la costituzione e la cittadinanza · costituzione italiana; 2 lo stato e la cittadinanza. nella...
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LA COSTITUZIONE E LA CITTADINANZA
Manoscritto a cura del Prof. Massimo De Pietro
Dall’autore ….. “Cittadinanza e Costituzione” ……
Per gli studenti delle classi quinte dell’ IPSAR “Le Streghe”
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LA COSTITUZIONE E LA CITTADINANZA
Premessa e presentazione
Questo manoscritto, nato da
un’idea della Dirigente
del’Ipsar Le Streghe,
prof.ssa Maria Gaetana
Ianzito, e del prof. Massimo
De Pietro, intende essere
uno strumento offerto agli
allievi delle classi quinte al
fine di affrontare con maggiore serenità l’esame di maturità, come
riformato, comprendente un colloquio orale sui temi della
Costituzione e della Cittadinanza. I maturandi, solo nel corso
dell’anno scolastico, hanno saputo delle riforme e, naturalmente,
avranno più di una preoccupazione: la modifica dello status quo, le
innovazioni generano sempre incertezze, ancor più, in ragazzi
giovanissimi. E’ un lavoro concettuale e contestualizzato, meramente
integrativo delle conoscenze che gli allievi dell’Ipsar “Le Streghe”
hanno acquisito attraverso il magistrale insegnamento dei docenti di
Italiano, Storia, Diritto, e non solo. Probabilmente, molti concetti
sono già patrimonio dei ragazzi, grazie al professionale e saggio
contributo di tutti i loro docenti, ciascuno dei quali, al di là
dell’insegnamento della disciplina, svolge una quotidiana azione
didattica finalizzata a far divenire l’alunno un buon cittadino ed eleva
la Costituzione a bussola del vivere sociale. L’esigenza di provare a
dare a ciascun allievo un quadro ancor più chiaro della Costituzione,
sotto l’aspetto storico, sociale e giuridico, di comprendere il ruolo e
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l’essere cittadino, ha guidato il redattore alla stesura di questo
scritto. L’idea è nata dall’acquisizione dei contenuti della riforma
dell’esame di maturità, a cui non si è inteso replicare con una sterile,
seppure condivisibile, polemica sulla sua opportunità e sui tempi di
introduzione, ma ideando un mezzo per sostenere gli alunni delle
quinte che dovranno confrontarsi con una nuova disciplina. “Dura
lex, sed lex” recitava un antico brocardo latino: è inutile contestare
una riforma vigente, per quanto discutibile; è preferibile attrezzare i
ragazzi ad affrontarne i contenuti innovativi su cui dovranno
cimentarsi. Nell’epoca dell’indebolimento generalizzato di ogni
autorità simbolica, l’insegnamento può ridursi alla mera trasmissione
di informazioni? Certamente no! Da qui uno scritto che, in qualche
frammento, pur complesso e tecnico, tende ad un’acquisizione
critica e contestualizzata dei principi e degli istituti, nonché del loro
modus operandi. E’ necessario, soprattutto, in un momento in cui
prevale un modello ipercognitivo, emancipato da ogni
preoccupazione valoriale, che rafforza le competenze e risolve i
problemi, piuttosto che saperli porre. La metafora più appropriata a
questo contesto, come afferma Massimo Recalcati, “non è più
botanica ma informatica: in gioco non sono più le viti storte da
raddrizzare con fili di ferro ma le informazioni da immagazzinare. Le
teste funzionano come computer, come mappe cognitive che
esigono un puntuale aggiornamento. Si tratta semplicemente di
caricare files secondo il principio utilitaristico del massimo beneficio
con il minimo sforzo”. A soccombere è il rapporto del sapere con la
vita; prevale una concezione utilitaristica dell’apprendimento come
una gara che non offre tempo alla riflessione critica. Da qui, il timido
tentativo di contestualizzare le istituzioni, esplicare i meccanismi di
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funzionamento dell’apparato statale, analizzare storicamente i
processi, formulare riflessioni ciritiche, identificare i progetti di
riforma che, pur creando qualche naturale difficoltà, tende a
mantenere vivo il rapporto dell’allievo con il sapere. Consapevoli,
naturalmente, dell’impossibilità di sapere tutto il sapere e che
l’insegnamento è un confronto con il limite del sapere attraverso il
conoscere, si è inteso elaborare questo manoscritto al fine di fornire
un mezzo aggiuntivo ai ragazzi, che vogliano servirsene, per
confrontarsi con i contenuti della Costituzione e dello status di
cittadino. Il manoscritto è diviso in due segmenti culturali: 1. La
Costituzione Italiana; 2 Lo Stato e la cittadinanza. Nella prima parte,
si esamina il tradizionale passaggio storico – dallo Statuto Albertino
alla Costituzione Italiana, con la crisi dello Stato liberale, l’avvento
del fascismo e l’elezione dell’assemblea costituente - , si delineano i
caratteri della Costituzione, la procedura di revisione costituzionale,
attualizzandola fino ai giorni nostri (con il fallimento, per volontà
popolare, della legge di revisione dell’assetto istituzionale del
Governo Renzi), i limiti alla revisione costituzionale, l’identificazione
del nucleo essenziale irriformabile. Nella seconda parte, si collega il
concetto di cittadinanza a quello di Stato: esiste un civis in quanto
esiste uno Stato. Identificato lo Stato, si analizza l’evoluzione storica
dello Stato moderno, dall’assoluto a quello democratico, si
individuano le forme di Governo e le modalità di acquisto della
cittadinanza, alla luce delle riforme introdotte, nonché il patrimonio
di diritti, libertà e doveri derivanti dallo status di cittadino.
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Parte I - La Costituzione Italiana -
La Costituzione della
Repubblica Italiana è la
legge fondativa dello Stato
Italiano. Fu approvata
dall’Assemblea Costituente
il 22 Dicembre 1947 e,
promulgata dal Capo
provvisorio dello Stato
Enrico De Nicola il 27
Dicembre, entrò in vigore
il primo Gennaio 1948.
Essa è costituita da tre
Sezioni: 1. I principi
fondamentali: artt. da 1 a
12; 2. Diritti e Doveri dei
Cittadini: artt. da 13 a 54;
3. Ordinamento della Repubblica: artt. da 55 a 139; oltre 18
disposizioni transitorie e finali.
Origini e nascita
Lo Stato italiano nasce istituzionalmente con la legge 17 Marzo 1861
che attribuisce a Vittorio Emanuele II, allora Re di Sardegna, il titolo
di “Re d’Italia”. E’ la nascita giuridica dello Stato Italiano. L’assetto
normativo del regno di Sardegna divenne struttura portante del
neonato Stato Italiano in base all’estensione dell’applicazione della
sua legge fondamentale, lo Statuto Albertino, concesso nel 1848 da
Carlo Alberto di Savoia, a tutti i territori del regno d’Italia, annessi al
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regno sabaudo con le guerre di indipendenza. La conservazione
dell’ordine dinastico da parte di Vittorio Emanuele e l’estensione
dello Statuto Albertino hanno indotto gli storici a parlare di
”piemontesizzazione” dello Stato Italiano da parte dei Savoia. Lo
Statuto Albertino rimase in vigore formalmente quasi 100 anni, dal 4
Marzo 1848 al primo Gennaio del 1948, quando entrò in vigore la
Costituzione Italiana. Lo Statuto Albertino rese l’Italia una monarchia
costituzionale, pur concedendo al popolo molto meno delle
costituzioni liberali vigenti negli altri Stati Europei. Era una
costituzione “ottriata”, ossia elargita dal sovrano ai propri sudditi, ed
era “flessibile,” ovvero derogabile ed integrabile in forza di un atto
legislativo ordinario. A causa della sua “flessibilità”, fu possibile la
trasformazione della monarchia costituzionale pura in una forma di
monarchia parlamentare (benché il potere esecutivo fosse detenuto
dal Re, il Consiglio dei Ministri spesso si rifiutò di restare in carica
ove non godesse del sostegno della camera elettiva). Il primo
Parlamento dello Stato Unitario, all’inizio del 1861, si compose con
suffragio elettorale ristretto al 3% della popolazione; nel 1882 il
diritto di voto fu portato al 7% della popolazione, con le riforme del
1912 e del 1918 il diritto fu esteso fino ad una forma di suffragio
universale maschile. Le camere, stante la limitatezza del diritto di
voto, non furono affatto rappresentative della volontà popolare,. A
causa della mancanza di rigidità dello Statuto, fu agevole deviare
verso un regime autoritario (il fascismo) in cui le forme di libertà
pubblica vennero travolte: le opposizioni vennero eliminate, la
Camera dei deputati abolita e sostituita dalla “Camera dei fasci e
delle corporazioni”, il diritto di voto cancellato; il diritto di riunione e
la libertà di stampa piegati a garanzia dello Stato fascista. Lo Statuto
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non solo non fu un argine alla deriva plebiscitaria ed alla involuzione
autoritaria dello Stato italiano, esso divenne addirittura uno
strumento, modificato, corretto ed integrato, per affermare i principi
fascisti e celebrare il partito unico fascista come mezzo di
mobilitazione politica pilotata dall’alto. Nonostante le modifiche, non
fu mai formalmente abolito.
I rapporti con la Chiesa Cattolica (nel cinquantennio precedente
erano stati decisamente aspri), vennero sanati nel 1929 tramite i
Patti Lateranensi per volontà espressa del duce; essi ristabilirono
ampie relazioni politico diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato
fascista. Le relazioni erano state interrotte tra il 1870 ed il 1929,
sebbene l’art. 1 dello Statuto Albertino proclamasse la religione
cattolica religione di Stato, per via della “Questione romana”. E’
eloquente che i rapporti migliorassero con l’avvento del fascismo: i
benefici che la Chiesa trasse dai Patti giustificarono l’intesa con uno
stato dittatoriale, irrispettoso dei diritti e delle libertà fondamentali
della persona; Mussolini ebbe bisogno di “una legittimazione” della
Chiesa per consolidare una involuzione ancor più autoritaria che
avvenne con il varo delle leggi c.d. “fascistissime”. Dopo il discorso
del 3.1.1925, in cui il duce si assunse di fatto la responsabilità del
delitto Matteotti, in Italia si attuò lo smantellamento dello Stato
liberale e si instaurò un vero e proprio regime totalitario. Mussolini,
con l’appoggio di Vittorio Emanuele III ed il tacito assenso della
Chiesa e delle gerarchie ecclesisastiche, godé della massima libertà
di azione. Le leggi fascistisime crearono la fusione tra il Fascismo e
lo Stato Italiano: svuotarono di poteri il Parlamento, rafforzarono i
poteri del Consiglio dei Ministri, riorganizzarono l’apparato statale
periferico, sostituendo ai rappresentanti locali, di nomina elettiva, i
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podestà, di nomina governativa, sciolsero le organizazioni politiche e
sindacali antifasciste, istituirono il Tribunale di Difesa dello Stato,
crearono l’OVRA, un nucleo di polizia politica segreta, attraverso cui
i gerarchi fascisti effettuarono un controllo capillare del territorio ed
una repressione di ogni forma di antifascismo. Epilogo infelice della
c.d. “fascistizzazione della nazione” fu la trasformazione del Gran
Consiglio del Fascismo nell’organo supremo dello Stato ed il varo di
una legge elettorale che, in concreto, divenne un referendum
meramente confermativo del fascismo. Le elezioni plebiscitarie del
1929 - in cui il popolo potè solo approvare o rifutare la lista
nazionale di 409 candidati, scelti dal Gran Consiglio - divenne uno
strumento di affermazione e di propaganda della dittatura fascista.
Nel 1943, Benito Mussolini perse il potere, il re Vittorio Emanuele III
nominò il Maresciallo Pietro Badoglio per presiedere il Governo che
ripristinò in parte le libertà dello Statuto: iniziò così il c.d. regime
transitorio di 5 anni che terminò con l’entrata in vigore della nuova
Costituzione e le successive elezioni politiche dell’aprile 1948, le
prime della storia repubblicana. I partiti antifascisti, costretti alla
clandestinità durante il regime, si riunirono nel Comitato di
Liberazione Nazionale, e si dichiararono decisi a modificare
completamente le istituzioni al fine di fondare uno Stato
democratico. La Corona fu giudicata fortemente compromessa con il
regime fascista (pagò la sua ipocrita complicità con il regime) e la
forte divergenza, in un clima ancora bellico, trovò una soluzione
temporanea in una tregua istituzionale in cui si stabilì: il
trasferimento dei poteri del re nel figlio (proclama del 12 Aprile
1944) che assunse la carica provvisoria di luogotenente del regno; la
convocazione dell’assemblea costituente incaricata di scrivere la
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nuova carta costituzionale, eletta a suffragio universale nel giugno
1944, con estensione del diritto di voto alle donne e l’indizione del
referendum istituzionale per la scelta tra repubblica e monarchia. Il
2 Giugno 1946, si svolsero contemporaneamente il referendum
istituzionale e l’elezione dell’assemblea costituente con la
partecipazione dell’89% degli aventi diritto al voto. Il 54%, (oltre 12
milioni) scelse la repubblica, superando di 2 milioni i voti a favore
della monarchia. L’assemblea costituente fu eletta con sistema
proporzionale e tre furono le formazioni che prevalsero alle elezioni:
la Democrazia Cristiana ottenne il 35,2% dei voti e 207 seggi, il
Partito socialista, il 20,7% con 115 seggi, il Partito comunista il
18,9% e 104 seggi. Le forze liberali e repubblicane ottennero 64
deputati con il 13% dei consensi. All’interno dell’Assemblea, venne
nominata una “Commissione per la Costituzione” composta da 75
membri appartenenti alle forze politiche presenti in assemblea. A
tale commissione venne affidato il compito di presentare un
“Progetto per la Costituzione”. La commissione dei 75, presieduta
dall’onorevole Meuccio Ruini, iniziò i suoi lavori il 20 Luglio 1946 e li
concluse approvando un ”Progetto di Costituzione per la Repubblica
Italiana” che presentò all’Assemblea Costituente il 31 Gennaio 1947.
L’Assemblea Costituente esaminò, emendò ed approvò il Progetto il
22 Dicembre 1947. Meuccio Reini, Presidente della Commissione,
nella seduta pomeridiana del 22 Dicembre, così si espresse: “Questa
Carta che stiamo per darci è essa stessa, un inno di speranza e di
fede. Infondato è ogni timore che sarà facilmente divelta, sommersa
e che sparirà presto. Noi abbiamo la certezza che durerà a lungo, e
forse non finirà mai, ma si verrà completando ed adattando alle
esigenze dell’esperienza storica…… la Costituzione sarà
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gradualmente perfezionata, e resterà la base definitiva della vita
costituzionale italiana. Noi stessi – ed i nostri figli - rimedieremo alle
lacune ed ai difetti, che esistono, e sono inevitabili”.
Così è stato! La Costituzione, a distanza di oltre settanta anni dalla
sua approvazione, nella sua struttura portante, è restata immutata
ed ha guidato il popolo italiano e la sua classe dirigente alla
realizzazione di una compiuta democrazia. Ha consentito al popolo,
provato da un ventennio di repressione, irrispettoso dei diritti e delle
libertà fondamentali, di evolversi ed approdare, come nei moderni
Stati occidentali, ad una corretta comprensione di una perfetta
democrazia. La Costituzione italiana nasce da un compromesso
politico di tutte le forze democratiche, ciascuna delle quali ha dato
un contributo determinante alla realizzazione di un’opera legislativa
che, ancora oggi, conserva del tutto intatto il suo significato ed
immutata la sua struttura. I Costituenti realizzarono una Carta
costituzionale che doveva tendere al pieno sviluppo della persona
umana affermando i diritti individuali, i diritti sociali e l’esistenza dei
diritti delle comunità intermedie, dalla famiglia alla comunità
internazionale, in questo distinguendosi tanto da un modello
individualista (alla Rousseau) che da quello statalista di tipo
hegeliano. In essa, vi sono principi sostenuti dalle forze di sinistra: il
diritto al lavoro, la necessità che lo Stato rimuova gli ostacoli alla
esercizio del diritto al lavoro, il diritto del lavoratore ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato
ed in ogni caso idonea a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia
una esistenza libera e dignitosa, la libertà sindacale; principi tipici
delle forze cattoliche: la società fondata sulla famiglia, suo nucleo
essenziale, il matrimonio come atto genetico della famiglia, la
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solidarietà e la cooperazione come valori universalmente
riconosciuti; principi delle forze liberali: la libertà di iniziativa
economica, la tutela della proprietà privata, la precisa scelta di un
modello economico liberista (lontano dal modello pianificato
sovietico). Tutte le forze politiche, però, erano accomunate da un
“idem sentire”: creare una struttura organica, con poteri di controllo
e garanzia, che potesse proteggere lo Stato da possibili involuzioni
autoritarie e derive plebiscitarie e veicolarlo ad una reale e compiuta
democrazia. In Italia, oggi, sovente, si accusa di malgoverno, di
inefficienza, di incapacità la classe dirigente, ma l’organo di governo
è espressione di una maggioranza parlamentare, rappresentativa
della sovranità popolare: è il popolo italiano che ha eletto e scelto,
indiettamente, tramite i suoi rappresentanti, quella classe dirigente.
Come avviene in democrazia (che politologi illustri ritengono “la
forma di Stato meno dannosa” e non certamente “la panacea di tutti
i mali”) la sintesi tra opposte e divergenti volontà avviene attraverso
l’applicazione puntuale e corretta del principio maggioritario: la
maggioranza prevale e la minoranza rispetta la volontà della
maggioranza. Probabilmente, un esercizio corretto del diritto di voto
(lontano da logiche clientelari, di appartenenza e di scambio, a cui
sovente “è sacrificata” la libertà di voto) che faccia realmente valere
il principio di responsabilità politica dell’eletto nei confronti dei propri
elettori aiuterebbe alla realizzazione di un’azione governativa
efficace, coerente con gli obiettivi programmatici, e di tutela
dell’intera comunità nazionale. Se è vero che il parlamentare non è
vincolato alla volontà dei propri elettori (divieto del mandato
imperativo), ed è libero nello svolgimento della propria attività di
parlamentare, è altrettanto vero che egli ne è responsabile
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politicamente nei confronti del corpo elettorale: a fine legislatura, se
l’operato politico dell’eletto sarà apprezzato, dovrebbe essere
confermato, in caso contrario, non sarebbe rieletto. In Italia - al di là
delle ultime leggi elettorali, qualcuna dichiarata illegittima dalla
Corte Costituzionale, che hanno impedito al corpo elettorale di
scegliere la persona – tale sistema di rappresentanza e
responsabilità politica non ha trovato piena applicazione. Non si
spiegherebbe altrimenti come politici, condannati penalmente per
reati gravi ed altri prosciolti, solo per prescrizione, il cui operato
politico è stato in gran parte criticato, abbiano ricoperto cariche
elettive per oltre un quarantennio.
Limiti alla revisione della Costituzione Italiana
La Costituzione, come già detto, è un testo costituzionale
gerarchicamente sovraordinato alla legge ordinaria e modificabile
solo da leggi di rango costituzionale. Sono previsti anche specifici
limiti alla revisione costituzionale che definiscono principi
costituzionali assolutamente immodificabili anche da leggi
costituzionali. Sono quei principi che costituzionalisti, giuristi e
dottrina definiscono il nucleo essenziale della Costituzione, e, come
tale, assolutamente immodificabile. Riformare il nucleo essenziale
significherebbe stravolgere l’assetto costituzionale dello Stato e,
quindi, porre necessariamente in essere uno Stato diverso da quello
strutturato in Costituzione. Esso è rappresentato dai principi supremi
dell’ordinamento costituzionale, coincidenti con i valori consacrati
nei primi 12 articoli della Costituzione (I Principi fondamentali). Il
limite “dei principi supremi” è stato ripetutamente richiamato dalla
Corte Costituzionale. Nel 2014, con la sentenza n.238, la Corte
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Costituzionale coglie l’occasione per una ricostruzione organica del
concetto di principi supremi, riconducendo ad unità la
giurisprudenza resa in sede di limiti alla revisione costituzionale.
L’art. 138 della Costituzione contempla il procedimento della
revisione costituzionale e di formazione delle leggi costituzionali,
differenziandolo naturalmente dalla procedura di approvazione delle
leggi ordinarie, previsto dagli artt. 70 e ss. della Costituzione. La
dottrina ritiene che l’art. 138, che prevede la c.d. procedura
aggravata, sia riformabile a patto che non venga eliminato il
carattere rigido della Costituzione: significa che sarebbe possibile
riformare l’art. 138 a condizione che rimanga sempre un
procedimento aggravato, prevedendo una procedura rinforzata
rispetto a quella necessaria per l’approvazione della legge ordinaria.
L’art. 138 sancisce che il Parlamento si esprima su una legge
costituzionale con 4 votazioni (due del Senato e due della Camera).
Per la prima votazione non è richiesta alcuna maggioranza
qualificata, nella seconda votazione è richiesta almeno la
maggioranza assoluta per dar corso ad un procedimento
referendario di tipo confermativo, oppure la maggioranza dei 2/3 dei
componenti che confermerebbe, senza bisogno di referendum, la
reale necessità di approvazione della legge di revisione. Tra prima e
seconda votazione è richiesto l’intercorrere di un tempo di almeno
tre mesi per permettere ai parlamentari di prendere piena coscienza
di ciò che è stato votato permettendo una seconda votazione più
consapevole. Oltre al nucleo essenziale, un altro limite alla revisione
costituzionale è sancito dall’art. 139 che ne sottrae “la forma
repubblicana”. Tale limite deriva dal risultato del referendum
istituzionale del 1946 che ha decretato il passaggio dalla monarchia
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alla Repubblica. L’Assemblea Costituente, essendo vincolata al
rispetto di tale decisione popolare, ha sentito il bisogno di esplicitare
il limite anche nei confronti del legislatore costituzionale futuro. Ci si
è domandatati se pur, in presenza dell’art. 139, non fosse possibile
individuare un procedimento idoneo a modificare la forma
repubblicana. Avendo il procedimento di revisione costituzionale la
funzione di mantenere viva nel tempo la Costituzione adeguandola
alle esigenze che emergano successivamente, essa non potrebbe
sovvertire il sistema di principi e valori contrassegnanti l’assetto
originario. Accanto al limite imposto dall’art. 139, si rinvengono altri
limiti alla revisione della Costituzione: alcuni espressi ed altri
impliciti. I diritti inviolabili dell’uomo (art. 2) ed il principio di unità
ed indivisibilità della Repubblica sancito dall’art. 5 sono
unanimemente ritenuti immodificabili (rientrano tra l’altro nel nucleo
essenziale che secondo i costituzionalisti, come detto, è
irriformabile). Ne deriva che forze politiche, come la lega, che
“inneggiava”, in passato, alla secessione era consapevole della
impossibilità di una sua realizzazione, a meno che non si volesse
sovvertire l’ordine costituito. La finalità di proganda e di
consolidamento del consenso elettorale dei partiti è stata prevalente
sulla reale volontà di migliorare, ove possibile, l’assetto
costituzionale. Immodificabili sono anche gli artt. dal 13 al 15
concernenti le libertà che la stessa Costituzione definisce inviolabili.
Tra i diritti inviolabili rientra senz’altro anche ’il diritto alla vita ed il
rispetto della persona umana”. Ne deriva che anche l’art. 27 è
immodificabile (la responsabilità penale personale, l’umanità delle
pene, la presunzione di innocenza, il divieto della pena di morte).
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Proposte di modifica della procedura di
revisione costituzionale
Sono state avanzate più proposte di revisione
costituzionale dell’art. 138. La proposta di
legge Boato alla Camera e quella di Mancino al Senato, negli anni
scorsi, erano indirizzate ad accentuare il carattere aggravato del
procedimento voluto dal Costituente, onde evitare che la revisione
restasse nella disponibilità della maggioranza vittoriosa nell’ultima
elezione. Maggioranza che, col passaggio dal sistema elettorale
proporzionale a quello maggioritario, con premio in favore della
coalizione vincente, consentiva la formazione di Governi sostenuti da
una maggioranza parlamentare che non era espressione della
maggioranza dei votanti. A tale scopo, si proponeva di elevare a tre
quinti dei componenti delle Camere il quorum previsto dalla
maggioranza assoluta in seconda votazione e di stabilire anche che
non si desse adito a referendum se la legge di revisione
costituzionale fosse stata approvata nella seconda votazione da
ciascuna camera a maggioranza dei quattro quinti. Tali proposte
sono naufragate per lo scioglimento anticipato della legislatura;
esse, però, confermavano la volontà politica delle forze parlmentari
che eventuali modifiche alla Costituzione fossero il più largamente
condivise e non fossero di provenienza esclusiva della maggioranza
vittoriosa alle elezioni. Stona con tale intento, il progetto di riforma
istituzionale della Costituzione presentato dal Governo Renzi nel
2016 che, ignorando la volontà dei parlamentari di accentuare il
carattere aggravato della procedura di revisione della Costituzione,
con una mera maggioranza semplice, peraltro non rappresentativa
della maggioranza degli elettori (stante il sistema elettorale con
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premio di maggioranza e l’operazione trasformista di reclutamento
di parlamentari eletti nella coalizione antagonista), ritenne di voler
modificare strutturalmente lo Stato senza alcun accordo con le forze
di opposizione. L’operazione politica del Governo, presieduto da
Renzi, fu pienamente legittima (perché consentita dalla Costituzione
che ne subordinava l’efficacia al referendum confermativo) ma
irrispettosa della volontà dei Costituenti, delle forze politiche, che
(con l’ingresso del modello elettorale maggioritario, con premio alla
coalizione vincente) erano propensi, come suddetto, a creare
quorum più elevati al fine di far sì che le riforme delle regole di
Stato e della Costituzione avvenissero in modo condiviso (intesa tra
maggioranza ed opposizione). Il popolo, in sede referendaria, nel
Dicembre 2016, respinse la riforma istituzionale del Governo
presieduto da Matteo Renzi. I suddetti progetti di revisione
costituzionale, tutti falliti, - o per anticipato scioglimento della
legislatura (legge Boato e legge Mancino) o per volontà popolare
(legge Boschi-Renzi) – confermano l’importanza che ha avuto la
Costituzione dal dopo guerra ad oggi: essa è stata la bussola che ha
guidato e tutelato gli italiani anche di fronte alle volubilità delle forze
politiche e delle maggioranze parlamentari che si succedevano
(sovente con operazioni trasformiste). In pochi anni, abbiamo
assistito, prima, a maggioranze che intendevano riformare la
procedura aggravata di riforma della Costituizione con quorum più
ampi e, qualche anno dopo, una risicata maggioranza (a sostegno
del Governo Renzi) voler stravolgere completamente addirittura
l’assetto istituzionale dello Stato. E’ stata la Costituzione lo stabile
timone che ha consentito allo Stato Italiano di appordare a lidi
sicuri.
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I principi fondamentali
I principi fondamentali, come già
detto, sono irriformabili (non
possono essere modificati
nemmeno con la procedura di
revisione prevista dall’art. 138),
contenuti negli artt. da 1 a 12,
rappresentano il nucleo di valori a
fondamento di ogni atto normativo
e dell’azione dei poteri dello Stato.
Il loro valore è precettivo e non programmatico: sono suscettibili di
applicazione diretta anche quando manchi nel caso concreto una
esauriente disciplina ordinaria di dettaglio. I primi dodici articoli
affermano i seguenti principi: 1. democrazia - art.1, I comma; 2.
sovranità popolare art.1, II comma; 3. Inviolabilità dei diritti - art.2;
4. uguaglianza formale e sostanziale - art.3; 5. diritto del lavoro; –
art.4; 6. riconoscimento delle autonomia locali - art.5; 7. tutela delle
minoranze linguisstiche - art.6; libertà religiosa - art.8; 8. sviluppo
della cultura, della tutela ambientale e del patrimonio storico ed
artistico - art.9; 10. ripudio della guerra come strumento di offesa; -
art.11; 11.riconoscimento di collaborazioni internazionali; -. Art.10;
12. Bandiera italiana- art-12.
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I diritti e i doveri dei cittadini
Dall’art. 13 all’art. 54 sono descritti i
diritti che lo Stato riconosce ai cittadini.
L’art. 13 afferma che la libertà personale
è inviolabile. La libertà è un bene
prezioso, un valore insopprimibile: essa
può essere limitata solo su disposizione del Giudice, oppure dalla
polizia, in flagranza di reato. E’ naturalmente una garanzia contro gli
abusi delle forze dell’ordine. L’art. 18 contempla la libertà di
associazione. I cittadini sono liberi di associarsi senza dover chiedere
l’autorizzazione dei pubblici poteri. Dal diritto di associazione
scaturisce il pluralismo politico che è alla base della democrazia.
Sono vietate le associazioni segrete, a delinquere ed eversive. L’art.
21 garantisce la libertà di manifestazione del pensiero: le forme di
manifestazione, profondamente mutate nel tempo (si pensi al web,
ai social, alle chat, agli sms etc.), incontrano l’unico limite nel
rispetto della legge, dell’ordine pubblico e del buon costume. L’art.
27, già richiamato perché gran parte dei costituzionalisti lo ritengono
irriformabile, sancisce che la responsabilità penale è personale,
impone tre gradi di giudizio (due di merito ed uno di legittimità), la
presunzione di innocenza dell’imputato fino a sentenza passata in
giudicato, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato
(non ha solo una finalità punitiva). Non è ammessa la pena di
morte. Gli artt. da 35 a 40 si occupano dei diritti dei lavoratori. L’art.
36 recita che “la retribuzione del lavoratore dipendente deve essere
commisurata alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque
essere sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia una esistenza
libera e dignitosa”. Il lavoratore ha diritto a ferie e a risposo
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settimanale (tali diritti sono irrinunciabili ed indisponibili). L’art. 38
pone le basi del sistema previdenziale: lo Stato deve occuparsi dei
cittadini che si trovino nell’impossibilità di lavorare a causa di
malattia, infortunio, invalidità vecchiaia, disoccupazione. L’art. 39
riconosce la libertà sindacale. L’art. 40 riconosce il diritto di sciopero
nel rispetto delle leggi e dei regolamenti. Una normativa dettagliata
regolamenta il diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici
essenziali. Per le violazioni di tale regolamento è prevista anche la
precettazione. Gli artt.41 e 42 enunciano i principi fondamentali del
sistema economico liberista. L’art. 41 recita così: ”l’iniziativa
economica privata è libera”; l’art. 42 afferma: ”la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge”; I beni possono essere di
proprietà dello Stato e dei privati. Gli artt. 48 e 49 sono dedicati ai
diritti politici. Il diritto di voto, attivo e passivo, di tutti i cittadini; il
voto uguale, personale, libero e segreto ed il riconoscimento del
pluralismo politico e partitico. Gli artt.52, 53 e 54 richiamano i doveri
dei cittadini: rispettare le leggi, difendere la patria in caso di guerra,
pagare le tasse. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche
in ragione della loro capacità contributiva, tanto che il sistema
tributario è informato al criterio di progressività (aliquota crescente
all’aumentare della capacità reddituale).
La parte seconda della Costituzione della Repubblica Italiana
descrive l'ordinamento dello stato, in particolare le caratteristiche
del suo garante, identificato nel Presidente della Repubblica, del
potere legislativo, di quello esecutivo e di quello giudiziario, nonché
degli enti locali e degli istituti a garanzia della Costituzione stessa.
Lo Stato Italiano si fonda sul principio di separazione dei poteri; le
tre funzioni fondamentali sono indipendenti tra loro: la funzione
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legislativa spetta al Parlamento, quella esecutiva al Governo, la
funzione giurisdizionale alla Magistratura. Ciascuno di questi organi
costituzionali è autonomo ed indipendente dall’altro. Al centro del
sistema istituzionale si pone il Parlamento, organo rappresentativo
della volontà popolare, che elegge in seduta comune il Presidente
della Repubblica, accorda la fiducia al Governo e può revocarla in
qualsiasi momento costringendo il Governo alle dimissioni (effettua
di fatto un controllo continuo sull’operato dell’organo esecutivo
attraverso, interrogazioni, interpellanze e mozioni), è detentore della
funzione legislativa (quindi “creatore” dell’ordinamento normativo
vigente). La Costituzione ha previsto una forma di bicameralismo
perfetto, due Camere, Camera dei Deputati e Senato della
Repubblica, aventi gli stessi poteri. In realtà, i Costituenti vollero
dare al Senato quel ruolo di "Camera di riflessione" che deliberasse
sulle leggi già approvate dalla Camera dei deputati, “l'Assemblea
nazionale" italiana. Nel Senato siedono anche i senatori a vita,
cittadini che, pur non essendo eletti, appartengono alla Camera alta
perché ex Presidenti della Repubblica (senatori di diritto) o per
altissimi meriti in ambito sociale, scientifico, artistico o letterario.
Tali cittadini sono nominati senatori dal Presidente della Repubblica
in carica, e non possono essere più di cinque, sebbene sia esistita
l'interpretazione dell'articolo 59 per cui il numero di cinque valga per
ogni Presidente della Repubblica, interpretazione data da Pertini.
Entrambe le camere rimangono in carica per una durata di 5 anni,
tale periodo prende il nome di "legislatura" e non può essere
prorogato se non per legge e soltanto in caso di guerra. Tuttavia
una legislatura può anche durare meno su decisione del Presidente
della Repubblica che può "sciogliere le camere" dopo aver verificato
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l’impossibilità delle stesse di esprimere una maggioranza
parlamentare in grado di sostenere un Governo. Al termine della
legislatura, lo stesso Capo dello Stato indice le elezioni, che hanno
luogo entro settanta giorni, e fissa la data della prima riunione delle
Camere; nel periodo tra la scadenza della legislatura e la formazione
delle nuove Camere, la prorogatio: sono prorogati i poteri delle
Camere precedenti, che però sono assai ridotti (limitati all'ordinaria
amministrazione), essendo ormai scaduta la funzione
rappresentativa del popolo. La Costituzione pone un limite esplicito
ai poteri delle camere in prorogatio: esse non possono procedere
all'elezione del Presidente della Repubblica. Ogni membro del
Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato (divieto di mandato imperativo). Ciascun
parlamentare è responsabile politicamente del proprio operato ma
non è vincolato alla volontà degli elettori che lo hanno votato. I
parlamentari non sono responsabili delle opinioni espresse e dei voti
dati nell'esercizio delle loro funzioni, proprio per quel principio di
rappresentanza della volontà popolare ad essi rimessa. Se l’autorità
giudiziaria, nelle modalità previste dalla legge di procedura penale,
intende procedere ad atti coercitivi nei confronti dei membri del
Parlamento, tale richiesta deve essere approvata dalla Camera cui il
parlamentare appartiene. La ratio di tale disposizione: in passato era
capitato in altri Paesi e in altre epoche - il caso più famoso è quello
della Prima rivoluzione inglese - che membri del Parlamento fossero
arrestati solo perché non amati dai giudici.
La parte della Costituzione che va dall'articolo 70 all'82 è dedicata
alla formazione della legge. Secondo i dettami costituzionali, la
funzione legislativa è esercitata dalle due Camere, entrambe
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esaminano la proposta di legge in base ai propri regolamenti interni.
La legge approvata viene promulgata dal Presidente della
Repubblica; tuttavia il Presidente può con messaggio motivato
rifiutarsi di promulgarla e rinviarla alle Camere che, ove approvino
nuovamente la legge (senza accogliere le censure mosse dal
Presidente della Repubblica) deve essere promulgata. In sede
abrogativa, totale o parziale, il popolo sovrano ha a disposizione lo
strumento del referendum, previsto dall'articolo 75, fatte salve
alcune materie descritte nel medesimo articolo. La proposta
referendaria è considerata approvata se ha partecipato alla
votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è stata raggiunta
la maggioranza dei voti validamente espressi.
Il Presidente della Repubblica
Il secondo titolo, dall'articolo
83 al 91, riguarda le
modalità di elezione, i poteri
e le responsabilità del
presidente della Repubblica
Italiana che l'ordinamento
italiano identifica come capo
dello Stato, garante
dell'equilibrio dei poteri e
che rappresenta l'unità
nazionale : “Il Presidente
della Repubblica è il capo
dello Stato e rappresenta l’unità nazionale. Può inviare messaggi alle
Camere. Indice elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima
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riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge
di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi
valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei
casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge,
i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti
diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra,
l’autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate,
presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge,
dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il
Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e
commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica.” E’
un interpotere, ovvero ha attribuzioni relative alle tre funzioni
fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva e giurisdizionale) e
solge una fuzione di raccordo tra le isituzioni. Il Presidente è
sollevato dalla responsabilità penale (salvo per i reati di alto
tradimento e attentato alla Costituzione) negli atti e comportamenti
esclusivamente riconducibili all'esercizio delle sue funzioni. Per gli
eventuali reati commessi al di fuori del suo ufficio, nonostante non
vi sia nulla di esplicito a proposito nella Costituzione, la
giurisprudenza ritiene che sia comunque intoccabile per tutta la
durata del mandato. Il Presidente nomina il Presidente del Consiglio
dei Ministri e, su sua proposta, i Ministri. Inoltre, tranne che durante
gli ultimi sei mesi del suo mandato, può procedere allo scioglimento
anticipato delle camere. Questi compiti lo rendono un attore
fondamentale nella soluzione delle crisi di Governo. Nel caso che il
Presidente non fosse nelle condizioni di adempiere alle sue funzioni,
esse vengono esercitate dal Presidente del Senato.
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Il Governo
Il Consiglio dei Ministri è l’organo
che costituisce il Governo della
Repubblica ed è composto,
secondo l’art. 92, dal Presidente
del Consiglio dei Ministri e dai
Ministri: è un organo collegiale a
numero variabile: si sono
succeduti governi con più dicasteri
e governi più snelli, con meno dicasteri. Soprattutto nella prima
repubblica, i governi con più ministeri rispondevano ad una logica di
spartizione del potere e di soddisfacimento della bulimia di poltrone
dei partiti. Esso esercita il potere esecutivo e detiene la funzione di
indirizzo politico. La Costituzione esclude che il Governo sia scelto
formalmente dal corpo elettorale, bensì, secondo l'articolo 92, la
nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di
questo, dei ministri spetta al Presidente della Repubblica. Il Governo
trae la sua legittimazione dalla "fiducia parlamentare" che è
imprescindibile e deve essere chiesta entro dieci giorni dalla sua
formazione, presentandosi innanzi ad entrambe le due camere; la
fiducia può essere revocata, anche da una sola camera, in qualsiasi
momento, si aprirà una crisi parlamentare ed il Governo sarà
obbligato a dimettersi. La mozione di sfiducia deve essere firmata da
almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere
messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.
L'attività del Governo successiva alle dimissioni è limitata al disbrigo
degli affari correnti; solitamente il Presidente del Consiglio
dimissionario emana apposite circolari per regolare i poteri. In
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seguito alla crisi di Governo, il Presidente della Repubblica avvia le
consultazioni per la sua risoluzione. Per quanto riguarda i compiti e i
poteri del Presidente del Consiglio dei ministri, l'articolo 95 recita: “Il
Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del
Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed
amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri. I
ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei
ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. La legge
provvede all'ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina
il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri.” Il Governo
deve dunque agire come un soggetto politicamente unitario in cui il
Presidente del Consiglio è un “primus inter pares”. A tal fine
vengono, appunto, attribuiti al Presidente del Consiglio, i poteri
necessari per poter assicurare ciò. Il Governo rimane in carica
fintantoché non si dimette, o per scelta spontanea o perché
costretto per la revoca della fiducia da parte di almeno una Camera.
La bocciatura da parte di una Camera ad una proposta del Governo
non comporta l'implicita sfiducia; tuttavia, anche se non è una
pratica prevista espressamente dalla Costituzione, spesso il governo
ricorre alla questione di fiducia a sostegno dei propri atti. L'articolo
97 e 98 sono dedicati alla pubblica amministrazione italiana e per la
loro organizzazione si rimanda ad una riserva di legge mentre è
stabilito che, salvo casi demandati sempre alla legge, agli incarichi vi
si acceda per concorso pubblico.
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La magistratura
La Costituzione sancisce
due principi fondamentali:
1."La giustizia è
amministrata in nome del
popolo", marcando una
profonda differenza con il
passato (come lo Statuto
Albertino) in cui era
amministrata in "nome del
Re", 2."I giudici sono
soggetti soltanto alla
legge" ribadendo così la separazione dei poteri e costituendo un
collegamento tra il giudice (carica non elettiva e non politica) e la
sovranità popolare. La Costituzione, inoltre prevede forti garanzie a
favore dell'indipendenza dei giudici asserendo che la magistratura
sia autonoma e vietando ingerenze di ogni altro potere. Il Consiglio
superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della
Repubblica ed è l’organo autogoverno della magistratura: ne fanno
parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della
Corte di cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da
tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e
per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari
di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di
esercizio. Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti
designati dal Parlamento. L'articolo 111 descrive i principi del giusto
processo demandando alla legge la regolamentazione. Il
contraddittorio e la condizione di parità tra le parti, la presenza di un
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giudice terzo ed imparziale, una durata del processo ragionevole e
ulteriori istituti a garanzia dei diritti dell'accusato nel rito penale
sono essenziali per un buon processo. Nel processo penale, la legge
assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve
tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi
dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle
condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà,
davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che
rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e
l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni
dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore;
sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua
impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio
del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza
dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese
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da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto
all'interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge
regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata
impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta
illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale,
pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre
ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può
derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari
in tempo di guerra.
Le Regioni, le Province, i Comuni
Il quinto titolo, dall'articolo 114 al 133, riguarda le norme relative ai
governi locali. Questa parte è stata oggetto di una profonda
revisione con le leggi costituzionali del 1999 e del 2001.
Originariamente veniva ripartita in regioni, province e comuni a cui,
dal 2001, si sono aggiunte le città metropolitane: “La Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e
le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla Costituzione. Roma è la capitale della
Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento.»Tra
le regioni, secondo l'articolo 116, il Friuli-Venezia Giulia, la
Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle
d'Aosta/Vallée d’Aoste, godono di particolari forme di autonomia
garantite dai loro statuti speciali”. Il rapporto tra stato-regioni e
dunque le materie di legislazione esclusiva statale o concorrenti tra
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lo stato e le regioni, in cui la potestà legislativa spetta comunque a
queste ultime, sono elencate nell'articolo 117. La legge dello stato
deve individuare le funzioni che possono essere attribuite ai comuni,
alle province e alle città metropolitane, quest'ultimi potranno così
regolamentare l'organizzazione e lo svolgimento di tali funzioni. In
caso di contrasti di competenza tra lo stato e le regioni, la Corte
costituzionale è incaricata di risolvere la questione. Infatti, con
l'articolo 127, si stabilisce che il Governo "può promuovere la
questione di legittimità costituzionale" inerente a una legge
regionale che ritiene ecceda le competenze delle Regioni, dinnanzi a
questa corte. Altresì, una regione può promuovere la stessa azione
quando ritiene che una legge o un atto avente forza di legge dello
Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di influenza". L'articolo
120 pone alcune limitazioni all'autonomia delle Regioni vietandogli
l'istituzione di dazi o di provvedimenti che ostacolino la circolazione
di persone o cose tra le Regioni, nonché limitare in qualsiasi modo il
diritto del lavoro. In casi specifici, individuati nell'articolo 120, al
Governo è data la possibilità di sostituirsi agli enti locali,
demandando alla legge le "procedure atte a garantire che i poteri
sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e
del principio di leale collaborazione".
Dall'articolo 121 all'articolo 123, la Costituzione descrive
l'organizzazione della Regione, individuandone gli organi che sono: il
Consiglio regionale, organo deliberativo, la Giunta regionale, organo
esecutivo, e il Presidente, Capo dell’esecutivo, quest'ultimo
incaricato di dirigere la politica della Giunta e le funzioni
amministrative delegate dallo stato. La disciplina dell'elezione dei
precedenti organi è demandata alla legge regionale (nei limiti dei
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principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato). Le Regioni
sono organizzate secondo uno statuto regionale (armonizzato con la
Costituzione) che viene disciplinato dall'articolo 123.
Tutte le autonomie regionali descritte non devono, comunque, far
pensare ad una tendenza ad una netta separazione tra Stato e
Regioni, bensì ad un decentramento del potere coordinato ed
equilibrato con gli interessi statali in ossequio all'art 5 della
Costituzione che prevede l'indivisibilità della Repubblica.
Garanzie Costituzionali
Il sesto titolo, dall'articolo 134 al 139, riguarda le garanzie poste per
preservare la stessa Costituzione ed è suddiviso in due sezioni: "La
Corte costituzionale" e "Revisione della Costituzione - Leggi
costituzionali."
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La Costituzione si caratterizza per un organo di garanzia esterno
all'organo di produzione legislativa e al circuito democratico
individuato nell'istituzione della Corte costituzionale della Repubblica
Italiana. Essendo essa un organo di garanzia esterno, non può
essere espressione della maggioranza e non ha una legittimazione
derivante dalla rappresentanza del corpo elettorale. È composta da
15 giudici, di cui 5 eletti dal Parlamento in seduta comune (la cui
scelta generalmente è di matrice politica), 5 nominati dal Presidente
della repubblica (solitamente scelti con lo scopo di assicurare un
equilibrio tra le varie correnti), tre sono eletti dai magistrati di
Cassazione, uno dal Consiglio di Stato e uno dalla Corte dei Conti; la
scelta di quest'ultimi garantisce un collegamento tra il potere
giudiziario e la Corte. Tutti i membri vengono scelti, secondo
l'articolo 135, tra i "magistrati anche a riposo delle giurisdizioni
superiori ordinaria ed amministrative, i professori ordinari di
università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni
d’esercizio". Il funzionamento della Corte è stato disciplinato dalla
legge costituzionale del 1967, in cui tra l'altro si è stabilito che
rimangono in carica 9 anni, che il Presidente è eletto in seno ad essa
e da parte degli stessi appartenenti, che si riunisce in udienza
pubblica o in camera di consiglio e che si pronuncia mediante
sentenze o ordinanze. Oltre che per la risoluzione dei conflitti di
attribuzione tra Stato e Regioni. tra Regioni e Regioni ed altri organi
dello Stato, la Corte può essere chiamata ad un giudizio in via
incidentale quando, nel corso di un procedimento giudiziale, ad un
giudice sorga un dubbio di costituzionalità di una norma e dunque
interrompa il processo rimettendo così alla Corte la questione di
legittimità costituzionale. Con questo, i costituenti (ed in particolare i
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membri appartenenti all'area comunista) hanno voluto evitare che
un singolo cittadino potesse impugnare un atto del Parlamento
legittimato come rappresentante del popolo. Secondo l'articolo 136,
"quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere
efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione".
Infine, la Corte costituzionale viene chiamata ad esprimersi nei
giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica per altro
tradimento ed attentato alla costituzione, coadiuvata da sedici
cittadini tratti a sorte tra coloro con i requisiti per l’eleggibilità a
senatore, e sull'ammissibilità del referendum abrogativo.
Secondo la procedura prevista dall'articolo 138 della Costituzione:
«Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali
sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni
ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella
seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum
popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne
facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge
sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla
maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge
è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere
a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.»
Le modifiche al testo della Costituzione non devono comunque
compromettere lo spirito repubblicano e gli ideali sui quali essa si
fonda. La dottrina prevalente e la giurisprudenza (Corte Costi.
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1146/1988, Corte Costi. 366/1991), come già detto, ritiene che i
principi fondamentali (art. dall'1 al 12) e quelli ad essi collegati,
siano una base irrinunciabile per lo spirito repubblicano su cui la
Costituzione si fonda e che costituiscano parte integrante della
forma repubblicana. Per questo motivo non possono essere
modificati (vedi limiti alla revisione costituzionale).
Disposizioni transitorie e finali
La Costituzione della Repubblica Italiana contiene diciotto
disposizioni transitorie e finali inserite con l'intento di gestire il
passaggio dal precedente ordinamento a quello repubblicano. Esse
hanno carattere di eccezionalità, ovvero una volta raggiunto il loro
scopo non sono atte a ripetersi.
Tra le principali ci sono:
la previsione del Capo provvisorio dello Stato facente funzioni di
Presidente della Repubblica (sarà eletto Enrico De Nicola);
il non riconoscimento dei titoli nobiliari, e la loro nullità;
il divieto di riorganizzazione del disciolto Partito Nazionale Fascista e
deroga alle norme costituzionali per la temporanea limitazione dei
diritti politici dei suoi dirigenti;
alcune indicazioni in merito alla prima composizione del Senato dopo
l'entrata in vigore della costituzione;
l'esproprio e il passaggio alla Proprietà dello Stato dei beni
appartenenti a Casa Savoia sul territorio italiano.
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Leggi costituzionali
Il testo originario della
Costituzione, nel corso della
storia, ha subito alcune
revisioni o emendamenti. Per
revisioni costituzionali in senso
più ampio, riferite alla configurazione dei poteri contenuta nella
parte II della Costituzione, la dottrina giuridica avanzò proposte che
nel tempo furono convogliate nei lavori di apposite commissioni
bicamerali, che però non portarono a nessun esito.
Nel primo cinquantennio di vita della Costituzione italiana sono state
approvate venticinque leggi costituzionali o di revisione
costituzionale, in gran parte finalizzate a consolidare alcune
istituzioni ed aggiornare alcune norme alle nuove esigenze della vita
politica e civile. Tra le più significative approvate vi è la L. Cost.
1/1953 in cui vengono integrate alcune norme riguardanti la Corte
costituzionale; la L. Cost. 2/1963 con la quale si regola l'elezione
delle camere e la durata della legislatura; la L. Cost. 2/1967
riguardante norme sulla composizione del collegio dei giudici
costituzionali; la L. Cost. 1/1989 sulla responsabilità penale dei
ministri; la L. Cost. 3/1993 che regola l'immunità parlamentare. Con
la legge costituzionale 23 ottobre 2002 venne stabilito che i commi
primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della
Costituzione, relativi al divieto per i discendenti maschi di Casa
Savoia di soggiornare in Italia e partecipare alla vita pubblica del
paese, esaurivano i loro effetti. A partire dalla XIII legislatura, si è
assistito ad una nuova inclinazione verso un "revisionismo
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costituzionale" caratterizzato da alcune proposte più ampie ed
articolate di riforma della Costituzione. Tuttavia non sono mancante
delle revisioni più dettagliate come, a titolo di esempio, l'inserimento
del principio delle pari opportunità (L. Cost. 1/2003) . Di seguito,
invece, sono trattate le revisioni più consistenti tra quelle approvate
o, solamente, proposte.
La revisione costituzionale del 2001
Il Parlamento italiano, quasi alla conclusione della XIII Legislatura,
ha approvato una rilevante modifica della Costituzione modificando
9 articoli della stessa, tutti contenuti all'interno del Titolo V della
Seconda parte, relativo all'ordinamento territoriale italiano. La legge
di revisione punta a creare le basi e le condizioni essenziali per una
futura trasformazione dell'Italia in una Repubblica federale, in prima
istanza rovesciando l'ordine di preminenza nella formazione delle
leggi disposto dall'articolo 117: se prima venivano elencate le
materie in cui le Regioni avevano potere di legiferare (in via
concorrenziale) ed era lasciata allo Stato la competenza su tutto il
resto, ora vengono elencate le materie di competenza esclusiva
dello Stato, nonché alcune materie di competenza concorrente dello
Stato e delle Regioni, mentre viene lasciata alle Regioni la
competenza generale o "residuale" (cosiddetto federalismo
legislativo).
Altri effetti della riforma sono:
L'ordinamento policentrico della Repubblica italiana (adesso
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato);
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La prima citazione dell'ordinamento sovranazionale europeo
("comunitario") tra quelli che danno luogo ad obblighi che limitano
la discrezionalità legislativa nazionale (sia dello Stato che delle
regioni);
La "costituzionalizzazione" di Roma capitale della Repubblica;
La possibilità di concedere alle Regioni a statuto ordinario che ne
facciano richiesta (e previa intesa con lo Stato) forme e condizioni
particolari di autonomia (cosiddetto federalismo differenziato, di
natura pattizia);
L'attribuzione ai Comuni della preminenza nell'azione amministrativa
(inserimento in Costituzione dei principi del federalismo
amministrativo);
L'inserimento dei principi del federalismo fiscale e la previsione di un
fondo perequativo per le aree svantaggiate del Paese (eliminando
qualsiasi riferimento specifico al Mezzogiorno e alle Isole);
L'introduzione del potere di supplenza dello Stato qualora una
Regione o un ente locale non svolga le funzioni proprie o attribuite;
La previsione dell'inserimento negli Statuti regionali del Consiglio
delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione
e gli enti locali;
La soppressione del controllo preventivo statale sulla legislazione
regionale;
La possibilità, nelle more dell'istituzione del Senato federale, di
integrare la Commissione parlamentare per le questioni regionali con
rappresentanti delle Regioni e degli enti locali.
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Questa riforma, realizzata dall'Ulivo sulla base di un testo approvato
da maggioranza e opposizione nella Commissione bicamerale per le
riforme istituzionali presieduta dall'onorevole D'Alema, non è stata
appoggiata dal quorum dei 2/3 del Parlamento: ciò ha permesso
l'indizione di un referendum per chiederne all'elettorato
l'approvazione o la bocciatura. Attraverso il voto popolare del
referendum, svoltosi il 7 ottobre 2001, il 64,20% dei votanti
(34,10% di affluenza) ha espresso la volontà di confermare la
riforma, entrata poi in vigore l'8 novembre 2001.
II parte - Lo Stato e la cittadinanza -
Concetto di cittadinanza
La cittadinanza è la condizione
di una persona fisica alla quale
l’ordinamento normativo di
uno Stato riconosce la
pienezza dei diritti civili e
politici. E’ uno status del
cittadino, dal punto di vista
giuridico, ed anche una
relazione fra il cittadino e lo Stato: coloro che ne sono privi sono
detti stranieri se hanno la cittadinanza di un altro Stato o apolidi se
non hanno alcuna cittadinanza. Il cittadino, naturalmente, al
contrario dello straniero, conserva questo peculiare rapporto con il
suo Stato di appartenenza anche quando esce al di fuori dei suoi
confini, a differenza dello straniero che ha un rapporto occasionale
limitato al periodo di permanenza nel territorio nazionale. Nel diritto
romano, lo status civitatis distingueva il cittadino romano (civis
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romanus) da colui che non era cittadino ed, unito allo status
libertatis, che identificava l’uomo libero distinguendolo dallo schiavo,
e lo status familiae, che distingueva il pater familias dagli altri
membri della famiglia, era condizione necessaria per disporre di
capacità giuridica. Nel suo significato attuale, può intendersi come
soggetto titolare di una molteplicità di diritti e doveri riferibili ad un
individuo, parte di un determinato assetto politico. Il concetto di
cittadinanza è, dal punto di vista storico, abbastanza recente perché
espressione dello Stato moderno caratterizzato dalla sovranità e
dalla territorialità.
La condizione di cittadino differisce da quello di suddito: il cittadino
è titolare di diritti e doveri, situazioni giuridiche attive e passive, il
suddito è il sottoposto alla sovranità dello Sato ed è titolare soltanto
di situazioni giuridiche passive e di doveri: è’ stata la condizione del
popolo nell’epoca medievale e, in tempi più recenti, nelle monarchie
assolute e negli Stati totalitari. Soltanto quando lo Stato si è evoluto
e ha riconosciuto al suddito diritti civili e politici, costui è diventato
un cittadino. E’ la condizione tipica del popolo nelle monarchie
costituzionali e liberali, nonché nelle repubbliche democratiche. Il
concetto di cittadinanza implica la configurazione del concetto di
Stato, nella sua accezione moderna e condivisa. E’ ipotizzabile un
diritto di cittadinanza in quanto esista uno Stato nel suo tradizionale
assetto istituzionale. All’art. 22, la Costituzione afferma che
“nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità
giuridica, della cittadinanza, del nome”. La ratio di tale disposizione
è la necessità di una garanzia della persona dagli arbitri di derive
plebiscitarie e totalitarie. Il fascismo aveva privato della cittadinanza
italiana gli antifascisti in esilio ed aveva stabilito grosse limitazioni
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alla cittadinanza ed alla capacità giuridica dei “cittadini di razza
ebraica” (Legge n.1728 del 1938).
La legge n.91 del 1992 indica chiaramente i tre criteri fondamentali
per essere cittadini italiani: 1. lo ius sanguinis: è cittadino italiano
chi nasce da uno o da entrambi cittadini italiani; 2. lo ius soli: è
cittadino italiano chi nasce nel territorio italiano se i genitori sono
ignoti o apolidi, o se il figlio non abbia acquistato la cittadinanza dei
genitori in base alla legge del loro Stato (sono in discussione in
Parlamento nuove proposte di legge di riforma dello ius soli). 3. la
volontà dell’interessato secondo cui lo straniero o l’apolide possono
chiedere la cittadinanza, qualora si trovi in determinate condizioni,
cioè abbia rapporti di parentela con cittadini italiani, residenza
ininterrotta per 10 anni o 5 anni per l’apolide, o abbia prestato
servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato Italiano. La
legge n.91 del 1992 riconosce la doppia cittadinanza: non prevede
più, nel caso di cittadini che acquistino anche la cittadinanza di altri
Stati, la decadenza automatica da quella italiana. In virtù di questa
modifica si è reso necessario estendere l’esercizio del diritto di voto
ai cittadini all’estero con l’approvazione della legge costituzionale
n1/2000. La decadenza dalla cittadinanza italiana è limitata a due
sole ipotesi: quando il cittadino abbia accettato un impiego pubblico
o una carica pubblica di uno Stato estero o abbia prestato servizio
militare per uno Stato estero e non ottemperi l’intimazione del
Governo italiano di abbandonare la carica, l’impiego o il servizio
militare, oppure quando il cittadino, in stato di guerra con uno Stato
estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego o una
carica pubblica, o abbia prestato servizio militare per quello Stato. Al
di fuori di queste ipotesi, la cittadinanza si può perdere solo per
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rinunzia espressa. Nel caso di perdita della cittadinanza è prevista,
comunque, la possibilità di acquistarla se si soddisfano determinate
condizioni.
Differenze tra cittadinanza e nazionalità
Diversa dalla cittadinanza è il principio di nazionalità con cui si
intende l’appartenenza ad una nazione. Il concetto di nazione
coincide con un sentimento di appartenenza e comunanza ad una
lingua, ad una cultura, a consolidate tradizioni. Il termine nazionalità
ha un’accezione puramente culturale: non sempre cittadinanza e
nazionalità coincidono. Tanti si sono chiesti se per acquisire la
cittadinanza fosse necessario che il richiedente avesse assimilato la
lingua, le tradizioni locali, insomma, fosse integrato nella comunità.
Allo stato, non è una condizione imprescindibile.
Lo Stato
Il concetto di Stato moderno fu
sviluppato nel diciannovesimo secolo
da studiosi di diritto pubblico e di
politica che vedevano
nell’organizzazione statale
l’espressione di un processo di
razionalizzazione politica in grado di
incidere sui comportamenti
individuali. E’ la nuova forma di
organizzazione politica interna ed internazionale che caratterizza il
sistema dei rapporti in Europa tra il XV secolo ed il XVII secolo. Lo
Stato moderno è certamente un processo in evoluzione, non un
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sistema. La sua origine è nella crisi degli ordinamenti medievali e nel
distacco delle vecchie sovranità da basi popolari e territoriali. La fase
intermedia è costituita dalla progressiva centralizzazione del potere
avvenuta nel XVII secolo; la fase matura, di pieno consolidamento,
inizia nella seconda metà del XVII secolo. Il primo vero
riconoscimento di uno Stato moderno avviene con la Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 con cui i rappresentanti
del popolo francese proclamarono “i diritti naturali, inalienabili e
sacri dell’uomo”. Lo Stato, secondo una condivisa definizione politica
e sociale, è un ente giuridico pubblico, dotato di personalità
giuridica, che esercita su di un determinato territorio un potere
originario, la sovranità, disponendo del monopolio dell’uso legittimo
della forza e che persegue l’interesse generale della collettività in
esso presente. Le elaborazioni concettuali, anche recenti, di politici
contemporanei, che intendevano dare ad esso una struttura
aziendale, naturalmente naufragati, rappresentavano un abnormità
sociale, giuridica ed economica. Sotto l’aspetto economico, a
differenza di un’azienda, lo Stato, come condiviso dai prevalenti
economisti, non deve realizzare utili e profitti ma garantire il
benessere della collettività. Keynes, teorizzatore della
macroeconomia, ha affermato che, ove necessario, nelle fasi di
depressione economica, lo Stato, pur di contrastare il fenomeno
recessivo, deve effettuare opere pubbliche, sostenute naturalmente
da un incremento della spesa pubblica, anche a discapito di bilanci
statali in passivo che accrescano il deficit. Sotto l’aspetto sociale e
giuridico, si ribadisce che lo Stato è un ente giuridico pubblico che
persegue il bene collettivo, non quello di una ristretta oligarchia. Lo
Stato consta di tre elementi costituivi: il popolo, il territorio e la
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sovranità; sono elementi indefettibili, la mancanza di uno di essi fa
sì che non si abbia uno Stato. Il popolo è rappresentato dai cittadini
stanziati sul territorio dello Stato che condividono lo status di
cittadini; il territorio è lo spazio geografico racchiuso nell’ambito dei
confini dello Stato dove si esercita la forza dello Stato, allargato alle
c.d. acque territoriali (i mari bagnanti le coste) ed all’estensione
aerea; la sovranità è il potere originario, indipendente e supremo,
che si manifesta nei tre poteri fondamentali dello Stato: potere
legislativo, fare le leggi, potere esecutivo, amministrare e governare
lo Stato, potere giudiziario, applicare le leggi dirimendo le liti. Lo
Stato non deriva da nessun ente superiore, la sua sovranità è
riconosciuta dagli altri Stati ed è sovrano rispetto agli altri organi
interni. Un popolo stanziato su di un territorio, privo di sovranità,
non è uno Stato; al più, sarebbe un’organizzazione tribale, in cui non
vi è certezza del diritto, non esiste un ordine costituito e la presunta
giustizia è dispensata dal saggio della tribù.
Il principio di separazione dei poteri
La divisione dei poteri risponde ai principi del costituzionalismo che,
in Italia, più tardi, purtroppo, rispetto alle monarchie costituzionali
europee, fu il fondamento dello Stato postfascista per volontà
espressa dei costituenti. Il potere diviso e separato, mutuato da
Mountesquie, deve essere in grado di arrestare un potere illegittimo
esercitato da un altro organo. Con la separazione dei poteri si
realizza il duplice obiettivo di limitare il potere politico per la tutela
della libertà degli individui e di creare un sistema di controllo e di
garanzia di ciascun potere sull’altro al fine di evitare pericolose
forme di accentramento di poteri legittimate da derive plebiscitarie. I
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tre poteri fondamentali (legislativo, esecutivo e giudiziario) devono
avere ciascuno organi e struttura distinte dalle altre funzioni e dagli
altri poteri al fine di creare un sistema di controlli e di
interdipendenza acché ciascun potere possa frenare gli eccessi
dell’altro.
Lo Stato e le sue varie forme
Per forma di Stato si intende il rapporto intercorrente tra le autorità
pubbliche e la società civile e l’insieme di principi e valori a cui si
attiene l’azione dello Stato. Le forme di Governo, invece, sono i
modi in cui il potere è distribuito tra gli organi principali dello Stato e
l’insieme delle relazioni tra essi. A seconda delle varie combinazioni
dei tre elementi costitutivi dello Stato avremo diverse forme di
Stato. Lo Stato assoluto è caratterizzato dal fondamento teocratico
del potere (il monarca gode di un’autorità legittimata direttamente
da Dio, assoluta deriva da ab soluto, sciolto da ogni costrizione
esterna, quindi il sovrano può esercitare liberamente il potere), dal
territorio come proprietà dello Stato, dall’accentramento del potere
nella mani del sovrano, tanto che Luigi XVI fieramente affermava:
“lo Stato sono io”. Questa forma di Stato entra in crisi nel ‘700. Lo
Stato di polizia ha un impianto similare allo Stato assoluto ma il
sovrano, ritenuto “illuminato”, pone in atto riforme finalizzate al
miglioramento della vita statale. Questa forma di Stato entrò in crisi
con la Rivoluzione francese del 1789 che introdusse il
costituzionalismo. Lo Stato liberale si sviluppò in tutto il 1800. Esso
solo in parte attuò principi c.d. rivoluzionari. E’ uno Stato di diritto,
cioè ogni potere statale è sottoposto alla legge (nascono le
monarchie costituzionali), si fonda sul principio di eguaglianza
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innanzi alla legge, sulla tutela dei diritti di libertà e la separazione
dei poteri fondamentali dello Stato. Lo Stato non interviene nelle
dinamiche sociali ed economiche: si riconosce un’ampia sfera di
libertà all’autonomia privata. Questo Stato, specie in Italia, lascia le
masse, le fasce popolari fuori dalla vita politica e le pressanti
richieste di diritti di libertà, politici e sociali portarono alla sua crisi.
In Italia, purtroppo, la crisi dello Stato liberale ebbe conseguenze
devastanti: ci fu un’involuzione autoritaria, l’avvento del fascismo e,
con la complicità della monarchia Savoia, della Chiesa e delle
gerarchie ecclesiastiche, l’instaurazione di uno Stato totalitario. Lo
Stato totalitario si fonda sull’accentramento dei poteri nel Capo e
nella ristretta elite di persone che lo coadiuvano, sulla sudditanza
del popolo al Capo, sullo scioglimento dei partiti e la fine del
multipartititmo, sull’eliminazione delle libertà fondamentali in nome
delle prioritarie esigenze dello Stato. La sconfitta dei totalitarismi
segna la nascita della democrazia. La sovranità popolare investe le
istituzioni. Ritorna il pluripartitismo, lo Stato si fonda sul
riconoscimento e la tutela dei diritti, il popolo e il corpo elettorale
rappresentano il soggetto di riferimento della democrazia. Il
principio maggioritario è elevato a strumento di sintesi negli organi
collegiali: la maggioranza prevale sulla minoranza e quest’ultima è
tenuta a rispettare la volontà della maggioranza.
Forme di Governo
Le forme di Governo riconosciute nello Stato liberale sono: la
monarchia costituzionale, il governo parlamentare, il governo
presidenziale. La monarchia costituzionale si afferma nel passaggio
dallo Stato assoluto allo Stato liberale ed è caratterizzata dalla
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separazione dei poteri del Re da quelli del Parlamento, titolari
rispettivamente del potere esecutivo e del potere legislativo. Questa
forma di governo si basa sull’equilibrio tra due centri di potere:
quello monarchico – ereditario e quello elettivo. Gradualmente con il
consolidarsi dei poteri del Governo, la monarchia costituzionale si è
trasformata in governo parlamentare; il governo è divenuto sempre
più autonomo dal Re e collegato all’organo elettivo (il Parlamento),
di cui doveva godere la fiducia. Dall’originario “esecutivo bicefalo” –
potere esecutivo del Re e del Governo che doveva godere della
fiducia del Re e del Parlamento – si è passati ad un parlamentarismo
in cui i poteri del Re, Capo dello Stato, erano più circoscritti
rafforzando il sistema incentrato sul rapporto di fiducia tra
Parlamento e Governo. La forma di governo parlamentare si
caratterizza per l’esistenza di un rapporto di fiducia tra governo e
parlamento: il Governo per esercitare le attribuzioni amministrative
deve essere sostenuto da una maggioranza parlamentare. Nella
forma di governo presidenziale, il Presidente della Repubblica è
eletto direttamente dal corpo elettorale, non può essere sfiduciato
durante il suo mandato e dirige l’attività dei Governi da lui nominati
e presieduti. La repubblica semipresidenziale – sul modello francese
– è caratterizzata dall’elezione diretta del Capo dello Stato che
nomina un governo che comunque deve godere della fiducia del
Parlamento. Il potere del governo è diviso tra Presidente della
Repubblica e Premier. Un governo operativo presuppone un’intesa
tra Capo dello Stato che ha un ruolo politico e Primo Ministro.
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La repubblica parlamentare italiana
L’Italia è stata, ed è tuttora, una repubblica parlamentare,
nonostante i tentativi di modifica della struttura istituzionale e le
riforme dei sistemi elettorali che tentavano di generare
un’investitura popolare dell’organo di governo. La legittimazione
popolare dell’esecutivo presuppone un rafforzamento delle
prerogative di governo, che non c’è stato: da qui una sfasatura che
ha originato dubbi costituzionali, tuttora irrisolti. Nel nostro paese, il
sistema elettorale proporzionale (rappresentanza parlamentare
proporzionale ai voti conseguiti), che ha regolamentato le elezioni
politiche dal dopoguerra fino agli inizi degli anni ‘90, ha prodotto i
c. d. governi di coalizione (accordi tra più partiti: è famoso il c. d.
pentapartito - DC-PSI.PLI-PSDIPRI. Con l’introduzione del sistema
elettorale maggioritario “corretto” (nel maggioritario puro, vince chi
ha ottenuto più voti, anche un solo voto in più) si è giunti ad un
parlamentarismo maggioritario, tipico di un sistema bipolare, in cui
le elezioni consentono di dar luogo ad una maggioranza
parlamentare politica, il cui leader diventa Premier: egli gode
dell’investitura popolare e della relativa legittimazione politica ed il
Governo gode di una maggioranza parlamentare che lo sostiene; la
minoranza ha un ruolo di opposizione che si concretizza nel controllo
politico sull’operato del Governo. E ciò, con tante difficoltà,
cagionate da leggi elettorali pasticciate, è avvenuto per un
ventennio con i governi Berlusconi, Prodi etc... Oggi, il sistema
politico è divenuto tripolare, tre grosse forze politiche antagoniste (il
centrodestra, il PD ed il movimento cinque stelle), ciascuna delle
quali, nelle ultime elezioni, non ha conseguito una rappresentanza
parlamentare maggioritaria per governare; da qui lo stallo (con mesi
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di consultazioni) da cui il Presidente della Repubblica, faticosamente,
è uscito con “l’audace” accordo tra Lega (forza coalizzata nel
centrodestra e antagonista del Pd e dei 5 stelle) e cinque stelle.
Accordo pienamente legittimo perché consentito dalla Costituzione
vigente che ha dato origine ad una repubblica parlamentare, in cui
organo centrale è il Parlamento, detentore della funzione legislativa
e di controllo dell’operato politico del Governo. Nell’organo
rappresentativo della volontà popolare si deve verificare l’esistenza
di una maggioranza parlamentare in grado di sostenere il governo:
ove vi sia una maggioranza, il Presidente della Repubblica è
obbligato a nominare Presidente del Consiglio colui che gode di un
sostegno maggioritario in Parlamento. E ciò che, legittimamente, ha
fatto il Presidente della Repubblica Mattarella: accertata l’esistenza
di una maggioranza parlamentare di sostegno al governo, Lega - 5
Stelle, ha nominato Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che,
redatto un programma politico (in questo si concretizza la funzione
di indirizzo politico del governo, ovvero indicare obiettivi e strategia
di governo), condiviso dalle forze parlamentari che lo sostengono,
ed una lista dei Ministri, si è presentato alle Camere per la fiducia.
Un’operazione legittima e conforme al dettato costituzionale.
Qualche riserva può esserci solo di natura politica: forze antagoniste
alle elezioni, poi si coalizzano. Dell’intesa politica (che può essere
ritenuta discutibile), saranno responsabili politicamente e ne
risponderanno ai propri elettori quando si tornerà alle urne. I
parlamentari non sono vincolati alla volontà dei propri elettori
(divieto del mandato imperativo), possono operare liberamente,
però, sono responsabili politicamente della loro azione politica
innanzi al corpo elettorale che esercitando il diritto di voto manifesta
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la condivisione o la contestazione confermando o meno il voto al
parlamentare. Purtroppo, specie nei territori più depressi, sovente,
non vi è un libero esercizio del diritto di voto (come sancito dalla
Costituzione) perché prevalgono le logiche clientelari, il voto di
scambio, il do ut des che privano, di fatto, il corpo elettorale della
propria sovranità.
In Italia, le forze politiche non sono state in grado di affrontare
snodi costituzionali che la situazione politica poneva: il passaggio dal
proporzionale al maggioritario, sebbene “corretto sempre con una
base proporzionale”, presuppone un rafforzamento delle prerogative
del governo, legittimato dal popolo, che non c’è stato. La deviazione
verso un nuovo sistema elettorale con premio di maggioranza e la
successiva riforma che ha reso prevalente il proporzionale sul
maggioritario dimostrano che le forze politiche non hanno
metabolizzato l’attuale sistema tripolare. Dopo tangentopoli, che ha
fatto luce sul sistema di corruzione imperante per decenni nella
prassi politica italiana, si è introdotto un sistema maggioritario
corretto (con un 25% dei seggi assegnati con quota proporzionale).
Successivamente, nel 2005, si è varato il c. d. porcellum (dalla
definizione “porcata” che ne ha dato il suo ideatore) che assegna, in
modo pasticciato, un premio di maggioranza al partito o a alla
coalizione che prende più voti e prevede soglie di sbarramento. Il
combinato disposto di due sentenze della Corte Costituzionale,
dichiaranti parzialmente incostituzionali il Porcellum e l’Italicum
(sistema elettorale che avrebbe dovuto accompagnare la riforma
costituzionale di Renzi, naufragata per volontà popolare), ha
“partorito” il c.d. Legalicum, con cui, fortunatamente, non si è mai
andati al voto, perché abrogato dal Rosatellum (sistema misto con il
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37% dei seggi assegnato con il maggioritario e 61% con il
proporzionale, con diverse soglie di sbarramento) che, alle ultime
elezioni del Marzo 2018, ha mostrato tutti i suoi limiti. Insomma, le
forze politiche, presenti in Parlamento, non sono state in grado in
questi anni di elaborare una legge elettorale funzionale alle
contingenze politiche e riformare l’assetto istituzionale dello Stato.
Diritti e doveri dei cittadini
La Costituzione italiana riconosce ai cittadini una serie di diritti civili,
economici e sociali e politici. I diritti civili vengono definiti “diritti di
libertà” e si suddividono in libertà individuali (libertà personali) e
libertà collettive (libertà di associazione). I diritti economico sociali
includono la proprietà privata, il diritto al lavoro, il diritto
all’istruzione, alla salute. I diritti politici garantiti sono il diritto di
elettorato attivo e passivo, il diritto di petizione, il diritto di accesso
agli uffici pubblici. La Costituzione prevede una serie di doveri
pubblici che lo Stato può vantare nei confronti dei singoli, affinché
sia data concreta attuazione al principio di solidarietà sociale. Tali
doveri sono detti inderogabili poiché nessuno può essere esentato
dalla loro osservanza, in quanto costituiscono il fondamento di una
pacifica e costruttiva convivenza. In particolare, la Costituzione
impone ai cittadini i seguenti doveri: 1. il dovere al lavoro, nel senso
di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società; 2. il dovere di difendere la patria; 3. il
dovere di prestazione patrimoniale per concorrere alla spesa
pubblica in proporzione alla propria capacità contributiva; per gli
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stranieri tale obbligo è limitato al reddito prodotto in Italia; 4. il
dovere di fedeltà alla Repubblica.
Al di là di quelli che sono i riconoscimenti normativi, le conseguenze
sociali e gli effetti politici collegati allo status di cittadino, cittadini si
è dalla nascita. L’essere cittadini, crescendo, divenendo adulti,
determina una serie di diritti e doveri, come già visto, che sempre
più vengono vissuti non tanto come una conseguenza approfondita
di ciò che essi significhino, quanto come una sorta di percorso
generato, gestito e controllato da altri: qualcosa che non ci
appartiene dal momento che non ne comprendiamo né la natura, né
la ragione. Invece, lo status di cittadino di una nazione, deve
conferire ad ognuno una larga serie di possibilità, non ultima, quella
di essere attivamente coinvolti nella gestione della vita e
nell’organizzazione della comunità nazione in cui si vive, oltre che
della possibilità di essere voce dell’organizzazione sociale di cui si fa
parte. Di questa condizione unica e preziosa, il singolo individuo non
ne è consapevole. Nel “mestiere” del cittadino è ammesso scegliere
e decidere, è doveroso denunciare le scorrettezze e le illegalità. E’
un diritto perpetuo aver voce in ogni decisione che ci rende
protagonisti del luogo in cui viviamo e siamo nati; è assolutamente
necessario che lo Stato sia sostenuto quotidianamente dalla propria
linfa vitale: i propri cittadini. Di frequente, invece, si è ritenuto, che
il cittadino dovesse essere solo un numero ed, al più, partecipare
economicamente in caso di crisi, sopperendo alle incapacità dei
governanti. I doveri del cittadino non possono essere un peso, “un
fardello pesante”; per un popolo sovrano di cittadini consapevoli e
partecipativi, essi sono alla base della cooperazione, della solidarietà
e del vivere civile.