’oste. Il villaggio modello non era certo lo sfondo indicato per il cappello a cilindro del signor Hugby, che faceva risaltare ancor di più ciò che vi era di fantastico e originale nel luogo.

Era una mattinata meravigliosa, alcune ore dopo la levata del sole. All’orizzonte indugiavano ancora le leggere nuvolette dell’alba: rosa, verdastre e gialle. Ma su, nell’alto, il cielo era di un color turchino intenso, e grosse nuvole, soffici e bianche, lo punteggiavano. Le casette del villaggio modello, nel loro assieme, erano anch’esse candide come le nuvole e sembrava quasi che

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alcune di esse se ne fossero andate lassù nel cielo. Ma certune, invece, avevano qua e là macchie di colore vivace, in giallo, in rosso, in verde, quasi pennellate di un fanciullo gigante. Le case non erano coperte da paglia (che veniva considerata anti-igienica), ma bensì da tegole azzurrastre comprate a buon mercato alla fiera pre-raffaellitica, o da mattoni. E non avevano alcuno stile ben definito e appropriato ai luoghi che le circondavano: non erano stati uomini liberi che le avevano costruite per loro stessi, ma erano sorte per il comando di un padrone fantastico. Sembrava una città magica, preparata per una pantomima.

Gli atti del Capitano Dalroy pareva volessero dar ragione a questa impressione. Egli lasciò l’insegna e il barilotto nascosti nell’automobile, ma si tolse l’impermeabile e la cuffia, ed apparve insolente e maestoso nella sua verde uniforme, ormai un po’ logora. I suoi capelli rosseggiavano più del solito. Poi prese la secchia da latte, e la depose con riverenza accanto a sè; sguainò la spada e battè a più riprese l’arma contro il risonante metallo producendo un rumore indiavolato. Il signor Hugby si tirò da parte turandosi le orecchie, mentre, invece, Pump rimase fermo al volante, ben sapendo che sarebbe stato forse necessario partire in tutta fretta.

— Riunitevi, riunitevi, cittadini di Peaceways – urlò Patrick, percuotendo senza posa la secchia. – Udite, udite.

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Due o tre individui, riconoscendo il signor Hugby, si avvicinarono con gran precauzione; e il Capitano si rivolse a loro come se fossero un’intera armata:

— Cittadini! – ruggì, dicendo tutto ciò che gli veniva in testa. – Provate l’unico, vero, inalterato latte di montagna. Il latte per il quale Maometto venne alla montagna. Il latte originale della terra del latte e del miele: reso piacevole al gusto solo dalla sua ottima qualità. Provate il nostro latte! Nessun altro latte è genuino! Chi può fare a meno del latte? Neanche le balene possono farne a meno! Se qualcuno di lor signori ha una balena in casa, provi e vedrà! Guardate il nostro latte! e se non potete vederlo, perchè è in una secchia, ebbene, guardate la secchia! Dovete guardarla! Quando il dovere consiglia: Devi! (e a questo punto il Capitano alzò ancor di più la voce) quando il dovere sussurra: «Devi», il giovane risponde: «Posso» – e l’ultima parola fu accompagnata dal rumore assordante del metallo battuto dalla spada.

Questo discorso introduttorio può essere soggetto a critica se si guarda allo stile più che all’effetto. Ma il cronista (che mira solo alla verità) è obbligato ad attestare che ebbe un immenso successo. I cittadini di Peaceways si sentivano attratti da quell’uomo che da solo faceva più rumore di un esercito intero. Se non ci si ribella, fa però sempre piacere vedere qualcuno che protesta con voce nostra.

Ma il trionfo principale di Dalroy avvenne quando egli offrì ai presenti qualche assaggio della sua innocua

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bevanda. Alcuni rimasero paralizzati dalla sorpresa, altri scoppiarono in omeriche risate, applaudendo; tutti infine si volsero, raggianti, verso l’eccentrico oratore.

Ma ben presto la gioia scomparve dai loro volti. Un’altra persona si era unita al gruppo: un uomo piccolo e vecchio con una corta barba a punta, un uomo che ciascuno dei presenti avrebbe potuto benissimo uccidere con la mano sinistra.

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CAPITOLO XIXL’OSPITALITÀ DEL CAPITANO

Il dottor Mosè Meadows era venuto da una piccola città della Germania, e i suoi primi due libri erano stati scritti in tedesco. Egli aveva cominciato con un entusiasmo genuino per le scienze fisiche, e con un odio profondo contro ciò che egli chiamava superstizione, e che molti di noi definiscono: «anima dello Stato». Nel primo libro egli voleva dimostrare che, nella donna, la mancanza di baffi era dovuta alla sua scarsa intelligenza, non interamente sviluppata.

Nel suo secondo libro venne ancor più alle prese colle delusioni; sosteneva che lo spettro del tempo, da qualche tempo in qua, camminava troppo rapidamente, e che il mito di Cristo era spiegato dalle agitazioni di un’anima alcoolizzata. Poi, disgraziatamente, si imbattè coll’istituzione chiamata «Morte» e si mise a discutere anche su quella. Non trovando alcuna spiegazione razionale su questa abitudine del morire, così diffusa tra gli uomini, concluse dicendo che era puramente effetto di tradizione, e cominciò a pensare in qual modo si poteva evitarla, o per lo meno ritardarla. Ma, così facendo, egli perdette molto di quell’ardore che aveva reso umano l’ateismo della sua gioventù, quando egli si

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sarebbe suicidato volentieri per il piacere di provare che Dio non esiste. E il suo idealismo divenne sempre più materialista, concentrandosi sempre più nelle scoperte dei cibi più sani. Non indugeremo su quello che possiamo chiamare il periodo dell’olio, o sul periodo delle piante marine, così ben descritto dal professor Nym in un breve libro, o su quello del vischio. Fu durante la sua permanenza in Inghilterra che cominciò ad interessarsi della longevità dei bevitori di latte, e la sua teoria, almeno in principio, era sincera. Disgraziatamente la fortuna gli fu sempre favorevole; l’inventore e proprietario del latte da montagna divenne ricco, e da quel momento cominciò a provare un quarto ed ultimo entusiasmo che non allarga di certo il campo delle idealità. Nel dibattito che seguì la sua scoperta delle buffonate di Patrick Dalroy, il dottor Meadows fu molto dignitoso, ma pochissimo tollerante; in tutta la regione circostante nulla avveniva senza il suo beneplacito. Dapprima accusò Dalroy di aver rubata la secchia da latte nei locali adibiti a deposito, e mandò alcuni operai a verificare il numero delle secchie. Ma Dalroy lo tranquillizzò subito su questo punto:

— L’ho comprata in un negozio a Wyddington – disse. – Voi non mi crederete forse, ma quando entrai in quel negozio ero un uomo piccolo piccolo: ho bevuto un bicchiere del vostro latte di montagna, e guardate che cosa son diventato.

— Voi non avete alcun diritto di vendere il latte qui – disse il dottor Meadows, senza che la sua voce portasse

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traccia dell’accento tedesco. – Non siete al mio servizio; io non sono responsabile dei vostri metodi, e voi non siete un mio rappresentante.

— Ma io sono un banditore – proclamò Dalroy – ed ho girato per tutta l’Inghilterra. Vedete quell’ometto lì? – e indicò l’indignato signor Pump. – Ebbene, egli rappresenta «Prima della cura», ed io «Dopo la cura».

— Aspettate a motteggiare davanti al magistrato – disse l’altro, seccato.

— Quand’è così, signore, vi dirò tutta la verità. Non si tratta del vostro latte. Questo qui ha un sapore tutt’affatto diverso. Chiedetelo a questi illustri signori.

Una risatina sardonica tra la folla fece montare le fiamme al viso dell’eminente capitalista.

— Allora, o voi avete rubato la mia secchia e siete un ladro, – esclamò – oppure avete introdotto nella mia scoperta sostanze estranee e siete un falsificatore!

— Vi consiglio di provare la mia adulterazione – disse Dalroy, gentilmente. – Ha un sapore molto diverso. Non posso dirvi di preciso che sapore sia (risate represse tra gli astanti), ma è qualche cosa tra la canna da zucchero e il sigaro. È innocente come il paradiso, e infuocato come l’inferno; è simile a un paradosso, a una inconsistenza preistorica. Spero di essermi spiegato bene. Gli uomini, più ne bevono e più diventano buoni, e quando lo assaggiano, si ricordano sempre del sale... perchè è fatto di zucchero. Provatene!

E, con grande ospitalità, il Capitano tese il suo lungo braccio, armato di un bicchiere, verso il dottore. La

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dispotica curiosità del prussiano superò anche la sua dispotica dignità. Il dottor Meadows bevve un sorso di liquido, poi sbarrò gli occhi.

— Ma voi avete mescolato qualche cosa col latte! – esclamò.

— Certamente – rispose Dalroy – e anche voi avete fatto lo stesso, a meno che non siate un imbroglione. Perchè dichiarate che il vostro latte è diverso da tutti gli altri, se non avete fabbricato voi stesso questa differenza? Perchè un bicchiere del vostro latte costa una lira, e un bicchiere di latte ordinario, cinquanta centesimi? È segno che voi avete messo nel vostro latte cinquanta centesimi di qualche altra sostanza. Sentite, dottor Meadows; il pubblico analista, che dovrebbe giudicare nel nostro caso, è un uomo onesto. Ho io la lista dei ventun uomini onesti che ci sono ancora a tali posti. Vi faccio un’offerta. Egli analizzerà e dichiarerà che cosa io aggiungo al mio latte, se voi permettete che egli analizzi e giudichi che cosa voi aggiungete al vostro. E, certamente, voi dovete aggiungervi qualche cosa: altrimenti a che cosa servirebbero tutte quelle ruote, quelle pompe, quelle pulegge? Mi volete dire che cosa unite al latte per renderlo così... montano?

Ci fu un lungo silenzio, interrotto solo di quando in quando da qualche mormorìo nella folla. Ma improvvisamente il filantropo si scosse, tese i pugni verso il Capitano ed urlò:

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— Ma io lo so che cosa vi aggiungete! Io lo so! È alcool! E non avete insegna, e dovete rispondere ai magistrati su ciò!

Dalroy con un inchino si avvicinò all’automobile e mostrò là prodigiosa insegna de «La Vecchia Nave» con il suo azzurro bastimento a tre ponti e la rossa croce di San Giorgio. Piantò il palo nel terreno e si guardò attorno:

— In questo albergo – disse – me ne rido di cento magistrati. E non c’è nulla di antigienico nella mia osteria: non c’è un soffitto troppo basso: finestre in abbondanza, eccetto che nel pavimento. E siccome ho sentito dire che, bevendo, è meglio anche mangiare, ho qui, caro dottor Meadows, una forma di cacio, che vi farà diventare un altro uomo. Almeno lo spero. In ogni modo possiamo provare.

Ma il dottor Meadows non poteva più permettersi il lusso di arrabbiarsi. La vista dell’insegna gli aveva dato materia a riflettere. Come tutti gli scettici egli era molto versato in questioni legali, e aveva un profondo terrore delle inchieste e dei tribunali. Inoltre, come capita alla massima parte di coloro che vivono nella moderna Inghilterra, egli sentiva il dovere di rispettare la legge, senza però ben sapere in che cosa consistesse questa legge. Si ricordava che Lord Ivywood, proclamando il suo famoso atto, aveva insistito sul carattere significativo dell’insegna, e temeva, non curandosene, di cadere in un monte di guai e anche forse di andare a finire in prigione, nonostante i suoi successi nel campo

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degli affari. Sentiva di avere mille ragioni: che un pezzo di terra non è un’osteria, e che il Capitano aveva distribuito l’alcool prima ancora che l’insegna fosse esposta. Ma lo spettro della legge lo ossessionava, e sapeva bene che non sempre chi ha ragione è il vincitore. Alla fine gli venne un pensiero: Lord Ivywood lo avevo reso ricco: da quale parte si sarebbe messo Lord Ivywood?

— Capitano – disse Humphrey Pump, parlando per la prima volta – è meglio che ce ne andiamo. Lo sento!

— Oh, oste inospitale! – gridò il Capitano indignato. – Che cosa vi salta in mente! Questa è l’alba di pace nella grande città di Peaceways. E scommetto che il dottor Meadows si deciderà a tracannare un altro bicchiere, prima della fine.

E continuò a servire il latte col rhum. E ancora il dottore non osò intervenire. Il signor Hugby intanto si fece avanti, prese un bicchiere del nuovo latte di montagna, e si preparò a parlare. Ma, prima ancora che aprisse la bocca, il suo volto esprimeva un mucchio di cose.

— C’è un’automobile che si avvicina, – disse Humphrey; – fra dieci minuti attraverserà il ponte e sarà qui.

— Non sarà mica la prima volta che vediamo un’automobile! – esclamò il Capitano impazientito.

— Ma è la prima che vediamo in questa valle.— Signor presidente, – cominciò Hugby. – Siamo

tutta gente ubbidiente alla legge, e desideriamo restare

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buoni amici, specialmente col nostro caro dottore. Che egli non manchi mai, nè di un amico nè di una bottiglia; e cioè che egli abbia tutto quello di cui abbisogna. Ma siccome sembra che questo nostro amico con la sua insegna sia nei suoi pieni diritti, mi pare che sia venuto il momento di parlare apertamente. Sono sicuro che quelle luride taverne facevano un gran male al popolo, e non dico che il nostro dottore abbia fatto male ad eliminarle. Ma un negozio bene avviato e ben tenuto, è tutt’altro affare. Voi sapete, o amici, che io ero una volta in commercio, benchè ora, dopo i nuovi regolamenti, abbia rinunciato a vendere bevande alcooliche. (A questo punto gli individui in tunica si guardarono attentamente i piedi nudi). Ma mi assocerei ben volentieri a «La Vecchia Nave», specialmente se allargasse un po’ la bottega! – Ah! Ah! E se il nostro buon amico, il dottore...

— Mascalzone! – gridò Meadows – il vostro buon amico, il dottore, vi porterà davanti a un magistrato.

— Non siate così poco pratico – lo calmò il birraio. – Non sarete leso nei vostri interessi. È un pubblico completamente differente. Parlate come un uomo d’affari!

— Non sono un uomo d’affari – replicò lo scienziato con fiero sguardo. – Sono un servo dell’umanità.

— Allora – domandò Dalroy – perchè non fate mai quello che il vostro padrone vi dice?

— L’auto ha passato il ponte – osservò Humphrey Pump.

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— Voi rovinerete tutto il mio lavoro! – esclamò il dottore. – Ho costruito questa città, l’ho resa sobria e salubre; mi alzo all’alba per sorvegliare, per vigilare e voi volete distruggere tutto ciò, per vendere la vostra lurida birra. E poi mi chiamate un buon amico! Io non sono un buon amico.

— Non lo so! – brontolò Hugby. – Ma in quanto a questo... non cercate di vendere...

Un’automobile si arrestò in mezzo alla piazza e ne discesero sei individui impolverati. Anche sotto l’acconciatura automobilistica, Pump non tardò a riconoscere in alcuni di essi la figura caratteristica del poliziotto. Uno dei sei individui si tolse la cuffia e gli occhiali e mostrò i lineamenti languidi del segretario Leveson, che si avvicinò al milionario. I due si strinsero cordialmente la mano e confabularono alcuni minuti. Poi il dottor Meadows si schiarì la voce e, rivolto alla folla, disse:

— Sono lieto di annunciarvi che questo infame tentativo è fallito. Lord Ivywood, colla prontezza che ben lo distingue, ha immediatamente comunicato ai posti importanti come questo, una giusta modificazione alla sua legge.

— Dormiremo in prigione, questa notte! – mormorò Humphrey Pump. – Lo sentivo!

— Basti dire – continuò il milionario – che si stabilisce per legge che è passibile di prigione quell’oste che vende bevande alcooliche prima che siano trascorsi tre giorni dalla messa a posto dell’insegna.

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— Mi immaginavo che dovesse essere qualche cosa del genere. – disse Pump. – Ci arrendiamo, Capitano, o cerchiamo di svignarcela?

Pareva che tutta l’impudenza di Dalroy fosse scomparsa. Cogli occhi fissi al cielo, il Capitano, come Shelley, sembrava cercare l’ispirazione tra le bianche nuvolette.

Finalmente, con voce calma e melliflua, disse una sola parola:

— Vende?Pump lo fissò, colpito, come comprendendo il remoto

significato. Ma il dottore, troppo immedesimato del suo trionfo per prestare attenzione, esclamò:

— Vende bevande alcooliche: sono le precise parole del nuovo atto del Parlamento!

— Ma allora non si riferiscono a me – disse il Capitano con indifferenza. – Io non ho venduto bevande alcooliche: le ho regalate. Chi mi ha pagato? Forse che qualcuno può dire che ho ricevuto del denaro? Sono un filantropo anch’io, come il dottor Meadows: sono la sua immagine vivente!

Il signor Leveson e il dottor Meadows si guardarono in faccia: sul volto del primo era diffusa la costernazione, mentre su quello del secondo riapparivano gli antichi terrori della legge.

— Rimarrò qui qualche settimana – continuò il Capitano, appoggiandosi elegantemente alla secchia – e distribuirò gratis, a tutti coloro che me la domanderanno, questa eccellente bevanda. Mi pare che

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non ci sia un altro negozio del genere nei dintorni, e son sicuro che nessuno vorrà opporsi a questo legale accomodamento.

Ma in questo si sbagliava, perchè molti dei presenti sembravano dispostissimi a fare opposizioni, e non erano nè il filantropo dottor Meadows, nè il compito signor Leveson a protestare.

Il più accanito avversario del Capitano non era altri che l’ex-birraio Hugby. I suoi occhi rotondi parevano schizzati fuori dell’orbita. Prima che potesse capire la gravità di quello che diceva, il buon uomo esclamò:

— E credi davvero di poter venir qui, bestia che non sei altro, a rubarmi il mestiere?

Il vecchio Meadows si rivolse, rapido come una serpe, verso di lui.

— E qual è il vostro mestiere, signor Hugby? – domandò.

Il birraio cercò di brontolare una specie di protesta. I caproni fissarono il suolo, abitudine questa, dice un poeta romano, degli animali più vili. L’uomo (cioè il signor Patrick Dalroy), approfittando di una buona traduzione dal passo latino, «guardò verso l’alto, e cogli occhi alzati, contemplò i cieli ereditari suoi».

— Se la polizia – urlò il signor Hugby – dopo aver fatto tanta strada, non è nemmeno capace di arrestare questo miserabile pezzente, io non pagherò più quelle tasse infernali, e...

— Sono stati i birrai del vostro tempo – interruppe Dalroy, con voce tonante – a ridurre le osterie in uno

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stato tale, che gli uomini onesti ne hanno reclamata la chiusura. Siete peggio dei proibizionisti, voi altri, perchè pervertite ciò che essi non hanno mai conosciuto. E in quanto a voi, eminente scienziato, grande filantropo, idealista e distruggitore di osterie, lasciate che vi dica che non siete rispettato. Vi si obbedisce, ma perchè vi si dovrebbe stimare? Voi dite di aver costruito questa città e di alzarvi all’alba per sorvegliarla. Ma voi l’avete costruita per denaro, e la sorvegliate per denaro. Perchè dovrei rispettarvi, quando voi non vi occupate che dei cibi più sani? della digestione e dello stomaco, invece che del cuore? Perchè dovreste essere il dio di questa valle, il cui dio è poi la vostra pancia, quando voi non amate il vostro dio, ma solamente lo temete? Andate a casa a recitare le vostre orazioni, o uomo, perchè tutti gli uomini devono morire. Leggete la Bibbia, come si faceva nella vostra casa in Germania. Io non la leggo ma mi ricordo alcune parole e ve le voglio dire. – E fece un ampio movimento con il braccio, così che, per un attimo, la città sembrò un giocattolo ai piedi di un gigante: – «Bisogna che Dio costruisca la città perchè il loro lavoro non vada perduto; bisogna che Dio custodisca la città, perchè la loro vigilanza non sia vana. È inutile che voi vi alziate all’alba e mangiate il pane della diligenza, perchè Egli dà il sonno ai suoi fedeli». Cercate di capire che cosa significa. Ed ora, Hump, andiamo. Sono stanco di queste verdi tegole. Andiamo, riempitemi il bicchiere (e battè con forza il barilotto). Andiamo (e battè con forza la secchia).

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Come, saddle my horses and call out my men,And tremble, gay goats, in the midst of your glee;For you’ve no’ seen the last of my milk-can and me38.

E il canto si perse in lontananza nel rumore dell’automobile in marcia, che non si fermò che a una considerevole distanza da Peaceways. Sulla riva di un gran torrente, tra cespugli di felci e piccole betulle, Patrick ordinò una fermata.

— Ma c’è una cosa che non ho capito – disse Humphrey. – Perchè mai aveva tanta paura di un pubblico analista? Quale veleno metteva dunque nel suo latte?

— H2O – rispose il Capitano – ed io la prendo senza latte.

E si chinò a bere al ruscello, come aveva fatto all’alba.

38 Andiamo, sellate i miei cavalli e chiamate i miei uomini – e tremate, o allegri caproni, in mezzo alla vostra gioia; – perchè voi non vedrete più nè la mia vecchia secchia da latte nè me.

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CAPITOLO XXIL TURCO E I FUTURISTI

Il signor Adriano Crooke, farmacista assai rinomato, aveva il negozio nelle vicinanze di Vittoria, ma il suo volto esprimeva molto di più di quello che esprimono di solito le facce dei farmacisti, essendo una faccia precocemente invecchiata, incartapecorita, intelligente. E la sua conversazione era in rapporto col suo volto: egli era vissuto in diversi paesi e conosceva infiniti aneddoti concernenti il suo lavoro, visioni delle droghe d’Oriente o congetture sugli ingredienti dei veleni della rinascenza. Egli, non c’è bisogno di dirlo, era una persona rispettabilissima, ma si divertiva allo studio dei tempi andati e delle regioni dove la sua scienza serviva sia allo stregone che all’assassino. Pur conoscendolo buono e innocuo, si finiva col lasciare a volte il suo negozio, al calar della notte, colla testa così piena di storie terribili, di veleni e di magie, che si era propensi a considerarlo come uno stregone, e il suo negozio come la dimora della negromanzia.

Fu, senza dubbio, per udire simili storie che Hibbs Comunque entrò un giorno nella bottega; ma anche per chiedere un bicchiere di quella medicina che stava prendendo quando Leveson l’aveva trovato accanto alla

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finestra. È da immaginare dunque la sua sorpresa e il suo imbarazzo quando il signor Leveson entrò dallo stesso farmacista e domandò lo stesso medicamento. In realtà, pareva proprio che ne avesse un bisogno estremo, tanto era pallido ed abbattuto.

— Siete stato fuori di città, non è vero? – disse Leveson. – Non abbiamo avuto fortuna. Trovarono una scappatoia, e la polizia non potè arrestarli. Anche il vecchio Meadows era di questo parere. Sono stanco di tutto ciò. Dove andate?

— Alla mostra dei post-futuristi – rispose il signor Hibbs. – Ci sarà anche Lord Ivywood col Profeta. Non me ne intendo molto di arte, ma dicono che sia così bella!

Ci fu un lungo silenzio, poi il signor J. Leveson disse:— La gente è sempre prevenuta contro le nuove idee!Un altro silenzio, quindi il signor Hibbs osservò:— È successo lo stesso anche per Whistler.Il signor Leveson si accorse allora dell’esistenza del

signor Crooke, e gli disse allegramente:— Credo che avverrà lo stesso anche nel vostro

campo, non è vero? Anche i grandi pionieri della chimica non avranno goduto una gran popolarità, ai loro tempi.

— Guardate i Borgia – rispose il signor Crooke. – Nessuno li amava.

— Siete troppo loquace – disse Leveson. – Basta! Andiamo, Hibbs?

E i due signori si incamminarono insieme.

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Era una splendida giornata, simile a quella che aveva illuminato la bianca città di Peaceways, ed essi percorrevano una bella strada con alti palazzi sulla riva del fiume. Il palazzo dell’esposizione, proprio sulle sponde del Tamigi, era tutto decorato di fiori e di verdi cespugli. Sull’alto della scalinata, sorridente e pomposamente vestito, stava Misysra Ammon. Ma anche la vista di quel fragrante fiore orientale non ravvivò gli spiriti depressi del segretario.

— Siete venuti per vedere la decorazione? – domandò il raggiante Profeta. – Io ho dato la mia approvazione.

— Siamo venuti per vedere i quadri dei post-futuristi – cominciò Hibbs; ma Leveson rimase silenzioso.

— Non ci sono quadri – disse il turco semplicemente – e se ci fossero stati io non avrei dato la mia approvazione. Per quelli della nostra religione, i quadri non vanno bene; sono idoli, miei cari. Guardate là dentro – si volse e puntò un indice solenne verso i cancelli della galleria – guardate là dentro e non troverete nessun idolo. Assolutamente, nessun idolo. Io ho esaminato con cura ogni quadro, e li ho approvati tutti. Non c’è traccia nè di uomo nè di animale. Le decorazioni sono come i tappeti: non fanno male a nessuno. Lord Ivywood sorride di felicità perchè gli ho detto che l’Islam fa progressi. I musulmani possono dipingere anche la verdura; voglio dire: le piante, i fiori. Ebbene, io non ho visto nè piante nè fiori.

Hibbs, sempre pieno di tatto, capì che non era opportuno che l’eminente Misysra predicasse dall’alto

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di una scalinata all’intera strada e al fiume; e così fece un passo avanti, manifestando il proposito di entrare. Il Profeta e il segretario lo seguirono, e nella prima sala trovarono Lord Ivywood, pallido e composto come una sfinge. Era la sola statua che i nuovi musulmani potessero adorare. Su un divano sperduto come un’isoletta purpurea nel «mare magnum» del pavimento, sedeva Enid Wimpole, in animata conversazione col cugino Dorian: essa faceva del suo meglio per impedire che la lite familiare, scoppiata dopo l’incidente di Westminster, avesse un seguito.

Nel fondo della sala passeggiava Lady Giovanna Brett; ma la sua attitudine non dimostrava nè attenzione nè curiosità, ogni qualvolta essa si fermava davanti a un quadro: pareva che fosse annoiata di tutto e di tutti, del pavimento sul quale camminava e del parasole che teneva in mano. Altri piccoli gruppi di persone esaminavano l’esposizione dei post-futuristi. Tutta gente dell’aristocrazia, si capisce, di questa classe sociale così piccola, eppure abbastanza grande per governare un paese... un paese però senza religione; una classe che ha tutte le vanità della folla e tutte le reticenze di una società segreta.

Leveson si avvicinò subito a Lord Ivywood, e si mise a raccontargli la fuga da Peaceways. Il viso di Ivywood non si scompose; egli era o si sentiva superiore a certe cose.

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— Ho fatto tutte le inchieste possibili e immaginabili per scoprire la loro direzione – udì dire il segretario – e pare che abbiano presa la strada di Londra.

— Va bene – replicò la statua. – Sarà più facile prenderli qui.

Lady Enid, con una serie di assicurazioni (in massima parte menzognere) era riuscita ad impedire una rottura tra i due cugini Dorian e Filippo. Ma conosceva ben poco il temperamento mascolino, se si illudeva di aver stornata la profonda rivolta intellettuale del poeta contro l’uomo di Stato. Da quando aveva udito il signor Hibbs ordinare a una semplice guardia di arrestarlo, i sentimenti di Dorian Wimpole, per quattro giorni e quattro notti, erano volati in direzione perfettamente contraria agli ideali del signor Hibbs; e l’improvvisa comparsa di quel diplomatico senza colpa affrettò la corrente mentale verso una cataratta.

Ma siccome non poteva insultare Hibbs cui non era stato mai presentato direttamente, nè Ivywood, col quale si era appena riconciliato, cercò intorno a sè qualcuno su cui poter sfogare liberamente la sua ira; e si rifece sui post-futuristi. Invano il signor Leveson affermò che «la gente è sempre prevenuta contro le idee nuove»; invano il signor Hibbs aggiunse che «lo stesso è avvenuto anche per Whistler»: tali sciocchezze non calmavano l’irritato Dorian.

— E quel piccolo Turco – esclamò – ha più buon senso di tutti chiamando questi sgorbi, decorazioni, tappezzerie. Della gran brutta tappezzeria, direi io. Ma

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considerarli dei quadri! Ma dove lo vedete voi un quadro? Se non c’è nulla di notevole da vedere è meglio stare a casa, che venire a un’esposizione. Siete capaci qui, in questa esposizione, di mostrarmi qualche cosa di notevole?

— C’è il «Ritratto di vecchia signora» – disse Lord Ivywood, bonariamente, conducendolo verso la parete di fronte.

— Ah, sì! E dov’è? – domandò Dorian.Il signor Hibbs fece un rapido gesto per additarglielo,

ma disgraziatamente indicò una «Pioggia sugli Appennini» invece del «Ritratto di vecchia signora» aumentando ancor più l’irritazione di Dorian Wimpole. Più tardi, poi, il signor Hibbs spiegò il fatto dicendo che un brusco movimento del gomito del signor Wimpole, urtando il suo braccio, gli aveva fatto cambiar direzione. Ad ogni modo, il povero signor Hibbs si sentì così sconvolto, che per rimettersi andò nella sala del bar, mangiò tre pasticcini di gamberi e bevve una coppa di «champagne», di quello «champagne» che una volta era stato la sua rovina. Ma si limitò a una coppa, e ritornò indietro.

Trovò che Dorian Wimpole, dimentico del tempo del luogo e dell’orologio personale, si era immerso in una accalorata discussione con Lord Ivywood, come quando aveva discusso con Patrick Dalroy, in un piccolo bosco, a proposito di un asinello. Ed anche Filippo Ivywood sembrava interessarsi perchè, se il suo piacere era esclusivamente intellettuale, era tuttavia sincero.

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— Ed io ho fede nell’intentato; io seguo gli inesperti – stava dicendo colla sua bella voce limpida. – Voi dite che così si cambia la stessa natura dell’Arte. Ebbene, io voglio questo cambiamento. Tutto si modifica, si tramuta. L’esagerazione è progresso!

— Ma l’esagerazione di che? – domandò Dorian. – Io non posso trovare alcuna traccia di esagerazione in questi quadri, perchè non vedo che cosa vogliono esagerare, amplificare. Non si possono esagerare le penne di una mucca o le gambe di una balena. Voi potrete disegnare una mucca pennuta o una balena colle gambe, così, per scherzo... benchè non credo che simili scherzi siano degni di voi. Ma non vedete, mio caro Filippo, che anche scherzando, voi dovete ritrarre una mucca, o una cosa qualsiasi con delle penne? Si può cambiare, si può trasformare, sì, ma fino a un certo punto; dopo di che si perde ogni identità, e cioè si perde tutto. Il Centauro è mezzo uomo e mezzo cavallo: ma non deve essere identificato coll’uomo-cavallo. E la sirena deve essere femminile; anche se, nella sua condotta sociale, si comporta come un pesce.

— No, – rispose Lord Ivywood – vi capisco, ma non condivido le vostre idee. Mi piacerebbe che il Centauro si cambiasse in qualche altra cosa che non fosse nè uomo nè cavallo.

— Ma che conservasse qualche cosa e dell’uno e dell’altro!

— No, che non avesse assolutamente nulla, nè dell’uno nè dell’altro!

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— Ma perchè – gridò Dorian. – Una cosa che è totalmente cambiata, non è più cambiata: non c’è cambiamento perchè non provoca in noi il ricordo di ciò che era prima. Immaginatevi di svegliarvi domani e di essere semplicemente la signora Pope, una vecchia che tiene pensione in Broadstairs... Non dubito che la signora Pope sia più felice di voi! Ebbene, in che cosa avreste progredito? Quale parte di voi sarebbe migliore? Non vedete che questo fatto dell’identità è il limite posto a tutte le cose viventi?

— E io nego che ci sia un limite – proruppe Filippo violentemente.

— Adesso capisco perchè, pur facendo dei bellissimi discorsi, non abbiate mai scritto poesia!

Lady Giovanna, che stava osservando annoiata una ricca pittura rossa e verde, alla quale Misysra cercava di interessarla (implorandola di non badare al titolo «Prima comunione sulla neve»), si voltò bruscamente verso Dorian.

— E perchè non potrebbe scrivere poesia? – domandò. – Volete forse dire che non potrebbe adattarsi ai limiti del metro, della rima e via dicendo?

Il poeta riflettè un istante, poi disse:— Sì, in parte; ma voglio dire anche di più. E già che

siamo in famiglia, vi dirò quello che tutti pensano di lui: egli non ha spirito. Ma questo per me non conta nulla. Quel che conta di più, secondo me, è che egli non ha passioni. Non conosce le limitazioni umane, e quindi non può scrivere in poesia.

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Lord Ivywood stava guardando, calmo e freddo, una piccola pittura nera e gialla intitolata «Entusiasmo». Giovanna Brett si chinò verso di lui ed esclamò:

— Dorian dice che non avete passioni. È vero? E dice anche che non conoscete le limitazioni umane!

Ivywood non distolse lo sguardo dal quadro, ma disse semplicemente: – No, non le conosco! – E si mise gli occhiali per meglio esaminare il dipinto. Poi li depose e si volse verso Giovanna col viso più pallido del solito.

— Giovanna – disse – io voglio camminare là dove nessun uomo ha mai camminato, e trovare qualche cosa oltre le lacrime e il riso. La mia strada sarà mia, tutta mia; me la farò io, come facevano i romani. E le mie avventure non avranno luogo tra le siepi e i ruscelletti, ma bensì sui confini dello spirito e della mente che sempre progrediscono. Penserò ciò che era impensabile prima ch’io lo pensassi; amerò ciò che non viveva prima ch’io lo amassi. Sarò solo, come il primo uomo.

— Dicono – osservò Giovanna dopo un breve silenzio – che il primo uomo cadde.

— I preti lo dicono, ma ammettono anche che scoprì il bene ed il male. E questi artisti cercano ora di scoprire qualche cosa che è ancora oscura per noi.

— Allora, anche voi non vedete nulla in questi quadri? – domandò Giovanna guardandolo con vivo interesse.

— Io vedo la rottura delle barriere, degli ostacoli; ma oltre ciò, nulla!

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Giovanna guardava il pavimento e tracciava segni cabalistici col parasole, come soprappensiero. Poi disse:

— Ma la rottura delle barriere, degli ostacoli, può essere anche la rottura di ogni cosa.

Gli occhi chiari la fissarono.— Forse – disse Lord Ivywood.Dorian Wimpole fece un brusco movimento ed

esclamò: – Olà! – mentre il signor Hibbs guardava verso la porta d’entrata.

Incorniciato dall’arco bizantino, se ne stava un uomo alto e grosso, vestito di panni rozzi, ma decenti, il viso aperto e intelligente, con una barbetta nera che gli circondava il mento.

— Olà, ragazzi! – disse in tono allegro.Leveson e Hibbs si guardarono. Poi Leveson uscì

precipitosamente dalla stanza. Lord Ivywood non si mosse: ma il signor Wimpole, spinto da una specie di poetica curiosità, si avvicinò allo sconosciuto.

— È terribile! – esclamò Lady Enid. – Quell’uomo deve essere ubriaco!

— No, ragazza mia! – rispose l’individuo, galantemente. – È da un pezzo che non mi ubriaco; sono un bravo giovane. Non c’è nulla di male in un bicchiere di birra; è vero, ragazza?

— Siete proprio sicuro di non essere ubriaco? – domandò Dorian Wimpole.

— Sicurissimo!— Anche se fosse questa un’osteria con la sua brava

licenza... – cominciò Dorian.

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— C’è un’insegna sulla casa – osservò lo straniero.Il volto di Giovanna Brett si alterò. Essa fece due

passi verso la porta, poi tornò indietro e si sedette sul divano purpureo. Ma Dorian continuò, tutto intento ed interessato.

— Anche se questa fosse un’osteria con la sua brava licenza, non vi si darebbe da bere, se foste ubriaco. Siete proprio sicuro di non essere ubriaco? Sareste buono di dirmi se adesso piove o no?

— Certamente! – disse l’uomo, con gran convinzione.

— E sareste capace di distinguere diversi oggetti? Una donna, per esempio, una donna vecchia?

— Certamente! – ripetè l’individuo.— Ma che cosa dite? – sussurrò Enid.— Sto cercando di impedire a un uomo sensibile di

fare una sciocchezza – rispose il poeta. – Scusatemi, signore, ma sareste capace di distinguere questi oggetti in un quadro? Sapete che cosa è un paesaggio, e che cosa è un ritratto? Perdonatemi, ma finchè dirigiamo noi il luogo, ne siamo responsabili!

La grande vanità dei contadini si manifestò, a questo punto, ampiamente.

— Non siamo poi così ignoranti, ragazzo mio! – disse l’uomo. – Nella città dove son nato io c’era una bella esposizione di quadri, e io li conoscevo tutti!

— Benissimo – disse Wimpole. – E allora siate così gentile di guardare questi due quadri. Uno rappresenta una vecchia e l’altro la pioggia sulle colline. Sapete, è

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una semplice formalità, dopo vi si darà da bere, quando avrete detto quale è l’uno e quale è l’altro!

Il contadino si piantò dritto davanti ai due quadri e li esaminò attentamente. Il lungo silenzio che seguì irritò Giovanna, che si alzò, si accostò alla finestra, poi si diresse verso la porta.

Finalmente il critico d’arte alzò un viso improntato a stupefazione, ed esclamò:

— Temo proprio di essere ubriaco!— Amico mio, – gridò Dorian – hai salvato la civiltà.

Vieni a bere!Gli offrì una coppa di champagne e corse fuori della

sala.Giovanna era già uscita. Dalla finestra aveva visto ciò

che aveva temuto di vedere e che spiegava la comica scena che aveva avuto luogo. Tra i fiori, nel sole, simile a un alto fiore tropicale, sventolava l’insegna rossa e azzurra del signor Pump. Ma durante il tempo da lei impiegato per recarsi dalla finestra alla porta, l’insegna era sparita. C’era però ancora una piccola automobile pronta alla partenza. I due uomini che vi sedevano dentro erano vestiti da automobilisti; ma li riconobbe subito. E quello che in lei c’era di profondo, di scettico, di stoico, di nobile la fece restare ferma e immobile come uno dei pilastri del portico. Ma un cane chiamato Quoodle si rizzò sull’automobile ed abbaiò di gioia, al vederla, e qualche cosa della bestiale innocenza dell’animale riempì gli occhi di Giovanna Brett di lacrime.

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Un fatto straordinario ebbe luogo. Il signor Dorian Wimpole, elegantemente vestito come si conviene ai visitatori di una esposizione, non rimase fermo come un pilastro del portico. Ma corse giù per la scalinata, saltò nell’automobile e disse, calmo e sereno, a Dalroy:

— Buon giorno; mi dovete una corsa in macchina, sapete!

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CAPITOLO XXILA STRADA AL LABIRINTO

Patrick Dalroy si volse all’invasore, con comica espressione, e disse: – Vi assicuro che non vi rubai l’automobile!

— Lo so, – rispose Dorian. – So tutto, e siccome siete voi il perseguitato, vi confesserò che non condivido le idee di Lord Ivywood. O meglio: è lui che non condivide le mie, da quando mi svegliai in Parlamento, dopo un pranzo di ostriche, mentre i custodi gridavano: «A casa, signori!».

— Davvero? – disse Dalroy corrugando le sopracciglia rossicce. – Dicono: «A casa, signori»?

— Sì, è una vecchia abitudine dell’antico tempo quando i membri del Parlamento venivano assaliti per la strada.

— E perchè non sono assaliti, ora, per la strada?Ci fu un momento di silenzio.— È un mistero – disse il Capitano. – Ma è certo che

quell’«A casa, signori» è proprio carino.Il Capitano aveva accolto il poeta con grande

affabilità, ma il poeta, che era acuto osservatore, non potè fare a meno di accorgersi che il Capitano era un po’ distratto. Mentre passavano veloci attraverso i labirinti

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della Londra meridionale (Pump aveva attraversato il ponte di Westminster e si dirigeva verso le colline del Surrey), i grandi occhi azzurri di Patrick scrutavano attentamente tutte le strade.

Alla fine, dopo alcune pause che diventavano sempre più lunghe, il Capitano osservò:

— Ma non vi pare che ci siano un’infinità di farmacisti in Londra?

— Davvero? – domandò Wimpole indifferente. – Può darsi; eccone due, l’uno accanto all’altro.

— E tutti e due hanno lo stesso nome: Crooke. Ed ho visto questo stesso «Crooke» là, sull’angolo. Mi sembra che sia una deità onnipresente.

— Avrà molti affari.— Troppi, credo – disse Dalroy. – Che cosa volete

che se ne faccia la gente di due farmacisti identici, a poca distanza l’uno dall’altro? Forse che, per farsi curare i calli, mettono un piede in un negozio e uno nell’altro? Oppure comprano da una parte un acido, dall’altra un alcale e aspettano poi il friggìo della spuma? o cercano il veleno dall’uno e l’emetico dall’altro? Mi sembrerebbe una delicatezza eccessiva. Sarebbe come vivere una doppia vita.

— Ma forse – osservò Dorian – questo signor Crooke sarà un farmacista molto popolare: si sarà reso celebre con qualche specialità.

— Mi pare che ci debbano essere dei limiti nella popolarità di un farmacista. Se uno vende del tabacco molto buono, può darsi che ci si metta a fumare di più

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per soddisfare un nostro piacere. Ma non ho mai sentito che qualcuno aumenti per suo uso e consumo lo smercio dell’olio di fegato di merluzzo; e anche l’olio di ricino, se è molto rispettato, non è di certo amato!

Dopo alcuni minuti di silenzio, disse: – Possiamo fermarci qui un momento, Pump?

— Credo di sì – rispose Humphrey – ma promettetemi però di non mettervi in qualche imbroglio!

L’automobile si fermò davanti a un negozio di Crooke, e Dalroy entrò. Prima che Pump e il suo compagno avessero potuto scambiare una parola, il Capitano ne uscì di nuovo, con una strana espressione sul volto.

— Signor Wimpole, – disse – volete farci l’onore di pranzare con noi questa sera? È un invito alla buona per un pranzo senza etichetta: forse dovremo mangiare sotto una siepe o in cima ad un albero. Ma voi siete un uomo di buon gusto, e gli uomini di buon gusto non trovano mai nulla a ridire sul rhum e sul formaggio di Hump. Mangeremo e berremo a nostro piacere, questa sera. È un banchetto. Non so se siamo, voi ed io, amici o nemici; ma ad ogni modo, per questa notte ci sarà una tregua.

— Amici, spero – disse il poeta sorridendo. – Ma perchè proprio questa sera ci sarà tregua?

— Perchè domani ci sarà guerra – rispose Patrick Dalroy, – da qualsiasi parte voi vi mettiate. Ho fatto proprio ora una strana scoperta.

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E rimase silenzioso, mentre l’automobile, uscita da Londra, fuggiva tra i boschi e le colline, al di là di Croydon. Dorian si sentì vincere a poco a poco dal sonno, come accade sempre a coloro che si trovano improvvisamente all’aria aperta dopo esser rimasti rinchiusi per lungo tempo in sale ben riscaldate; il cane Quoodle dormiva sul fondo dell’automobile. In quanto a Humphrey Pump, egli non parlava mai quando aveva qualche altra cosa da fare. E così, nel più profondo silenzio, le praterie si succedevano alle praterie, i boschi ai boschi; e il tempo passava. Il cielo aveva perso le tinte d’oro pallido del tramonto e la sua volta cupa brillava di miriadi di stelle. Da principio i boschi che si intravvedevano lungo la via erano per lo più parchi racchiusi da siepi o da alte muraglie. Ma a poco a poco diminuirono e la strada cominciò a diventar tortuosa e difficile. Già da mezz’ora Dalroy sentiva sorgere dalla natura che lo circondava qualche cosa di romantico, rimembranze antiche; e Humphrey Pump sapeva di essere vicino al suo paese natio. La strada girava diventando sempre più stretta. Stavano salendo una grande collina circondata da altre collinette minori, e la strada si svolgeva tra queste guglie simili a quelle di una cattedrale, in infinite curve ed angoli. Sembrava quasi che, a furia di girare e di avvolgersi, sarebbe terminata in un nodo.

— Ma quest’automobile finirà per avere le vertigini e cascherà giù – esclamò Dalroy, rompendo il silenzio.

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— La mia macchina – disse Dorian, – come avete potuto costatare, era più sicura.

Patrick rise con un po’ di confusione.— Spero che avrete ritrovato l’automobile in perfetto

stato. Questa qui non vale nulla, per velocità; ma si arrampica bene. Credo che ci aspetti una bella salita.

— Mi pare che le strade siano molto irregolari – osservò Dorian.

— Ecco – esclamò Patrick, impazientito. – Voi siete inglese ed io non lo sono. Voi dovete sapere perchè le strade girano così. È uno dei torti dell’Irlanda, che i Santi ci aiutino, non capire l’Inghilterra. E l’Inghilterra stessa non lo capisce. L’Inghilterra non ci vuol dire perchè queste strade ci contorcano così. Gli inglesi non ce lo vogliono dire. Voi non volete dircelo.

— Non affermatelo con troppa sicurezza – disse Dorian ironicamente.

Dalroy cacciò un grido di vittoria:— Benissimo, ancora altre canzoni del «Club

dell’automobile»! Noi siamo tutti poeti. Ciascuno scriverà sul perchè la strada ha simili curve. Come adesso, per esempio – aggiunse mentre la vettura stava per rovesciarsi in un fosso.

Pump pareva avesse scelto curve ed angoli più adatti per una capra, che per un’automobile. I suoi compagni, da qualche tempo, non vedevano che pianure e terreni pianeggianti, e la sensazione che ora provavano era come il tentare di entrare nel mezzo del labirinto di

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Hampton Court o l’arrampicarsi sulla scala a spirale del campanile di Bruges.

— Questa è proprio la via del labirinto – esclamò Dalroy allegramente. – Bel posto: salubre, facile a trovarsi. Prima a sinistra, poi voltare a destra, poi diritto fino all’angolo, e poi indietro di nuovo. Va benissimo per il mio poema. Avanti, pigroni! perchè non scrivete?

— Farò una poesia, se volete – disse Dorian, senza far mostra di presunzione. – Ma è troppo scuro per scrivere, e l’oscurità aumenta sempre.

Erano proprio entrati, in quel mentre, in un fitto boschetto in cima alla collina, i cui fianchi, fino ad allora, non mostravano vegetazione, e le stelle scintillavano attraverso il fogliame. Il bosco era più fitto e più vasto di quello che copre la collina di Chanctonbury, ma occupava la stessa posizione elevata e romantica. Vari sentieri correvano e si intrecciavano tra gli alberi. Quella luce azzurrognola e le grandi radici tutte contorte dei faggi davano l’impressione di mostri giganteschi nel fondo di un mare: ed a rendere ancora più viva la somiglianza, c’era una quantità di funghi rossicci o del color del rame, simili agli splendenti anemoni del mare. Eppure, i nostri avventurieri avevano l’impressione di essere molto in alto, su, su, vicino al cielo, e le lucenti stelle d’estate che occhieggiavano attraverso le fessure del tetto fronzuto, parevano chiari fiori splendenti sugli alberi del bosco.

Finalmente arrivarono in un punto dove la collina faceva una gobba. Pump fermò l’automobile: e

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arrampicandosi sul pendio, giunse ai piedi di un faggio molto ampio, che si delineava nel cielo, e pareva più un cefalopode che un albero; tra i rami più bassi c’era una cavità nella quale il signor Humphrey Pump di Pebbleswick scomparve totalmente.

Riapparve poco dopo, con una scala di corda che calò ai suoi compagni: ma il Capitano si arrampicò rapidamente lungo i rami dell’albero, con un’abilità degna di uno scimpanzè. Quando tutti si furono comodamente assestati in quella cavità, Humphrey discese di nuovo per raccogliere le loro semplici provviste. Il cane continuava a dormire nell’automobile.

— Un vostro vecchio nascondiglio, è vero, Hump? – disse il Capitano. – Mi sembrate come a casa vostra!

— Sono a casa mia! – rispose Pump gravemente.— All’insegna de «La Vecchia Nave». – E così

dicendo, piantò il palo, ritto, tra i funghi, come per invitare i passanti a scalar l’albero per dissetarsi.

Il faggio dominava tutto il paese, e nella pianura si vedevano distintamente, simili a nastri d’argento, le strade che i nostri avventurieri avevano percorse.

— Quelle strade mi ricordano le canzoni che abbiamo promesso di comporre – disse Dalroy. – Mangiamo prima, e poi reciteremo.

Humphrey aveva appeso a un ramo uno dei fanali dell’automobile; aprì la botticella di rhum e offrì a tutti il formaggio.

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— Così strano! – esclamò Dorian Wimpole. – Non mi ricordo di essere mai stato così comodo! E come è buono questo formaggio!

— È un formaggio eroico, straordinario, degno di questa nostra crociata! È, infine, il formaggio dei formaggi! Pare persino impossibile che sia il prodotto di un animale così mite come la mucca. E non sarebbe nemmeno il caso di dire che Hump abbia munto un toro; sembrerebbe quasi una leggenda irlandese, una di quelle leggende piene di fascino e di malìa. No! credo che questo formaggio provenga dalla buona mucca di Dunsmore Heath, quella che aveva le corna più grandi di una zanna di elefante, e che era così feroce, che, per vincerla, si dovette ricorrere a uno dei più grandi eroi antichi. Ma anche il rhum è buono: e me lo sono guadagnato, questo bicchierino! Per quasi un mese mi sono abbassato fino alle bestioline dei campi e ho camminato a quattro zampe come un proibizionista. Hump, fate circolare la bottiglia, cioè il barilotto, e sentiamo un po’ queste poesie. Tutte devono avere lo stesso titolo, e che titolo rimbombante! Sentite: «Un’inchiesta sulle cause geologiche, storiche, agricole, psicologiche, psichiche, morali, spirituali e teologiche, sulle doppie, triplici, quadruple curvature delle strade inglesi, fatte in un buco di un albero da una speciale commissione segreta di autorità accademiche, incaricate, da loro stesse, di riferire al cane Quoodle, con pieni poteri di aumentare o diminuire il loro numero: "Dio salvi il re!"». – E dopo aver fatto questa

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chiacchierata senza prender fiato, il Capitano aggiunse: – Questo è il tema, signori! Avanti!

Malgrado questa apparente gaiezza, il poeta si accorse che Dalroy era sempre più distratto, e che il suo spirito era in continuo lavorìo. Era in una specie di rapimento creativo. Ma la sua creazione, e Humphrey Pump che ben lo conosceva se ne accorse, non era soltanto letteraria; era anche, come molti moralisti moderni la chiamano, distruttiva. Perchè Patrick Dalroy, e ciò per sua disgrazia, era soprattutto un uomo d’azione, e più che negli scherzi e nelle rime, egli si divertiva nell’agire.

E così avvenne che la sua contribuzione all’inchiesta in versi fu un po’ affrettata e volubile. Dorian, invece, di temperamento affatto opposto, pronto più a ricevere impressioni che a comunicarle, si trovò a meraviglia nel suo nido aereo, e divenne più serio e più poetico del solito.

Ecco i versi di Patrick Dalroy:

Some say that Guy of Warwick,The man that killed the CowAnd brake the mighty Boar aliveBeyond the Bridge at Slough;Went up against a Loathly WormThat wasted all the Downs,And so the roads they twist and squirm(If I may be allowed the term)

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From the writhing of the stricken WormThat died in seven towns.

I see no scientific proofThat this idea is sound,And I should say they wound aboutTo find the town of Roundabout,The merry town of Roundabout,That makes the world go round.

Some say that Robin Goodfellow,Whose lantern lights the meads(To steal a phrase Sir Walter ScottIn heaven no longer needs)Such dance around the trysting-placeThe moonstruck lover leads;Which superstition I should scoutThere is more faith in honest doubt(As Tennyson has pointed out)Than in those nasty creeds.

But peace and righteousness (St. John)In Roundabout can kiss,And since that’s all that’s found aboutThe pleasant town of Roundabout,The roads they simply bound aboutTo find out where it is.

Some say that when Sir LancelotWent forth to find the Grail,Grey Merlin wrinkled up the roads

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For hope that he should fail;All roads led back to LyonessoAnd Camelot in the Vale,I cannot yield assent to thisExtravagant hypothesis,The plain, shrewd Briton will dismissSuch rumours (Daily Mail).

But in the streets of RoundaboutAre no such factions found,Or theories to expound about,Or roll upon the ground about,In the happy town of Roundabout,That makes the world go round39.

39 Alcuni dicono che Guido di Warwick, – l’uomo che uccise la vacca, – che imprigionò vivo il potente cinghiale – oltre il ponte del pantano; – andò contro un vile verme – che devastava tutte le colline, – e così le strade si arrampicano e si avvolgono – (se mi è permesso di adoperare il termine) – per i contorcimenti del verme colpito – che morì nelle sette città. – Io non vedo nessuna prova scientifica – che questa idea sia giusta, – e io direi che si intrecciarono – per trovare la città del Labirinto – che fa andare in giro il mondo.

Alcuni dicono che Robin Goodfellow – la cui lanterna illumina i prati – (per rubare una frase a Walter Scott – che su nel cielo non ne ha più bisogno) – a tale danza intorno al luogo del convegno – conduce l’amante sentimentale. – La quale superstizione io vorrei respingere: – c’è più fede in un dubbio onesto – (come ha detto Tennyson): – che in quelle cattive credenze. – Ma pace e giustizia (San Giovanni) – può baciare nel labirinto. – E dacchè questo è tutto quello che si è trovato – sulla piacevole città del Labirinto – le strade semplicemente vi girano

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Patrick Dalroy terminò con un grido, bevve un bicchiere di rhum, si appoggiò al gomito, e volse lo sguardo verso Londra.

Dorian Wimpole non si era accontentato del rhum; ma si era dissetato anche con la luce delle stelle e con fa fraganza della foresta; ne derivò che egli lesse i suoi versi comici con profonda emozione.

Before the Romans came to Rye or out to Severn strodeThe rolling English drunkard made the rolling English road.A reeling road, a rolling road, that rambles round the shire,And after him the parson ran, the sexton and the squire;A merry road, a mazy road, and such as we did treadThe night we went to Birmingham by way of Beachy Head.

I knew no harm of Bonaparte and plenty of the Squire,And for to fight the Frenchman I did not much desire;But I did bash their baggonets because they came arrayedTo straighten out the crooked road an English drunkard made,Where you and I went down the lane with ale-mugs in our hands,The night we went to Glastonbury by way of Goodwin Sands.

attorno – per scoprire dov’è.Alcuni dicono che quando Sir Lancelot – andò per trovare il

Grail – il vecchio Merlino avviluppò la strada – nella speranza che non vi riuscisse: – tutte le strade lo ricondussero a Leonesse – e a Camelot nella valle. – Io non posso approvare questa stravagante ipotesi. – Il semplice accorto Byron scaccerà – tali rumori (Daily Mail). – Ma nelle strade del Labirinto – non si trovano tali disaccordi – o teorie da commentare – o da far girare intorno – nella felicità del Labirinto – che fa andare in giro il mondo.

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His sins they were forgiven him; or why do flowers runBehind him; and the hedges all strengthening in the sun?The wild thing went from left to right and knew not which was which,But the wild rose was above him when they found him in the ditch.God pardon us, nor harden us; we did not see so clearThe night we went to Bannockburn by way of Brighton Pier.

My friends, we will not go again nor ape an ancient rage,Or stretch the folly of our youth to be the shame of age,But walk with clearer eyes and ears this path that wandereth,And see undrugged in evening light the decent inn of death;For there is good news yet to hear and fine things to be seen,Before we go to Paradise by way of Kensal Green40.

40 Prima che i Romani venissero a Rye o camminassero fino a Severn – i barcollanti ubriachi inglesi fecero le barcollanti strade inglesi – una vacillante strada, una barcollante strada che gira intorno alla contea – e dietro il parroco corre e il sagrestano e il possidente. – Un’allegra strada, una complicata strada, simile a quella che noi calpestammo – la notte che andammo a Birmingham attraverso Beachy Head.

Io non sapevo nulla di male di Bonaparte; e molto del cavaliere, – e non desideravo combattere il francese: – io svergognai le loro baionette, perchè vennero equipaggiati – per raddrizzare la strada storta che un inglese ubriaco aveva fatto – dove voi ed io andammo, con in mano un boccale di birra, – la notte che andammo a Glastonbury attraverso le Goodwin Sands.

I suoi peccati gli perdonarono: o perchè corrono i fiori – dietro a lui e le siepi dritte nel sole? la selvaggia casa andava a destra e a sinistra e non sapeva dove, – ma la rosa selvatica era sopra di lui quando lo trovarono nel fosso. – Dio gli perdoni, non ci indurisca; noi non vedevamo così chiaro – la notte che andammo a Bannockburn attraverso Brighton Pier.

Amici miei, noi non andremo di nuovo, e non imiteremo una

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— Avete scritto qualche cosa, Hump? – domandò Dalroy.

Humphrey, che stava scarabocchiando alla luce del fanale, alzò il capo e disse molto avvilito:

— Sì, ma ho un enorme svantaggio su di voi. Io so perchè le strade fanno tante curve!

E lesse rapidamente, senza dare alcuna espressione ai suoi versi:

The road turned firts towards the leftWhere Pinker’s quarry made the cleft;The path turned next towards the right,Because the mastiff used to bite,Then left, because of Slippery Height,And then again towards the right —We could not take the left becauseIt would have been against the laws:Squire closed it in King William’s dayBecause it was a Right of Way.Still right; to dodge the ridge of chalkWhere Parson’s Ghost it used to walk,Till someone Parson used to knowMet him blind drunk in Callao.Then left, a long way round, to skirtThe good land, where old Doggy Burt

antica rabbia, – o esagereremo la follìa della nostra gioventù perchè sia la vergogna della vecchiaia. – Ma cammineremo con occhi più chiari e con orecchie più chiare in questo sentiero che serpeggia – e vedremo sobri l’osteria decente della morte: – perchè ci sono ancora buone notizie da udire, e delle cose da vedere – prima di andare in Paradiso attraverso Kensal Green.

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Was owner of the «Crown and Cup»,And would not give his freehold up;Right, missing the old river-bed,They tried to make him take insteadRight, since they say Sir GregoryWent mad and let the Gipsies be,And so they have their camp secure:And though not honest, they are poor;And that is something; then alongAnd first to right – no, I am wrong!Second to right of course; the firstIs what the holy sisters cursed,And none defy their awful oathsSince the policeman lost his clothesBecause of fairies; right againWhat used to be High Toby LaneLeft by the double larch and rightUntil the milestone is in sight,Because the road is firm and goodFrom past the milestone to the wood.And I was told by Dr. Lowe,Whom Mr. Wimpole’s aunt would know,Who lives at Oxford writing books,And ain’t so silly as he looks,The Romans did that little bitAnd we’ve done all the rest of it,By which we hardly seem to score.Left and then forward as beforeTo where they nearly hanged Miss Browne,Who told them not to cut her down,But loose the rope or let her swing

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Because it was a waste of string;Left once again by Hunker’s CleftAnd right beyond the elm, and leftBy Pill’s, right by Nineteen NicksAnd left...41.

41 La strada voltò da prima a sinistra – dove la pietraia di Pinker faceva una spaccatura; – il sentiero voltò poi a destra, – perchè il mastino aveva l’abitudine di morsicare. – Poi a sinistra a motivo dell’altura sdrucciolevole – poi di nuovo verso destra. – Non potemmo prendere da sinistra perchè – sarebbe stato contro le leggi; – il cavaliere la chiuse il giorno di Re Guglielmo – perchè era un diritto di passaggio. – Ancora a destra: per evitare le cime di creta – dove lo spettro del parroco soleva camminare, – finchè qualcuno che il parroco conosceva – lo incontrò ubriaco fradicio a Callao. – Poi a sinistra per un lungo tratto, per circondare – il buon paese dove il vecchio Doggy Birt – era proprietario della «Corona e la Tazza», – e non voleva rinunciare alla sua proprietà; – a destra evitando il vecchio letto del fiume – che cercarono di fargli prendere – a destra da che dicono che Sir Giorgio – diventò pazzo e lasciò stare gli zingari – e così essi hanno il loro campo sicuro; – e benchè disonesti sono poveri; – e ciò è qualcosa; e poi avanti – e prima a destra... no, mi sbaglio! – la seconda volta a destra: la prima – è quella che le sante monache maledirono – e nessuno osa sfidare le loro terribili imprecazioni – da quando un poliziotto perdette i suoi abiti – a cagion delle fate; – a destra di nuovo – là che era una volta High Toby Lane – col doppio larice, e a destra – finchè la pietra miliare è in vista – perchè la strada è sicura e buona – dalla pietra miliare al bosco. – Mi fu detto dal dottor Lowe – che la zia del signor Wimpole deve conoscere – che vive a Oxford scrivendo libri – e non è così stupido come sembra, – che i Romani fecero quel

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— No, no, no! Hump! Hump! Hump!!! – gridò Dalroy terrorizzato – Non siate così esauriente! non siate uno scienziato e non desolate il paese delle fate! Quanto tempo contate di andare avanti? Ce n’è ancora molto?

— Sì, – disse Pump freddamente. – Ce n’è ancora molto!

— Ed è tutto vero? – domandò Dorian Wimpole con interesse?

— Sì, è tutto vero! – rispose Pump sorridendo.— Ma ciò che voi volete è la leggenda! – protestò il

Capitano. – Menzogne, solo menzogne, e proprio a quest’ora notturna e con un rhum come questo e nella nostra prima ed ultima vacanza. Che cosa ne dite del rhum? – domandò a Wimpole.

— Se mi chiedete di questo rhum, su questo albero, in questo momento, – rispose Wimpole – io penso che esso sia il nettare degli dei. Ma se me lo domandate in senso generale, ebbene, il rhum... è rhum!

— Vi sembra un po’ dolce, forse – disse Dalroy. – Sibarita! Ma, a proposito, – continuò bruscamente – che

piccolo pezzo – e noi abbiam fatto il resto – cosa della quale sembriamo appena ricordarci; – a sinistra e poi avanti come prima – fin là dove quasi appiccarono la signorina Browne – che disse a loro di non sgozzarla – ma di allentare la corda o di lasciarla dondolare – perchè era una perdita di corda; – a sinistra ancora, vicino alla spaccatura di Hunker – e a destra, oltre l’olmo, e a sinistra – vicino a Pill, e a destra vicino alle diciannove macchie – e a sinistra...

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strana parola è «edonista»! La gente realmente buona preferisce le cose acide, le cose amare, come il caviale e le salse piccanti. Sono i santi che amano le dolcezze. Io ho conosciuto cinque donne che erano mezze sante e tutte preferivano lo «champagne» dolce. Sentite, Wimpole; volete che vi dica l’antica leggenda sull’origine del rhum? Non vi piacciono forse le leggende? Ma, mi raccomando, tramandatela per scritto ai vostri figli; disgraziatamente, i miei parenti non se ne occuparono, e io debbo alla tradizione solo le parole: «Un contadino aveva tre figli...». Quando questi tre ragazzi si incontrarono sulla piazza del villaggio, tutti e tre stavano succhiando delle canne da zucchero. Ma erano molto scontenti di tutti e di tutto e in quel giorno si separarono per sempre. Uno rimase con il padre, sperando nell’eredità. Il secondo andò a Londra per cercar fortuna, come ancora oggi si va in quella città dimenticata da Dio. Il terzo si diresse verso il mare. E i primi due buttarono via le loro canne da zucchero; quello che era rimasto con il padre si mise a bere della birra cattiva e acida, per amor del denaro; quello che era andato in città continuò a bere dei vini sempre più costosi, per far vedere che era ricco. Ma quello che era andato al mare, salì a bordo di una nave tenendo la sua canna da zucchero in bocca. E san Pietro o sant’Andrea, insomma il patrono degli uomini di mare, tramutò quel bastoncino in una fontana, per la gioia dei marinai. Questa è la leggenda dei marinai sull’origine del rhum.

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Domandatelo a un capitano in procinto di partire con un carico importante e con una ciurma a lui ignota.

— Il vostro rhum, almeno, è degno di una fiaba – disse Dorian sorridendo. – Ma credo che tutto ciò sembrerebbe una fiaba anche senza di esso.

Patrick si alzò dal suo trono fronzuto e si appoggiò ai rami.

— Il vostro poema era bello – disse, saltando di palo in frasca; – il mio era orribile. Ma questo deriva dal fatto che io non sono poeta come voi, e poi perchè stavo cercando di comporre nello stesso tempo un altro canto.

Guardò giù verso le strade serpeggianti e recitò quasi a se stesso:

In the city set upon slime and loamThey cry in their parliament: «Who goes home?»And there comes no answer in arch or dome.For none in the city of graves goes home.Yet these shall perish and understand,For God has pity on this great land.Men that are men again; who goes home?Tocsin and trumpeter! Who goes home?For there’s blood on the field and blood on the foamAnd blood on the body when Man goes home.And a voice valedictory... Who is for Victory?Who is for Liberty? Who goes home?42

42 Nella città posta sul limo e sull’argilla – gridano in Parlamento: «chi va a casa?» – e non viene nessuna risposta dagli archi o dalle volte, – perchè nessuno nella città delle tombe va a casa. Eppure questi moriranno e capiranno – perchè Dio ha

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Egli aveva recitato in tono calmo e quasi indifferente; ma c’era qualche cosa in lui, che avrebbe interessato grandemente chi non lo avesse conosciuto bene.

— Posso domandare – disse Dorian ridendo – perchè sguainate la spada, a questo punto?

— Perchè noi abbiamo lasciato il posto detto «Labirinto» – rispose Patrick – e siamo giunti alla via dritta.

Sollevò la spada verso Londra, e una debole luce dall’oriente ne illuminò la lama.

compassione di questa grande Terra. – Uomini che sono uomini di nuovo: chi va a casa? – Campana d’allarme e trombettiere! chi va a casa? – Perchè c’è sangue nei campi e sangue nella spuma del mare, – e sangue nel corpo quando l’uomo va a casa. – E una voce che dice addio... Chi è per la vittoria? – Chi è per la libertà? Chi va a casa?

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CAPITOLO XXIILA CHIMICA DEL SIGNOR CROOKE

Quando il signor Hibbs si recò di nuovo dal signor Crooke, si accorse che i locali di questo eminente chimico erano stati arricchiti da decorazioni di stile orientale. Il negozio del signor Crooke occupava l’intero lato di una piccola strada del West End ed era l’unico negozio che si potesse trovare nei dintorni. Il signor Crooke stesso serviva, attento e cortese, i suoi clienti. Disgraziatamente, non si sa per quale motivo, la storia a proposito di questo negozio non fa che ripetersi. Dopo una breve conversazione col farmacista, circa il vetriolo e i suoi effetti sulla felicità umana, il signor Hibbs, profondamente seccato, vide il suo intimo amico Giuseppe Leveson entrare nello stesso negozio come già era accaduto un’altra volta. Ma Leveson era troppo preoccupato, per notare l’effetto da lui prodotto.

— Ebbene, – disse fermandosi proprio nel mezzo del negozio – siamo in un bell’imbroglio!

I diplomatici non possono permettersi il lusso nè di sapere nè di ignorare. E così Hibbs si limitò a dire:

— Parlate della situazione generale, eh?— Parlo di quell’eterno affare sulle insegne da osteria

– rispose Leveson impazientito. – Lord Ivywood,

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malgrado la sua ferita, si è recato apposta in Parlamento per proclamare che non si possono vendere liquori se non dopo tre giorni dalla messa a posto dell’insegna.

— Oh! ma un affare simile può benissimo essere accomodato – osservò Hibbs in tono solenne come se fosse uno degli iniziati.

— Certamente – disse l’altro, colla stessa aria irritata. – Ma mi sembra che non vi accorgiate, voi come pure sua eccellenza, che c’è un punto debole in questo sistema di approvare gli atti alla chetichella prima che essi siano impopolari. Non capite che se, per evitare opposizioni, non si proclama ad alta voce una legge, diventa difficilissimo poi farla rispettare?

— Ma ciò non può avvenire, per la natura stessa delle cose!

— Non può avvenire? Mio Dio! – e il signor Leveson si rivolse a una autorità meno panteista.

Tirò fuori dalla tasca un pacco di carte, giornali, lettere, telegrammi.

— Sentite – esclamò. – Un curioso incidente avvenne ieri mattina nel villaggio di Poltwell, nel Surrey. La bottega da fornaio del signor Whiteman venne improvvisamente circondata da alcuni tipacci dei dintorni che domandavano birra invece di pane; e fondavano la loro richiesta su un oggetto ornamentale posto all’esterno del negozio, che sostenevano essere un’insegna, secondo il nuovo atto. Vedete! non avevano nemmeno sentito parlare della nuova legge. E cosa ne pensate di questo che racconta il «Clapton

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Conservator»? Ieri si è avuta una esplicita dimostrazione del disprezzo dei socialisti per la legge. Una folla si riunì intorno ad alcune insegne di legno davanti al magazzino di stoffe del signor Dugdale e rifiutò di sciogliersi, anche quando fu loro detto che la loro azione era contraria alla legge. Dei malcontenti, poi, si unirono alla processione in marcia dietro al rozzo emblema. E ancora: la «Stop Press News» annuncia: Una farmacia di Pimplico è stata invasa da una folla che domandava della birra e sosteneva che il farmacista aveva l’obbligo di venderla. Il farmacista sapeva bene di essere esente da simile obbligo, specialmente dato il nuovo atto; ma l’antica concezione dell’importanza dell’insegna sembra animare ancora il popolo e anche paralizzare in certo qual modo la polizia. Eh! che cosa ne dite?

Ci fu un istante di silenzio.— Ebbene – domandò l’irato Leveson al dubbioso

Hibbs. – Quale partito volete trarre da ciò?Una persona ignara della relatività essenziale in ogni

spirito moderno, avrebbe potuto credere che il signor Hibbs non volesse trarne alcun partito. Sia come si sia, le sue spiegazioni, o la sua incapacità di spiegare, furono subito messe alla prova, perchè Lord Ivywood stesso entrò nel negozio del signor Crooke.

— Buon giorno, signori! – disse guardando i due interlocutori con una espressione beffarda e sconcertante. – Buon giorno, signor Crooke. Vi porto una visita. – Ed introdusse il sorridente Misysra. Il

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profeta, quella mattina, era vestito sobriamente, e con due sole tinte: rosso e arancione; ma il suo volto era perennemente lieto.

— La causa progredisce – disse. – In ogni luogo la causa progredisce. Avete sentito il bel discorso di Sua Eccellenza?

— Ne ho sentiti molti, tutti belli – rispose Hibbs graziosamente.

— Il profeta vuol parlare dell’atto per la riforma della lista elettorale – osservò Ivywood. – Mi sembra l’abbiccì della politica il riconoscere, ora, che il grande impero inglese orientale è diventato tutt’uno con quello occidentale. Considerate le nostre università coi loro studenti maomettani; ben presto questi saranno in maggioranza. Dobbiamo noi, quindi, governare questo paese, con un governo rappresentativo? Io non dico di credere nella democrazia. Voi lo sapete bene; ma penso che sarebbe sconcertante distruggere un governo rappresentativo. Se noi dobbiamo dare un governo rappresentativo ai musulmani inglesi, non dobbiamo commettere l’errore che abbiamo commesso cogli indostani e colla organizzazione militare... errore che ha condotto alla rivolta. Non dobbiamo domandar loro di fare una croce sulla lista elettorale: sembra una sciocchezza, ma li può offendere. Così, io ho introdotto una piccola riforma permettendo un segno facoltativo, tra l’antica croce e un segno curvato, che può essere una mezzaluna e che, siccome è più semplice a farsi, sarà generalmente accettato; almeno lo spero.

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— E così – esclamò il vecchio Turco raggiante – il piccolo facile segno ricurvo starà al posto del difficile segno a due tagli. Va molto bene anche per l’igiene. Perchè, dovete sapere, e questo illustre farmacista ve lo può dire, che i medici saraceni, arabi e turchi, furono i primi fra tutti i medici, e insegnarono la medicina ai barbari europei. E molti dei più rinomati rimedi moderni hanno un’origine orientale.

— È proprio vero – osservò Crooke, col suo solito tono indifferente. – La polvere detta «arenine» scoperta dal signor Boze, ora Lord Helvellyn, che la provò per primo sugli uccelli, non è che semplice sabbia del deserto. E il nostro «Cannabis Indiensis» è un liquore ben noto ai nostri vicini asiatici.

— E così, nello stesso modo, – disse Misysra gesticolando come un ipnotizzatore – il segno della mezzaluna è igienico; quello della croce è anti-igienico. La mezzaluna era una piccola onda, una foglia, una piuma leggermente curvata (e così dicendo, pieno di entusiasmo, alzò le mani verso le artistiche curve delle nuove decorazioni turche rese di moda da Lord Ivywood). Ma quando si fa la croce, bisogna fare una linea così (e tagliò l’orizzonte con una mano) e poi un’altra linea così (e fece un gesto dal basso verso l’alto come uno costretto a sollevare un albero). E allora si diventa ammalati!

— Signor Crooke, – disse Lord Ivywood nel suo solito modo gentile, – io ho portato qui il profeta per consultarvi sull’uso delle foglie di canapa indiana, come

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l’autorità più competente in materia. È necessario decidere se questi stimolanti o sedativi orientali debbano cadere sì o no sotto il veto generale, che stiamo cercando di imporre sui liquori inebrianti comuni. Abbiamo udito tutti parlare di quelle visioni orribili e voluttuose e di quella specie di pazzia attribuita agli «Assassini» e al «Vecchio della montagna». Ma in queste cose bisogna tener conto del pregiudizio cristiano, a proposito delle storie di queste tribù orientali. Credete proprio che le foglie di canapa indiana abbiano un effetto deleterio? – E si rivolse al profeta.

— Si vedono moschee, – disse questi – molte moschee, infinite moschee, più grandi, sempre più grandi, tali che raggiungono la luna, e nella moschea più alta si sente una voce misteriosa che chiama i musulmani alla preghiera; e si crede che sia Allah. E poi si vedono delle donne, molte donne, più donne di quelle che voi possedete. E sembra di navigare in un mare purpureo, e si vedono ancora donne. E poi ci si addormenta. Non ho provato che una volta sola!

— E voi cosa pensate dell’hascisc? – domandò Lord Ivywood, pensieroso, rivolgendosi al farmacista.

— Credo che incominci colla canapa e finisca colla canapa – rispose il signor Crooke.

— Che cosa volete dire? Non vi capisco.— Una bevanda di queste foglie di canapa, un

assassinio, una corda di canapa. Questa è la mia esperienza in India.

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— È vero – considerò Lord Ivywood – che la cosa non è assolutamente musulmana nelle sue origini. Ci son sempre di mezzo quegli assassini. E inoltre – aggiunse con una semplicità che aveva qualche cosa di nobile – i loro rapporti con San Luigi li discreditano alquanto. – Dopo un breve silenzio, egli domandò a Crooke, fissandolo attentamente.

— Allora, non è il genere di cose che voi vendete?— No, signore – rispose il farmacista senza

distogliere lo sguardo da Lord Ivywood; e le rughe del suo volto sembravano geroglifici. – La causa progredisce. In ogni luogo progredisce! – gridò Misysra alzando le mani e ponendo fine a una tensione della quale non si era nemmeno accorto. – La curva igienica della mezzaluna dominerà sul vostro regno. Voi l’adoperate già in dattilografia, per una sillaba breve: e in ciò si vede l’origine orientale. Avete visto il nuovo gioco?

A questa brusca domanda tutti si voltarono istintivamente, ed egli mostrò una piccola lavagna azzurra in una cornice rossa e gialla, con un certo numero di divisioni, diciassette lapis da lavagna di differenti colori e infinite istruzioni che dichiaravano che il nuovo gioco veniva dal lontano Oriente.

Malgrado tutto il suo entusiasmo, Lord Ivywood era profondamente seccato di questa scoperta asiatica, perchè desiderava sorvegliare il signor Crooke.

Hibbs tossì e disse:

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— Tutte le nostre cose vengono dall’oriente e... – ma si fermò, perchè non gli venne in mente una certa salsa piccante della quale era molto ghiotto. Poi si ricordò della cristianità, e lo disse:

— Dalla parte migliore dell’oriente, e son sempre cose buone... – terminò egli.

Negli anni susseguenti, molti non capirono come mai Misysra avesse avuto una tale influenza su Lord Ivywood. Ma non considerarono i due elementi predominanti nel carattere di questo uomo.

Prima di tutto, non c’era alcun soggetto, sul quale il piccolo turco non potesse esporre, istantaneamente, una teoria. In secondo luogo, le sue teorie erano tutte consistenti e solide. Egli non accettava mai un complimento illogico.

— Avete torto – disse Misysra a Hibbs, solennemente. – Voi dite che tutte le cose che vengono dall’oriente sono buone. C’è, per esempio, il vento dell’est. Non mi piace. Non è buono. E credo che questo vento abbia avvelenato molta parte di ciò che l’oriente voleva darvi: calore, ricchezza, colori, poemi, religiosità. Quando vedete la verde bandiera del profeta, voi non pensate a un campo verdeggiante d’estate, bensì a una grande onda verde dei mari glaciali, perchè vi sembra di vederla agitarsi sotto il soffio del vento dell’est. Quando leggete delle urì dalla faccia di luna, non pensate alle nostre lune tonde e gialle, ma alle vostre lune simili a palle di neve...

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A questo punto, una nuova voce si unì alla conversazione, colle seguenti parole:

— Perchè dovrei aspettare quel piccolo ebreo? Anche gli ebrei bevono i loro liquori, come noi beviamo i nostri. Per favore, signorina!

Colui che parlava, un imbianchino grande e grosso, volse intorno lo sguardo cercando la fanciulla alla quale si rivolgeva così cortesemente, e rimase attonito nel non vederla.

Ivywood fissò il nuovo venuto col suo solito sguardo da sfinge. Ma il signor segretario Leveson sembrava semplicemente pietrificato. Nel suo animo corse il ricordo di quella sera, quando egli e «La Nave» si erano dichiarati implacabili nemici; quando si era accorto che anche i poveri sono esseri umani e che in breve volger d’ora possono essere gentili e brutali. Vide che due altri uomini stavano dietro all’imbianchino, uno dei quali pareva lo consigliasse alla moderazione. E poi, alzando gli occhi, vide qualche cosa peggiore di qualsiasi segno di cattivo augurio.

Dietro alla porta a vetri del negozio si assiepava una folla che si distingueva malamente: la notte era calata, e i grandi globi elettrici color rubino ed ametista illuminavano scarsamente il negozio. Ma i più vicini schiacciavano, letteralmente, il naso contro i vetri e i più lontani erano ancora troppo poco distanti per il gusto del signor Leveson. E scorse anche un’ombra dritta e lunga, l’ombra di un bastone piantato nel terreno e di

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un’assicella quadrata. Non potè vedere che cosa ci fosse sull’assicella, ma non aveva bisogno di vedere.

Nell’osservare Lord Ivywood in tali momenti, si capiva perfettamente come mai fosse tanto celebre tra i suoi contemporanei, malgrado il suo volto impassibile e i suoi dogmi fantastici. Egli possedeva al massimo grado la così detta nobiltà negativa, e, a differenza di Nelson e di tanti altri grandi eroi, non conosceva paura. Non era possibile conquistarlo colla sorpresa: rimaneva calmo e raccolto anche quando gli altri perdevano la testa.

— Non vi nasconderò, signori – disse Ivywood – che mi aspettavo tutto ciò. E, quel che è più, vi dirò che ho cercato di impiegare il tempo in attesa che questo fatto si producesse. E vorrei consigliare al signor Crooke di fare entrare questa buona gente nel suo negozio. È mio desiderio di proclamare, il più presto possibile, al maggior numero di gente possibile, che la legge è stata modificata, e che queste sciocchezze a proposito de «L’osteria volante» sono finite. Entrate, o uomini! Entrate ed ascoltate!

— Grazie – disse un meccanico, nascondendosi dietro all’imbianchino.

— Grazie, signore – disse un piccolo orologiaio di Croydon, che lo seguì immediatamente.

— Grazie mille! – disse un impiegatuccio di Camberwell, prendendo posto tutto stupefatto, tra la folla ancora più stupefatta di lui.

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— Vi ringrazio – disse Dorian Wimpole, che entrò portando una forma di formaggio.

— Vi ringrazio – disse il Capitano Dalroy, che entrò portando un barilotto di rhum.

— Vi ringrazio infinitamente – disse il signor Humphrey Pump, che entrò portando l’insegna de «La Vecchia Nave».

Tutti quelli che seguirono espressero la loro gratitudine con simili parole. Ma, benchè la folla, ormai, riempisse quasi completamente il negozio, il signor Leveson continuava a fissare con gli occhi sbarrati, quasi impietrito dalla paura, perchè all’esterno la gente continuava ad affluire.

— Signori, – disse Ivywood – ogni scherzo ha una fine. Questo è durato anche troppo. E mi sarebbe forse stato impossibile correggere la pubblica opinione e spiegare ai cittadini ubbidienti alla legge il vero stato della legge, se non avessi avuto la fortuna di incontrare un’assemblea così numerosa in un posto così centrale. Non voglio dire quello che penso sulla buffonata che il Capitano Dalroy e i suoi amici hanno tirata in lungo per qualche settimana. Ma credo che il Capitano Dalroy capirà che non intendo scherzare.

— Di tutto cuore – rispose Dalroy in tono serio, e direi quasi triste. Poi aggiunse sospirando: – E temo proprio che il mio gioco sia ormai alla fine.

— Questa insegna di legno – continuò Ivywood – è buona solo per il fuoco. Non condurrà più gli onesti cittadini a pazze danze. Capitelo una volta per sempre,

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prima che le guardie e i secondini si incarichino di spiegarvelo. Voi siete ora sotto una nuova legge. Questa insegna non ha nessun significato e non dà il diritto nè di comperare nè di vendere bevande alcooliche.

— Volete forse dire, padrone – domandò l’imbianchino, con un lampo di intelligenza – che non potremo bere un buon bicchierino di amaro?

— Volete un bicchiere di rhum? – offrì Patrick.— Capitano Dalroy – esclamò Lord Ivywood – se

versate una sola goccia di liquido da quel bariletto, sarete considerato come violatore della legge, e questa notte dormirete in prigione!

— Ne siete ben sicuro? – domandò Dalroy, ansiosamente. – Potrei ancora scappare.

— Sicurissimo. Ho dato ordini tassativi alla polizia. Questo affare finirà qui, questa sera stessa.

— Se trovo quella guardia che mi ha detto che avrei potuto bere il mio bicchierino le torco il collo! – protestò l’imbianchino. – Ma perchè mai la gente non può conoscere la legge?

— Non dovrebbero cambiare le leggi così alla chetichella! – disse l’orologiaio. – All’inferno la nuova legge!

— E com’è la nuova legge? – chiese l’impiegatuccio.— Che non si possono vendere bevande alcooliche se

non dopo tre giorni dalla messa a posto dell’insegna – rispose Lord Ivywood colla fredda cortesia del conquistatore. – Capitano Dalroy, non credo che il

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vostro barilotto si trovi in questo negozio da tre giorni; vi ordino dunque di chiuderlo e di portarlo via.

— Mi pare che il meglio sarebbe di aspettare tre giorni – disse Patrick, con aria innocente. – Impareremo a conoscerci meglio. – E lanciò intorno una benevola occhiata.

— Spero che non farete ciò – disse Sua Eccellenza ferocemente.

— Forse, ora che ci penso, avete ragione – rispose Patrick indolentemente. – Berrò un buon bicchierino e andrò poi a letto, come un bravo ragazzo.

— E le guardie vi arresteranno! – tuonò Lord Ivywood.

— Ma mi pare che non vi vada a genio nulla – esclamò Dalroy tutto sorpreso. – Grazie, ad ogni modo, per aver spiegato la legge così chiaramente: «se non tre giorni dopo la messa a posto dell’insegna». Me ne ricorderò. Come spiegate bene! Avete fatto solo un piccolo sbaglio. Le guardie non mi arresteranno!

— E perchè no? – domandò il gentiluomo, pallido di rabbia.

— Perchè io non violo la legge – e la voce di Patrick Dalroy risuonò chiara e squillante. – Perchè le bevande alcooliche sono in questo negozio da tre giorni, da tre mesi per dire meglio. Perchè quell’uomo dietro al banco, Filippo Ivywood, vive vendendo liquori a tutti i codardi e gl’ipocriti abbastanza ricchi per corrompere un cattivo dottore.

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Indicò con un dito i bicchieri che stavano davanti a Hibbs e Leveson e domandò:

— Che cosa state bevendo?Hibbs allungò la mano per afferrare il bicchiere, ma

l’indignato orologiaio lo prese e lo tracannò di un fiato.— Buono! – disse.— Avete ragione – gridò l’imbianchino afferrando

una grande bottiglia da medicina. – Adesso sì che ci divertiremo. Che cosa c’è in quella boccia? Scommetto che è vino di Porto. Prendila, Bill!

Ivywood si volse verso Crooke e disse a denti stretti:— È una menzogna!— È la verità! – proclamò Crooke guardandolo fisso.

– Credete forse di poter rifare il mondo a vostro piacimento?

— Il mondo è fatto male – disse Filippo con strano accento. – Ed io lo voglio rifare.

Proprio mentre stava parlando, i vetri della porta caddero infranti: e i globi colorati si spezzarono, come se delle sfere di cristallo celeste cadessero in frantumi, alle sue bestemmie. E attraverso le finestre rotte venne il ruggito della folla, più terribile di ogni elemento, quel grido che per ultimo udirono i re noncuranti, la voce spaventosa del popolo. Flutti di vino rosso e dorato irrigavano il pavimento.

— Fuori! – urlò Dalroy precipitandosi fuori dal negozio coll’insegna in mano, mentre il cane Quoodle lo seguiva abbaiando; Dorian col formaggio, Hump col barilotto lo imitarono. – Buona notte, signori!

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Perhaps our meeting next may fallAt Tamworth, in your castle hall43.

— Avanti, amici. Non perdete tempo e non distruggete. Avanti!

— E dove andiamo? – domandò l’imbianchino.— Al parlamento – rispose il Capitano, mettendosi

alla testa della folla.La colonna attraversò due o tre strade, e finalmente

Dorian Wimpole vide di nuovo la grigia torre ciclopica di Santo Stefano, col suo grande occhio illuminato, come l’aveva vista nel pallido tramonto di quel giorno quando era stato tradito dal sonno e da un amico.

E alla testa della processione vedeva l’insegna colla nave e la croce, e udiva una voce cantare:

Men that are men again: Who goes home?Tocsin and trumpeter: Who goes home?The voice valedictory... Who is for Victory?Who is for Liberty? Who goes home?44

43 Forse il nostro prossimo incontro avrà luogo – a Tamworth, nel vestibolo del vostro castello.

44 Uomini che sono uomini di nuovo: Chi va a casa? – Campana d’allarme e trombettiere: chi va a casa? – La voce che dice addio... Chi è per la vittoria? – Chi è per la libertà? Chi va a casa?

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CAPITOLO XXIIILA MARCIA SU IVYWOOD

Il potente spirito della libertà, dopo aver vagato per alcuni secoli di paese in paese, era finalmente arrivato anche a Londra. È difficile, anzi impossibile, definire quale stato d’animo in quale preciso momento ci spinga ad affrontare il pericolo, piuttosto che a continuare a sopportare e a soffrire. La causa di questo cambiamento è generalmente artistica o simbolica, alcuni direbbero eccentrica. Basta che qualcuno spari un colpo di pistola o si mostri in pubblico in un’uniforme sconosciuta, o parli a destra e a manca di uno scandalo che i giornali non hanno menzionato, o si levi il cappello oppure non se lo levi, perchè l’intera città sia in rivoluzione. Quando la folla, dopo aver rotto i vetri di parecchi negozi del signor Crooke, si diresse verso il Parlamento, la Torre di Londra, e poi prese la via per il mare, i sociologi nascosti nelle loro cantine (per illuminarsi coll’oscurità) cercavano di spiegare in un modo o nell’altro questa improvvisa bufera scatenatasi in tanti animi umani; ma non riuscirono a scoprire il vero. Certamente era stata l’ubriachezza a spingere quegl’individui a proclamare come appartenenti a Bacco i boccali e le bocce di Esculapio; e molti di quelli che si

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riversarono per la strada cantando e schiamazzando avevano senza dubbio ingerito più vino del necessario. Eppure, la massima parte di quella gente si era già ubriacata molte altre volte, senza che venisse loro il più piccolo pensiero di ribellione. È più probabile che la rivolta fosse generata dall’indignazione contro la bassezza e la vigliaccheria dei ricchi patroni di Crooke, che tenevano per loro ciò che avevano impudentemente negato al misero popolo.

Dorian Wimpole si trovava alla coda della processione, che si ingrossava sempre più. Per un istante, aveva dovuto abbandonare i suoi compagni, a causa della straordinaria attività della sua forma di formaggio che, essendogli sfuggita di mano, aveva imboccato per suo conto una piccola viuzza che scendeva verso il fiume. Ma da qualche tempo in qua, Dorian Wimpole si divertiva immensamente d’ogni avventura. Trovò una carrozza libera, e con poca difficoltà raggiunse la coda dello strano corteo, dopo aver chiesto informazioni a una guardia che guardava con occhi sbarrati l’inusitato spettacolo. E non c’era da sbagliarsi, perchè alla testa camminava un gigante dai capelli rossi che teneva in mano un pezzo di legno appartenente, a quel che pareva, a qualche pubblico edificio. Ma l’aspetto generale della folla era molto cambiato; alcuni brandivano armi rustiche, arpioni, pali, zappe e badili; altri avevano fucili e marciavano compatti, con una certa disciplina; altri ancora avevano afferrato strumenti d’ogni genere: accette, martelli e

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persino coltellacci da macellaio. E queste armi, per essere sia casalinghe che da lavoro, non erano meno pericolose, essendo usate in molti assassini privati.

Dorian era riuscito a raggiungere il Capitano, e insieme guidava il corteo. Humphrey Pump camminava accanto a loro, col barilotto famoso sospeso al collo per mezzo di bretelle, come un tamburo. Il signor Wimpole aveva approfittato del suo breve allontanamento per munirsi di un piccolo sacco nel quale aveva riposto il suo bene amato formaggio, e lo portava sulle spalle. L’effetto, in tutti e due i casi, era di conferire alle loro persone una mostruosa deformità. Il Capitano, che sembrava di ottimo umore, si divertiva enormemente, a loro spese, e anche Dorian era allegro e felice.

— Che cosa avete fatto da quando avete perso la mia guida giudiziosa e assennata? – domandò ridendo. – E come mai alcuni sono così lugubri e altri vestiti in modo così strambo?

— Siamo andati a far spese – disse il signor Patrick Dalroy, con orgoglio. – veniamo dalla campagna, ma ce ne intendiamo. Guardate quei fucili! Li abbiamo avuti proprio a buon mercato dal migliore armaiolo di Londra. Veramente non abbiam pagato nemmeno un soldo. Un buon affare, vero? Poi siamo andati a una liquidazione. O, per meglio dire, la liquidazione è diventata tale dopo che noi ci siamo andati, e abbiamo comprato quel pezzo di stoffa che c’è intorno all’insegna. Credo che le signore lo chiamerebbero una guarnizione.

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Dorian alzò gli occhi, e vide un orribile pezzo di straccio rosso che sventolava come la bandiera rossa della rivoluzione.

— È vero che le signore lo chiamerebbero una guarnizione? – domandò il Capitano con ansietà. – I cenciaiuoli lo chiamerebbero forse uno straccio. Ora, siccome dovrò far visita a una signora, tra poco, bisogna che sappia bene la differenza.

— Avete finito le vostre spese? – domandò il signor Wimpole.

— Mi manca una cosa sola. Ho bisogno di trovare un negozio di musica. Sapete dove si vendono pianoforti e istrumenti di questo genere?

— Ma dico! – esclamò Dorian. – Questo formaggio è già abbastanza pesante. E dovrei portare anche un pianoforte?

— Voi non mi capite! – disse il Capitano, che non aveva mai pensato ai negozi di musica, prima di vederne uno. Vi entrò e ritornò subito dopo con un pacco sotto il braccio, e riprese la conversazione.

— E siete andati solamente nei negozi? – chiese Dorian.

— Solamente nei negozi? – esclamò Dalroy, indignato. – Mai più! Siamo andati prima al Parlamento; ma non c’era seduta, e non valeva la pena di starci. Poi siamo andati alla Torre di Londra e abbiamo portato via alcune cosette di acciaio e di ferro. Abbiamo preso anche le alabarde delle guardie, dette «mangiatori di manzo», dicendo che i coltelli e le forchette sono molto

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più comodi per mangiare il manzo. E per dire la verità, mi pare che fossero molto lieti di essere alleggeriti delle loro armi!

— E posso domandarvi dove intendete recarvi ora?— In un altro posto splendido. Voglio mostrare a

questi miei giovani amici una delle più belle ville antiche di Inghilterra. Andiamo a Ivywood, non lontano da Pebbleswick, il rinomato ritrovo estivo.

— Capisco – disse Dorian, e per la prima volta lanciò un’occhiata sulla folla che camminava dietro a loro.

— Capitano Dalroy – esclamò poi in tono leggermente alterato. – C’è una cosa che non capisco. Lord Ivywood ha detto di aver dato ordine alla polizia di arrestarci; è vero che ora marciamo in mezzo a tanta gente, ma non posso credere che la polizia non sarebbe capace di prenderci. Voi avete attraversato mezza Londra alla testa di gente munita di armi micidiali: perchè la polizia non vi ha fermato?

— Il vostro soggetto si divide in tre parti – rispose Patrick allegramente.

— Spero di no!— E vi sono appunto tre motivi per i quali la polizia

non compare in tutto questo affare. Primo: È un pezzo che siete assente dalla città, e forse non riconoscerete un poliziotto, se non lo vedeste. Non portano più elmetti, come usavano dopo la vittoria dei Prussiani; ma bensì dei fez, perchè i Turchi sono vittoriosi: e credo che porteranno dei codini perchè i cinesi hanno vinto. È un ramo, questo, molto interessante della scienza morale.

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Si chiama «Efficacia». In secondo luogo: voi forse non avete notato che un numero considerevole di quelli che portano il fez camminano dietro a noi. È proprio così! Non vi ricordate forse che la rivoluzione francese cominciò realmente perchè una specie di milizia cittadina si rifiutò di sparare sui propri genitori, sulle proprie mogli? e mostrò anche una certa inclinazione a sparare in direzione opposta? Ci sono parecchie guardie dietro a noi: si riconoscono facilmente dai loro cinturoni e dal modo di camminare; ma non guardateli troppo fisso: li rendereste nervosi!

— E la terza ragione? – domandò Dorian.— La vera ragione è che io non sto combattendo una

battaglia perduta. Ho notato qualche cosa di singolare in ciò che che mi dite. Perchè non ci sono le guardie? Perchè non ci sono i soldati? Ve lo dirò io. Perchè oggi in Inghilterra ci sono ben poche guardie, ben pochi soldati.

— È un’accusa inusitata, questa – osservò Dorian.— Ma giusta per uno che ha visto marinai e soldati.

Vi dirò la verità: i nostri governanti, oggi, calcolano sulla codardia di una massa di inglesi, come il cane da pastore calcola sulla codardia del gregge. E sentite, Wimpole: se le pecore sono buone, pochi cani sono necessari per custodirle. Ma supponete che le pecore si tramutino in lupi: sbranerebbero i cani. Ed ecco che arrivo alla conclusione: io asserisco che ci sono troppi pochi cani da sbranare.

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— Intendete dire che l’armata britannica è disorganizzata? – domandò Dorian.

— Ci sono le sentinelle alle porte di Whitehall – rispose Patrick, a bassa voce. – Ma la vostra questione mi mette in imbarazzo. No: l’armata non è disorganizzata. Ma l’armata britannica... Avete mai sentito parlare del grande destino dell’Impero?

— Mi pare di aver udito una frase simile.— È in quattro atti. Vittoria sui barbari – Impiego dei

barbari – Alleanza con i barbari – Conquista dei barbari. Ecco il grande destino dell’Impero!

— Credo di incominciare a capire. In realtà, Ivywood e gli altri capi sembrano inclini a fidarsi delle truppe indiane e maomettane.

— E anche delle altre truppe. Resterete meravigliato quando le vedrete – disse Patrick.

Camminò per un po’ in silenzio e poi domandò bruscamente:

— Conoscete l’individuo che vive ora nelle terre vicino a Ivywood?

— No – rispose Dorian. – Mi hanno detto che vi dimora molto.

— Già, rinchiuso nelle sue terre! – brontolò Patrick. – Se scalaste il muro di cinta del suo giardino, credo che trovereste la risposta a molte domande. Oh!gli stimatissimi signori stanno prendendo disposizioni per l’ordine pubblico e per la difesa nazionale!

Il Capitano ricadde in un assoluto mutismo mentre il corteo continuava la sua marcia nell’oscurità. L’alba li

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sorprese in una regione boscosa. Dalroy mandò una esclamazione di piacere, e indicò a Dorian qualche cosa in distanza. Contro il cielo limpido e rosato si delineava un’altura oscura circondata da verdi foglie: era il posto che avevano denominato il «Labirinto».

Il Capitano sembrò rasserenarsi a tale vista, e, come di consueto, sentì il bisogno di espandersi.

— Avete composto qualche poema, ultimamente? – domandò a Wimpole.

— Nulla di speciale – rispose il poeta.— Allora – disse Dalroy, schiarendosi la voce –

sentite la mia composizione. Non mi importa della vostra opinione; anzi, più vi dispiacerà e più la allungherò. Incomincio a capire perchè i soldati vogliono cantare marciando, e anche perchè le loro canzoni sono così brutte.

The Druids waved their golden knivesAnd danced around the OakWhen they had sacrificed a man;But though the learned search and scan,No single modern person canEntirely see the joke.But though they cut the throats of menThey cut not down the tree,And from the blood the saplings sprangOf oak-woods yet to be.

But Ivywood, Lord Ivywood,He rots the tree as ivy would,

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He clings and crawls as ivy wouldAbout the sacred tree.

King Charles he fied from Worcester fightAnd hid him in an oak;In convent schools no man of tactWould trace and praise his every act,Or argue that he was in factA strict and sainted bloke,But not by him the sacred woodsHave lost their fancies free,And though he was extremely bigHe did not break the tree.

But Ivywood, Lord Ivywood,He breaks the tree as ivy would,And eats the woods as ivy wouldBetween us and the sea.

Great Collingwood walked down the gladeAnd flung the acorns free,That oaks might still be in the groveAs oaken as the beams above,When the great Lover sailors loveWas kissed by Death at sea.But though for him the oak-trees fellTo build the oaken ships,The woodman worshipped what he smoteAnd honoured even the chips.

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But Ivywood, Lord Ivywood,He hates the tree as ivy would,As the dragon of the ivy wouldThat has us in his grips45.

45 I druidi brandivano i loro coltelli dorati – e danzavano intorno alla quercia, – quando avevano sacrificato un uomo. – Ma benchè il dotto cerchi ed esamini, – nessuna persona moderna può – capire bene la piacevolezza. – Ma benchè tagliassero le gole degli uomini, – essi non abbattevano l’albero, – e dal sangue germogliavano gli arboscelli – dei futuri querceti. – Ma Ivywood, Lord Ivywood, – corrompe l’albero, come lo corromperebbe l’edera. – Egli si attorciglia e si abbarbica come l’edera – intorno all’albero sacro.

Re Carlo fuggì dalla battaglia di Worcester – e si nascose in una quercia; – nelle scuole religiose nessun uomo di tatto – seguirebbe e loderebbe il suo atto, – o concluderebbe ch’egli era in realtà – sincero e cauto. – Ma non per colpa sua i sacri boschi – hanno perduto le loro fantasie, – e benchè egli fosse molto grande – egli non ruppe l’albero. – Ma Ivywood, Lord Ivywood, – rompe l’albero come lo romperebbe l’edera, – e guasta i boschi come l’edera – tra noi e il mare.

Il grande Collingwood camminò per la radura – e sparse liberamente le ghiande – affinchè le querce potessero ancora formare un boschetto – tutto di quercia come il timone delle navi, – quando la grande Amante che i marinai amano – fu baciata dalla morte in mare. – Ma benchè per colpa sua le querce cadessero – per costruire le navi di quercia, – il boscaiolo venerava ciò che abbatteva – e onorava anche le schegge. – Ma Ivywood, Lord Ivywood – odia l’albero come lo odierebbe l’edera, – come il drago dell’edera – che ci tiene nella sua stretta.

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Stavano salendo una ripida strada circondata da ambo i lati da fitti boschi, e, benchè l’alba li striasse d’oro e di porpora e li spazzasse col suo vento rapido e sibilante, gli alberi si mantenevano oscuri e la luce del sole non riusciva a passare attraverso il verde fogliame.

— Non mi meraviglierei – disse Dorian – se l’edera si accorgesse che l’albero sa anche lui due o tre cose.

— È proprio così – asserì il Capitano. – Il male era che fino a poco fa l’albero non sapeva di sapere.

Ci fu un istante di silenzio; la strada diventava sempre più ripida, e gli alti alberi, simili a grandi scudi di giganti, sembravano custodire qualche cosa di misterioso nella loro oscurità.

— Vi ricordate questa strada, Pump? – domandò Dalroy.

— Sì – si limitò a rispondere Humphrey Pump; ma la sua voce era piena di significato.

Camminarono ancora per circa due ore, poi, verso le undici, Dalroy comandò una sosta e consigliò una breve dormitina. Benchè l’ora non fosse molto indicata, l’impenetrabilità del bosco e la relativa morbidezza del suolo cosparso di foglie conciliava il sonno. E coloro che credessero che una moltitudine raccolta così per la strada non potesse seguire un simile capo in un simile luogo, dimostrerebbero di non sapere la storia.

— Temo – disse Dalroy – che non potrete far colazione. Conosco un bellissimo posto per far colazione, ma è troppo esposto per dormire. E avete ora più bisogno di dormire, che di mangiare: lasciamo stare

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quindi le nostre provviste. Corichiamoci come i bimbi nel bosco, e dò piena libertà agli uccelli di coprirmi di foglie. Per bene affrontare quello che ci aspetta è meglio riposare.

Ripresero la marcia verso la metà del pomeriggio e fecero la loro prima colazione, come si ostinava a dire Dalroy, a quell’ora quando le signore non possono fare a meno del thè. La strada era diventata così ripida che Patrick si sentì in dovere di dire a Dorian Wimpole:

— Non lasciate cadere il vostro formaggio, altrimenti rotolerà giù fino in fondo. Ve lo posso assicurare senza bisogno di calcolare gli angoli e i gradi. Perchè l’ho provato io stesso.

Wimpole si accorse che avevano quasi raggiunto la sommità di un’altura; e dopo pochi minuti vide ciò che gli alberi avevano fino ad allora nascosto.

Il sentiero che avevano seguito era parallelo al mare. La spianata che avevano raggiunto sporgeva in fuori sulla spiaggia, e la sua unica vegetazione consisteva in alcuni alberi di mele nani, i cui frutti sono così cattivi ed acidi che non si possono mangiare.

— Ecco dove faremo colazione – disse Dalroy. – È il migliore albergo d’Inghilterra; ed ecco qui il fornitore – aggiunse presentando Humphrey.

Alcuni si misero a ridere; ma si frenarono subito quando videro Dalroy piantare eretta l’insegna de «La Vecchia Nave» sulla deserta spianata.

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— Ed ora voi avete in custodia le provvigioni, Hump. Avanti. Pranzeremo qui, come dice quella canzone che vi ho cantato una volta:

«The Saracen’s Head» out of Araby came,King Richard riding in arms like flame.And where he established his folk to be fedHe set up his spear, and «The Saracen’s Head» [?]46

Era quasi sera, quando la folla ingrossata da alcuni malcontenti del territorio di Ivywood raggiunse i cancelli del castello di Ivywood. Strategicamente e col proposito di una sorpresa notturna, non si potevano predisporre meglio le cose. Ma il Capitano usò di questo vantaggio in un modo molto eccentrico. Dispose ordinatamente le sue forze, comandò a loro silenzio, poi si volse verso Hump e disse:

— Ed ora, prima di incominciare, farò un po’ di rumore.

Ed estrasse dal pacco, che aveva portato con sè, uno strumento musicale.

— Un invito a parlamentare? – domandò Dorian con interesse; – una tromba di sfida, o qualche cosa del genere?

— No, – rispose Patrick – una serenata!

46 «La Testa del Saraceno» venne fuori dall’Arabia, – re Riccardo cavalcante in armi simili a fiamma; – e dove egli pose la sua gente per esser nutrita – egli pose la sua spada e «La Testa del Saraceno».

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CAPITOLO XXIVGLI ENIGMI DI LADY GIOVANNA

La sera, quando il cielo era limpido, e il tramonto mandava i suoi bagliori rossastri ad incendiare la terra, Lady Giovanna passeggiava d’abitudine nella parte dei magnifici giardini di Ivywood in compagnia dei superbi pavoni. Ed anch’essa assomigliava ad un pavone sia in bellezza che in inutilità; portava il capo eretto orgogliosamente; aveva il portamento maestoso, e in quei giorni aveva anche voglia di gridare, di urlare. Era stanca della quiete che la circondava, e a quel silenzio, a quella pace uniforme avrebbe preferito il rumore, il frastuono. Le pareva che quelle siepi di tasso, quegli alti muri la rinchiudessero, la separassero completamente dal mondo esterno: che il mare che vedeva dalle finestre della torre, andasse sempre più allontanandosi. La cinta, alla fine della torre fatta di legno lavorato, orientale, simbolizzava le sue sensazioni vaghe ed indistinte. Nella sua fanciullezza l’ala della torre terminava con una porta scardinata ed una scala fuori d’uso che conduceva ad un piccolo bosco ceduo, incolto, e a una galleria ferroviaria abbandonata. La fanciulla non vi si recava mai; essa almeno sapeva che cosa ci fosse al di là della porta scardinata e della scala fuori d’uso. Ora quel

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pezzo di terreno era stato venduto ed unito alla proprietà vicina, e non si sapeva nulla di più. La fantasia di Lady Giovanna lavorava ma non scopriva niente di nuovo. Il nuovo vicino era un vecchio che preferiva vivere nella più stretta solitudine. La signorina Browning, la segretaria di Lord Ivywood, l’aveva informata che quel signore veniva dalle coste del Mediterraneo: ma a tale stregua poteva benissimo essere un americano che viveva a Venezia, oppure un Africano che veniva dalle rive dell’Atlante. Lady Giovanna vedeva qualche volta i servi in livrea, ma le loro livree non avevano nulla di inglese. Un’altra cosa che la preoccupava era il fatto che la milizia di Pebbleswick aveva cambiato la sua uniforme, influenzata in ciò dal prestigio che i Turchi avevano ottenuto nell’ultima guerra. Invece dei consueti elmetti, ora vi erano dei fez simili a quelli degli Zuavi francesi, certamente molto più pratici. Era una piccolezza che non andava a genio a Lady Giovanna, astuta e conservatrice. Le pareva quasi che il mondo al di là di Ivywood dovesse cambiarsi senza che ella ne fosse informata.

Ma altri motivi d’ordine più intimo e più spirituale la angustiavano, mentre, dietro espresso desiderio della vecchia Lady Ivywood e di sua madre malaticcia, essa prolungava il suo soggiorno al castello di Ivywood. Per dire le cose nude e crude, Lady Giovanna cercava di amare un uomo. Ma, per onor del vero, noi dobbiamo asserire che durante alcuni giorni quell’uomo le era realmente piaciuto. Le era piaciuto quando, dopo la

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schioppettata di Pump si era mantenuto freddo e impassibile; le era piaciuto quando aveva ammirabilmente sopportato il dolore acuto della ferita; le era piaciuto quando non aveva dimostrato alcun rancore contro l’irato Dalroy; e più ancora, quando, appoggiandosi ad una rozza gruccia, malgrado ogni supplica, era partito improvvisamente per Londra. Ma non le era mai piaciuto tanto come quella sera quando, a stento, la raggiunse nella parte alta del giardino e le parlò, mentre se ne stava in mezzo ai pavoni. Cercò distrattamente di accarezzare un pavone, come se fosse stato un cagnolino. Le disse che questi magnifici uccelli erano stati importati dall’oriente, o più precisamente dall’impero semi-orientale della Macedonia. Ma Lady Giovanna ebbe l’impressione che fino a quel momento egli non si fosse mai accorto della presenza dei pavoni a Ivywood. Il suo difetto capitale era il suo profondo orgoglio nella perfezione della sua forza mentale e morale; ma la giovane donna si sentiva attirata da qualche cosa leggermente comica che c’era nella parte incosciente di lui.

— Dicono che questi sono gli uccelli di Giunone – osservò Ivywood. – Ma non credo che Giunone, come gran parte della mitologia omerica, abbia origine asiatica.

— Ho sempre pensato – disse Giovanna – che Giunone fosse troppo maestosa per il serraglio.

— Voi dovete certamente saperlo – replicò Ivywood cortesemente – perchè non ho mai visto nessuno più

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somigliante a Giunone di voi. Ma c’è un’interpretazione erronea sull’opinione che gli arabi o gli indiani hanno della donna. È a volte troppo semplice e solida, perchè noi cristiani, paradossali, possiamo comprenderla. Anche l’idea che i turchi preferiscano le mogli grasse ha in sè qualche cosa di più elevato. Essi non guardano all’individuo, ma bensì alla donna in sè, e al potere della natura.

— Io a volte credo – disse Giovanna – che queste teorie siano un po’ stiracchiate. Il vostro amico Misysra mi disse l’altro giorno che le donne in Turchia hanno la massima libertà, perchè possono indossare i pantaloni.

Ivywood sorrise:— Il profeta ha a volte la semplicità dei geni – disse.

– Non nego che alcune delle sue tesi mi siano sembrate rozze e anche fantastiche. Ma, in fondo, ha ragione. C’è una specie di libertà, che consiste nel non ribellarsi contro la natura; e io credo che gli orientali capiscano questa libertà meglio di noi occidentali. Vedete, Giovanna, è bello parlare d’amore, in tono romantico, personale, come noi facciamo d’abitudine; ma c’è qualche cosa più grande dell’amore di un amante o dell’amore dell’amore!

— Ed è? – domandò Giovanna chinando gli occhi.— L’amore del fato, del destino! – rispose Lord

Ivywood, mentre gli occhi gli si illuminavano di una passione spirituale. – Non dice forse Nietzsche che il gaudio nel destino è il segno dell’eroe? Noi sbagliamo se crediamo che gli eroi e i santi dell’Islam dicono

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«Kismet» a capo basso e pieni di dolore. Essi dicono «Kismet» con un urlo di gioia. Ciò che deve accadere accadrà. Nelle leggende arabe il bel principe sposa la bella principessa... perchè così deve essere. I giganti, i geni compiono le loro opere meravigliose per volere della natura. Nei nostri romanzi europei, sentimentali, la più bella principessa della terra fugge col suo maestro di pittura. Ma queste cose non sono, non posson essere segnate dal destino. Il turco parte per sposare la più bella regina della terra; e per fare ciò combatte, conquista imperi, e non ha vergogna dei suoi allori.

Le nuvolette si tramutavano, dal rosso ardente, in viola pallido: i pavoni sembravano più belli e più maestosi di prima; e per la prima volta Lady Giovanna sentì che i magnifici uccelli provenivano dalle terre delle «Mille e una notte».

— Giovanna – sussurrò Filippo Ivywood, nel crepuscolo, – io non ho vergogna dei miei allori. Io non comprendo ciò che i cristiani chiamano umiltà. Se lo potrò, diventerò il più grande uomo della terra: e credo che lo potrò. Qualche cosa che è più alto dell’amore stesso, il destino, decreta che io debba sposare la più bella donna del mondo. Essa se ne sta ora in mezzo ai pavoni, ed è più maestosa e più superba di essi.

Gli occhi turbati di Lady Giovanna fissarono il lontano orizzonte, e le sue labbra proferirono alcune parole indistinte.

— Giovanna – continuò Filippo – vi ho detto che siete la donna che uno dei più grandi eroi avrebbe

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potuto desiderare. Lasciate ora che vi dica una cosa che avrei taciuto per sempre, se non vi avessi parlato d’amore e di fidanzamento. Quando avevo venti anni, in una città della Germania dove studiavo, mi innamorai, come dicono i popoli dell’occidente. Era la figlia di un pescatore. La mia storia avrebbe potuto finir qui, perchè, con una simile moglie, non sarei mai entrato in diplomazia. Ma qualche tempo dopo mi recai nelle Fiandre ed ammirai il Reno. E capitarono delle cose, senza le quali ora forse non sarei altro che un venditore di pesce. Ammirai la forza e la potenza di quel fiume che invece di perdersi e di morire tra i dirupi della Svizzera, o tra le lande fiorite dei paesi renani, trova ancora il vigore sufficiente per arrivare fino al mare: la sua mèta.

Giovanna non parlò, e Filippo riprese:— E c’è un’altra cosa che non si può dire fino a

quando il principe non ha offerto la sua mano alla principessa. Forse in Oriente combinano troppo spensieratamente i matrimoni tra fanciulli. Ma, osservate, quante unioni male assortite, cadono infrante oggigiorno. I giornali protestano contro i matrimoni reali che avvengono per combinazione, per ragione di Stato, e non per amore. Ma nè voi nè io crediamo ai giornali. Non c’è più re in Inghilterra, da quando la sua testa cadde sul palco funebre a Whitehall. Voi, io, le nostre famiglie, siamo i veri re dell’Inghilterra: e i nostri matrimoni sono matrimoni reali. Lasciate che il volgo li chiami senza cuore. Noi sappiamo che per compierli

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occorre quel cuore forte e coraggioso che è proprio dell’aristocrazia. Giovanna, – disse gentilmente – forse siete stata accanto a un dirupo della Svizzera o a una landa fiorita. Forse avete conosciuto... il figlio di un pescatore. Ma c’è qualche cosa di più grande e di più semplice; qualche cosa che voi troverete nelle grandiose leggende dell’Est... la bella donna, l’uomo illustre, il destino!

— Mio signore, – rispose Giovanna, usando istintivamente l’antica formula – concedetemi di pensare un po’ a tutto ciò, e che non ci sia tra noi idea di slealtà, qualunque sia la mia decisione.

— Certamente – acconsentì Ivywood, inchinandosi sulla sua gruccia, e si allontanò tra i pavoni.

Nei giorni seguenti Giovanna cercò di costruire le basi del suo destino terreno. Era ancora molto giovane, ma le pareva di aver vissuto anni ed anni, ossessionata da tale idea. Si ripeteva continuamente che altre donne più buone, più brave, più belle di lei si erano accontentate di prendere dei mariti assai peggiori di Lord Ivywood. Ma c’era qualche cosa di più complicato ancora. Le piaceva ascoltare Filippo Ivywood, come si ascolta volentieri un uomo che suona bene il violino. Ma il brutto si è che in certi momenti non si capisce più se si preferisce l’uomo al violino, o il violino all’uomo.

Inoltre c’era qualche cosa nella famiglia Ivywood, specialmente dopo la ferita e la convalescenza di Filippo, che la seccava; qualche cosa di glorioso sì, ma di terribilmente languido. Sentiva il bisogno di parlare

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con un essere femminile intelligente e delicato, e si rivolse alla signorina Browning.

Ma anche la signorina Browning, con i suoi capelli rossi e il viso pallido ed impassibile, aveva anche lei quel certo non so che. Per lei, Lord Ivywood era tutto, era l’essere superiore, e parlando di lui diceva sempre «Egli».

— Noi non possiamo intralciare la sua carriera che è la cosa più importante. E più restiamo silenziose e quiete e meglio sarà. Credo che stia maturando grandi cose. Avete udito ciò che disse il profeta l’altra sera?

— L’ultima cosa che il profeta mi disse – rispose Lady Giovanna di cattivo umore – fu, che quando noi inglesi vediamo un giovanotto inglese esclamiamo: «È crescente!». Ma quando vediamo un inglese vecchio, esclamiamo: «È una croce!». In poche parole: il primo è crescente come una mezzaluna, e quindi simpatico, il secondo è una croce, e quindi odioso.

La signorina Browning fece un risolino, poi riprese:— Il profeta disse che ogni vero amore ha in sè

l’elemento del destino. Gli uomini si radunano intorno ad un piccolo centro, come le stelle minori intorno a un pianeta, perchè il pianeta è una calamita. Non si può sbagliare quando il destino ci sospinge e soffia dietro a noi come un vento forte e violento: e credo che si giudicano male molte cose. Va bene parlare dei matrimoni tra fanciulli che si celebrano in India...

— Vi interessano tali matrimoni? – interruppe Giovanna.

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— Ecco...— E vostra sorella se ne occupa? Andrò a

domandarglielo – e Giovanna si diresse verso la signora Mackintosh, che stava scrivendo alcune note.

— Credo che il metodo indiano sia il migliore – disse la signora Mackintosh sollevando il volto assai più bello di quello della sorella, ma circondato ugualmente da capelli rossi. – Quando i giovani son lasciati a loro stessi, non si sa mai dove possano finire. Noi stesse avremmo potuto sposare un negro o un criminale.

— Su via, signora Mackintosh, ora scherzate – disse Giovanna corrugando la fronte. – Ma dov’è Enid? – domandò bruscamente.

— Lady Enid si trova nella sala di musica – rispose la signorina Browning.

Giovanna attraversò parecchi saloni e trovò la sua pallida e bionda cugina seduta al pianoforte.

— Enid, – esclamò – sapete che io vi ho sempre voluto bene. Ma per amor di Dio ditemi che cosa succede in questa casa. Io ammiro Filippo come tutti lo ammirano. Ma, ditemi: perchè le stanze e i giardini sembrano opprimermi? perchè le cose hanno tutte lo stesso aspetto? perchè tutti dicono sempre le stesse cose? C’è un motivo, un significato in tutto questo. E non so quale sia!

Lady Enid Wimpole fece alcuni arpeggi, poi rispose:— E neppure io, ve l’assicuro! Capisco benissimo ciò

che volete dire. Ma è proprio a causa di questo motivo, di questo significato, che ho fede in lui. – Incominciò le

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prime battute di una ballata dei paesi renani, e forse la musica le suggerì il seguente commento: – Immaginate di essere là dove il Reno sfocia...

— Enid, – gridò Giovanna – se dite nel mare del Nord, urlerò, mi capite, urlerò più forte dei pavoni.

— Eppure – protestò Lady Enid, meravigliata – il Reno sfocia proprio nel mare del Nord.

— Lo so, ma non vi sarebbe importato nulla, anche se fosse finito per esempio in uno stagno, prima che...

— Prima che? – domandò Enid interrompendo di suonare.

— Prima che succedesse qualche cosa che non riesco a capire – rispose Giovanna, andandosene.

— Siete voi che non riesco a capire – disse Enid Wimpole. – Ma suonerò qualche altra cosa se questo non vi piace.

E ricominciò a suonare.Giovanna ritornò nella stanza delle due segretarie.— Ebbene, – domandò la rossa signora Mackintosh,

senza alzare gli occhi, – avete scoperto qualche cosa?Per qualche minuto Giovanna rimase assorta, più

cupa che mai, nei suoi pensieri, poi rispose in tono calmo e cordiale, perfettamente in contrasto con la sua fronte corrugata:

— No, davvero; ma per lo meno ho scoperto due cose che mi riguardano. Prima di tutto che mi piace l’eroismo, e, in secondo luogo, che non posso soffrire il culto degli eroi.

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— Eppure – osservò la signorina Browning – sono due cose che dipendono l’una dall’altra.

— Spero di no.— Ma che cosa si può fare di un eroe, se non

adorarlo? – domandò la signora Mackintosh.— Crocifiggerlo! – esclamò Giovanna alzandosi dalla

seggiola. – E allora sì che succede qualche cosa.— Siete forse stanca? – chiese la signorina Browning.— Sì, sono stanca, e non so di che cosa. Ma, per dirvi

la verità, credo di essere stanca di questa casa.— È certamente un vecchio castello, ma è stato molto

rimodernato. Per esempio, quella decorazione con la luna e con le stelle, è realmente...

Lontano, nella sala di musica, Lady Enid aveva cominciato il preludio del suo pezzo preferito. All’udire le prime note, Giovanna Brett si alzò di scatto.

— Ecco – esclamò con voce rauca. – Ha trovato il tono giusto, ora!

— Che tono? – domandò la segretaria meravigliata.— Il tono dell’arpa, della sambuca, del salterio, del

timpano, di tutti gli strumenti musicali quando noi ci inginocchieremo e adoreremo l’idolo dorato che il re Nabucodonosor ha innalzato! Ragazze! Donne! Sapete che luogo è questo? Sapete perchè ci sono porte sopra porte? graticci dietro graticci? sapete perchè tutto è nascosto e velato? perchè i fiori che sono qui così fragranti non sono i fiori delle nostre colline?

Da lontano veniva chiaro e limpido il canto di Enid Wimpole:

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Less than the dust beneath thy chariot wheel.Less than the rust that never stained thy sword47.

— Sapete che cosa siamo noi? – domandò di nuovo Giovanna Brett. – Noi siamo un harem!

— Che cosa volete dire? – esclamò la zitella, in preda ad una grande agitazione. – Lord Ivywood non ha mai...

— Lo so che non ha mai... – rispose Giovanna – ma non son sicura se non sarebbe mai... Non riuscirò mai a capirlo, e nessuno lo capirà. Ma vi dico che questo è lo spirito. Ecco ciò che noi siamo! ecco perchè questa stanza odora non solo di gigli, ma di poligamia.

— Oh Giovanna! – disse Lady Enid, entrando silenziosamente nella stanza. – Che cosa avete? Siete pallida!

Giovanna non si curò di lei, ma continuò:— Una sola cosa sappiamo di lui, ed è che egli

sostiene che le cose si debbono fare lentamente. Egli chiama ciò evoluzione, relatività, lo svolgersi di una idea in idee più ampie. Chissà se egli non vuole abituarci lentamente, tuffarci in questa atmosfera, prima di introdurre... l’istituzione – e la fanciulla rabbrividì. – Tutti i progetti di Ivywood hanno qualche cosa di spregevole in sè. Che cosa ne dite di un indiano comandante in capo, di un Misysra predicatore nell’Abbazia di Westminster, della distruzione di tutte le osterie di Inghilterra? Ma io non voglio aspettare e

47 Meno della polvere sotto le ruote del tuo carro, – meno della ruggine che mai macchiò la tua spada.

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svilupparmi. Io non voglio essere sviluppata! Io non voglio trasformarmi in qualche cosa che non sia il mio io. O riuscirò ad andarmene, o griderò come se fossi spersa tra i dirupi di un’alta montagna.

Giovanna attraversò la stanza per ritirarsi nella solitudine della torre; ma nel passare davanti alla tappezzeria astronomica, Enid la vide colpire il muro con il pugno chiuso.

Fu là, nella vecchia torre che successe un fatto strano. Giovanna pensava in che modo avrebbe potuto spiegarsi con Filippo, al suo ritorno da Londra. Dire alla vecchia Lady Ivywood ciò che succedeva allora nel suo animo sarebbe stata una crudeltà. La serata era limpida e serena, e una grande pace regnava all’intorno. Ad un tratto essa udì del brusìo, e il rumore soffocato di molti passi. Poi il silenzio si ristabilì, ma venne rotto di nuovo da una voce potente che cantava nell’oscurità, accompagnata da deboli suoni, simili a quelli del liuto e della viola.

Lady, the light is dying in the skies,Lady, and let us die when honour dies;Your dear, dropped glove was like a gauntlet flungWhen you and I were young,For something more than splendour stood;And ease was not the only good,About the woods in Ivywood,When you and I were young.Lady, the stars are falling pale. and small,

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Lady, we will not live if life be all,Forgetting those good stars in heaven hung,When all the world was young;For more than gold was in a ring,And love was not a little thing,Between the trees in Ivywood,When all the world was young48.

La canzone cessò; il rumore nei cespugli era debolissimo, ma da ogni parte del castello si sentivano suoni e strepiti. Pareva che la notte fosse viva. Giovanna udì un grido dietro a lei, e Enid si precipitò nella stanza, pallida come un giglio.

— Che cosa succede? – esclamò. – La corte è piena di uomini che scherzano, e ci sono torce dappertutto e...

Giovanna sentì il rumore di gente in marcia, e lontano lontano l’eco di una canzone.

48 Signora, la luce svanisce nei cieli, – signora, è meglio morire quando muore l’onore; – il vostro caro guanto caduto fu come un guanto di sfida gettato – quando voi ed io eravamo giovani. – Perchè qualche cosa più dello splendore sussisteva: – e la quiete non era il solo bene – nei boschi di Ivywood, – quando voi ed io eravamo giovani.

Signora, le stelle diventano pallide e piccole, – signora, noi non vivremo se la vita è tutto, – dimenticando quelle care stelle appese nel cielo, – quando tutto il mondo era giovane; – perchè più che oro c’era in un anello, – e l’amore non era una piccolezza – tra gli alberi di Ivywood – quando tutto il mondo era giovane.

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But Ivywood, Lord Ivywood,He rots the tree as ivy would49.

— Credo che sia la fine del mondo – disse.— Ma dov’è la polizia? – piagnucolò sua cugina. –

Da quando hanno quei fez, le guardie non si fanno più vedere. Potremmo essere assassinate e...

Tre colpi rimbombanti risuonarono contro la parete decorata in legno della stanza, come se un gigante domandasse il permesso di entrare. Enid si ricordò che il piccolo pugno di Giovanna le era sembrato così energico, e rabbrividì. Le due fanciulle fissarono le stelle, le lune e i soli e tremavano sotto i colpi del destino.

Poi il sole cadde dal cielo, la luna e le stelle si sparpagliarono sul tappeto persiano, e dall’apertura comparve Patrick Dalroy, portando un mandolino.

49 Ma Ivywood, Lord Ivywood – corrompe l’albero come lo corromperebbe l’edera.

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CAPITOLO XXVIL SUPERUOMO

— Vi ho riportato un cagnolino – disse Dalroy introducendo Quoodle. – L’ho portato fin qui, in un gran paniere colla scritta «Esplosivi».

Si inchinò davanti a Lady Enid, e strinse la mano di Giovanna. Poi riprese il suo discorso sui cani:

— Coloro che riportano cani smarriti, sono sempre sospettati. Alcuni vengono confusi con quelli stessi che magari rubarono il cane. Ma questo non è certamente il caso mio. Altri invece – e fissò gli occhi su Giovanna – vengono accusati di volere una ricompensa. E per quel che mi riguarda, questa seconda ipotesi è forse vera. – Poi, cambiando improvvisamente tono e maniera, prese di nuovo la mano della fanciulla, la baciò e disse seriamente:

— So almeno che pregherete per la mia anima!— Fareste meglio a pregare per la mia, se ne avessi

una; – riprese Giovanna – ma perchè ora?— Perchè – disse Patrick – voi potete udire, e anche

vedere dalla finestra di questa torre qualche cosa che non è mai più successa in Inghilterra, da quando cadde l’armata del povero Monmouth. Anzi, si può dire, da quando Saladino e Riccardo Cuor di Leone lottarono

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insieme. Una sola cosa vi voglio dire: e voi la conoscete già. Ho vissuto amandovi e morirò amandovi. Solamente, nel campo dell’amore, io non mi sono smarrito, io non mi sono lasciato fuorviare. Vi lascio il cane per custodia. – E scomparve giù per la scala fuori di uso.

Lady Enid si meravigliò che gli assalitori non approfittassero di quella via. Ma Lady Giovanna aveva compreso. Avvicinatasi alla finestra, aveva diretto lo sguardo verso il piccolo bosco ceduo e la galleria che erano state circondate da alte mura, come proprietà del misterioso vicino. La fanciulla non poteva più veder nulla, ma si era accorta subito che Dalroy non dirigeva le sue forze contro Ivywood, ma bensì contro la casa e i terreni confinanti.

Ciò che essa vide di poi, la fanciulla non potè descriverlo mai, e come lei, non poterono anche coloro che presero parte attiva alla cosa. Giovanna aveva visto una volta una immensa ondata spazzare tutto il litorale di Pebbleswick: ma non aveva idea di ciò che possono fare gli uomini. La palizzata costruita dal nuovo padrone le era sempre parsa solida ed imbattibile. Sotto l’urto dei corpi umani pieni di rabbia e di furore, cadde al suolo spezzata, infranta in mille pezzi: ed al di là, Giovanna vide qualche cosa che le diede l’impressione di vivere in un altro mondo, in un’altra epoca. Pareva un sogno, ed era invece realtà. Oltre la barriera abbattuta, c’era una fila di soldati: ma sembravano legionari di Annibale o di Attila; soldati riesumati dagli antichi

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cimiteri di Sidone e di Babilonia. Là, nei prati di Inghilterra, tra le siepi di biancospino e i faggi, c’erano coloro che non si erano mai più visti da quando, in Francia, Carlo Martello li aveva sconfitti a Poitiers. Là ondeggiava il verde stendardo di quella fede, di quella civiltà che tante volte tentò di invadere le grandi città occidentali; che assediò Vienna lungamente; che a mala pena fu esclusa da Parigi, ma che non era mai stata vista in armi sul suolo inglese. A una estremità della schiera, stava Filippo Ivywood, in un’uniforme di sua invenzione, qualche cosa tra l’uniforme indiana e quella turca. Questa via di mezzo influenzò sempre di più l’animo di Giovanna. Le pareva che l’Inghilterra avesse conquistato l’India, e che la Turchia avesse conquistato l’Inghilterra. Poi si accorse che Ivywood, malgrado la sua grande uniforme, non era il capo di quella schiera. Un vecchio, dal volto deturpato da una cicatrice, e che era evidentemente europeo, si mise in testa a tutti, e, come nelle antiche epopee, incrociò la sua spada con Patrick Dalroy. Voleva restituire la cicatrice che aveva sul viso, e colpì a varie riprese l’avversario; ma alla fine cadde morente al suolo. Dalroy lo guardò con un sentimento più grande ancora della pietà, e, mentre il sangue gli scorreva dal braccio e dalla fronte, salutò il caduto colla spada. L’uomo battè debolmente le palpebre e, quasi indovinando per istinto i punti cardinali del cielo, Oman Pascià si volse a fatica a sinistra, e morì col volto verso La Mecca.

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Dopo ciò, Lady Giovanna non comprese più se ciò che accadeva fosse storia o profezia. Gli inglesi, spinti dal furore dell’idea di essere vinti nei campi inglesi da quei soldati olivastri, diventarono leoni. Le siepi di biancospino vennero abbattute come nella battaglia di Ashdown, quando Alfredo condusse le sue schiere contro i danesi; i rami dei faggi si tinsero di sangue pagano e cristiano. E la fine venne quando Humphrey, al comando dei suoi uomini, attraverso la galleria abbandonata, prese alle spalle il reggimento turco.

La visione terribile e atroce era superiore ad ogni orecchio e voce umana. Giovanna non poteva nemmeno udire gli ultimi colpi e le ultime grida dei combattenti. Non sentì dunque neppure le parole che Lord Ivywood rivolse al suo vicino, un ufficiale turco, o, per meglio dire, a se stesso:

— Sono andato dove Dio stesso non ha mai osato di andare. Sono al di sopra di quegli stupidi superuomini, come essi sono al di sopra dei semplici uomini. Io cammino là dove gli uomini non hanno mai camminato prima di me; sono solo nel giardino. Ma io coglierò il fiore, io avrò ciò che...

Tacque bruscamente, e l’ufficiale si volse verso di lui, come aspettando che parlasse. Ma Lord Ivywood non parlò.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Patrick e Giovanna, vagando insieme, ora, in un mondo bello e splendente, come non lo è e non lo sarà mai per coloro che chiamano il coraggio pazzia, e l’amore superstizione; amando la natura e vedendo in ogni pianta, in ogni fiore, un amico, si recarono, un giorno, alla casetta bianca che era ora la dimora del Superuomo.

Se ne stava seduto calmo e placido davanti a un rozzo tavolo, giocando con dei bastoncini e dei fili di erba. Non si curò nè di loro, nè di Enid Wimpole che lo curava.

— È felice! – disse questa.Giovanna, col volto raggiante; non potè trattenersi dal

rispondere.— E anche noi siamo tanto felici!— Sì, – disse Enid – ma la sua felicità sarà eterna! –

E pianse.— Capisco – sussurrò Giovanna, e baciò la cugina,

cogli occhi pieni di lagrime: ma erano lagrime di pietà, non di paura.

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