il mare di palizzi

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Dopo gli anni "dell'esilio" Adela torna a Palizzi per rimettere insieme i fili di una vita spesa lontano, e per chiedere a chi è rimasto - la madre, il fratello - di ricordare, anche loro, come lei. Perché cosa siamo noi se non la nostra memoria?

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n a r r a t i v a

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Ada Murolo

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il mare di palizzi

Copyright © 2012 Ada MuroloPublished by arrangement with Silvia Meucci Agenzia Letteraria - Milano© 2013 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.per Edizioni Frassinelli

ISBN 978-88-200-5450-2 86-I-13

La citazione da Antonia Pozzi è tratta da Tempo, in Tutte le opere, Garzanti, Milano 2009, pp. 250-251.La citazione da Rainer Maria Rilke è tratta da «Prima elegia», in Elegie duinesi, traduzione di Enrico e Igea De Portu, Einaudi, Torino 1978.

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, località e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza con fatti, luoghi reali (a parte il mare) o persone, realmente esistenti o esistite, è pura-mente casuale.

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A mia figlia, protagonista della mia vita

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«Che cosa siamo noi, se non una memoria?»Lettera di Adela a Daddo

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Indice

1. Esilio 12. Al «Caffè Nuovo» 73. Di fronte alla terrazza, il mare 114. Sotto la pergola 175. Per le strade 276. Dentro antiche case 377. I comizi in Piazza dei Martiri 458. «Kalòs ìrthete ’ston Vua» (Benvenuti a Bova) 499. Nerina 59

10. «Generi alimentari» 6711. Giovacchino 7512. Donna Elisabetta detta Bettina 8113. L’America a Palizzi 8714. La purga e altri rimedi 9715. La villeggiatura in montagna 10516. Lo studio e il corvo impagliato 11917. Rosa e le altre 12718. Donna Annuzza 13719. Il figlio prediletto di Doride 14920. Lili 16521. Calanchi 181

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22. La Chiesa del Santissimo Redentore 18523. La breve vita di Costanza Cortese 19524. Il Signorino 20125. Gran Burro 20926. Sussurri in via Giudecca 21527. L’ultima ora dell’antico orologio 22728. Le stagioni di Doride 22929. Acan 24330. Il Ciclone e la Baracca 25131. Un treno per Acan 26332. La distruzione 26933. Dormiveglia 28134. Indefinite memorie 28735. Lettera al fratello 291

Albero genealogico della famiglia di Adela 299Ringraziamenti 301

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XI

Ci sono innumerevoli storie nella nostra vita, anzi innumerevoli vite, in una girandola di luoghi e presenze che stordisce: cambiano i compagni, incontriamo nuovi amori, i figli vanno via, pensiamo di essere ancora vivi ed esistenti se qualcuno ci propone di cenare fuori, magari al fast food indiano, tendine sintetiche alle finestre, azzurro lucido alle pareti, la dea Kalì illuminata dalle lucine di Natale. Il cibo buono, piccante, speziato.

Ma la mattina dopo, al risveglio, ci sentiamo di nuovo infelici e ricominciamo a costruire altrove un’altra storia.

Ci sono posti lontani e diversi, dove ci rifugiamo per ricomporre la dignità del nostro vivere, ma gli abitanti delle nuove città non notano il forestiero che, protetto dal bavero alzato, cammina a testa bassa per recarsi al lavoro. Tuttavia continuiamo a illuderci di essere solo di passaggio nel paese sconosciuto: potremo andare via e cercarne uno più accogliente.

Eppure alla fermata dell’autobus si incontra ogni giorno la stessa gente che, all’improvviso, ci appare vecchia. Si invecchia insieme, nella città straniera di ognuno.

E la sera, nella quiete della casa, quando la vita è sospesa e sul giardino di rose si posano le ombre, la Pendola terrorizza con sussurrato ticchettio: dice che il tempo è inarrestabile.

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XII

Allora si cerca un senso all’esilio e alla vita che gli appartiene, sposiamo cause, caduche ideologie, mode ridicole: afferrata al volo da una bancarella un’ideuzza qualsiasi, la facciamo nostra come fosse l’unica possibilità, e ne armiamo ottuse crociate.

Ma se ci lasciassimo guidare da un ricordo sopito – quando ci raggiunge per caso il ritornello di un canto o, improvvisamente, ci abbaglia il tremolare della marina uscendo dall’ombra del pergo-lato – e docilmente attraversassimo a ritroso i territori del nostro passaggio, tastando, bussando appena per farci riconoscere dalla nostra parola evocata, incontreremmo nuovamente noi stessi, la casa, l’albero, il sentiero. Vedremmo in lontananza nostro padre che cammina pensieroso sulla spiaggia. Ci sono luoghi dimenticati nella mente di ognuno, che ci attendono, dove il tempo non scorre e l’eco di voci da invisibili spazi risuona ancora stupita.

L’infanzia.

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Mentre tu dormiAnni di sole passano…antonia pozzi, Tempo

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Esilio

Reggio Calabria, 28 febbraio 1991

Adela tornava di tanto in tanto a Reggio. «A trovare la nonna Lili», diceva alla figlia Nina.

Arrivava nella sua vecchia città dalla lontana Trieste e, giunta nella casa di famiglia, cominciava ad aggirarsi alla ricerca di qual-cosa che le appartenesse. Ritrovava così, tra gli oggetti della sua nostalgia, l’idea di patria che per lunghi mesi aveva vagheggiato, in quell’esilio della mente che l’accompagnava ovunque. E tra il brusio leggero che saliva dalla strada e si insinuava nella penombra delle stanze l’eco dei suoi passi veniva smorzata appena dalla presenza nascosta della madre, Lili. Spesso chiusa in camera a leggere, Lili appariva di tanto in tanto nel corridoio solo per raggiungere in salotto il pianoforte, un antico Eberhardt su cui, ripercorrendo le solite romanze fra i tasti ingialliti, cercava di riacquistare scioltezza nelle dita. Ma, al di là delle pareti della sala, le vecchie corde troppo vibranti espandevano per la casa armonie impastate e incerte.

Nina e Adela scesero dalla carrozza letto, quella mattina, sul marciapiede del binario uno, alla Stazione Centrale di Reggio

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Calabria e, dopo il faticoso trasbordo di bagagli, salirono su uno dei taxi cittadini, tutti a tassametro spento.

«Quanto volete fino a via Aschenez?» chiese Adela.«Non ’ndi sciarriàmu…» rispose sornione il tassista di turno,

con un’affermazione che equivaleva a un più circostanziato: non credo che la cifra che richiederò, benché alta e truffaldina, meriti una discussione tra persone civili come noi.

Quel giorno di fine febbraio, Adela entrò in casa con Nina, che, come sempre, abbandonato lo zaino nell’ingresso, corse allegramente incontro alla nonna e poi sparì al telefono per chiamare a raccolta le amiche di Reggio. Ma, appoggiati in ca-mera le valigie e il cappotto, Adela si stupì, perché quelle stanze improvvisamente le apparvero sconosciute. Grandi e silenziosi, gli spazi della casa non le rimandavano più nulla di familiare: non riconosceva neppure quella che era stata la camera sua e di Angelica, la terza dei quattro fratelli, che ora viveva a Bath.

Daddo, il fratello maggiore, era già lì da qualche giorno, e sarebbe ripartito quella sera stessa. La sorella più giovane, Betta, l’unica che viveva con la madre a Reggio, sarebbe rientrata di lì a poco.

Daddo, Adela non lo vedeva da anni.

Il pranzo, poche ore prima della partenza di suo fratello, si svolse quasi in sordina. «A tavola», aveva chiamato Lili, come quando i figli erano ragazzini e il padre era ancora vivo. Ma il suo tono, forzatamente allegro, tradiva l’angoscia per l’imminente partenza del figlio. Lili era ancora ferita dal suo abbandono. Adela lo sapeva, e a quel richiamo sentì contrarsi la bocca dello stomaco perché ricordò le urla della mamma, quando, alcuni anni dopo la morte del padre, Daddo aveva lasciato la casa per

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la prima volta e si era trasferito in una città del nord, a esercitare la sua professione di medico.

Daddo mangiava lentamente. Sembrava più giovane dei suoi quarantaquattro anni.

Nina, rompendo il silenzio, gli chiese notizie della cuginetta.«Come sta Lilith?»«Ah… bene, bene… sì… sì, bene. Fa la seconda elementare.

Ha iniziato pianoforte già da due anni», rispose con un tono impacciato, sforzandosi di sembrare affabile.

«Così presto, poverina! Io l’ho lasciato da un pezzo: la mamma ha sofferto come se avessi abbandonato gli studi! Per me è stato un incubo. Presto sarò di maturità, figurati se avessi anche la tortura del piano!» commentò allegramente Nina.

«Farai uno splendido esame, mi dicono che sei molto brillante. Come tuo padre…» rispose Daddo.

Adela non sentì le ultime parole, o finse di non sentirle, e la conversazione finì lì.

Lili si muoveva con gesti ansiosi: la sua piccola figura tendeva impercettibilmente verso il figlio maschio, mentre il suo sguardo inquieto si posava sui piatti o sulle portate, la cui immobile attesa sulla tavola sembrava ossequiare unicamente la presenza di lui.

«Daddo, vuoi il sale? Prendi ancora una fetta! Ti trovo un po’ dimagrito, forse sei stanco.»

Con un sorriso di circostanza Daddo rispondeva laconico alle premure di sua madre, ma non alzava lo sguardo dal piatto. Adela, di contro, osservava la figlia Nina che guardava insistentemente lo zio. Non capiva se la ragazza fosse curiosa o perplessa.

Sicuramente, pensava Adela, Nina lo trova vecchio. Per noi che abbiamo giocato insieme, le nostre rughe sono cicatrici su volti di bambini, tristezza sovrapposta ad allegria di giochi. Ma i figli, che non possono indovinare la nostra infanzia, ci vedono così come siamo. Quasi vecchi.

Adela si sbagliava. In realtà, lo sguardo di Nina, tesa a cogliere

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un accenno di reale interesse, era quello di chi cerca approvazione, e lei cercava un’attenzione da troppo tempo negata.

Mentre il pranzo era quasi alla fine, Adela aveva preso a parlargli.

Spesso i suoi argomenti apparivano fuori luogo e lasciavano interdetti gli interlocutori, ma questo le accadeva quando si sentiva costretta da un malessere indefinito che non riusciva a mettere a fuoco. Quel giorno si era rivolta al fratello maggiore per almeno due motivi: per quell’intollerabile silenzio che neppure il cicaleccio ansioso della madre riusciva a sconfiggere, e poi per un desiderio infantile di contatto con lui, contatto che Daddo quasi vent’anni prima, alla morte del padre, aveva inspiegabil-mente spezzato. O forse l’interruzione dei loro rapporti aveva coinciso con il successivo matrimonio di Daddo, oppure con la contemporanea separazione di Adela dal marito, dopo appena cinque anni che era sposata.

Adela non lo sapeva bene e ne soffriva.Betta cominciò a rollare con precisione e lentezza l’ennesima

sigaretta, cartine e tabacco di marca, e alla memoria di Adela tornarono i giochi che lei e Daddo facevano in terrazza, a Palizzi.

«Ti ricordi quando tu e io facevamo il tabacco con le foglie secche, che cadevano sul pavimento della terrazza dal pergolato?» attaccò vivacemente, ma Lili, infastidita, assunse un’espressione di indulgente sarcasmo dietro uno dei suoi soliti sorrisetti.

«No, non mi pare…» aveva farfugliato Daddo.«Le pestavamo dentro i secchielli di plastica gialla! E ti ricor-

di che ti aveva punto quella vespa che avevi disturbato mentre succhiava un acino marcio per terra?»

Con una certa distratta soddisfazione, il fratello aveva riba-dito di non ricordare la circostanza e, all’incalzare della sorella che aggiungeva particolari con uno zelo che gli suonava sempre

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più irritante – «Ma come, non ricordi? Non ti ricordi che la Barbera ti curò la puntura con mezza cipolla?» – gelidamente aveva tagliato corto, alzando verso di lei uno sguardo di fermo verdeazzurro: «Non ricordo assolutamente niente».

Così nella mente di Adela, quasi a compensare la mortificante e divina indifferenza ostentata dal fratello, avevano cominciato ad affollarsi disordinatamente immagini remote, più lontane di quella casa e di quella città, più lontane di loro quattro fratelli spersi, e quel passato riemerse confuso e opaco.

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