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Questioni – Medicina, cura, normatività «Lessico di etica pubblica», 1 (2015) – ISSN 2039-2206 24 Il giudizio di necessità in medicina e in sanità nel tempo dei conflitti Ivan Cavicchi 1. La necessità quale principio regolatore Due sono i principali principi regolatori dell’agire professionale: ciò che è necessario al malato è vero perché non può essere altro, per cui il necessario per l’operatore è a un tempo una verità scientifica, un obbligo morale e un condizionale pragmatico; ciò che è necessario è sempre orientato a un fine di cura; quello che conta è la sua soddisfazione. La sua soddisfazione è prevalentemente una necessità etica; Oggi, ma già da molti anni, tali principi, soprattutto per i medici – da sempre i titolari assoluti sulle necessità del malato – non sono più così prescrittivi e questo per almeno cinque ragioni: La necessità di cura in questi ultimi decenni è stata reinterpretata in molti modi: si pensi alla complessa questione dell’appropriatezza, della razionalizzazione delle cure, della selettività dell’accesso, ecc.; Il fine della cura, perseguito da sempre dalle professioni sanitarie, ha perso il suo carattere apodittico, dovendo essere compatibile con i limiti di risorse e con tante altre cose, compreso l’opinione del malato o – meglio – le trasformazioni socio-culturali che hanno interessato la figura tradizionale del paziente; Il medico, in particolare, non è più il solo a giudicare sullo stato di necessità dal momento che da una parte i soggetti gestionali e tecnocratici ma anche altre professioni, e dall’altra numerosi soggetti sociali hanno cambiato l’interpretazione delle “occorrenze”, cioè quello che deve essere, che va fatto o che obbligatoriamente accompagna un qualche concetto di cura; La tendenza da tempo è di predefinire le necessità in procedure ante oculus, cioè standardizzare il giudizio clinico per ragioni di affidabilità, ma anche le

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Questioni – Medicina, cura, normatività

«Lessico di etica pubblica», 1 (2015) – ISSN 2039-2206

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Il giudizio di necessità in medicina e in sanità nel tempo dei conflitti

Ivan Cavicchi

1. La necessità quale principio regolatore Due sono i principali principi regolatori dell’agire professionale:

− ciò che è necessario al malato è vero perché non può essere altro, per cui il necessario per l’operatore è a un tempo una verità scientifica, un obbligo morale e un condizionale pragmatico;

− ciò che è necessario è sempre orientato a un fine di cura; quello che conta è la sua soddisfazione. La sua soddisfazione è prevalentemente una necessità etica;

Oggi, ma già da molti anni, tali principi, soprattutto per i medici – da sempre i titolari assoluti sulle necessità del malato – non sono più così prescrittivi e questo per almeno cinque ragioni:

− La necessità di cura in questi ultimi decenni è stata reinterpretata in molti modi: si pensi alla complessa questione dell’appropriatezza, della razionalizzazione delle cure, della selettività dell’accesso, ecc.;

− Il fine della cura, perseguito da sempre dalle professioni sanitarie, ha perso il suo carattere apodittico, dovendo essere compatibile con i limiti di risorse e con tante altre cose, compreso l’opinione del malato o – meglio – le trasformazioni socio-culturali che hanno interessato la figura tradizionale del paziente;

− Il medico, in particolare, non è più il solo a giudicare sullo stato di necessità dal momento che da una parte i soggetti gestionali e tecnocratici ma anche altre professioni, e dall’altra numerosi soggetti sociali hanno cambiato l’interpretazione delle “occorrenze”, cioè quello che deve essere, che va fatto o che obbligatoriamente accompagna un qualche concetto di cura;

− La tendenza da tempo è di predefinire le necessità in procedure ante oculus, cioè standardizzare il giudizio clinico per ragioni di affidabilità, ma anche le

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operatività dei vari operatori nella logica della trivial machine, cioè di assicurarsi comportamenti professionali prevedibili e il meno costosi possibile;

− Spesso il criterio della necessità è stravolto da logiche opportunistiche di tipo precauzionale degli operatori – come la medicina difensiva – dettate dai rischi professionali nei quali gli operatori possono incorrere. La necessità che prevale rispetto al malato è quella dell’operatore.

Tesi 1: Oggi la necessità è sempre meno e sempre più in modo diverso, un principio regolatore; molti problemi di regressività della medicina attuale, intesa come corpo dottrinale, sono riconducibili alle sue problematiche. 2. Il giudizio di necessità tra pazienti ed esigenti In medicina e in sanità la nozione di necessità del malato è organizzata in un giudizio che assume significati diversi in funzione di due variabili:

1) Il problema alla base della necessità, cioè la condizione di malattia che esprime un bisogno reale di cura, di assistenza, e di salute dell’individuo;

2) Il criterio guida in base al quale la cura o la salute è giudicata necessaria.

Il primo criterio coincide in tutto e per tutto con la necessità reale del malato, quindi con la malattia, ed è stato sino ad ora soddisfatto principalmente dalla clinica quindi con le sue modalità classiche principalmente ruotanti intorno alle idee di diagnosi e di terapia.

Il secondo criterio ancor prima di essere clinico è morale e nel tempo – in particolare in ragione della crescita della cultura dei diritti e della cittadinanza – si è configurato come un criterio politico assumendo la configurazione del diritto, degli imperativi deontologici più o meno categorici, delle norme, delle organizzazioni sanitarie cioè dei condizionali che rendono possibile la cura, ecc..

Rispetto al primo criterio la necessità reale del malato con il tempo si è espansa in modo extra-clinico ammettendo nel suo dominio tradizionale altri bisogni del malato, in virtù del fatto che la figura tradizionale di paziente è profondamente cambiata e affermando sempre più in modo spiccato la figura dell’esigente, che ha necessità diverse rispetto a quelle del paziente. Oggi la necessità per il malato “esigente” è qualcosa di più della necessità classica per un paziente. Per rendersene conto è sufficiente riflettere sul linguaggio che si usa nei convegni e nei congressi: complessità, persona, centralità, “alleanza terapeutica”, “prendersi cura”, “relazione con il malato”, “empowerment”. Tali espressioni denotano certamente un profondo mutamento ontologico del soggetto malato, ma anche un profondo mutamento delle sue necessità. Si tratta del mutamento più importante della post-modernità, quello che è alla base di molte problematiche della medicina, di molte inadeguatezze, di molte difficoltà, di molte aporie. Oggi il paziente è un malato

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“esigente”, quale soggetto consapevole dei propri diritti, con un grado alto d’informazione e di autonomia, deciso ad affermare la sua condizione di cittadinanza. Esso non è più il classico “beneficiario” passivo, ma è il “contraente” che usa e utilizza ciò che la fiscalità o il reddito gli permette di comprare, sia in forma pubblica che privata, per accedere a ciò che lui considera necessario e possibile. Il contraente è colui che, più di ogni altro, ha innovato il significato filosofico di “necessità”, ponendo ai medici inediti problemi di ripensamento. L’esigente è colui che incarna più di chiunque altro il significato heideggeriano di “cura”. Egli usa la medicina per “poter essere” in quella particolare situazione di “decadimento” definita “malattia”, nel senso che se il “poter essere” dell’uomo dipende dalla cura che l’uomo ha di se stesso, allora la medicina è lo strumento che l’uomo usa per “rimediare” alla propria condizione di “decadimento” o di “relativa finitudine”. Nella post-modernità la cura – in senso, ribadisco, heideggeriano – è la “necessità della possibilità” per l’uomo di essere comunque, con la sua dignità, la sua autonomia, la sua cittadinanza, pur dentro una condizione di malattia. La cura oggi è la necessità di una qualche possibilità ontologica. Tesi 2: Oggi il concetto di necessità si è allargato includendo in esso l’idea di salute, di persona, di cittadinanza, che va ben oltre l’idea di cura della malattia ma, nello stesso tempo, tale concetto è diventato sempre più ipotetico e relativo, trovandosi a dipendere dalle condizioni reali che lo dovrebbero soddisfare.

A fronte di tale allargamento, tuttavia, soprattutto a causa dei condizionamenti economici ma non solo, la necessità acquisisce sempre più un carattere ipotetico perdendo pian piano il suo carattere vincolante e quindi divaricando sempre più una idea di necessità ipotetica o relativa da una idea di necessità assoluta e imperativa. Quella ipotetica sussiste solo se esistono certe condizioni, quella assoluta per sussistere dovrebbe prescindere dalle condizioni di contesto, il che oggi è praticamente impossibile. Oggi il diritto alla salute dichiarato dall’art. 32 della Costituzione non rappresenta più una necessità assoluta, come non lo sono più certi valori deontologici che pur si continuano a ribadire; di conseguenza anche la necessità reale della malattia non è più come era una volta: essa perde cioè il suo carattere di necessità apodittica e, per questo, vincolante.

Oggi quindi “necessità reali” e “necessità ipotetiche” tendono a essere in conflitto, che a ben vedere è conflitto, alla fine, tra due modalità: il possibile e il necessario, con la tendenza a ridurre il possibile per il malato a una sopravvenienza di valori, di bisogni diversi e quindi a qualcosa di più, e per le politiche sanitarie a subvenienze economiche, organizzative e quindi a qualcosa di meno. Il più è in conflitto con il meno.

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3. Necessità e possibilità Tesi 3: Oggi il concetto di necessità coincide, come sempre, con quello di possibilità; ma il punto è che se prima il possibile coincideva interamente con le possibilità della clinica oggi il possibile va oltre la clinica e, a volte, è clinicamente limitato da vincoli economici.

Per i medici questo profondo cambiamento culturale comporta non pochi problemi. Non si tratta più di circoscrivere la propria azione alla biologia della malattia, ma di ripensarla dentro le nuove complessità ontologiche imposte dalla società attuale e quindi di fare i conti con una nuova idea di malato e, nello stesso tempo, rispondere ai limiti economici loro imposti. Da come è vista ontologicamente la questione della necessità dipendono i costi del trattamento clinico, le probabilità di sbagliare, i rischi ai quali è esposto il malato, il grado di legittimazione o delegittimazione sociale della medicina, la possibilità di diagnosticare malattie rare o ad alta complessità, la possibilità di personalizzare i trattamenti, le forme delle organizzazioni, i modelli operativi, ecc..

In fin dei conti, se pensiamo che la medicina dal punto divista logico è essenzialmente un sapere ragionativo, che opera per congetture e inferenze, ponendo a premessa dei propri ragionamenti la necessità riconducibile alla malattia e/o al malato, si comprende facilmente che, variando la premessa ontologica, “dovrebbero” variare le conseguenze del procedimento deduttivo. Il condizionale è d’obbligo, perché le cose non vanno in questo modo.

Tesi 4: Oggi nei confronti della necessità di cura e di assistenza la maggior parte dei problemi gnoseologici, epistemologici e prassiologici della conoscenza medica derivano dal fatto che i ragionamenti clinici continuano a riferirsi come se la premessa costituita dal malato non fosse cambiata, cioè come se fosse a ontologia invariante.

La medicina ha davanti degli esigenti ma continua a ragionare come se davanti avesse dei pazienti e, per di più, deve fare i conti con le limitazioni delle risorse. Cioè oggi la medicina nega le premesse dell’attualità e sceglie le premesse che più sono confacenti alla sua ortodossia dottrinale, quella che ancora si continua a insegnare nelle università. Questo assomiglia molto alla storiella della chiave che l’ubriaco perde all’osteria ma che cerca sotto la luce del lampione perché solo in quel posto c’è luce. Oggi per un medico conoscere un malato e la sua malattia significa cercare la chiave nell’osteria, non dove gli è più comodo o dove è più abituato a cercare, dal momento che oggi malattia e malato sono embricati da implicazioni molto strette. Sono queste implicazioni che sollecitano il medico a integrare la conoscenza clinica con una conoscenza sovra-clinica. Per cui l’ atto di conoscenza diventa sempre più complesso perché diventa sempre più un atto bio-culturale, che mette in discussione quello che non viene mai meno e che resiste a tutto, vale a dire l’accentuato

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“scientismo” della medicina. Lo scientismo medico è un certo tipo di atteggiamento da parte di chi considera la conoscenza biologica come unica forma valida di sapere e quindi superiore a qualsiasi altra forma di conoscenza e soprattutto come un sapere in sé sufficiente. Oggi il medico – ma anche l’infermiere – faticano ad adeguarsi alla postmodernità e insistono nel proporsi come bio-operatori, che ignorano la complessità ontologica, antropologica, culturale e sociale del malato e tutto il resto.

Tesi 5: Oggi la medicina insiste a considerare la necessità del malato solo come un problema di bio-verità e di bio-evidenze, a spiegare la necessità solo e unicamente attraverso la classica razionalità clinica, indipendentemente dai problemi posti sia dalla post-modernità che dal post-welfarismo, cioè dai limiti economici, e a essere nei confronti della necessità del malato prevalentemente scientisti, cioè più orientati a farsi carico della necessità clinica attenendosi a vecchie concezioni di malattia.

Lo scientismo della necessità in pratica è un orientamento che decontestualizza il discorso scientifico e pensa alla scienza solo come a un discorso autoriferito, interessato solo alla bio-conoscenza della malattia. Oggi lo scientismo resta uno dei più grossi ostacoli al ripensamento della medicina e quindi qualcosa che se non si risolve e non risolverà mai la questione controversa della necessità nelle sue varie forme: welfaristiche, professionali, organizzative, culturali.

Non siamo messi bene. Siamo come dentro una teoria di conflitti che si inseguono, si urtano, si sovrappongono.

Ci troviamo:

− in una società che chiede, in tutti i sensi, all’operatore molto di più rispetto al passato;

− nel bel mezzo di una dolorosa contraddizione tra diritti e risorse; − con una medicina – che a parte i suoi importanti e per certi versi straordinari

progressi scientifici – è rimasta epistemicamente ferma ad uno scientismo tardo ottocentesco.

Tesi 6: Sono visibili i segni di una crisi della medicina che però, in quanto crisi, sino ad ora non è mai stata dichiarata.

Si tratta di quel genere di crisi che, nel tempo, ha fatto la storia della medicina e che grosso modo ha segnato tutti i suoi più importanti passaggi evolutivi, e che in ogni contingenza storica certamente ha a che fare – come dicono tutti i manuali di storia delle medicina – con le scoperte scientifiche, ma anche con un pensiero che in un modo o nell’altro si confronta con la questione della necessità.

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4. I diversi tipi di necessità in medicina Uno dei mutamenti più significativi del nostro tempo consiste nel fatto che tanto la necessità quanto la possibilità sono diventate qualcosa che si deve negoziare con il malato e – per estensione – con la società civile, ma anche con le aziende, con i problemi della spesa pubblica, ecc.. Tesi 7: Oggi ciò che è necessario e possibile in medicina è negoziabile: questo vuol dire che la nozione di necessità è il risultato di una transazione sociale.

Ma su cosa si basa la transazione e quindi questa specie di negoziato? Per rispondere serve rammentare ciò che si diceva in apertura, e cioè che la nozione di necessità dipende dallo stato di necessità che pone la malattia e dal criterio in base al quale si dice che lo stato di necessità è un problema da risolvere.

Sulla base dello stato di bisogno in sanità è cresciuta nel tempo la distinzione tra necessità reale, che è necessità di esistenza, e necessità ideale, che è necessità teorica, razionale, logica. Si rammenta che sino a non molto tempo fa i due tipi di necessità tendevano a sovrapporsi, cioè che ciò che si sarebbe dovuto fare e ciò che si sarebbe fatto nella realtà, in ragione dei mezzi disponibili, tendevano a coincidere. Se si guarda all’evoluzione dei livelli garantiti di tutele, si ha chiaro che a fronte di un set di bisogni teorici di cura, cioè di cose delle quali i malati avrebbero bisogno, ciò che viene concesso sono i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che altro non sono se non necessità convenzionali in continua ridefinizione contingentante. Quando i LEA sono ad esempio definiti con i criteri di appropriatezza cambia il profilo delle necessità: ciò che prima era considerato necessario diventa relativamente necessario, cioè necessario in rapporto a certi casi e non ad altri, o diventa relativamente non necessario rispetto a certi limiti di bilancio e quindi escluso dalle tutele pubbliche.

Sulla base del criterio in base al quale lo stato di bisogno è ammesso come problema in sanità ormai da tempo si distinguono, soprattutto per ragioni economiche, le necessità in base a dei criteri di evidenza: sono ammesse quelle che sono autorizzate da un ragionevole criterio di evidenza, criterio che è sempre di tipo statistico epidemiologico, quindi convenzionale, e che viene estratto dalla massa dei dati statistici disponibili con delle meta-analisi che riguardano la letteratura clinica.

Ma la distinzione in medicina tra necessità ipotetiche e assolute serve in particolare non tanto a distinguere i casi, le situazioni, gli stati di bisogno, i gradi di gravità, i tempi di attesa, ecc. – che a dir il vero rappresentano una distinzione non nuova per la medicina – ma a evidenziare un fenomeno tipico del nostro tempo, sollecitato in modo particolare dalla penuria di risorse e che riguarda il divario sempre più crescente tra quello che si “fa” e quello che si “dovrebbe fare” o si “potrebbe fare”, quindi tra le necessità logiche della medicina e le necessità pratiche del suo esercizio.

La necessità logica per un medico equivale a una necessità ideale perché vale come coerenza razionale, come rispetto per l’ortodossia, come principio di scienza e

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coscienza, come obbligo morale e quindi come qualcosa che non si può non fare. Essa entra spesso in conflitto con quella pratica in senso generale, perché nella pratica la necessità ideale deve giustamente adattarsi rispetto soprattutto a quella gestionale di chi deve amministrare dei limiti ma anche a quella soggettiva dell’esigente. L’esempio più diffuso è la somministrazione di un farmaco che in teoria deve rispondere a delle necessità logiche tutte riferite alle caratteristiche del bisogno terapeutico, ma nella pratica deve rispondere a delle necessità gestionali, cioè curare ma al minor costo possibile.

A fondamento della necessità logica del medico in genere vi è il “principio di non contraddizione”: assunte certe premesse cliniche per il medico sarà necessariamente logico fare tutto ciò che va fatto, cioè tutto ciò che non entra in contraddizione con le premesse; nella pratica questo viene sostanzialmente rispettato ma mediando molto tra bisogni del malato e costi dei trattamenti, per cui si esce dalla necessità logica ammettendo delle contraddizioni controllabili o sopportabili. Per restare all’esempio della somministrazione del farmaco, il ricorso al farmaco generico (è un farmaco che ha lo stesso principio attivo di un altro ma che costa meno) spesso si sacrifica una buona compliance terapeutica; ma un trattamento con una bassa compliance terapeutica non è più un trattamento logico o ideale, è un trattamento che media le necessità con le possibilità per contenere i costi.

Tesi 8: Oggi nella pratica corrente della medicina la necessità logica del medico deve mediare con altre razionalità diverse da quella clinica in modo dialettico, nel senso che deve fare i conti con altri generi di necessità, principalmente quelle economiche legate all’azienda e quelle personali del malato.

In sostanza, se per un medico la necessità è un principio regolativo questo principio si trova in mezzo a due fuochi incrociati, cioè le scelte della scienza si trovano a fare i conti sulla necessità tanto con l’economia che con l’etica. 5. Necessità clinica quale impensabilità Abbiamo definito “necessità logica” quello che in genere è per l’ortodossia medica, la metodologia clinica, la trattatistica semplicemente il necessario, ciò che bisognerebbe fare.

Per cui per il medico è:

− impensabile che non lo si faccia; − impensabile che sia contraddittorio con le necessità rilevate; − impensabile che venga fatta una cosa diversa dalle necessità.

Il ragionamento per il medico è semplice:

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− non essendo pensabili altre premesse dalle necessità, nulla di diversamente necessario si potrebbe concepire;

− la necessità logica per il medico si basa essenzialmente sul contenuto della necessità, cioè sull’essenza della necessità, sul genere di necessità.

Ma vi è un altro modo di intendere la necessità logica della clinica – anche in

considerazione del fatto che la clinica è fondamentalmente un procedimento logico diagnostico e terapeutico – ed è quello che si debba ammettere come necessario qualcosa di coerente alla diagnosi e al trattamento della necessità. In questo caso il fondamento della necessità non è più il contenuto del bisogno da assumere come vincolo di ciò che è pensabile fare, ma è un principio metodologico secondo il quale si deve stabilire rispetto a un bisogno, cosa sia necessario fare o non fare, in ragione di altre considerazioni che prescindono dal contenuto del bisogno stesso, come sono quelle che riguardano ad esempio i limiti economici. Il problema nuovo sorge quando il principio della coerenza si estende ai problemi extra-clinici, come sono quelli sociali dell’esigente e quelli di bilancio delle aziende.

In questo caso l’esigente da una parte e il limite economico dall’altra arrivano a condizionare il principio metodologico della coerenza, per adattarlo non tanto al contenuto del bisogno tout court, ma alle condizioni di fattibilità e di plausibilità del contesto nel quale quel bisogno deve essere soddisfatto. In questo ambito di questioni rientra una problematica che comincia a creare aporie piuttosto importanti e che è quella del proceduralismo, cioè la definizione di linee guida, protocolli diagnostici e terapeutici, l’uso e l’applicazione dell’EBM (Medicina Basata sull’Evidenza) ecc. quale mediazione tra le necessità dell’esigente e le necessità dell’azienda.

La differenza tra necessità logica basata sui contenuti del bisogno e necessità logica basata su principi metodologici è importante:

− nel primo caso ai contenuti di necessità del malato corrispondono contenuti

di possibilità; − nel secondo caso si tratta di legare le possibilità della risposta al bisogno alle

possibilità del sistema, cioè alle possibilità consentite.

In questo secondo caso rientrano gli standard di necessità, gli indicatori, i volumi di servizio, i parametri di appropriatezza, ecc. Il problema nuovo che sorge è collegare la necessità definita attraverso degli standard di necessità che delimitano le possibilità di un sistema o più parti di un sistema a soddisfare una necessità in un certo modo (necessitudo), con la necessità di un malato definita sul contenuto del suo bisogno (necessitas).

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Tesi 9: Oggi prevalgono nella realtà medico-sanitaria sempre più standard di necessità, che una volta definiti hanno lo scopo di condizionare in modo stringente le necessità logiche della clinica.

Il vantaggio che offrono gli “standard di necessità”, soprattutto al gestore delle aziende, è quella di poter controllare l’operato di gruppi di operatori e interi servizi dedicati, anche se questo vantaggio è contraddetto da una enormità di problemi. Se il gestore ricava vantaggi dalla regolazione del sistema delle necessità, non è detto che lo stesso vantaggio valga per il malato e per l’operatore, allo stesso modo e nella stessa quantità. Il primo e più cospicuo inconveniente degli standard di necessità è che aumentano i casi in cui prevalgono le discordanze tra necessitudo e necessitas. 6. Necessitarismo I problemi che esistono nell’armonizzare la necessitudo del sistema con la necessitas del malato ci dicono che ormai sta declinando quello che è sempre stato un principio alla base dell’agire professionale, vale a dire il “necessitarismo”. Anzi, in particolare la “questione medica” (che approfondiremo fra un po’), come si definisce quella congerie di problemi alla base del processo di delegittimazione sociale del medico, nasce proprio come conseguenza del declino del necessitarismo. Di che si tratta? Per il necessitarismo ciò che si deve fare – vuoi per ragioni scientifiche, vuoi per ragioni morali, vuoi per ragioni pratiche – non può non esser fatto, va cioè fatto per forza. Quindi, in ragione di ciò, il possibile coincide con il necessario e viceversa.

Questa posizione, come si può vedere, non ammette nessuna sorta di condizionamento o di influenza e colloca l’idea di necessità quasi come fosse un’idea metafisica, cioè un’idea oltre e al di sopra della realtà concreta o – meglio detto – della contingenza che esiste nella realtà concreta. Ancora oggi si dice comunemente che la “salute non ha prezzo”, quasi a dire che le necessità di salute devono essere soddisfatte prima di ogni altra cosa. Ancora oggi si dice che “la salute viene prima di tutto”, stabilendo con ciò un ordine prioritario di tipo morale. Soprattutto oggi il valore metafisico della necessità, cioè qualcosa che è al di là e al di sopra, è stato collocato nell’idea di diritto. Il diritto alla salute dell’art. 32 è un dichiarare la necessità di salute come qualcosa di fondamentale e inalienabile, appunto quasi metafisica. Più si sottolinea la priorità della necessità di salute su qualsiasi altra forma di necessità e più si rafforza la tesi necessitaristica; meno si considera la salute una priorità nel senso che è comunque condizionabile e più si indebolisce l’idea di necessitarismo.

Il punto delicato è che oggi in sanità non è facile affermare che il possibile coincide con il necessario, per il semplice fatto che un ragionamento del genere ha senso se esiste una soluzione senza alternative. Se per curare una malattia si deve per forza usare un certo tipo di farmaco vuol dire che non c’è un'altra alternativa; ma se la cura può avvalersi di diversi tipi di farmaco vuol dire che vi sono più alternative: in questo caso il necessitarismo flette e perde la sua imperatività. Se in più le

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alternative sono tali semplicemente perché meno costose le cose si complicano. Si complicano ancora di più se le alternative diventano la privatizzazione del bisogno o la tassazione dei cittadini o le selezioni dei bisogni comunque rappresentate dalle liste di attesa.

Tesi 10: Oggi la tendenza in atto è di privare il necessitarismo di soluzioni obbligate e vincolate offrendo alternativa di cura, più modalità nell’uso delle cure, diverse soluzioni possibili, diversi costi di riferimento. Oggi il necessitarismo è ridefinito da modalità vicarianti, cioè le necessità di cura si possono soddisfare in modi diversi, con mezzi diversi, con approcci diversi e anche, recentemente, con operatori diversi (il riferimento è alla questione delle competenze avanzate degli infermieri) e all’estremo delle eventualità si possono anche non soddisfare pubblicamente, delegando la soddisfazione al privato.

Anche in questo caso si pone il problema se la vicarianza sia a somma positiva o negativa. Letteralmente la vicarianza è quando sostituisco degli elementi con altri elementi senza cambiare la sostanza della cosa. L’esempio già citato è il farmaco generico rispetto alla specialità: per vicarianza essi sono interscambiabili, ma non è detto che essi siano, almeno sul piano esperienziale del malato, egualmente efficaci rispetto alle necessità terapeutiche da soddisfare, anche se biochimicamente equivalenti.

Ci pare di poter dire quindi che assistiamo ad un passaggio piuttosto significativo per ciò che riguarda la necessità delle cure e che è ben testimoniato dall’evoluzione del concetto di LEA (Livelli Essenziali di Assistenza garantiti dallo Stato):

− da una idea tradizionale di necessità, quella cioè che stabilisce che qualcosa non può essere altrimenti;

− a una idea in cui la necessità è ridotta e ridimensionata a “ciò di cui non si può fare a meno”.

Tesi 11: Oggi la tutela della malattia attraverso la definizione dei LEA, a seconda delle disponibilità economiche, sta sempre più diventando minima, essenziale, in alcuni casi salva-vita. La vecchia idea di necessità è quindi fortemente ridiscussa da idee neoliberali sulla priorità assistenziali, sull’universalismo selettivo, tendendo a ridurre il concetto di necessità al salva-vita, e alle grande necessità ospedaliere.

Il rischio che stiamo correndo è che l’idea di ciò che è necessario sta sempre più definendosi con limitate possibilità di possibilità. Il rischio che stiamo correndo, cioè, è di non poter più parlare appropriatamente di necessità.

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7. Le problematiche del giudizio di necessità Cosa vuol dire nella situazione descritta giudicare la necessità di salute e di cura e soprattutto quale tipologia di giudizio se ne può dedurre?

Andiamo per ordine. Per prima cosa chiariamo cosa vuol dire giudicare qualcosa: giudicare per un medico vuol dire soprattutto mettere in campo un atto cognitivo attraverso il quale egli coordina il suo pensiero, le sue conoscenze e le sue esperienze con le varie forme di necessità espresse, quindi con i soggetti che esprimono tali necessità – siano esse cliniche o personali o gestionali – e inevitabilmente con i contesti rispetto ai quali le necessità vengono affermate e condizionate.

Il giudizio di necessità in sostanza è: 1) Una sintesi con la quale il medico riassume la sua appercezione del mondo a

molti mondi della necessità, in tutti i suoi aspetti, nel tentativo di risolvere il problema dei valori di verità che si accompagnano a un qualsiasi bisogno di cura o di assistenza;

2) Un’operazione che tenta di unificare molte cose: le convinzioni di un medico, quelle del malato, quelle dell’azienda e di tante altre cose;

3) Un parere su ciò che si ritiene vero e a quale condizione lo sia, che in qualche modo riduce la complessità di ciò che si crede o no necessario.

L’intera problematica del giudizio clinico dovrebbe essere una questione

soprattutto di appercezione, ma in realtà – come abbiamo detto prima – oggi è sempre meno appercettivo e sempre più un ragionamento che media e interconnette i vari aspetti della necessità.

I giudizi di necessità in medicina si possono distinguere e classificare: 1) Secondo la quantità della necessità (le necessità di salute della popolazione

non sono la stessa cosa delle necessità di salute di un cardiopatico); vi sono quindi necessità universali, che riguardano ad esempio il diritto alla salute; particolari, che riguardano certe malattie; singolari, che riguardano un caso particolare; e individuali, che riguardano genericamente le persone. Il giudizio in base alla quantità si articolerà in tanti giudizi diversi: epidemiologico, patologico, specialistico, clinico, ecc.;

2) Secondo la relazione tra necessità e metodo. Un esempio sono i codici adottati dal pronto soccorso (rosso, giallo, bianco, ecc.), dove la necessità è definita in ragione di un predicato di gravità e di urgenza, le liste di attesa, la programmazione delle cure, gli interventi chirurgici, ecc.;

3) Secondo la relazione in sé della necessità, secondo cioè la qualità prevalente della necessità. Un esempio sono i diversi tipi di giudizi clinici: categorici (questa malattia ha necessità di essere curata in un solo modo); ipotetici (questa

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terapia è condizione per un certo trattamento); disgiuntivi (questa malattia o è x o è y quindi la necessità è o l’una o l’altra), ecc.;

4) Secondo la modalità della relazione “se necessario”. In questo caso i giudizi possono essere diversi: apodittici (la necessità di cura per questa malattia deve essere antibiotica quindi questa malattia non può essere curata con altri farmaci); assertori (questo malato è un codice bianco quindi non può essere un codice rosso); problematici (questo malato può essere sia un caso che un altro caso, per cui si potrebbe curare con questa o con quella terapia).

In medicina a complicare le cose, come abbiamo già detto, è che queste 4

categorie di giudizi sulla necessità – che sono quelli che in generale sono descritti nei manuali di filosofia – devono fare i conti non solo con i limiti economici, ma con i problemi delle professioni, con i loro conflitti interni, con quella che è stata definita la “questione professionale”, che riguarda le prassi che ruotano principalmente intorno a un ridimensionamento tutt’altro che marginale, del rapporto tra giudizio medico e necessità. 8. La necessità e i problemi delle professioni In medicina, per quanto appaia paradossale, la “necessità”, che in genere si oppone a libertà – in quanto considera gli atti professionali come necessitati dal bisogno del malato – per secoli ha coinciso esattamente con la libertà professionale, innanzitutto del medico. È vero che gli atti professionali sono relativamente eteronomi (il medico ricava dal bisogno del malato la norma della propria azione), è vero che le scelte del medico sono “relativamente” necessitate e quindi “relativamente” determinate dai problemi dei malati, ma è altrettanto vero che, comunque, la nozione di necessità è – per quanto eteronoma – alla base dell’autonomia professionale. Perché?

La risposta ovviamente non è nel ridurre gli operatori come in una caricatura a macchine azionate o istruite linearmente dai bisogni dei malati, ma è nel fatto che la “necessità” è una “modalità” attraverso la quale e per mezzo della quale il medico afferma una particolare relazione tra di lui (l’operatore che opera) e il malato (il predicato della sua opera). Il dominio di questa relazione è il dominio dell’autonomia professionale. Tesi 12: Oggi il dominio della relazione tra medico e malato, mediata dalla necessità, tende sempre più a ridursi perché la modalità tende sempre più, per diverse ragioni, ad essere ridiscussa. Un operatore nella pratica non è mai solo ciò che sa, i suoi titoli di studio, le sue competenze normate dalle leggi e dai contratti, il suo profilo professionale (operatore formale) ma è anche i propri modi di essere, le sue esperienze, il suo contesto di lavoro, la sua collocazione nel servizio, i limiti e le condizioni che l’azienda gli impone di rispettare; per cui il suo modo di essere pragmaticamente

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finisce per dipendere da tante cose, al punto che il suo modo di essere certamente diventa parte costitutiva del suo essere operatore, ma soprattutto coemerge continuamente da contesti e contingenze, cioè da fattori che esorbitano la nozione di necessità. Tesi 13: La necessità del malato quale modalità che caratterizza l’essere operatore resta certamente una parte importante della sua professionalità, perché caratterizza atti, scelte, giudizi e quindi resta una parte importante del suo modo di essere; ma se la necessità del malato quale modalità viene resa relativa a… o è condizionata da…, o limitata con…, o inficiata attraverso…, allora cambiando il modo di essere della necessità cambia il modo di essere dell’operatore, cioè il grado di autonomia nel giudizio e di conseguenza cambia l’essere operatore.

Sino ad ora i modi di essere del medico, o dell’infermiere, sono stati considerati come impliciti alle loro definizioni formali o normative, cioè tautologici e quindi inutili da definire; ma oggi non è più così. Oggi ad esempio i medici – stretti e assediati da mille problemi – tentano disperatamente di difendersi cercando di definire ciò che non hanno mai avuto bisogno di definire cioè l’atto medico, perché ciò che era implicito – l’autonomia di giudizio sulle necessità del malato – non lo è più. L’autonomia del giudizio è stata in qualche modo ridimensionata. L’atto medico è un tentativo di difendere delle prerogative professionali nei confronti di ciò che è considerato necessario e che in quanto tale implica esclusività di giudizio, autonomia di giudizio, libertà decisionale. Ma lo stesso significato ha per gli infermieri la questione della loro autonomia professionale, soprattutto dopo il superamento del principio di ausiliarietà che li poneva sotto la potestà scientifica dei medici (L 26 febbraio 1999 n.42, “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”). Tesi 14: Oggi l’autonomia delle professioni nei confronti della necessità del malato comporta che queste siano spesso in conflitto tra loro o almeno che, venendo meno l’assoluta titolarità del medico, si sia apertadi fatto la questione della loro redistribuzione. Questo non vuol dire altro se non lo spartirsi la necessità del malato per titolarità differenziate e, purtroppo, spesso tra loro indipendenti, con la conseguenza di far venire meno la visione ontologica del malato quale “tutt’uno”.

La ricerca di una definizione di atto medico, da una parte, e la ricerca da parte degli infermieri di una maggiore autonomia professionale e i loro conflitti giuridici sulle loro definizioni professionali ci dicono semplicemente una cosa: Tesi 15: Oggi la necessità del malato è l’oggetto di un contendere tra professioni che riguarda la titolarità del giudizio su ciò che è necessario o non necessario, oggi decidere ciò che è necessario o ciò che non lo è per un malato, a parte i risvolti sulla spesa, sul controllo sul lavoro, determina il grado di

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autonomia o di dipendenza di una professione e quindi i loro rapporti, ma soprattutto le forme di tali rapporti.

Per un medico o per un infermiere avere la titolarità circa la necessità di un malato significa avere autonomia circa la sua predicazione. Questo vuol dire che i soggetti che decidono sulla necessità sono inevitabilmente diversi. Vi sono soggetti professionali, gestionali, tecnici in vario modo, sociali, economici, politici, ecc.. Ebbene, è questo uno dei principali fattori che ha modificato profondamente l’autonomia professionale ad esempio del medico, che fino ad ora è stato il solo e l’unico ad avere autonomia di giudizio sulla necessità. Oggi la “questione professionale” per tutte le più importanti professioni di cura e di assistenza sorge perché il loro grado di autonomia nei confronti della necessità è stato radicalmente ridimensionato.

Ma ciò che è necessario o non necessario nella discussione in atto sulle professioni si riduce alle occorrenze cliniche del malato, cioè esclude dalla definizione di necessità altri tipi di necessità del malato – che pur esistono – e che sono tutte di tipo extra clinico: personali, sociali, culturali, relazionali, di comprensione del senso, decisionali, ecc.. Tesi 16: La necessità del malato quale “modo di essere” della persona – sino ad ora – non è rientrata nelle determinazioni essenziali dell’operatore. Ancora prevale la cultura dei compiti, delle competenze e delle mansioni; dei titoli di studio, considerati “qualità permanenti”, insostituibili, rispetto alle occorrenze cliniche, mentre i “modi di essere” professionali sono stati considerati determinazioni “non costitutive”, cioè “determinazioni non necessarie”, “qualità professionali secondarie” e per questo escluse dalle definizioni professionali. Tesi 17 Modificare per mille ragioni la necessità del malato quale modalità significa modificare la necessità quale principio regolatore dell’agire professionale, ma anche dell’agire aziendale, dell’agire della sanità pubblica come risposta ai diritti della persona, ecc.. Tale modifica cambia il modo di essere del medico, dell’ infermiere, dell’azienda, della sanità e quindi dei diritti, a dimostrazione di come la nozione di necessità sia, rispetto ai cambiamenti in atto, una nozione esplicante radicale. 9. Necessità denotante e necessità denotata Ma in pratica cosa vuol dire tale radicalità esplicativa? Vuol dire che:

− Tutte le politiche adottate sinora di razionalizzazione e di ottimizzazione, che rientrano negli approcci marginalisti del miglioramento e del risparmio, hanno funzionato come ridefinizioni di necessità;

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− Tutte le politiche di compatibilizzazione si muovono all’insegna di una ridefinizione delle necessità, nel senso che qualora questa non fosse compatibile, in tale caso dovrebbe adattarsi ai limiti imposti;

− Le tante occorrenze economiche, gestionali, cliniche, personali, etiche entrano tra loro in competizione perché diverso è il loro approccio alle necessità; ciò che è necessario per un clinico non è detto che lo sia per un gestore;

− Il proceduralismo, a partire dall’EBM per continuare con le linee guida, con i protocolli terapeutici, è pensato nella logica della predefinizione degli standard di necessità;

− Nel momento in cui la necessità non è più letta ad oculos, prevale una forte diffidenza nei confronti di coloro che autonomamente dovrebbero leggere quella necessità (i LEA sono necessità organizzate in funzioni, i DRG sono necessità organizzati come tariffe, i protocolli terapeutici sono necessità farmaceutiche, ecc.);

− I conflitti tra professioni, le cosiddette “competenze avanzate”, sono conflitti che riguardano il grado di autonomia della professione su ciò che è necessario. Vuol dire che quello che rientrava nell’ambito del necessario per qualcuno – il medico ad esempio – viene ricollocato nell’ambito del necessario per qualcun altro – l’infermiere ad esempio. Quindi il conflitto sulle competenze in realtà è un conflitto sul controllo delle necessità del malato, al quale segue quello sulle autonomie e sulle responsabilità.

Tutto questo a un tempo, quindi contestualmente, sinergicamente – ma anche in

modo quasi caotico e promiscuo – modifica l’idea di necessità quale principio regolatore della medicina prima e della sanità dopo. Tesi 18: L’essenza del cambiamento si può riassumere in un passaggio che va da un genere di necessità dove il bisogno del malato denota l’operatore, a un genere di necessità dove è l’operatore – il suo grado di autonomia – a denotare il bisogno del malato.

Nel primo caso la lettura della necessità non ha limiti a parte quelli naturali e scientifici per cui l’operatore agisce in scienza e coscienza; nel secondo caso la lettura della necessità oltre ai limiti naturali e scientifici ha quelli che derivano dalle condizioni di lavoro, dalle risorse disponibili, dalle varie competenze imposte agli operatori, dai conflitti inter professionali, ecc. Tesi 19: Oggi, oltre i conflitti tra professioni, vi è un nuovo conflitto tra la necessità vista dalla società civile, e quindi da ogni singolo malato, e la necessità vista dal sistema sanitario nel suo complesso.

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Dal punto di vista della società civile la necessità che oltretutto tende ad allargarsi includendo più tipi di necessità (relazionali, informazionali, decisionali, partecipative, umanizzanti, palliative, domiciliari, sociali) si scontra con una necessità amministrata dall’azienda che tende a restringersi, tendendo a limitarsi alle necessità cliniche essenziali della cura, con la tendenza a sottodimensionarla a seconda dei limiti finanziari di riferimento e dei contesti di riferimento. Dopo i tagli lineari alla sanità degli ultimi anni, i piani di rientro imposti alle regioni per obbligarle a rientrare dai disavanzi, e dopo la fissazione da parte del governo di un piano di definanziamento programmato nel tempo (fino al 2020), ormai la tendenza che prevale è la crescita incontrollata delle diseguaglianze sociali di acceso al soddisfacimento delle necessità e rispetto all’eguaglianza di trattamento. Alla fine la necessità diventa, suo malgrado, il riferimento delle discriminazioni di reddito: chi ha reddito soddisfa le sue necessità con il ricorso al privato o ai fondi o alle mutue integrative; chi non ha reddito rispetto alle proprie necessità subisce gli effetti di una restrizione sempre più crescente dell’offerta pubblica.

Nel passaggio tra la necessità che idealmente denota l’operatore e l’operatore che praticamente denota – come può – la necessità ammessa, si colloca la problematica della prassi e quindi i problemi che riguardano gli atti concreti degli operatori. Sono gli atti concreti che si trovano loro malgrado nel bel mezzo del conflitto ormai innegabile che si è creato tra società e sanità e che ribadiamo è un conflitto, che ha a che fare con visioni diverse di necessità. 10. Il giudizio quale atto L’indagine intorno al giudizio di necessità in medicina non è diversa da quella generalmente descritta dalla filosofia, con la differenza che questa rientra nell’ambito della conoscenza clinica. Per la medicina l’atto di giudicare è stato interpretato, come per altri ambiti di conoscenza, sostanzialmente in due modi:

− Il giudizio è l’atto attraverso il quale il medico riconosce e afferma che una certa necessità è stata colta (simplex apprehensio), e che quindi è in grado di attribuirla ad una malattia e a un malato(iudicium);

− Il giudizio è l’atto con cui il medico applica a una presunta necessità la propria conoscenza, per farne oggetto di trattamento intellegibile.

Se si guarda al contenuto del giudizio di necessità, il medico è semplicemente colui

che agisce dopo che ha messo in rapporto le necessità del malato con le proprie conoscenze cliniche (l’infermiere con i concetti di assistenza), ma anche dopo aver valutato le condizioni soprattutto economiche di fallibilità. Il suo giudizio prima di ogni cosa è:

− Razionale, nel senso che sono considerati e assunti secondo un canone di regole razionali definite dalla metodologia clinica e da quella del nursing;

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− Pratico, nel senso che il giudizio serve a guidare l’azione clinica tenendo conto dei contesti in cui opera;

− Etico e morale, quale tentativo di conciliare un ordine morale con dei limiti naturali e non solo.

La domanda da porre è la seguente: in quale modo e in quale misura il giudizio

clinico sulla necessità del malato nei contesti descritti conduce all’atto? Abbiamo visto che oggi il detentore della verità non è più solo il medico e che vi sono altri detentori di verità, i limiti ad esempio sono i più implacabili detentori di verità, i quali puntano a condizionarne il giudizio e gli atti conseguenti.

Il giudizio quale atto funziona come un motore che dipende dall’interpretazione della necessità e dall’intenzione di soddisfarla, dai contesti organizzati in cui una necessità deve essere soddisfatta e infine dagli scopi di soddisfazione della necessità che si vuole perseguire.

Tanto il giudizio che l’atto, quindi, non sono regolati solo dal valore transitivo della necessità (se è necessario x, allora devo fare y) ma sono regolati anche da altri valori transitivi (se i contesti sono x, allora devo fare y).

L’atto che consegue al giudizio di necessità – se rammentiamo la distinzione aristotelica “ciò che è in potenza”, quindi non deliberato, e “ciò che è agito” quindi deliberato è il passaggio che produce il giudizio di necessità dall’indeliberato al deliberato, quindi è un mutamento. Così l’assistenza dell’infermiere è in potenza nel suo profilo e passa all’atto con la pratica di tutti i giorni. La stessa cosa vale per il medico. Questo vuol dire che tra l’indeliberato e il deliberato in mezzo c’è il deliberante che interpreta la necessità nei contesti in cui opera, il vero autore di quel mutamento che burocraticamente chiamiamo “atto”.

Tesi 20: L’atto che deriva da un giudizio di necessità non dipende tanto dai compiti degli operatori, dai loro profili, cioè dalla descrizione del lavoro formale, ma da come gli operatori in certi contesti organizzati trasformano il giudizio di necessità in prassi effettiva, secondo il noto principio che “il modo di operare di ciascuna cosa segue il suo modo di essere”.

Se consideriamo ora la nozione di “operazione” che vuol dire sostanzialmente attività svolta dagli operatori in una attualità, comprendiamo l’importanza del ruolo di chi fa, di chi delibera, di chi agisce per rispondere alla necessità di chi interpreta la necessità e, come diceva S. Tommaso, del suo “modo di essere”. Il “modo di essere” di chi giudica la necessità e agisce in base a questo giudizio è molto più importante – specialmente oggi che la necessità è una questione ad alta complessità – di qualsiasi conoscenza, competenza formalmente descritta. Il “modo di essere” degli operatori vuol dire certo conoscenze ma anche sensibilità , capacità, esperienza, abilità, saper fare.

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Tesi 21: L’atto che consegue dal giudizio di necessità dipende principalmente dall’agente che interpreta la necessità ma non in vuoto cosmico ma dentro contesti per loro natura fortemente limitanti. 11. Agente di necessità In genere non vi è discorso che in sanità non parta dal malato, sottintendendo che le sue necessità siano il presupposto di ogni cosa: organizzazione, professione, risorse ecc. Ma questo, rispetto alla realtà, resta una petizione di principio. Abbiamo visto il peso notevole che hanno i contesti. Ciò significherebbe che anziché far derivare gli atti della professione dalla definizione formale delle competenze come è la pratica corrente bisognerebbe far derivare l’atto dalla definizione di agente dentro un contesto cioè di colui che compie l’atto deducendolo dalla necessità quale postulato del giudizio professionale dell’agente.

Dedurre l’autonomia di un giudizio da un’interpretazione di necessità da parte dell’agente in un contesto e dedurre l’autonomia del giudizio da una definizione burocratica di atto sono due cose diverse:

− Nel primo caso definire la professione per dedurne l’atto significa prima di ogni altra cosa definire la necessità e dedurne il medico o l’infermiere più adeguato a giudicarla. La professione è definita sulla base del rapporto tra autonomia di giudizio, necessità e contesto;

− Nel secondo caso la necessità è extra-contestuale, per cui gli atti professionali sono definiti in mansioni o profili e definiscono automaticamente la professione, lasciando intendere che la professione è quella che è descritta dalle norme.

Come abbiamo visto molti sono i condizionamenti che gli atti professionali

subiscono perché molti sono i condizionamenti che subiscono la lettura della necessità. Per cui nella pratica succede che le definizioni formali degli atti professionali non corrispondano mai perfettamente alle letture reali della necessità del malato, nel senso che le autonomie di giudizio degli operatori non sono mai conformi alle norme che definiscono i loro atti.

Riassumiamo le questioni anche questa volta seguendo il pensiero aristotelico:

− Ogni atto è l’espressione di una volontà e di un pensiero in rapporto a una necessità;

− Ogni atto è qualcosa di potenziale e di intenzionale e quale giudizio autonomo viene prima di un’azione;

− L’atto è qualcosa a cui partecipa l’azione, ma non è riducibile ad azione; − L’atto è qualcosa che non può prescindere dal soggetto pensante, cioè dalla

sua autonomia di giudizio sulla necessità.

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Se tutto questo è vero, allora è il giudizio contestualizzato sulla necessità – cioè il

suo grado effettivo di autonomia – a definire il carattere di una professione e a deciderne le caratteristiche dei suoi atti.

Detto sinteticamente:

− L’attività professionale, qualunque essa sia, ha obbligatoriamente un relativo carattere autonomo perché essa in certi contesti deve decidere le rappresentazioni delle necessità dei malati e scegliere come operare, fare ed agire;

− Il carattere intellettuale non è il sapere del medico o dell’infermiere, ma sta nel decidere nei confronti dei propri contesti come scegliere e usare le proprie conoscenze in rapporto a certi limiti per soddisfare delle necessità;

− Come decidere e scegliere è inevitabilmente una questione di autonomia del giudizio, sapendo che l’ autonomia è sempre condizionata.

Tesi 22: L’autonomia di giudizio di chi interpreta la necessità non consiste in una questione di compiti e di competenze, e neanche in una questione primaria di conoscenze, ma nella capacità intellettuale del soggetto – sia esso medico o infermiere – che si definisce nei confronti dei limiti che deve gestire, oltreché sulla base delle conoscenze in suo possesso con un grado di volontà, di pensiero, di autonomia, di decisione, di responsabilità. 12. Autore La necessità è un principio esplicativo radicale, perché a partire dai suoi problemi ci permette di comprendere quelli principali del sistema medico-sanitario. Questo è possibile perché i problemi della necessità si ripercuotono immediatamente sugli atti professionali, e quindi sulle prassi agite per la sua soddisfazione che a loro volta si ripercuotono sul sistema organizzato di tutela. Se è così è ragionevole e plausibile ritenere che un eventuale pensiero riformatore volto a soddisfare al meglio le necessità di un malato, nonostante i limiti, debba partire dalle prassi, quindi dagli atti, da un loro ripensamento, per ripercuotersi – questa volta in positivo – sulla soddisfazione della necessità. Se i problemi della necessità condizionano le prassi, perché non ripensare le prassi per risolvere i problemi della necessità? Sino ad ora tutte le politiche sanitarie adottate in questi ultimi 40 anni hanno tentato di affrontare i problemi della necessità, altrimenti detti della domanda, evitando di fare i conti con le prassi, anzi pensando di imporre alle prassi semplicemente limiti e condizionamenti. In questo modo il lavoro ha subito una pesante quanto incredibile svalutazione. Non si è mai pensato di assumerlo come un mezzo per il cambiamento, attraverso il quale soddisfare di più e meglio il soddisfacibile. Noi, al contrario, pensiamo che le prassi siano un mezzo fondamentale di cambiamento, a condizione di riformarle e pensiamo anche che delle prassi riformate possano

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costituire una soluzione efficace ai problemi della necessità. A questa convinzione abbiamo fatto seguire una proposta alla quale abbiamo dato un nome: autore. Tesi 23: L’autore è un intellettuale che giudica una necessità dentro un contesto non casuale coniugando auto-nomia e re-sponsabilità, accettando di farsi valutare pragmaticamente sulla base dei risultati prodotti.

L’autore prende il posto del “compitiere” cioè di un “tecnico impiegato ” (non un intellettuale con autonomia di giudizio e di scelta) pagato in base ai compiti che svolge cioè pagato in base alle proprie definizioni burocratiche di professione e per questo completamente decontestualizzato. L’autore quale agente è colui che con “tutto se stesso”, in un contesto dato, definisce e caratterizza i propri atti. Se è così, anziché scrivere come si continua a scrivere che l’atto professionale è deducibile dai compiti e dalle competenze ecc., si dovrebbe scrivere che esso è deducibile dalle necessità, lasciando ampia autonomia circa i modi di soddisfarla.

Tesi 24: L’atto è definito attraverso l’autore quindi attraverso le attività che egli deduce direttamente dalla lettura delle necessità in certi contesti organizzati.

Come si vede si tratta di una ridefinizione di tipo pragmatico quindi molto diversa da quelle burocratiche in vigore che non esplicitano le necessità di riferimento.

L’autore è una proposta che tenta di rispondere ai cambiamenti della nozione di necessità riformando il rapporto tra autonomia del giudizio e responsabilità dell’atto. L’atto secondo l’autore, consente di definire non solo le attività ma anche il modo di operare della professione, di cui abbiamo parlato più avanti, nei confronti delle necessità e dei suoi contesti. È l’autore, con i suoi modi di essere, che consente di definire l’atto esplicando la necessità dal suo proprio contesto. In questo caso l’autonomia di giudizio non è assoluta, non è metafisica, non è solo riferita in senso stretto alle necessità del malato, ma deve tener conto delle condizioni di contesto compreso i condizionamenti della gestione e delle disponibilità delle risorse. Intendere l’atto professionale come espressione di un autore che sa giudicare la necessità nel proprio contesto diventa la proposta di un nuovo scambio tra professione, società e azienda. Auto-re vuol dire qualcuno che di fronte a una interpretazione di necessità in cambio di auto-nomia garantisce re-sponsabilità. Il fine dell’autore non può essere genericamente la salute ma deve essere la soddisfazione di un sistema di necessità. Tra l’atto e la necessità vi sono un mucchio di cose: giudizi, attività, i modi di essere della professione, organizzazioni, le cooperazioni con gli altri, senza le quali non si va da nessuna parte. L’autore, da un punto di vista deontologico, va certamente concepito come titolare di doveri professionali nei confronti della necessità, ma anche come titolare di diritti nei confronti di tutto

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quanto dal punto di vista organizzativo, di contesto, consente l’espletamento dei doveri. È del tutto inutile definire doveri nei confronti della necessità e non creare condizioni sufficienti al loro espletamento. Oggi abbiamo bisogno di una nuova formazione per ridiscutere vecchie professioni. Se la professione nei suoi caratteri e nei suoi modi operativi non cambia al fine di adeguarsi al cambiamento della nozione di necessità, è molto difficile che si arrivi a un ripensamento dell’atto professionale. 13. Necessità e organizzazione I problemi che si accompagnano alla nozione di necessità non inducono solo un ripensamento delle prassi, ma le prassi agite dalle professioni devono poter disporre di una organizzazione del lavoro adeguata. L’esperienza insegna che una professione non è mai la semplice messa in atto di conoscenze di compiti e di competenze, ma è sempre fortemente condizionata dalle organizzazioni in cui opera. Tesi 25: L’organizzazione del lavoro è parte integrante di una professione e le organizzazioni che frammentano la necessità in tanti parti suddividendole secondo i criteri della divisione tayloristica tra le professioni in campo hanno fatto il loro tempo. Oggi per cogliere la complessità della nozione di necessità bisogna integrare nel giudizio di necessità più giudizi, più conoscenze, più esperienze, più professionalità. Cioè nei confronti di una nuova figura di autori servono organizzazioni del lavoro interconnessionali, quindi una forma di cooperazione tra professioni basata sulle relazioni interdisciplinari, sulla mobilità funzionale, sul lavoro di gruppo, sulla continuità ed evolutività delle cure e dei trattamenti.

Giusto per dare l’idea di quale organizzazione avremmo bisogno per soddisfare le necessità dei malati nei contesti in atto ci limitiamo a dare degli spunti:

− Non conviene più mantenere un’organizzazione concepita con logiche

divisionali. Le divisioni, dividendo lo spazio sanitario in tanti spazi divisi, costituiscono dei veri e propri “insiemi” che a loro volta danno luogo a “sottoinsiemi” divisi, a loro volta, in “sub insiemi”. La divisione altro non è che un’idea di necessità, concepita come somma di tante sub necessità. Oggi quest’idea vecchia di necessità penalizza la professionalità perché ostacola una migliore soddisfazione delle necessità;

− Per soddisfare le necessità del nostro tempo non conviene più mantenere un’organizzazione concepita per giustapposizioni cioè il “porre a fianco”, “mettere accanto”, “accostare” qualcosa con qualcos’altro. L’idea di sola contiguità ostacola l’integrazione e l’interdipendenza;

− Per soddisfare al meglio le necessità del nostro tempo conviene ripensare delle organizzazioni, inter-relandole con delle relazioni organizzate. Le “relazioni” ridiscutono la divisionalità. La relazione, per definizione è la

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“non-divisione”, la “non giustapposizione”. Se sino ad ora abbiamo “diviso per operare” e “operato per dividere”, con la relazione si tratta di “operare per riunire” e quindi di “riunire per operare”. In queste due contrapposte antitesi c’è tutta la complessità del cambiamento organizzativo nei confronti della necessità.

14. Tesi conclusiva per dimostrare la necessità di un pensiero riformatore Posta la necessità del malato quale principio regolatore che da sempre regola le prassi medico-sanitarie si può dire che:

− L’analisi dei suoi problemi permette di comprendere profondamente le principali questioni che riguardano oggi la medicina quale corpo dottrinale e la sanità quale organizzazione finalizzata al trattamento delle malattie;

− Se intendiamo per “regressività” della medicina lo spiazzamento di certe teorie, nel nostro caso quelle che le si riferiscono, ad opera di altre teorie o ad opera di altri fattori, allora la maggior parte degli attuali problemi delle prassi medico-sanitarie, sono riconducibili ai suoi cambiamenti;

− Sta cambiando, cioè è sottoposta da tempo a profondi mutamenti sociali e economici, a forti sollecitazioni e a forti “torsioni” del suo significato e, per retroazione, ad altri condizionamenti che riguardano le prassi professionali e i loro conflitti interni;

− Quale modalità clinica è sempre meno assoluta, cioè sempre meno un principio imperativo o categorico e sempre più “relativa a…, condizionata da…, limitata con…, inficiata attraverso…”;

− È dentro una dolorosa contraddizione: da una parte si è espansa, includendo in sé una idea più complessa di salute, di persona, di cittadinanza, di bisogni sovra biologici e di bisogni biologici soddisfacibili in modo diversamente biologico, e dall’altra essa è sottoposta a forti limitazioni, sia di carattere culturale che economico;

− In ragione di tale contraddizione e di tali limitazioni essa, in quanto principio regolatore è diventata sempre più ipotetica e sempre più “relativa a…”, quindi non è più clinicamente autosufficiente. Per la prima volta essa non coincide più con il possibile scientificamente disponibile o, meglio, il possibile scientifico è condizionato da fattori extra clinici.

− Oggi la razionalità clinica che la sovrintende deve mediare con altre razionalità (statistiche procedurali, finanziarie, amministrative, tecniche, economiche, professionali, ecc.), nel senso che deve fare i conti con altri “generi di necessità”;

− Le epistemologie che la assumono come oggetto di conoscenza sono spesso in conflitto, anche se il principale confitto è soprattutto tra la necessità vista dalla società civile – e quindi da ogni singolo malato – e la necessità vista dal sistema sanitario nel suo complesso;

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− Venendo meno l’assoluta titolarità del medico a leggerla e a interpretarla, si è aperta di fatto la questione della sua redistribuzione o spartizione per titolarità differenziate, con ciò facendo venir meno la visione ontologica del malato quale “tutt’uno”;

− Essa ha sempre svolto una funzione unitiva del malato; la sua ridiscussione di fatto moltiplica le ontologie fino a definire un malato per l’economista, per il clinico, per il manager, per il malato stesso, per questa o per quest’altra professione, ecc.;

− La frantumazione ontologica oggi implica molti problemi di efficacia, di costi, di qualità dei trattamenti, al punto da porre, quasi in modo paradossale, la questione della riunificazione della necessità, cioè del ritorno a un’idea di malato quale tutt’uno, o quanto meno di trovare soluzioni organizzative per integrare tra loro le tante concezioni di necessità in campo.

Ma a parte le frantumazioni ontologiche e la moltiplicazione delle titolarità a

“gestire” la necessità, il problema più delicato resta quello della modifica delle prassi medico-sanitarie, perché tale modifica investe direttamente i diritti delle persone malate. Si tratta di un problema che in modo giustificato ha fatto sorgere una nuova questione, definita non a caso “professionale”. Per “questione professionale” intendiamo tutti i problemi che a partire dai mutati assetti del principio di necessità in qualche modo delegittimano, ridimensionano, ridiscutono le facoltà professionali a partire dalle loro autonomie, e quindi le prassi come sono esercitate nella realtà e che circolarmente ricadono in ogni caso sul malato.

Posta la necessità del malato quale principio regolatore che da sempre regola le prassi medico-sanitarie, si può dire che i problemi che si rifanno alla questione professionale sono diversi:

− Cambiando il modo di essere della necessità cambia il modo di essere

dell’operatore e di conseguenza cambia l’essere operatore; − Se la necessità diventa un sistema eterogeneo di necessità sorge il problema

della titolarità del giudizio su ciò che è necessario o non necessario; è dal grado di titolarità del giudizio sulla necessità che dipende il grado di autonomia o di dipendenza di una professione, i rapporti tra le professioni, le loro forme, e anche i conflitti tra di esse;

− Se la necessità quale presupposto del ragionamento clinico muta ontologicamente dovrebbero mutare, nel senso di adeguarsi, i ragionamenti teorico-pratici della medicina, ma in realtà ciò non avviene. La medicina a prassi invarianti continua a riferirsi come se la premessa costituita dalla necessità del malato fosse a ontologia invariante, cioè continua a essere prevalentemente scientista, finendo con il sentirsi perseguitata e oppressa dall’aziendalismo e dal suo smaccato economicismo, ma anche dal malato e

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quindi dal contenzioso legale, trovando rifugio nella medicina difensiva, stravolgendo così radicalmente il concetto di necessità, cioè il proprio principio guida.

Se le prassi professionali sono sollecitate dal principio di necessità e se le prassi

professionali mediano e interconnettono i mondi della medicina e quelli della sanità, allora significa che attraverso le prassi professionali il principio di necessità influenza tanto la medicina – cioè l’uso delle conoscenze – quanto la sanità – cioè le organizzazioni che ne permettono l’applicazione. Lo studio dei problemi della prassi medica diventa così una porta privilegiata di accesso allo studio dei problemi del sistema medico-sanitario nel suo complesso. Nello stesso tempo la prassi diventa il principale terreno su cui intervenire con dei cambiamenti riformatori per rispondere ai mutamenti che interessano il principio regolatore della necessità, dal momento che sarebbe poco realista pensare di ribaltarli.

Posta la necessità del malato quale principio regolatore che da sempre regola le prassi mediche-sanitarie è necessario al fine di adeguare le prassi ai nuovi profili della necessità riformare prima di tutto i soggetti professionali per riformarne le prassi. Il fine è di adeguarle al principio di necessità, perché il principio di necessità va comunque esplicato al meglio e come meglio possibile. Questo cambiamento riguarda l’idea di prassi professionale e non può essere concepito come un banale aggiornamento, un riordino giuridico, una razionalizzazione, ma come un salto paradigmatico, perché i mutamenti che interessano la necessità costituiscono un salto paradigmatico.

Il salto paradigmatico è affidato all’idea di “autore”. Si tratta di un’idea che consiste in realtà in un ribaltamento dell’attuale modo di definire il lavoro professionale.

Il ragionamento è il seguente: − Partendo dal presupposto che la ridiscussione della necessità per le

professioni comporta una crescita del grado di complessità da governare, una crescita delle abilità, non solo delle conoscenze, e una crescita dell’autonomia del giudizio e dell’esercizio delle prassi;

− Ammesso che se crescono i problemi relativi alla necessità non si può rispondere, come stanno rispondendo da anni le politiche sanitarie, con il riduzionismo professionale, con meno autonomia, con meno capacità, bloccando il lavoro e svalutandolo, ma si deve fare esattamente il contrario;

− Accettato quindi che la prassi professionale debba essere più professionale (non meno), e con ciò valere di più, perché oggi rispetto a ieri un medico o un infermiere devono rispondere alle necessità del malato, dell’azienda, dell’economia, della società.

Allora l’idea di “autore” è una idea che:

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− Accresce le capacità e le abilità di chi lavora, e molto semplicemente si pone come una nuova transazione tra chi lavora, l’azienda e la società. L’azienda riconosce alla professione più autonomia, in cambio la professione si impegna a garantire più responsabilità, e tutto viene verificato sulla base di esiti e risultati. Auto-re, auto-nomia e re-sponsabilità;

− De-burocratizza il lavoro medico sanitario nel senso che l’atto professionale non dipende tanto dai compiti degli operatori, dai loro profili, cioè dalla descrizione burocratica del lavoro, ma da come gli operatori in certi contesti organizzati trasformano il giudizio di necessità in prassi effettiva, secondo il noto principio tomista: “il modo di operare di ciascuna cosa segue il suo modo di essere”;

− Deriva l’atto che consegue dal giudizio di necessità principalmente dall’agente che va formato per essere riformato;

− Cambia i rapporti tra conoscenze e prassi, nel senso di spostare sempre più la definizione di professione e di professionalità sulla capacità intellettuale del soggetto che opera – cioè dell’autore – oltreché sulle sue conoscenze disponibili;

− Si definisce attraverso il grado di autonomia del giudizio dell’operatore, cioè il suo grado di intellettualità, per fare in modo che l’atto che consegue al giudizio di necessità sia definito attraverso le capacità del soggetto, che danno all’autore una lettura reale e realistica delle necessità.

È del tutto illusorio ritenere che basti riformare l’idea classica di “compitiere” in

autore per risolvere i problemi che sorgono relativamente alla soddisfazioni delle necessità del malato. Gli operatori operano dentro organizzazioni che ne condizionano pesantemente le prassi, al punto che si può dire che l’organizzazione del lavoro è parte integrante di una professione. L’esperienza ci dice che la forza dell’organizzazione dei servizi è tale da condizionare pesantemente le prassi professionali, anche a dispetto delle norme.

Per cui ribadito che la necessità del malato quale principio regolatore da sempre regola le prassi medico-sanitarie, e che l’idea di autore ha una funzione unitiva e ricompositiva del concetto di necessità è necessario che :

− L’autore, per essere tale, sia sostenuto da una nuova organizzazione del

lavoro; − Le organizzazioni che storicamente hanno frammentato la necessità in tanti

parti, suddividendola secondo i criteri della divisione tayloristica, siano ricomposte e riaggregate;

− Le organizzazioni, essendo l’autore un concetto connessionale di conoscenze capacità e abilità professionali, diventino a loro volta connessionali dando corso a una forma nuova di cooperazione tra professioni, basata sulle

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relazioni interdisciplinari, sulla mobilità funzionale, sul lavoro di gruppo, sulla continuità ed evolutività delle cure e dei trattamenti.

Concludendo, oggi:

− Il cambiamento più importante nella nostra società riguarda la nozione di necessità di salute e di cura; questo mutamento non può che diventare il principale explanandum di un cambiamento riformatore;

− La tendenza in atto, ma solo per mancanza di un pensiero riformatore, spinge per soddisfare il meno possibile la necessità di cura dei malati, cioè ad adattare sempre di più il diritto alla salute ai limiti economici o a farlo dipendere – in barba ai diritti – dalle possibilità di reddito dei singoli;

− Ciò che è necessario e possibile in medicina è per tante ragioni negoziabile; se la necessità diventa una transazione sociale serve un pensiero che ridefinisca i termini dello scambio;

− La vecchia idea di necessità è politicamente ridiscussa da idee neoliberali che si scontrano con idee welfariste sulle priorità assistenziali, sull’universalismo selettivo; la tendenza è di ridurre il concetto di necessità al salva-vita, e alle grandi necessità, o di limitarlo agli indigenti, cioè ai più bisognosi. Serve un pensiero riformatore che difenda l’integrità dell’idea di necessità facendo leva su altri fattori.

Questo saggio ha preso le mosse da una postulato morale e costituzionale:

che se ognuno di noi avesse necessità di cure è giusto – cioè ha diritto – secondo l’articolo 32 della Costituzione, di essere curato al meglio. In altre parole, ha diritto che le sue necessità siano soddisfatte secondo ciò che è razionale e ciò che è ragionevole. Se così non fosse saremmo vittime prima, che delle nostre malattie, del nostro cinismo e della nostra disumanità. Oggi per soddisfare le necessità di chi sta male c’è bisogno di un impegno riformatore che ancora non c’è, e al quale tutti noi – per evidenti doveri di solidarietà – siamo chiamati a contribuire. L’art. 2 della Costituzione “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, come quello della salute, ma “chiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica, sociale”. La solidarietà è quindi il postulato che sta alla base di questo saggio. Questo saggio vuole esprimere un dovere di solidarietà nei confronti di chi è malato attraverso una proposta riformatrice. L’attuale medicina scientifica, nei suoi fondamenti, è ancora quella sorta sotto l’egida dei principi del positivismo di fine ‘800 e con sullo sfondo una rivoluzione sociale ed economica. Questa medicina più di un secolo fa tentava di rispondere “scientificamente” a una idea nuova di necessità. Oggi i principi del positivismo, nell’ambito soprattutto della filosofia della scienza, sono stati ampiamente ridiscussi, emendati, fatti evolvere verso più avanzate gnoseologie ed epistemologie, con un sfondo che, mutatis mutandis, ripropone oggi – come alla fine dell’‘800 – molte rivoluzioni, cioè molte discontinuità: per questo è cambiata la

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nozione di necessità. La medicina, nonostante i suoi prodigiosi progressi scientifici, è rimasta epistemicamente indietro. A noi tocca per solidarietà ridefinire una medicina epistemicamente adeguata. Si tratta di un’impresa intellettuale non semplice ma necessaria e che, a mio modesto parere, rappresenta una delle più formidabili imprese intellettuali a cui dedicarsi. Resta la domanda più importante di tutte: se oggi, come in tutta la storia della medicina, aiutare chi è malato valga o no un pensiero riformatore quale atto di solidarietà.