il ricominciamento tra vocazione personale e missione ... · insorgono le finitezze su tutti i...

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1 Il Ricominciamento tra vocazione personale e missione carismatica (Luciano Cabbia Ischia, settembre 2013) C’è una canzone di Fiorella Mannoia, del 1984, che ha per titolo “Come si cambia”, e che parla delle delusioni e delle intermittenze di un cuore che ama. Alcuni versi rimasti nella memoria: Come si cambia per non morire come si cambia per amore come si cambia per non soffrire come si cambia per ricominciare». Un’icona biblica: Nicodemo Una riflessione iniziale su Nicodemo, figura del ricominciamento: “Dovete rinascere dall’alto” (Gv 3,7). A Nicodemo – nel pieno del suo realizzarsi umano e religioso, è capo dei Giudei e maestro in Israele viene prospettata una chiamata come “seconda nascita”, non estranea alla sua vicenda umana e nella linea di una trasformazione della vita stessa. «Questa è l’avventura di ciascuno che, come Nicodemo, si arrischia dentro il groviglio della propria profonda oscurità, improvvisamente e provvidenzialmente rischiarata da un incontro» (cf. Chiara Veronica, Se uno non rinasce dall’alto… in AA.VV., La seconda chiamata, Editrice Monti, Saronno (VA) 2007, p. 185). Incontrare Gesù a quell’età consolidata, età del disincanto, è un fatto che destabilizza Nicodemo, scuote alla radice le sue certezze, inquieta la sua sicurezza di adulto nella fede dei padri. Nicodemo dovrà percorrere l’intero arco del vangelo di Giovanni fino alla morte del Signore, per ritrovare il vero volto di Dio, e trovare la propria vera e nuova identità. Da quel momento per Nicodemo, ma anche per ogni discepolo del Signore, il sentiero della vita non è segnato da un passato o da un futuro che ci appartengono e che abbiamo cercato e cerchiamo di costruire con le nostre pur buone e giuste pretese; ma è segnato da un “Alto” che attrae il cuore, orienta il nostro sguardo, e muove le nostre mani nell’azione. “Rinascere dall’alto” non è delega all’Alto per le cose da fare, ma assunzione del “basso” con una nuova stella polare da seguire nel cammino e nell’azione, perché è stato svelato il vero volto di Dio, perché il Figlio dell’Uomo è stato innalzato, e occorre volgere lo sguardo a Lui per avere la vita, per avere ancora vita. “Il dono degli anni. Invecchiare con grazia” Allora, si parla di “Terza età” o di “rinascita”? Realisticamente si parla di anzianità come risorsa, ma senza demagogia e ingannevoli blandizie. Se non è possibile trattare le persone mature e anziane come dei “principianti”, non è nemmeno corretto pensare che si tratti di persone “arrivate”; occorre ritenere che c’è sempre da compiere un percorso di crescita, che occorre rimanere in cammino. Non vi dirò come lo scrittore siciliano Vitaliano Brancati che «Un uomo può avere due volte vent’anni, senza averne quaranta»; oppure, adottando la soglia minima dell’età dei

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Il Ricominciamento

tra vocazione personale e missione carismatica

(Luciano Cabbia – Ischia, settembre 2013)

C’è una canzone di Fiorella Mannoia, del 1984, che ha per titolo “Come si cambia”, e che

parla delle delusioni e delle intermittenze di un cuore che ama. Alcuni versi rimasti nella memoria:

Come si cambia per non morire come si cambia per amore come si cambia per non soffrire come si cambia per ricominciare».

Un’icona biblica: Nicodemo

Una riflessione iniziale su Nicodemo, figura del ricominciamento: “Dovete rinascere

dall’alto” (Gv 3,7). A Nicodemo – nel pieno del suo realizzarsi umano e religioso, è capo dei Giudei

e maestro in Israele – viene prospettata una chiamata come “seconda nascita”, non estranea alla

sua vicenda umana e nella linea di una trasformazione della vita stessa. «Questa è l’avventura di

ciascuno che, come Nicodemo, si arrischia dentro il groviglio della propria profonda oscurità,

improvvisamente e provvidenzialmente rischiarata da un incontro» (cf. Chiara Veronica, Se uno non

rinasce dall’alto… in AA.VV., La seconda chiamata, Editrice Monti, Saronno (VA) 2007, p. 185).

Incontrare Gesù a quell’età consolidata, età del disincanto, è un fatto che destabilizza

Nicodemo, scuote alla radice le sue certezze, inquieta la sua sicurezza di adulto nella fede dei padri.

Nicodemo dovrà percorrere l’intero arco del vangelo di Giovanni fino alla morte del Signore, per

ritrovare il vero volto di Dio, e trovare la propria vera e nuova identità. Da quel momento per

Nicodemo, ma anche per ogni discepolo del Signore, il sentiero della vita non è segnato da un

passato o da un futuro che ci appartengono e che abbiamo cercato e cerchiamo di costruire con le

nostre pur buone e giuste pretese; ma è segnato da un “Alto” che attrae il cuore, orienta il nostro

sguardo, e muove le nostre mani nell’azione. “Rinascere dall’alto” non è delega all’Alto per le cose

da fare, ma assunzione del “basso” con una nuova stella polare da seguire nel cammino e

nell’azione, perché è stato svelato il vero volto di Dio, perché il Figlio dell’Uomo è stato innalzato,

e occorre volgere lo sguardo a Lui per avere la vita, per avere ancora vita.

“Il dono degli anni. Invecchiare con grazia”

Allora, si parla di “Terza età” o di “rinascita”? Realisticamente si parla di anzianità come

risorsa, ma senza demagogia e ingannevoli blandizie. Se non è possibile trattare le persone mature

e anziane come dei “principianti”, non è nemmeno corretto pensare che si tratti di persone

“arrivate”; occorre ritenere che c’è sempre da compiere un percorso di crescita, che occorre

rimanere in cammino.

Non vi dirò come lo scrittore siciliano Vitaliano Brancati che «Un uomo può avere due

volte vent’anni, senza averne quaranta»; oppure, adottando la soglia minima dell’età dei

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partecipanti a questo incontro, che “uno può avere due volte trent’anni senza averne sessanta”. Gli

anni sono quelli che sono, e si può solo venire a patti con essi, anche se, in tanti casi, si può in

effetti dire che uno ha sessant’anni, ma è come se fossero due volte trenta per l’operosità, la

vitalità straordinaria e la freschezza interiore che gli consentono di sostenere ancora impegni

importanti ben aldilà dell’indicazione anagrafica.

Però in altri casi, si spera pochi, si potrebbe anche dire che uno è giunto all’età dei

sessant’anni, ma che sembra essere solo un duplice trentenne, ossia ancora immaturo,

inconcludente, superficiale, come se la vita fosse passata senza lasciare alcuna traccia di

maturità, affetto da una perenne sindrome di Peter Pan, che vuol dire senza sapere cosa significhi

veramente assumersi le responsabilità tipiche di una personalità adulta (che è cosa del tutto diversa

dalla nozione spirituale altamente positiva del “bambino interiore”).

C’è un libro di una suora benedettina americana, scrittrice di spiritualità molto tradotta,

anche in italiano, Joan Chittister, Ghe gift of years. Growing older gracefully (“Il dono degli anni.

Invecchiare con grazia”), BlueBridge, New York 2010, pp. 240. Ci sono molte belle riflessioni per

la formazione, sotto il profilo umano, psicologico, spirituale. Tra le altre cose, dice che l’età

matura e anziana può essere un tempo di grazia, a condizione che ci si liberi della vita che si era

programmata, per vivere adesso la vita che ci aspetta; l’età anziana è il tempo di lasciar perdere i

sogni di eterna giovinezza e le paure di invecchiare; è il tempo di capire che l’anzianità non è una

non-vita, ma una nuova tappa della vita.

La crisi e le occasioni della seconda età

L’editor che ha fatto l’abstract\sommario del libro di Javier Garrido, La crisi della

seconda età (Edizioni Dehoniane, Bologna 2011, pp. 114) è davvero bravo. Ha sintetizzato il libro

con queste parole: «Tra i 40 e i 65 anni, la persona consacrata può avere la tentazione di rifugiarsi

su una spiaggia tranquilla per rimanere a giocare con l’acqua, col rischio, però, di rimanere bloccata

nella sabbia. Ma può ascoltare una voce amica che le dice: “Hai ancora un oceano dentro di te”».

Un’immagine bella, efficace e molto espressiva.

A proposito di “avere ancora un oceano dentro di sé” che le persone anziane sono in grado

di sperimentare, forse vale la pena di ricordare l’epopea de “Il vecchio e il mare”, romanzo di

Ernest Hemingway, una grande lezione di vita e un insegnamento sulla forza (non solo fisica) che

può ancora esserci nella “vecchiaia”. Ricorderete, se non altro, il film di John Sturges del 1958 con

protagonista l’immenso Spencer Tracy. In breve, il romanzo è la storia di un vecchio pescatore,

Santiago e del suo apprendista, Manolin (Manolo, nel film), al quale tuttavia i genitori hanno

ordinato di non imbarcarsi più con Santiago ma di scegliere pescatori più giovani e affidabili. Allora

il Vecchio decide di andare in mare da solo, riuscendo a prendere un gigantesco marlin (simile al

pesce spada), che lo trascina per tre giorni e tre notti, durante i quali Santiago si mantiene

mangiando pesci crudi e fa molte riflessioni sulla vita e sulla pesca. Alla fine il Vecchio riesce, con

la sua tenacia e la sua saggezza, ad averla vinta sul pesce e lo lega sulla fiancata della barca per

rientrare in porto, ma gli squali, in ripetuti assalti, divorano tutto il gigantesco marlin. Una volta

arrivato alla baia con il pesce ormai ridotto ad uno scheletro, Santiago, sfinito e sconfortato, va a

dormire. Il Vecchio è depresso per aver patito questa “sconfitta”, ma Manolin riesce a risollevarlo

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dicendogli che tornerà a pescare con lui, perché ha ancora molto da insegnargli, e lo considera suo

maestro, oltre che un amico.

A noi la storia insegna che, nel mare della vita davanti a noi, c’è sempre un obiettivo da

conquistare, una meta da raggiungere; che non bisogna pensare di aver ormai superato la linea

del traguardo; che – parlando di mare e di barche – non bisogna tirare rassegnatamente i remi in

barca. Anche perché, ci può sempre essere un giovane in grado di apprezzare la parola e l’esempio

di una persona che magari sarà anche stata sconfitta dalla vita, ma che ha lottato con dignità e

onore, senza tirarsi indietro.

Tornando al libro di Javier Garrido (l’Autore è un religioso francescano), La crisi della

seconda età, esso aiuta a rileggere la propria vocazione, la consacrazione e la missione quando è

messa alla prova dalla realtà che si fa cruda e talvolta crudele per via dell’età che avanza, e allora

insorgono le finitezze su tutti i fronti, le nostalgie, le resistenze, le fughe, i dubbi esistenziali, le

aridità spirituali, le “impotenze” o “inadeguatezze” pastorali e apostoliche, in una parola: le

“inconsistenze”. È allora che occorre coltivare soprattutto due attegiamenti: l’accettazione e la

fiducia: nella coscienza dei propri limiti – che la realtà si incarica di mostrarci ogni giorno sempre

più inesorabilmente – occorre confrontarsi con la propria storia personale, sapendo che l’ideale

vocazionale, l’ideale del carisma – smesse le vesti dorate del sogno di grandezza e del desiderio

smisurato tipiche della gioventù – adesso si mostrano, si riposizionano e si percepiscono nel

dinamismo della “piccola” realtà di ogni giorno. La seconda età è il momento dell’umiltà in cui

cadono tante ambizioni spirituali e apostoliche che fino a qual momento ci avevano in qualche

modo sorretto, si viene a patti con la vita, si capisce che la vita non consiste nel dominarla, che la

vulnerabilità, alla quale espone l’età anziana, può diventare un cammino di crescita; e tuttavia

occorre mantenere il coraggio di continuare a sognare e a desiderare (spogliati degli

“accrescitivi” usati poc’anzi).

“La primavera è sempre possibile”

«Dopo tutto, è necessario avere nella vita una gioventù, poco importa l’età nella quale si

decide di essere giovani», lo ha detto uno scrittore francese non tanto noto, Henri Duvernois

(1875-1937). Commenta Gianfranco Ravasi: «Si può vivere a livello esistenziale autentico la

giovinezza anche a sessant’anni, lasciando forse alle spalle una vita condotta fino a quel momento

stancamente e senza squarci di luce. Le occasioni possono essere diverse: una maggiore quiete nel

lavoro, una disponibilità di tempo, un amore, una scelta di impegni, un’illuminazione della fede

(…). La primavera è sempre possibile, anche quando il corpo sembra essere immerso nell’autunno»

(Gianfranco Ravasi, Breviario laico, Mondadori, Milano 2007, p. 372).

Però sarebbe ridicolo cercare di scimmiottare la primavera della vita, ossia cercare di

essere giovanili, oppure pensare di essere nell’estate della vita, con l’intatta capacità ed efficienza di

portare ancora frutti abbondanti… occorre accettare il trascorrere (non il precipitare) delle

stagioni, essere se stessi – ossia maturi e anziani –, capaci di riflessione (non di isolamento) e di

quiete, pronti ad accogliere e a vivere questa stagione dell’esistenza. Capire che anche in età

anziana si può essere “persone dal vino nuovo” (cfr. Rino Cozza, Occorrono persone dal vino

nuovo, in “Testimoni” 3/2012, pp. 9-11).

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Scrive Romano Guardini: «A mano a mano che si diventa vecchi, la dynamis (cioè la forza

vitale) diminuisce. Tuttavia, nella misura in cui l’uomo consegue le sue vittorie interiori, la sua

persona lascia – per così dire – trasparire il senso delle cose a cui è pervenuto. Egli non diventa

attivo, bensì irradia. Non affronta con aggressività la realtà, non la tiene più sotto controllo, non la

domina, bensì rende manifesto il senso delle cose e, con il suo atteggiamento disinteressato, gli dà

un’efficacia particolare» (Romano Guardini, Le età della vita. Loro significato educativo e morale,

Vita e Pensiero, Milano 1986, p. 64).

Restare in cammino per un cambiamento

Tra gli scopi di questo intervento (come tra le finalità in generale di questo Corso di

Formazione Permanente) c’è quello di un invito ad avviare una riflessione sull’opportunità, anzi

sulla necessità di un cambiamento – nei singoli confratelli, nelle comunità, nella Provincia, nella

Congregazione –; invito a nutrire ancora un desiderio di “ricominciare” magari su nuove basi,

su nuove analisi, con nuove prospettive, in maniera da avviare un generale “ripensamento”

culturale e spirituale sul carisma, e così avviare anche un re-indirizzo della missione

carismatica… tutte cose che, alla fine, in una schermata finale, contribuiscono a definire una

nuova immagine della Congregazione dei Rogazionisti, più nitida, più identificata in se stessa, e

più identificabile dagli altri che ci guardano dall’esterno, quelli che entrano in contatto con noi,

quelli che, anche vocazionalmente, vogliono conoscere i Rogazionisti.

Il fatto è che, con l’età che avanza, le persone consacrate non pensano più di essere

promotori del cambiamento, al massimo – e spesso con rassegnata diffidenza – ritengono di

esserne i destinatari. È prima di tutto un fatto di mentalità e di formazione ricevuta, ma è anche

una questione di età. Oggi – per dirla con Marco Guzzi, saggista e poeta di cose spirituali – la

maggior parte dei religiosi e delle religiose, a motivo dell’età, non sono più in grado di «diventare

tutti un po’ surfisti e prendere l’onda in modo da usarne la potenza travolgente per volare, invece

di costruire inutili difese di sabbia intorno ai nostri recinti mentali già allagati» (da

www.marcoguzzi.it. Marco Guzzi, Passaggio cruciale. La fine di un mondo e la nascita dell’uomo).

Una citazione che utilizza delle immagini efficaci: «Ormai si è d’accordo sulla necessità di

passare all’altra riva per esserci nel futuro, però non basta diventare gondolieri pensando di

traghettare un canale, ma è necessario diventare degli argonauti per poter ritornare “a casa”, lì da

dove si è partiti. Un ritorno non retrospettivo, a ritroso verso il passato, ma alle radici, in profondità

verso quel “fuoco sacro” che sta al cuore di ogni riscoperta di senso» (Rino Cozza, Voglia di vita

evangelica. Nuovi modelli di vita religiosa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012, p. 97).

In particolare nel nostro tempo la vita è un continuo attraversamento di soglie, e anche nella

VC ci sono oggi molti ambiti dove il passato non ci è più di molto aiuto. Occorre cambiare, e nel

cambiamento, saper discernere, perché le cose non avvengono in automatico: «Chi resiste al

cambiamento sicuramente sbaglia; chi accoglie il cambiamento può sbagliare, ma spesso indovina

la direzione della storia, entra nel regno, risponde positivamente alle sollecitazioni della vita»

(Carlo Molari in AA.VV., Lo spartiacque. Ciò che nasce e ciò che muore a Occidente, Paoline

Editoriale Libri, Milano 2006, p. 68). Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, e sollecitati da

esso, gli Istituti religiosi di cambiamenti ne hanno fatto tanti, ma spesso si è trattato di

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cambiamenti che non cambiano, operazioni di facciata, niente più che un leggero make-up,

qualche ritocchino. Gli esperti del settore VC si trovano abbastanza d’accordo nel sostenere che è

mancato un profondo “ri-orientamento” della vita religiosa in tutti i suoi ambiti, da quelli spirituali,

carismatici, apostolici… quel cambiamento che mette mano alle fondamenta.

Rinnovare e Ricominciare

Si parla qui di “ricominciamento” e di “rinnovamento”, e si parla di “formazione

permanente”. Allora diventa opportuna una citazione magisteriale e magistrale che mette insieme i

due concetti: «Il rinnovamento degli istituti religiosi dipende fondamentalmente dalla formazione

dei loro membri» (Potissimum institutioni. Direttive sulla formazione negli istituti religiosi, n. 1).

Bruno Secondin, carmelitano e noto esperto di spiritualità e VC, scrive: «Io a volte

paradossalmente ho affermato – perfino a scuola nelle austere aule della Gregoriana – che

dall’esperienza storica della vita consacrata si devono calcolare non più 150 anni come tempo

ottimale per la maturazione e apogeo degli istituti, ma forse solo 30-40 anni. E dopo? Dopo forse

sarebbe meglio… ricominciare da un’altra parte da capo» (Bruno Secondin, Reinventare la

profezia evangelica, in “Consacrazione e Servizio” 10\2007, p. 40). (N.B.: il tempo di 150 anni era

quello stimato da Raymond Hostie nel suo libro Vie et mort des Ordres religieux, Paris 1972).

Ricominciare… “un altro mondo è possibile”

Questo è un discorso generale per la VC, che non riguarda specificamente i Rogazionisti e il

loro carisma – se non indirettamente come Istituto religioso nella Chiesa –. Ma ci sono elementi

utili di riflessione che possono essere adottati e “adattati” anche per quanto si sta qui dicendo sulla

necessità di una ri-partenza, a livello personale, di comunità, di Provincia, di Congregazione.

Uno scrittore e saggista francese contemporaneo, Jean-Claude Guillebaud (tra i suoi libri:

Comment je suis redevenu chrétien, Éditions du Seuil, 2007, e il più recente: Une autre vie est

possible. Comment retrouver l’espérance, Edition L’iconoclaste, 2012) dice che un’istituzione –

qualunque essa sia – è perennemente tentata da una sindrome di rigidità e dalla riluttanza e

resistenza ad essere riformata, per cui l’unica via possibile sembra essere il “ricominciamento”,

ossia ritenere che c’è un’altra forma capace di incarnare gli stessi valori, al di fuori delle tradizioni

acquisite. Senza ipotizzare che un altro mondo è possibile – continua l’Autore – non si dà

“politica” (ossia una “visione che indirizza e orienta”), ma solo la gestione amministrativa di

persone e cose. La via di uscita dalla rigidità fossile è quella di ricominciare, ossia riattivare il

processo dell’origine, qui o altrove, dovunque sia possibile esprimere il “nucleo originale”.

Trasferendo il discorso alla vita di un Istituto religioso, si può dire che senza una “ri-creatività” il

carisma di una Congregazione resta solo memoria catalogata, e l’identità delle persone consacrate

che vivono quel carisma “catalogato”, non si può dire che sia una identità o una fisionomia

spirituale, ma solo, o poco più, che un’identità giuridica. (Queste riflessioni e questa terminologia

la utilizza Rino Cozza (dei Giuseppini del Murialdo) nell’articolo: Cosa possiamo ancora fare?, in

“Testimoni” 14\2010, pp. 9-12).

Del resto, a proposito di “identità”, l’Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita

Consacrata e le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA) Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno

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della vita consacrata nel terzo millennio (2002), afferma: «Le persone consacrate, oggi in modo

particolare, sono obbligate a cercare nuove forme di presenza, e a porsi non pochi interrogativi sul

senso della loro identità e del loro futuro» (n. 12).

Il “complesso dell’ostrica”

Nell’età matura che si appresta a diventare anziana è difficile “ricominciare”, perché questo

implica darsi in giro nuovo di pensieri, e col progredire dell’età diventa sempre più difficile

rinnovare il pensiero. Uso un riferimento letterario nel quale non è detto che ci si debba per

forza rispecchiare a questa età, ma che sta lì se non altro come monito. È donna Prassede dei

Promessi Sposi. Manzoni dice che aveva poche idee alle quali, però, era molto affezionata, e tra

queste poche idee molte erano “storte” (questo l’aggettivo del Manzoni). Nel corso della vita ci

possono essere delle idee che si attaccano al nostro cervello come delle zecche e ne succhiano

tutta l’energia creatrice, impedendogli di andare alla ricerca di altre idee, di aprirsi a prospettive

nuove, di darsi un altro giro di pensieri. Il famoso economista inglese John Maynard Keynes

diceva: «La difficoltà non è tanto quella di sviluppare idee nuove, quanto quella di separarsi dalle

vecchie». Spesso capita che le energie che spendiamo nell’elaborare nuove idee sono molto

ridotte, rispetto alle energie che sprechiamo nel restare attaccati alle nostre “idee fisse”, anche

dopo che sono state smentite dai fatti, o che sono state superate dai fatti e sono diventate

improduttive.

Occorre rimanere aperti al nuovo, anche se le novità, soprattutto ad una certa età,

spaventano. Del resto siamo stati tutti un po’ educati alla scuola di San Bernardo per il quale:

«novitas mater est temeritatis, soror superstitionis, et filia levitatis» (Epistola 174, ad Canonicos

Lugdunenses). Sembra che con l’età si sviluppi una sorta di “complesso dell’ostrica” come lo

chiamava don Tonino Bello: «Siamo troppo attaccati allo scoglio, alle nostre sicurezze, alle

lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di

rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci in mare aperto. Se non la palude, ci piace

lo stagno».

Chi viene a contatto con i Rogazionisti, con le loro Opere, con il carisma, che prima

impressione ricava? Gli sembra di entrare in un’avventura certamente difficile ma anche un po’

esaltante, o ha l’impressione di fare il suo ingresso in una nicchia angusta dove manca il respiro?

(“Manca il respiro” è proprio il titolo di un saggio di ecclesiologia pubblicato dall’Editrice Àncora

nel 2011. Gli Autori sono un prete e un laico, rispettivamente Saverio Xeres e Giorgio Campanini).

Papa Giovanni Paolo II all’inizio della Lettera apostolica Novo millennio ineunte faceva

riferimento alle parole con cui Gesù esorta i primi discepoli: “Duc in altum”. Non bisogna stare

dentro lo stagno, e nemmeno invitare altri ad entrarci (con una pastorale vocazionale asfittica).

Occorre sempre spingersi al largo, anche se si sta facendo notte e non si è preso nulla, o concluso

ben poco. Il ministro generale dei frati minori, Fra José Rodríguez Carballo, in un suo scritto che

delineava realisticamente la situazione dell’Ordine, rivolgendosi ai suoi frati, li ha invitati ad

“essere cercatori nella notte” (cfr. José Rodríguez Carballo, Avere gli occhi rivolti al futuro, in

“Testimoni” 13/2012, p. 28).

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Un episodio sulla necessità di avere sempre “occhi nuovi”. Nell’estate di alcuni anni fa

mi trovavo a Bratislava. La città è attraversata dal Danubio, e – chi c’è stato lo sa – pur non essendo

ancora a metà del suo lunghissimo corso (più di 3.500 Km), a Bratislava il Danubio è bello grosso e

quella volta era scuro e limaccioso (cosa che ho visto riconfermata anche le altre volte che sono

stato in questa città). Mi è venuto in mente il walzer di Johann Strauss jr. An der schönen blauen

Donau (“Sul bel Danubio blu”) e ho ironizzato con i miei compagni di viaggio sul fatto che il fiume

sembrava avere tutti i colori tranne che il blu. Ricordo ancora cosa mi disse il più giovane della

compagnia, poco più che un ragazzo: “Ma va là, sei troppo vecchio per capire queste cose. Per gli

innamorati il Danubio è sempre blu”. Sono rimasto colpito, e senza capacità di replica. Ecco

l’importanza di avere uno sguardo diverso sulle cose, uno sguardo “colorato”, mentre spesso

con l’età si può essere affetti da un daltonismo dello spirito, e guardiamo la realtà senza più occhi

stupiti e meravigliati, la livelliamo a monocromia, generalmente sul grigio... Molto dipende da

come formiano i nostri occhi, il nostro sguardo sulle cose. Un lavoro mai finito, per mantere

giovane gli occhi e il cuore.

La formazione permanente e il caso Mozart

Nella vita di Mozart c’è un episodio paradigmatico per il discorso sulla necessità di formarsi

permanentemente. Il giovane Mozart ebbe come maestro un frate francescano, padre Giovanni

Battista Martini quando, a 14 anni, Mozart arrivò a Bologna per sostenere l’esame di ammissione

alla prestigiosa Accademia Filarmonica. Il frate, uomo dal carattere semplice e simpatico, e il

futuro grande compositore entrarono subito in sintonia, tanto che padre Martini lo aiutò a superare

l’esame di ammissione, correggendogli il compito. Mozart rimase molto legato al suo maestro di

musica, tant’è che qualche anno dopo gli mandò la partitura di un breve brano sacro, “un

debole pezzo di mia musica – scrisse il musicista — rimettendoLa alla di lei maestrale

giudicatura” (si tratta dell’offertorio Misericordias Domini, KV 222), rammaricandosi di essere

lontano “dalla persona del mondo che maggiormente amo, venero e stimo”. Padre Martini

rispose a Mozart complimentandosi per i grandi miglioramenti nel comporre musica, e gli lasciò

un appunto finale che lascia trasparire molto della sua indole di didatta, e anche di pedagogo: “Ella

proseguisca sempre più ad esercitarsi, perché la musica è di tal natura che richiede esercizio e

studio grande sino che si vive”. Mozart per la sua natura musicale di accanito sperimentatore,

avrebbe senz’altro seguito il consiglio del suo stimato maestro, ma non avrà ancora molto tempo per

mettere in pratica il consiglio della “formazione musicale permanente” perché morirà a soli 36

anni. E se la musica richiede “esercizio e studio grande sino che si vive”, l’edificazione della

propria personalità da parte delle persone consacrate richiederà forse anche solo un attimo di meno

che non tutta la vità?

Cosa è la formazione permanente

Anche in ambito profano, soprattutto nel settore delle “risorse umane” si parla di

“formazione permanente”, e particolarmente in ambito anglosassone di parla di lifelong education

(“educazione per tutto il corso della vita”), e anche, nell’ambito dell’apprendimento, si parla di

lifelong learning.

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Una citazione che mette in chiaro che cosa è la formazione permanente: «La formazione è

di per sé permanente. E solo a partire da questa accezione nativamente ampia sarà poi possibile

suddividere i tempi della formazione stessa in periodi, ognuno con la sue caratteristiche di vario

genere (…). Ma è solo dal concetto di formazione permanente che si può derivare quello di

formazione iniziale, non il contrario. La formazione permanente non è ciò che viene dopo la

formazione iniziale, ma – per quanto paradossale possa sembrare – è ciò che la precede e la rende

possibile: è l’idea-madre o il grembo generatore che la custodisce e le dà identità» (Amedeo

Cencini, Formazione permanente: nodi teorici e pratici, in “Religiosi in Italia” 1999/3, p. 113).

In modo provocatorio lo stesso Amedeo Cencini trae una conclusione che potrà sembrare

sconsolante ma non è lontana dalla verità: «Se la nostra vita di consacrati non è formazione

permanente, sarà frustrazione permanente» (Ivi, p. 111). E in effetti la FP non mira tanto o

soprattutto all’aggiornamento pastorale, quanto alla costante rivitalizzazione della persona

consacrata. È da ricordare che lo stesso Autore ha scritto un ottimo lavoro pieno di spunti e di

provocazioni su questo tema: Amedeo Cencini, Formazione permanente: ci crediamo davvero?,

Edizioni Dehoniane, Bologna 2011, pp. 112. Il primo fondamentale capitolo ha per titolo: “Verso

una cultura della Formazione permanente”. In questo libro di Cencini c’è una frase nella quale è

consensato tutto il contenuto del libro stesso, ed è centrata sulla “docibilitas” (= “la capacità del

soggetto di cogliere l’opportunità formativa in ogni cosa”, che è una forma molto alta di

intelligenza). La frase dice che la persona “docibile” è «libera di imparare a imparare la vita

dalla vita e per tutta la vita» (p. 54). Sembra un gioco di parole, ma esprime una profonda verità.

Altri relatori, negli interventi più di carattere spirituale che sono previsti, diranno meglio e

più distesamente cosa è la formazione permanente, ma in sintesi si può ritenere questo concetto di

base: la FP è un giungere alla pienezza di sé attraverso un processo, un cammino, un divenire. Vita,

identità e vocazione sono realtà in evoluzione che richiedono apertura e ascolto (ossia

“obbedienza”) costanti, volontà di apprendere la docibilitas, ossia lasciarci formare dalla vita, e che

chiamano sempre in causa la nostra libertà di rispondere e la nostra capacità di fare discernimento

all’interno delle vicende della vita e dell’età che avanzano. E questo va fatto come atteggiamento

di FP ordinaria, nella vita quotidiana, personale e comunitaria, con le sue attività apostoliche: è

questo il “luogo teologico” della FP.

(Spot pubblicitario per il libro: Gian Franco Poli e Giuseppe Crea, Consacrazione e

formazione permanente. Missione possibile, Editrice Rogate, Roma 2012, pp. 238).

Formazione Permanente Rogazionista

La FPR trova trattazione – anche in riferimento all’età anziana (nn. 570-572) – nella Ratio

Formationis dei Rogazionisti (“La formazione del rogazionista”, 1996); è presente in vario modo

nei Documenti dei Capitoli generali (che richiamano opportunamente i pronunciamenti del

magistero della Chiesa al riguardo); è presente anche nei Documenti del capitoli provinciali e

alcune linee direttive si trovano nei Programmi quadriennali dei Governi di Provincia, come ad

esempio nelle ultime “Linee Programmatiche per il quadriennio 2011-2014” dal titolo: Il tuo

volto Signore io cerco, che ha un paragrafo “Formazione Ordinaria Permanente, che afferma: «Sarà

impegno di questo Governo provinciale, in linea con gli orientamenti del Capitolo generale,

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promuovere nelle nostre comunità una formazione permanente ordinaria, con la proposta di temi

specifici di aggiornamento sulla vita consacrata, nei suoi risvolti culturali, spirituali e apostolici,

seguendo il cammino ecclesiale e le esigenze specifiche dei soggetti e delle comunità, per favorire

anche un nuovo stile di comunicazione tra i confratelli».

A livello generale, la Congregazione nel 2002 si è dotata di un “Progetto di formazione

permanente rogazionista” dal titolo Ravviva il dono di Dio che è in te, elaborato con l’apporto

delle varie Circoscrizioni e pubblicato ad experimentum. Il n. 1 di questo Documento interno della

letteratura spirituale rogazionista ha per titoletto “Rinnovamento e formazione”. Siamo introdotti

nel tema affine del “Ricominciamento”. È ricorrente l’idea del nuovo inizio; di una rilettura

spirituale del cammino di consacrazione, personale e comunitario; di nuovi percorsi da

intraprendere; di una nuova ( o rinnovata) lettura del carisma; di una rinnovata missione apostolica;

di una nuova, coraggiosa e intraprendente creatività nelle Opere proprie dei Rogazionisti… tutte

cose suggerite dal prefisso “re” \ “ri”). E vi è tratteggiata, tra le altre, la figura dell’adulto maturo

(45-65 anni; mentre l’adulto anziano è orientativamente dai 65 anni in poi). Si tratta di un testo che

vuole trasmettere dinamismo, e, in linea generale, vi si trovano delle utili indicazioni, anche

pratiche.

Quello della formazione permanente è uno dei concetti cardine del rinnovamento e del

ricominciamento. E capire questo gioca un ruolo determinante per le sorti stesse di un Istituto

religioso nella Chiesa, perché stabilisce la qualità e la “sensatezza” della presenza di questo

Istituto religioso. Sempre per dirla con Cencini, o saremo Rogazionisti formati (meglio ancora:

“in cammino di formazione”), oppure saremo rogazionisti “de-formati”, e perciò inadeguati ad

affrontare la complessità del nostro tempo, e incapaci di fare il bene che la nostra missione

carismatica ci richiede, perché saremo sostanzialmente incapaci di discernimento, di capire qual è il

bene che oggi ci appella e che gli altri attendono da noi.

“Il più grande dei respiri. Da lì ricominciare”

Un intermezzo sull’attualità dell’attuale “respiro” della Chiesa, a partire da una riflessione

di Marco Guzzi (con qualche punta estrema, ma passabile nell’economia complessiva del

discorso). Questo autore scrive in un blog: «Papa Francesco è stato preso “quasi alla fine del

mondo”. Anzi egli viene proprio alla fine di un mondo. Segno di nuovo inizio. È il primo papa

sudamericano. È il primo papa gesuita. È il primo papa che osa chiamarsi Francesco. Nessuno

aveva osato prima di lui, perché San Francesco è l’emarginato per eccellenza, il poverello, il pazzo.

Mentre il papa è il sovrano, il potente, il centro del mondo.

Un papa Francesco è un ossimoro, uno scontro logico, un paradosso, e quindi un vero evento

cristiano.

Tutto ritorna in gioco, e in discussione, un’intera figura del pontificato romano, e quindi una

figurazione millenaria della Chiesa e dello stesso Occidente planetarizzato.

Da ora si riparte, e si riparte dall’essenziale: il vescovo prima di benedire chiede che il popolo

invochi su di lui la benedizione di Dio. Il vescovo e il popolo dialogano, sono l’uno al servizio

dell’altro. Il vescovo invita subito a pregare e al silenzio: interiorità e comunità, semplicità e

radicalità, povertà e verità.

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Lo Spirito ci ha ancora sorpresi, e commossi, ora procediamo nella direzione intrapresa: che i primi

segni aprano per davvero una stagione di rinnovamento, di ricominciamento, di santità».

Molti hanno visto in questo inizio di pontificato di Papa Francesco un incremento del “PIL

della Speranza”, hanno percepito che non si tratta di un fenomeno mediatico, ma di una pioggia di

Spirito Santo che si è riversata sulla terra. Sempre nello stesso blog un medico, una radiologa

toracica commenta: «Il Papa è un miracolo vivente, infatti vive da più di cinquanta anni con un

lobo polmonare in meno! Credo sia stato operato intorno al 1957-59 quando la chirurgia toracica

era agli albori; sono tanti anni che mi occupo di malattie polmonari: non ho quasi mai visto una

cosa del genere!! Sembra che lo Spirito, il Respiro di Dio, agisca profondamente proprio a partire

da quella ferita, e come nel movimento dell’inspirazione, sembra dilatare in noi una fede e fiducia

profonde. Che bell’immagine quella suggerita dal Papa Francesco: un polmone infermo che

genera il più grande dei respiri. Da lì ricominciare sempre. Ogni giorno, ogni istante».

(N.B.: compare il sostantivo “ricominciamento”, e il verbo all’infinito “ricominciare”).

Ricominciamento e vocazione personale

La già ricordata Istruzione vaticana “Ripartire da Cristo” al n. 21 dice: «Ripartire da Cristo

significa dunque ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela». Può

bastare, perché dà il senso del prefisso “ri” (in latino “re”) e della scaturigine, ossia dà l’elemento

fontale dal quale tutto ha avuto inizio, il big-bang primordiale. Si sta parlando di

“ricominciamento”. Dove tutto è cominciato per i Rogazionisti? Dove sta il nostro big-bang?

Tutto ha avuto inizio con Sant’Annibale Maria Di Francia e il dono dello Spirito che è il carisma del

Rogate.

Il già ricordato libro di Romano Guardini, Le età della vita. Loro significato educativo e

morale, ha pagine di profonda riflessione sulla vita che trascorre nel tempo, e su come andrebbe

affrontata. Guardini evidenzia il contrasto, che si verifica nell’età adulta, tra la pienezza del vigore,

la creatività nelle realizzazioni e, insieme, l’esperienza lacerante dei propri limiti, l’emergere

delle stanchezze, lo svanire delle illusioni, il subentrare della routine rispetto alla iniziale novità, lo

svelamento delle miserie della vita… Questa situazione dà una consapevolezza nuova di sé e della

realtà. La persona adulta entra così in una inevitabile crisi. Percepire in maniera acuta il disincanto

e la disillusione delle “Grandi speranze” (dal titolo del romanzo di Charles Dickens) può portare ad

un sentimento di resa nei confronti della vita, in un momento in cui tutto quello che si fa o si dice

non ha certo il colore smagliante dell’azzurro di una giornata di sole, quanto piuttosto quello di una

grigia giornata d’autunno.

Ed è proprio in questo momento che la persona adulta deve far fronte con la perseveranza e

l’audacia della libertà che resiste e persiste nel compito, che continua a rimanere in ascolto

dell’appello del Signore, della vocazione ricevuta. In questa prospettiva antropologica ciò che

accade alla persona può essere interpretato come una “seconda chiamata”, e il libro di Guardini è

un elogio delle persone diventate “adulte”.

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La “seconda chiamata”

C’è un libro di René Voillaume, Sulle strade del mondo: lettere ai fratelli cristiani,

Editrice Morcelliana, Brescia 1960, pp. 294 (traduzione di Vanna Casara, e più volte ripubblicato),

che rilegge la stagione di stanchezza, di stasi o anche di crisi che spesso si affaccia ad un

determinato momento nella vita di molti, in termini di “seconda chiamata”, seconda vocazione, e

la legge da un punto di vista teologico e spirituale (mentre quello di Romano Guardini era

prevalentemente antropologico). Voillaume ne parla in questi termini: «Vi ho parlato della seconda

chiamata di Gesù, quella chiamata che ci fa ripartire verso di Lui nella piena maturità della

nostra vita umana e spirituale. È solo a partire da questo momento cha apparteniamo realmente e

totalmente a Dio. Gesù attende da noi una messa in atto delle condizioni per una nuova partenza,

dovremo smettere di guardarci e sapere riscoprire che Gesù non ha mai cessato di essere presente, e

che la sua presenza è ora molto diversa da quella di prima. Per rendere possibile questa tappa

ciò che resta da scoprire e da vivere è il credere che Gesù ha detto la verità quando ha affermato che

“questo è possibile a Dio”» .

Trovandosi a vivere stagioni sofferte e precarie della propria vita; in cui si fa sentire la

difficoltà della durata, della “tenuta” (sulla media e lunga distanza, dopo aver bruciato lo sprint

della giovinezza); in cui si avverte una certa usura dell’ideale perseguito e dello sforzo fatto per

realizzarlo; in cui – in una parola – bisogna “resistere”, e sentendosi, invece un po’ deboli e

qualche volta anche infedeli, ecco che si scopre come invece questa fragilità possa ribaltarsi ad

essere un accesso a nuovi cammini, magari più alti e comunque senz’altro ancora fecondi, come

quelli che hanno caratterizzato l’età verde della consacrazione. Dice ancora Voillaume: «Imparare a

superare generosamente le tappe successive della crescita del Cristo in noi, è altrettanto importante

quanto l’aver cominciato bene». Occorre accettare di ripartire, in una nuova prospettiva.

Un’immagine efficace, sempre di Voillaume: «Come l’alpinista preso da vertigine, non abbiamo

più il diritto di guardare verso il basso, di seguire con lo sguardo la parete alla quale siamo

aggrappati, sotto pena di staccarcene o di non poter più avanzare: siamo condannati a guardare solo

in alto oppure a non arrivare alla meta». E l’esortazione finale è: «Ciascuno di voi, dopo tutto, resta

libero di fronte al Signore, libero di ridirgli il suo “sì” all’inizio di questa nuova tappa».

Come intendere questa “seconda chiamata”? Lo spiega il vescovo Renato Corti: «Sappiamo

che la prima risposta alla vocazione può essere difficile; spesso, però, non lo è nemmeno molto. Lo

è invece quasi sempre la risposta che va data alla vocazione nel tempo in cui essa viene visibilizzata

con l’esercizio del ministero. Voillaume ha parlato di una seconda chiamata, che non è

propriamente un’altra rispetto alla prima, ma è il ritrovamento della prima e unica vocazione a

un livello di maturità maggiore, passando attraverso il crogiuolo di molte vicende distese sugli anni

spesi in missione» (Renato Corti, L’età adulta e la seconda chiamata, in AA.VV., La seconda

chiamata, Editrice Monti, Saronno (VA) 2007, p. 32).

“Per un tentativo di rinnovamento dei Rogazionisti”

Prima di dire qualcosa sulla missione carismatica da vivere nell’età matura\anziana, faccio

una riflessione sul Rogate nella prospettiva del suo gradimento sociale e della sua capacità di

affascinare ancora oggi le persone, particolarmente i giovani. Il rinvio è allo studio di Gaetano Lo

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Russo, Elementi di Psicologia Sociale per un tentativo di rinnovamento dei Rogazionisti, tra

l’altro pubblicato integralmente su “Studi Rogazionisti” nn. 114-115 (luglio-dicembre 2012). È la

Dissertazione per il conseguimento della laurea in Psicologia Sociale che il p. Gaetano Lo Russo ha

difeso nell’estate 2012 presso l’Università degli Studi di Firenze. Uno studio che “fotografa” la

Congregazione dei Rogazionisti. Sulla base di un’indagine sociologica condotta in Congregazione

e riportata nei due volumi di Giuseppe Scarvaglieri, Istanze e prospettive per una missione

carismatica (Editrice Rogate, Roma 2004, 2 voll., pp 280 + 148), e adottando la metodologia

scientifica della Psicologia sociale, lo studio di p. Gaetano Lo Russo intende fare un’analisi

dell’attuale configurazione sociale della Congregazione dei Rogazionisti, e avanzare della

proposte per un rinnovamento della stessa.

In questo studio p. Gaetano Lo Russo si chiede: «Il Rogate è un costrutto che crea

empatia?», e la sua risposta\proposta è: «Occorre forse pensare a un Rogate meno estensivo o

poliedrico e più focalizzabile su un aspetto di immediata presa» (p. 138). E prosegue: «Non si

tratterà di ripensare il carisma, né le norme o la Regola di vita. Si dovrebbe piuttosto ricreare un

equilibrio per ridurre al minimo la dissonanza di cui abbiamo già parlato – (una dissonanza

“cognitiva”, risultante dall’Indagine Scarvaglieri, dovuta al non essere in grado, da parte della

maggioranza dei Congregati nelle loro risposte al Questionario, di puntualizzare in modo

concettualmente adeguato e lessicalmente aderente il contenuto profondo del carisma, da cui

deriverebbe una incomunicabilità tra sfera intellettuale e sfera esistenziale delle persone dei

Congregati e del loro apostolato) – e rimettere in simmetrico bilanciamento pensiero e azione in

modo che il cambiamento possa essere efficace sia sul piano semantico sia su quello pragmatico»

(p. 139).

Lo studio propone alcune direzioni per il cambiamento, con analisi interessanti e proposte

operative (il focus group) intese ad una coraggiosa operazione di decostruzione\ricostruzione del

carisma (sempre dal punto di vista della Psicologia sociale). “Decostruzione” perché il Rogate,

come risulta dalle risposte dei Congregati, appare troppo carico di implicanze cognitive, emozionali

e operative. Ma da questa decostruzione si potrebbe – dice p. Lo Russo – «avviare una

ricostruzione che lo porrebbe di nuovo al centro dell’attenzione non solo di chi lo costudisce e lo

promuove, ma di nuovi eventuali fruitori: la Chiesa che in esso vede uno sbocco all’atavico

problema già indicato da Cristo e la società che tramite esso trova una pratica e provvidenziale

risposta all’annosa preoccupazione per la deriva morale e materiale di tante giovani vite» (p. 144).

Considerando la centralità che la dimensione del carisma occupa nell’identità della

Congregazione, si avverte l’esigenza di comprendere meglio le implicazioni pratiche del

“Rogate” (per evitare che ci si incastri in elucubrazioni astratte senza risvolti operativi, come

avverte p. Lo Russo a p. 106 del suo studio).

Il carisma del Rogate non dovrebbe mai restare qualcosa di astratto, un prodotto mentale,

soltanto una “intelligenza”, ma dovrebbe avere una portata esistenziale per i Congregati, essere

percepito come qualcosa di concreto, capace di orientare positivamente nella pratica il dinamismo

psichico dei Congregati, altrimenti le conoscenze rimangono chiuse in se stesse, senza una vera

ricaduta sul piano più propriamente attitudinale e operativo (cfr. l’Indagine Scarvaglieri). Il VI

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Capitolo generale dei Rogazionisti (1986) afferma: «Il Rogazionista si identifica con il Rogate

senza soluzione di continuità: coinvolge la vita nella preghiera e la preghiera nella vita, trasforma

l’energia orante in energia operante».

Se il Rogate non diventa cultura

Comunque si voglia considerare questo studio di p. Gaetano Lo Russo e i suoi sbocchi

pratici – ma in generale tutto ciò che viene pensato ed elaborato intorno al carisma o ad uno dei suoi

aspetti – si tratta sempre di una esigenza e di una operazione “culturale” che viene fatta, e che

andrebbe sempre più incrementata in Congregazione, come già auspicato dallo Scarvaglieri stesso, e

riconosciuto da p. Gaetano Lo Russo quando conclude la sua analisi con le parole: «Scarvaglieri

ribadisce la necessità di una ricostruzione teologica e sistematica del carisma». Ossia, per un

ricominciamento in Congregazione è importante produrre una “cultura del Rogate”, o che il

concetto\carisma del Rogate divenga cultura, cultura di Congregazione, anzitutto, componente

essenziale del modo abituale di pensare la vita del Rogazionista, di definire la sua identità, e

progettare la missione apostolica.

Perché se il Rogate non diventa cultura, mancherebbe qualcosa di decisivo alla

autopresentazione della Congregazione, e questa nuova, riconoscibile e possibilmente attraente

immagine sociale della Congregazione dei Rogazionisti è esattamente ciò che sottintende tutto il

senso dello studio di p. Lo Russo. D’altra parte, come afferma l’antropologia culturale, il concetto

di cultura è molto legato al concetto di identità, e la chiarificazione dell’identità carismatica

della Congregazione dei Rogazionisti come soggetto sociale, è un altro degli obiettivi dello studio

“per un tentativo di rinnovamento dei Rogazionisti” del p. Lo Russo. In ogni caso, una cosa è certa:

ciò che non entra nella cultura, o che non diventa cultura, è destinato a smarrirsi e divenire

insignificante nel breve tempo.

Si ha la profonda convinzione che la possibile soluzione della crisi di identità e di

“presentazione” della Congregazione nella sua immagine sociale, non sia tanto di carattere

“strategico” bensì “spirituale” e culturale. In un tempo in cui tutte le ideologie sono tramontare, il

“Rogate” – paradossalmente – deve diventare “ideologia”, “visione del mondo”, deve diventare un

“Grande Racconto” (cf Jean-François Lyotard e anche Paul Ricoeur), all’interno del quale

raccogliere la vita e la storia dei singoli Congregati, con i loro aneliti, desideri, sogni, volontà di

bene e di fare il bene. Il “Rogate” deve diventare “sistema” (συν-ιστημι = “riunione”) ossia la

composizione dei vari elementi – che attualmente si trovano sparsi e sparpagliati in modo

frammentario negli intendimenti ideali, nell’ascesi quotidiana, nel sentire spirituale – in un tutto

unitario che diventa principio interpretativo della realtà della vita, della spiritualità e della

missione dei Rogazionisti, ossia quella “grazia” ed “energia” spirituale (= carisma) in grado di

“motivare” e di “rendere ragione” delle azioni e delle Opere dei Congregati.

Il carisma “desiderabile”

C’è un libro di André Fossion che ha un titolo indovinato (ma anche il libro è indovinato,

non solo il titolo):“Dieu désirable” (tradotto “Il Dio desiderabile”, Edizioni Dehoniane, Bologna

2011, pp. 256). Occorrerebbe pensare al carisma del Rogate come un “carisma desiderabile”,

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ossia un carisma capace di interpretare, di “incontrare” i desideri profondi del cuore umano,

del cuore dei giovani, capace di affascinarli e di muoverli all’incontro con il Cristo davanti alla

messe desolata, come sant’Annibale davanti alla miseria di Avignone, a Sant’Annibale che prende a

cuore quella miseria e diventa “misericordioso” (come piace dire a Papa Francesco).

Di seguito vengono presentati in maniera solo enunciativa alcuni aspetti che, debitamente

articolati in termini di cultura, di spiritualità, di vita liturgica, di formazione, ecc… potrebbero

rendere “desiderabile” oggi il carisma del Rogate; aspetti in grado di incontrare la sensibilità, le

domande, le attese… delle persone di oggi. Sono giusto degli appunti senza approfondimento,

riflessioni le cui ricadute operative non vengono qui delineate, ma sono suggestioni che restano

valide in ogni età della vita, per continuare ad ispirare la spiritualità, la meditazione, la vita di

preghiera, il ministero della guida e del consiglio spirituale, della penitenza sacramentale…

(E in ogni caso, il p. Provinciale nel suo intervento, non mancherà di dare indirizzi e

orientamenti, e indicare anche alcuni percorsi pratici, alcuni obiettivi, che mostrino in che modo è

possibile oggi attuare la missione carismatica in Provincia, anche nell’età della vita che viene qui

considerata).

Il Rogate e la progettualità della persona

Una antropologia vocazionale – che è il contesto ideale e pratico del pensiero e

dell’azione apostolica di ogni Rogazionista – porta a far sì che l’azione educativa, formativa e

promozionale della persona vada aldilà della stagione adolescenziale e giovanile fino a toccare

tutto l’arco dell’esistenza di una persona dal momento che la vocazione investe tutta la persona e

l’accompagna per tutta la vita. Il “principio educativo”, inteso in senso vocazionale e

“promozionale” della persona non è solo una preparazione alla vita adulta, l’acquisizione di

competenze e metodi, un avviamento alla professione, e, infine, una “sistemazione” economica…

realtà tutte molto importanti, ma che non esauriscono la domanda di senso e di significato globale

dell’esistenza delle persone. In una “visione rogazionista”, “preparare alla vita” non significa

soltanto “ inserirsi socialmente e trovare una sistemazione lavorativa”, quanto soprattutto aiutare le

persone a prendere coscienza del progetto divino su di loro, aiutarle a scoprire e realizzare la

loro personale vocazione nella Chiesa e nella Società. Una “visione rogazionista” della questione

pedagogica è segnatamente un fatto di progettualità sulla persona, su tutta la persona

(dimensione trascendente compresa) e per tutto l’intero arco dell’esistenza. (Anche se poi, a livello

di “strutture” operative di accoglienza e di intervento educativo, avremo a che fare con “case

famiglia”, strutture per accoglienza di minori in disagio familiare e sociale, ecc…).

Una educazione nella prospettiva del carisma del Rogate vuol dire mettere una persona in

condizione di realizzare la propria vocazione nella vita, e questo fatto è esattamente la più alta

forma di promozione umana e integrale, completa, della persona stessa. Credo che la nota

caratterizzante di una “pedagogia rogazionista” stia nel vedere la vocazione di ogni persona come

fattore costitutivo della integrale promozione umana della persona stessa; e – d’altra parte e

inscindibilmente – considerare come la promozione umana, integrale, di ogni persona è l’unica

chiave che apre per quella persona l’evento della vocazione, ossia la possibilità che quella

persona possa percepirsi come vocazione, e possa rispondervi (qualunque poi sia la vocazione).

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In altre parole: accompagnare una persona alla scoperta della sua vocazione significa,

insieme, promuoverla nella sua integrale umanità e dignità; e, d’altra parte, fare opera di

promozione umana e sociale, significa, insieme, fare “evangelizzazione”, annunciare la “buona

notizia”, ossia rendere nota e manifesta a quella persona la sua divina vocazione.

Il Rogate e le sfide della contemporaneità

Papa Benedetto XVI ha ricordato a tutti i Rogazionisti nel Messaggio per l’XI Capitolo

generale del 2010: «Seguite l’esempio di Padre Annibale e proseguitene con gioia la missione

valida ancora oggi, pur se sono mutate le condizioni sociali in cui viviamo. In particolare,

diffondete sempre più lo spirito di preghiera e di sollecitudine per tutte le vocazioni nella Chiesa;

siate solerti operai per l’avvento del Regno di Dio, dedicandovi con ogni energia

all’evangelizzazione e alla promozione umana». Il Papa con le parole “pur se sono mutate le

condizioni sociali in cui viviamo”, sottolinea l’aspetto della “contemporaneità” che deve

assumere la presenza e l’opera dei Rogazionisti, o, in altre parole, la “contemporaneità” con

cui vivere il carisma del Rogate.

Quanto si è appena detto a proposito di una “antropologia vocazionale” non è un

raggiungimento teologico, antropologivo e pedagogico di poco conto, se non altro per la forza con

la quale una siffatta visione “vocazionale” della persona ripropone il problema della “nuova

questione antropologica”, del “nuovo umanesimo” (che sarà a tema nel prossimo Convegno della

Chiesa Italiana nel 2015).

Il carisma del Rogate nella sua visione vocazionale\promozionale della vita, è in grado di

incontrare alcune punte di sensibilità che caratterizzano l’attuale visione dell’essere umano,

visione che mette in primo piano l’unicità della persona, l’accentuazione della realizzazione

personale e professionale nella vita; il senso dell’esistenza come opportunità di costruzione di un

futuro non abbandonato al caos; vita come compito e responsabilità verso se stessi e gli altri; per

arrivare, infine, anche a pensare la vita come dono di Dio, come progetto nella storia, come

vocazione, e missione per gli altri… Ci possono essere parecchi punti di contatto, di incontro e di

confronto.

Questa prospettiva di attenzione alla “persona chiamata\vocata” dovrebbe trovare la

Congregazione impegnata – proprio per una questione di fedeltà creativa del carisma del Rogate –

in un cammino di riflessione e di proposta ideativa (culturale) e pratica\realizzativa che interseca e

si intreccia con il cammino intrapreso dalla Chiesa italiana a partire dagli Orientamenti Pastorali

per il decennio 2010-2020 “Educare alla vita buona del Vangelo”. Questo Documento, nel punto

in cui si tratta della “crescita integrale della persona” considerata sia come individuo sia come

membro di una comunità più grande, così si esprime: «In questo quadro si inserisce a pieno titolo

la proposta educativa della comunità cristiana, il cui obiettivo fondamentale è promuovere lo

sviluppo della persona nella sua totalità, in quanto soggetto in relazione, secondo la grandezza

della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino (…). Così la persona diventa

capace di cooperare al bene comune e di vivere quella fraternità universale che corrisponde alla

sua vocazione» (EVBV, 15). Se questo fosse vero, vorrebbe davvero dire, come Congregazione

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religiosa, camminare nella storia e accompagnare la Chiesa con una testimonianza e una

memoria profetica ispirate dal carisma del Rogate…

Sulla base di queste riflessioni, e tornando al discorso più immediatamente educativo , il

Rogazionista sarà pienamente consapevole che la “grandezza” umana dei ragazzi e giovani, la loro

vera statura morale, la nobiltà delle loro anime… saranno misurate proprio sull’educazione che

avranno ricevuto. Nell’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters, si leggono queste parole

a riguardo di Samuel Gardner, il giardiniere che accudiva la serra: «Ora io, fittavolo della terra,

vedo che i rami di un albero non sono più vasti delle radici. E come potrà l’anima di un uomo

essere più vasta della vita ch’egli ha vissuto?» (traduzione di Letizia Ciotti Miller, Newton

Compton editori, Roma 1994, p. 225). Quest’ultimo interrogativo, senza tradirne il senso

autentico, potrebbe essere riproposto con queste parole: “E come potrà l’anima di un uomo essere

più ampia dell’educazione che ha ricevuto?”. Nella consapevolezza che, forse oggi soprattutto,

educare significa accontentarsi di piccoli passi, ma senza mai dimenticare le grandi domande.

La missione carismatica nell’età matura

Comincio questa parte conclusiva dell’esposizione con una citazione di Papa Benedetto

XVI nel Discorso ai superiori generali durante l’udienza del 26 novembre 2010: «La missione è il

modo di essere della Chiesa e, con essa, della vita consacrata; è parte della vostra identità». Ossia

a dire che l’identità di una persona consacrata si fa chiara e si costruisce, anche, nella sua missione,

nel suo mandato carismatico.

La gran parte delle considerazioni fin qui suggerite erano da leggersi per un

“Ricominciamento” della persona o delle persone consacrate per quanto riguarda il

“discepolato”, ossia, nel nostro caso, per quanto riguarda l’essere rogazionista nella dimensione

umana e spirituale (più che “apostolica” e “missionaria”).

È opportuno dire qualcosa di più specifico sulla “missione” (carismatica), anche se i due

aspetti – il discepolato e la missione – vanno sempre insieme, come insegna il Documento finale

della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi di Aparecida

(2007), che parla di “discepoli-missionari”, in particolare nei nn. 144-146, senza la “e” di

congiunzione, a indicare due termini che sono in una reciproca e significativa implicazione. Allora,

la domanda potrebbe essere: cosa significa essere “Apostoli del Rogate” nell’età matura e

anziana?

Qualcuno ha detto che «la giovinezza ci fa sognare, la maturità ci fa pensare, la vecchiaia ci

fa sospirare». Ma qui non è ancora il tempo di “sospirare”, e allora proviamo a vedere cosa si può

“pensare” (= occupazione della maturità) a riguardo del carisma del Rogate in riferimento sia

alla preghiera\diffusione e cultura delle vocazioni, sia in riferimento al compito educativo e della

promozione integrale della persona. Sono aspetti della missione carismatica che mentre ci

appartengono come dimensioni entrambi co-essenziali del carisma, nel contempo ci appartengono

come fattori di formazione permanente, o se volete di “santificazione”, non diversamente da

quello che dice il Concilio Vaticano II a proposito dell’apostolicità delle Congregazioni di VC

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“attiva”, “apostolicità” che è il mezzo stesso attraverso il quale i religiosi perseguono e raggiungono

la loro santità di vita (cfr. Perfectae caritatis, n. 8).

Cosa è possibile ancora fare?

Gli appelli di Dio continuano anche con l’avanzare dell’età, in una stagione della vita nella

quale magari si calpesta meno terra, ma si contempla più cielo, e nella quale è dato di vivere

l’attimo presente con più pienezza. Anche in un’età che trascolora dalla maturità all’anzianità è

sempre possibile dire: Incipit vita nova, come direbbe Dante.

Nella fase della vita tra l’età matura e quella anziana possono sorgere qualità e attitudini

che sono assenti in altre stagioni dell’esistenza: essere consapevoli e comprendere più in

profondità i messaggi che la realtà – a partire dal nostro corpo – ci invia; saper accogliere le

esperienze del limite e riconciliarsi con se stessi, ossia essere meno duri e intransigenti con se

stessi; aprirsi ad aspetti, prospettive, valori nuovi… Jim Morrison – “poeta maledetto” del rock

diceva: «Non serve strappare le pagine della vita, basta saper voltare pagina e ricominciare...». Lo

diceva uno (ma non c’è alcuna fonte attendibile di attribuzione) che di pagine da strappare ne aveva

ben poche essendo morto a nemmeno 28 anni, nel 1971.

Quale atteggiamento avere nei confronti della missione carismatica nell’età matura\anziana

della vita?

Una citazione che potrebbe funzionare come paradigma: «Non ti chiedo miracoli o visioni,

ma la forza per affrontare il quotidiano. Preservami dal timore di poter perdere qualcosa della vita.

Non darmi ciò che desidero, ma ciò di cui ho bisogno. Insegnami l’arte dei piccoli passi» (Antoine

de Saint-Exupéry). L’autore del Piccolo Principe chiede a Dio un dono raramente invocato, quello

della semplicità e della fedeltà pacata e serena nelle piccole scelte di ogni giorno. Lo stesso

attagiamento del salmo 131: «Non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze». L’arte dei

piccoli passi. Non balzi sensazionali e spesso rovinosi, ma un lento e progressivo cammino verso la

meta.

Piccoli passi, sì, perché le gambe sono stanche, ma la passione deve restare grande. Nell’età

matura occorre coltivare ancora e sempre la capacità di appassionarsi. All’origine di ciò che di

grande è stato compiuto nell’umanità non c’è tanto un’idea, quanto una passione, o se volete una

visione. Su questo è d’accordo uno che ha fatto della razionalità il perno di tutto il suo sistema di

pensiero. Hegel diceva: «Nulla di grande nel mondo è stato fatto senza la passione».

Vivere il carisma del Rogate in età anziana

L’età matura per una persona consacrata è l’età in cui occorre «passare dalla prevalente

pastorale dei servizi, sociali o religiosi, alla pastorale della spiritualità» (Rino Cozza, Le risorse

dell’età anziana, in Testimoni” 16/2008, p. 11). «Dopo la preferenza data al fare, tipica della prima

parte della vita, il richiamo del valore dell’essere si fa sempre più forte; se colto e integrato

adeguatamente, esso può imprimere un volto nuovo alla vita. Infatti non è principalmente attraverso

la performance che noi diamo testimonianza di un’esistenza vissuta in pienezza, bensì attraverso la

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qualità di una vita vissuta fedelmente e profondamente» (Angelo Brusco, Le sfide dell’età di

mezzo, in “Testimoni” 13/2011, p. 10).

Cosa potrà voler dire questo discorso per i Rogazionisti? L’avvicinarsi o l’entrare nell’età

anziana della vita, per un Rogazionista potrebbe voler dire alcune cose importanti:

* sia sul versante della guida e del consiglio spirituale in ordine all’accompagnamento dei

giovani affinché possano scoprire e seguire la loro propria vocazione nella vita (i quali giovani –

occorre ricordarlo – vogliono e hanno bisogno di avere accanto la figura del “padre” \ “madre”,

della “guida” e del “maestro-testimone”, non tanto quella del “compagno”, dell’amicone, del

gruppo dei pari, che non sono in grado di offrire un consiglio sapiente, una guida sicura, una

direzione spirituale illuminata in fatto di discernimento e maturazione della vocazione). Nella

“pedagogia vocazionale” alla quale si è prima fatto cenno, il Rogazionista anziano può benissimo

porsi come ermeneuta \ interprete del disegno di Dio sul giovane, l’interprete che “media” tra ciò

che il soggetto avverte dentro di sé, nella verità del proprio cuore, e ciò a cui il Signore lo chiama ad

essere e a fare nell’esistenza. Il Rogazionista anziano può ancora essere un educatore che aiuta a

“rivelare” (= togliere il velo), a “scoprire”, a leggere il progetto di Dio sul soggetto, e lo

accompagna a realizzarlo, rispondendo alla chiamata con consapevolezza e responsabilità.

Joseph Joubert, filosofo francese e moralista (nel senso di scrittore di aforismi), a cavallo

tra il XVIII e il XIX secolo, diceva che: «Anche l’autunno della vita ha le sue luci, quelle luci che

non hanno le altre stagioni», come a dire che l’imbrunire (o la sera) di una vita ben vissuta porta

con sé la sua lampada, una lampada che non illumina solo la persona anziana, ma anche quelli che

la circondano e che vengono a contatto con lei. Si è molto ricevuto durante la prima fase della vita,

la vita ha molto donato; adesso si restituisce a Dio i doni ricevuti, e lo si fa prestando agli altri, ai

giovani che lo chiedono, l’ascolto, il tempo, l’accoglienza, il consiglio, la narrazione di una storia di

vocazione che trasmette tranquillità, serenità, libertà, abbandono, pienezza, il senso di una vita

riuscita. Che non è raccontare il passato, non è – direbbe Gustav Mahler – «culto delle ceneri,

ma custodia del fuoco». Perché c’è ancora un fuoco sacro che arde dentro queste persone

consacrate ricche di anni, un fuoco capace ancora di incendiare e appassionare il cuore dei giovani.

Il bagaglio dell’esperienza può diventare ricchezza per gli altri.

* L’avvicinarsi o l’entrare nell’età anziana della vita, per un Rogazionista potrebbe ancora avere

un suo significato anche sul versante della Carità rogazionista, in questo caso non tanto in

ambito operativo, quanto soprattutto in un ambito di presenza autorevole e testimoniale di

persone consacrate che vivono in una pienezza di umanità risolta e oblativa, ricche di responsabilità

per gli altri (= ossia di rispondere per gli altri); ricche di “simpatia”, e che hanno capacità di grande

empatia con gli altri; persone che sanno come farsi carico, se non più dei corpi feriti e piagati,

senz’altro però dei cuori e degli animi dei poveri e dei piccoli, altrettanto, se non di più ancora,

feriti e piagati; persone consacrate che hanno ricevuto un dono e si sono fatte dono per gli altri,

perché possano anch’essi raggiungere la statura dell’uomo nuovo Gesù Cristo; esseri umani non

solo riscattati, ma resi protagonisti del loro proprio riscatto.

Il Rogazionista anziano può ancora essere in grado di rendersi socialmente responsabile

della vocazione degli altri, della loro conquistata dignità. Nel Rogazionista che a lungo ha vissuto

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la Carità del Rogate sull’esempio di Sant’Annibale Maria Di Francia, gli altri potrebbero

leggere, incise profondamente in una carne così a lungo offerta in sacrificio, le parole di Don Primo

Mazzolari: «Cristo ha fatto del cristiano l’uomo finalmente promosso a uomo».

Sotto il segno della speranza

Tutto il discorso fin qui svolto sulla formazione permanente, sulla voglia di “ricominciare”,

sulle chances della nostra missione carismatica… si risolve, alla fine, in una grande pedagogia

della speranza. C’è un Venerdì santo della speranza, in attesa di risurrezione, e in esso non

bisogna perdersi, anche se percepiamo che c’è un rallentamento nel tendere con prontezza di

energie a realizzare il Vangelo nel carisma del proprio Istituto. La maturità, e ancor di più

l’anzianità, sono le l’età in cui non basta chiedersi “che cosa non possiamo più fare”; la

domanda alla quale rispondere è “che cosa possiamo fare oggi?”; e ancora: “che cosa dobbiamo

evitare perchè l’avventura che un giorno si è intrapresa – nata da un innamoramento per il

“Vangelo del Rogate” – possa slittare verso una tiepida consuetudine e si trasformi in un noioso,

rassegnato e forzoso adempimento di pratiche?

Lo scrittore francese Jean Paul nella sua opera Titano ha una frase illuminante. «La

vecchiaia è triste non perché cessano le gioie, ma perché finiscono le speranze». Ma occorre

sempre rinverdire la speranza. C’è una bella poesia che ho trovato in internet (di una disabile,

anonima). Dice:

«Se sei stanco e la strada ti sembra lunga,

... non lasciarti scivolare sul filo dei giorni e del tempo,

Ricomincia!

Perché l’albero germoglia di nuovo dimenticando l’inverno,

il ramo fiorisce senza domandare perché,

e l’uccello fa il suo nido senza pensare all’autunno,

perché la vita è sperare e ricominciare».

La VC è chiamata sempre e di continuo a compiere il passo dalla “gloriosa storia” ad

una storia nuova. «Voi non avete solo una gloriosa storia da raccontare, ma una grande storia da

costruire. Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi»

(Vita Consecrata, n. 110). È il penultimo numero dell’Esortazione apostolica del 1996 (poi c’è il

111, che è la “Preghiera alla Trinità”, il n. 112 è l’Invocazione alla Vergine Maria) per cui si può

dire che è la “conclusione” effettiva di Vita Consecrata, nella quale si invita a guardare al

futuro, anche nella consapevolezza che esso potrebbe essere nebuloso, avvolto in una foschia

nella quale è davvero difficile scorgere segni di speranza e di rinascita. Ma, come dice Clemente

Rebora in una sua poesia: «Il momento più freddo del giorno è verso l’alba quando si annuncia il

sole» (c’è il freddo più aggiacciante, ma c’è, insieme, la promessa della luce).

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Conclusione

Due citazioni riassuntive, in grado di esprimere in maniera emblematica il senso del

discorso fin qui fatto. La prima è un rimpianto. Sono i versi famosi di Thomas Stearns Eliot

(quello di Assassinio nella cattedrale dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, e del poema

Terra desolata); versi tratti dalla poesia “La Rocca”: «Dov’è la vita che abbiamo persa vivendo? /

Dov’è la saggezza che abbiamo perso nel sapere? / Dov’è il sapere che abbiamo perso mettendo

insieme le nozioni?». Soprattutto il primo verso, arrivati ad un certo punto dell’esistenza, fa

pensare: “Dov’è la vita che abbiamo persa vivendo?”. Dicevo che è, appunto, un rimpianto. Ho

citato questa espressione poetica molto suggestiva, ma l’ho citata come qualcosa che non ci

dovrebbe appartenere, non dovrebbe entrare a far parte della nostra disposizione d’animo verso la

vita che abbiamo vissuto.

La seconda citazione è una frase di Søren Kierkegaard nella sua opera “Enten-Eller”

(“Aut-Aut”), una frase che non è un rimpianto. Tutt’altro, è una proiezione, un protendersi

dell’animo, un totale sbilanciamento in avanti senza però perdere l’equilibrio vitale. Una frase che

sembra proprio rivolta a persone chiamate oggi a vivere la loro missione in questi tempi difficili ma

anche affascinanti. Persone che magari sono chiamate, anche nella maturità della loro vita, ad un

“Ricominciamento”…

Possa essere beneaugurante per tutti i Congregati Rogazionisti (in particolare dei Confratelli della

Provincia ICN):

«Se potessi augurare qualcosa

non vorrei né ricchezza né potere

ma la passione del possibile:

vorrei soltanto un occhio

che, eternamente giovane,

brillasse eternamente

dal desiderio di vedere il possibile».

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(Post scriptum: vi ho parlato del tema che mi era stato assegnato, in mezzo ad una girandola di

citazioni, oltre che teologico-spirituali e magisteriali, anche letterarie, poetiche, musicali,

filmiche… Questo per due motivi.

Primo, perché tante volte il verso di una poesia, l’immagine di un film… esprimono una realtà,

anche spirituale, assai meglio di tante parole stanche e senza sapore dii una teologia verbosa e

cervellotica. E in questo sono confortato da tanti ed eccelsi esempi sia in campo filosofico sia

teologico. Molti grandi filosofi e teologi, soprattutto nella fase finale del loro pensiero, sono

diventati mistici e poeti (cfr., solo per dirne qualcuno, San Tommaso, von Balthasar, e in filosofia,

Heidegger).

In secondo luogo perché sono convinto che oggi il kerigma, la catechesi, l’omiletica dovrebbero

sempre più avvicinarsi al genere narrativo (la “narratologia”); lasciare un po’ da parte il

“dottrinarismo”, il “catechismo”… e diventare più narrazione, più racconto, come, del resto,

sono i Vangeli, che sono racconti, parabole, storie…