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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in Scienze della Comunicazione
LA CUCINA D’AUTORE.
UN’ANALISI SOCIO-SEMIOTICA DELLE CUCINE DI:
LA MADONNINA DEL PESCATORE, L’ESGUARD,
EL BULLI.
Tesi di laurea in Semiotica del Testo
Relatore: Chiar.ma Prof.ssa MARIA PIA POZZATO
Presentata da:
CHIARA BUOSI
Sessione II
Anno Accademico 2001-2002
INDICE.
I. GLI APPROCCI ALL’OGGETTO CULINARIO: QUESTIONI INTRODUTTIVE.
1
1. La gourmandise. 1
1.1. L’approccio semio-narrativo al fare-culinario. 2
1.2. L’approccio strutturale antropologico. Lévi Strauss. 3
1.3. La semiotica dell’oggetto. Una prospettiva socio-semiotica. 4
2. La gastronomia. 6
2.1. Lo status dell’oggetto culinario e i suoi vincoli materiali. 6
2.2. La dimensione estetica e la sensorialità. 8
2.3. L’esthesis e il ruolo dei sensi nella degustazione in Dell’Imperfezione.
11
II. EXCURSUS NELLA STORIA DELL’ALTA RISTORAZIONE.
17
1. La nascita dei primi ristoranti: l’inizio dell’egemonia culinaria francese.
17
2. Il primo paradigma culinario. 21
2.1. Carême e l’architettura in cucina. 21
2.2. Dubois e l’introduzione del servizio alla russa. 26
3. Il secondo paradigma. L’Età di Escoffier. 29
4. La parentesi italiana della cucina futurista. 34
5. La nouvelle cuisine. 38
6. Gli ultimi anni. La cucina creativa e d’autore.
50
III. I RISTORANTI IN ESAME: INTRODUZIONE AI CASI.
54
1. La scelta dei ristoranti. 54
2. Il contesto ristorativo italiano e spagnolo. 54
2.1. Le ragioni di un ritardo storico. 55
2.2. Gli ultimi cinquant’anni: le ragioni di una rivalsa. 59
2.3. Tra tradizione e innovazione. 61
2.4. L’avanguardia catalana. 63
3. I tre ristoranti in esame e i loro chef. 65
3.1. La Madonnina del Pescatore. 65
3.2. L’Esguard. 66
3.3. El Bulli.
67
IV. MORENO CEDRONI.
68
1. Analisi di un piatto: la costoletta di rombo. 68
1.1. Il fare-culinario. Analisi semio-narrativa della costruzione del piatto.
69
1.1.1. Il dispositivo strategico. 71
1.1.2. (PN2) La cottura delle erbe di campo strascinate. 71
1.1.3. (PN3) La cottura della trippa di coda di rospo. 73
1.1.4. (PN1) La preparazione della costoletta di rombo. 76
1.1.5. Le cotture. 82
1.2. Assaporando parole. Giochi linguistici nel nome del piatto. 84
1.3. L’esthesis culinaria. Il momento della degustazione. 89
1.4. Analisi del piatto. 93
1.4.1. Strutture dei sapori e universi culinari. 93
1.4.2. Unità ed attori del gusto. 97
1.4.3. I sapori a contatto. 99
1.4.4. Bello da mangiare: la presentazione del piatto. 102
1.5. Lo chef-bricoleur e la manipolazione dei sapori.
103
V. MIGUEL SÁNCHEZ ROMERA.
106
1. 1. Lo chef scienziato e l’invenzione del micrì. 106
2. Analisi di un piatto: le venticinque verdure di stagione con cuscus.
111
2.1. Il programma generale di costruzione dell’oggetto. 112
2.2. Una lettura semiotica del processo creativo. 114
2.3. La genesi dell’oggetto culinario. 116
2.3.1. Il processo induttivo. 116
2.3.2. Il processo creativo in prospettiva greimasiana. 119
2.4. La costruzione del piatto. 120
2.4.1. Il dispositivo strategico 121
2.4.2. La scelta del cuscus. Un alimento dalla storia millenaria.
121
2.4.3. La lavorazione del cuscus.
123
2.4.4. La selezione e la cottura delle verdure. 129
2.4.5. La preparazione delle spezie. 131
2.4.6. La preparazione della salsa di pomodoro. 131
2.5. La fase del montaggio. 132
2.6. Il piatto finito. Un’analisi dell’oggetto di gusto nelle sue dimensioni sensoriali.
134
2.6.1. L’aspetto visivo. 134
2.6.2. La dimensione mitologica e il contrappunto di sapori e consistenze.
135
2.7. Il cuscus di Sánchez Romera e quello di Adrià a confronto. 140
3. I sens i, il cibo e il cervello. 144
3.1. Il ruolo del cervello. 144
3.2. Il ruolo dei sensi. 146
3.2.1. Il senso della vista. 146
3.2.2. Il senso dell’olfatto. 148
3.2.3. Il senso del gusto. 149
3.2.4. Il senso del tatto. 150
3.2.5. Il senso dell’udito. 151
VI. FERRAN ADRIÀ.
152
1. La strada per El Bulli e i suoi spazi. 152
2. El Bulli Taller. Fra laboratorio e atelier. 159
3. Il sifone e le spume. 163
3.1. Fisiologia delle spume. 165
3.2. Per una semiotica dell’oggetto: analisi del sifone. 167
4. Una giornata ad El Bulli. La manipolazione dei saperi e dei sapori.
175
4.1. L’organizzazione del lavoro nel contesto ristorativo. 175
4.2. La manipolazione. 179
4.3. La sanzione. 182
4.4. La dimensione temporale. 184
4.4.1. La scansione temporale. 185
4.4.2. Prima macro-sequenza. La fase preparatoria. 185
4.4.3. Seconda macro-sequenza. La fase del montaggio.
190
VII. PROSPETTIVE DI RICERCA. 194
1. I principi e le costanti dell’attività culinaria. 195
2. La variabilità storica delle dicotomie culinarie. 196
2.1. La sublimazione artistica e l’approccio alla dimensione corruttibile del cibo.
196
2.2. L’approccio alla stagionalità. 200
2.3. L’enigma del pesce crudo. 203
2.4. Dieta e gastronomia. 205
2.5. Tra neofobia e neofilia.
209
BIBLIOGRAFIA 212
Ringraziamenti.
Vorrei ringraziare innanzitutto coloro senza i quali non avrei potuto
realizzare questo lavoro, ovvero gli chef e il personale dei tre ristoranti oggetto
di osservazione sul campo.
Ringrazio Moreno Cedroni per l’ospitalità alla Madonnina del Pescatore,
per l’entusiasmo che ha dimostrato per il mio lavoro e per la disponibilità
continuativa con cui ha risposto alle mie domande. Un grazie sentito va a
Michel Sánchez Romera per l’estrema gentilezza con cui mi ha accolto
all’Esguard, per l’interesse espresso e i preziosi consigli, per aver discusso
amabilmente con me le sue teorie. Ringrazio molto Ferran Adrià e la sua
équipe, nelle persone di Albert Raurich e Oriol Castro per avermi ospitato e
guidato all’interno delle cucine del ristorante; Silvia Fernandez per la visita a
El Taller e l’accesso alla biblioteca gastronomica.
Inoltre, vorrei ringraziare per la gentile collaborazione Fabio Parasecoli,
Paolo Marchi e Jeffrey Kallen.
I.
GLI APPROCCI ALL’OGGETTO CULINARIO:
QUESTIONI INTRODUTTIVE.
In questa tesi intendo esplorare attraverso una prospettiva socio-semiotica
una particolare area del mondo culinario, quella dell’alta cucina d’autore dei
nostri giorni, focalizzandomi su tre suoi autorevoli esponenti: Moreno Cedroni
chef della Madonnina del Pescatore di Marzocca di Senigallia, Miguel
Sánchez Romera dell’Esguard di Sant Andreu de Llavaneres e Ferran Adrià di
El Bulli, ristorante di Roses. Questi tre casi, oggetti di studio mediante
osservazione etnografica all’interno delle cucine dei rispettivi ristoranti, vanno
intesi non solo nella loro singola specificità, bensì anche quali exempla
funzionali ad un tentativo di attribuzione di un ordine di significazione a
processi, strumenti, spazi e prodotti culinari.
Il mondo della cucina viene qui letto e interpretato in alcune sue plurime
dimensioni, che comprendono: l’ambito della produzione, manipolazione e
scambio di oggetti alimentari, la configurazione strutturale dei prodotti
dell’elaborazione culinaria, le dinamiche intrattenute fra il soggetto
destinatario e l’oggetto gastronomico nel corso del processo di degustazione.
1. La gourmandise.
Il primo ambito è quello che designa la gourmandise, ovvero l’anima
pratica della cucina, intesa come un processo di selezione, trasformazione e
combinazione di sostanze alimentari in oggetti culturali destinati ad essere
mangiati. Ci ricongiungiamo quindi in primo luogo alla semiotica narrativa e
in particolare all’area della semiotica dell’azione, che esplora la dimensione
della performanza umana, intesa in questo caso quale attività di costruzione di
un oggetto di valore. Invadiamo quindi il campo della semiotica dell’oggetto,
quando andiamo a considerare gli strumenti utilizzati per tali processi di
trasformazione nel rapporto di mediazione fra soggetto e oggetto del desiderio,
nonché nelle relazioni paradigmatiche fra gli oggetti selezionabili all’interno
del repertorio culinario e quelle sintagmatiche fra gli elementi combinati nel
processo di manipolazione.
1.2. L’approccio semio-narrativo al fare-culinario.
In questa tesi, mi focalizzerò sul processo di costruzione dell’oggetto
culinario in due sezioni, dedicate all’analisi della preparazione della
“costoletta di rombo, con erbe strascicate e trippa di coda di rospo” e delle
“venticinque verdure di stagione con cuscus”, rispettivamente di Cedroni e di
Sánchez Romera. Un piatto di Adrià verrà descritto anche in questi termini in
un’ottica comparativa con la pietanza elaborata dello chef dell’Esguard, in
quanto presenta numerosi aspetti in comune. Si tratta infatti di un “cuscus di
cavolfiore in salsa solida di aromatici”.
Mi avvalgo per questo ambito della teoria semio-narrativa greimasiana,
secondo la quale la dimensione del fare-culinario è inquadrata nei termini di
una serie di operazioni organizzabili gerarchicamente finalizzate alla
costruzione di un oggetto di valore. L’identificazione delle diverse fasi
processuali e l’individuazione della struttura attanziale alla loro base ci
permetterà di sviscerare più a fondo le forme della manipolazione culinaria. Ci
consentirà infatti di esplorare il rapporto fra natura ed intervento culturale, fra
ingredienti “grezzi” previncolati non dotati propriamente di un senso
gastronomico1 e i prodotti culinari, provvisti di un significato inteso quale
valorizzazione estetico-gustativa.
Sempre avvalendomi del costrutto teorico del Percorso Generativo
greimasiano, mi soffermo inoltre su alcune componenti sintattiche a livello
delle strutture discorsive, relative all’aspettualizzazione attoriale, temporale e
spaziale. Questi concetti mi risultano utili nell’analisi dello svolgersi
dell’attività culinaria, non solo nella preparazione di un unico piatto ma anche
nell’organizzazione più ampia dei processi culinari nel corso di una giornata
lavorativa.
1.2. L’approccio strutturale antropologico. Lévi-Strauss. Un contributo molto rilevante all’indagine dei comportamenti alimentari e
delle tecniche culinarie ci viene dall’antropologia, grazie soprattutto agli studi
1 Cfr. Eric Landowski (1989, p.239 della trad. it) che inquadra i processi culinari
nell’ambito della razionalità strategica, riallacciandosi al concetto espresso in Greimas, Courtés (1979) sulle strategie partecipative finalizzate alla costruzione di attanti collettivi sintagmatici.
mitologici di Claude Lévi-Strauss, i quali hanno influenzato ampiamente la
semiotica greimasiana, portando l’attenzione sul livello semantico.
Secondo la prospettiva strutturalista di Lévi-Strauss, l’esame dei sistemi
alimentari e culinari di una società ci permette non solo di esplorarla
superficialmente bensì di penetrarla in profondità, perché nelle sue scelte e
classificazioni sono inscritti i valori alla sua base. In particolare, la forma del
mito di origine alimentare viene sfruttata dalle società tradizionali per
organizzare e codificare i propri significati culturali secondo una “logica del
concreto”, ovvero selezionando i “significanti” dal mondo della natura.
Si può così sperare di scoprire, per ogni caso particolare, come la cucina di una società costituisca un linguaggio nel quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni. (Lévi-Strauss, 1968, p.445 della trad. it).
Mediante il celebre triangolo del crudo e del cotto elaborato nelle
Mitologiche, Lévi-Strauss classifica le diverse tecniche di trasformazione
culinaria di elementi della Natura, sottoposti ad operazioni di selezione e
categorizzazione, in prodotti adatti ad essere ingeriti. I metodi di cottura
conosciuti già dalle società primitive, come l’arrostitura, l’affumicatura e la
bollitura, vengono posizionati ai diversi vertici corrispondenti ai diversi stati
naturali del cibo, ovvero rispettivamente: il crudo, il cotto e il putrido. Ad
ognuna delle tecniche si attribuisce inoltre un valore di prossimità ad uno dei
due poli del binomio di Natura e Cultura, sulla base del grado di mediazione
che impone nei mezzi l’operazione di cottura, nonché in relazione allo stato
dei cibi che ne è risultato.
Nelle analisi dei piatti, farò uso del triangolo culinario, quando necessario
in una versione a forma di tetraedro che comprende i metodi di cottura più
moderni attualmente in uso, nonché adattandolo alla natura dei particolari testi
gustativi in esame, caratterizzati da una composizione di tecniche diverse più
che da una unica. Sulla base della rilettura greimasiana dell’opera di Lévi-
Strauss, farò inoltre riferimento alle operazioni sintattiche implicate nelle
trasformazione culinarie, nella forma di affermazioni e negazioni dei valori
che i processi culinari realizzano in un quadrato semiotico, pensato per
articolare logicamente la categoria del crudo e del cotto.
Un concetto di Lévi-Strauss particolarmente interessante per l’analisi è
quello di bricolage, adoperato dall’antropologo per descrivere un particolare
approccio umano alla materia, definibile quale attività di manipolazione di
forme culturali depositate per costruire qualcosa di nuovo, in cui è iscritta la
personalità del performatore. Questo modo di agire, così come la figura del
bricoleur quale suo agente, è esportato dall’ambito antropologico a quello
semiotico da Jean Marie Floch, che ne fa largo uso nella sua opera Identità
visive (Floch, 1995c). In questo libro, la prassi del bricoleur e quella
dell’ingegnere, ad esso opposto in quanto deputato ad un fare-specialistico che
si avvale di strumenti appropriati, vengono chiamati in causa fra l’altro
nell’analisi del coltello Opinel (Floch, 1995b), ma anche in ambito culinario
per definire l’approccio dello chef Michel Bras alle materie alimentari.
I concetti di bricoleur e scienziato/ingegnere mi risultano utili nell’esame
del modo di operare dei cuochi in esame, per alcuni versi assimilabili e per
altri discernibili. L’approccio individuale agli ingredienti culinari nella
costruzione dei piatti, nonché l’adozione di peculiari strumenti e tecniche
culinarie, forniscono l’occasione per definire il fare culinario di ognuno degli
chef con differenti sfumature.
1.3. La semiotica dell’oggetto. Una prospettiva
socio-semiotica.
L’esplorazione del mondo culinario attraverso una prospettiva semiotica va
inscritto nell’ambito degli studi sull’oggettività2. Le operazioni alla base della
gourmandise comprendono infatti attività di produzione, elaborazione e
scambio di oggetti di natura alimentare, a cui un soggetto è desideroso di
congiungersi.
Nelle pratiche culinarie risultano protagoniste due diverse categorie di
oggetti: da un lato i piatti che ci si propone di realizzare, dall’altro gli
strumenti culinari che rendono possibili le preparazioni. Nel primo senso,
l’attività di manipolazione culinaria può essere letta quale operazione che,
mediante l’elaborazione e la combinazione di prodotti di partenza, consente di
dare forma ad un oggetto, rendendolo definibile quanto tale. La seconda
tipologia comprende invece le entità poste alla mediazione fra il soggetto
2 Il termine oggetto va inteso nella sua funzione attanziale, ovvero per la relazione che con
essa intrattiene un soggetto. La natura materiale è proprietà frequente ma non necessaria per lo status di oggetto. Come scrive Felice Cimatti (2001, p.88), “una cosa, ossia un’entità materiale, può diventare un oggetto, ma […] non tutti gli oggetti sono anche cose”.
umano e l’oggetto culinario da produrre. Sono le protagoniste della
trasformazione culinaria, e in quanto tali interpretabili anche quali soggetti
delegati per la performanza da realizzare.
Il problema della genesi dell’oggetto-piatto verrà discusso, come accennato,
nelle sezioni relative all’analisi del momento di preparazione e montaggio
delle pietanze in esame. A questo proposito, ci si può chiedere come fa
Gianfranco Marrone se sia più opportuno interpretare un piatto quale il
“risultante della composizione e della trasformazione di una serie di oggetti o
di un oggetto singolo” (Marrone, 2002a, p.34). Alla luce di questa questione,
si potrebbero chiamare in causa le problematiche dell’interoggettività, ovvero
delle relazioni (ad es. di associazione, compatibilità) nel primo caso fra oggetti
diversi, nel secondo fra parti di uno stesso oggetto.
Uno strumento culinario che verrà analizzato nel dettaglio è invece il
sifone, reso da Ferran Adrià celebre per la ricodificazione di molteplici ed
innovativi usi. Quest’oggetto sarà preso in esame sia nelle sue proprietà
testuali immanenti, con riferimento al modello greimasiano, sia nella sua
dimensione contestuale. Secondo una lettura dominante della branca della
socio-semiotica, quest’ultima viene integrata nell’oggetto di studio
interpretandola come testo, ovvero testualizzandola3. Si considereranno quindi
anche le relazioni dell’oggetto con altri oggetti in absentia o praesentia, sulla
base di un’analisi interoggettiva. Inoltre, non verrà trascurata la dimensione
delle pratiche d’uso, accolta anch’essa nell’ambito della prospettiva socio-
semiotica su ispirazione dell’analisi intersoggettiva, di cui etnometodologi
come Garfinkel o sociologi delle tecniche come Latour vengono considerati
padri (Semprini, 2001)4.
2. La gastronomia.
La seconda dimensione dell’arte culinaria è quella gastronomica, ovvero
l’ambito di discussione ragionata sulle pietanze così come si predispongono al
momento della degustazione. Si considerano da questo punto di vista da un
lato le qualità sensoriali e materiche dei cibi risultanti dalle operazioni
culinarie nella prospettiva di una “scienza del concreto” (Lévi-Strauss, 1962),
3 Cfr. su questa prospettiva Landowski (1989) e Floch (1990). 4 Cfr. anche Semprini (1995) per un approfondimento sulle problematiche dell’oggettività.
dall’altro negli effetti di senso che le pietanze culinarie producono nei
commensali a cui sono destinate.
2.1 . Lo status dell’oggetto culinario e i suoi vincoli materiali.
Nello studio di questo livello, viene alla luce la natura materiale degli
oggetti alimentari, così come la natura di corpo fra corpi dell’essere umano.
Come risulta manifesto, quest’ultimo con il cibo intrattiene da un lato un
rapporto di necessità fisiologica, avendone bisogno per il proprio nutrimento,
dall’altro di soddisfazione emotiva ed estetica, perché l’incontro con
l’alimento desiderato è foriero di una sensazione di piacere. Quest’ambiguità
di fondo è alle radici dello status peculiare da attribuire alle pietanze culinarie,
al centro di questa trattazione. Come verrà messo in luce più oltre anche per
mezzo di un excursus storico, l’istituzione dell’alta cucina si sviluppa in una
società dell’abbondanza, dove non c’è la preoccupazione del sostentamento, e
dove si può scegliere di andare al ristorante perché esso è luogo di
un’esperienza estetica5.
Come risulta anche dall’osservazione della preparazione e dell’allestimento
di alcuni piatti, i prodotti dell’arte culinaria ai suoi vertici tenderebbero ad
approssimarsi per padronanza tecnica e di stilistica ad opere d’arte. La cucina
non può però ergersi a livello delle “belle arti” perché la sublimazione dalla
dimensione corporea dell’atto di degustazione a cui è destinata non può essere
portata a pieno grado a realizzazione. La creatività culinaria possiede dei
vincoli materiali molto netti: gli ingredienti su cui si esercita la libertà creativa
dello chef devono innanzitutto essere commestibili, e il prodotto che ne risulta
deve essere adatto ad essere ingerito e digerito dal soggetto umano. Possiede
inoltre delle costrizioni motivate dal contesto delle sue pratiche d’uso: come
sottolinea Ferran Adrià, “la cucina è fatta per essere servita in uno stabilimento
che si chiama ristorante, il quale deve funzionare come esercizio commerciale
indipendentemente dallo spirito artistico più o meno alto del cuoco” (Adrià,
1997, p.14, trad. mia). Come si approfondirà in una sezione dedicata
all’organizzazione di El Bulli, le opere culinarie devono essere
necessariamente riproducibili e soddisfare alle costrizioni temporali,
economiche o organizzative in genere vigenti all’interno dell’ambiente
5 Come specifica Floch, “quella di un ridispiegamento delle qualità sensibili del mondo”. Floch (1995b, p.161 della trad. it. in Marrone, 1995).
ristorativo. In questo senso, secondo quanto sostiene Adrià, nella cucina si
combina l’arte con l’artigianalità.
Due ulteriori importanti vincoli materiale propri degli oggetti culinari sono
la deperibilità fisica e la loro provvisorietà della loro destinazione, entrambe
proprietà legate alla dimensione temporale. In primo luogo, i cibi hanno una
durata che determina la loro commestibilità e all’interno di questi termini un
intervallo di gradimento ottimale della degustazione, dipendente
dall’intervallo che separa la preparazione culinaria dall’assaggio.
Secondariamente, non bisogna dimenticare che le pietanze sono fatte per
essere consumate e sono quindi per natura entità periture, non finalizzate a
durare come le opere d’arte nella più stretta accezione.
Come si vedrà nella parte storica, non sono mancati nei secoli ripetuti
tentativi da parte di professionisti o meno dell’arte culinaria di prescindere dai
suoi vincoli materiali, giungendo finanche a combatterli con la convinzione di
poter portare la cucina all’eccellenza sublimando il suo valore d’uso, ovvero
parificandola alle arti maggiori. I risultati di questi interventi sono stati però
gastronomicamente scadenti, dimostrando la necessità per la cucina di operare
entro i suoi confini, valorizzando quelle che paiono essere sue costrizioni quali
elementi di differenziazione e distinzione dagli altri campi dell’agire umano.
La violazione della commestibilità e della transitorietà del valore gustativo
dei cibi sono aspetti non trascurabili, poiché il loro rispetto è un principio
fondante dell’alimentazione in genere. Come sottolinea una lunga tradizione di
studi di ambito sociologico ed antropologico, i sistemi alimentari si fondano
sulla classificazione del cibo buono da quello cattivo da mangiare6, il
commestibile dal nocivo, il fresco dal putrido. Per un approfondimento di
questa importante tematica, così come dell’intreccio fra la desiderabilità delle
pietanze e la dimensione temporale di produzione e degustazione, rimando
però alla sezione finale di questo lavoro, dove verrà proposta una lettura di
questi fenomeni in una prospettiva socio-semiotica.
2.2 . La dimensione estetica e la sensorialità.
6 Secondo il filone del “materialismo culturale”, di cui è esponente Marvin Harris (1985), la scelta dei cibi “buoni da mangiare” fra quelli potenzialmente commestibili dipende dal rapporto fra costi e benefici nella produzione, all’interno di un dato ecosistema. Secondo il polo “struttural-culturalista”, rappresentato in particolare da Mary Douglas (oltre che, con diverso approccio, da Lévi Strauss), i tabù alimentari vanno spiegati in termini tassonomici, determinati da fattori culturali (Douglas, 1972).
Quando ci proponiamo di esaminare le pietanze culinarie sulla base di
quelle che Lévi-Strauss definisce “le logiche del sensibile”, emerge la
dimensione relazionale fra l’oggetto gastronomico ed il soggetto umano
protagonista della degustazione, entrambi dotati di una corporeità. Legati da
una relazione ambivalente fra esteriorità ed interiorità7, l’alimento e il corpo
sono trasformati dal loro reciproco incontro oppure dalla loro separazione.
All’esterno del corpo, il cibo partecipa di una semiosi culturale; quando è
ingerito e assimilato, esso produce delle alterazioni sia nel corpo che in se
stesso (Belleguic, Longstreet, 1994). Ecco che l’aforisma di Anthelme Brillat-
Savarin (1835) “dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei” diventa pregnante.
Queste tematiche aprono al dominio dell’aisthesis, ovvero, secondo la
definizione di Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone, all’ambito “della
sensibilità, dei modi e dei tempi con cui un soggetto si rapporta a un oggetto, a
se stesso o ad altri soggetti mediante il proprio apparato sensoriale, il proprio
corpo, la propria affettività” (Fabbri, Marrone, 2001, p.267). A partire dalla
svolta degli anni Ottanta, in cui nel pensiero greimasiano è stato riconosciuta
l’esistenza di una “macrosemiotica del mondo naturale”, accanto alla
tradizionale “macrosemiotica delle lingue naturali” (Greimas, Courtés, 1986),
si è dato avvio inizialmente agli studi sui testi visivi, e quindi alla fondazione
di una semiotica dell’estesia. Come ricordano Fabbri e Marrone (2001, p.266),
questo filone di ricerca “si occupa di integrare nel modello teorico del
percorso generativo del senso la dimensione sensoriale e somatica”. Prima di
esplorare gli sviluppi semiotici in questo campo, esaminando l’ultima opera di
Greimas, dedicata a questo tema, vorrei prendere sinteticamente in
considerazione le teorie sulla percezione elaborate in ambito filosofico da
Maurice Merleau-Ponty, e quelle di un paleoantropologo come André Leroi-
Gourhan. La loro influenza sugli studi semiotici è evidente, e Greimas stesso
si proclama merleau-pontiano.
Merleau-Ponty (1945) pone l’accento sul ruolo della corporeità, che nella
Fenomenologia della percezione definisce lo strumento generale della
comprensione del mondo. “Il mio corpo è la testura comune di tutti gli
7 La centralità di questa tematica quale nucleo teorico per rifondare una semiotica del cibo
in una prospettiva non strutturalista viene sostenuta da Thierry Belleguic e Lynda-Davey Longstreet (1994), nell’introduzione ad un numero monografico di «Recherches sémiotiques» dedicato alla semiotica dell’alimentazione.
oggetti” ed esso “non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso
di qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona
per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro
significato primordiale in virtù del modo in cui le accoglie”. Secondo questa
prospettiva, il corpo è quindi dispositivo preso in carico dalle due funzioni
attanziali implicate nella realizzazione dell’estesia, essendo sia parte del
mondo che punto di vista nell’acquisizione sensoriale del mondo. Il corpo è
concepito come un sistema sinergico, che entrando in contatto non solo con
oggetti naturali, ma anche con oggetti culturali come le parole, dà luogo ad
una tensione dinamica produttrice di senso. In questa visione, l’aisthesis viene
concepita come un esperienza totalizzante che permette di ripristinare la
comunione originale fra il senziente e il sensibile.
La dimensione sensoriale, al nucleo della congiunzione descritta, è messa in
primo piano anche da Leroi-Gourhan. Come sostiene in Il gesto e la parola
per l’uomo è fondamentale “la sua attrezzatura sensoriale, messa al servizio di
un apparato meraviglioso atto a trasformare le sensazioni in simboli” (Leroi-
Gourhan,1965, p.328 della trad. it).
Nella prospettiva di questo paleoantropologo, l’estetica andrebbe
interpretata come la terza tappa dell’evoluzione umana, acquisita dopo la
costituzione dell’utensile e del linguaggio in un processo di progressiva
esteriorizzazione. Questo fenomeno va inteso come una presa di distanza fra
l’esperienza vissuta e l’organismo umano, per mezzo dell’istituzione di una
facoltà simbolica, che permette all’uomo di collocare la memoria delle
esperienze al di fuori di se stesso.
Secondo Leroi-Gourhan (ivi, p. 317 della trad. it.), il “codice delle
emozioni estetiche è fondato su proprietà biologiche comuni all’insieme degli
esseri viventi, quelle dei sensi che permettono la percezione dei valori e dei
ritmi”. Collocato in una rete di movimenti originati dall’esterno o da se stesso,
il soggetto attivo, animale o essere umano, interpone alla ritmicità ambientale
per il tramite della percezione una risposta dotata di una certa motilità.
Nell’uomo vengono individuali diversi strumenti del dispositivo sensoriale:
sensibilità viscerale, sensibilità muscolare, gusto, olfatto, tatto, udito ed
equilibrio, vista. Leroi-Gourhan propone una precisa gerarchia
dell’attrezzatura sensoriale umana, attribuendo solo a vista e udito, diventati
per evoluzione zoologica i nostri sensi di riferimento spaziale, la facoltà di
astrazione, che permette di classificarli quali i sensi più nobili.
“L’estetica gastronomica è fondata su un fatto biologico molto generale che
è l’identificazione alimentare” (ivi, p.338 della trad. it.). In essa intervengono
diversi ordini sensoriali che forniscono percezioni che si completano a
vicenda. L’organo del gusto è considerato il senso inferiore, biologicamente
funzionale a segnalare in funzione preventiva l’ingestione di sostanze tossiche
per l’organismo. Così come nella maggior parte degli animali, il registro delle
percezioni gustative dell’uomo è piuttosto limitato: permette infatti di
distinguere solo l’acido, il salato, l’amaro e il dolce. In gastronomia, le poco
varie sensazioni recepite dalle papille gustative “sono chiamate a sostenere la
parte di nota fondamentale; come in musica, danno il tono e forniscono una
specie di basso continuo sul quale si dispongono gli altri valori” (ivi, pp.340-1
della trad. it.). Interviene l’apparato olfattivo, che dà forma alla “sovrastruttura
del senso gastronomico”, e arricchisce l’esperienza percettiva possedendo un
registro molto sottile. Abbiamo i valori recepiti dal tatto orale, ovvero la
percezione della temperatura e della consistenza degli alimenti, fondamentale
nelle cucine più evolute.
L’udito occupa un ruolo marginale, mentre la vista adempie alla
fondamentale funzione di riconoscimento del cibo in prima istanza,
influenzando la sua accettazione. Dopo queste riflessioni, Leroi-Gourhan
giunge a formulare un giudizio piuttosto netto in negativo sulla cucina: nella
sua opinione infatti “l’arte culinaria sfugge alla caratteristica di tutte le altre
arti, cioè alla possibilità figurativa, non affiora al livello di simboli” (ivi, p.342
della trad. it). Su questa considerazione, a mio parere opinabile, c’è stato
anche chi ha dissentito come Jean-Marie Floch (1995a), che nella sua citata
analisi di un piatto di Michel Bras ha assegnato manifestamente uno statuto di
pratica significante alla cucina.
2.3. L’esthesis e il ruolo dei sensi nella degustazione
in Dell’Imperfezione.
Una maggiore considerazione alla valenza estetica di oggetti non
appartenenti alle arti tradizionali monosensoriali bensì al mondo totalizzante
della quotidianità8 e di ciò che emerge da esso è esibita nell’ultima opera di
Greimas (1987). Traendo ispirazione dalla filosofia merleau-pontiana, il
semiologo si sofferma sugli effetti del contatto sensoriale degli esseri umani
con il mondo, interpretandoli nei termini di incontro fra soggetto e oggetto
della percezione, in un processo di progressiva congiunzione. In
Dell’Imperfezione, queste tematiche sono originalmente esplorate attraverso
l’analisi di poesie e brevi brani letterari, in cui si descrivono le esperienze
estetiche nella prospettiva di coloro che le vivono. Per mezzo di
quest’approccio, viene focalizzata l’attenzione sulla “componente affettiva e
sensibile dell’esperienza quotidiana” (ivi, p.IX della trad. it.). Nella
trattazione, viene discusso il tema delle presa estetica proponendo una
gerarchia degli ordini sensoriali sulla base della distanza fisica che instaurano
fra il soggetto e l’oggetto della percezione.
A differenza da Leroi-Gourhan, Greimas non privilegia i sensi della vista e
dell’udito, che definisce “superficiali”9 in quanto attivati già in lontananza
dalle cose. Si sofferma più a lungo invece sul tatto, pertinente ad un ordine
sensoriale più profondo, in quanto la distanza con l’oggetto viene colmata e
ridotta a zero. Per mezzo di questo senso, può porsi in essere un’intimità
ottimale fra il soggetto e il mondo, realizzando seppur fugacemente una
fusione momentanea fra le due parti. Come sottolinea Luiz Tatit, secondo la
prospettiva di Greimas quale rimedio temporaneo alla naturale assenza di
continuità fra soggetto e oggetto vi può essere solamente e provvisoriamente
l’estesia, “la cui più espressiva rappresentazione sensoriale è il contatto”
(Tatit, 1997, p.52 della trad. it). Per mezzo di esso, si realizza quella
comunione momentanea con il mondo che permette al soggetto di superare,
almeno per un istante, la barriera del sembrare per penetrare nel mondo
dell’essere. Il tatto e l’olfatto sono due ordini sensoriali entrambi profondi, i
8 Cfr. Maria Pia Pozzato (1995, p.12), dove si sottolinea nell’introduzione che “a differenza delle cosiddette ’belle arti’, l’estetica della vita quotidiana trova la propria area di appartenenza proprio nell’incrociarsi dei cinque sensi”. 9 Non in accezione negativa, comunque.
quali producono degli effetti particolari: provocano infatti non solo il
sincretismo ma anche una potenziale “inversione merleau-pontiana delle
funzioni attanziali” (ivi). Come viene esemplificato da Tatit, quando
assorbiamo un profumo ne siamo anche assorbiti, così come manifestamente
toccare implica anche essere a nostra volta toccati.
Greimas inoltre elabora una teoria particolarmente interessante a proposito
del senso più inerente al cibo, nostro oggetto di studio: il gusto. In contrasto
con l’opinione di Leroi-Gourhan, secondo cui il gusto è nell’uomo il senso
inferiore, Greimas attribuisce a quest’ordine sensoriale uno status peculiare,
sebbene non accordandogli lo stesso grado di profondità10 del tatto.
Apparentemente, il gusto si manifesta come il senso di congiunzione
ottimale, in quanto l’appercezione ha luogo nella piena intimità della bocca.
Avvenendo all’interno del corpo del soggetto, però, quest’ultimo può
mantenerne il controllo godendo della posizione di dominio, senza consentire
come il tatto uno scambio delle funzioni attanziali. Il contatto del cibo con le
papille gustative è inoltre effimero, lasciando subitaneamente posto alla fase di
ingestione, che occulta l’alimento nelle cavità della gola. L’incontro fra il
protagonista dell’assaggio e il cibo sul piano sensibile è quindi talmente lieve
e fugace che si rasenta appena l’esperienza di comunione fra il soggetto e
l’oggetto alimentare, transitando repentinamente dall’esperienza sensoriale
alla razionalizzazione.
Secondo Greimas, la tendenza dell’appercezione gustativa a generalizzarsi
e ad intellettualizzarsi rende conto della tendenza ad adoperare il concetto di
gusto molto al di là dell’ambito gastronomico, applicandolo “all’insieme degli
approcci con il mondo” (Greimas, 1987, p.35 della trad. it.). La derivazione
etimologica del temine francese savoir [sapere] dal latino sapere [avere
sapore] è a questo proposito allusiva della dilatazione della sua significazione.
L’esplorazione di Josè Luiz Fiorin dei significati che il termine “gusto” può
assumere nella prospettiva di una sua definizione semiotica mette in luce le
motivazioni della transizione dal dominio della “discriminazione dei sapori” a
quella della “differenziazione di valore degli oggetti estetici” (Fiorin,1997,
p.18 della trad. it.). Come ricorda lo studioso, i significato più generale del
“gusto” quando è relativo ad un soggetto rimanda alla capacità di discriminare
10 Intesa quale grado di prossimità, garante di congiunzione con l’oggetto.
e apprezzare determinate cose. Alla sensibilità di discernimento si correlano
poi le caratteristiche proprie degli oggetti, un valore che le rende distinguibili e
al quale ci si riferisce attribuendo loro un certo tipo di gusto. Sia il soggetto
che l’oggetto vengono definiti in termini relazionali: il primo infatti è
determinato dal voler-essere congiunto a ciò che preferisce rispetto ad altre
cose, mentre il secondo è contraddistinto sulla base di caratteristiche rilevate
dal giudizio di un individuo sanzionatore. Se volessimo individuare il
significato del gusto in una forma più astratta, potremmo concordare con la
formulazione di Fiorin, secondo il quale esso “rappresenta l’istituzione della
discontinuità nella continuità, del differente nel differenziato” (ivi, p.19 della
trad. it.). Anche da questa definizione rimane evidente il conferimento al gusto
di una natura più relazionale che sostanziale.
Si suppone e si sottolinea in questi discorsi quindi la condizione di inerenza
reciproca tra soggetto e oggetto, che nella presa estetica trova la sua
sensibilizzazione. In ambito gastronomico, così come in generale
nell’apprezzamento di un’opera d’arte o di oggetti della quotidianità, la
dimensione percettiva e soggettiva si combina però a vari gradi con quella
riflessiva e normativa, dando luogo talvolta ad un effetto destabilizzante.
Con l’appercezione gustativa pura secondo l’opinione di Greimas la
pienezza dell’esperienza estetica è pressoché preclusa a causa di una tendenza
del gusto a generalizzarsi, producendo un giudizio immediato sull’esperienza
sensibile. Le attività celebrale implicate all’occorrere di queste circostanze
sono comunque limitate all’operazione di riconoscimento approssimativo dei
sapori del corpo sapido venuto a contatto con le papille gustative.
Per vivere un’esperienza estesica totalizzante non è sufficiente la fugace
sensazione registrata dai poco specifici organi di gusto. E’ necessario infatti
garantire, nei termini di Greimas, la “coalescenza delle sensazioni” (Greimas,
1987, p.54 della trad. it.), ovvero l’effetto di approfondimento e
prolungamento delle impressioni mediante il coinvolgimento di altre sfere
sensoriali. La prima modalità per ottenere questo risultato viene ottenuto è il
sincretismo, ossia la partecipazione simultanea di diversi organi di senso nel
momento degustativo. E’ palese che nell’approccio con il cibo intervengano
altre dimensioni sensoriali oltre a quella propriamente gustativa: la
presentazione del piatto e tutti gli aspetti visivi relativi non solo alla
disposizione delle pietanze ma anche all’ambiente ristorativo, la consistenza
degli alimenti percepita dalle labbra e con l’azione della forchetta, le sonorità
ambientali e i rumori prodotti dal contatto con i denti o le cavità orali, gli
aromi sprigionati dalle cibarie. Tutte queste sensazioni concomitanti hanno un
ruolo non secondario bensì determinante nel forgiare l’esperienza
gastronomica.
La partecipazione dell’olfatto è particolarmente importante, poiché
possiede una capacità discriminatoria di molto superiore al gusto, anche se
esiste una grande variabilità nella sensibilità di ogni persona, per
predisposizione genetica e per addestramento.
Il senso della vista viene anch’esso coinvolto nell’esperienza gastronomica,
costituendo un elemento importante nell’identificazione della commestibilità e
dell’appetibilità dei cibi. La configurazione formale degli alimenti costituisce
per il degustatore un fattore di riconoscibilità dei cibi e mediante la
comparazione con quanto conosciuto può essere all’origine di sentimenti di
desiderio o inquietudine, a seconda delle passate esperienze e delle
idiosincrasie individuali o culturali.
La dimensione del tatto è anch’essa un elemento fondamentale della cucina.
Grazie a questo senso, l’esperienza gastronomica viene arricchita e dotata di
una base somatica, permettendo di ancorare la percezione effimera delle
sensazioni propriamente gustative e permettere la coalescenza delle
sensazioni. Nella prospettiva greimasiana, il contributo della dimensione tattile
ovvero l’intervento del senso di maggior profondità è essenziale per garantire
quella congiunzione temporanea fra soggetto e mondo che caratterizza la presa
estesica nella sua completezza.
L’udito è il senso meno rilevante nella cucina, ma ha comunque una
funzione di integrazione delle altre sensazioni esperite nel corso
dell’esperienza gastronomica. Il suo coinvolgimento è manifesto ad esempio
nella percezione dei suoni prodotti dalla masticazione di cibi croccanti, dal
sorseggiare alimenti liquidi, dai movimenti delle posate.
Come abbiamo visto, nella degustazione sono coinvolti tutti i cinque sensi,
che contribuiscono ognuno per la sua parte all’intensificazione dell’esperienza
estesica. Il sincretismo sensoriale, ovvero la presenza simultanea e
concomitante dei diversi organi di senso non è comunque l’unico approccio
possibile per garantire la “coalescenza delle sensazioni”. Come sottolinea
Greimas (1987), il coinvolgimento delle diverse sfere sensoriali può aversi non
solo a livello paradigmatico bensì anche sintagmatico, in un loro
dispiegamento temporale. In Dell’Imperfezione si fa in primo luogo l’esempio
lampante della cerimonia giapponese del tè, dove si susseguono una dopo
l’altra percezioni che coinvolgono ogni singolo organo di senso, in una
magnificazione dell’esperienza estesica. Anche nella cucina francese,
sottolinea Greimas, ritroviamo diverse forme di ritualità che prevedono
l’intervento dei diversi sensi in un ordine consecutivo e codificato. Secondo
questa modalità, a mio parere estendibile all’ambito generale dell’alta cucina,
nell’approccio al cibo vengono coinvolti innanzitutto la vista, che anticipa e
stimola mediante l’attesa la percezione gustativa, nonché il senso dell’udito, il
quale già a distanza arricchisce l’esperienza raccogliendo gli stimoli uditivi
che pervadono il contesto ambientale ristorativo. Più in intimità con l’oggetto
interviene l’olfatto che circonda con l’aroma la pietanza, percepita in modo
effimero nel suo gusto dalla papille gustative e resa sensorialmente duratura e
profonda con il coinvolgimento del senso del tatto. Come scrive Greimas, si
può avvertire in questo modo almeno per un momento un “sapore di eternità”,
ravvisando allo stesso tempo “un fondo11 di imperfezione” (ivi, p.52 della trad.
it).
11 Da Tatit (1997) assimilabile a “retrogusto”.
II.
EXCURSUS NELLA STORIA DELL’ALTA
RISTORAZIONE.
1. La nascita dei primi ristoranti: l’inizio
dell’egemonia culinaria francese.
Come ricorda Jean-Robert Pitte (1996, p.602), “il ristorante è una delle
istituzioni alimentari più diffuse al mondo”. E’ dagli anni che hanno visto
sorgere i primi ristoranti come li intendiamo oggi che intendo iniziare il mio
excursus storico, in quanto la loro nascita e la diffusione segna un punto di
svolta nell’evoluzione dell’alta cucina. Con essi, si aprono infatti le porte del
mondo dell’arte culinaria privandola dello status privatistico che caratterizzava
il rapporto fra cuochi e nobili committenti, e donandole invece uno status
pubblicistico.
Nella storia possiamo ritrovare numerose forme di precursori
dell’istituzione ristorativa, sebbene alieni nella struttura al modello attuale.
Inteso come locale dove fuori casa si può mangiare seduti in tavola a
pagamento, il ristorante ha lontane origini, che vengono fatte risalire alla
diffusione dei mercati e delle fiere. Esistono già dall’antichità locande o
stazioni di posta collocate sulle strade principali, ove i contadini e gli artigiani
lontani da casa si possono riposare e rifocillare. In questi luoghi, destinati in
particolare ai viaggiatori, è possibile mangiare i piatti semplici offerti dall’oste
a seconda di quanto disponibile in giornata.
Un po’ ovunque nascono inoltre nei centri maggiori in epoca medievale le
botteghe alimentari, luoghi dove la gente può portare la propria carne per farla
cuocere, oppure acquistare un piatto caldo precotto. Come riferisce Stephen
Mennell (1985), questi esercizi sono destinati in particolare alla popolazione
meno abbiente, che non dispone nelle abitazioni di adeguati mezzi per la
cottura dei cibi. Nei secoli queste botteghe attraversano un’evoluzione,
trasformandosi in rosticcerie o nei take away, oppure anche in luoghi dove ci
reca per prendere qualcosa in compagnia, come i moderni bar.
Nel diciottesimo secolo, periodo in cui come vedremo in Francia sorgono i
primi ristoranti veri e propri, nel resto d’Europa gli esercizi che servono
pietanze seguono modelli che non combinano allo stesso modo una cura
dell’ambiente e dell’offerta gastronomica.
Negli spacci di bevande alcoliche si servono un po’ ovunque12 piatti
modesti e a buon mercato, preparati sul posto oppure portati da una vicina
locanda o bottega di alimentari. In Spagna si possono degustare tapas nelle
bodegas, pies nei pubs inglesi, carni lesse o in umido e frattaglie nelle taverne
francesi (Pitte, 1996), mentre piatti della tradizione regionale vengono
consumati nelle osterie italiane. Sebbene la tipologia di questi esercizi sia
quanto mai varia, andando dalle bettole più sudice a luoghi più dignitosi
specialmente in ambito cittadino, sono locali conviviali piuttosto rumorosi e
sia loro che i loro esercenti godono di uno status non elevato.
Un ambiente più raffinato è quello dei caffè, i quali, sorti dapprima a Parigi
e quindi anche in altre città europee come Venezia, Vienna, San Pietroburgo e
Londra, diventano luoghi alla moda dove la gente dabbene si incontra per
socializzare sorseggiando anche tè e cioccolato, o degustando dolci e sorbetti.
A Parigi aleggia in essi lo spirito dei Lumi, mentre a Londra sono frequentati
soprattutto dalla classe parlamentare, che in questi luoghi disegna nuovi
intrighi politici.
Per assaggiare piatti cucinati è preferibile recarsi in questo periodo in
alcune buone locande, o presso le rosticcerie oppure soprattutto nei trattori
francesi o nelle italiane “trattorie”. In Francia, le corporazioni di trattori
detengono assieme ai salumieri13 il monopolio della vendita delle carni cotte
ad esclusione dei tortini di carne macinata avvolta in un involucro di pasta,
responsabilità dei pasticcieri. Solo il popolo però consuma i pasti all’interno di
questi trattori dall’ambiente poco curato, mentre i benestanti scelgono
generalmente di farsi consegnare le pietanze a domicilio o presso le foresterie
dove sono alloggiati (ivi, p.603).
In Inghilterra, esistono invece dal diciottesimo secolo degli esercizi che si
approssimano maggiormente all’istituzione ristorativa: le taverns. Questi
locali sono specializzati nella mescita di vino e non di birra come le più
diffuse ale-houses. Destinate ad una clientela di classe sociale superiore,
alcune di esse nella capitale sono centro delle vita sociale cittadina, nonché
12 Fanno eccezione le osterie parigine, dove si serve solo vino. Cfr. Pitte (1996). 13 Venditori di carne di maiale tritata e cotta. Ivi.
fungono da rinomati posti di ristoro dove la clientela può scegliere le pietanze
da un menù composto da piatti inglesi e francesi (Mennell, 1985).
Nel frattempo, come ricorda Pitte (ivi, p.604), gli elementi che
caratterizzano il panorama gastronomico francese sono: “una grande cucina
inaccessibile al comune mortale, moltissime rivendite di cibo e di vino che
servono piatti di fattura popolare e, in qualche caso, un po’ più raffinati […]
dei caffè in cui è possibile nutrire la mente, ma non lo stomaco, e finalmente,
lo sguardo dell’élite colta rivolta verso l’Inghilterra”.
La nascita dei ristoranti a Parigi può essere considerata la risposta francese
alle taverns, in un periodo in cui è di moda tutto ciò che è inglese. Non a caso
il primo grande ristorante degno di questo nome è denominato La Grande
Taverne de Londres. Questo lussuoso locale, aperto nella capitale francese nei
1782 da Beauvillier, incontra fin da subito un gran riscontro di pubblico,
attratto dalla novità che esso rappresenta. Come ricorda Brillat-Savarin (1825,
p.279 della trad. it.), egli per primo ha “una sala elegante, camerieri ben
vestiti, una cantina scelta e una cucina ottima”.
Due sono però i presupposti che rendono possibile l’affermazione della
nuova istituzione ristorativa: uno di carattere giuridico, uno collegato al
particolare contesto storico, economico e sociale. Relativamente al primo
punto, i memoriali ricordano il celebre caso di Boulanger, che con la sua
intraprendenza sfida le restrizioni al commercio delle produzioni culinarie. Nel
1756, quest’uomo entrato nella storia apre una bottega nei pressi del Louvre,
nella quale si servono principalmente dei “ristoranti”, ovvero brodi di carne
pensati per ristorare le forze. Prepara e vende però anche dai piedi di montone
in salsa bianca, sfidando il rigido monopolio della corporazione dei trattori, i
quali intentano un processo. Il giudice dà sorprendentemente ragione a
Boulanger, aprendo per quest’ultimo le porte del successo e offrendo
all’istituzione ristorativa le precondizioni per lo sviluppo.
Negli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese si
presentano inoltre le condizioni che permettono di fornire all’esercizio
ristorativo una domanda adeguata: i deputati rivoluzionari che dalla provincia
giungono a Parigi e qui vi alloggiano mostrano di gradire l’opportunità di
pranzare assieme nei nuovi raffinati locali sorti nei pressi del Palazzo Reale.
Col loro esempio, stabiliscono una moda che molti altri si mostrano desiderosi
di imitare, decretando il successo di questi primi ristoranti, conosciuti però
ancora piuttosto a lungo quali “trattori”, come testimonia la tarda entrata della
parola “ristorante” nel Dictionaire dell’Accademia, registrata per la prima
volta nel 1835.
Gli eventi rivoluzionari contribuiscono alla creazione delle condizioni di
mercato alla base dell’istituzione ristorativa non solo stimolando la domanda,
bensì anche favorendo e consentendo la formazione di un’offerta che possa
dare risposta ai nuovi desideri. Con la fuga o la morte a colpi di ghigliottina
degli esponenti della classe aristocratica, gli chef a servizio nelle casi nobiliari
si ritrovano all’improvviso senza lavoro, e con la conseguente necessità di
provvedere alla ricerca di un’occupazione alternativa. I cuochi che hanno
acquisito maggior professionalità decidono in gran numero di aprire delle
attività in proprio, accompagnati da giovani apprendisti al seguito. Il numero
dei ristoranti moltiplica in pochi anni, passando da meno di un centinaio
dell’inizio della rivoluzione francese all’ordine delle tre migliaia del periodo
della restaurazione.
Lo splendore e la raffinatezza della cucina delle case nobiliari viene
riprodotta nei ristoranti più lussuosi dei boulevards parigini, mentre uno stile
più sobrio ma comunque di un certo valore gastronomico si ritrova nelle
diverse tipologie di locali adeguati a tutte le tasche (Brillat-Savarin, 1825).
Come commenta Pitte (1996, p.607), “la rivoluzione francese, lungi
dall’uccidere la creatività culinaria e dal rimettere in discussione questo
brillante aspetto della cultura dominante del XVIII sec., ha permesso di
trasferire quest’arte alla borghesia e anche, in parte, alle classi popolari,
tramite un’istituzione nata dalla decadenza delle corporazioni”.
Il passaggio all’ambiente ristorativo porta con sé delle ripercussioni
evidenti sui caratteri della professione di chef e dell’arte culinaria.
Abbandonando il rapporto subordinato che intratteneva con il padrone
aristocratico, il cuoco divenuto spesso anche ristoratore intrattiene con i suo
clienti ad una rapporto di scambio di natura tendenzialmente egualitaria. Da
questo momento inoltre, gli chef non si devono confrontare più solamente con
il datore di lavoro, bensì entrano in competizione fra loro per conquistarsi una
clientela. La professione culinaria acquista quindi un suo proprio pubblico,
determinando con esso la nascita di una pubblica opinione sulle materie di
gusto culinario. Lo chef da questo momento deve iniziare a preoccuparsi
seriamente di come guadagnarsi una reputazione e di come mantenerla,
dovendosi confrontare incessantemente al giudizio dei suoi clienti e della
neonata critica gastronomica. I cuochi acquistano una collocazione del vedere
(altri cuochi ed esperienze culinarie) ed essere visti (da una clientela pubblica,
e dai concorrenti).
In questo contesto, l’orgoglio professionale e il pungolo competitivo
offrono lo stimolo all’innovazione culinaria e in particolare alla creazione di
nuovi piatti d’alta cucina “molto elaborati e quindi costosi […] con ambizioni
‘artistiche’ sia visive che gustative” (Mennell, Murcott, van Otterloo, 1992,
p.83, trad. mia). Gli chef di questi anni, fatto ingresso nel sistema di mercato,
sono sospinti a cercare di distinguersi nelle abilità culinarie, mentre l’influenza
dello stile sfarzoso in voga nelle imbandigioni nobiliari stabilisce il corso
dell’evoluzione della grande cuisine.
2. Il primo paradigma culinario. 2.1. Carême e l’architettura in cucina.
Con la rilevante figura di Antoine Carême, la grande cuisine del periodo
napoleonico viene per la prima volta codificata e si affermano nuovi codici
estetici e culinari che avrebbero influenzato un’intera generazione di cuochi.
Con lui ha inizio una fase di ascesa della dimensione scenografica e decorativa
della cucina, la quale viene assurta per lungo tempo a valore preponderante
nell’attività culinaria.
Riverito come il più grande talento culinario del suo tempo, Carême non è
un ristoratore, ma lavora al servizio di una lunga serie di personaggi illustri,
come Talleyrand, il Principe Reggente della casa inglese, il barone di
Rothschild, lo zar Alessandro I.
Prima che cuoco, Carême è soprattutto un pasticciere che vuole applicare in
ambito gastronomico i principi e gli stili dell’architettura, sua grande passione.
Iniziato a quest’arte mediante la contemplazione di stampe e incisioni della
Biblioteca Reale presso la corte parigina in cui è impiegato, si dedica a
progettare complesse strutture culinarie di impianto monumentale. Convintosi
dello stato miserevole in cui versa l’arte pasticciera ai suoi tempi, si impegna a
introdurre un nuovo stile su ispirazione dei modelli d’architettura studiati.
Acquista una grande abilità nel comporre delle pièces montées in uno stile
nuovo, più misurato rispetto alle costruzioni pompose in voga nel secolo
precedente, in conformità con l’ideale neoclassico di semplicità e proporzione.
I canoni estetici e culinari che sostiene sono in ogni caso tutt’altro che
imperniati sull’essenzialità e sulla sobrietà.
In primo luogo egli assegna il primato alla dimensione ornamentale, senza
la quale a suo parere non vi può nemmeno essere alta cucina. Nel
diciannovesimo secolo, egli sostiene, deve essere celebrato il matrimonio fra
architettura e sapore. Nella pratica culinaria si deve esigere il più rigoroso
contegno stilistico, nel rispetto di canoni estetici paralleli a quelli delle arti
plastiche.
Nell’allestimento delle imbandigioni, quello che conta più che la bontà
delle vivande è essenzialmente la cura perfezionistica della cornice di
accoglimento, secondo un appropriato uso degli elementi decorativi, sulla base
di una necessaria coerenza fra l’apparato scenografico e l’occasione del
convivio.
Come sottolineano Gualtiero Marchesi e Luca Vercelloni (1992),
l’importanza attribuita alla dimensione esornativa dei cibi è essenzialmente
legata alla manifestazione del loro uso sociale nell’ambito dei sontuosi
banchetti, appannaggio distintivo almeno fino ad allora delle classi agiate. Gli
elementi decorativi sono capaci di rendere gli alimenti più preziosi
insignendoli di un “supplemento simbolico che trascende le funzioni di
sostentamento per trasformare il cibo in un bene voluttuario” (Marchesi,
Vercelloni, 1992, p.49). Tanto più manifestamente quanto gratuiti (in quanto
non commestibili), gli addobbi esornativi vanno concepiti come tributi
funzionali al rituale sociale e collettivo di “autoincensamento in cui i
commensali traggono piacere dallo spettacolo in cui essi stanno recitando”
(ivi, p.56).
Carême esporta le tecniche della pasticceria in cucina, ambito distinto dal
primo dall’utilizzo preponderante di ingredienti dotati di una configurazione
naturale, poco inclini ad uniformarsi per mezzo della manipolazione culinaria
a sembianze artefatte, quali le sculture e i tempietti in miniatura da lui
progettati. E’ tuttavia proprio in questo suo progetto di estensione degli ideali
decorativi al settore gastronomico più refrattario per natura che egli si rivela
autentico innovatore.
Come vorrei dimostrare, portando avanti un progetto estetico ubiquitario
che include preparazioni di ogni genere, egli in un certo senso eleva la
dimensione strutturale alla potenza. Per prima cosa, occorre puntualizzare che
la “pasticceria” non va intesa nell’accezione ristretta all’ambito dolciario,
bensì nel senso allargato di Carême, il quale al suo interno vi annovera fra gli
altri timballi, sformati, soufflé: preparazioni accomunate dal conferire
mediante la lavorazione una configurazione a materie che di natura ne sono
prive. In questo senso, adottando la terminologia di Françoise Bastide (1987,
p.347 della trad. it.) l’arte pasticcera si fonda sulla realizzazione di programmi
di strutturazione, ovvero nell’operazione che “parte da elementi allo stato
amorfo per fabbricare un oggetto dotato di struttura”. Per mezzo
dell’innovazione introdotta da Carême, si afferma la tendenza ad attribuire
anche a prodotti strutturati di natura come pesci o carni una configurazione
seconda, adoperandoli14 all’interno delle sue pièces montées per la costruzione
di strutture architettoniche spesso a sfondo imitativo. Spesso alcuni dei
prodotti culinari vengono inizialmente semi-destrutturati, tagliandoli e
inserendoli ad esempio sugli hâtelets, spiedini ornamentali dall’impugnatura
istoriata da conficcare sulla sommità dei tagli di carne e dei pesci di più grande
dimensione. Come questa sua creazione rende particolarmente evidente, più
che in una valorizzazione di una struttura originaria e di una aggiunta, la sua
operazione si riduce comunemente nella negazione della struttura naturale
degli elementi trattati per l’affermazione di una struttura alternativa da lui
imposta.
Nel corso della sua carriera, Carême elabora un vasto campionario di
cartamodelli per la costruzione di complessi basamenti istoriati, spiedini
ornamentali e altri orpelli decorativi. Mediante l’impiego esagerato di addobbi
la natura dei prodotti culinari veniva rivestita, camuffata e dissimulata in un
processo di elaborazione condotto fino ai limiti estremi dell’artificioso. Nella
costruzione delle sue pièces montées, il gusto e le proprietà sensoriali dei cibi
vengono trascurati e svalorizzati in rapporto alla dimensione scenografica
14 Spesso però semi-destrutturati nella forma di spiedini. In questo caso si può osservare
che la struttura di partenza e quindi naturale viene negata per l’affermazione di una struttura culturale artificiosa.
sottoponendoli a manipolazioni che li rendono scarsamente appetibili, se non
assolutamente immangiabili.
Il processo di de-naturalizzazione e culturalizzazione dei prodotti per
mezzo del trattamento culinario porta, nel caso di Carême, ad una vera e
propria negazione del valore naturale dell’oggetto di partenza. L’alimento
viene infatti straniato sistematicamente dalla sua origine naturale per essere
trasfigurato in qualcosa di assolutamente diverso, ovvero la riproduzione in
miniatura di monumenti o fregi architettonici. Nelle opere di Carême quindi la
presenza del cibo affiora solo in funzione allusiva, nella scelta dei materiali a
cui ricorrere per le costruzioni.
Gli oggetti risultanti della trasposizione delle arti plastiche in cucina sono
caratterizzati da imperfettibilità, a causa dell’affioramento di una non
coincidenza fra il punto d’incontro delle dimensioni materiali e funzionali
associato ai due distinti ambiti settoriali. Gli elementi sono infatti da un lato
depauperati delle loro qualità gustative e perciò di dubbio o nullo valore
gastronomico, e dall’altro fragili e precari in qualità di fregi architettonici in
quanto i materiali scelti li rendono deperibili.
Il contributo offerto da Carême alla cucina va però oltre le sue monumentali
costruzioni architettoniche. Introduce infatti una profonda trasformazione nella
concezione e nella fabbricazione delle salse rispetto al disorganico sistema
fino allora in uso. Mentre in precedenza ogni salsa veniva composta
dall’assemblaggio fra un fondo, un legante e guarnizioni, con Carême si
individuano quattro grandi salse base (la espagnole, la velouté, la allemande,
la béchamel), dalle quali si generano nuove salse per mezzo di uno o più
elementi aggiuntivi.
La preparazione di questi fondi, sebbene decisamente complessa per gli
standard moderni, rappresenta una rilevante semplificazione delle procedure
precedentemente seguite. Ognuna delle salse madri viene preparata
anticipatamente in grandi quantità nelle cucine professionali e quindi si
possono elaborare piccole modifiche ed effettuare le ultime aggiunte il giorno
del servizio. In questo modo si può avere a disposizione un ampio spettro di
salse “composte”, fra le quali si individuano quelle più adeguate agli specifici
piatti. Grazie a questo sistema, si assiste ad un processo di moltiplicazione
delle salse senza fine: ognuna infatti nasce dall’altra secondo un meccanismo
che ha spinto Jean-Pierre Aron (1973) a paragonare l’arte delle salse al gioco
delle bambole russe. Poiché da una salsa base si può crearne una nuova con
l’aggiunta di un nuovo ingrediente, e trasformare quanto prodotto con la
semplice addizione di una sfumature, ognuna delle salse ne contiene altre e
“queste altre ancora, così tutto l’insieme si gonfia dall’interno fino a
avviluppare l’intera cucina” (ivi, p.128 della trad. it).
Le salse di questa generazione godono nel piatto di una posizione di primo
piano; esse non solo legano e arricchiscono ma anche ricoprono i materiali di
base fungendo da mediatrici della trasformazione della natura in un prodotto
costruito dall’uomo.
Secondo Stephen Mennell (1985), si può sostenere che Carême sia il
responsabile dell’elaborazione del primo paradigma della cucina professionale
francese, se ammettiamo di applicare la lettura di Thomas Kuhn (1962) del
mondo della scienza all’ambito gastronomico. Carême è infatti il primo a
codificare l’arte culinaria fino a divenire un punto di riferimento per il mondo
dei professionisti che lo seguono. Come per i paradigmi in ambito scientifico,
ad un certo punto poi affioreranno alcuni problemi che faranno sì che le
assunzioni principali siano messe in crisi, sollecitando la sostituzione con un
paradigma nuovo.
2.2. Dubois e l’introduzione del servizio alla russa.
I successori di Carême e continuatori della sua opera sono Emile Bertrand,
Jules Gouffe e Urbain Dubois. Quest’ultimo in particolare, approfondisce la
lezione del maestro sull’arte decorativa e lo supera nelle costruzioni
monumentali. Acquisita una notevole maestria cesellatrice, prosegue
nell’opera di trasfigurazione della materia bruta, in operazioni di
agghindamento ad oltranza che sanciscono il trionfo dell’artificio sulla natura.
Le sue presentazioni manifestano un gusto ossessivo per la disposizione
regolare, per la simmetria e la ridondanza. Cibi strutturati come costolette,
filetti o polli interi sono accostati in serie e ammucchiati nella costituzione di
un pattern particolare che dissimula la configurazione naturale in un processo
di valorizzazione di una struttura artificiosa seconda. Spesso le combinazioni
sortiscono involontariamente degli effetti fra il grottesco e l’orrido:
incontriamo ad esempio nei suoi ricettari orecchi di montone ritte come
pinnacoli per configurare una corona surreale, oppure crani di beccacce
disposti in circolo con i becchi rivolti verso l’alto ad imitazione di rostri
appuntiti. L’anatomia animale, mutilata o meno, ed esibita come un trofeo,
viene regolarmente impreziosita mediante rifiniture, fronzoli decorativi e
dispositivi scenografici, come nastri di pasta cesellati, verdure finemente
tornite e zoccoli scolpiti in grasso animale.
Come commentano Marchesi e Vercelloni (1992, p.70), “non sempre la
costruzione decorativa assolve la mansione di mastodontico supporto”. Capita
spesso, infatti, che nell’accumulazione decorativa si assista a “un’inversione di
ruoli, in cui il cibo finisce per recitare la parte di supporto”. Nel “grande
zoccolo dell’agricoltura” troviamo ad esempio crostacei e tartufi collocati in
funzione di guarnizione alla base di un’imponente scultura in grasso a forma
di fontana e al di sotto di un carro guidato da un putto-tritone.
Dubois è maestro in queste sculture in grasso, nate dalla volontà di emulare
le opere in marmo o in alabastro delle arti maggiori. Per aumentarne la dignità
artistica, prende l’iniziativa di rinominare “steato-plastica” il grasso animale
impiegato in funzione ornamentale. E’ interessante osservare che pur non
essendo commestibili queste statuine si uniformano nel materiale alla pietanze
cui vengono aggregate. Mentre infatti per agghindare le pietanze dolci
vengono adoperati il pastigliaccio o la pasta di zucchero, il grasso animale
viene simbolicamente associato alla preparazioni a base di carne o pesce. Con
lo stesso rigore stilistico del suo predecessore, Dubois continua nell’opera di
valorizzazione del lavoro artistico-decorativo del cuoco di professione.
Palesando una visione del mondo positivistica, Dubois è inoltre convinto
della legittimità della cucina ad ambire allo statuto di una scienza, e le assegna
una missione civilizzatrice ad estensione planetaria. Forte dell’affermazione e
del consolidamento della cucina francese a espressione d’arte compiuta,
proclama l’opportunità di estendere la professionalità culinaria conseguita al di
là dei confini nazionali. Questa sua vocazione ecumenica non deve essere
comunque intesa come una volontà di esportare un repertorio codificato
rigidamente, bensì nella riproduzione in ambito globale di metodi processuali
e codici estetici adattabili al contesto locale. Come affermano Marchesi e
Vercelloni (1992, p.65), “la cucina si libera così dall’assoggettamento
stanziale a sapori, preparazioni ed approvvigionamento, per assurgere a
spettacolo itinerante”. Queste ambizioni universalistiche trovano facile
realizzazione nell’ambiente protetto dei grandi alberghi, luogo dove esercita
la sua professione. Dietro a questo programma di internazionalizzazione vi si
potrebbe leggere un processo di de-localizzazione dei metodi culinari, i quali
sono intesi per funzionare a livello transcontestuale (Semprini, 1995).
Doubois dà inoltre inizio ad una innovazione di grande rilievo nel contesto
ristorativo. E’ il primo infatti a promuovere l’introduzione del servizio alla
russa in sostituzione al servizio alla francese. Quest’ultimo complesso
sistema, in voga fin dal Medioevo, segue dei principi estranei ai nostri attuali
criteri. Esso consiste in una successione di tre servizi, che rappresentano le tre
sequenze principali, i tre stadi d’una evoluzione. Ognuna delle sequenze è
associata ad una serie di portate: la prima alle minestre, i piatti di mezzo e i
primi; la seconda agli arrosti e ai tramezzi; la terza ai dessert. Le procedure e i
meccanismi che regolano la presentazione delle serie di piatti sono piuttosto
complessi. Allorché infatti è servita la padrona di casa, in ottemperanza ai
codici del galateo, viene fatto portare tutto l’insieme dei piatti di mezzo e dei
primi, disposti dai camerieri simultaneamente sulla tavola secondo una
rigorosa logica spaziale. Nel rispetto di un principio di simmetria topologica, i
piatti vengono collocati sulla base delle tipologia di preparazione e sul loro
volume. Anche nella successione delle sequenze è mantenuta una simmetria,
questa volta formale: come vengono sempre riservate le posizioni all’estremità
della tavola alle pietanze di grande dimensione, così i tramezzi prendono il
posto dei primi piatti.
Questa rigorosa disposizione spaziale risulta talvolta frustrante per i
commensali. Essi infatti possono essere più o meno fortunati nel trovarsi
seduti davanti al piatto da loro preferito. Naturalmente se desiderano degustare
una pietanza non a loro portata possono certamente farsi passare le vivande di
mano in mano dai convitati, oppure farsi aiutare dal personale di sala, ma ciò
spesso non è semplice. Bisogna infatti rispettare il principio di riportare
sempre le portate nella posizione di partenza, nonché per essere serviti
accondiscendere ai dettami dal galateo, le quali prescrivono un ordine rigoroso
per il servizio. Inoltre, per le carni più grandi è necessario provvedere alla
trinciatura, operazione affidata generalmente all’anfitrione e a qualche aiutante
ospite i quali invece di rilassarsi devono impegnarsi in un faticoso lavoro.
Come commenta Aron (1973, p.174 della trad. it) il pranzo è “il campo d’una
attività frenetica, di movimenti, di circolazioni ininterrotte”. In questa
situazione il commensale deve spesso subire le angosce della frustrazione. C’è
chi è servito puntualmente e chi deve attendere, ricevendo perciò le pietanze
già fredde. Capita perfino che alcuni piatti non arrivino mai a chi li ha
richiesti.
L’introduzione del servizio alla russa comporta un notevole snellimento
delle procedure, a beneficio dei convitati e della macchina organizzativa. In
questo nuovo sistema, le varie pietanze vengono presentate secondo un ordine
di successione lineare, scandito in base alla tipologia qualitativa delle vivande.
Poiché ogni sequenza è destinata a tutti, la serie dei piatti è ridotta all’unità dei
cibi. Escludendo la posa in tavola dell’insieme delle pietanze, si possono
abbattere i tempi morti del servizio. Gli alimenti vengono tagliati in cucina,
decorati e quindi inviati in sala. Per i piatti importanti e voluminosi, si
preferisce presentare la pietanza integra e poi farla trinciare dal maître in un
tavolino a parte, per essere porzionata e servita agli ospiti individualmente.
Questa tipologia di servizio introdotta da Doubois risulta molto più agevole
a livello organizzativo soprattutto per le cene improvvisate e con pochi
coperti, rispondendo alle richieste della maggioranza della clientela dei
ristoranti. Risolve inoltre il problema più rilevante che grava sul servizio
francese, ovvero la snervante attesa imposta frequentemente ai commensali
per ricevere i piatti, con il conseguente raffreddamento delle pietanze stesse.
Con la transizione al servizio alla russa, si passa da una configurazione
prevalentemente spaziale e secondariamente temporale ad un’organizzazione
esclusivamente processuale delle pietanze, dove la successione delle portate si
coordina con l’andamento temporale dei processi di degustazione e digestione.
3. Il secondo paradigma. L’Età di Escoffier.
Il paradigma culinario di Carême viene messo in crisi e affossato con
George August Escoffier, il quale dà inizio alla trasformazione della cucina
professionale francese della fine del diciannovesimo secolo. Escoffier acquista
una notevole notorietà durante la sua vita, e le sue innovazioni hanno notevoli
ripercussioni, influenzando più di una generazioni di chef che lo seguono. La
sua Guide culinarie (Escoffier, 1907), acquista lo status di una bibbia per i
professionisti della cucina, e ancor oggi è considerato un testo base per
apprendere le tecniche classiche della cucina.
Le sue idee innovative hanno il merito di rispondere ai cambiamenti
verificatisi nel contesto dell’ambiente ristorativo della sua generazione. E’
infatti il periodo in cui si sviluppano i grandi hotel internazionali, sorti in parte
come tarda risposta all’aumento dei viaggiatori benestanti che sempre più
spesso si avventurano oltre frontiera, così come si spostano nelle capitali e nei
resorts del proprio paese.
Escoffier ha un ruolo decisivo nello sviluppo di questa nuova tipologia di
hotel, non più aperti solo ai soci di determinati circoli sociali come i
prestigiosi alberghi londinesi del passato, bensì esclusivi solo per il loro costo.
Questi lussuosi hotel divengono di moda per cene a ore tarde dopo il teatro,
nonché per i pasti domenicali dei benestanti, nel giorno di riposo dei loro
inservienti (Mennell, 1985, p.158).
Il nome di Escoffier viene associato al celebre César Ritz, per il quale
lavora promovendo i nuovi hotel prima nella Riviera e quindi a Londra. Nel
1890 prende le redini del Savoy Hotel, per spostarsi quindi al Carlton, dove vi
rimane fino al temine della sua carriera.
Escoffier rivoluziona l’organizzazione delle cucine professionali di larga
scala, razionalizzandole e rendendole più integrate. In precedenza, all’interno
delle cucine più grandi sono presenti più sezioni, ognuna diretta da uno chef e
associata ad una data preparazione ma non comunicante con le altre. Di
conseguenza, in queste sezioni monadiche, le preparazioni d’uso che ricorrono
per più piatti, come le salse, vengono spesso realizzate da diverse sezioni
contemporaneamente, con un conseguente spreco di risorse ed energie.
Senza seguire questo sistema, Escoffier organizza le sue cucine in cinque
partite interdipendenti, ognuna responsabile per una specifica operazione
culinaria. Nella partita del garde-manger si realizzano i piatti freddi e le
preparazioni di base utili per la cucina nel suo complesso; l’area a capo del
l’entremettier è dedicata alle zuppe, alle verdure e ai dessert; il rôtisseur è
responsabile delle cottura degli arrosti, delle grigliate e delle fritture; ci sono
infine le zona dello saucier e quella del pâtisseur.
La nuova suddivisione del lavoro, interpretabile nel senso di un processo di
razionalizzazione del sistema di deleghe, risulta in un’organizzazione molto
più efficiente. Le nuove forme di specializzazione, connesse all’attivazione di
un regime di comunicazioni fra le aree della cucina, risultano infatti in una
notevole riduzione dei tempi necessari per la preparazione dei piatti. Per
mezzo di questa riorganizzazione degli spazi, si riesce a semplificare il lavoro
dello staff nonché a rendere il servizio molto più rapido, permettendo di
soddisfare le mutate esigenze della clientela, presumibilmente desiderosa di
ricevere prontamente la cena specialmente al ritorno dal teatro.
In risposta ai cambiamenti verificatisi negli stili di vita e nel modo di
approcciarsi al ristorante, nel corso della generazione di Escoffier vengono
messo in crisi anche i codici estetici promotori dello sfarzo decorativo in
tavola. Già Philéas Gilbert, cuoco rinomato e gastronomo di fama, in un
articolo del 1899 s’interroga sull’utilità degli zoccoli, i piedistalli finemente
istoriati portati in auge da Doubois in un’ottica puramente scenografica di
messa in risalto delle opere culinarie. In essi il cuoco soddisfa il proprio
orgoglio di provare la propria abilità artistica, risultato di anni di studio ed
esperienze, senza che poi il pubblico da profano gli riconosca il suo valore.
Come sostiene con maggior vigore Prosper Montagné, futuro autore della
Larousse gastronomique, questi pomposi lavori artistici in materiali non
commestibili possono essere eseguiti anche da persone estranee alla
professione di cuoco, non consentendo di provare la maestria culinaria degli
autori. Sebbene nelle esposizioni culinarie sia ammesso ricorrere allo sfoggio
di opere monumentali, per il contesto ristorativo è preferibile per lo chef
dedicarsi a decorazioni più semplici e adoperando ingredienti commestibili
riconoscibili come tali, quali verdure intagliate, crostacei o gelatina dai colori
non contraffatti.
Lo stesso Escoffier mette sotto accusa la fatiscenza ornamentale a cui si è
giunti seguendo i proclami di Carême e dei suoi seguaci. Critica gli
allestimenti troppo complessi e sontuosi, i quali richiedono troppo tempo per
l’esecuzione e fanno sì che gli alimenti inclusi nell’opera manipolatoria si
raffreddino. Per rispondere alle mutate esigenze organizzative dei ristoranti,
dove si ambisce a conciliare i ritmi di lavoro con quelli sempre più rapidi della
vita quotidiana, è necessario semplificare la fase di preparazione dei piatti
eliminando gli ornamenti superflui. Promovendo un nuovo ideale estetico di
continenza decorativa, sopprime l’uso degli zoccoli, degli hâtelets e delle
costruzioni di modello architettonico. Come sottolineano Marchesi e
Vercelloni, in realtà però i suoi proclami teorici di sobrietà non sono
pienamente rispettati nella pratica, manifestando una certa ambiguità.
Escoffier infatti sfoggia grande maestria nella costruzione di sculture di
ghiaccio e promuove l’arte ornamentale di sfondo floreale, pubblicando una
rubrica sull’imitazione dei fiori in cera. Se nella razionalizzazione del lavoro
in cucina così come in altri ambiti Escoffier si rivela un autentico innovatore, a
livello della presentazione “lascia invece un messaggio contraddittorio,
decretando l’obsolescenza di una tradizione decorativa di cui si propone nel
contempo come l’ultimo rappresentante” (Marchesi, Vercelloni, 1992, p.90).
Le sue soluzioni estetiche pur alleggerendo il lavoro di preparazione e
allestimento risultano scenograficamente non nettamente discernibili dal
passato, risultando in uno stile d’imbandigione molto elaborato.
In ambito più propriamente gastronomico, Escoffier interpreta un ruolo
decisamente più considerevole e di notevole influenza per le generazioni di
chef successive. In primo luogo, egli ha un importante ruolo di codificatore e
innovatore dell’ambito delle salse. A livello concettuale, sottolinea la necessità
di concepire salse e condimenti non come camuffamento o copertura dei cibi a
cui si accompagnano bensì quale presenza discreta, in funzione di esaltazione
dei loro gusti naturali. Sebbene nella Guide culinarie vengano esaltati i fonds
de cuisine come la base della cucina professionale francese, e siano elencati
quasi duecento salse diverse, Escoffier critica l’impiego massiccio della
espagnole, la béchamel, e la velouté. Al posto di queste salse che hanno il
difetto di rendere ogni pietanza simile nel gusto, Escoffier promuove la
diffusione di fondi meno omogeneizzanti, derivati dalla cottura dei cibi. Il
grande chef recupera il principio di François Massialot (che ha tardato ad
imporsi), in base al quale nella scelta delle salse occorre rispettare la natura del
prodotto a cui si accompagnano. Seguendo questi dettami un pezzo di
cacciagione va ad esempio servito con una salsa preparata con un fondo di
cacciagione, così come il pesce non va associato ad una salsa neutra bensì ad
un fumetto di pesce (Escoffier, 1907).
Proseguendo su questa linea Escoffier moltiplica il numero delle salse di
base: registra ad esempio una vellutata di vitello, una vellutata di pollo, una
vellutata di pesce etc. Il processo di crescita del numero delle salse con
Escoffier viene accelerato, ed aumentata la complessità del sistema per mezzo
dell’introduzione di numerosi livelli di articolazione.
Oltre a riorganizzare il sistema delle salse, Escoffier è responsabile
dell’invenzione e della codificazione di innumerevoli piatti e preparazioni
culinarie. In un mercato altamente competitivo per gli chef e i ristoranti d’alta
cucina, Escoffier tenta di incontrare le richieste di una clientela alla ricerca di
sensazioni sempre diverse per il suo palato. Per la creazione di nuovi piatti trae
ispirazione da svariate fonti. In primo luogo, studia sistematicamente le opere
di autori precedenti come Carême, Dubois, Bernard, ma anche dal Viander di
Guillaume Tirel detto il Taillevent, ed infatti in molti piatti sono riconoscibili
le origini in ricette del passato.
Secondariamente, rivede e trasforma alcune pietanze della tradizione
contadina in piatti d’alta cucina mediante la sostituzione di ingredienti di umili
con altri più nobili. Un’ampia gamma di opere culinarie codificate nella Guide
culinarie non risultano essere derivate da piatti già conosciuti, bensì vanno
ritenute assolutamente originali, frutto dell’ingegno creativo di Escoffier.
Tutti questi piatti (fra cui ad esempio le crêpes suzette) non passano però
alla storia con il nome del loro autore, bensì entrano a far parte di un corpus di
ricette trattate come anonime, liberamente riprodotte all’infinito nelle cucine
professionali o meno. Esse diventano quindi di dominio pubblico senza che
Escoffier possa protestare per il plagio.
L’opera codificata da Escoffier diviene una bibbia per i professionisti della
cucina, stabilendo una nuova ortodossia in vigore per più di mezzo secolo.
Così come frequentemente accade nell’ambito religioso nel passaggio di un
messaggio fra un profeta e i suoi seguaci, spesso coloro che seguono i suoi
principi lo fanno ciecamente, e con risultati che spesso sfiorano la mediocrità.
In un processo di routinizzazione del carisma, all’interno di alberghi
internazionali e ristoranti nessuno mette in dubbio l’uso preponderante delle
salse espagnole e béchamel che Escoffier ha messo in discussione. E’ proprio
contro queste forme di sclerotizzazione del gusto che si battono i fondatori di
quel fondamentale movimento culinario che ha costruito le basi del terzo
paradigma culinario: la nouvelle cuisine.
4. La parentesi italiana della cucina futurista.
Mentre a livello internazionale dominano ancora i canoni culinari ed
estetici dettati da Escoffier, in Italia sorge in un ambito estraneo al circolo dei
professionisti della cucina un movimento che proclama intenti rivoluzionari
nei confronti del sistema culinario dominante.
La centralità della dimensione estetica della cucina a cui abbiamo assistito
in particolare nel corso della grande cuisine non solo ritorna in auge ma
diviene soverchiante nel manifesto della Cucina Futurista, proclamato nel
1930 alla radio da un tavolo del ristorante milanese Penna d’Oca e giunto alle
stampe due anni dopo, per mano di Filippo Marinetti e Tommaso Fillìa (1932).
In un assemblaggio di dichiarazioni ideologiche e programmatiche, stralci
polemici, descrizioni di banchetti e ricette, riproducendo lo stile per cui erano
noti, questi autori esportano i principi dell’arte futurista al mondo culinario. I
loro intenti sono di portata rivoluzionaria e nelle loro auliche parole dettate
dallo “scopo alto, nobile e utile a tutti di modificare radicalmente
l’alimentazione della nostra razza, fortificandola, dinamizzandola e
spiritualizzandola con nuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza e
la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione
e il costo” (Marinetti, Fillìa, 1932, p.5). Occorre escludere il plagio ed esigere
l’originalità creativa, rifiutando in blocco in quanto “passatista” sistema e
codici gastronomici allora in uso. Della vecchia cucina non rimarrà in piedi
niente, proclama Fillìa, “appena le vecchie casseruole. E’ finito il tempo delle
pietanze dell’Artusi” (ivi, p.89).
Il Corpo Futurista raffigurato nell’immaginario come una macchina agile e
scattante deve relazionarsi al cibo secondo un approccio attivo, attento e
ricettivo verso l’esperienza estetica della degustazione. Come scrive Marinetti,
la cucina deve essere liberata dalle antiche ossessioni del peso e del volume
dei pasti, dettate da animali istinti famelici. Solo disancorando l’attività
culinaria da quella nutritiva, è possibile vivere il momento conviviale-
degustativo nel senso artistico più puro. Al fine di rispondere alle necessità
biologiche e consentire questa sublimazione, i futuristi affidano alla chimica il
compito di inventare il modo per “dare presto al corpo le calorie necessarie
mediante equivalenti nutritivi (gratuiti di Stato) in polvere o pillole”,
garantendo oltretutto “un reale ribasso del prezzo della vita e dei salari, con
relativa riduzione delle ore di lavoro” (ivi, p.97).
In attesa di evoluzioni scientifiche della scienza, i futuristi si adoperano a
ricusare i piatti della tradizione, lanciando i propri strali più polemici
nientemeno che contro la pasta, definita “assurda religione gastronomica
italiana”. Come motivano i due esponenti futuristi, nonostante possa apparire
gradevole al palato, la pastasciutta è un cibo obsoleto, “crudamente
materialista” e rozzo (ivi). Un bel piatto ricolmo di spaghetti è agli occhi dei
futuristi irrimediabilmente sgraziato ed inestetico. L’appesantimento allo
stomaco che si prova nella sua assimilazione ha inoltre come effetti collaterali
l’induzione di una riprovevole indolenza dello spirito; “fiacchezza,
pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo” (ivi, p.29). Al fine di liberarsi
dalla dittatura dello stomaco si prescrivono pasti leggeri strutturati in unità
degustative minime in cui l’ingestione del cibo doveva essere ritardata e
preferibilmente evitata.
Per concretizzare i loro intenti programmatici si organizzano una serie di
pranzi dove vengono presentate al pubblico le nuove vivande create dagli
“areopoeti” e “aeropittori” futuristi in uno scenario che le rende più simili a
happening teatrali che ad amabili cene conviviali. In questi eventi dove ogni
dettaglio è studiato per sorprendere gli invitati, vengono sollecitati con
originali espedienti tutti e cinque i sensi, relegando il gusto ad una delle tante
dimensioni da esplorare.
Allo sconcertato commensale vengono presentate una serie di “complessi
plastici saporiti” dai nomi fantasiosi15, aspetto inusuale e composizione
improbabile, accompagnandoli da intense stimolazioni degli altri canali
sensoriali. Spesso si allestisce un’ambientazione particolare come
nell’Aerobanchetto, in cui le tavole sono disposte in modo da simulare la
configurazione di un veivolo, integrate con una vera elica fortunatamente
ferma, coperte da fogli d’alluminio al posto delle solite tovaglie, ed addobbate
con panini a forma di monoplano. Nel salone immerso in una diafana luce
azzurra camerieri dal colletto di celluloide servono “rombi d’ascesa” (in realtà
una sorta di risotto al sugo d’arancia) e versano nei bicchieri “il carburante
15 Dall’“antipasto intuitivo” al “pollo d’acciaio”, dal “carneplastico” al “diavolo in tonica
nera”, dall’ “ortocubo” al “senato della digestione”. Cfr. Marinetti, Fillìa (1932).
nazionale” (vino comune) da alcune latte di olio extradenso, mentre si ode
dalla sala accanto il rumore di un motore scoppiettante16.
Ogni banchetto è comunque una storia a sé. A seconda delle occasioni, il
pranzo può essere accompagnato a livello sonoro da una lettura di poesie
intervallata da interventi strumentali, ovvero da mere sonorità d’atmosfera
alternate a silenzi studiati ove si possono percepire i rumori delle mascelle dei
commensali impegnati nella masticazione. Per eccitare l’olfatto nell’attesa di
una pietanza talvolta vengono inoltre spruzzati in prossimità dei commensali
dei profumi che vengono poi aspirati per mezzo di appositi ventilatori
nell’intercalare delle portate, al fine di ripristinare ogni volta la “verginità
gustativa”. La stimolazione della percezione tattile viene attuata eliminando le
posate qualora la portata possieda particolare qualità “pre-labiali”, nonché
offrendo ai commensali placchette rivestite di materiali diversi da accarezzare
con una mano mentre con l’altra si porta il cibo alla bocca. Alla dimensione
visiva viene attribuito un ruolo di estremo rilievo. Occorre esaltare il colore
naturale degli elementi esplorando le associazioni cromatiche come se si
trattasse di dipingere un quadro. Come ricorda Fortunato Depero, “l’amonia
delle zucche marine, del rosso delle carote, dei gialli zafferani dei risotti, delle
uova, delle frittate, della frutta e dei dolci; tutte le gradazioni di verde delle
insalate offrono possibilità di accordi pittorici svariatissimi” (Depero, 1933,
p.1). La composizione formale è anch’essa estremamente curata, e indice
dell’abilità e professionalità del cuoco è la capacità di “concepire per ogni
vivanda un’architettura originale”, preferibilmente personalizzata per ogni
commensale. Di fronte a questi complessi plastici saporiti frutto di uno studio
accurato dell’armonia cromatica e formale, il commensale deve avere “la
sensazione di mangiare, oltre che buoni cibi, anche delle opere d’arte”
(Marinetti, Fillìa, 1932, p.193)
L’aspetto gustativo in rapporto agli altri sensi viene quindi ridimensionato
e in alcune occasioni viene perfino annullato: si raggiunge l’eccesso in cui le
portate vengono fatte ammirare, annusare e toccare dai commensali per essere
poi portate via lasciandoli a bocca asciutta. Sull’appetibilità di alcuni piatti
futuristi in ogni caso ci sarebbe molto da dubitare, e le testimonianze ci
16 Per il quale Marinetti offriva una motivazione a suo avviso razionale: “ – Osservate
come il rumore dei motori favorisca e nutra lo stomaco…E’ una specie di massaggio dell’appetito…” (ivi, p.133).
riportano episodi di commensali alquanto restii ad assaggiare ad esempio le
“elettricità atmosferiche candite”, cibarie dalla “forma di coloratissime
saponette di finto marmo, contenenti al loro interno una pasta dolciastra
formata con ingredienti che solo sarebbe possibile precisare con una paziente
analisi chimica” (ivi, p.128). Anche leggendo la ricetta di piatti la cui
composizione è nota, non siamo maggiormente rassicurati. Un esempio fra
tutti potrebbe essere il piatto definito da Fillìa la “porroniana” e da Marinetti
“porco eccitato”: un normale salame cotto viene presentato immerso in una
soluzione concentrata di caffè espresso, e condito con Acqua di Colonia.
Le pietanze futuriste hanno l’imperdonabile difetto di trascurare il
principio dell’armonia dei sapori, così come nei suoi proclami paiono essere
completamente estranei i dettami del gusto. Né i suoi poco credibili piatti né i
suoi improbabili intenti di abolire la pastasciutta incontrano i favori del
pubblico generale e dei professionisti della cucina. Leggiamo di
manifestazioni popolari di piazza e raccolte di firme a favore del piatto
nazionale, articoli polemici e satirici sulla stampa contro Marinetti e soci,
nonché opposizioni ufficiale dell’Accademia Gastronomica Italiana nei
confronti dei cuochi futuristi. Certo non manca una schiera di sostenitori fra
cui alcuni ristoratori disposti ad ospitare le loro cene-evento ma l’appoggio è
numericamente limitato e la realizzazione di questi esperimenti risulta ben
presto inadeguata, portando ben presto al suo definitivo abbandono. La
presunta rivoluzione culinaria risulta perciò in un tentativo abortito dei
futuristi di intervenire in un campo regolato da una logica complessa di cui
hanno scordato l’elemento portante, ovvero l’armonia dei sapori, di cui non
sono padroni.
5. La nouvelle cuisine.
La nouvelle cuisine è un movimento, sviluppatosi in Francia negli anni
Sessanta e Settanta, che ha innovato profondamente il sistema culinario,
rompendo con le tradizioni del passato, liberando gli chef dai vecchi
paradigmi “sino a configurarsi come la koinè dell’alta cucina” ancora in voga
(Marchesi, Vercelloni, 1992, p.151).
Il termine non è originale, storicamente era stato adoperato già nei secoli
precedenti, nel 1740 per la nuova cucina di La Chapelle, Marin e Meron e
occasionalmente nel diciannovesimo secolo per l’opera della generazione di
Escoffier. Questa denominazione viene ripresa poi negli anni Sessanta dai
critici gastronomici Henry Gault e Christian Millau per descrivere lo stile
innovativo di chef quali Paul Bocuse, Jean e Pierre Troisgros, Michel Guérard,
Roger Vergé e Raymond Oliver. Nei memoriali di storia della cucina si ricorda
l’evento accidentale che ha portato i due giornalisti a scoprire la formula
rivelatrice della rivoluzione in atto. Dopo un pranzo consumato in grande stile
da Bocuse, la coppia di critici si ripresenta la stessa sera al ristorante,
ordinando una cenetta leggera. Lo chef prendendoli alla lettera serve loro una
comune insalata di fagiolini al burro e delle triglie di scoglio rosate sulla lisca,
due piatti dalla semplicità disarmante che al primo assaggio suscitano
meravigliato stupore al palato di Gault e Millau. Dietro alla sobrietà della
preparazione si rivela infatti un’assoluta padronanza delle tecniche nonché il
piacere del sapore naturale dei prodotti. Sorpreso dall’entusiasmo manifestato
dai due critici, Bocuse li invita a far visita ai fratelli Troisgros, presso i quali
potranno fare l’esperienza di una cucina votata ad una semplicità essenziale
dissociata da approssimazione e trascuratezza. Nei loro piatti si esprime una
perfezione tecnica prestata ad una cucina scevra dalle pomposità della cucina
borghese tradizionale. Il loro stile risponde al celebre aforisma di Curnonsky
secondo il quale “la vera cucina è quella in cui le cose hanno il gusto di ciò
che sono” (Marchesi, Vercelloni 1992, p.144).
Gault e Millau fanno ben presto conoscere al grande pubblico la rivoluzione
in atto trasformando questa tendenza in una vera e propria moda, che viene
esportata all’estero e riprodotta con alcuni eccessi in Europa e oltreoceano.
Bocuse in seguito polemizzerà aspramente con i due critici, sostenendo che la
nouvelle cuisine è da ritenersi soltanto un’invenzione giornalistica della quale
essi sono responsabili. Questa sua opinione non è però quella più diffusa e
viene riconosciuto pressoché unanimemente il ruolo di rottura interpretato
storicamente da questa corrente. Innanzitutto la nouvelle cuisine ha liberato i
cuochi dai comandamenti enunciati da Escoffier17, facendo comprendere che
era inutile continuare a riproporre e riprodurre all’infinito i piatti codificati
dalla Guide Culinarie senza dar spazio alla creatività individuale. I punti
caratterizzanti questo movimento che ne determineranno il suo successo sono
17 Questo punto viene sottolineato da Pierre Troisgros e confermato da Miguel Guérard in un’intervista rilasciata a Laura Mantovano (1999) per «Gambero Rosso».
però molto più numerosi, Gault e Millau ne contano e delineano dieci, che qui
approfondiremo ma senza seguire pedissequamente l’enumerazione prevista18.
L’elemento più distintivo del nuovo stile culinario è il rifiuto della
complicazione non necessaria in cucina, dell’elaborazione eccessiva dei
prodotti naturali attraverso processi di trasformazione lunghi e artificiosi.
Andando contro abitudini e tabù consolidati, si sostiene la necessità di ridurre i
tempi di cottura per pesci, molluschi e vegetali verdi al fine di conservare i
succhi e le proprietà nutritive degli stessi, rivelando sapori dimenticati e
riscoprendo il gusto naturale di questi alimenti.
La nouvelle cuisine propaganda una “cucina di mercato”, come richiamato
anche nel titolo originale di un libro di Bocuse (1976): La cuisine du marché.
La cucina viene concepita come l’incontro dello chef con il prodotto, e il suo
intervento deve essere improntato alla massima discrezione, nel senso di
naturalezza. Il cuoco assolve quindi ad una funzione maieutica, ovvero portare
alla luce l’autenticità del prodotto, la sua pura essenza. Si sottolinea
l’importanza della qualità degli ingredienti, che devono essere quelli più
freschi disponibili al momento sul mercato, raccolti o acquistati in giornata e
nel rispetto della stagionalità. Si preferisce eliminare gli ingredienti di qualità
inferiore piuttosto che mascherarli per mezzo di salse aggressive.
In questo periodo vengono riscoperti ingredienti umili e dimenticati, come
varie erbe odorose o anche verdure d’uso corrente come cavoli e porri.
All’improvviso prodotti accettati solo nella cucina spontanea acquisiscono la
stessa dignità di tartufi e foie gras, facendo entrata nelle tavole dell’alta
ristorazione.
Recuperando il legame perso con il territorio, gli chef del nuovo corso
promuovono e valorizzano una cucina attenta ai prodotti e alle tradizioni
locali. In un processo di riscoperta della tipicità che esprime nostalgia del
paradiso perduto viene portato avanti un processo di arricchimento e
diversificazione delle risorse da cui attingere per le opere culinarie. Vengono
accolti elementi delle cucine regionali e locali ma con una certa peculiarità:
vengono infatti rielaborate, contaminate e dotate di raziocinio. In questo
processo, viene superato il gap che rende lontani e incompatibili la cucina dei
grandi ristoranti e la cucina popolare.
18 Per una descrizione fedele all’elenco dei due critici, cfr. Mennell (1985, p.163).
Come ricordano Marchesi e Vercelloni, l’alta cucina si distingue dalla
cucina rustica su una base squisitamente culturale. Mentre la prima
razionalizza la prassi all’interno di una teoria, la seconda si fonda su un sapere
rudimentale e limitato nelle sue possibilità di applicazione in quanto non riesce
a diventare ‘pensante’, essendo vincolata a gestualità rituale e memoria
sensoriale (Marchesi, Vercelloni 1992). La nouvelle cuisine stimola e
incoraggia lo sviluppo di cucine colte di ispirazione locali, nonché la
rivisitazione di piatti tradizionali con una mentalità rinnovata ed aperta a
suggestioni esterne. Nella ricerca di soluzioni sempre nuove, gli ingredienti
popolari e locali vengono infatti interpolati con prodotti esotici disponibili sul
mercato nonché con le tecniche più innovative.
Liberati dalle costrizioni dei codici culinari esistenti, gli chef vanno infatti
alla ricerca di sempre nuove forme di innovazione culinaria, sperimentando
inusuali combinazioni seguendo l’ispirazione individuale del creatore. La
ricerca di personalizzazione nell’opera culinaria e di riscoperta di una natura
autentica è espressione di una tendenza culturale d’opposizione in atto nel
periodo storico di riferimento. Negli anni Settanta infatti con l’esplosione del
conflitto petrolifero e la manifestazione delle prime fratture del mito della
crescita economica si comincia a mettere in discussione gli sviluppi
dell’industrializzazione. Nel settore alimentare l’opinione pubblica inizia a
criticare i prodotti agroalimentari industriali, fonte di semplificazione e di
aiuto del lavoro domestico a partire dal ventennio, ma anche di
standardizzazione dei sapori e di artificiosità dei programmi culinari19. Il
movimento della nouvelle cuisine attraverso il suo richiamo ad un ritorno al
naturale si ribella alla meccanizzazione dei processi. In alternativa alla vecchia
opposizione categoriale:
alta gastronomia vs alimentazione rurale
viene promossa una nuova dicotomia:
alta gastronomia &
gastronomia rustica
vs
alimentazione
industrializzata
19 Per una storia dell’evoluzione tecnica in cucina focalizzata sulla nostra nazione e degli
effetti nell’ambito domestico, cfr. Alberto Capatti, Massimo Montanari (1999).
Se prendiamo in considerazione le condizioni storiche di quegli anni,
posiamo rilevare l’affermarsi del tabù del lusso irrazionale e l’emergere di un
modello estetico della magrezza, nuova qualità di distinzione in una società
dell’abbondanza. E’ finito il tempo in cui l’appetito sveglio è segnale di buona
salute e la pancia tonda il sintomo di benessere e prestigio sociali (Capatti,
Montanari, 1999, cap.IX).
Negli anni Sessanta si valorizzano le silhouette filiformi e vengono
divulgati a livello popolare i principi della dietetica, razionalizzati e
medicalizzati. Inizialmente ciò conduce alla negazione dei valori gastronomici
attraverso il riconoscimento di una dissonanza fra buono e sano, nonché, come
sottolineano Edmond Neirinck, Jean-Pierre Poulain (1988), con il prendere
piede di scelte votate all’“ascetismo alimentare”.
Nel decennio successivo però anche gli chef portano avanti la loro
rivoluzione e introducono nuovi valori gastronomici, adeguati al cambiamento
dei tempi. Rispondendo al culto del corpo magro, si promuove una cucina
improntata sulla leggerezza e sulla delicatezza. Uno dei principali esponenti
della nouvelle cuisine, Michel Guérard (1976), pubblica La grande cuisine
minceur, volume di ricette in cui anche nel nome si pone enfasi sul rispetto dei
principi della dietetica. Viene così discolpevolizzata la gola, evocando un
possibile matrimonio fra gusto e linea.
In questa direzione vanno le modifiche del concetto di salsa sia in senso
quantitativo che qualitativo. Nella prima accezione, le salse non hanno più una
funzione dominante e non vengono più usate per coprire totalmente la
pietanza, bensì utilizzate in senso accessorio macchiando appena il piatto in
un’alternanza di spazi pieni e vuoti. Nel secondo, si cerca di alleggerire le
salse, e la regola più comunemente usata con questo intento è la soppressione
della farina per addensare. Salse classiche come la besciamella e la spagnola
scompaiono dai ricettari e l’utilizzo del roux20 viene demonizzato. Guérard
propone di adoperare in funzione di legante prodotti lattei poveri di grassi
(come yogurt o formaggi magrissimi) o anche puree di verdure, amalgamate
per mezzo di sbattitori a gran velocità. Nella maggioranza dei casi però, come
sostiene Joël Robuchon, queste salse moderne sono costituite da un fondo
20 Ovvero di un composto di burro e farina.
ridotto nel quale viene incorporata una materia grassa, burro o crema, che si
sbatte fino ad ottenere un’emulsione.
Diversamente dagli intingoli in voga nel diciannovesimo secolo, risultanti
da cotture molto lunghe, le salse elaborate dai rappresentanti della nouvelle
cuisine non passano lo stesso tempo sul fuoco. Secondo quanto sostiene
Robuchon (Neirinck, Poulain, 1988), i fondi per esprimersi al meglio devono
macerare per la giusta durata e non in eccesso come in uso in passato, così
come le tisane che per essere buone vanno lasciate in infusione il tempo
necessario. Grazie agli strumenti tecnologici che appaiono sul mercato in
quegli anni, come i mixer o le piastre di cottura, è possibile modificare i
processi per la produzione dei fondi, consentendo di “snellire radicalmente le
salse”21.
Sulla presunta leggerezza di queste nuove salse si esprimono in ogni caso
oggi molti dubbi, manifestati dagli stessi sostenitori del nuovo corso. L’alta
quantità di burro utilizzata non li rende certamente prodotti ipocalorici, e
occorre ricordare che un legame con burro soltanto piuttosto che con farina o
con un roux apporta molte più calorie. Secondo quanto sostenuto in Histoire
de la cuisine et des cuisiniers (Neirinck, Poulain, 1988), la nozione di
leggerezza evocata dagli chef e dai gastronomi del tempo non è dovuta
primariamente a principi di dietetica bensì anche e soprattutto da una
sensazione gustativa. Mentre infatti le salse legate con la farina si piegano alla
lingua, le salse emulsionate con il burro o altri grassi rilasciano un bouquet
aromatico.
Sulla base degli stessi criteri che hanno ispirato le evoluzioni nell’ambito
delle salse, diventano di moda in questo periodo le mousse, un prodotto
culinario riscoperto grazie all’apparizione di nuovi strumenti nonché in
risposta ai nuovi canoni gustativi. Lo sbattitore in primo luogo semplifica e
perfeziona le operazioni di incorporazione, omogeneizzazione e montatura
delle componenti. La sua particolare consistenza e la sua composizione la
rendono inoltre un prodotto capace di apportare una sensazione di soavità e
delicatezza, in accordo con i proclami in difesa della leggerezza. Le mousse, in
precedenza poco valorizzate perché considerate scipite e prive di un’identità
precisa, riacquistano la loro dignità sulle tavole dell’alta ristorazione. Come
21 Così sostiene Miguel Guérard. Cfr. Mantovano (1999).
vedremo in un’altra sezione, il concetto di mousse elaborato ed evoluto grazie
anche a tecniche più moderne, superata una nuova fase di denigrazione è
ripreso attualmente da uno dei grandi chef oggetto di questa trattazione22,
costituendo un campo fertile per le sue sorprendenti creazioni culinarie.
Se volessimo porre a confronto i valori semantici affermati dalla cucina
classica e dalla nouvelle cuisine, potremmo ricorrere al quadrato semiotico e
posizionare le due prospettive culinarie rispettivamente in prossimità ad un
polo gustativo del sapore pieno e robusto e ad uno del leggero e delicato.
Nel caso della nouvelle cuisine si nega e considera anti-gastronomico ciò
che non è leggero, non è delicato. Viene quindi rifiutato dalla tavola ciò che è
ritenuto troppo forte, grasso, grossolano. La cucina classica invece predilige i
sapori più pieni e decisi, mentre lancia i suoi strali verso la cucina priva di
carattere, dai sapori troppo tenui e dalla labile consistenza.
Sulla base dello schema proposto Neirinck e Poulain (1988, p.127 della
trad. spag.) da me rivisto e adattato, potremmo collocare anche un asse degli
elementi naturali, che associa il polo della leggerezza all’elemento aria e il suo
opposto alla terra.
22 Ovvero da Ferran Adrià, come si vedrà nel capitolo dedicato al sifone e alle spume.
La leggerezza e la delicatezza delle moderne opere culinarie viene riflessa
anche nelle modalità di composizione del piatto, nelle dosi e nella struttura
formale. Ogni elemento secondo una logica di giustapposizione dei sapori
viene introdotto in dosi misurate e spesso centellinato, lasciato così interagire
con le altre componenti ognuna risultante da un particolare trattamento
culinario. I vari elementi portanti sono posti all’ultimo momento su un piatto
appena macchiato da un velo di salsa in forma di emulsione, lontana dagli
intingoli del passato che coprono interamente la pietanza centrale sovrastando
i loro sapori. Il gusto non è quindi basato su una logica di intensificazione dei
sapori, che caratterizzano le componenti intervenute nel processo di
manipolazione culinaria, bensì è strutturato sulla base di unità discrete,
ricostruibili in una sensazione gustativa definitiva solo nella bocca del
commensale.
Questo stile culinario è ben rappresentato da un piatto del nuovo corso, la
revisione della classica ratatouille sperimentata da Roger Vergé, in cui ad ogni
verdura tradizionalmente raggruppata in un unico insieme, nella nuova
versione viene associata una propria cottura, realizzata separatamente. In
questo modo la naturale consistenza e il gusto di ogni singola verdura giunge
distinto al palato, producendo un gioco di alternanza di valori tattili e gustativi.
Si afferma a partire dalla nouvelle cuisine uno stile di cucina
dell’istantaneità, non nel senso della rapidità frutto di approssimazione o di
uso di prodotti pre-cotti come nel fast-food, bensì nel senso della velocità delle
cotture, della loro cronometrizzazione e del perfetto sincronismo necessario
per il servizio. Viene attuata una dissociazione delle cotture dei vari
componenti che vanno poi riunite solo alla fine nel momento del montaggio
del piatto. La presentazione è necessariamente immediata e spontanea,
evitando qualsiasi artificio eccessivo e rendendo apertamente riconoscibile la
vera natura degli elementi, esprimendo il nuovo valore della sincerità
(Marchesi, Vercelloni, 1992). Viene sancito da questo momento il principio
della commestibilità integrale: scompaiono dalla composizione tutte le
decorazioni gratuite e gli scarti (come lische o pelle), portando a realizzazione
una “nuova cosmesi culinaria” (ivi, p.148). Le varie componenti vengono
accuratamente smembrate, tagliate e spezzettate a misura di boccone per opera
del cuoco, in modo da soddisfare inoltre ad esigenze di tipo pratico-
funzionale: si risparmiano infatti al commensale le tradizionali operazioni di
pulizia preliminari alla degustazione. In questo modo la distanza fra il cibo e il
suo destinatario viene abbreviata, in quanto non viene richiesto al cliente un
intervento attivo per dar via all’assaggio.
Con la nouvelle cuisine si afferma e diventa preponderante il servizio al
piatto, che riflette un nuovo modo di vivere l’esperienza al ristorante. Ogni
piatto viene singolarmente montato e decorato con minuziosa cura,
dimostrando così di riservare un’attenzione personale al cliente già
dall’interno delle cucine ovvero a partire dal momento di produzione del
piatto. Come sottolineano Marchesi e Vercelloni (1992), questa modalità di
servizio marca l’ascensione all’individualismo. Il commensale si libera dagli
obblighi gastronomici sociali ed è legittimato a soddisfare il proprio personale
piacere della gola. In accordo con le nuove modalità di fruizione, la
disposizione del cibo nel piatto è “concepita per essere osservata in pianta, in
una posa scopertamente fotogenica” (ivi, p.147), ovvero a beneficio del
singolo cliente che lo ha ordinato. La porzionatura curata e misurata, la
rarefazione del cibo nel piatto con la presenza di spazi vuoti possono risultare
attraverso l’adozione di schemi preordinati (ad es. la disposizione ad orologio)
o secondo l’ispirazione dello chef in una configurazione attraente secondo i
nuovi canoni estetici. Riflettendo il nuovo contesto storico ed ideologico,
vengono abbandonati gli allestimenti sontuosi dei vassoi stipati di cibo che
valorizzavano l’abbondanza dell’imbandigione, prediligendo invece la
miniaturizzazione delle porzioni e la composizione degli elementi in
un’armonica disposizione caratterizzata da nitore formale. Cade
definitivamente in disuso nell’ambiente ristorativo il rito di spartizione del
cibo, con una conseguente trasformazione del momento di assunzione del
cibo in una pratica voluttuaria dalla valenza estetica e a destinazione
principalmente individuale.
Alla medesima tendenza di privatizzazione del piacere va ricondotto
l’utilizzo frequente della campana argentata, un’invenzione escogitata da
Guérard con una funzionalità pratica di mantenere in caldo più a lungo la
pietanza ma soprattutto con una valenza coreografica nonché di fascinazione
per il commensale. Nel primo senso, l’operazione di sollevamento della
campana “riesuma in forma stilizzata il gesto familiare di scoperchiare la
pentola in tavola per farne sprigionare i profumi” (Marchesi, Vercelloni, 1992,
p.148). In secondo luogo, questa configurazione può contribuire ad accrescere
la desiderabilità del piatto nascosto facendo uso dello sperimentato
meccanismo di seduzione mediante il celare. La visione della copertura
argentea che richiama lo sguardo del commensale nei momenti precedenti
l’arrivo del piatto in tavola alimenta l’attesa per la fruizione. La scopertura
prende le forme di una rivelazione privata, svelando il contenuto in tutto il suo
splendore formale percepibile in massimo grado solo al destinatario.
Gli esponenti della nouvelle cuisine introducono delle innovazioni anche al
livello dell’organizzazione del ristorante, per quanto riguarda la struttura
proprietaria, la locazione e l’organizzazione del lavoro. Gli chef sono spesso
proprietari dei loro ristoranti, imprimono con il loro stile culinario un’identità
precisa all’attività e le loro creazioni culinarie oltre all’abilità tecnica
contribuiscono alla configurazione di un’immagine pubblica. Possono quindi
garantirsi gli onori a premio del loro genio creativo, ma devono anche rendere
conto di un’eventuale impressione negative della stampa, nonché diventano
responsabili del buon andamento economico dell’impresa.
In alternativa ai grandi ristoranti cittadini dell’età di Escoffier, i quali si
appoggiavano spesso a strutture alberghiere per poter sostenere i complessi
processi organizzativi previsti, si costruiscono piccoli locali in provincia
adibiti meramente e specificatamente all’attività ristorativa. I menù non
ripetono più i classici della tradizione bensì includono solamente le creazioni
dello chef-patron. La cucina proposta non è quindi un modello immutabile e
liberamente esportabile, bensì è assolutamente personalizzata e correlata con
la localizzazione del ristorante. Lo chef infatti fa uso dai prodotti freschi che la
natura gli offre, usufruendo dei prodotti tipici del suo territorio o di altri di
diversa provenienza che il mercato rende disponibili in quel dato periodo. La
collezione dei piatti creati dallo chef va a costituire nel rispetto della
stagionalità e della reperibilità degli ingredienti richiesti un menù molto più
breve rispetto a quelli della cucina classica. La limitatezza delle scelte è
comunque garanzia di una maggiore cura nell’esecuzione di ogni singolo
piatto. La manipolazione culinaria secondo il nuovo stile prevede una minore
artificiosità delle procedure23 e lunghezza delle cotture ma allo stesso tempo
implica un’attenzione maggiore alla qualità dei prodotti e un’esatta definizione
ed esecuzione del trattamento prescelto. Una certa semplificazione dei
processi culinari è resa possibile anche dall’apparizione e dall’adozione in
cucina di una nuova generazione di strumenti di lavoro, comprendenti padelle
antiaderenti, varie tipologie di forni e il frullatore Robocoupe24. Queste
tecniche hanno inoltre il vantaggio di permettere un perfezionamento di certe
preparazioni come le mousse nonché di rendere più leggere le salse.
Le innovazioni apportate dalla nouvelle cuisine sono perciò numerose e i
suoi effetti si faranno sentire molto lontano nel tempo e nello spazio dalle
regioni e dagli anni in cui questo movimento è generato. In poco tempo si
afferma in tutta la Francia e rapidamente attraversa i confini esercitando le sue
influenze sui cuochi europei e facendo ingresso in particolare in Italia con
Gualtiero Marchesi. Il grande chef cerca di applicare i rivoluzionari concetti
culinari ai piatti e alle ricette tradizionali italiane. Pochi anni dopo la nuova
corrente attraversa anche l’Oceano e i continenti, ottenendo un notevole
successo negli Stati Uniti ma non solo, conquistando fra gli altri Giappone ed
Australia e influenzando lo sviluppo delle loro cucine. Sono gli stessi chef
francesi a viaggiare per il mondo, invitati a propagandare la nouvelle cuisine
francese, ad offrire consulenza presso grandi catene alberghiere internazionali
o per l’industria agroalimentare. Come ricordano Neirinck e Poulain (1992,
p.130 della trad. spag.), “i grandi chef francesi promuovono una concezione
della cucina attenta ai patrimoni culinari locali. Questo incontro con altre
culture alimentari avrà due conseguenze”: contribuirà in primo luogo “allo
sviluppo delle cucine colte di ispirazione locali consentendo la nascita delle
nuove cucine del Quebec, giapponese, australiana, californiana, tedesca…”
(ivi, trad. mia), secondariamente, introdurrà nella cucina francese prodotti e
tecniche esotiche.
In alcuni casi c’è chi porta i nuovi principi della libertà inventiva agli
eccessi, proponendo abbinamenti improbabili in piatti come “sardine con
fragole” o “rombo con kiwi”, nonché sperimentando un insieme di scelte
23 Come ricorda Fabio Parasecoli, le nuove ricette non richiedevano necessariamente meno
lavoro rispetto a quelle vecchie, “piuttosto, il ruolo e l’abilità dello chef dovevano palesarsi più chiaramente” (Parasecoli, 2001, trad. mia).
24 L’elemento dell’adozione di novità tecnologiche in cucina è considerato Michel Guérard uno dei punti più rilevanti nella rivoluzione della nouvelle cuisine. Cfr. Mantovano (1999).
tecniche frutto di scarsa perizia. L’espansione dell’inusitato fervore creativo
conduce a risultati frequentemente non certo ineccepibili, in particolare
quando viene adottata da cuochi meno talentuosi dei suoi fondatori. Alcune
invenzioni culinarie degli esordi vengono riproposte oltremisura così che
anche quello che era un movimento di liberazione dai canoni prestabiliti cade
nella routine. Come racconta Bocuse, “nel giro di poco, è scoppiata la moda.
Non ci poteva essere nouvelle cuisine se non c’erano alla carta delle mousse.
Mousse di verdure, di pesce, di crescione, non se ne poteva proprio più!”
(Mantovano, 1999). Molte critiche di pubblico più o meno motivate sono
rivolte inoltre ai cambiamenti introdotti nella misura delle porzioni. Anche
grandi chef come il nostro Gualtiero Marchesi inizia a proporre in questo
periodo piatti dalla quantità decisamente irrisoria. Così ricorda in una
intervista rilasciata a Stefano Bonilli (1999):
Quando ho aperto nel 1977, la cucina italiana non funzionava, o meglio, esisteva soltanto la qualità della massaia della trattoria. Valeva la regola dell’abbuffata. Per far capire che la cucina moderna era un’altra cosa bisognava partire con un effetto choc: ecco allora sette penne e sette asparagi con 20 g di tartufo nero di Norcia, il concetto non era quello di dare la pasta ma di giocare con il piatto bello. Molti facevano fatica a capire ma io già sentivo il bisogno di andare oltre.
L’esiguità delle dosi arriva all’opinione pubblica come la caratteristica
fondamentale della nouvelle cuisine e le porta le maggiori critiche, sebbene
esso ne sia solo un dettaglio secondario e superfluo. Ancora oggi è comune fra
i non addetti ai lavori il giudizio per cui nei locali di questo stile “si mangia
troppo poco e sono cari”. La nouvelle cuisine invece è molto di più e le sue
innovazioni costituiscono le fondamenta dei codici culinari della cucina
creativa contemporanea. Il nuovo ruolo riconosciuto allo chef, la sua capacità
di crearsi un proprio stile, l’importanza della freschezza delle materie prime e
di evitare una manipolazione artificiosa, la distruzione di tabù consolidati
come la lunga cottura di pesci e molluschi: questi e altri elementi fanno della
nouvelle cuisine un movimento rivoluzionario della storia della ristorazione.
6. Gli ultimi anni. La cucina creativa e d’autore.
In pochi anni dall’uscita del celebre articolo di Gault e Millau, parte
rilevante della grande ristorazione europea fa suoi i principi rivoluzionari della
nouvelle cuisine, adottandone soprattutto “la tecnologia e la parure”
(Marchesi, Vercelloni, 1992, p.151).
Da “nuova” questa cucina viene presto ribattezzata come “creativa”,
termine ancor oggi utilizzato per classificare i locali dove non si propongono
pietanze canonizzate bensì piatti nati dalla fantasia dello chef in loco. Come
specificano Marchesi e Vercelloni, la cucina creativa “non è tale perché
contraddistinta da una sequela di invenzioni estemporanee, bensì perché non
prevede più una rigida separazione tra testo ed esecutore” (ivi, pp.153-4).
Essa si differenzia dalla cucina classica principalmente nel differente
rapporto che il cuoco instaura con norme e codici culinari prestabiliti. Nella
vecchia concezione, l’arte culinaria è concepita quale un corpus di ricette
omologate e canonizzate, riconoscibili dal pubblico ed esportate in contesti
differenti. In questo sistema, lo chef deve limitarsi a ripetere all’infinito i testi
codificati nell’Età dell’Oro della gastronomia. Il grande cuoco è quindi
“essenzialmente un grande interprete”, che esibisce il suo talento personale
“nel tocco originale, nella mano ispirata” (Marchesi, 1988, p.43), nell’esito più
o meno felice della propria esecuzione.
Lo chef che fa cucina creativa non attinge più ad un repertorio di ricette
preconfezionato, bensì persegue l’obiettivo di produrre qualcosa di originale,
fatto salvo il possibile riferimento a temi o singoli elementi già sperimentati.
Egli è non perciò più solo un esecutore, bensì un “solista-compositore”, libero
di creare i propri pezzi, riarrangiarli negli anni e adattarli a contesti diversi.
Continuando con l’analogia musicale, Marchesi (1988a) definisce quest’arte
come una “cucina jazz”, in quanto priva di spartito e aperta alle
improvvisazioni e personali reinterpretazioni.
Lo stesso approccio alla gourmandise è altrimenti definibile come “cucina
d’autore”25 perché i suoi piatti non contengono più un modello di libera
riproducibilità e canonizzazione, bensì ogni imitazione è vissuta come un
plagio. Le creazioni culinarie non rimangono più anonime come accaduto con
le ricette originali codificate da Escoffier. Ora, anzi, il piatto d’autore ha un
valore addizionale pari al vestito griffato, e il suo ideatore può godere della
notorietà di uno stilista di moda. Il rispetto della proprietà intellettuale su
ricette e tecniche originali vive in una condizione ambigua. Da un lato,
dovendo adeguarsi all’esposizione mediatica, molti celebrity-chef si prestano
di buon grado a concedere ricette e a svelare alcuni dei loro segreti culinari.
25 Portata ai vertici innanzitutto da grandi chef della transizione post nouvelle cuisine come Joël Robuchon e Jacques Maximin.
Dall’altro, è allo stesso tempo diffusa la tendenza a far valere i diritti sulle
proprie opere dell’ingegno26 registrando le proprie idee, tecniche o
denominazioni originali per proteggerle dall’imitazione ma anche per
sfruttarle economicamente.
Se è sulle fondamenta della nouvelle cuisine che poggia l’evoluzione della
cucina creativa e d’autore dei nostri giorni, non possiamo comunque spiegare
il complesso mondo dell’alta cucina contemporanea quale semplice
prosecuzione di quella di Bocuse e Troisgros. Innanzitutto, è opportuno
ricordare che l’influenza diretta dei principi della nouvelle cuisine si è sentita
in Europa per un periodo limitato, confrontandosi all’esterno della Francia non
con un inesistente apparato d’alta cucina bensì con le tradizioni regionali e
popolari. Inoltre, i cuochi creativi dell’ultima generazione, sebbene
generalmente riconoscano un debito verso il rivoluzionario movimento
francese, non sempre sono cresciuti attorno alla sua orbita e soprattutto hanno
sviluppato un approccio distintivo.
Oggi probabilmente rispetto al periodo della nouvelle cuisine c’è meno
omogeneità ideologica e più dispersione territoriale. Non si porta avanti una
cucina innovativa solo in Francia, bensì anche e in modo rilevante in altri
paesi dentro e fuori dell’Europa. E’ difficile tracciare un quadro dai tratti netti
trattandosi di situazioni ancora in corso, che solo nel futuro potranno acquisire
un senso compiuto e dimostrare se quelle che oggi sono correnti d’avanguardia
potranno costituire una tradizione o un punto di svolta per nuove rivoluzioni.
In ogni caso, è possibile delineare alcune delle tendenze emergenti nella
cucina d’autore più recente.
Oltre alle considerazioni sul ruolo di chef creatore, sono ormai assimilate le
lezioni sul rispetto delle proprietà organolettiche nelle cotture, sulla scelta di
ingredienti che rispettino la stagionalità, sull’apertura alle nuove tecnologie in
cucina. Non c’è però una medesima attenzione verso il principio di semplicità
collocato dalla nouvelle cuisine ai vertici della propria assiologia valoriale. Il
numero degli ingredienti talvolta è molto alto, tanto che Claude Fischler
(1990) parla di una tendenza verso il neobarocco, in contrapposizione al
neoclassico della nouvelle cuisine. Si introducono prodotti esotici prima meno
26 Nell’ambito degli chef che saranno presi in esame troviamo alcuni esempi di rivendicazione dei diritti d’autore: Miguel Sánchez Romera ha brevettato il suo micrì, Ferran Adrià un modello di sifone da lui perfezionato, Moreno Cedroni il marchio “susci”.
conosciuti; in particolare, le spezie e gli aromi sono sempre più numerosi. Si
porta avanti una cucina aperta a “ispirazioni sempre più sincretiche” (Fischler,
1990, p.212 della trad. it.), dove si fonde territorio ed esotismo e le fonti di
ispirazione tendono a moltiplicarsi.
Le note più rilevanti, sebbene più nascoste e sfumate, che a mio parere
convogliano la natura distintiva di questa cucina sono però altre. Innanzitutto,
quelle che potremmo definire le ali di avanguardia portano avanti un discorso
di rottura teso a scardinare i tabù culinari più consolidati, andando oltre alle
rigidità talvolta manifestate dagli stessi esponenti della nouvelle cuisine. Si
cerca l’innovazione pura, che non è semplice revisione o restyling formale
delle vecchie ricette della tradizione, ma creazione di opere culinarie originali,
che offrano al commensale una sensazione estetico-gustativa intensa e nuova,
attivando un dialogo più che con le esperienze coscienti con la memoria
palatale mentale (Sánchez Romera, 2001). L’innovazione si deve basare su
una conoscenza rigorosa da parte dello chef delle proprietà dei cibi e una
padronanza rigorosa delle tecniche che permettano di esaltare le loro proprietà.
Anche la rivoluzione culinaria deve quindi essere credibile ed ogni scelta deve
essere motivabile.
Un aspetto molto importante che distingue gli chef dell’ultima generazione
è la loro volontà di operare l’innovazione lavorando su concetti (Adrià, 1997),
più che sulla creazione di singoli piatti. Con questo termine si intende per
esempio l’idea alla base di pietanze come la paella o la tortilla27, dalla cui
struttura si può partire per inventare infinite variazioni. Questa cucina per
andare avanti riflette su se stessa28, sui suoi codici e le possibilità che le
tecniche offrono per elaborarla. Come si vedrà approfondendo gli approcci dei
tre chef scelti qui come casi, la costruzione del nuovo può prendere diverse
forme, seguire diversi percorsi di creazione. Si può partire ad esempio da un
piatto classico e destrutturarlo lasciando inalterata l’anima ma intervenendo
sulle sue singole componenti, così da sconvolgere quella che è la sua struttura.
Oppure è possibile muoversi in senso induttivo partendo da un prodotto o da
una idea per costruire un piatto mediante l’impiego di una nuova tecnica
27 Riportando gli esempi di Adrià, che evocano la sua nazionalità spagnola. Cfr. Adrià
(1997). 28 A questo proposito, si propone anche la definizione di metacucina. Cfr. Sánchez Romera
(2001).
ovvero una combinazione originale di esse. Ancora, è possibile trasmutare da
un contesto culinario all’altro quello che è un concetto codificato dalla
tradizione. Sulla base di queste considerazioni, si può ragionevolmente
classificare questo approccio alla cucina come intellettuale.
In certi casi, le nuove generazioni valorizzano anche l’elemento dell’umore
in cucina. Non solo, nella dimensione estetica del piatto, si cura l’elemento
cromatico per produrre una sensazione di allegria nel commensale, ma a volte
si vuole divertire giocando ad introdurre in senso funzionale oggetti quotidiani
esterni al mondo culinario, oppure ad attribuire forme inusitate che richiamano
al concetto del piatto più che allo status naturae degli ingredienti. Si manifesta
quindi in questo senso anche una dimensione ludica dell’arte culinaria.
III.
I RISTORANTI IN ESAME: INTRODUZIONE AI CASI.
1. La scelta dei ristoranti.
La scelta dei ristoranti presi in esame non è stata arbitraria né casuale: sono
tutti ristoranti appartenenti al filone della cucina d’autore, fortemente motivati
alla sperimentazione creativa e collocabili ai vertici della ristorazione.
Certamente non c’è volontà esaustiva di coprire con questi tre locali un’area
anche delimitata dell’alta cucina, né si pretende di stilare una classifica
oggettiva dei migliori chef in assoluto, ma tutti e tre i ristoranti possono
ritenersi fra i più rappresentativi dell’ala d’avanguardia della ristorazione
contemporanea.
In tutti questi locali si porta avanti una cucina ai massimi livelli, ragionata e
improntata alla ricerca quasi spasmodica dell’innovazione culinaria. I loro
chef sono inoltre dotati di una personalità spiccata, e della capacità di
raccontare con le proprie opere e le proprie scelte culinarie la loro storia
individuale.
Essendo necessaria una selezione, nell’ambito dell’eccellenza ho pensato
proprio a questi tre locali perché le figure dei loro chef, così come dai media
mi era passata, avevano suscitato più o prima di altri la mia curiosità, e
desideravo fare esperienza dal vivo del loro personale approccio all’arte
culinaria, incontrandoli e osservando con i miei occhi come le loro idee
fossero messe in atto all’interno delle cucine.
2. Il contesto ristorativo italiano e spagnolo.
I ristoranti presi in esame non appartengono tutti allo stesso contesto: uno è
italiano, delle Marche, gli altri sorgono nella regione spagnola della Catalogna.
In questi ambiti territoriali si sta verificando negli ultimi anni una sfida e forse
un ribaltamento dell’egemonia francese che nei secoli si era consolidata
nell’ambito dell’alta cucina. Non che in Francia siano assenti grandi chef, ma
pochi esprimono modelli d’avanguardia e più che in altri stati europei portano
avanti una cucina estremamente esclusiva per i prezzi imposti ai clienti. In
Spagna e in Italia si sta invece progredendo, con una rilevante schiera di
cuochi più o meno giovani che stanno introducendo un modello innovativo
della cucina.
2.1. Le ragioni di un ritardo storico. Per ricercare le ragioni della recente crescita di livello dell’alta cucina
d’autore è opportuno prendere in considerazione l’evoluzione del contesto
storico e la variazione di alcuni fattori di ordine economico e culturale. Se
consideriamo questi due paesi in quella che è stata definita l’Età dell’Oro della
gastronomia, ovvero il diciannovesimo secolo, ci rendiamo conto che il
modello culinario da essi sostenuto non raggiunge il livello evolutivo di quello
francese. In questa nazione, grazie anche all’evento determinante della
Rivoluzione Francese e dell’ascesa socio-economica del Terzo Strato,
ritroviamo dalla fine del diciottesimo secolo le condizioni necessarie allo
sviluppo dell’istituzione ristorativa e con questa allo stimolo all’innovazione
dell’alta cucina. L’azione centralizzante di Parigi, dall’ambito politico si
riflette anche a livello gastronomico, consentendo lo sviluppo nella nazione
francese di una “sensibilità globale”29 del gusto, favorendo un’evoluzione
culinaria unitaria che avrebbe dato luogo alla durevole supremazia
gastronomica di questo paese.
In Italia e in Spagna mancano nello stesso periodo le condizioni alla base
dello sviluppo dell’alta cucina. In Spagna è difficile individuare un quadro
gastronomico unitario, a causa delle diverse identità delle varie zone. Inoltre,
come sottolinea Manuel Vázquez Montalbán (1990), nell’Ottocento la classe
borghese è debole e scarsamente sviluppata praticando nel campo culinario la
stessa assenza storica manifestata in altre dimensioni culturali. Mentre le classi
popolari, attanagliate dalla fame, sono costrette a praticare una cucina della
sopravvivenza, la fragile borghesia spagnola adotta una cucina propria di
radici tradizionali, costruita però essenzialmente mediante assimilazione dei
ricettari internazionali, francesi in particolare.
In Italia, come ricorda Emilio Faccioli30, nella pratica culinaria
ottocentesca si perpetua “una condizione di crisi che risale alla decadenza
della tradizione rinascimentale e al successivo compromesso fra la grande
cuisine importata d’Oltralpe e la vitalità residua delle nostre cucine regionali e
29 Cfr. Piero Camporesi, Introduzione ad Artusi (1891), per l’edizione Einaudi del 1970. 30 Cfr. Emilio Faccioli, Introduzione all’edizione italiana a Jean- Paul Aron (1973).
locali” (Aron, 1973, p.XVI della trad. it.). I grandi splendori dell’arte culinaria
sono lontani, ma per lungo tempo si continua a promuovere uno stile
culinario31 “profondamente legato alla cultura medievale dell’artificio, che
proprio sulle tavole dell’Italia rinascimentale raggiunse il più altro grado di
perfezione”32 (Capatti, Montanari, 1999, p.128). Il fervore letterario dell’area
francese, dove emergono le figure di gastronomi quali Grimod de la Reynière
e Brillat-Savarin, nonché viene celebrato il connubio fra cucina e narrativa
grazie ai riferimenti al mondo gastronomico di celebri scrittori, non trova
raffronti comparabili nella trattatistica del nostro paese. Sebbene
occasionalmente di una certa raffinatezza, sono infatti più episodiche le opere
di saggistica33 scritte dai gourmet nostrani, i quali a partire dalla fine del
diciottesimo secolo codificano un’arte culinaria di modello francese,
adottandone la terminologia o cercando di trasporla in forma italiana. Dal
primo Ottocento la letteratura gastronomica si converte ad una manualistica
spoglia in cui è evidente la connotazione regionale, e dove ricette della
territorio vengono narrate frequentemente nel dialetto locale.
Nel frattempo, le classi inferiori sono gravate dal problema della scarsità
alimentare e soprattutto nel settentrione dal monofagismo, all’origine già dalla
fine del Settecento della diffusione della pellagra, anche definito “male della
miseria” (Faccioli, 1973). Un modello di frugalità se non di indigenza è anche
quello tramandato dalle rappresentazioni della quotidianità alimentare dei
nostri letterati.
Solo alla fine dell’Ottocento la “scienza” entra in cucina con Pellegrino
Artusi, che con il suo celebre trattato (Artusi, 1891) porta avanti il progetto di
codificare la cucina nazionale, realizzando una sorta di mappa gastronomica di
ricette e usi delle diverse aree del territorio34. Con questa opera si darà al paese
31 Caratterizzato da un profluvio di spezie e di zucchero, la mescolanza di dolce e agro.
Cfr. Capatti, Montanari (1999). 32 Certa storiografia riporta che il modello italiano è stato esportato in Francia per tramite
dei cuochi al seguito di Caterina de Medici, giunti a Parigi in seguito al matrimonio con Enrico de Valois. Per loro tramite l’arte culinaria italiana sarebbe divenuta punto di riferimento per le successive evoluzioni apportate dagli chef francesi. Qualche dubbio sul valore determinante di questo evento è espressa da Capatti, Montanari (ivi, p.127).
33 Come l’Apicio moderno di Francesco Leopardi, del 1790. 34 L’atlante gastronomico non copre però opportunamente l’Italia intera. Sulla base delle
proprie conoscenze, Artusi raccoglie in proporzione maggiore ricette della Toscana, della Romagna e di Bologna. Da altre aree codifica inoltre piatti soprattutto di origine cittadina. Anche quando per le successive ristampe fa uso delle informazioni epistolari delle sue lettrici, la raccolta risulta carente nel coprire le zone meridionali. Cfr. Capatti, Montanari (1999, p.33).
le basi teoriche di una cucina borghese priva di fasti e di sprechi. Si afferma
con essa inoltre un codice gustativo caratterizzato da una certa delicatezza dei
sapori, segno di distinzione per il gourmet borghese dai gusti forti e agrodolci,
riprodotte nelle cucine popolari35.
La cucina borghese, che inizialmente riprende il modello francese “con una
certa aria di titolata nobiltà” (Capatti, Montanari, 1999, p.138), se ne distacca
presto proponendo uno stile più semplice, liberato dai costi del lavoro dell’arte
decorativa in voga fra gli chef parigini, nonché scevro dall’adozione delle
salse classiche francesi, accusate di essere indigeste. Nello stile e nei gusti “la
cucina borghese elaborerà un modello equidistante dai servizi della tavole
internazionale come dai piatti della festa paesana” (ivi, p.138).
A sua volta, lo stile di vita borghese provoca delle ripercussioni
sull’approccio al cibo degli aristocratici. Nel nostro paese conquista un certo
peso la dimensione domestica in cui si vive la gastronomia nell’ambiente dei
ceti medi. Il gourmet nostrano preferisce dar sfogo al proprio piacere
all’interno della casa, dove padroneggia l’arte di invitare e farsi invitare.
Rinuncia per motivi economici allo chef d’oltralpe, e si accontenta di una
domestica, che non conosce ricette complesse di origine francese né garantisce
lo stesso servizio, ma può soddisfare comunque il suo difficile palato.
Saltuariamente frequenta ristoranti e trattorie, se coinvolto in un pranzo
formale, o nei giorni di viaggio e di solitudine.
Il modello culinario familiare viene in un certo senso riproposto anche dai
cuochi di corte, i quali senza rinunciare al cerimoniale né alla raffinatezza
dello stile eliminano le decorazioni ostentatorie, adattano il numero di portate
all’appetito reale, nonché introducono piatti italiani della tradizione regionale
(ivi, p.343).
Il principio di soddisfazione del ventre verrà negato e combattuto in
particolare fra le due guerre e nel corso della seconda: nelle proclamazioni a
favore di una cucina agile e scattante nella campagna dei futuristi; a causa
delle conseguenze del conflitto sul mercato alimentare; oppure semplicemente
perché in una fase di benessere consolidato per la borghesia la pancia diventa
superflua. I ricettari e i manuali italiani che vengono pubblicati in questo
periodo manifestano logicamente un principio di sobria razionalità: quelli più
35 Ove si possono avvertite “le tracce di antichi gusti aristocratici, imitati e replicati come in una tardiva conquista di sapori a lungo negati”. Ivi, p.136.
popolari raccolgono insegnamenti su come supplire alla penuria con l’ingegno,
mentre quelli diretti alle elite descrivono le tecniche per la lunga
conservazione dei cibi, in funzione cautelativa, nonché suggeriscono pasti
leggeri e rapidi.
Nel frattempo la Spagna subisce le conseguenze della guerra civile, che
impongono uno stile culinario improntato alla frugalità. Anche al termine della
guerra civile inoltre le classi borghesi sono prive secondo Vázquez Montalbán
(1990) di un’educazione gastronomica, facendo del rito del mangiare una
questione di quantità e di costo. Come sostiene quest’autore, “la cucina
spagnola non deve niente alla borghesia” (ivi, p.111, trad. mia), che si
dimostrerà mediocre nella tavola così come nella responsabilità nella crisi
della restaurazione spagnola negli anni Cinquanta.
In Italia anche dopo la ripresa economica post-conflitto rimane un certo
pudore per l’ostentazione del cibo, consumato dalle classi borghesi
preferibilmente all’interno delle mura domestiche. Il gourmet vive in questo
periodo nell’ambiguità fra le proprie tentazioni e i dettami dietetici proclamati
nella trattatistica degli anni Cinquanta36, portatrice di un modello corporeo di
magrezza (Capatti, Montanari, 1999, p.348).
2.2. Gli ultimi cinquant’anni: le ragioni di una rivalsa.
Sulla base di quanto visto, si possono ragionevolmente riconoscere
numerosi elementi in comune nel contesto storico, geografico ed economico
con cui si sono dovute confrontare la cucina italiana e quella spagnola dall’Età
dell’Oro della gastronomia francese agli ultimi cinquant’anni.
La cucina italiana, così come quella spagnola, sono sempre state
caratterizzate da un particolarismo delle tradizioni culinarie, da ricondurre
principalmente al frazionamento delle unità politico-amministrative e alla
diversificazione delle influenze culturali esterne. Il carattere decentrato di
questi paesi ha costituito un elemento discriminante contro lo sviluppo di un
codice estetico e culinario unificato pari a quello alla base delle grande cuisine
francese.
36 Anche se in quegli anni le pubblicità ancora “sono improntate di preferenza
all’immagine tradizionale di una corporeità florida e piena. Solo negli ultimi due-tre decenni l’ideologia del magro appare veramente vittoriosa”. Montanari (1993, p.210).
Oggi però la non uniformità delle tradizioni non costituisce più un limite
bensì un valore culturale internazionalmente conosciuto e fonte di promozione
turistica dei territori nazionali. In Italia già negli anni Cinquanta si sente la
necessità di tutelare questo patrimonio culinario con il grido d’allarme lanciato
da Orio Vergani, in un contesto che lascia presagire il pericolo della sua
demolizione. In quegli anni infatti, in corrispondenza ad un aumento del potere
d’acquisto e di miglioramento della distribuzione dei prodotti industriali, è
oramai consolidato l’uso delle scatolette e di altri oggetti semilavorati, il ché
dà l’avvio ad un processo di de-localizzazione dei consumi (Petrini, 2001). In
seguito all’emergere di queste nuove abitudini alimentari si afferma una
tendenza all’omogeneizzazione del gusto di massa, standardizzato per mezzo
dei trattamenti industriali. Nel 1953 Vergani porta concretezza alla propria
battaglia fondando l’Accademia Italiana della Cucina, un’istituzione con una
forte identità sociale e con l’ambizione di porre sotto tutela la nostra pregevole
cucina regionale, .
Propositi simili ma tendenze politiche opposte incarnano negli anni Settanta
l’associazione Arcigola, nata dall’ala de «il manifesto» amante della buona
tavola e desiderosa di rivendicare il piacere del cibo, del vino, e della
convivialità concepita come valore in sé. Con questo movimento, evoluto nel
1996 nella fondazione di Slowfood, ci si propone innanzitutto di
“salvaguardare il patrimonio agroalimentare dal degrado ambientale,
costantemente impoverito, e degno invece di una produzione di qualità” (ivi,
p.14).
Nella lotta di questo movimento i nemici da combattere sono “le
multinazionali dell’appiattimento dei sapori” (ivi, p.19) quali McDonald’s e
Pizza Hut, che propongono un modello di alimentazione rapida e
standardizzata, nella quale il cibo è ridotto a consumo a discapito della cura
per la qualità e la ritualità tutta italiana del pasto. In risposta alla pretesa
omologazione indotta dal modello fast-food”, Slowfood sostiene le culture
locali, promovendo le produzioni del territorio nel rispetto delle tecniche
culinarie tradizionali. Fra i progetti più importanti del movimento troviamo
innanzitutto: il progetto dell’Arca, che prevede la tutela di selezionati prodotti
di qualità “storici e locali” realizzati in piccole produzioni a rischio di
estinzione; la costituzione dei Presidi, ovvero un’azione di salvaguardia diretta
della qualità e dei modi di produzione delle Dop (prodotti di origine protetta).
Questo movimento è inquadrabile in una tendenza più generale che
recentemente ha contribuito a riconoscere che l’eterogeneità territoriale dei
nostri prodotti e del loro trattamento vanno ritenuti un elemento di ricchezza e
distinzione in ambito internazionale. Come denota il successo di iniziative
come quella di Slowfood e l’attenzione che offrono nel settore turistico gli
eventi e i luoghi che preservano le antiche tradizioni gastronomiche,
attualmente la vivacità e la varietà delle tradizioni regionali e locali sta dando i
suoi frutti.
Focalizzandosi sui riflessi di questa tendenza sui modelli ristorativi,
possiamo riconoscerne un ruolo portante in quel filone della cucina
contemporanea che si fonda sulla rivisitazione e riabilitazione del ricettario
tradizionale locale, nonché sulla valorizzazione dei prodotti del territorio. Da
un lato il luogo simbolo deputato per la realizzazione della cucina tradizionale
è la rivalutata osteria, caratterizzata da una cucina sincera dalla conduzione
familiare e dal servizio semplice, dall’offerta di vino di qualità, dal prezzo
contenuto (Petrini, 2001). In una fascia più alta (dove cambia costo e servizio),
i ristoranti che dichiarano di fare cucina “del territorio” manipolano
ingredienti locali e riproducono ricette autoctone, talvolta in versione rivisitata
anche per adeguarsi ai gusti e i valori dietetici attuali.
2.3. Tra tradizione e innovazione.
Nell’ambito del filone culinario più innovativo, al centro di questo lavoro,
sebbene con modalità diverse l’impegno per la tutela di prodotti di qualità
poco conosciuti prodotti artigianalmente rimane di estrema importanza. La
disponibilità di ingredienti genuini che a livello locale si possono esprimere ad
un livello qualitativo ottimale, nonché racchiudono una storia e una memoria
di antichi usi, costituiscono uno stimolo per lo chef ad esplorare nuove
possibilità gustative.
La memoria delle passate esperienze del cuoco ha delle influenze sulla sua
assiologia di valori e quindi sul modo in cui crea, così come nel giudizio di
gusto del soggetto degustatore ha un ruolo determinante l’archivio delle
precedenti esperienze alimentari. Coscientemente o meno, nelle scelte
culinarie intervengono sempre assiologie di valori gustativi ed estetici, di
natura sociale o individuale e idiosincratica, rinvenibili anche nell’ambito
della creazione.
Naturalmente però c’è molto di più all’origine del lavoro di quei ristoratori
che perseguono con fermezza l’innovazione culinaria, riconducibile
semanticamente al polo categoriale opposto alla tradizione, interprete migliore
dei valori propagati dal movimento di SlowFood.
Senza dimenticare che anche e manifestamente dalla cucina povera e
relativamente limitata nelle risorse cresce la volontà di sperimentare il nuovo
(Capatti, Montanari 1999), occorre identificare quale fattore storico-culturale
determinante per lo sviluppo della cucina d’autore contemporanea l’influenza
della nouvelle cuisine.
Il celebre movimento degli anni Settanta ha dato ai professionisti della
cucina l’incitamento alla sperimentazione di nuove soluzioni culinarie a partire
da una riflessione su prodotti locali spesso d’umile origine, liberamente
combinati con ingredienti anche esotici a seconda dell’ispirazione creativa
dello chef. Un settore molto ampio dell’alta ristorazione italiana e spagnola,
così come delle controparti europee e d’Oltreoceano, ha accolto ben presto il
richiamo degli chef francesi a rivoluzionare l’approccio alla cucina,
promuovendo una cucina riflessiva ma purificata da ogni artificiosità, che
avrebbe dovuto portare la natura in tavola ma in una versione ingentilita,
esteticamente aggraziata.
Questo stile culinario si rivolge ad una tipologia di consumatore con delle
richieste sensibilmente diverse nei confronti della proposta gastronomica
rispetto al cliente della cucina tradizionale. L’enunciatario presupposto da un
piatto37 della nouvelle cuisine ricerca nella degustazione un’esperienza non
provata in precedenza, assimilabile alla tipologia dei consumatori-flâneurs
delineata da Floch, alla quale appartengono “quelli che accettano di gustare un
cibo nuovo, quelli le cui papille infine si risvegliano”(Floch, 1997, p.203 della
trad. it.).
La pietanza servita nei ristoranti di cucina creativa non implica il
riconoscimento da parte del commensale del piatto tradizionale conosciuto o
almeno potenzialmente conoscibile, codificato in un patrimonio culturale
37 Se concepito come enunciazione, sulla base della proposta di Floch (1995a).
associato alla memoria di un popolo o di un territorio. Colui che assaggia il
piatto verrà sorpreso dall’esperire una sensazione gustativa originale mai
provata, che implica disconoscimento dell’appartenenza dell’oggetto ad
un’enciclopedia culinaria culturalmente condivisa, quale presupposto del
riconoscimento del suo valore estetico e gastronomico.
Non si cerca come nella cucina tradizionale il richiamo alla tipicità, alla
memoria storica di un uso culinario stabilito, nel senso delle continuità per chi
mantiene inalterate le tradizioni o della rievocazione di un tempo andato per
colui che non è più solito mangiare la pietanza o mai l’ha provata in vita sua. Il
piatto generato nel filone della cucina creativa va collocato in una posizione
nel segno della discontinuità e dell’inesplorato38 rispetto ai mondi culinari
conosciuti dal passato o conoscibili in altri luoghi della contemporaneità. La
degustazione viene invece vissuta come frattura del quotidiano, nel senso
dell’esperienza estetica descritta da Greimas (1987) in Dell’Imperfezione.
La percezione estetico-degustativa può comunque entrare in dialogo con
precedenti esperienze particolari archiviate, ed eventualmente rimosse, ma
soprattutto colpendo il commensale per la sua originalità può ambire ad
entrare nell’archivio memoriale futuro, quale esperienza estetica che
arricchisce e ricostruisce il pattern memoriale precedentemente in uso
(Parasecoli 2002).
2.4. L’avanguardia catalana.
I tre ristoranti scelti per la mia analisi vanno ricondotti a questo filone
culinario, in quanto tutti e tre conducono con determinazione una ricerca
dell’innovazione culinaria. Nel loro paese non sono gli unici a portare avanti
un discorso sulla creatività, anche se sono certamente fra i rappresentanti più
autorevoli. In Italia la schiera degli chef creativi è sempre in crescita, sparsi un
po’ dovunque per la penisola.
In Catalogna il fenomeno della creatività culinaria è però sorprendente,
infatti in questa piccola regione della Spagna la concentrazione delle stelle
della cucina è inusitatamente elevata. Il giornalista e gourmet Paul Arenós
(1999) riconosce l’esistenza di un vero e proprio movimento spontaneo, da lui
denominato avanguardia culinaria catalana.
38 Ma anche nella riscoperta di prodotti umili, dimenticati dall’alta cucina classica.
Questo gruppo di cuochi innovatori sostengono e portano avanti una
visione dinamica della cucina, imprimendo una spinta verso la costituzione
dell’arte culinaria del futuro. Come riferisce Arenós (ivi), potremmo
individuare nei diversi ambiti del contesto della Catalogna contemporanea
alcuni fattori che hanno favorito lo sviluppo di questo fervore culinario
innovativo. In ambito propriamente gastronomico, dovremmo rilevare la
ricchezza e l’eccentricità del ricettario tradizionale. Geograficamente, la
vicinanza alla Francia ha facilitato l’apprendimento e l’assorbimento delle
conoscenze gastronomiche alla base della lunga supremazia culinaria del
vicino orientale. A livello economico, il rilevante incremento dei redditi della
popolazione di questa regione soddisfa i presupposti per la costituzione di una
domanda potenziale adeguata per la ristorazione di lusso.
Naturalmente questi elementi non possono spiegare da soli la nascita del
movimento, ma ne costituiscono le condizioni alla sua base. Per Arenós, “la
cucina è una delle chiavi per spiegare la Catalogna attuale” (ivi, p.12, trad.
mia). Alcuni degli aspetti che accomunano gli chef catalani individuati da
Arenós sono comunque generalizzabili al mondo della cucina creativa nel suo
complesso, e manifestamente allo chef marchigiano qui preso in esame.
Potremmo riconoscere a livello internazionale una larga schiera di chef più
o meno giovani che potrebbero essere considerati esponenti di quella che
potremmo definire l’avanguardia culinaria della nostra generazione. Sebbene il
rifiuto di codici rigidi sia uno dei tratti caratteristici, è possibile individuare
delle tendenze largamente condivise fra questi cuochi.
Nei locali portatori dei nuovi valori si promuove innanzitutto una cucina
ragionata, di riflessione, dove tutte le scelte culinarie adottate hanno sempre
delle spiegazioni. I cuochi conoscono le proprietà organolettiche, gustative ed
estetiche dei loro prodotti, nonché i migliori modi di trattarli per saperli
esprimere al meglio essendo consapevoli delle trasformazioni chimico-fisiche
implicate dalle diverse tecniche culinarie. Si lavora principalmente con
l’ingrediente locale e stagionale, ma non si rifiuta quello straniero. In ogni
caso, il valore del prodotto non è determinato da suo prezzo sul mercato, bensì
dalle sue qualità organolettiche e dal ruolo che potrebbero interpretare nel
complesso del piatto.
Nei ristoranti o in luoghi appositi si porta avanti un discorso di ricerca,
appoggiando e valorizzando le idea creative, nonché sottoponendole a ripetute
sperimentazioni. C’è inoltre una precisione estrema nelle procedure di
elaborazione a freddo e una cronometrizzazione dei processi di cottura, ove i
tempi (tendenzialmente più corti che in passato) sono esattamente definibili e
sanzionabili. Si lavora molto sul piano della testura e della temperatura,
considerati elementi portanti del piatto. Come accennato, inoltre, l’umore e il
divertimento che si producono nel commensale costituiscono una dimensione
importante delle opere culinarie di questa generazione di chef.
3. I tre ristoranti in esame e i loro chef. 3.1. La Madonnina del Pescatore.
La Madonnina del Pescatore, ristorante che guarda sul lungomare di
Marzocca di Senigallia (AN), è un locale ai vertici della ristorazione italiana,
premiato dal 2001 con le Tre Forchette, valutazione massima nella classifica
della guida ai Ristoranti d’Italia di Gambero Rosso.
Il suo chef-patron Moreno Cedroni, membro dell’Associazione dei Giovani
Ristoratori d’Europa, è uno degli esponenti più rappresentativi dalla nuova
generazione di chef portatori di una visione d’avanguardia dell’arte culinaria.
Grande estimatore di Ferran Adrià, porta avanti una cucina che analogamente
al suo maestro non rinuncia mai a stupire. Ispirato dai prodotti del mare, ne
propone un’interpretazione sempre originale, sperimentando associazioni
inconsuete ma sempre motivate. Adottando un approccio ludico alla cucina,
sorprende e diverte il commensale con una carta in cui propone fra gli altri
“costoletta di rombo”, “bresaola di tonno”, “spaghetti psichedelici”, “bufalina
di spada” (nuova versione della pizza, a base di pesce).
Nel suo viaggio verso il nuovo, lo chef rimane sempre memore delle sue
origini, evocando nelle sue scelte culinarie tecniche e sapori tipicamente
marchigiani. Anche in una delle sue più celebri specialità, il “susci” (senza h
secondo la personale denominazione dello chef), il noto piatto protagonista
della cucina giapponese viene reinterpretato in chiave mediterranea, con
condimenti e preparazioni che richiamano in particolare alla tradizione
culinaria della sua regione. Esclusivamente a queste sue preparazioni è
dedicato il “susci bar” Clandestino, versione prêt-à-porter della Madonnina
del Pescatore che sorge sulla spiaggia di Portonuovo. Di prossima apertura, è
inoltre un secondo locale questa volta dedicato al pubblico cittadino: esso
vedrà infatti la luce al centro di Bologna, presso la Sala Borsa.
3.2 . L’Esguard.
Questo ristorante, aperto da soli sei anni ma già molto conosciuto ed
ampiamente elogiato dalla stampa gastronomica europea, nordamericana e
giapponese, sorge nel cuore di Sant Andreu de Llavaneres, cittadina costiera a
mezz’ora di macchina da Barcellona.
Il nome “L’Esguard”, riportato nel logo (ad es. sulle copertine del menù)
accanto al disegno stilizzato di una porta vetrata dell’antico edificio, parlano
dell’identità di questo locale, che dischiude al commensale lo sguardo su un
inesplorato mondo interiore. L’accenno cromatico al muro esterno e
l’inclinazione delle imposte non del tutto spalancate danno la direzione di un
percorso di osservazione in senso convergente. E’ oltre la cornice
apparentemente senza vetri e nella sua dimensione interna che viene diretta
l’attenzione del cliente dell’Esguard, accompagnato in un viaggio verso la
riflessione, la riscoperta delle proprie emozioni, la costituzione di un nuovo
registro gustativo.
Fig.1 Il disegno sul menù.
Miguel Sánchez Romera, chef e proprietario dell’Esguard, è anche da più di
vent’anni neurologo e neurofisiologo specializzato negli studi dell’epilessia. In
un libro uscito di recente su cui ci soffermeremo, La cocina de los sentitos
(Sánchez Romera, 2001), egli fa dialogare i suoi due mondi professionali, solo
apparentemente lontani, investigando le relazioni fra il cervello, i sensi, la
memoria e l’arte culinaria.
La cucina di questo chef, concettualmente innovativa e tecnicamente
meticolosa, visivamente allegra ma non ludica richiama ad un approccio
intellettuale all’arte culinaria. Come emergerà nel corso delle analisi, il
rapporto che Sánchez Romera intrattiene, nell’ambito del processo creativo e
dell’intervento culinario, con i prodotti alimentari e con le possibilità virtuali
della tecnica, lo rendono un caso peculiare nel contesto culinario catalano e nel
mondo dell’alta ristorazione in genere.
3.3. El Bulli.
A nove chilometri dalla cittadina di Roses, in Costa Brava, incontriamo
questo rinomato locale, insignito dal 1998 con le prestigiose tre stelle
Michelin, traguardo che condivide con pochi ristoranti al mondo. Aperto solo
la sera e da Aprile ad Ottobre, vi lavorano in perfetto sincronismo oltre
sessanta persone fra sala e cucina, per soli quarantacinque coperti. Negli altri
sei mesi, un’équipe di undici cuochi è impegnata a tempo pieno ad El Taller, il
laboratorio-atelier dove si porta avanti il discorso della creatività.
Ferran Adrià, dal 1984 alla guida di questo locale e responsabile della sua
svolta, è stato incoronato il migliore cuoco dei nostri tempi dal grande chef
Joël Robuchon, allora indiscusso numero uno della ristorazione mondiale. La
cucina del nuovo guru catalano, all’insegna della creatività pura e della
sperimentazione di nuove tecniche culinarie, combina un approccio ludico e
uno intellettuale. Convinto della necessità di sdrammatizzare l’atto del
mangiare, Adrià cerca di divertire e sorprendere il commensale osando
combinazioni culinarie al di là di ogni immaginazione. Allo stesso tempo,
propone dei piatti che sono anche “buoni da pensare” (Parasecoli, 2002),
perché implicano un ripensamento dei codici culinari culturalmente acquisiti e
dati per scontati. Nella sua cucina scompare l’associazione fra dolce e gelato,
fra minestre e stato liquido, così come la classica separazione fra pietanze
salate e dessert. Ad El Bulli è possibile degustare ad esempio sorbetti e gelati
salati (fra cui il celebre “semifreddo al parmigiano”), minestre destrutturate
dove ogni verdure ha una testura differenziata, ravioli liquidi, spume di fumo.
Negli ultimi anni, a fianco del ristorante e a sostegno del suo progetto di
ricerca creativa, sono state sviluppati per volere di Adrià e del suo socio Juli
Soler altre iniziative: ElBulliCarmen, ovvero una società di consulenze ad
aziende (fra cui la Lavazza), ristoranti ed hotel; ElBulliCatering, impresa che
organizza banchetti fino a mille coperti; ElBulliHotel, ovvero l’apertura di una
catena di alberghi di gran lusso.
IV.
MORENO CEDRONI.
1. Analisi di un piatto: la costoletta di rombo.
Sprigionato dall’ingegnosità creativa dello chef marchigiano, il piatto che
mi accingo ad analizzare ha un nome completo piuttosto lungo ed evocativo:
“costoletta di rombo panata nella birra chiara, con erbe di campo strascinate e
trippa di coda di rospo”.
Intendo focalizzarmi su quest’opera culinaria interpretandola in primo
luogo in qualità di oggetto in trasformazione, attraverso un’analisi del
processo della sua creazione, e poi nel suo aspetto terminativo di oggetto
finito. In linea con quanto suggerito da Floch (1995a), vorrei quindi
attraversare le due facce comunicanti del mondo della cucina: l’ambito della
produzione dei piatti, ovvero l’anima pratica dell’arte culinaria meglio definita
come gourmandise, e quello della degustazione consapevole e della
discussione ragionata sul cibo, cioè la gastronomia.
Inizierò con un’analisi dei procedimenti di realizzazione del piatto
focalizzata sul livello semio-narrativo, sottoporrò quindi il titolo ad analisi
semantica, percorrerò il problema della degustazione del piatto ed esaminerò il
piatto nella sua concretezza nei suoi aspetti sensibili alla ricerca degli effetti
gustativi e delle strutture semantiche soggiacenti.
Per quanto riguarda la metodologia seguita, ai fini dell’analisi del processo
di produzione culinaria ho adottato la tecnica dell’osservazione partecipante.
Grazie infatti alla disponibilità dello chef-patron e dei suoi collaboratori, ho
avuto la possibilità di essere ospite per un giorno alla Madonnina del
Pescatore, dove ho potuto assistere dall’interno delle cucine alla diverse fasi di
preparazione del piatto di mio interesse nelle sue procedure ordinariamente
attivate in seguito ad ordinazione da parte di clienti. Ho preso appunti e
documentato fotograficamente i procedimenti seguiti, nonché approfondito
alcune problematiche relative al discorso culinario con Moreno Cedroni
prevalentemente attraverso posta elettronica.
1.1. Il fare-culinario. Analisi semio-narrativa
della costruzione del piatto.
Adottando una prospettiva greimasiana, possiamo riconoscere nel momento
di realizzazione del piatto un programma di produzione che consiste nella
creazione di un oggetto di valore, in questo caso improntato alla soddisfazione
di un piacere piuttosto che di un bisogno. Dal momento che piatti come questi
non sono normalmente pensati e preparati semplicemente per placare la fame,
possiamo tranquillamente supporre che il valore investito consisterà in una
sensazione gustativa euforica.
Allargando il nostro sguardo al contesto dell’ordinazione al ristorante,
questo programma di costruzione va inquadrato in un programma narrativo di
scambio realizzato (corrispondente ad una doppia performanza di dono) di
oggetti di valore sulla base del contratto fiduciario implicitamente instaurato
fra il ristoratore e i suoi clienti. Lo stadio della produzione del piatto in
quest’ottica può essere interpretato come un PN d’uso presupposto da un PN
base che consiste nell’attribuzione, da parte del soggetto S1, “lo chef”,
dell’oggetto O1, la “costoletta di rombo” a un soggetto di stato S2, i “clienti”,
in cambio di un oggetto O2 di valore equivalente, ovvero il suo prezzo.
E’ su questo programma d’uso di produzione che concentrerò la mia
attenzione in questa prima sezione, iniziando da un esame della sua sintassi
narrativa, prendendo spunto dall’esemplare analisi condotta da Greimas (1983)
sulla zuppa al pesto. Nonostante le analogie nella natura dell’oggetto costruito,
è necessario individuarne preliminarmente anche le numerose differenze.
L’analisi di Greimas infatti verteva su un testo verbale, costituito dalla ricetta
della zuppa. Come messo in luce da Floch, “la ricetta è un meta-discorso
verbale che rende conto, in modo programmatico e pedagogico, di una pratica
culinaria” (Floch, 1995a, p.161 della trad. it. in Marrone, 1995), mentre qui si
vuole analizzare la pratica culinaria in sé nella sua realizzazione, concependo
come testo il processo di costruzione del piatto.
In ottemperanza allo Schema narrativo canonico proposto da Greimas,
riconosciamo a monte del programma una performanza cognitiva con la quale
un destinante garante del valore del piatto induce un soggetto trasformatore a
portare avanti il compito di produzione dell’oggetto di valore. A livello del PN
di base, il cliente con la sua ordinazione esercita una manipolazione nei
confronti del cuoco ovvero cerca di provocare un fare somatico costituito dalla
preparazione del piatto. E’ questa istanza ideologica ad informare a monte
l’azione che dovrà poi essere riconosciuta a valle da un’istanza di sanzione, ad
opera di un destinante giudicatore (il cliente-degustatore).
Il PN d’uso di costruzione dell’oggetto di valore (d’ora in avanti PNc) è
scomponibile in programmi narrativi distinti e gerarchicamente articolati che
comprendono anche dei PN delegati. Come esamineremo più analiticamente, il
piatto in esame si articola in tre PN paralleli e indipendenti corrispondenti alla
preparazione delle tre componenti del piatto, in cui possiamo individuare tre
oggetti parziali. Il PNc prevede poi al suo interno una fase di assemblaggio di
questo oggetti che vanno a comporre il piatto nel suo stadio conclusivo.
L’attante-soggetto Sc, investito dal destinante della modalità del /dover
fare/, solo nel corso del percorso narrativo acquisisce completamente le
competenze modali necessarie per l’esecuzione del PNc. Egli infatti si trova
competenzializzato (essendo dotato di un /dover fare/ e /voler fare/, nonché
grazie alle sue abilità, cognizioni e specializzazioni di un /saper fare/ e /poter
fare/) per lo svolgimento di alcune operazioni presupposte dal PNc ma non per
altre, per le quali si avvale dell’aiuto di alcuni collaboratori.
Attraverso l’installazione di peculiari strutture di manipolazione, soggetti
umani delegati specializzati (e competenzializzati per questi compiti) vengono
chiamati alla realizzazione di programmi culinari annessi al PNc. Questi PN
sono messi in opera in un tempo anteriore rispetto al PNc costituendo
operazioni preliminari all’attualizzazione dello stesso. In un certo senso, è
possibile interpretare questi PN quali i corrispettivi della prova qualificante
della fiaba secondo il modello di Propp, e sulla base di una rilettura
greimasiana in termini di competenzializzazione come PN d’uso modali. In
quest’ottica possiamo tradurre gli interventi degli aiutanti dello schema
proppiano come momenti che consentono ad Sc di modalizzarsi secondo il
poter fare, dotandosi così dell’equipaggiamento modale completo necessario
per portare aventi il programma globale da compiere.
1.1.1. Il dispositivo strategico.
All’interno del quadro delimitato dal PNc, è possibile inscrivere tre PN
paralleli e indipendenti che portano alla costruzione di tre oggetti parziali
congiunti alla fine del processo nell’oggetto di valore unico O che verrà
servito in tavola:
PN1 = preparazione della
“costoletta di rombo”
O1 = costoletta di rombo
PN2 = preparazione delle
“erbe strascinate”
O2 = erbe strascicate
PN3 = preparazione della
“trippa di coda di rospo”
O3 = trippa di coda di rospo
dove O = “costoletta di rombo panata nella birra chiara con erbe strascinate
e trippa di coda di rospo”.
Dall’esame di ognuno dei programmi sopracitati possiamo individuare un
PN principale e una serie di PN aggiunti. Come si può dedurre dal titolo, Il
PN1 porta alla costituzione dell’elemento centrale del piatto, mentre gli altri
vanno a costituire una sorta di accompagnamenti e completamento
dell’equilibrio gustativo. Per semplicità di esposizione, prenderò in
considerazione in primo luogo la preparazione delle componenti di contorno.
1.1.2. (PN2) La cottura delle erbe di campo strascinate. Questo programma si scompone in due processi, condotti in due tempi
diversi e discontinui nonché realizzati da diversi attori. Le verdure vengono
prima di tutto lessate al dente e poi passate in padella in un tempo successivo.
Abbiamo un PN2a in cui il processo culinario predispone alla trasformazione
di un oggetto di partenza (le erbe di campo: 70% biete e 30% cicoria) in un
altro, passando da uno stato di oggetto crudo ad uno stato cotto-al dente. Il
processo di trasformazione, realizzato nello spazio utopico costituito da una
pentola d’acqua salata, porta alla costituzione di un oggetto parziale, che
subisce una successiva alterazione in un PN2b. A livello profondo, secondo la
rilettura di Greimas delle analisi condotte da Lévi-Strauss (1964) sui miti
borori, possiamo riconoscere dietro questi processi una serie di trasformazioni
da /crudo/ a /non crudo/ a /quasi-cotto/ che presiedono alla “de-
naturalizzazione” delle verdure crude fino alla loro “culturalizzazione”
sebbene parziale a causa dell’interruzione della cottura nello stato “al dente”.
Queste operazioni prevedono l’instaurazione di una struttura di
manipolazione peculiare: il soggetto umano delega infatti i suoi poteri ad altri
soggetti del fare (acqua e fuoco) investiti del compito di trasformare le /erbe
crude/ in /erbe cotte/, o meglio lessate. Il fuoco assume la funzione di soggetto
del fare che porta le verdure a cottura ma in una modalità mediata, attraverso
la presenza dell’acqua, la quale oltre a costituirsi come oggetto di
trasformazione (essendo portata a stato di ebollizione dal calore) assume a sua
volta un ruolo di soggetto operatore nella lessatura delle erbe. L’acqua
bollente in seguito al processo di riscaldamento col fuoco e “de-naturalizzata”
dal soggetto umano attraverso la sua salatura si pone quale agente di
trasformazione diretta delle verdure in un processo mediato che ben evoca la
sua qualifica “culturale”.
Se prendiamo in considerazione il famoso triangolo culinario di Lévi-
Strauss (1968),
dobbiamo collocare le erbe oggetto di questa preparazione in un qualche punto
del lato destro del triangolo, in quanto cotte in acqua ma lontane dagli estremi
dei poli del crudo dell’inizio del processo e del putrido, risultato di una
lessatura molto protratta.
Un secondo programma narrativo (PN2b) costituito dalla “strascinatura”
delle erbe porta a compimento la loro preparazione. Questa operazione viene
compiuta dal soggetto artefice del PN1 e all’interno del quadro del PNc. Le
erbe lessate e conservate in frigorifero (macchina del freddo operatrice di
discontinuità) vengono girate in padella (strascinate appunto) con aglio e olio.
Questa fase realizza una cottura rapida attraverso l’olio, scaldato a sufficienza
in modo che la temperatura raggiunga il cibo da cuocere dall’esterno senza
permettere che i liquidi interni fuoriescano. A differenza dell’acqua, agente
che trasforma la natura degli oggetti che in essa sono posti acquisendo la loro
sapidità, l’olio non è dotato di adeguato /poter-fare/, non è in grado di
realizzarsi come soggetto appropriandosi del valore posseduto dal cibo (anti-
soggetto). Secondo quanto scrive Marrone (1997 p.189 della trad. it.), “se nel
caso della bollitura l’unione mitica è dunque fra l’acqua e il fuoco, con la
semplice mediazione del cibo”, nel caso della cottura in padella con olio “è il
cibo a unirsi con il fuoco, usando il liquido come puro strumento della propria
realizzazione”. Ci fermeremo più in là su una possibile raffigurazione grafica
che rende conto della natura di tale tecnica di cottura; basti dire per ora che
con i passaggi seguiti si producono alla fine delle erbe più secche all’esterno
che all’interno, di una consistenza fibrosa e internamente abbastanza umida.
La scelta di produrre delle erbe cotte-al dente risponde a precise finalità legate
alla natura degli ingredienti, alle loro trasformazioni in termini di masticabilità
e digeribilità attraverso cottura. Si potrebbe dire che per questo componente la
disposizione aspettuale del poco-cotto è quella ritenuta ideale.
1.1.3. (PN3) La cottura della trippa di coda di rospo. Il PN3 porta a compito la preparazione della “trippa della coda di rospo”
attraverso un processo di cottura misto, scomponibile in due fasi distinte.
Diversamente dalle erbe protagoniste del PN2, la coda di rospo è un elemento
de-naturalizzato già prima della cottura: consiste infatti in un taglio preciso
ricavato dalla “rana pescatrice”, una sezione del pesce che si è guadagnata una
denominazione precisa, appunto “coda di rospo”, grazie al suo utilizzo in
cucina. Potremmo qualificare come “culturale” questo elemento in partenza, in
opposizione all’oggetto pre-cottura del PN2 (le erbe di campo), ove
tracciassimo una corrispondenza semantica:
culturale = + elaborato dall’uomo; naturale = - elaborato dall’uomo.
La trippa della coda di rospo subisce le elaborazioni riservate alla cottura
tradizionale della “trippa”, nome che designa un particolare taglio di carne,
ovvero una parte dello stomaco dei ruminanti con la quale si prepara un piatto
comune della cucina popolare “poco confacente agli stomaci deboli e delicati”
(Artusi, 1891, pp.308-9). Secondo la classificazione dell’autore della Scienza
in cucina, le modalità della sua produzione la fanno classificare fra gli
“umidi”, caratterizzati da cotture lente e dolci che prevedono l’aggiunta di
grassi e liquidi.
Se teniamo conto degli studi condotti da Lévi-Strauss, dobbiamo
riconoscere a questo metodo di cottura degli elementi che la rendono non
direttamente riconducibile al modello del già citato triangolo culinario,
elaborato sulla base di sistemi culinari privi della discriminante dell’uso dei
grassi. Come prospettato idealmente dall’antropologo, si potrebbe elaborare il
modello trasformando il triangolo in un tetraedro39 che costituirebbe uno
schema capace di esprimere almeno alcune delle più numerose variabili
presenti nei sistemi culinari moderni. Una proposta concreta di griglia ci viene
da Piero Ricci (1981b), che si propone di armonizzare gli studi e le proposte di
Lévi-Strauss (1968) con le diverse tecniche che compaiono nell’Artusi (ivi).
Vediamo che gli umidi vengono avvicinati al polo del putrido, ma vengono
a complicarsi nella classificazione per l’utilizzo di grassi in aggiunta al liquido
di cottura, nonché per la velocità di cottura. Ma veniamo al nostro caso della
cottura della trippa di coda di rospo e analizziamo le sue peculiarità: notiamo
la presenza di una cottura lenta ad immersione in acqua bollente (lessatura),
quindi una cottura nell’olio caldo a cui si aggiungono altri liquidi (brasatura).
La trippa di coda di rospo è prima di tutto lessata con sedano, carota e
cipolla. Come già spiegato prima, con la lessatura si ha una cottura mediata
dalla presenza dell’acqua come soggetto operatore, una cottura endogena in
opposizione a quella esogena tipica della cottura arrosto. La lessatura produce
una cottura omogenea del cibo immerso che provoca un parziale rilasciamento
dei suoi liquidi nell’acqua di cottura, la quale modifica il proprio stato
trasformandosi in brodo. I vari elementi introdotti nello spazio utopico della
39 Per una raffigurazione diversa del tetraedro culinario, cfr. Salvatore D’Onofrio (1992), che ne propone un utilizzo adattato alle tecniche della cucina siciliana.
pentola, ovvero l’acqua, la coda di rospo, la cipolla, il sedano e le carote,
subiscono quindi una trasformazione chimica fino all’ottenimento finale di
oggetti diversi: abbiamo la coda di rospo cotta, del brodo e delle verdure
private di parte delle loro sostanze nutritive .
La coda di rospo già culturalizzata in quanto cotta subisce ulteriori
modificazioni questa volta ad opera dell’artefice umano, che la taglia a
julienne in un’operazione manuale di sminuzzamento, e poi la mette a rosolare
con dei grassi (olio e lardo) e delle erbe aromatiche (che hanno subito un
intervento di de-naturalizzazione in quanto sono state triturate). Ora la cottura
non è più mediata dall’acqua ma avviene ad opera del fuoco, sebbene
permanga una seppur minore mediazione costituita dall’olio e dal lardo. Si
aggiunge poi del pomodoro fresco e dei liquidi che rendono questa cottura
mista, costituendo la classica cottura del “brasato”. Si fa sobbollire quindi per
venti minuti e si aggiunge infine del parmigiano (oggetto culturale in sé, con
una propria storia e un programma narrativo di costruzione). Questo metodo di
cottura fase dopo fase percorre il lato destro del tetraedro andandosi a
concentrare verso il polo del putrido (ben inteso, spogliato da ogni
connotazione negativa).
La trippa una volta cotta viene conservata in frigorifero: una macchina del
freddo o dell’anti-fuoco, come direbbe Isabella Brugo (1998), uno strumento
che riproduce una condizione di discontinuità bloccando il tempo e i processi
naturali di putrefazione. Al momento dell’ordinazione del piatto da parte del
cliente, il soggetto operatore tira fuori dal frigo quest’oggetto parziale di
valore e lo introduce nel forno a microonde per riscaldarlo. In opposizione al
frigo o ancor meglio al congelatore, il microonde può essere classificato come
una macchina del caldo che in un tempo di preparazione in-naturale e sintetico
opera un trapasso dal caldo al freddo, riproducendo una condizione di
“simultaneità, soglia minima del discontinuo” (Brugo, ivi).
1.1.4. (PN1) La preparazione della costoletta di rombo.
Il PN1 è relativo alla procedura di cottura più complessa e caratterizzata da
discontinuità. Essa viene portata a termine dall’inizio alla fine al momento
dell’ordinazione, sebbene per la sua preparazione comprenda l’utilizzo di
oggetti parziali prodotti in precedenza da soggetti umani delegati.
Il PN di taglio.
Si ha un primo passaggio da /crudo/ a /non-crudo/ attraverso le procedure di
taglio e sfilettamento del rombo, che richiedono delle operazioni abbastanza
complesse. Per mezzo di un coltello, il rombo intero viene privato della sua
forma naturale e caratteristica dalla quale ha ricevuto il nome per acquistare
una forma nuova e “culturale”, quella di una costoletta. Questa sua
conformazione le viene conferendo un trattamento differenziato ai due lati che
si costituiscono attraverso un’incisione longitudinale. Un lato viene sfilettato e
ciò che si ricava viene messo da parte per altre preparazioni. Quindi si rischia
via completamente la polpa dalla lisca. Con colpi netti trasversali percorrenti
tutta la sezione il pesce è infine tagliato in tranci, che prolungandosi al pezzo
di lisca del lato opposto e debitamente spellati assumono una forma analoga a
costolette.
Questa configurazione, corrispondente ad un taglio di carne e priva di un
corrispettivo nei tagli classici del pesce a causa della diversa morfologia,
produce nell’osservatore un effetto disorientante e di stupore. Secondo la
definizione data dall’Artusi (1891, p.26), la costoletta è “una braciola colla
costola, di vitella di latte, di agnello, di castrato e simili”. Una “costoletta di
rombo” probabilmente non si era mai vista; è una sorta di gioco simulatorio
che si basa sul principio dell’intervento manipolatorio sul cibo al fine di un
allontanamento dalla memoria collettiva. E’ una sfida ai tabù alimentari e alle
abitudini consolidate, un atto provocatorio che forse deve parte della sua
incisività al fatto di riferirsi ad un pesce che dalla sua forma ha tratto il suo
nome. L’idea di fare un taglio diverso è il principio base da cui è nato il piatto,
come riferisce Moreno Cedroni. Da qui attraverso prove, considerazioni ed
assaggi si è cercato di individuare i migliori abbinamenti possibili, valutare
ingredienti e cotture ideali per creare un equilibrio gustativo globale.
Fig.1-2 Il taglio del rombo.
Un PN aggiunto: la prezzemolata.
Prima della cottura la costoletta viene condita con sale e pepe, nonché
cosparsa di una prezzemolata, oggetto prodotto in un programma narrativo
anteriore proprio e completo, per opera di un soggetto umano delegato. Questo
PN annesso e aggiunto è costituito da un’operazione di triturazione attraverso
una macchina del freddo: degli elementi iniziali, prezzemolo, pancarrè
(oggetto culturale di per sé) ed aglio vengono sminuzzati e ridotti in un altro
oggetto proprio sufficientemente omogeneo e secco. La prezzemolata che si
ricava funge da rivestimento della costoletta e da mediazione fra il /crudo/ e il
/cotto/.
Il PN di cottura alla griglia.
La costoletta così ricoperta viene posta prima di tutto su una griglia molto
calda, ricevendo una cottura esogena che colora e secca l’esterno del pesce
senza far raggiungere un’alta temperatura all’interno. La costoletta viene
girata in tutti e quattro i lati cosicché da produrre una crosticina uniforme.
Il passaggio dal /non-crudo/ al /cotto/ è poi interrotto attraverso un processo
di raffreddamento che viene messo in atto in seguito a questa cottura. La
costoletta viene infatti messa alcuni minuti in frigo, come abbiamo detto una
macchina del freddo della discontinuità temporale, affinché il pesce non superi
la temperatura dalla quale inizia il rilasciamento dei liquidi.
Fig.3 La costoletta sulla piastra.
La cottura prosegue in padella antiaderente, in seguito ad un’ulteriore
panatura.
Un PN aggiunto: la panatura.
La pastella è oggetto che risulta da un PN proprio ed annesso. E’ costituita
da birra Peroni, farina, albume e rosmarino. La preparazione della pastella
reclama un fare culinario non delegato a fuoco o acqua bensì ad un soggetto
umano, il quale deve:
– PNa (d’uso): triturare oggetti solidi (rosmarino), ovvero dividere in minime
parti un elemento naturale intero;
– PNb: amalgamare oggetti solidi e liquidi unificando ciò che è diviso per
costruire un oggetto nuovo di stato intermedio (fluido) e colore modificato.
La pastella è costituita da un elemento liquido (birra), degli elementi solidi
(farina e il rosmarino triturato, oggetto parziale del PN precedente) e
coagulanti (albume). Il composto che risulta di consistenza morbida e cremosa
viene utilizzato per ricoprire la costoletta prima della cottura. Il suo scopo è
quello di proteggere la polpa interna della costoletta dal calore del fuoco con
cui viene a contatto.
Il PN della cottura in padella.
Segue un nuovo PN di cottura, in cui il soggetto umano delega i suoi poteri
al fuoco per l’operazione trasformativa culinaria. La costoletta viene posta a
cuocere con olio, rosmarino e aglio vestito in una padella che è stata portata a
temperatura elevata. La disposizione aspettuale di questo processo di cottura è
molto importante, come sottolinea il cuoco: la costoletta va infatti sistemata
sul fuoco al momento opportuno, “dopo una lunga attesa piena di tensione,
quando il calore dell’olio è talmente intenso da poter trasformare, bruscamente
ed istantaneamente, la superficie dell’oggetto in una volta dura e dorata”
(Marrone, 1997, p.190 della trad. it.). Ad alta temperatura e con l’olio bollente,
la pastella di birra si solidifica formando una sorta di strato isolante che va ad
aggiungersi alla crosticina formatasi con la cottura dello strato secco della
prezzemolata. Attraverso questa cottura veloce, intensa ed esogena, l’interno e
l’esterno del pesce subiscono l’aggressione del calore in maniera differenziata.
Il passaggio da /non crudo/ a /cotto/ non è quindi ancora portato a conclusione.
Fig.4 La cottura in padella.
Il PN della cottura in forno.
La cottura della costoletta viene portata a termine nel forno, per
irraggiamento. L’agente di cottura è quindi l’aria calda, che ha la proprietà di
conservare mediante concentrazione tutti i succhi degli elementi. L’agente
concentrante colpisce e inviluppa la costoletta scaldando il primo strato, i
succhi si ritirano verso il centro protetti dalla superficie secca. Il calore si
trasmette in successione agli altri strati e i succhi trattenuti dalla crosticina
esterna, non potendo fuoriuscire dal tessuto, si riscaldano essi stessi
contribuendo alla cottura. Ne risulta che la polpa all’interno risulta alla fine del
processo più umida e morbida rispetto alla parete superficiale.
Fig.5 Cottura della costoletta panata in forno.
Il passaggio dal crudo al cotto è quindi portato a termine, ma questa sua
felice conclusione è oggetto di verifica attraverso una sanzione cognitiva: il
soggetto umano infatti introduce nel forno all’interno della costoletta un
termometro da cucina con il quale verifica che la polpa abbia raggiunto la
temperatura di 50°, tacca che indica la cottura ideale della costoletta. Questo
momento interpretativo segna un punto di distacco con lo schema narrativo
canonico, pensato nel quadro di una semiotica del soggetto. In un caso come
questo in cui l’attenzione è focalizzata sul processo di costruzione di un
oggetto di valore, alla fine del processo non si giudica infatti tanto l’avvenuta
trasformazione di un soggetto-operatore quanto di un oggetto: è il piatto ad
essere riconosciuto quale unico vero eroe del gusto, portatore dei valori che il
codice gustativo gli fornisce e che un destinante attorializzato in forma
antropomorfa garantisce. In quest’ottica, possiamo concordare con l’opinione
di Piero Ricci (1981b), secondo cui la fase in cui il cuoco con l’assaggio o
altre forme di controllo determina se la pietanza da lui cucinata “è o non è un
ragù” (o nel nostro caso se è o non è una costoletta di rombo) corrisponde alla
prova qualificante della fiaba,”che marca l’eroe e gli conferisce un nome
proprio nella logica del racconto” (ivi, p.132).
Al termine dei rispettivi processi di cottura, i tre oggetti parziali O1, O2 e
O3 risultato dei corrispondenti programmi narrativi vengono combinati
assieme nel montaggio del piatto. L'assemblaggio non è comunque un
semplice accostamento dei vari elementi. Comprende un ulteriore aggiunta,
una sorta di vezzo che però è possibile collocare in un sistema di
significazione. Sul letto di erbe strascicate viene posta la costoletta di rombo
impanata contornata dalla trippa di coda di rospo e sovrastata da un pezzetto di
pelle di rombo affumicata e fritta.
La pelle di rombo.
Questa buccia croccante è un oggetto "culturalizzato" prodotto da un PN
aggiunto e indipendente proprio. La pelle del rombo è cotta in forno per
mezz’ora a 100° in modo da asciugarsi completamente. Tagliata a listarelle è
fritta nell'olio molto caldo in modo che risulti croccante. Questo tipo di cottura
la ravvicina molto al polo del cotto-affumicato, caratterizzata com'è da una
cottura atta a rendere l'alimento completamente ed omogeneamente secco. Vi
si può individuare una qualche analogia con le preparazioni della carne
essiccata frequenti nelle popolazioni studiate da Lévi-Strauss e da lui
ricondotte proprio al polo sopra indicato.
Si aggiunge inoltre una salsina di olio, limone e sale. Essendo
un'emulsione, è una sostanza che esalta le differenze, creando delle
opposizioni con gli elementi internamente omogenei circostanti. E' inoltre un
elemento trasparente, in contrasto con l'opacità della costoletta, un elemento
crudo ed umido (liquido) in opposizione agli elementi secchi.
Fig.6 Il piatto finito e montato.
1.1.4. Le cotture.
Per concludere questa sezione d’analisi in cui fra le altre cose si è discusso
sulle diverse tecniche di preparazione alla base del nostro piatto, ritengo utile
schematizzare in una tabella le diverse nature delle cotture effettuate fase dopo
fase in ognuna delle componenti principali.
Componenti Tecnica Elementi Esog./End.
alla griglia (+prezzemolata)
+aria esogena
saltata in padella (+panatura)
+olio esogena
(PN1) COTTURA COSTOLETTA DI ROMBO
arrosto al forno
+aria esogena
lessate +acqua endogena (PN2) COTTURA ERBE DI CAMPO
saltate in padella
+olio esogena
(PN3) COTTURA TRIPPA DI CODA DI ROSPO
lessata +acqua endogena
Come si deduce dallo schema, è possibile ricondurre i tre componenti a
diversi poli nell’opposizione di base tra natura endogena ed esogena delle
cottura. La costoletta di rombo, cotta alla griglia dopo esser stata rivestita da
una prezzemolata, saltata in padella previa panatura e quindi arrostita in forno
implica in tutte le fasi delle modalità di cottura esogene, caratterizzate da un
passaggio del calore dall’esterno verso l’interno e da una conseguente
difformità fra il livello di cottura della superficie e della polpa della pietanza.
La trippa di coda di rospo all’opposto si concentra verso il polo delle tecniche
endogene, poiché, nella lessatura prima e nella cottura in umido poi, il calore
proveniente dall’interno fa sì che il cibo non risulti alla fine più secco
all’esterno e più crudo all’interno. Le erbe di campo, lessate e strascinate in
padella, si collocano da questo punto di vista in una posizione intermedia,
prevedendo una commistione fra una tecnica endogena ed una esogena, e
andando quindi ad equilibrare le opposte tendenze seguite dalle altre
componenti del piatto.
Vorrei proporre un’ulteriore classificazione delle tecniche che tiene conto
del quarto elemento ideale del piatto, ovvero la pelle di rombo essiccata e
fritta. Sebbene la sua funzione sia principalmente decorativa e tattile (creando
un contrasto grazie alla sua croccantezza), essa può giocare un ruolo
importante nelle strutture differenziali immanenti ai metodi di cottura.
Prendendo in considerazione la già citata griglia proposta da Ricci (1981b) in
forma di tetraedro, vediamo che le preparazioni dei quattro oggetti parziali
vanno a coprire e completare essenzialmente tutte le principali aree della
figura:
Sul lato destro dall’alto troviamo le erbe di campo bollite brevemente in acqua
e strascinate con un po’ dell’olio in modo da mantenersi ad uno stadio quasi-
crudo, più in basso individuiamo la trippa di coda di rospo lessata e cotta a
lungo in umido fino a portarsi ad uno stadio molto cotto (quasi putrido). Sul
lato sinistro incontriamo la costoletta di rombo che attraverso le sue complesse
fasi percorre pressoché tutta l’area superiore, e chiudiamo l’intera figura
esplorando l’area inferiore coperta dalla pelle di rombo essiccata e fritta,
prossima al polo del cotto affumicato.
1.2. Assaporando parole. Giochi linguistici nel nome del piatto.
Così come un titolo può essere considerato parte di un’opera, il nome dato
ad un piatto è parte integrante dell’oggetto culinario, da cui la sua rilevanza in
un’indagine delle sue strutture formali e dei suoi effetti di senso. Nel caso
specifico inoltre, un’analisi semantica del nome può rilevare un supplementare
interesse in quanto tutta la complessità e l’originalità dell’idea alla base del
piatto è espressa nelle peculiari (e quasi idiolettali) scelte linguistiche adottate
dall’autore.
Il nome completo del titolo è: "costoletta di rombo panata nella birra chiara,
con erbe strascicate e trippa di coda di rospo". Ad un livello intertestuale, pare
opportuno rilevare che lo stile iperrealista e bucolico del titolo corrisponde a
quello attualmente in voga nei menù dei grandi ristoratori a partire dalle
innovazioni nel gergo culinario apportate dalla nouvelle cuisine, di riflesso agli
scossoni perpetrati alle fondamenta della cucina classica. Un piatto come la
"scaloppa di salmone all'acetosella" dei fratelli Troisgrois, dal nome essenziale
ma preciso, e costituito semplicemente da una fettina di salmone fresco cotta
appena quaranta secondi, una salsa leggera a base riduzione di aromi e foglie
di acetosella, si contrappone per esempio ad una pietanza classica come
"l'aragosta à la Thermidor". Questo piatto dalla nomenclatura tronfia prevede
l'uso di una salsa composta (la Mornay), la quale occulta il sapore
dell'aragosta. In un'opposizione come questa che coinvolge il piano delle
denominazioni così come quello delle operazioni culinarie si può riconoscere
nell'innovazione dei sacerdoti della nouvelle cuisine lo svolgersi di
un'operazione sintattica sul sistema dei valori soggiacenti, ove l'aspetto
manipolatorio dell'arte culinaria viene rifiutato in favore di un avvicinamento
alla vera natura dei cibi.
Fatta propria ed elaborata la lezione stilistica della nuova cucina, il
linguaggio della càrte di Moreno Cedroni combina il realismo dei dettagli su
componenti e cotture con un uso massiccio di figure retoriche, frutto di un'alta
inventiva e specchio di un approccio ludico all'arte culinaria. Nel menù
troviamo per esempio delle “cappesante fritte in tempura al nero di seppia con
vongole, zucchine e paranzola croccante” o una “porchetta di tonno con
vinaigrette con fagiolini e patate e spuma al finocchio selvatico”. Il nome del
piatto in questione non è certamente da meno. Incontriamo i primi tropi già
con l’espressione /costoletta di rombo/, nella quale possiamo considerare i due
lessemi /costoletta/ e /rombo/. Adottando una prospettiva non completamente
aderente a quella greimasiana finora privilegiata, può essere interessante
seguire il pensiero di Eco e provare a ripercorrere il percorso che il Lettore
modello (in questo caso degustatore a venire) compie quando si trova di fronte
a queste espressioni. Sulla base del topic (qui si descrive un piatto culinario) e
del co-testo (Eco, 1979), egli mette in opera dei processi di amalgama
confrontando questi lessemi con il sistema di codici e sottocodici provvisti
dalla lingua in cui sono scritti e dalla competenza enciclopedica a cui essa
rinvia. Alcune proprietà dei sememi corrispondenti saranno quindi magnificate
e tenute presente nel corso della decodifica, mentre altre verranno tenute sotto
narcosi.
Sappiamo per esempio dal dizionario che la costoletta è un taglio di carne
prossima alla costola, e che il rombo in questa selezione contestuale non è un
rumore ma un pesce piatto. Naturalmente possiamo avere in mente altre cose,
come che il rombo è un pesce pregiato, che prende il nome dalla sua forma,
che è noto in cucina fin dall'antichità ed è citato perfino in una satira di
Giovenale. Richiamando la nostra conoscenza sui pesci, la selezione
contestuale magnifica la proprietà dei pesci di non avere costole.
Ne ricaviamo che il lessema /costoletta/ dev'essere stato usato in senso
traslato, per trasporto di natura o proprietà sensibili. Siamo incorsi quindi in
una metafora, o meglio una proposta catacresica, nella quale si inventa nuovo
termine utilizzandone due già noti (/costoletta/, /rombo/) e presupponendone
uno inespresso (quest'oggetto inedito) (Eco, 1984). Tra le virtualità dei lessemi
/costoletta/ e /rombo/ richiamate dal contesto culinario individuiamo due semi
incompatibili, rispettivamente uno di /animalità terrestre/ e l’altro di /animalità
marina/ che subiscono sorte diversa nella realizzazione sulla base della
manifestazione lineare. /Rombo/ è collocato in una posizione dominante sul
piano sintagmatico poiché segue la preposizione /di/: può quindi realizzare il
sema (classema) di /animalità marina/ mentre /costoletta/ neutralizzerà il sema
inerente40 /animalità terrestre/ e renderà salienti altri semi, presumibilmente
esterocettivi.
Leggiamo dal proseguo del titolo che la /costoletta/ è /panata nella birra
chiara/; il nostro lettore modello è supposto sapere che il procedimento della
panatura è un passaggio obbligato nelle principali preparazioni classiche delle
costolette di vitello. Sulla base del contesto (o del co-testo nell’accezione di
Eco nel Lector in Fabula), il semema in cui si manifesta e si realizza la
40 Per usare il termine di Rastier, riportato in Pozzato (2001).
virtualità semantica del lessema /costoletta/ sarà costituito da una
combinazione semica del tipo /solidità+spigolosità+con protuberanza + uso a
cottura etc./ (Marsciani; Zinna, 1991).
Qualcosa di parallelo avviene anche nell'ultima parte del titolo
nell’espressione /trippa di coda di rospo/. Anche qui dobbiamo ricorrere alle
conoscenze enciclopediche per sapere che la trippa in un contesto culinario è
un taglio di carne, una parte dello stomaco dei bovini macellati. Fra le altre
cose, abbiamo cognizione che si cuoce e si condisce in vari modi, costituendo
un piatto di cucina popolare. Per quanto riguarda la /coda di rospo/, sappiamo
che in cucina è meglio conosciuta con questo nome la rana pescatrice, un
grosso pesce dall'aspetto un po' mostruoso del quale non si utilizza l’enorme
testa. Anche /coda/ e /rospo/ sono usati in senso traslato ma possiamo limitarci
ad analizzarli assemblati come lessia.
Come nel caso precedente, /trippa/ e /coda di rospo/ richiamano
virtualmente i semi inerenti rispettivamente di /animalità terrestre/ e di
/animalità marina/. Ancora una volta, causa pressione del co-testo sull'asse
sintagmatico al momento della degustazione ci aspetteremo del pesce e non
della carne, con la conseguente neutralizzazione di quest’ultimo sema. La coda
di rospo presenterà qualche analogia con la trippa, presumibilmente ne
condividerà l'aspetto esteriore o la cottura.
Sulla base di quanto è stato rilevato finora, all'interno di una generale
isotopia alimentare cui rinvia nel complesso il titolo è possibile ravvisare nel
testo in esame una serie di isotopie seconde parzialmente sovrapponibili.
Innanzitutto, sulla base delle considerazioni di Greimas (1966), l'iteratività
delle denominazioni figurative (come "costoletta di rombo", "trippa di coda di
rospo", che potrebbe far ricondurre il testo in esame ad una comunicazione
poetica) può portare all'individuazione di un'isotopia complessa sulla base alla
categoria classematica animalità terrestre/animalità marina. In accordo con
quanto espresso in Semantica strutturale, torna utile creare una distinzione tra
il piano manifesto e pratico, generalmente il solo esplorato dalle analisi livello
semantiche, ed un secondo piano latente e mitico, rilevante soprattutto ma non
esclusivamente in poesia. Se come suggerisce Greimas (ivi) per riferirci a
questi due livelli utilizziamo operativamente e rispettivamente i termini testo e
metatesto, ritroviamo che nelle metafore sopracitate il classema "animalità
ittica" stabilisce l'isotopia positiva che si manifesta nel testo, mentre il
classema "animalità terrestre" determina l'isotopia negativa relativa al
metatesto.
animalità ittica positivo
? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ?
animalità terrestre negativo
In questo senso assumiamo totalmente il termine di animalità terrestre, e
parzialmente (ma a livello poetico in modo determinante) quello di animalità
marina (Greimas, Courtés, 1979).
A livello figurativo, si potrebbero individuare anche una serie di campi
semantici riferibili a piani isotopi parzialmente sovrapposti all'isotopia
descritta. Ad esempio possiamo rintraccia un'opposizione semantica /mondo
rurale/ vs /mondo ittico/, ove riconduciamo al primo termine "erbe di campo",
"trippa", "costoletta di x panata" e al secondo "rombo", "coda di rospo".
Essendo inoltre questi ultimi ingredienti dei pesci bianchi pregiati, potremmo
individuare un'altra coppia di valori semantici, /cucina raffinata/ vs /cucina
povera/ (quest'ultima rappresentata da "trippa" ed "erbe di campo"), che può
rinviare ad un'isotopia tematica.
Ritorniamo però all'isotopia complessa relativa alla natura animale: la sua
iscrizione nel discorso infatti può essere associata ad un posizionamento
particolare sul quadrato di veridizione, nel quale possiamo iscrivere due valori
semantici, /carne/ vs /pesce/, alla base della costruzione e della presentazione
del piatto.
Le rappresentazioni possibili sono due, a seconda della focalizzazione su
uno o l'altro dei valori. Riportiamo quello che presuppone un osservatore che
porge la sua attenzione sull'aspetto esteriore del piatto, alla base di una ricetta
come questa.
Siamo in presenza di un gioco di mascheramento, dove il pesce assume le
sembianze di carne, alla quale semanticamente si oppone. La carne è collocata
sul piano dell’apparire e il pesce su quello dell’essere. La costoletta di rombo
sembra carne ma non lo è, ponendosi quindi su un piano di menzogna
(Greimas, 1983) manifesta ed accettata attraverso adesione al gioco, mentre
secondo un'altra prospettiva potremmo dire che è pesce anche se non lo
sembra (focalizzandosi sul piano dell'essere sarebbe quindi un segreto).
Appare opportuno notare che al di là dell'ambiguità apparente delle nature la
configurazione del piatto risulta d'altro canto assolutamente veritiera sulle
trasformazioni e le operazioni effettuate sui cibi: il rombo è infatti veramente
panato e cotto (con qualche variante) come nella ricetta tradizionale della
costoletta di vitello, e il termine "trippa" svela e rende manifesta l'adozione di
una tecnica analoga a quella usata per la carne nella cucina popolare.
1.3. L’esthesis culinaria. Il momento della degustazione.
L’oggetto di gusto giudicato “pronto” (e quindi sanzionato una prima volta)
dal soggetto-creatore (lo chef) viene servito in tavola al cliente che lo
desiderava e se ne può congiungere. E’ quest’ultimo a decretare il
superamento effettivo della prova principale esercitando il diritto di sanzione
del piatto, secondo la logica del contratto fiduciario alla base dell'esercizio
della ristorazione. Questo soggetto di stato (che chiameremo soggetto-
degustatore) esercita il suo giudizio di gusto in una determinazione aspettuale
tendenzialmente terminativa, in quanto deve riconoscere l’avvenuta
valorizzazione dell’oggetto alla conclusione del processo culinario. Secondo
Piero Ricci (1981b), con le debite differenziazioni già evidenziate, si realizza
in questa fase l’equivalente della prova principale della fiaba e.con il parlare
della portata l’omologo della prova glorificante.
In questo momento in cui soggetto e oggetto, cliente e piatto stanno uno di
fronte all’altro, perdono di pertinenza (almeno fino ad un certo punto e in una
certa misura) “le catene di presupposizioni semio-narrative che fanno di
questo luogo della significazione, e di questo percorso di produzione un
programma d’uso in vista di un programma di base distinto” (Marsciani, 1997,
p.36 della trad. it.). A diversi livelli di distanza a seconda degli organi di senso
attivati può esercitarsi una sanzione positiva o negativa del piatto,
determinando con le parole di Fiorin (1997, p.26 della trad. it.) “la legittimità o
l’illegittimità del gusto”.
Per esemplificare un caso infausto al grado di distanza più alto, un cliente
può rifiutare una portata al momento in cui essa gli viene servita perché la
giudica nell’aspetto non corrispondente alla descrizione che compare nel
menù, in quanto compaiono ingredienti diversi da quelli selezionati attraverso
la scelta del piatto.
In questa situazione l'oggetto di valore viene misconosciuto e il soggetto
giudicante colloca il piatto che gli è stato portato in una posizione di falsità nel
quadrato di veridizione: l'oggetto non-sembra (questo giudizio infatti si ha
all'apparire) e non-è nell’ottica di questo attore quello che è stato dato per vero
da chi ha servito il piatto. Si trova quindi davanti ad un non-valore e si ha una
“sospensione della trasformazione” messa in atto nel processo di scambio
(Greimas, 1983, p.40 della trad. it.).
In assenza del verificarsi di un caso limite come questo, l’oggetto di gusto
viene accettato nel suo statuto valoriale e può portarsi a compimento il
fenomeno della sensibilizzazione dell’inerenza reciproca tra soggetto e
oggetto. Siamo di fronte ad un’esperienza estesica, in cui centrale è la
percezione sensoriale e dove il soggetto è collocabile in una posizione di
ricettività, posizione intermedia in una scala di modulazioni della soggettività
(Pozzato, 2001, p.165).
Il degustatore in un modello canonico si avvicina progressivamente al
piatto, esercitando un giudizio di gusto prima a distanza con la vista e con
l’olfatto, poi in un punto di liason attraverso una percezione tattile della
consistenza (in un primo momento mediata da uno strumento come la
forchetta) e quindi in congiunzione nell’introiezione dell’oggetto che si ha
nell’assaggio (Greimas, 1987). Il processo di degustazione nella sua interezza
comporta però una percezione di natura essenzialmente sincretica, in quanto
gli organi di senso intervengono simultaneamente e in interazione fra loro.
In questa fase il cliente potrà produrre una sanzione sensibile del piatto,
sulla base di una esthesis che si scinde in una dimensione propriamente
estetica della fruizione dei valori appresi sul piano figurativo “di superficie”,
ed in una dimensione più “profonda” e primitiva, che spiega il carattere
euforico o disforico delle sensazioni (Landowski, 1997). L’assaggiatore della
costoletta di rombo proverà quindi una sensazione euforica (o disforica) alla
visione del piatto presentato in tavola, nel percepirne gli aromi e
nell’affondarvi la forchetta, nel gustarne il sapore.
Dalla giudizio estesico prende le mosse un giudizio cognitivo (o razionale),
dove c’è un soggetto degustatore razionale incaricato di valutare ciò che gli
organi di senso registrano. E’ in questa fase che vengono riconosciute le
componenti dei piatti attraverso un processo di discernimento
dell’indifferenziato e di denominazione degli elementi. Il degustatore del
nostro piatto avrà un’esperienza estetico-gustativa completa, in cui proverà
euforia (o disforia) di fronte al gioco del mascheramento delle forme del
rombo, nel ravvisare l’equilibrio fra l’amaro delle erbe e il dolciastro del sugo,
nel percepire i contrasti fra la croccantezza della pelle fritta e la morbida
consistenza della coda di rospo.
Gli stati euforici che si possono raggiungere nella degustazione dipendono
direttamente dalle caratteristiche strutturali interne che definiscono il piatto
(sulla base di proprietà organolettiche di ingredienti e trasformazioni chimiche
operate dalle cotture), ma l’attualizzazione di un effetto di senso particolare
rimanda ad altri parametri di natura soggettuale (per usare il termine di
Landowski) e sociale.
Il giudizio di gusto sulla costoletta di rombo dipende essenzialmente dal
punto di vista e dallo stato del soggetto nel momento in cui si pone in
relazione con l’oggetto. E’ determinante in questo campo la dimensione
aspettuale data dalla memoria gustativa: a seconda che qualcuno percepisca
un gioco formale, esplori la consistenza e assapori i contrasti gustativi di un
piatto per la prima volta oppure che già li conosca e li abbia iterativamente
conosciuti, è possibile che nel primo caso trovi quel cibo “delizioso” perché
gli ha fatto scoprire nuove sensazioni, mentre nel secondo stemperi (o perfino
ribalti) la positività del giudizio perché si è esaurito l’incanto del nuovo.
Naturalmente ciò non significa che si sia esaurito l’incanto dell’oggetto in sé,
supponendo nell’ipotesi che esso sia rimasto lo stesso, “ma quello delle
sensazioni che gli corrispondono, già sperimentate fino alla sazietà in
occasioni di precedenti degustazioni” (Landowski, 1997, p. 108 della trad. it.).
Del resto può accadere anche l’opposto, ovvero un piatto può produrre
sentimenti euforici perché reiterando emozioni gustative già sperimentate
evoca e presentifica un luogo antropologico fatto di memorie, storie e affetti
(Teti, 1999). In questo caso, il processo di degustazione che possiede come
abbiamo visto una modulazione aspettuale terminativa (relativamente al
programma di produzione) ma anche una dimensione durativa (nel persistere
delle sensazioni gustative in bocca), è capace di aprire il mondo del ricordo,
“caratterizzato da una sorta di densità, durativo temporalmente ed esteso e
compatto spazialmente” (Grignaffini, 1997, p.223 della trad. it). E’ questo un
mondo noto alla letteratura, e forse l’esempio più noto e citato sono i
riferimenti nostalgici alla madeleine nella Recherche proustiana.
Già dall’esame di questi aspetti emerge la rilevanza nel giudizio di gusto di
una dimensione collettiva di valutazione, che si aggiunge a quella più
individuale e soggettiva. Sulla valenza propriamente sociale del gusto si
sofferma fra gli altri Greimas (1987), che sottolinea come la configurazione
sensibile di un oggetto vada investita da valori collettivi: “sebbene il sapore sia
avvertito nell’intimità della bocca, ci si chiede come sia possibile che la
comprensione del gusto tenda a generalizzarsi e ad intellettualizzarsi” (p.53
della trad. it.).
Le forme naturali manifestate dall’oggetto di gusto sono coniugate a
determinate forme culturali, e nel sottoporlo a giudizio vengono esplorate
relazioni e corrispondenze andando oltre i confini dell’estetica per coinvolgere
dimensioni quali quella etica ed epistemica (delle quali, per inciso, Greimas
intende ricostruire un’assiologia).
La pratica di degustazione si rileva quindi un processo significante che
coinvolge una dimensione estetica ed una cognitiva, una più legata alla
percezione individuale e una di natura prevalentemente sociale. Implica degli
effetti patemici e delle operazioni di discernimento, categorizzazione e
assiologizzazione di valori. Il soggetto implicito in questo processo non può
essere naturalmente un consumatore-sonnambulo di cibo41: sarà infatti un
consumatore-gourmet, capace di semantizzare il proprio consumo, identificare
elementi ed effetti gustativi, riconoscere la qualità sinestetica del piacere
offerto dal cibo degustato.
Secondo l’opinione di Landowski (1997), dobbiamo inoltre discernere due
modalità di esercizio del gusto, che individuano tipologie di soggetti e processi
distinti. Esiste in primo luogo un gusto oggettuale di godere il mondo, dove un
soggetto si colloca nella posizione di un consumatore disposto a valutare le
qualità degli oggetti e possibilmente a goderne. Questa modalità tende a
ridurre il mondo a corpi senz’anima. In secondo luogo esiste un secondo modo
di relazionarsi al mondo, apparentemente molto vicino e somigliante al primo,
ma che non si confonde con esso: il fruire gli oggetti. La “condizione iniziale
per ciò che riguarda l’attualizzazione di questa forma di piacere è che il
potenziale ‘fruitore’, S2, sappia riconoscere, o costruire, la realtà esterna, S1,
in quanto spazio popolato da presenze sensibili che producano significato,
vale a dire da soggetti” (ivi, p.117 della trad. it.). Questi possono manifestarsi
quasi indifferentemente sotto forma di esseri umani o di cose, ma la
condizione che le rende istanze pronte ad interagire esteticamente ed
esteticamente con S2 è costituita dal fatto che quest’ultimo entrandone in
relazione “sia disposto a considerarli proprio come attanti pienamente
competenti” (ivi, p.118 della trad. it).
Come un enunciato presuppone e costruisce un enunciatario, così la
costoletta di rombo presuppone e costruisce un certo tipo di degustatore. Come
propone Floch (1997) a livello ideale nello studio sulla birra e come mette in
opera nell’analisi di un piatto di Michel Bras (Floch, 1995a), potremmo
accostarci alla creazione di Cedroni non solo come oggetto di valore culturale,
bensì come un autentico enunciato gustativo. Nella parte che segue andremo a
considerare la costoletta di rombo nella sua natura di “piatto reale” costruito e
pronto per essere consumato e gustato, e non nelle sue fasi di costruzione,
concependolo come un vero e proprio racconto, dove i componenti del piatto
si rivelano soggetti agiti e soggetti agenti.
1.4. Analisi del piatto.
41 Per usare un’espressione applicata a questo campo da Floch (1997) a modello della sua
più famosa classificazione dei viaggiatori di metrò (Floch, 1990).
1.4.1. Strutture dei sapori e universi culinari.
Dopo aver analizzato su un piano semio-narrativo il momento della
produzione del piatto attraverso la griglia concettuale del processo di
creazione di un oggetto di valore, ed aver esplorato più astrattamente il
momento di sanzione e fruizione dello stesso da parte di un soggetto-
degustatore, possiamo focalizzare la nostra attenzione sul piatto finito.
Traendo ispirazione dalla metodologia seguita da Floch (1995a) nella sua
analisi della “spigola al finocchietto”, il nostro livello di pertinenza sarà
costituito dalle qualità sensoriali e materiche dei componenti del piatto, così
come degli effetti di senso correlati, nella degustazione, a queste qualità.
Il piatto nel suo complesso è strutturato in sezioni rappresentate da
ingredienti diversi che subiscono ognuno una propria preparazione e cottura.
Le componenti si stagliano contribuendo ad un gioco di contrasti nei gusti e
nella consistenza. La cucina di Moreno Cedroni verrebbe probabilmente
definita secondo la terminologia adottata da Marchesi “timbrica”, aggettivo
mutuato dalla pittura dove compare nella sua natura complementare a
“tonale”. E’ timbrica la tecnica di preparazione grazie alla quale i sapori
giungono distinti al palato. E’ tonale invece la cucina dove “i sapori sono
amalgamati per dar vita ad un unico motivo conduttore” (Marchesi, 1988b). A
quest'ultima tipologia di cottura possiamo ricondurre la cucina europea
classica e popolare, di cui un piatto particolarmente rappresentativo è il
brasato, dove la carne sottoposta a cottura dolce scambia con l’elemento
liquido (vino, brodo, o altro) succhi e umori con gli aromi. Si opera in questo
caso una miscelazione di sapori al fine di restituire, seppure in un variegarsi di
sfumature, un unico effetto. Come scrive Marchesi, al termine del progressivo
scambio di elementi nel processo della brasatura, “la carne e la salsa
diverranno sottili variazioni su uno stesso tema” (ivi, p.65).
Diversamente, nel piatto di Cedroni la preparazione culinaria gioca sulla
struttura di sapori accostati e coordinati insieme garantendo che ogni
componente venga valorizzato ed esaltato nella sua specificità attribuendogli
un trattamento peculiare. Come auspicato dai sacerdoti della nouvelle cuisine,
abbiamo un cuoco interprete dell’essenza delle cose che adotta le tecniche e i
tempi di cottura più adatti alle caratteristiche organolettiche degli ingredienti,
con un occhio di riguardo alla loro unione nella composizione. Segue
quest'ultima principi di conciliazione di elementi contrastanti variamente
disposti su strutture oppositive: un singolo elemento che assaggiato da solo
può creare squilibrio e aspettualizzarsi in una delle forme dell’eccesso (es. se
domina l’amaro) combinandosi con un altro ingrediente accentuato verso un
altro polo può produrre un effetto di equilibrio gustativo composito. Possiamo
ricondurre questo stile culinario a quella che Ferraro (1998) definisce una
“cucina di distinzione di indirizzo combinatorio e strutturale, che gioca
sull’unione di elementi opposti”.
Come ha fatto Floch nell’analisi della “spigola al finocchio selvatico”,
possiamo in primo luogo andare ad esplorare la dimensione concettuale dei
componenti del nostro piatto e la loro collocazione nell’universo culinario in
generale, e di Moreno Cedroni in particolare. Consideriamo innanzitutto i due
elementi di contorno all’elemento centrale: la costoletta. Abbiamo le erbe di
campo, vegetali spontanei, un ingrediente che richiama ad una natura
incontaminata, preservata da trasformazioni ed condizionamenti umani.
Essendo il risultato di un intervento minimo dell'uomo, sono accostabili ad una
dimensione naturale piuttosto che culturale, o corrispondentemente a termine
del selvatico invece che dell'elaborato.
Abbiamo poi la trippa di coda di rospo, un elemento legato alla cultura,
essendo stato oggetto di successive operazioni da parte di un artefice umano.
La sua preparazione piuttosto lunga e complessa ha necessitato infatti di
operazioni di taglio e cotture prolungate, con l’aggiunta di altri elementi fra
cui il parmigiano, prodotto in questo senso dotato di uno statuto culturale. La
cottura mutuata dalla trippa di vitello è inoltre una ricetta classica della cucina
contadina, appartenente quindi al bagaglio di conoscenze della cultura
popolare. Sulla base di queste considerazioni, possiamo affermare che le erbe
di campo strascinate si oppongono semanticamente alla trippa di coda di rospo
all'interno della categoria /natura vs cultura/.
Le erbe inoltre evocano il mondo vegetale, mentre la trippa di coda di rospo
analogamente alla costoletta di rombo richiama il mondo ittico per le proprietà
materiche e il mondo carnivoro per configurazione sensoriale e tecnica di
preparazione. Nella loro combinazione perciò occupano i tre poli di un
immaginario triangolo che rappresenti le tre nature primarie del micro-
universo culinario: vegetali, pesce e carne (ove solo le primi due però sono
realizzate).
L'elemento dominante del piatto, ovvero la costoletta di rombo, va
ricondotto analogamente alla trippa al termine della cultura, in quanto ha
subito numerose elaborazioni e trasformazioni, e nell’artificio della forma ha il
suo perno. Queste componenti sono inoltre accomunate dal gioco del
mascheramento pesce/carne, nonché dal contrasto fra l’uso di prodotti ittici
pregiati e tecniche tipiche della cucina povera tradizionale.
Attraverso uno schema è possibile evidenziare uno spettro di categorie
semantiche che avvicinano costoletta e trippa di coda di rospo e oppongono le
stesse alle erbe di campo strascinate.
Livello mitico.
Costoletta di rombo & Trippa di coda di rospo
Erbe di campo strascinate
mondo animale vs mondo vegetale
sembianza carne/natura pesce vs sembianza natura = vegetale
elaborato vs selvatico
cultura vs natura
tecnica popolare vs
+ prodotto pregiato
tecnica popolare
+ prodotto povero
Il sistema di opposizioni appena delineato rivela molte cose sul discorso
culinario prodotto dell’enunciatore, ovvero dallo chef-creatore del piatto.
Trippa, erbe e costoletta, gli eroi culinari del nostro racconto, parlano di una
cucina ingegnosa, ludica e sorprendente, che gioca ai travestimenti ma senza
camuffamenti rivela la vera essenza degli ingredienti, evitando condimenti
eccessivi e salse coprenti. E’ una cucina che evoca ed assimila le ricette della
tradizione (come la trippa e la costoletta panata) ma le reinterpreta in chiave
nuova e personale, trasponendole a contesti gastronomici differenti, lasciando
così riconoscere la cifra interpretativa dell’autore. I caratteri di questi attori del
gusto sono espressione di uno stile altamente creativo, proprio di un artista che
vuole stupire ed ammaliare, che richiama e sfida la memoria gustativa,
rifiutando i trinceramenti dell’haute cuisine e allontanandosi dalle forme
archetipe acquisite. Potremmo forse definire l’arte di Moreno Cedroni così
come viene espressa da questo piatto una cucina del dialogo e della
conciliazione ironica, ove si ha un’interpolazione di ingredienti e tecniche
della cucina alta e popolare, e dove cultura e natura dialogano e si
confrontano, senza che nessuna di essa soccomba.
Se volessimo posizionare in un quadrato le valorizzazioni espresse dal
piatto in esame nell’ambito della categoria cultura/natura mettendolo a
confronto con quelle espresse dai piatti della cucina classica e dei fratelli
Trosgrois precedentemente citati, il sistema delineato potrebbe apparire
approssimativamente in questo modo:
Sul lato sinistro dovremmo porre “l’aragosta à la Thermidor”, prodotto di
una trasformazione culinaria che facendo uso di salse coprenti rischia di
“snaturare” gli ingredienti. A destra potremmo collocare “la scaloppa di
salmone all’acetosella”, in cui si rifiuta ogni eccessivo artificio attraverso
cotture semplici e brevi che mirano a cercare un contatto con l’essenza degli
ingredienti. “La costoletta di rombo” realizza invece una conciliazione fra
natura e cultura (spingendosi un po’ di più verso questo valore), in quanto da
un lato realizza notevoli processi manipolatori, richiama e gioca con le
tradizioni culinarie, dall’altro rispetta e valorizza i prodotti della natura
attraverso cotture non eccessive e adeguate alle loro caratteristiche
organolettiche.
1.4.2. Unità ed attori del gusto.
Passiamo ora al piano dei rapporti e degli effetti di gusto, ovvero l'ambito
più determinante dell'arte culinaria. Sebbene infatti lo chef-creatore presti
attenzione anche agli effetti registrati dagli altri organi di senso,
nell'invenzione di un nuovo piatto si propone innanzitutto di esplorare
sfumature di gusto e abbinamenti insoliti o dimenticati, applicando la propria
personale idea della struttura compositiva degli elementi del gusto.
Fra gli altri, antropologi come Lévi-Strauss e Mary Douglas sono andati ad
indagare i fattori discriminanti del gusto, proponendosi di individuare le unità
minime del sistema culinario, equivalenti in ambito semiotico ai tratti semici
del gusto, per i quali è stato coniato il temine di "gustemi". A causa delle
caratteristiche fisiche degli organi preposti alla degustazione, questi elementi
sono riconosciuti in numero molto ristretto nonché legati ad altri ordini
sensoriali, in primo luogo olfatto e tatto. Secondo Luz Pessoa de Barros
(1997), i tratti si organizzano secondo differenti e in genere sinestetiche
categorie gustative (come dolce vs amaro, salato vs dolce, piccante vs dolce)
che creano diversi sistemi di opposizioni e che possono essere combinati ad
esempio conciliando i contrari, come nell'agrodolce frequente nella cucina
cinese, oppure fondendo i contraddittori (es. salato e non salato), o ancora
esplorando le deissi (es. dolce e non acido).
In una prospettiva più comune, all'interno della cultura Occidentale si
riconosce invece la presenza di quattro unità basilari del gusto (acido, dolce,
salato, amaro) che vanno accostati e regolati in modo da produrre un equilibrio
gustativo globale. Nell'opinione di Moreno Cedroni, il piatto più sconvolgente
ed emozionante del mondo è quello dove tutti i quattro elementi gustativi sono
presenti e bilanciati allo stesso tempo, cosicché tutte le papille gustative siano
eccitate. Le sue creazioni nascono a volte da intuizioni di innovazioni formali
o da barlumi sull'effetto di un accoppiamento insolito fra ingredienti, ma poi
per la costruzione del piatto nella sua completezza si avanza per tentativi ed
errori sperimentando combinazioni equilibrative per ottenere l'appagamento
totale del palato. Come sostiene nel suo libro lo chef di Senigallia (Cedroni,
2001), per raggiungere tale risultato è essenziale la regolazione della sapidità e
dell'acidità del piatto.
Venendo al nostro caso specifico, possiamo individuare le performanze dei
diversi attori del gusto, che si incontrano e scontrano nel racconto culinario.
Abbiamo in primo luogo la costoletta di rombo che è dotata di una delicata
sapidità ed una componente di untuosità, conseguenza della cottura in olio
avvolta nella pastella. Ad essa si oppongono le erbe di campo strascinate,
vegetali dal tenore amarognolo e dall'effetto astringente che ben compensano
la grassezza della pietanza centrale. Infine incontriamo la trippa di coda di
rospo, che conferisce una persistente sapidità anche grazie al parmigiano,
nonché aggiunge una leggera nota dolciastra e la necessaria componente di
acidità attraverso i pomodori (eventualmente accompagnati da una buccia di
limone), regolando così l'equilibrio gustativo del piatto.
Livello gustativo.
Costoletta di rombo Erbe di campo
Strascinate
Trippa di coda di rospo
sapidità delicata del
pesce ? (? )?
? ? ? ? ?
sapidità persistente del
parmigiano e del sugo
untuosità della
panatura ? vs ?
astringente (? )?
amaro ? vs?
acido e
zuccherino dei pomodori
1.4.3. I sapori a contatto. Oltre alla discriminazione dei sapori, nel processo di degustazione sono
rilevanti sensazioni di altra natura, come quelle relative al piano delle
consistenze, valutato da categorie di ordine tattile e secondariamente uditivo.
Questo livello è determinato dalle caratteristiche materiche degli ingredienti
impiegati nonché dalle trasformazioni chimico-fisiche subite dagli stessi in
seguito ad elaborazioni e cotture.
Possiamo iniziare in quest'analisi dall’elemento centrale: la costoletta di
rombo viene panata e cotta attraverso una serie di procedimenti altrove
descritti che consentono di mantenere la temperatura interna al di sotto della
soglia che provoca il disperdimento degli umori della polpa. A fine
preparazione la carne del rombo sarà compatta ma morbida, né molle né dura.
Si può avanzare l’idea che in essa si realizzi l’equilibrio tra il secco e l’umido
per mezzo di una cottura che si colloca a eguale distanza dal crudo e dal
bruciato.
Poiché l'uso culinario della panatura produce nella degustazione un effetto
sensoriale discontinuo e differenziato attraversando gli strati superficiale e
profondo, è utile attribuire uno statuto proprio alla polpa ed uno alla crosta
della costoletta analizzandoli come elementi distinti. La crosticina della
panatura diversamente dalla parte interna è un elemento secco e relativamente
duro. E' inoltre una componente dalla struttura solida e conchiusa.
Le erbe di campo strascinate sono per natura un elemento umido dalla
consistenza granulosa, e molto umida è anche la trippa di coda di rospo,
arricchita nei liquidi grazie al sugo formatosi in seguito alla cottura, nonché
per le caratteristiche organolettiche piuttosto elastica al contatto. Entrambi
questi elementi, teneri e destrutturati, producono una sensazione diversa da
quella percepita affrontando la compattezza della costoletta.
Un elemento apparentemente di mera funzione decorativa, la pelle di rombo
fritta, assume a livello tattile (ed uditivo) una funzione oppositiva ed
equilibratrice. E’ infatti un elemento inusuale dalla consistenza croccante, che
va ad accordarsi con l’altro elemento secco, ovvero la crosticina della
costoletta, per contrastare la struttura aperta e amorfa di elementi quali la
trippa e le erbe di campo.
Traendo ispirazione dallo schema ideato da Floch (1995a), provo a tracciare
uno schema che rappresenti le strutture oppositive che contrappongono le
varie componenti del piatto sul piano della consistenza. Percependo il cuore
della costoletta come elemento che realizza l'equilibrio nelle categorie del
secco e dell'umido, è possibile collocare le sostanze di contorno su un asse dei
disequilibri, arricchito di ulteriori specificazioni.
Livello delle consistenze.
Pelle di rombo
(molto) secco
(molto) croccante
compatto (chiuso)
Crosta costoletta
secco
croccante
compatto (chiuso)
Polpa costoletta equilibrio secco/umido
Erbe di campo
umido
tenero
discreto (aperto)
granuloso
Trippa di coda di rospo
(molto) umido
(molto) tenero
discreto (aperto)
elastico
Vediamo che sarebbe possibile tracciare un asse diagonale che coordini a
livello aspettuale la pelle e la trippa, entrambi collocabili su un piano
dell'eccesso su valori che li oppongono. E' possibile inoltre individuare
un'ulteriore struttura differenziale che evidenzia gli elementi di contrasto fra le
erbe di campo e la trippa di coda di rospo: le prime infatti hanno una
consistenza granulosa, mentre la seconda conserva una struttura piuttosto
elastica.
Come si avvince dallo schema, l'esperienza tattile del degustatore sarà
molto variegata e non noiosa, grazie alla presenza di sostanze dalla struttura
chimico-fisica molto diversa. Come sostiene Cedroni, per un piatto che dura
più di cinque minuti è indispensabile spezzare la monotonia di consistenze
uniformi, al fine di evitare che nel corso dell'assaggio subentri una caduta del
desiderio gustativo e si spenga la gioia della scoperta del nuovo. Per questo si
è scelto di introdurre un elemento insolito e dall'apparente funzione decorativa
come la pelle di rombo fritta: la sua consistenza croccante risulta stimolante
producendo una variazione delle sensazioni percepite da palato e forchetta.
1.4.4. Bello da mangiare: la presentazione del piatto.
La dimensione visiva del piatto è un aspetto anch'esso molto rilevante nel
processo di degustazione e fondante nel giudizio dell'oggetto del gusto. La
vista è inoltre temporalmente il primo dei sensi a percepire le qualità del cibo,
prima della vera e propria congiunzione con esso nell'introiezione che si ha
con l'assaggio; è importante quindi che la presentazione del piatto lo valorizzi
anticipando ed accrescendo la sensazione euforica che ci si propone di
produrre con il gioco dei sapori.
Moreno Cedroni sceglie di utilizzare quale contenitore un piatto dalla
configurazione non ordinaria: è infatti di forma ovale, differenziandosi dal
molto più comune piatto circolare, è in vetro azzurro trasparente, piuttosto che
in ceramica o in altri materiali opachi. La forma allungata del piatto non è
adeguata a una delle disposizioni più classiche dell'arte culinarie, ovvero
quella "ad orologio", che prevede una collocazione degli elementi a raggiera.
Risulta invece adatta per riprendere la struttura asimmetrica di uno o più
componenti: in questo caso fa "rima" con la morfologia della costoletta, in cui
l'osso (nel caso, un pezzo di lisca) è sporgente rispetto al corpus compatto dei
filetti. La tendenza alla trasparenza del contenitore inoltre pressoché
neutralizza la sua funzione di mediazione col cibo, che si manifesta in tutta la
sua concretezza materiale e nelle sue intense tonalità cromatiche.
Passando al contenuto del piatto, per un'analisi della presentazione sul
piano plastico è interessante concentrarsi innanzitutto sul livello topologico,
articolabile in varie categorie come alto/basso e centrale/periferico, nonché su
quello cromatico. In posizione centrale, la costoletta panata dal giallo dorato si
staglia primeggiando sugli altri elementi godendo di una collocazione in alto,
al di sopra di un letto di erbe di campo strascinate, ingrediente che anche nel
nome evoca un tratto di orizzontalità. Il colore verde cupo di questi vegetali,
tendenzialmente disforico, li sospinge verso una collocazione quasi nascosta.
Al di sopra del rombo viene posto il pezzetto di pelle di rombo e il manico
della costoletta viene ricoperto con un po' di carta stagnola, dall'analogo colore
argentato. Abbiamo quindi un contrasto cromatico fra gli elementi in alto dalle
tonalità brillanti (la costoletta dorata, pelle e carta argentate) e l'ingrediente in
basso dal colore opaco. Sempre in basso ma perifericamente e senza copertura
da parte di altre sostanze troviamo disposta simmetricamente ai lati la trippa di
coda di rospo, elemento di contorno dalle tonalità più vivaci grazie al rosso
intenso dei pomodorini. Entrambe le componenti umide quindi (ovvero erbe e
trippa), come generalmente si verifica anche per motivazioni tecnico-fisiche,
sono collocate ai livelli bassi, mentre gli elementi più secchi sono posti in
posizione superiore. La disposizione topologica degli elementi sembra basarsi
soprattutto su principi di ordine estetico ed estesico, più che su relazioni
attinenti al piano del contenuto. Vi si può riconoscere inoltre una dimensione
funzionale, correlata alle strutture dei sapori: ad esempio, il posizionamento
delle erbe di campo al di sotto della costoletta suggerisce un ordine di
degustazione, ovvero incita a far seguire un boccone di rombo da uno di erbe,
equilibrando il leggero senso di untuosità della panatura con l'effetto
astringente provocato dai vegetali.
Generalmente parlando, la presentazione del piatto è essenzialmente volta a
valorizzare quello che è il prodotto del fare culinario, nonché ad introdurre ed
accrescere il piacere dell'esperienza gustativa in sé. In questo caso specifico,
una componente di piacere può essere costituita anche dalla gioia di
riconoscere i valori immanenti e soprattutto di assistere al gioco (plastico-
figurativo) illusorio creato dall'attribuzione di una sembianza di carne al pesce,
recependo la sfida che esso provoca all'associazione fra memoria visiva e
memoria gustativa. Si può comunque ritenere che operando a livello
sinestetico tutti i vari aspetti coinvolti nella costruzione del piatto possiedono
innanzitutto valorizzazioni legate all'ambito dell'efficacia simbolica, ovvero
come affermava Lévi-Strauss (1958) di quelle pratiche semiosiche che
producono degli effetti sul corpo (Pozzato, 2001).
1.5. Lo chef-bricoleur e la manipolazione dei sapori. Andiamo infine ad esaminare il comportamento che il cuoco adotta con le
materie che manipola e trasforma nella produzione dei suoi piatti. Egli può
accostarsi ad un dato ingrediente perché vuole valorizzare un certo sapore o
anche solo perché è alla ricerca di una consistenza peculiare. Le sue scelte e le
sue attività seguono una logica del sensibile, principio regolatore della scienza
del concreto di cui parla Lévi-Strauss (1962a). Quest'ultima secondo quanto lo
studioso sostiene nel Pensiero selvaggio è una delle due forme attraverso cui
"la natura si lascia aggredire dal pensiero scientifico" (p.28 della trad. it.):
quello approssimativamente adeguato al livello della percezione e
dell'intuizione sensibile.
Quando crea, lo chef ha a disposizione un repertorio molto vasto di
ingredienti impiegabili ad uso gastronomico, e da questo insieme ne preleva
alcuni per combinarli e produrre qualcosa di nuovo. Questi materiali però
nascono ognuno con una propria storia e delle caratteristiche intrinseche che
allo stesso tempo limitano e suggeriscono i loro possibili impieghi. Se il cuoco
sceglie ad esempio di cucinare del rombo, sa che questo gode di uno statuto di
pesce pregiato e che può richiamare alla memoria precedenti esperienze
gustative. Quando decide di usare della coda di rospo, deve tener conto che
essa ha un valore nella storia della cucina mediterranea, ha una sua propria
sapidità delle carni e delle caratteristiche organolettiche che non la rendono
adatta per cotture troppo brevi. Allorché si appresta ad utilizzare delle erbe di
campo, è consapevole che evocano una dimensione culinaria più semplice e
naturale.
Gli ingredienti di cui si fa uso in cucina possono essere considerati secondo
l'espressione di Lévi-Strauss dei materiali "previncolati" che vengono
convocati e fatti interagire nella prassi enunciativa. Come sottolineato da
Floch (1995a) riflettendo sui concetti dell'antropologo, il modo di muoversi
dello chef lo avvicina al bricoleur, il quale si avvale di pezzi precostituiti che
adatta di volta in volta per costruire l'oggetto del suo progetto del momento.
Come è noto, l'autore del Pensiero selvaggio riconosce al bricolage un vero e
proprio statuto cognitivo, assumendolo come elemento essenziale del
funzionamento del pensiero umano ed esportandolo ad ambiti molto diversi e
meno ristretti dell'hobby casalingo in cui si impegna il bricoleur per
antonomasia. Nell'estetica per esempio e nella stessa elaborazione culturale
delle tradizioni di un popolo, si adoperano, elaborano e adattano forme
culturali depositate per la costruzione di nuove configurazioni. Lo chef
analogamente all'artista opererà retrospettivamente convocando un insieme di
materie ed utensili spesso già conosciuti e impiegati, nonché riprendendo
modalità del loro trattamento da altri o da se stesso sperimentate, codificate o
meno in ricette della tradizione nel primo caso e da movimenti artistici nel
secondo.
Anche in una cucina creativa come quella di Moreno Cedroni così come è
espressa dal piatto in esame, nonostante l'originalità delle idee si deve
riconoscere la presenza di fondo di una dialettica fra passato e innovazione,
libertà e costrizioni della materia ovvero delle risorse a disposizione. Le
modalità in cui lo chef intrattiene un dialogo con gli oggetti che adopera, la
loro storia e i mezzi di esecuzione sono rivelatori inoltre almeno in parte della
sua personalità. Da ciò si evince secondo Lévi-Strauss (1962a) la poesia del
bricolage: questo infatti “non si limita a portare a termine, o ad eseguire, ma
‘parla’, non soltanto con le cose […] ma anche mediante le cose: raccontando
attraverso le scelte che opera tra un numero limitato di possibili, il carattere e
la vita del suo autore" (p.34 della trad. it.).
2. Analisi di un piatto: le venticinque verdure
di stagione con cuscus. Vorrei analizzare un piatto di Miguel Sánchez Romera a mio parere molto
interessante perché ci permette di esplorare una delle modalità di approccio
seguite da questo chef nei confronti dei prodotti gastronomici,
dell’innovazione culinaria e dei codici della memoria. Sul modello dell’analisi
della costoletta di rombo di Moreno Cedroni, effettuerò un’analisi semio-
narrativa del processo di costruzione di questo piatto e quindi mi focalizzerò
brevemente sulla pietanza finita dal punto di vista della sua dimensione
estetico-sensoriale. A differenza del caso precedente, prenderò in
considerazione in primo luogo il momento di creazione e non solo di
produzione del piatto, concentrandomi quindi anche sulla sua genesi.
Il momento generativo in tutte le sue possibili manifestazioni per quanto
concerne l’intenzionalità dell’autore è generalmente esclusa dall’approccio
semiotico, ma in una prospettiva greimasiana può essere interpretata nel suo
farsi come progressiva competenzializzazione dell’autore nel portare avanti la
propria performance creativa culinaria. Focalizzandomi sulle tecniche che
questa preparazione comporta, farò inoltre riferimento a studi antropologici di
impianto strutturale, in particolare approfondendo il già discusso triangolo
culinario di Lévi-Strauss.
La denominazione completa della pietanza in esame è: “las veinticinco
verduras de temporada con cuscús ahumado y especiado”. Come verrà messo
in luce dall’analisi, il piatto in esame consiste in una sorta di cuscus moderno,
molto più leggero di quello tradizionale maghrebino, diverso nella concezione
di fondo e manifestamente nell’esperienza di degustazione dal punto di vista
della percezione gustativa e tattile. Viene rispettata la tecnica di cottura
ortodossa del cuscus, ma viene associata all’utilizzo di tecniche aggiuntive
alternative, nonché associato ad elementi manipolati in modo differente, dando
forma ad una costruzione culinaria assolutamente nuova, che non solo adegua
una pietanza tradizionale ai bisogni nutrizionali contemporanei, bensì è
manifestazione di un universo differente.
2.1. Il programma generale di costruzione dell’oggetto.
Secondo la prospettiva che ho scelto di adottare in questo caso, il
programma narrativo principale oggetto di esame è la costruzione di un piatto
nuovo, ovvero un programma non solo di produzione bensì di creazione
culinaria. Il soggetto performatore si propone di ideare e portare a
realizzazione concreta un oggetto di gusto il cui valore è dato dalla sensazione
estetico-gustativa che produce nel suo destinatario. Questo programma va
inquadrato in una cornice più ampia nel contesto ristorativo, ove si porta a
realizzazione un programma narrativo di scambio commerciale dell’oggetto
per mezzo dell’attribuzione da parte di un soggetto creatore e produttore del
piatto42 dell’opera culinaria ad un soggetto di stato, il cliente che lo richiede.
Nel contratto fiduciario instaurato implicitamente nel contesto di un ristorante
creativo come questo, il valore in cui investe il commensale comprende in
modo preponderante la quantità e qualità di innovazione culinaria iscritta
nell’oggetto desiderato.
Il programma di invenzione di un nuovo piatto può essere considerato come
un PN d’uso presupposto alla successiva riproduzione della pietanza nelle
cucine del ristorante nell’orario di apertura, a sua volta subordinata al
programma di scambio dell’oggetto stesso (col servizio, nel momento di
attribuzione). L’atto creativo dello chef inventore nel suo complesso
comprende due componenti articolabili secondo un ordine di presupposizione
logica: la competenza e la performanza. Il momento più propriamente rivolto
all’ideazione di un oggetto nuovo e al suo prendere forma nell’immaginazione
dell’autore è identificabile con quella che Greimas definisce “un’istanza
potenziale in cui si trovano tutte le condizioni preliminari sia dell’essere che
del fare” (Greimas, 1983, p.74 della trad. it). La competenza è “ciò che fa
essere”, o “l’essere” che modalizza il “fare”, rendendo possibile l’intervento
del soggetto sulla materia, il suo momento produttivo. Parte centrale dell’atto
creativo è inoltre il fare somatico (progressivo e conclusivo) costituito dalla
realizzazione, dal “far essere” dell’oggetto di gusto per mezzo della messa in
pratica delle idee escogitate.
42 Eventualmente disgiunti a livello discorsivo in quanto realizzati materialmente da attori
diversi.
Da un punto di vista delle modalizzazioni del fare, ad un esame del
programma narrativo di creazione vengono alla luce le problematiche relative
alle modalità attualizzanti in cui si articola la competenza nonché a quelle
realizzanti proprie della performanza. Nel primo senso, risulta essenziale il
momento di acquisizione del poter-fare e saper-fare il piatto originale, ovvero
la qualificazione del soggetto agente per l’attività creativa. Si ha inoltre una
messa alla prova delle competenze acquisite per mezzo della sperimentazione
empirica e del conseguente affinamento delle associazioni di ingredienti e
procedimenti culinari immaginati dallo chef.
Da un punto di vista delle modalità di stato dovremmo invece considerare
le modalizzazioni dell’essere, intese quali modificazioni dello statuto
dell’oggetto culinario nel senso del suo prendere forma in quanto luogo di
investimento di valore. Sono i valori modalizzati iscritti nell’oggetto a definire
le relazioni di congiunzione o disgiunzione con il soggetto di stato, costituenti
gli stadi costitutivi della sua esistenza. Il /poter-essere/ caratterizza ad esempio
l‘oggetto come possibile, il /saper-essere/ lo definisce quale autentico, il
/voler-essere/ può essere interpretato come “l’essere voluto” dell’oggetto
ovvero quale entità desiderabile per il soggetto (Greimas, 1983, p. 95 della
trad. it.). Nella fase di creazione e prova dei nuovi piatti, possiamo far
coincidere il soggetto di stato e quello del fare interpretati entrambi nella
figura dello chef, il quale è anche destinante del valore dell’oggetto e
destinatario in prima istanza, che si auto-attribuisce l’oggetto creato da testare.
Solo nella cornice più ampia del contesto ristorativi, a livello del PN di base
già descritto possiamo disgiungere questi ruoli con la comparsa di un secondo
soggetto, il “cliente”, il quale può fruire del piatto prodotto e sottoporlo a
sanzione.
2.2. Una lettura semiotica del processo creativo.
Prima di passare all’analisi vera e propria, ritengo opportuno discutere
brevemente una tematica a mio parere interessante, ovvero il processo
d’invenzione da un punto di vista semiotico. La creazione culinaria è
inquadrabile nello schema narrativo più generale dell’invenzione,
interpretabile come un fare cognitivo con estensione pragmatica finalizzato
alla produzione di un oggetto nel cui valore viene presupposto l’elemento di
innovazione. L’oggetto creato deve quindi possedere la qualità di /non essere/
alcuna altra cosa in altro tempo o altro luogo già realizzata.
Il fare creativo analogamente ai processi di scoperta scientifica è segnato
frequentemente da elementi accidentali, ovvero da quelle che Greimas
definisce “rotture evenemenziali” del regolare corso degli eventi, non
necessarie e impreviste fratture del continuum. “La discontinuità, creatrice di
senso, e la non-necessità, forma oggettivata della libertà” (Greimas, 1983,
p.202 della trad. it), caratterizzano i processi d’invenzione in genere.
L’elemento di casualità interviene spesso nel puntualizzare l’inizio del
processo creativo in cucina ma l’attività viene altrettanto comunemente
dirottata intenzionalmente, talvolta già dall’origine e in ogni caso nelle fasi di
sviluppo delle idee iniziali. Per quanto riguarda il primo punto, basta ricordare
le personali tecniche escogitate dagli chef (come del resto dai creativi in
genere) per dare una direzione all’ispirazione, sfiorando il suo opposto per
mezzo di procedimenti caratterizzati da premeditazione.
Ferran Adrià e la sua équipe per supplire ad un’eventuale assenza di
pulsioni creative e ad integrazione alle intuizioni originate da elementi culinari
ed esterni ricorrono spesso ad una serie di articolate liste di ingredienti,
condimenti, tecniche di cottura e presentazione, che aiutino a formulare
associazioni compatibili “trasformando quasi la creazione in un’operazione
informatica” (Adrià, Soler, 1993, p.108, trad. mia).
.Miguel Sánchez Romera invece, piuttosto che aspettare l’ispirazione
improvvisa, ritiene che l’impulso alla creazione venga sollecitato e favorito da
una continua attenzione, che nel suo caso prende le forme di una
“ipervigilanza cerebrale”. Entrambi i cuochi provvedono poi a mettere alla
prova le loro idee sperimentando in cucina l’opportunità di adoperare una
varietà o l’altra degli ingredienti e la possibilità di modificare e affinare le
tecniche ipotizzate.
Può essere interessante notare che la prima delle procedure condiziona la
libertà e l’indeterminazione mentre la seconda va a contrastare la
discontinuità. Si hanno quindi forme di indirizzamento dell’ingegno finalizzate
a sfuggire all’incontrollabilità del regime del caso sottoponendo il fare
cognitivo e pragmatico al governo della consapevolezza. A mio parere, è
possibile interpretare questa serie di operazioni come una modalizzazione nel
senso del /volere/, in quanto i soggetti del programma narrativo dotano di
volontà il processo creativo, altrimenti di natura prevalentemente incosciente e
non premeditata.
Lo sviluppo delle idee comporta un lavoro di ricerca e riflessione, che
prevede un cammino d’investigazione caratterizzato da ipotesi meditate e
adozioni di scelte motivate e ragionate. Nella cucina la libertà inventiva più
che in altre arti applicate è condizionato dalle proprietà sostanziali, dalla
natura organolettica degli elementi combinatori e non solo da quelli estetico-
formali. Come ricorda Sánchez Romera, il limite dell’arte culinaria è dato dal
fatto che si mangia: non è possibile associare colori e forme semplicemente
per intuizione perché il cibo deve essere non solo sensorialmente allettante ma
anche digeribile. Gli ingredienti che andranno a far parte dell’oggetto della
creazione saranno quindi caratterizzati su un piano di commestibilità da una
condizione di necessità ovvero modalizzati secondo un /dover-essere/
mangiabili da parte di un destinatario umano.
Come abbiamo visto quindi anche la libertà creativa non prevede
un’indeterminata e incondizionata possibilità di scelta: esistono tutta una serie
di codici e regole di natura chimico-fisica ma anche e manifestamente di
ordine gustativo ed estetico, dettati da canoni culturali e da preferenze o
idiosincrasie soggettive. Intervengono a questo proposito i vincoli della
memoria, le esperienze sensibili provate dallo chef durante la sua storia
personale e collezionate in una sorta di individuale archivio gustativo. Anche
nel proposito del cambiamento, nell’intento di creare una frattura nella linea
della continuità culinaria si rileva il peso e il confronto con i piatti e le
tecniche del passato. Talvolta la tradizione è fonte di ispirazione per un
cammino verso il nuovo, come riferisce Adrià inserendo l’adattamento fra i
possibili procedimenti43 seguiti nella ricerca creativa, attività alla base della
cucina d’autore. Con questo termine ci si riferisce al processo di
riconfezionamento di un piatto esistente sulla base dell’interpretazione
personale del cuoco. Un metodo particolarmente interessante sviluppato da
Adrià è inoltre quello del decostruzionismo, attraverso il quale si
scompongono i processi culinari di un piatto codificato nelle sue componenti
per costruire un oggetto nuovo.
43 Oltre ai già discussi metodi di associazione e ispirazione (tutti liberamente integrabili fra loro). Cfr. Adrià, Soler (1993).
2.3. La genesi dell’oggetto culinario.
2.3.1. Il processo induttivo.
Ogni cuoco ha comunque i suoi metodi (più o meno irrigiditi in schemi), e
diversi sono i percorsi che può seguire l’estro creativo di ognuno e le modalità
con cui esso è combinato con la razionalità e la conoscenza delle tecniche
appropriate e delle proprietà dei prodotti. Miguel Sánchez Romera ha
sviluppato un atteggiamento verso la ricerca creativa ai limiti dell’ossessione.
Come ricorda personalmente l’autore, ogni idea richiede generalmente un
lungo tempo per svilupparsi, e lo chef deve mantenere un’attenzione sempre
vigile perché essa prenda forma fino al raggiungimento dello stadio definitivo
del piatto.
A differenza della maggioranza dei cuochi, il processo creativo dello chef
dell’Esguard prende le forme del procedimento induttivo. Egli si propone un
obiettivo da realizzare spesso di natura concettuale, e a partire da ingredienti o
immagini gustative particolari cerca di produrre qualcosa che si approssimi al
massimo grado al suo scopo. Cerca poi di immaginare e sottoporre a prova il
possibile elemento mancante per rimediare alle lacune rilevate al fine di
conseguire il perfezionamento del piatto, in cui ogni parte è combinata
secondo un principio unificante d’equilibrio.
Il piatto oggetto d’analisi esemplifica perfettamente nella sua generazione
le varie fasi del processo di invenzione secondo il delineato metodo induttivo.
L’idea da cui ha origine quest’opera culinaria è fare un cuscus moderno,
alleggerito rispetto all’alto contributo calorico che caratterizza il piatto unico
della cucina maghrebina. Per adeguare questo piatto alle diminuite esigenze
caloriche dei tempi contemporanei, lo chef decide di fare a meno non solo
della carne d’agnello ma anche del fumetto con esso prodotto, fonte di sapore
ma anche ricco di grassi. Si propone quindi di realizzare un cuscus interamente
vegetariano, in cui si conservi tutto il gusto del piatto originale andando a
costruire attraverso la ricerca di tecniche ed elementi da combinare una nuova
concezione del cuscus, sana, elegante e sensorialmente allettante anche per la
vista e per il tatto.
Gli elementi di base da cui si parte nella costruzione del piatto sono:
Oc: il cuscus della tradizione maghrebina;
Ov: le verdure.
In negativo, Sánchez Romera era intenzionato a non far uso dell’elemento
liquido grasso dato dal fumetto, associato nella tradizione all’Oc, e quindi di
optare per un cuscus neutro. Le verdure in ottemperanza ai codici culinari in
uso a partire dalla nouvelle cuisine dovevano essere tutte di stagione e le
qualità determinate dalla reperibilità del mercato. Come si evince dal titolo
della ricetta, in cui al primo posto vengono riportate proprio le “veinticinco
verduras de temporada”, (in realtà ordinariamente in numero di ventisette), i
vegetali sono i veri protagonisti di questo piatto.
Ognuna delle verdure viene trattata indipendentemente, con cottura separata
di durata appropriata alle relative caratteristiche organolettiche. La
salvaguardia della personalità di ogni singolo vegetale dovrebbe portare a
correggere l’iniziale categorizzazione in un solo oggetto componente, e ad
indicare con termini distinti tutte le distinte varietà. Avremmo quindi un Ov1,
Ov2,…,Ov25(o 27).
Avendo a disposizione solamente questi oggetti culinari non è possibile
costruire però che un piatto scipio, povero di sapidità e di equilibrio gustativo.
Si introducono perciò le spezie, così da valorizzare e arricchire il gusto del
cuscus e della verdure. Si decide di produrre un curry ovvero una miscela di
spezie, in tutto ventiquattro diverse, di cui dodici fresche e dodici secche.
Diversamente dalle verdure, il loro trattamento unificato attraverso la
macerazione e l’amalgamazione le rende un oggetto pressoché omogeneo
sebbene composito, che sarà denominato Os.
Ciò non è ancora sufficiente per produrre il piatto voluto. Tutti gli elementi
sono infatti caratterizzati da /solidità/, e ciò renderebbe la combinazione degli
ingredienti eccessivamente asciutta. E’ necessario perciò introdurre un
condimento liquido, che supplisca all’assenza del fumetto di agnello. Si pensa
per prima cosa all’olio di oliva, elemento simbolo della cucina del
Mediterraneo e protagonista di un piatto andaluso che presenta alcune analogie
con il cuscus nella configurazione: le migas.
Questo piatto della tradizione popolare di cui esistono molte varianti44 in
altre regioni spagnole è costituito nella versione base da farina e acqua
amalgamate in palline e fatte friggere in padella, aggiungendo anche olio a
termine cottura. Le migas sono una pietanza rurale che viene evocata nella
nuova creazione grazie alla comune base di carboidrati, la forma granulosa e la
presenza di olio di oliva a crudo, ma viene privata della sua pesantezza.
La presenza di olio non è però sufficiente per garantire l’umidità desiderata,
perciò si decide di aggiungere un altro elemento liquido: una salsa di
pomodoro al naturale. Questa componente che denomineremo Op una volta
versata sul fondo del piatto avrebbe raccolto e intriso di succo i granelli secchi
del cuscus neutro.
Gli elementi a questo punto adeguatamente trattati e combinati possono
contribuire alla costruzione di un piatto equilibrato ed armonico a livello delle
consistenze e dei sapori. Sottoponendo a verifica empirica il processo culinario
originato dalle idee al momento immaginate, lo chef neurologo si accorge che
ancora qualcosa di indeterminato lo porta a sanzionare negativamente l’opera
prodotta, non riconoscendola con l’immagine culinaria del desiderio.
L’oggetto di valore non può ancora superare la prova di qualificazione che lo
dovrebbe eleggere quale protagonista degno di affrontare nella prova di gusto
la sanzione finale del cliente al ristorante.
Il risultato è ancora troppo rustico e selvaggio per essere accolto come
opera dell’alta cucina, adeguata quindi al contesto di sua destinazione. Occorre
quindi introdurre un elemento di sofisticazione, e si pensa di ottenerlo non per
mezzo di ulteriori ingredienti bensì di determinati procedimenti culinari. Si
decide di ricorrere al fumo, elemento associato nella tradizione culinaria
catalana alla cottura di carni e verdure in padella (dove si produce appunto del
fumo). In questo caso si sceglie di ricorrere alla tecnica dell’affumicatura a
freddo da applicare non ai vegetali bensì con una certa originalità al cuscus,
successivamente alla cottura classica a vapore.
44 Nella variante più diffusa della ricetta troviamo ad esempio dei piccoli tocchi di pane
fritti nell’olio con vari condimenti, piuttosto che semplice farina. Juan Cruz Cruz indica le migas e la paella come esempi di “modelli culinari” alla base della cucina popolare, sui quali nascono numerose varianti regionali. Questi modelli vengono definiti come “i grandi temi di una fuga musicale di sapori, le cui variazioni organistiche si incontrano in uno spazio molto ampio”. Cruz (1991, p.265).
La lunga ricerca dello chef e la ripetuta verifica empirica attraverso prove
ed errori hanno portato così alla costruzione di un piatto gustativamente
equilibrato e assolutamente nuovo perché diverso nella concezione da pietanze
tradizionali come il cuscus maghrebino e le migas da cui trae ispirazione. Il
risultato della creazione culinaria è un piatto fresco e naturale, leggero,
raffinato e allettante per la varietà dei colori e delle consistenze. Cuscus e
verdure, gli elementi più visivamente riconoscibili e associabili al piatto
nazionale marocchino nella versione vegetariana, per il loro particolare
trattamento assumono un valore chiaramente distinguibile rispetto alla
tradizione.
2.3.2. Il processo creativo in prospettiva greimasiana.
L’oggetto finale è però per il momento meno interessante da analizzare
rispetto al percorso che ha portato alla sua creazione. Vorrei infatti sviscerare i
meccanismi sottostanti al corso di ricerca in quanto momento di transizione e
“tensione” fra un punto zero iniziale e la realizzazione dell’essere e del fare. Il
processo di invenzione culinaria ha infatti portato attraverso prove ed errori
alla progressiva acquisizione da parte del soggetto performatore delle
competenze attualizzanti ovvero il sapere e poter costruire il piatto innovativo.
Dal punto di vista dell’oggetto risultante dalla combinazione di tutti gli O
componenti sottoposti a manipolazione culinaria è possibile riconoscere un
processo di ottenimento delle qualità necessarie alla sua valorizzazione.
Attraverso lo sviluppo delle idee iniziali l’oggetto gastronomico si modalizza
in numerosi sensi, acquistando innanzitutto il suo essere desiderabile e il suo
essere possibile. Per mezzo ad esempio dell’aggiunta delle spezie conferenti
sapidità o del fumo che dona raffinatezza vengono acquisite quelle
competenze necessarie all’oggetto per esprimere il proprio valore gustativo.
Nella specificazione delle risorse di cui fruire e nella messa a punto dei
procedimenti culinari più appropriati si può riconoscere inoltre la sconfitta e la
neutralizzazione di un anti-soggetto, responsabile degli ostacoli sul percorso di
creazione. Ogni manchevolezza che rendeva impossibile l’ottenimento
dell’equilibrio gustativo come l’insipidità o l’eccessiva secchezza è stata
infatti efficacemente colmata introducendo di volta in volta un nuovo
ingrediente o una peculiare tecnica culinaria. In questo modo si è potuto
portare a buon fine il fare cognitivo e pragmatico dell’attività creativa, fino
alla definizione dell’oggetto nuovo obiettivo del programma narrativo di base
di produzione culinaria.
2.4. La costruzione del piatto.
Dopo aver preso in esame il piatto di Sánchez Romera dal punto di vista
della sua invenzione, ritengo opportuno analizzarlo a livello della sua
realizzazione, ovvero nelle forme della sua riproduzione nel contesto del
ristorante. Analogamente a quanto rilevato nel corso dell’analisi della
costoletta di rombo di Moreno Cedroni, è opportuno identificare innanzitutto
la serie dei programmi narrativi in cui si articola il processo di costruzione
culinaria, nonché gli oggetti parziali di cui si compone il piatto finito.
Nel quadro di un PN base di attribuzione dell’oggetto di gusto al cliente
dell’Esguard che l’ha richiesto, riconosciamo un programma narrativo di
trasformazione culinaria scomponibile in diverse fasi e relativa alle sue varie
componenti.
E’ possibile identificare un dispositivo strategico inteso come piano
dell’organizzazione del lavoro culinario. Causa il notevole livello di
articolazione delle operazioni richieste per la realizzazione del piatto in
questione, pare opportuno presentare inizialmente uno schema semplificato
che verrà dettagliato e precisato nel corso dell’analisi.
2.4.1. Il dispositivo strategico.
PNc = elaborazione del “cuscús” Oc = cuscús medio
PNv1, PN v2,…PN v25 = elaborazione delle “verduras de temporada”
O v1= finocchio, O v2 =asparago…
PNs = preparazione del “curry de especias”
Pnf = elaborazione erbe aromatiche fresche (x6fresche)
Pns = elaborazione (x6secche)
PNp = ”preparazione della salsa di pomodoro speziata”.
Da un esame di ognuno di questi programmi è possibile individuare una
serie di PN subordinati, nonché la presenza di un’interrelazione fra alcuni di
questi programmi eventualmente inscatolabili. L’organizzazione temporale del
processo culinario porta inoltre alla suddivisione del lavoro in due fasi
principali nettamente distinguibili: una fase di preparazione e una di
montaggio o “performance” finale, come viene denominata dall’équipe
dell’Esguard. La prima ha luogo durante la mattinata nell’ambito dell’insieme
delle operazioni preliminari svolte nel ristorante, la seconda viene realizzata in
seguito all’ordinazione specifica dell’oggetto di gusto da parte del cliente.
2.4.2. La scelta del cuscus. Un alimento dalla storia millenaria.
Lo chef seleziona con accuratezza la qualità di cuscus per l’impiego
culinario. E’ un cuscus medio (una delle tre possibili varietà in base alla
dimensione), non precotto come quello che si trova ordinariamente nei
supermercati europei. Si prevede quindi una lavorazione artigianale,
sottoponendolo alle cotture necessarie senza gli abbreviamenti dei tempi
concessi dall’uso di prodotti industriali.
Pur essendo quello in uso un prodotto valorizzato come naturale a
confronto in particolare con l’equivalente precotto, il cuscus in genere è
manifestamente identificabile come un oggetto culturale. Costituito nella
forma presente essenzialmente da cereali (generalmente grano duro) e acqua,
richiede per la sua produzione una serie di operazioni umane. Le origini di
questo alimento portano lontano nella storia: il cuscus nasce infatti come
metodo escogitato dalle popolazioni nomadi del nord Africa e del Sahara per
ottenere una “pienezza gastrica” sfruttando i piccoli grani ricavati dalla
raccolta di graminacei spontanei (Gast, 1996, p.209, trad. mia). La lavorazione
prevede la macerazione dei grani, nella tradizione in un mortaio, l’idratazione
degli stessi e la loro cottura a vapore o per bollitura. Attualmente, il cuscus si
ricava dalla semola di grano duro, agglutinata45 mediante la miscelazione con
acqua e sottoposta a processi culinari che comprendono cottura a vapore e fasi
di essiccazione qualora sia destinato alla conservazione.
Il cuscus è ancor oggi elemento forgiante l’identità culturale degli arabo-
berberi del Maghreb e del Sahara, per i quali è cibo quotidiano che convoglia
un’alta carica simbolica. Anche a livello linguistico viene espressa la centralità
di questa pietanza per questi popoli: infatti “in arabo, come in molte lingue
berbere, l’alimento, la sussistenza, taám, ays, ussu […] designano senza
45 Come sottolinea Marcel Gast (1996), è grazie al processo di agglutinazione delle
particelle umide che si rende possibile cuocere rapidamente a vapore un cereale.
ambiguità il cuscus” (ivi, p.213, trad. mia). E’ nell’ambito di questa cultura
uno di quegli alimenti centrali46 che nei diversi sistemi alimentari forniscono
la componente predominante della dieta nonché polarizzano l’attenzione e
l’affettività di un popolo. Così come il riso per il mondo asiatico o il mais per
il Messico, è a base di carboidrati, glucidi di ordine vegetale che per le loro
qualità organolettiche riescono a riempire lo stomaco e ad accompagnarsi ad
una gran varietà di condimenti, di originale vegetale o animale.
Il cuscus è un alimento che si è esteso molto più in là rispetto alle aree
geografiche delle sue origini, diffondendosi un po’ in tutto il mondo ma in
particolare nel mondo Mediterraneo. In Spagna, in particolare nelle regioni
meridionali, è entrato in uso grazie ai frequenti e stabili contatti con le
popolazioni arabe che hanno avuto notevoli influenze sui ricettari locali. La
presenza del cuscus nel piatto di Sánchez Romera evoca quindi all’avventore
dell’Esguard un mondo mitologico molto ricco, che parla di una cultura
millenaria non lontana ma anche potenzialmente vicina, richiamante alla
memoria pietanze della tradizione rurale con una base tipicamente
Mediterranea.
2.4.3. La lavorazione del cuscus. Il PN d’idratazione.
Il processo di lavorazione del cuscus secondo il metodo classico è piuttosto
complesso ma viene rispettato rigorosamente dallo chef in tutte le sue fasi. La
prima operazione di elaborazione e quindi culturalizzazione è quella
dell’idratazione, identificabile quale programma narrativo indipendente in
quanto dotata di un proprio spazio utopico (ovvero di performanza). Il cuscus
crudo viene posto in una bacinella riempita con un po’ d’acqua e viene lasciato
lì per mezz’ora aspettando che cresca. In questa fase, il soggetto operatore
umano delega il proprio fare all’acqua, unico agente dotato della competenza
necessaria per la realizzazione del processo culinario. Attraverso
l’instaurazione di strutture di manipolazione ritroviamo quindi che un
elemento naturale diventa responsabile dell’azione nei confronti dell’oggetto
di partenza.
46 Sul ruolo degli alimenti centrali e periferici nei sistemi alimentari, cfr. Igor De Garine
(1998).
Diversamente dal ruolo che assume in più comuni processi culinari come la
bollitura, l’elemento liquido non svolge qui semplicemente una funzione di
mediazione nei confronti di altri agenti protagonisti dell’azione analogamente
al fuoco nel programma di cottura. L’acqua in questo caso funge da elemento
quasi magico di modificazione diretta dello status del cuscus gonfiandolo
mediante idratazione. Mediante la semplice compresenza degli elementi nella
bacinella si origina naturalmente un processo di trasformazione della materia
nel senso di un passaggio dal concentrato all’espanso, secondo le categorie
delineate da Bastide (1987). Il soggetto umano esercita solamente un ruolo di
attesa, occupandosi di controllare il processo culinario mediante la
determinazione del suo stadio terminativo dal punto di vista aspettuale.
Trascorsa la mezz’ora prevista, lo chef sanziona l’avvenuta idratazione del
cuscus e la sua conseguente crescita di volume.
Fig.1 Lo chef controlla la riuscita del processo di espansione.
Un PN dipendente. L’asciugatura.
In una sorta di coda al PN di idratazione viene realizzato un processo di
asciugatura, scomponibile in due fasi distinte per soggetto operatore. Per
prima cosa lo chef scola il cuscus impregnato d’acqua mediante l’uso di un
colino, il quale funge da filtro fra la materia utile e gli scarti, ovvero l’acqua in
eccesso che non entra a far parte dell’oggetto parziale di gusto. Il cuoco
attende quindi per una ventina di minuti il compimento effettivo
dell’asciugatura, un processo semanticamente opposto a quello d’idratazione e
che implica nuovamente l’intervento di un elemento naturale in qualità di
soggetto operatore, l’aria in questo caso.
Il PN di cottura a vapore.
Dopo queste fasi preliminari, può aver inizio il processo di cottura
corrispondente ad un PN centrale indipendente e autonomo. La performance
culinaria ha luogo in uno spazio proprio, una cuscussiera di provenienza
maghrebina.
Questo recipiente è una pentola composta da due parti che la sezionano
nella sua dimensione verticale. Quella inferiore è dotata di un fondo robusto in
cui tradizionalmente è possibile collocare e portare ad ebollizione la carne, i
vegetali e il loro brodo. La parte superiore presenta una base in metallo
perforato o in erbe intrecciate e viene inserita su quella inferiore per la cottura
a vapore del cuscus. Questa configurazione risulta funzionale a far sì che
mentre si cuociono i condimenti i grani si impregnino del vapore aromatizzato.
Nell’opera culinaria di Sánchez Romera, causa l’assenza del fumetto e dei
suoi aromi aerei, la cuscussiera è utilizzata in due momenti diversi per la
cottura delle componenti principali del piatto, ovvero le verdure e il cuscus.
Una volta che la parte inferiore è stata riempita d’acqua e portata ad
ebollizione, è possibile utilizzare la parte superiore per cuocere a vapore i
grani di semola agglutinati.
Questa tecnica culinaria è collocabile in una particolare posizione
all’interno del già discusso triangolo culinario di Lévi-Strauss (1968, p.444
della trad. it)47. In questa cottura si ha una complessa serie di deleghe del fare
fra un soggetto operatore e l’altro. Il cuoco fa compiere al fuoco l’attività di
produrre il calore necessario, il quale viene trasmesso all’acqua che a sua volta
riscalda l’aria producendo i vapori responsabili finali della cottura. Questo
processo in cui l’acqua interviene in modo indiretto trovandosi a distanza dal
cibo può essere collocato sul triangolo culinario a metà strada fra il bollito e
l’affumicato.
47 Cfr. anche Lévi-Strauss (1966, p.595).
Nel processo culinario previsto per la preparazione del cuscus però
l’elemento liquido ha un duplice ruolo, distinguendosi dall’ordinaria tecnica di
cottura a vapore. Il soggetto performatore umano infatti si occupa di bagnare
ripetutamente i grani manipolandoli con dell’acqua raccolta da un’apposita
bacinella. In questo caso specifico quindi sebbene l’acqua non intervenga che
a distanza nel processo di cottura, essa entra anche a contatto diretto con il
cibo in funzione di idratazione e per mezzo dell’azione umana.
Fig.2 Lo chef bagna i grani di semola durante la cottura.
Questo PN aggiunto di manipolazione umidificata viene aspettualizzato
iterativamente: va infatti ripetuto più volte, dieci in rispetto alla tradizione
maghrebina e ogni cinque minuti. Questa operazione è funzionale alla
produzione di una consistenza gradevole: si vuole infatti evitare che i vapori di
cottura rendano il cuscus colloso e far sì che i grani rimangano invece ben
distinti. L’acqua che bagna le mani non è più soggetto operatore autonomo
bensì adiuvante dell’agente umano, che viene mediante essa dotato del poter-
fare necessario alla performanza, diretta alla valorizzazione dell’oggetto
parziale di gusto sulla sua dimensione tattile.
Il PN di essiccatura.
Segue a questo processo un PN di essicatura, realizzato in uno spazio
proprio, ovvero una piastra, dove i grani vengono lasciati disidratare.
Focalizzandosi sul processo culinario nella sua totalità, possiamo individuare
una sorta di percorso ciclico costituito da un movimento bipolare di
avvicinamento all’elemento acqua mediante il processo di idratazione e nel
senso opposto di accostamento all’anti-acqua per mezzo dell’essicazione48.
Il PN di affumicatura.
Una volta portate a termine le procedure culinarie di cottura del cuscus
secondo la prassi più tradizionale, lo chef sceglie di intervenire ulteriormente
sull’oggetto semi-finito apportandogli un trattamento peculiare e di
innovazione rispetto ai ricettari codificati. I grani di semola cotti ed essiccati,
dopo essere stati distribuiti sulla piastra vengono introdotti in un forno per
essere sottoposti ad un’affumicatura a bassa temperatura.
Il PN in questione ha luogo in uno spazio indipendente, una macchina
costruita artigianalmente dallo chef appositamente per affumicare i cibi sia a
caldo che a freddo. Questo forno comprende due dispositivi oltre alla camera
di stagno e al cassetto per contenere i carboni roventi: uno per la regolazione
della temperatura, ed uno per l’attivazione di un ventilatore. In questo caso si
selezionano 25oC e si utilizza solamente il fumo e non l’aria delle ventole,
finalizzata alla disidratazione preventiva di carni e pesci.
Fig.3 Il cuscus dentro al forno artigianale per l’affumicatura.
Il soggetto operatore umano quindi delega l’attività di affumicatura al fuoco
e ai fumi da esso prodotti, interpretando solamente un ruolo di sorveglianza e
controllo di temperature e tempi del processo. Il lavoro umano è comunque
richiesto per la realizzazione del programma ad un livello anteriore e più
profondo, ovvero per la costruzione di un forno che permetta questo specifico
trattamento culinario.
48 Sul processo in senso negativo, cfr. Jacques Dournes (1969).
Per il mezzo culturale che necessita, come rilevato da Lévi-Strauss (1968,
p.437 della trad. it.) l’operazione di affumicatura si avvicina al processo di
cottura per ebollizione, il quale prevede l’utilizzo di un recipiente che
contenga l’acqua. Occorre sottolineare però il bollito si oppone da un altro
punto di vista all’affumicatura “in relazione alla presenza o all’assenza
dell’acqua” (ivi, p.438 della trad. it.). In questo senso, l’affumicatura implica
un’operazione non mediata o mediata a diverso grado49, non essendoci niente
che si frapponga fra il cibo e il fuoco se non l’aria. Secondo questa
prospettiva, da un punto di vista dei mezzi l’affumicato risulta essere rispetto
al bollito più prossimo al polo della natura.
Concentrandosi sulle due tecniche utilizzate per l’elaborazione del cuscus
nel suo complesso, è opportuno osservare che entrambe implicano l’elemento
aria ma a differenti stadi di purezza: nella fase iniziale e più tradizionale si
impiegavano infatti i vapori provenienti dall’acqua in ebollizione, mentre in
questo momento finale intervengono i fumi, depurati dall’elemento liquido e di
provenienza diretta dal fuoco, o meglio dai carboni ardenti.
Per mezzo di questo PN conclusivo si percorre il lato inferiore del triangolo
a partire dal “cotto a vapore” in direzione della sua sinistra, approssimandosi
al grado massimo alla categoria astratta del cotto, al quale si fa corrispondere
appunto l’affumicato. Questa tipologia di percorso inscritta in questa antica
tecnica culinaria ha la proprietà di avvicinare l’oggetto al polo della cultura
“per quanto concerne i risultati” (ivi, p.440 della trad. it.).
L’affumicatura recando le tracce del fuoco mediante l’odore dei fumi di cui
impregna le cibarie “rappresenta la tecnica più culturale e allo stesso tempo
più apprezzata nella prassi indigena” (ivi, p.438 della trad. it.). Su queste basi
probabilmente si spiegano le ragioni per cui nella produzione ad esempio del
salmone o del prosciutto d’oca affumicato una tecnica di antiche origini
acquista nel mondo moderno un valore di prestigio essendo espressione di
raffinamento, ossia di incivilimento e di distinzione culturale.
Trascorsi quarantacinque minuti nel forno, il cuscus affumicato viene
raccolto dalla piastra in cui era /disteso/ dando forma ad una pallina avvolta da
49 Si potrebbe infatti rilevare che c’è comunque oltre all’elemento aereo la presenza di
un’altra mediazione, ovvero il forno apposito di cui abbiamo già parlato e che non va distrutto immediatamente dopo l’uso diversamente dal boucan, traliccio per l’affumicatura adoperato dagli Indios della Guyana. Cfr. Lévi-Strauss (1968, p.437 della trad. it.).
una pellicola trasparente. E’ quindi /compatto/ in uno spazio più piccolo
mediante una membrana aderente sul cibo che in un primo senso lo protegge
dagli agenti esterni, e in un secondo lo rende più fisicamente controllabile e
maneggiabile, adempiendo quindi ad una funzione pratico-logistica. In questo
stato, l’oggetto parziale semi-finito verrà fatto attendere fino al momento
dell’ordinazione, ovvero potrà incorrere in quella discontinuità temporale del
processo culinario che caratterizza manifestamente la distinzione fra una fase
preliminare e preparativa e una di montaggio finale.
2.4.4. La selezione e la cottura delle verdure.
Quotidianamente gli aiuto-cuochi vengono delegati per il compito di
acquistare le verdure assieme agli altri prodotti necessari al mercato della
Boqueria, nel cuore delle Ramblas di Barcellona. E’ qui che è possibile
reperibile la più ampia varietà di ingredienti e aver la possibilità di selezionare
con cura freschezza e qualità degli stessi. Per questa ricetta la ricerca dei
prodotti adeguati comporta un lavoro non irrilevante in quanto si richiedono
rigorosamente verdure di stagione e per un totale di almeno venticinque
varietà diverse.
In questa prima fase di scelta delle risorse si ha una performanza di
qualificazione degli stessi ad entrare a far parte dell’oggetto in costruzione. Le
verdure acquistate già in un certo senso valorizzate ma solamente a livello
potenziale subiscono un primo intervento umano di lavaggio e taglio,
risultante in una loro de-naturalizzazione.
Ogni qualità di vegetale viene trattata come un oggetto distinto, affettata
molto finemente (all’incirca di 3 mm) o sminuzzata secondo i casi (ad esempio
il cavolfiore). Le verdure già semi-culturalizzate vengono quindi collocate in
bacinelle di vetro distinte, sulla base della loro qualità. Anche per quanto concerne la cottura viene rispettato il principio di
specificità di ogni singolo prodotto. Alcuni vegetali come i ravanelli sono
lasciati crudi, mentre gli altri vengono leggermente sbollentati. Ogni verdura
viene trattata separatamente e cotta per il tempo adeguato alle proprie
caratteristiche organolettiche, per una durata che non supera comunque i due
minuti. Si rispettano quindi i nuovi codici culinari che a partire dalla nouvelle
cuisine sostengono l’impiego di cotture molto brevi per i vegetali,
mantenendole anche se sottoposte a calore ad uno stato /quasi-crudo/.
Viene per prima cosa messo sul fuoco un pentolino d’acqua nel quale è
stato addizionata una quantità rilevante di sale, pari al 5% del peso
dell’elemento liquido. Il sale è soggetto performatore di un’operazione
concernente la dimensione visiva dell’oggetto di valore: fissa infatti il colore
dei vegetali immessi, i quali risulteranno in questo modo molto più brillanti e
esteticamente gradevoli.
Le verdure vengono immerse nell’acqua quando essa è nella fase aspettuale
appropriata, ovvero quella di bollitura. Si sincronizza quindi il tempo esatto di
cottura e puntualmente si procede alla scolatura, provvedendo ad immergere il
tutto nuovamente in acqua, ma questa volta gelata.
Il ghiaccio presente permette di abbassare bruscamente la temperatura,
bloccando la cottura e quindi andando a produrre una discontinuità nel
processo culinario. E’ il differente stato di calore dell’acqua a farne di essa
perciò in un primo caso un soggetto agente di cottura e nell’altro della sua
inibizione. Per opera del raffreddamento improvviso ancora una volta si
stabilizza il colore delle verdure e si evita il processo di ossidazione.
Fig.4 Le verdure vengono scolate.
Concluso il programma di cottura, si stende la pellicola trasparente e vi si
pongono le singole verdure in mucchietti distanziati. Da questo stato /aperto/ e
/disteso/ si passa ad uno stato /chiuso/ e /compatto/ raccogliendo e sigillando
l’insieme dei vegetali in un unico sacchetto, dove comunque rimangono
visivamente distinguibili tutte le varietà.
2.4.5. La preparazione delle spezie.
Per la preparazione del curry si ricorre a dodici spezie fresche e a dodici
secche. Queste ultime si reperiscono in polvere, ovvero disidratate e macerate;
sono quindi prodotti già culturalizzati in partenza. Le erbe aromatiche invece
una volta selezionate devono essere trattate nelle cucine dall’operatore umano
delegato. Il PN di preparazione prevede che tutte le varietà vengano triturate
su un tagliere facendo molta pressione col coltello. Ciò conduce alla de-
naturalizzazione delle erbe stesse.
Il processo di sminuzzamento a cui si ricorre in questo caso si distingue da
quello di semplice taglio a cui sono sottoposte le verdure poiché implica più
chiaramente un processo di /destrutturazione/ del prodotto di partenza. Spezie
secche e fresche vengono quindi incorporate in un composto /compatto/, dove
a differenza del sacchetto di verdure è praticamente impossibile discernere fra
gli elementi a causa del loro stato di semi-polverizzazione.
Fig.5 Miguel Sánchez Romera tritura le erbe aromatiche.
2.4.6. La preparazione della salsa di pomodoro.
Questo PN consiste nella preparazione di una semplice passata di
pomodoro al naturale, ottenuta da pomodori italiani spellati e privati dei semi.
L’operazione preliminare può essere interpretata sulla base delle osservazioni
di Bastide (1987) come una possibile manifestazione figurativa di un
programma di selezione: il risultato è infatti “la riduzione di una eterogeneità
‘naturale’ – pelle/polpa, contenente/contenuto, esterno/interno, polpa/semi”
(p.350 della trad. it). Si produce quindi per mezzo di un processo di
destrutturazione parziale una salsa, nella quale rimangono dei pezzetti interi, i
quali richiamano il passato stato naturale dei pomodori, o l’incompletezza del
suo processo di culturalizzazione.
Fig.6 Preparazione della salsa di pomodoro.
2.5. La fase del montaggio.
L’insieme dei PN fino ad ora descritti portano al completamento della fase
preparatoria del piatto, messa in opera nel corso della mattinata, durante le ore
precedenti all’apertura del locale al pubblico. La fase più determinante in
quanto soggetta a vincoli temporali più costrittivi è però quella di montaggio,
ovvero la performance culinaria finale, nella quale al momento
dell’ordinazione si concludono o riprendono alcuni processi culinari per
portare alla temperatura esatta tutti i componenti, nonché si provvede al loro
allestimento scenico nel piatto.
Fig.7 Gli elementi del piatto prima del montaggio.
Il PN di riscaldamento.
In questa fase vengono estratti dal frigorifero gli oggetti parziali semi-finiti,
assoggettati ad una nuova manipolazione culinaria per mezzo di programmi di
riscaldamento, un’operazione che consiste nel ripristino del loro stato di calore
ideale. Per mezzo di questo intervento, i soggetti delegati riattivano la
continuità dei processi di cottura, determinando quella cessazione della
discontinuità temporale che era stata originata dall’intrusione del gelo
(ottenuta con il ghiaccio e con l’adozione della macchina del freddo).
Sulla base perforata della cuscussiera, riempita d’acqua in stato di
ebollizione, viene deposto il sacchetto di cuscus perché acquisisca nuovamente
una temperatura aggradabile al palato. Successivamente, nel momento
calcolato puntualmente per la sincronizzazione dell’aspettualità terminale dei
diversi componenti, si aggiunge accanto al cuscus anche il sacchetto con le
verdure. Nel frattempo che le componenti principali vengono riportate ai gradi
appropriati grazie ai vapori, la polpa di pomodoro viene riscaldata in un
pentolino e il piatto vuoto è tenuto in caldo.
Queste operazioni apparentemente semplici implicano l’assunzione da
parte del soggetto umano di un’importante ruolo di sincronizzazione del
programmi narrativi delegati rispettivamente ai vapori acquei, al fuoco e
all’aria calda. Solo l’esatta esecuzione di questa fase permette un’efficace
sintetizzazione di tutto il lavoro preparatorio preliminare alla costruzione
dell’opera culinaria.
Il PN di allestimento.
In un tempo inferiore al minuto, al fine di non lasciare che la temperatura
delle componenti scenda oltremodo portando alla decrescita del valore
dell’oggetto di gusto, viene realizzata l’operazione di montaggio del piatto,
ovvero si provvede ad “impiattare”, secondo il gergo culinario. Sul fondo del
piatto viene dischiuso il sacchetto contenete il cuscus, il quale viene poi
/sparso/ e /disteso/ con le mani ponendo fine al suo stato /concentrato/ e
/compatto/. La salsa di pomodoro viene versata tendenzialmente ai bordi del
piatto e la pietanza è cosparsa nella sua totalità con la miscela di spezie. Viene
quindi dissigillata la pellicola con le verdure, le quali vanno a coprire il cuscus
conquistandosi una posizione dominante. Manualmente si ritocca la
configurazione e si provvede al suo perfezionamento formale adottando
piccoli accorgimenti decorativi, come il posizionamento verticale di una foglia
di insalata a guisa di una vela. Si aggiunge infine l’ultimo oggetto componente
del piatto, ovvero un filo d’olio di oliva, portando al suo compimento finale e
alla sua chiusura.
2.6. Il piatto finito. Un’analisi dell’oggetto di gusto nelle sue
dimensioni sensoriali e culturali.
2.6.1. L’aspetto visivo.
Sul piatto tondo sono collocate le varie componenti secondo una
configurazione non geometricamente ordinata, aliena dai giochi fra pieni e
vuoti spesso adottati nella cucina contemporanea su ispirazione dello stile
giapponese. La presentazione è naturalistica e sincera, ovvero si distinguono
apertamente gli elementi principali che compongono il piatto, ovvero i vegetali
e il cuscus, e l’artificio nella loro disposizione è minimo.
In alto, ovvero in posizione topologicamente dominante sono collocate le
verdure sminuzzate, discernibili fra loro grazie alla naturale diversità formale.
I colori dei vegetali sono molto vivaci e brillanti, anche grazie agli
accorgimenti tecnici seguiti durante la loro lavorazione. Il loro aspetto da al
potenziale degustatore del piatto un’impressione di freschezza e di naturalezza
alle manipolazioni sui prodotti. L’unico elemento decorativo costruito è una
piccola vela formata adagiando verticalmente una foglia di insalata, con
l’effetto di spezzare la simmetria. Sul fondo si scorge il cuscus sgranato dal
colore giallo oro reso più intenso e caldo dalla presenza delle spezie, nonché a
macchie si distingue il rosso della salsa di pomodoro, che fa da base e dona
opacità al piatto.
Diversamente dal cuscus tradizionale maghrebino, la ricchezza della
composizione non implica visivamente una sola entità compatta, bensì una
struttura in cui le componenti vegetali si stagliano in un contrappunto
cromatico ed eidetico. Questo piatto spicca per la vivacità e la brillantezza dei
suoi colori, che percorre in molteplici sfumature le gamme cromatiche del
verde, del rosso e del giallo, i colori più valorizzati nella cucina mediterranea e
anche più comuni nei prodotti della terra della regione. Questi stessi tre colori
sono anche quelli prediletti e più diffusi nella personale cucina del nostro chef,
che riproduce ai bordi di ogni suo piatto nelle sembianze di un logo, costituito
da tre minuscoli frammenti commestibili in queste tonalità.
Fig. 8 Le venticinque verdure con cuscus. Sánchez Romera (2001).
Fotografia di Francesc Guillamet.
2.6.2. La dimensione mitologica e il contrappunto di sapori e consistenze.
Il piatto costruito acquista una volta portato a compimento un’autonomia
dal soggetto performatore del suo programma di preparazione. Come già
sperimentato nell’analisi della costoletta di rombo sull’esempio di Floch
(1995a), possiamo interpretare l’opera culinaria come un enunciato gustativo,
dove il cuscus affumicato, le verdure e le altre componenti sono concepiti
come soggetti fra loro interagenti. Può essere interessante perciò focalizzare
l’attenzione su analogie, differenze e opposizioni che è possibile rintracciare
nella struttura del piatto ad un livello di mitologia culinaria, nonché sui piani
relativi ai livelli sensibili del gusto, dell’olfatto e del tatto.
Sono i sapori e gli aromi delle singole componenti associate alle loro
consistenze (condizionate dalle tecniche di cottura seguite) che combinandosi
fra loro generano i peculiari effetti estetico-gustativi nei quali prende forma la
loro performanza. Ognuno di questi soggetti del gusto ha un suo
posizionamento nell’universo culinario sia per la sua natura di partenza pre-
trasformazione che per il trattamento subito mediante il processo culinario.
Il cuscus per esempio evoca la cultura e lo stile di vita dei berberi o di altri
popoli del Maghreb e del Sahara, nonché grazie alla sua diffusione più in
generale il mondo culinario mediterraneo. A causa della lavorazione che
necessita la produzione della semola agglutinata e dei complessi processi che
abbisogna per la cottura già secondo la tradizione il cuscus è un elemento di
status chiaramente culturale. La tecnica di affumicatura applicata
nell’originale ricetta di Sánchez Romera accresce ancora maggiormente il suo
grado di elaborazione.
Le venticinque verdure si oppongono a livello mitologico al in quanto
prodotti che conservano e esprimono la proprie radici naturali. Sono tutte
verdure fresche e di stagione ovvero qualificate in base a proprietà
condizionate dal corso dei processi di crescita e di maturazione, determinate
non dalle attività umane bensì dai cicli naturali. Il loro trattamento culinario,
ovvero una semplice sbollentatura che le lascia in uno stato /quasi-crudo/,
mantiene il loro carattere autentico e non elaborato.
Un altro elemento che assume una posizione particolare nella struttura del
piatto a livello di valori semantici profondi è il curry di spezie. E’ un elemento
che conserva il suo legame con la terra, e in particolare per quanto riguarda il
composto di spezie secche si contrappone a livello mitologico e gustativo alle
verdure pur nell’ambito di un comune universo culinario vegetale. In esse è
assente infatti l’elemento acqua in quanto sono soggette a disidratazione, e ciò
si ripercuote a livello degli effetti di gusto. Come rilevano Peter Kaminsky e
Gray Kunz (2001) nella loro analisi degli “elementi del gusto”, le verdure
dell’orto infatti conservano un elemento di acquosità che si esperisce in bocca,
mentre le spezie ridotte in polvere portano con sé un aroma che sospinge il
gusto dell’insieme.
Secondo una classificazione più propria delle culture orientali ma non
estranea anche al mondo occidentale, il curry è inoltre un elemento
semanticamente identificabile come /caldo/, in opposizione all’appartenenza
dei vegetali ad una categoria del /freddo/. Secondo Eugene Anderson (1980),
questa dicotomia sulla cui base sono stati costruiti storicamente e pressoché
universalmente “sistemi umorali” 50 molto diffusi a livello di credenza
popolare è motivato dagli effetti che i diversi cibi producono su chi mangia
(all’assaggio e durante la digestione). Come ricorda Yvonne Verdier (1969)
inoltre, le spezie nell’ambito del pensiero cinese partecipano di un principio
“yang”, caldo, attivo, maschile, mentre le verdure specialmente se bollite
partecipano di un principio “yin”, freddo, passivo, femminile.
50 Non è noto se l’origine di questi sistemi vada ascritto alla scuola di Ippocrate, a studiosi
dell’India o del vicino oriente, ma in ogni caso si è diffuso universalmente ed è ancor oggi alla base della medicina tradizionale cinese e indiana. Cfr. Anderson (ivi).
Esaminando più in profondità l’universo tattile e gustativo esplorato dagli
attori del gusto, è possibile abbozzare meglio il tracciato che prende forma
dall’incontro delle performance culinarie di ognuno di essi nel racconto di
sapori rivelato dal piatto.
Il cuscus ha nella sua testura granulosa buona parte della sua attrattiva,
offrendo grazie alla sua irregolarità superficiale uno stimolo per le papille
gustative. La sua peculiare consistenza non levigata le viene dal processo di
disgregazione in unità minime e indipendenti dell’amalgama di un elemento
solido ed uno liquido. Questa sua ruvidezza rende il cuscus particolarmente
adatto ad impregnarsi degli elementi liquidi e grassi, in questo caso limitati ad
un velo di salsa di pomodoro e ad un filo d’olio d’oliva, non risultanti nella
testura pastosa caratteristica della pietenza tradizionale. I grani rimangono
quindi indivisi alla percezione sulla lingua, puntualizzati dall’aroma di fumo
prodotto dalla leggera affumicatura.
La consistenza granulare del cuscus contrasta con la testura solida e
croccante delle verdure quasi-crude, molto lontane a livello percettivo dalla
componente vegetale del piatto nazionale marocchino, sottoposte a cottura
molto prolungata che le sfibra e rende molli. Il trattamento individualizzato di
ogni singola varietà e l’esiguità dell’elaborazione permettono inoltre la
conservazione della naturale e peculiare fibrosità di ogni esemplare. In linea
con i codici dell’alta cucina moderna e in contrasto col cuscus tradizionale, la
sensazione gustativa non è omogenea e complessiva ovvero associabile ad
un’unica entità gustativa, bensì ogni elemento è distinguibile, con esaltazione
di un’attività di riconoscimento del soggetto che lo mangia. La sensazione del
croccante, qui prodotta a vario grado dai frammenti vegetali, ha inoltre
secondo la lettura di Kaminsky e Kunz (2001) l’effetto di un punto in una
frase, in quanto segnala il termine di un’esperienza gustativa e l’inizio di una
nuova.
Strutture oppositive.
Cuscus
Cultura vs
cotto a vapore
+affumicato vs
doppiamente cotto vs
granuloso vs
Verdure
Natura
appena sbollentate
quasi-crude
fibrose, croccanti
Gli elementi solidi del piatto vengono controbilanciati dai due elementi
tendenzialmente liquidi del piatto, ovvero la salsa di pomodoro e l’olio, i quali
permettono un prolungamento e una distensione della percezione tattile. Il
primo di queste componenti sul piano dell’armonia gustativa fornisce al piatto
la necessaria acidità. La componente grassa ha all’interno della struttura
compositiva della pietanza una funzione non primariamente associabile agli
elementi gustativi bensì perlopiù assimilabile al livello della testura, secondo
l’accezione di questo concetto dei sopracitati Kaminsky e Kunz (2001).
Questi autori definiscono la testura come una parte critica del gustare non
relativa al sapore; un elemento che puntualizza il gusto, “aiuta a leggere
messaggi più lunghi di gusto e a produrre senso da questi” (ivi, trad. mia).
L’olio di oliva appunto, così come i grassi in genere, ha la funzione primaria
di “disseminare il gusto, diffonderlo al palato e portarlo come aroma al naso”.
All’interno di una ricetta esso “funziona come una virgola in un lungo
elegante periodo” (ivi).
Il curry di spezie macerate si presenta alla lingua come una polvere in cui
ogni suo elemento a differenza delle verdure è fisicamente non discernibile,
nonché generalmente di scarsa palatività anche nel composto se esperito
autonomamente dai cibi. Le erbe aromatiche spingono ed esaltano i sapori
specifici degli ingredienti che accompagnano. Esse hanno, nell’armonia del
piatto, la funzione di ornamento e di accento delicato, paragonabili all’arpa nel
contesto musicale (ivi). Le spezie secche, analogamente ad una tromba in
un’orchestra, accrescono e magnificano l’insieme, producendo note
chiaramente identificabili. La loro funzione fondamentale è sviluppare un
bouquet aromatico che sospinge e risalta il gusto del cuscus, del pomodoro e
dei vegetali, contribuendo in modo determinante alla sapidità del piatto.
Strutture oppositive.
Verdure
“freddo” vs
acquose vs
discernibili vs
compatte vs
Spezie
“caldo”
disidratate (elemento terra)
composto omogeneo
polverizzate
Gli attori del racconto culinario esprimendo loro proprietà gustative, tattili
ed olfattive interpretano la loro parte contribuendo all’armonia globale del
piatto. L’ottenimento del livello opportuno di sapidità grazie all’intervento
delle spezie, della componente di untuosità per mezzo dell’olio di oliva,
dell’elemento liquido mediante la polpa di pomodoro, vanno ad accompagnare
in ruoli di contorno la performance dei protagonisti del gusto di questo piatto,
ovvero il cuscus e le verdure.
L’esplorazione di un ampio spettro di categorie tattili mediante tutte le sue
componenti rende l’esperienza di degustazione piacevole e varia. La testura
croccante e differenziata delle verdure in accompagnamento alle sfumature di
gusto che esprime, puntualizza il processo di assaggio dando forma alla sua
discontinuità, presupposto alla saisie esthetique. Le sottili tracce di fumo
impresse nei grani per mezzo del processo di affumicatura intensificano
l’esperienza di degustazione del cuscus, in particolare nella sua componente
olfattiva. La sua consistenza granulosa rende inoltre persistente la percezione
dei sapori, poiché adatta ad impregnarsi delle proprietà aromatiche e gustative
liberate dal pomodoro, dalle spezie e dalle erbe floreali.
L’intreccio e l’incontro della struttura dei gusti e degli aromi,
l’articolazione delle sue differenti consistenze e la configurazione del piatto
nella sua dimensione visuale e in particolare cromatica, risultano
nell’architettura singolare di questo piatto. La nuova costruzione generata
mediante la creazione delle “venticinque verdure con cuscus” consente
l’esplorazione di una combinazione di sensazione estetico-gustative
assolutamente inedita, in dialogo però con le precedenti esperienze sensoriali
del commensale. L’utilizzo di prodotti del territorio e la riproduzione di
parziali nuclei gustativi ragionevolmente evocatori di passate libagioni
permettono al destinatario dell’opera culinaria di riportare alla luce ricordi
percettivi sopiti (Sánchez Romera, 2001). Lo chef riferisce ad esempio il
racconto dell’esperto gourmet che alla degustazione di questo piatto si è
emozionato e divertito a riconoscere ognuna delle venticinque differenti
varietà di vegetali incluse nel piatto, nonché è stato piacevolmente sorpreso
nell’esplorarne ineditamente a pieno le proprietà aromatiche, cromatiche,
gustative e tattili.
2.7. Il cuscus di Sánchez Romera e quello di Adrià a
confronto.
Per una curiosa coincidenza, anche nel menù di degustazione di El Bulli in
corso al momento della mia visita è presente un piatto di “cuscus”, pure in
questo caso assolutamente innovativo e non assimilabile alla pietanza
tradizionale maghrebina, se non per alcuni ingredienti e per alcuni aspetti della
sua configurazione visiva. Nel piatto di Adrià sorprendentemente è assente
perfino la semola, ovvero il prodotto base di questa preparazione classica. Il
protagonista del gusto è infatti semplice cavolfiore bollito e triturato,
sottoposto adoperando un termine di Bastide (1987) ad un processo di
destrutturazione, perché acquisti la peculiare consistenza granulosa che
caratterizza il cuscus. Non mantenendo la natura sostanziale del piatto classico
ma le sue sembianze, il nome funge in quest’accezione in senso traslato. Viene
mantenuto però un altro elemento appartenente al nucleo base della ricetta
maghrebina, ovvero il fondo di agnello, il quale risulta invece assente nella
costruzione culinaria di Sánchez Romera. Così come nella tradizione, questo
elemento provvede alla necessaria componente liquida ed untuosa del piatto,
per soddisfare le quali lo chef dell’Esguard è ricorso alla salsa di pomodoro e
all’olio di oliva. Un elemento comune alle due nuove creazioni nella sostanza
è inoltre l’inclusione di un bouquet di spezie, le quali contribuiscono alla
struttura aromatico-gustativa del piatto. Ad El Bulli le spezie non si presentano
però come una unica miscela bensì come un insieme di elementi discernibili,
assolvendo quindi al ruolo interpretato dalle verdure all’interno del piatto di
Sánchez Romera, ovvero nell’introduzione dell’elemento di disomogeneità
percettiva. Nel cuscus di Adrià l’elaborazione e l’allestimento delle spezie
corrisponde al programma narrativo più impegnativo nell’ambito della
produzione globale in relazione ai soggetti performatori umani che coinvolge.
Tutte le differenti erbe e spezie sono trattate singolarmente e in combinazione
con altri elementi vengono disposte accuratamente ai bordi del piatto tondo, a
distanza regolare come se si trattasse delle ore di un orologio. Foglie o fiori di
erbe aromatiche vengono alternate a dadini di mela e pera, nonché a cubetti
ottenuti dalla solidificazione di una gelatina di Campari e di una riduzione di
Cabernet Sauvignon.
Questo insieme di elementi dalla configurazione altamente decorativa va a
costituire il nucleo concettualmente più innovativo di quest’opera culinaria.
Come ricorda il nome sul menù, esso infatti è interpretabile come una salsa
solida. Analogamente ad una salsa infatti esprime una gamma di sapori forti
che donano sapidità e accompagnano con un bouquet aromatico la base
gustativa. In questo stato, esse producono nel commensale un effetto tattile
sensibilmente differente rispetto alle salse classiche in quanto risultano a vario
grado croccanti al palato e pungenti per le papille gustative. L’analogia con le
salse è in ogni caso riconoscibile se immaginiamo un intervento di
trasformazione dello stato discreto degli elementi iniziali in uno stato
compatto, ovvero di sottoposizione degli stessi ad un processo di chiusura
(Bastide, 1987), per mezzo di semplici operazioni meccaniche. Elaborando
infatti l’insieme di questi prodotti con un thermomix si produce una pasta,
trasformabile in una salsa con la mera aggiunta di un elemento liquido.
Si potrebbe sostenere che il nuovo concetto di salsa solida è il risultato di
un processo di decostruzione del PN di produzione di una salsa ordinaria (nel
senso di liquida), o meglio del disassemblaggio virtuale del suo oggetto finale
in un insieme di oggetti riconducibili ad alcune delle sue fasi o differenti
qualità sensoriali del suo stadio terminale. In questo caso troviamo ad esempio
disposti ad orologio un “pan de especias”, un dado di gelatina di Campari e
una goccia di salsa spessa a base di vino, associabile ad una fase intermedia o
semi-finale della processualità. Si fa uso per la salsa solida quindi di elementi
discreti per stato naturale e di componenti sottoposti ad un’operazione di
chiusura o compattificazione (come nella preparazione della gelatina),
interrotta e seguita dal processo inverso di frammentazione in minuscole unità.
In un’ottica allargata, la nuova idea di Adrià può essere concepita come il
corrispettivo del micrì di Sánchez Romera, in quanto entrambi danno forma ad
un nuovo concetto di salsa. Le operazioni messe in atto dai due chef sono
sensibilmente differenti nelle direzioni seguite mediante l’attività creativa.
Adrià ha infatti conservato il contributo delle salse sul piano dei sapori, mentre
ha sottratto, alterato o riportato alla natura primitiva degli ingredienti il piano
della consistenza. Sánchez Romera invece ha valorizzato l’apporto offerto
dalle salse a livello di testura, rimovendo l’apporto gustativo oltre che
calorico fornito in maniera accessoria dagli elementi presenti nelle ricette
classiche in funzione di liason. Lo chef dell’Esguard ha in particolare
valorizzato e incrementato il grado di coesione delle salse ordinarie
attribuendo al suo micrì il ruolo di soggetto performatore di operazioni di
chiusura, mediante la testurizzazione degli ingredienti con cui si combina
nella produzione di un’emulsione stabile, ovvero introducendo uno stato
compatto (Bastide, 1987).
Ritornando al confronto fra i due cuscus, si possono rilevare anche qui
numerose analogie nel processo seguito dai due chef, così come alquante
specificità. Come attestano le tabelle sottostanti, un esame comparato degli
elementi inclusi per la costituzione dell’oggetto finale nonché della struttura
tattile del piatto risulta rivelatorio a questo proposito.
Le componenti.
“Le venticinque verdure con
cuscus affumicato e speziato”
“Cuscus di cavolfiore con salsa
aromatica solida”
vegetali: venticinque distinti vegetali: una da protagonista:
il cavolfiore
fondo: /. salsa di pomodoro + olio fondo: classico fondo di agnello
cuscus: classico, + affumicato
cuscus: /. cavolfiore.
spezie: miscela omogenea
spezie: distinte, salsa solida
Le consistenze.
granuloso: semola di grano duro granuloso: cavolfiore
croccante: verdure croccante: salsa solida di spezie
liquido: salsa di pomodoro liquido: fondo di agnello
untuoso: olio d’oliva untuoso: “ “ “
polveroso: spezie polveroso: parte di spezie
Entrambi hanno utilizzato come oggetti fondanti del piatto prodotti
provenienti dal mondo vegetale, accompagnandoli con elementi non
sovrastanti ma che potessero esaltarne la sapidità e costruire la struttura
olfattiva. Senza riadattare né nemmeno decostruire la ricetta base tradizionale
in cui è impiegato da protagonista il cuscus, essi hanno prodotto un piatto
innovativo fresco e leggero. Allo stesso tempo, non hanno rinunciato a coprire
un vasto spettro di sapori intensificati e depurati mediante la scelta di
trattamenti naturali e l’impiego di ingredienti che esprimano un bouquet
aromatico.
Entrambi hanno lavorato per esplorare un’ampia gamma di consistenze con
le diverse componenti, rendendo l’esperienza di degustazione molto varia a
livello di tattilità orale. In un processo di discretizzazione della dimensione
gustativa e tattile del piatto nella sua totalità, si sono ricercate le note migliori
per esprimere con questa creazione una cucina timbrica, capace di rendere
l’esperienza di degustazione discontinua, dispiegandola a livello temporale.
3. I sensi, il cibo e il cervello. Miguel Sánchez Romera, come precedentemente accennato, non svolge
esclusivamente la professione di cuoco. E’ infatti anche uno specialista di
neurologia clinica, e questa sua formazione ha influenzato il suo approccio
all’arte culinaria, passione che l’ha spinto a dedicarsi professionalmente anche
alla ristorazione. Non concependo i due ambiti di cui si occupa come due sfere
separate bensì come mondi comunicanti, ha voluto indagare la problematica
delle relazioni fra cervello, sensi e cucina, e divulgarli nel suo libro La cocina
de los sentidos. In questa sezione, vorrei discutere alcune delle tematiche
esplorate in quest’opera, anche alla luce della lettura filosofica che propone
Fabio Parasecoli (2002).
3.1. Il ruolo del cervello. Nel suo libro, lo chef-neurologo prende in esame, adottando una prospettiva
prevalentemente neurobiologica, come nel rapporto con il cibo siano coinvolte
diverse aree celebrali attraverso la mediazione dei canali sensoriali e la
stimolazione degli organi del piacere. Partecipa innanzitutto l’ippotalamo,
organo complesso che regola le funzioni base (come mangiare, bere, dormire),
e che in forma indiretta è vincolato ai centri che regolano l’emotività e il
piacere. Neurologicamente, l’ippotalamo si collega ad altre aree celebrali
impiegate per la memoria e l’apprendimento nonché a zone della corteccia
grigia responsabili delle attività coscienti e intelligenti, quali operazioni di
riconoscimento alimentare così come attività di scelta e giudizio. Come illustra
Sánchez Romera mediante spiegazioni scientifiche, nei confronti del cibo
intervengono quindi le necessità fisiologiche del corpo legate agli stimoli
dell’appetito, una sfera emozionale e motivazionale collegata anche alle
memoria di passate esperienze, nonché una dimensione intellettiva razionale.
Come sottolinea Parasecoli, il cibo è collocabile in una posizione di
frontiera fra il biologico e il simbolico, fra il mondo materiale e quello
immateriale. Il lavoro dello chef si situa quindi peculiarmente all’intersezione
fra la produzione di oggetti tangibili destinati al nutrimento e l’attività artistica
e culturale di creazione di opere finalizzate a provocare emozioni nel
commensale e a dialogare con la sua memoria estetica e gustativa.
La natura peculiare degli oggetti culinari li rende difficilmente classificabili
nelle due categorie di corpo e mente, concepite quali poli dicotomici non
comunicanti secondo la tradizione culturale occidentale dominante. Come si
sostiene in Hungry Engrams (Parasecoli, 2001), la demarcazione fra psiche e
materia che il cibo nega è in realtà messa in crisi già dalla natura ibrida
detenuta dal cervello umano.
Parasecoli adotta in questo saggio una prospettiva opposta a quella
cognitivista più classica, che concepisce i processi mentali quali operazioni di
immagazzinazione, selezione ed elaborazione di informazioni
indipendentemente dal mezzo in cui avviene. Sulla base delle recenti teorie
elaborate da George Lakoff e Mark Johnson (1999), Parasecoli enfatizza la
natura “corporificata” della mente, la presenza di una relazione dinamica fra
gli stati mentali e l’esperienza corporea. Non a caso, sottolinea lo studioso,
Cartesio ha collocato la coniugazione fra la res cogitans e la res extensa
proprio nel cervello, per mezzo dell’organo da lui denominato ghiandola
pineale.
Il corpo e la dimensione materiale vanno quindi tenuti in considerazione
quali aspetti fondamentali del nostro modo di esperire il mondo che
intervengono nel nostro approccio alla realtà. Attraverso i canali sensoriali,
riceviamo gli input dal mondo esterno che vengono elaborati nella mente, e il
nostro modo di recepire la realtà e memorizzarla è influenzato anche dal lato
emozionale, che con l’esperienza somatica è associato. Il reale non è
riprodotto a livello mentale nella forma di una rappresentazione fedele
all’originale, bensì sulla base di sensazioni corporee presenti ed esperienze
passate conserviamo nella memoria un’interpretazione del mondo oggettivo
che ne è una ricostruzione personale51. Il cervello non registra perciò
passivamente il mondo esteriore, bensì, nel processo dinamico in cui è
coinvolto, partecipano la nostra curiosità e la nostra attenzione, influenzate da
motivazioni soggettive, ma comunque stimolino più o meno efficacemente
dall’esterno.
3.2 . Il ruolo dei sensi.
Come viene enfatizzato da Sánchez Romera (2001), nella cucina è compito
primario del cuoco curarsi che le proprie opere culinarie sollecitino
incisivamente ma sottilmente gli organi di senso del commensale, sulla base
della riflessione che è solo mediante la percezione sensoriale che l’atto
gastronomico può dare origine ad una sensazione di piacere.
Secondo quanto osserva il cuoco dell’Esguard, è essenziale nella
professione culinaria prendere atto della necessità di lavorare su tutti i livelli
sensoriali, tanto più se si considera che l’arte culinaria gode dell’unicità di far
partecipare “i cinque sensi in forma globale” (ivi, p.86, trad. mia). A questo
punto, può essere interessante sviscerare più a fondo la tematica relative al
ruolo interpretato dai diversi sensi nell’esperienza culinaria e del loro rapporto
con la dimensione celebrale, adottando la prospettiva scelta nel suo libro dello
chef-neurologo.
3.2.1. Il senso della vista.
Mediante gli organi della vista, possiamo avere una percezione
tridimensionale stabile di ciò che mangiamo e cuciniamo, nonché di tutto
l’ambiente circostante. Come già sottolineato in altre sezioni, nella cucina
quello visivo è essenzialmente un senso di anticipazione dell’esperienza
gastronomica: esso interviene infatti, assieme all’udito, nel corso del
51 Questa teoria, condivisa da Parasecoli (2002), implica l’adozione di un modello non-
rappresentazionale della mente.
cerimoniale che precede la degustazione, ovvero nell’osservazione dello
scenario del ristorante, dell’arredamento della sala e della tavola,
dell’allestimento dei piatti.
La percezione visiva può predisporre l’organismo alle sensazioni di piacere,
prima del contatto diretto con l’oggetto gastronomico. La dimensione visiva
dell’opera culinaria, che comprende innanzitutto l’architettura e le dimensioni
eidetica e cromatica, consente la riconoscibilità della pietanza al commensale,
nonché costituisce il livello più facilmente dominabile dal cuoco nel controllo
della riproducibilità52.
La visione di una pietanza può produrre effetti emozionali diversi nel
destinatario, come una sensazione di familiarità, di seduzione o di
apprensione. Poiché l’essenza dell’oggetto gastronomico si anticipa quindi con
la vista, è necessario secondo l’opinione di Sánchez Romera “non caricare di
artificialità i nostri piatti” (ivi, p.92, trad. mia). E’ opportuno quindi non
defraudare la percezione visiva con un allestimento infedele alla realtà, dato
che con la degustazione è possibile per il cliente comparare le sembianze del
piatto con la sua sostanza. Si può ritenere, sulla base di queste considerazioni,
che nella concezione di Sánchez Romera l’allestimento del piatto debba
allettare e predisporre al piacere il commensale, mentre la sorpresa venga fatta
intervenire solo nel momento dell’assaggio, nella percezione dei sapori e con
essi dell’“essenza” della pietanza.
Nell’anticipazione del gusto, la dimensione cromatica è molto importante:
il colore può ad esempio far sì che da crudo un alimento risulti più o meno
fresco e commestibile, mentre quando cucinato se cotto al punto giusto o
eccessivamente. Come riportano Marchesi e Vercelloni (1992, p.8), il celebre
esperimento dell’alimentarista Moir è particolarmente significativo a
proposito. In questa circostanza, si cerca di provare l’influenza dei colori nel
giudizio gastronomico organizzando un banchetto di contraffazioni
cromatiche, dove le portate di impeccabile qualità vengono colorate
artificialmente in maniera anomala all’insaputa dei commensali. Molti di essi,
colleghi inconsapevoli di Moir, sperimentano una sensazione di nausea e
malessere, determinata dalla sola incongruità fra i cibi e i colori loro associati.
52 E’ più difficile riprodurre esattamente gusto e odore di un piatto, in quanto essi
dipendono da molte variabili, come il prodotto, la tecnica, la stagione e l’autore del piatto. (Sánchez Romera, ivi, p.90).
In altri esperimenti, Moir studia inoltre l’influenza della dimensione cromatica
nell’identificazione dei cibi. Dalle sue prove, risulta ad esempio che il
riconoscimento dei sapori di sciroppi e gelatine è quasi sempre erroneo in
presenza di colori falsati53.
3.2.2. Il senso dell’olfatto.
Nonostante sia ritenuto di scarsa importanza nell’ambito della cultura
occidentale, l’olfatto ha un ruolo cruciale all’interno della vita emozionale
dell’essere umano, nonché nella modulazione della nostra memoria e del
nostro apprendimento.
Nell’uomo questo senso è meno sviluppato che in alcuni animali, ma ciò
non toglie che la nostra capacità olfattiva sia molto più elevata rispetto a quella
gustativa. Una persona addestrata, come un profumista o un miscelatore di
whisky, può riuscire a distinguere anche centomila odori differenti.
Nell’identificazione e nell’apprezzamento dei cibi, la componente odorifera
è molto importante. Come ricorda Sánchez Romera (ivi), dobbiamo renderci
conto che “un sapore è la somma di gusto e olfatto, e che in molte occasioni il
gusto è solo olfattivo”54.
Neurologicamente, sebbene da un lato protagonista di istinti primari, è
anche manifestamente all’opera in attività pienamente coscienti e intelligenti.
A differenza degli altri sensi, che hanno solo una via indiretta di accesso ai
centri coscienti del cervello, l’olfatto ha la peculiarità di avere anche una
seconda strada, veloce e diretta, che giunge alla corteccia celebrale senza la
mediazione di punti di contatto collocati nel tronco celebrale (ivi, p.97).
Il processo olfattivo ha origine con il deposito delle molecole odorose del
corpo sapido nell’epitelio olfattivo; prosegue con il loro passaggio attraverso
la corrente d’aria della narice55; continua poi nel transito delle stesse molecole
alla via retronasale, una volta che le sostanze sono state masticate e degustate
in bocca. Nella Fisiologia del gusto (Brillat-Savarin, 1825, p.59 della trad. it.)
si riconosce l’estrema rilevanza dell’olfatto e si suggerisce di verificare quanto
questo senso sia implicato nella degustazione per mezzo di prove empiriche:
quando si è raffreddati o se si mangia chiudendo il naso la sensazione di gusto
53 Mentre con sciroppi incolori il degustatore non incontra eccessive difficoltà. 54 Ad es. il tartufo ha odore intenso ma scarso sapore. Ivi, p.100. 55 Producendo “l’effetto chimenea”, se adoperiamo il termine di Brillat-Savarin (1825).
è imperfetta, così come se quando si inghiotte il cibo si tiene attaccata la
lingua al palato, impedendo la circolazione dell’aria in gola.
3.2.3. Il senso del gusto.
Il gusto è assieme all’olfatto etichettato quale “senso chimico”, in quanto
capace di trasmettere informazioni al cervello relative a sostanze del mondo
esterno per mezzo di strutture denominate recettori, ovvero di cellule o gruppi
di cellule specializzate, collocate nella lingua e nella cavità boccale (Sánchez
Romera, ivi, p.111). Raggruppate nelle papille gustative, queste cellule
captano secondo gli studi perlomeno quattro sapori base: dolce, salato, amaro
e acido. Ultimamente è stato identificato anche un quinto sapore, l’umami,
caratteristico delle cucine dell’Estremo Oriente, e prodotto in particolare dal
glutammato monosodico56, contenuto in abbondanza nella quasi onnipresente
salsa di soia e nell’alga konbu, componente del brodo di base giapponese, il
dashi (Dalessandri, 2001).
La percezione del salato e dell’acido sono collegate a quella che è l’origine
evolutiva dell’uomo e alle funzioni primarie del gusto: il salato ricorda la
discendenza dell’essere umano dagli invertebrati abitanti nel mare,
l’identificazione dell’acido è preventiva all’ingestione di elementi tossici.
Successivamente, si è sviluppato un senso del gusto più versatile e hanno fatto
la loro apparizione i sapori dolce e amaro. La preferenza gustativa verso il
dolce si manifesta naturalmente già dalla nascita, mentre il gradimento di
sostanze amare può verificarsi con l’acquisizione di un’esperienza e la
modificazione dei gusti alimentari.
L’identificazione e l’apprezzamento di un alimento in particolare prevede
però una specificità che va al di là della semplice associazione ai sapori di
dolce, salato, acido e amaro. Per prima cosa, ogni cibo attiva una peculiare
combinazione di sapori basici differenti. Secondariamente, come si è detto, il
sapore è il risultato della somma di gusto e odore. Terzo, entrano in gioco
anche elementi come la testura e la temperatura.
Come ricorda Sánchez Romera (2001), nell’operazione di riconoscimento e
di valutazione del cibo, il cervello analizza e sintetizza percezioni
multisensoriali, in cui vengono fatti intervenire tre sistemi: quello gustativo,
56 Oltre allo iosinato disodico e gualinato disodico. Cfr. Enza Dalessandri (2001).
quello olfattivo e quello sensitivo o trigeminale. Quest’ultimo è ritenuto
innanzitutto responsabile della sensazione del piccante o di calore degli
alimenti.
Nelle scelte culinarie, è fondamentale secondo lo chef-neurologo tenere in
considerazione le modalità in cui l’essere umano entra in contatto con
l’oggetto gastronomico e vive l’esperienza gustativa. E’ necessario ad esempio
ricordare che si verifica nella percezione del gusto un adattamento al sapore,
ovvero nella ripetizione ravvicinata di un assaggio si produce una riduzione
dell’intensità della sensazione gustativa. Nella programmazione di un menù
occorre quindi valutare in che modo le qualità gustative di una pietanza
possono alterare la percezione delle successive. Per rendere più intensa
l’esperienza gustativa, Sánchez Romera inoltre preferisce attribuire alle
preparazioni culinarie una consistenza viscosa, gelatinosa o untuosa, al fine di
garantire che le papille gustative possano essere adeguatamente impregnate
dalle molecole gustative e odorose, nonché che le loro informazioni si
mantengano a lungo in bocca. Queste testure, hanno infatti la proprietà di
produrre quella che lo chef dell’Esguard definisce “una grande superficie di
adattamento nella cavità oronasale” (ivi, p.128).
3.2.4. Il senso del tatto.
Neurologicamente, il senso del tatto è costituito dal sistema sensoriale
somatico, il quale rappresenta la congiunzione fra corpo e sensibilità, come la
derivazione etimologica dai termini greci soma ed estesia rende manifesto. Per
mezzo dei recettori nervosi diffusi nelle differenti zone del corpo fra cui anche
nella lingua, nella cavità boccale e nella mano, vengono percepite numerose
sensazioni. Nel caso degli oggetti gastronomici, si acquisiscono e trasmettono
al cervello informazioni relative alla testura, al peso, alla temperatura delle
pietanze, nonché si avvertono eventualmente segnali di dolore (ivi, p.130). E’
molto importante che lo chef conosca e domini l’intera gamma delle
consistenze, studiando i possibili contrasti che è possibile creare a questo
livello fra le componenti di ogni suo piatto, così da rendere l’esperienza di
degustazione più variegata. Una corretta valutazione del parametro della
temperatura è un aspetto altrettanto essenziale per determinare la sensibilità di
percezione dei sapori da parte del commensale.
3.2.5. Il senso dell’udito.
Il senso dell’udito non ha un ruolo primario nell’esperienza gastronomica,
bensì solamente una funzione di arricchimento dell’esperienza percettiva
globale. Viene attivato, così come la vista, già a distanza dal cibo, nella
ricezione delle onde sonore che si producono nell’attività di ristorazione, come
nel lavoro di cucina, nelle mansioni del personale di sala, nel vociare degli
altri commensali. In prossimità con le pietanze, i rumori sono quelli emessi
dagli spostamenti delle posate, nonché dalle sonorità risultanti dal contatto con
i denti di cibi dalla consistenza croccante. Questi suoni ci portano a volte nel
mondo del ricordo, arricchendo l’esperienza presente con quella di passate
degustazioni.
VI.
FERRAN ADRIÁ.
1. La strada per El Bulli e i suoi spazi.
La localizzazione di El Bulli è certamente inusuale considerato il suo
prestigio e il conseguente richiamo di un pubblico numeroso e a vocazione
internazionale: non solo non si trova in una grande città (ma questa non
sarebbe una grande novità per i ristoranti di alto livello), ma accedervi
comporta un viaggio impervio e solitario, che lo rendono molto più vicino ad
un pellegrinaggio al santuario che ad una rituale uscita domenicale al
ristorante di turno.
Abbandonato l’ambiente cittadino della vicina città di Girona, e fatto arrivo
a Roses, cittadina balneare vittima del deturpamento edilizio, dobbiamo
lasciare le rotte frequentate per avventurarci nei pressi di Cala Montjoy,
piccolo villaggio che dà su una splendida baia originariamente frequentata
soprattutto dagli amanti del sub. Questa affascinante quanto desolata località
sorge sulla sommità di una lunga serie di tornanti a strapiombo che rendono
l’accesso a El Bulli piuttosto difficoltoso e precludono l’avvicinamento
casuale del viaggiatore alla ricerca di un posto di ristoro. La nota ancor più
curiosa è l’assenza di alcuna sorta di segnalazione stradale che informi sulla
direzione da prendere per raggiungere il locale.
Costruito in pietra perfettamente integrabile con l’ambiente, esso sembra
volersi pudicamente ritrarre dall’attenzione indiscreta di chi non lo conosce,
non essendo iniziato alla cultura del gourmet. Il suo giardino ha sentieri
anch’essi di pietra, immersi in una vegetazione rigogliosa.
Chi ci arriva quindi è un soggetto pienamente competenzializzato nel senso
del sapere: deve sapere infatti di che ristorante si tratta, presumibilmente
conoscere il nome e l’identità del suo chef-patron, nonché necessariamente
dove si trova esattamente e come è possibile raggiungerlo. Ciò comunque non
basta, il suo frequentatore deve possedere tutta una serie di competenze per
accedervi:
– come abbiamo visto, deve sapere della sua esistenza;
– deve fare la prenotazione del tavolo con un anticipo di parecchi mesi,
nonché fare la fatica di raggiungerlo;
– deve potere sostenere la spesa economica non indifferente per la cena e (se
non si tratta di un quasi frontista) per il viaggio, nonché (non necessariamente
ma realisticamente) potere disporre di un mezzo di trasporto per arrivarci.
Superate tutte queste prove di qualificazione, il nostro eroe è identificabile
come tale perché ha dimostrato di fare parte – per desiderio e non per meriti o
capacità accertate – del circolo non troppo ristretto degli estimatori della
cucina creativa e del suo guru, Adrià.
Fig.1 L’entrata di El Bulli.
Lo spazio interno ha caratteri completamenti diversi da quelli vissuti in
precedenza. Ciò che prima quasi pudicamente non si voleva mostrare
precludendo l’accesso all’informazione da parte dell’utente, ora risulta
assolutamente chiaro, trasparente e accessibile. Da questo momento tutte le
porte della conoscenza gli si aprono, ogni azione diviene miracolosamente più
agevole, ogni suo curiosità facilmente soddisfabile, e l’oggetto del suo
desiderio sempre più prossimo fino ad un finale congiungimento. Dopo la
fatica l’eroe riceve il premio di un’esperienza unica e irrepetibile,
gustativamente ed esteticamente esaltante, differente da tutto ciò che si ha
sperimentato prima.
La strada impervia da Roses a Cala Montjoy è uno spazio paratopico che si
oppone al programma del soggetto (il cliente), può essere quindi anche inteso
a livello narrativo come un oppositore (che manifesta un non poter-fare) nei
suoi confronti. Sconfitto l’oppositore, il soggetto qualificato come eroe
virtuale entra in uno spazio in cui numerosi adiuvanti (ovvero il numeroso
staff) lo aiuteranno a congiungersi con l’oggetto desiderato. Qui l’oggetto può
essere molte cose diverse: l’esperienza gustativa ed estetica di piatti mai
provati, la conoscenza del guru della cucina creativa, l’acquisizione di
prestigio nell’iniziazione a gourmet, o persino, nella degustazione dei piatti
una sorta di ”cannibalismo di alta cultura” del suo autore (Arenós, 1999, p.9,
trad. mia).
A questo punto si apre tutto un mondo accessibile alla vista (e al gusto): le
cucine sono trasparenti all’esterno grazie alle enormi vetrate che danno sul
giardino (e di notte si illuminano nella loro magnificenza e in tutta la loro
febbrile attività), nonché all’interno perché le cucine nella sezione principale
di montaggio dei piatti sono aperte e perfettamente visibili. Ci si può scegliere
anche un tavolo proprio accanto per cenare e così assicurarsi non solo lo
spettacolo dei piatti ma della performance culinaria.
Il copioso personale a disposizione si prende cura di tutte le esigenze dei
clienti, dedicando tutta l’attenzione resa possibile da un rapporto numerico: un
cuoco - un cliente, e consentendo loro a volte di salutare il guru Ferran e
scambiare qualche parola. Alla fine inoltre lo staff avrà cura di verificare
direttamente il gradimento dei piatti da parte dei commensali, raccogliere
critiche e sondare preferenze per mezzo di colloqui personali. Tutto questo
processo di sanzione finale degli oggetti di gusto ha delle funzionalità
pratiche, non solo di verifica generale delle performance per eventuali
modifiche da apportare ai procedimenti culinari, ma anche e sostanzialmente
in previsione di un possibile ritorno del cliente stesso. Le note di gradimento
infatti vengono accuratamente registrate in schedine personali conservate in un
apposito archivio che verrà consultato in caso di una nuova visita. Sulla base
del principio della relatività dei gusti, si cerca quindi di adeguarsi alle
preferenze e idiosincrasie alimentari del commensale entro il limite posto dal
rispetto del potere impositivo-creativo dello chef.
Quest’ultimo del resto assume una posizione di vantaggio rispetto a quella
usualmente prevista dal contratto fiduciario a base della relazione fra
ristoratore è cliente: il cuoco infatti ha la facoltà di dettare pressoché tutte le
regole del gioco, essendo a lui delegata la selezione degli oggetti di gusto da
servire attraverso la semi-imposizione del menù degustazione.
Necessariamente questa operazione implica una quota molto alta di fiducia
concessa da parte del soggetto sanzionatore al soggetto performatore
dell’operazione culinaria.
Lo chef cerca di non tradire le aspettative riposte in lui ponendo una
particolare cura alla massima valorizzazione degli oggetti gustativi. Per
assicurare che l’esperienza sia unica anche per i numerosi clienti affezionati,
evitando un affievolimento dell’elemento sorpresa causato dall’iteratività della
visita (Greimas, 1987), la macchina organizzativa di El Bulli si prende inoltre
cura che i piatti del menù degustazione non siano gli stessi della volta
passata57. Sulla base delle note di gradimento inoltre verranno sostituiti tutti
gli ingredienti o combinazioni non di gusto con altri compatibili col personale
sistema di preferenze.
La strada per El Bulli (El Bulli fuori) L’interno di El Bulli
natura selvaggia e impervia spazio strutturato, con ogni
comodità
senza aiutanti (anzi ostacoli) affollato di aiutanti
(maghi/servitori)
desolato densamente popolato
non umanizzato né personificato:
assenza di segni identitari
personalizzato:
tutto richiama il suo
proprietario
spazio della prova spazio del premio
spazio ove l’oggetto di valore è
nascosto, difficilmente accessibile
trasparente, aperto alla vista
Le cucine, nella partita dedicata alle performance finali, sono
architettonicamente aperte alla curiosità del cliente essendo prive di muri e
divisori ad altezza superiore di un balcone. Sono infatti collocate nel salone
maggiore dell’edificio, il luogo utopico della performance, dove è presente
anche un tavolo dove il cliente che lo desidera può sedersi per la cena. Tutto
ciò che avviene in cucina è quindi assolutamente aperto allo sguardo curioso
del commensale.
57 Questo è un problema che non si poteva verificare negli anni passati in cui la carta era
completamente rinnovata ogni anno, ma solo quest’anno dedicato alla memoria, nel quale appunto si provvede a sostituire individualmente tutte le pietanze già assaggiate.
Fig.2 Lo staff di El Bulli.
Dopo questa prima analisi del viaggio fino a El Bulli, letto come percorso
di un soggetto-attante nello spazio, intendo approfondire ulteriormente il tema
della spazialità in un’ottica però differente, e teoricamente riconducibile ad un
diverso approccio semiotico. Fino a questo momento ho esaminato
l’organizzazione dello spazio relativamente al suo intreccio con il livello delle
strutture semio-narrative, ovvero secondo quello che Greimas ha proposto di
chiamare “la spazialità discorsiva oggettivata […] concepita come una
distribuzione topologica” (Greimas, 1976). Secondo questa prospettiva i
luoghi ritrovano la loro funzionalità e acquistano il loro valore attraverso
l’associazione con corrispondenti fasi dello schema narrativo.
Ora mi vorrei invece concentrare su quella che Bertrand (1995, p.122 della
trad. it.) definisce “la spazialità che fonda il soggetto”. In questo caso non è
infatti il soggetto che proietta il proprio spazio bensì lo spazio che proietta il
soggetto, il quale “si identifica con l’istanza di enunciazione stessa”.
Quest’ultima “si configura poco a poco, quasi incisa sul soggetto, o appare
dietro di lui come sua ombra e può essere descritta come un fascio di
atteggiamenti cognitivi specifici, basati proprio sugli usi – realizzati
concretamente – dei rapporti fra alcune categorie spaziali” (ivi).
Questa seconda prospettiva, ampiamente esplorata negli studi sulla
spazialità attraverso l’ottica socio-semiotica, nasce dalla constatazione
dell’esistenza di “un insieme di entità fisiche diversamente articolate che parla
del mondo in cui si dispiega, parla di se stesso ma molto più spesso parla
d’altro, parla della società come serbatoio complesso di significati e
valorizzazioni” (Marrone, 2001, p.293).
Consideriamo quindi la spazialità come testo, ossia gli spazi fisici
significanti, e lo esaminiamo come sistema e come processo, tentando di
ritrovare le forme di azione compiute dall’attore spazio (nella dimensione
cognitiva) e i tipi di soggettività inscritta nell’articolazione topologica.
Il livello più interessante da analizzare è quello cognitivo, costituito dalla
dimensione del sapere e dalle sue condizioni di possibilità date dal vedere. In
questo spazio agiscono due attanti principali: l’osservatore (ovvero il soggetto
delegato a vedere) e l’informatore (oggetto verso cui dirigere lo sguardo),
associabili ad un livello discorsivo nel primo caso con i clienti-visitatori, nel
secondo con la struttura proprietaria e organizzativa di El Bulli.
Schema della cognizione58
Potremmo interpretare la salita a Cala Montjoy come uno “spazio negato”,
caratterizzato da una relazione fra un soggetto informatore modalizzato
secondo un voler non informare e un soggetto osservatore a cui è negato di
vedere e sapere a causa della scarsa accessibilità dei luoghi. Arrivati a El Bulli,
gli spazi si aprono allo sguardo rendendosi molto più accessibili, indicando la
modificazione dello status dell’informatore da soggetto che pudicamente si
ritrae a soggetto che ora “non vuole non informare” e che non ostenta59 ma
rivela mancanza di imbarazzo60 nel lasciarsi osservare.
Si ha quindi un passaggio da uno spazio negato a uno spazio proposto, che
va di pari passo a livello narrativo con l’acquisizione da parte del soggetto-
58 Questo schema è stato proposto da Fontanille (1987, p.187), e riportato in Marrone (2001) nella sua analisi socio-semiotica degli spazi della Facoltà di Ingegneria dell’università di Palermo.
59 Infatti, ad esempio, solo il cliente che su propria iniziativa lo ha scelto verrà servito al tavolo del salone-cucina (riuscendo ad essere più prossimo alla costruzione dell’oggetto di valore), mentre normalmente sarà collocato in un salone a parte.
60 Termini riportati in Landowski (1989, p.120 della trad. it.).
utente dello status di cliente reale e riconoscibile, presupposto per la
successiva operazione di congiungimento con l’oggetto desiderato.
Dal punto di vista narrativo è come se il destinante-ristoratore avesse
sottoposto a prova di selezione il cliente potenziale nello spazio paratopico
della salita montana, nel quale è stata comprovata la fiducia del soggetto-
fruitore nei confronti del soggetto-performatore della performance culinaria.
A questo punto, il destinante si prepara a premiare questa fiducia concessa
permettendo al commensale un avvicinamento allo spazio utopico della
produzione gastronomica e contribuendo ad un disvelamento del valore
racchiuso nell’oggetto di gusto.
Il soggetto-gourmet che era stato lasciato solo, viene infine preso per mano
facendo ingresso in un mondo in cui la presa estetica dell’oggetto assume le
forme di un’attività assolutamente personale ed individuale. Distinguendosi
probabilmente da ogni altro esercizio di ristorazione a struttura non familiare,
El Bulli mette in atto tutta una serie di iniziative finalizzate a rendere
l’esperienza degustativa assolutamente unica e singolare. La presenza nel
locale di uno staff numeroso e attento a soddisfare ogni esigenza, l’adozione
delle schede di gusto associate ai singoli nominativi e con l’elenco dei singoli
piatti, l’associazione numerica di un cuoco per cliente al fine di garantire la
maggior qualità possibile delle pietanze, tutti questi e molti altri elementi,
contribuiscono a creare l’eccezionalità dell’evento e il suo sorgere ad
esperienza estetica dell’individuo sull’orizzonte anestetizzato della
quotidianità.
2. El Bulli Taller. Fra laboratorio e atelier.
Da alcuni anni, a sostegno della crescita creativa del ristorante di Roses, è
sorto El Bulli Taller, un laboratorio finalizzato alla elaborazione dei piatti da
inserire nel menù della stagione successiva. El Taller nasce dall’esigenza di
avere uno spazio appositamente dedicato alla creazione, elemento fondante
della cucina di Adrià, basata sul principio della novità e sorpresa e regolata
dal ricambio stagionale completo della carta. Il laboratorio è da un lato il
risultato dell’applicazione di una logica d’impresa, essendo paragonabile
all’area di Ricerca e Sviluppo presente in ogni azienda di un certo livello, e
dall’altro l’adozione delle logiche della Moda, essendo per altri versi simile ad
un atelier.
Fig.1 La cucina tecnologica di El Taller.
El Taller funziona pienamente da ottobre a maggio, mesi in cui il ristorante
è chiuso; lo chef accompagnato dalla sua équipe costituita da undici cuochi di
alta professionalità si riuniscono a pensare e sperimentare i nuovi piatti. Negli
altri mesi il laboratorio rimane aperto ma risulta meno attivo, in quanto lo staff
di cuochi e altro personale di deve dedicare al ristorante.
Fig.2 Vasetti con ingredienti per la sperimentazione.
La nuova fucina della creatività sorge nel pieno centro di Barcellona, in
una strada laterale della Rambla, il cuore della vita cittadina, a due passi dal
Mercato della Boqueria, dove gli chef si riforniscono per gli ingredienti più
freschi. Collocata nella dependance di un’antica palazzina neogotica, è
arredata in uno stile assolutamente moderno e molto affascinante dal punto di
vista del design. Molto spazioso (300 m2) e luminoso, ha tutto l’aspetto di un
ambiente costruito per essere visto, un luogo dove le “prove”, usualmente
proprie di uno “spazio di retroscena” (Goffman, 1959) acquistano la dignità
della ribalta, assumendo i caratteri dello spettacolo.
Il laboratorio non è infatti un luogo chiuso agli sguardi indiscreti, un ritiro
dello chef in isolamento. Su appuntamento infatti, si effettuano al suo interno
stage e visite a beneficio della stampa o professionisti della cucina. Nello
stesso ambiente inoltre sono presenti uno show room con cimeli dello chef (dai
suoi libri d’appunti a vecchie foto), un ufficio, un salotto dove ricevere i
giornalisti, una sala stampa ricavata da un’antica cappella in cui Adrià illustra
le due idee, una biblioteca gastronomica molto fornita.
In questo luogo che Landowski (1989) definirebbe dell’ostentazione, o del
“voler essere visti”, emerge l’elemento di visibilità dell’alta cucina, a cui
stiamo assistendo negli ultimi anni, in un’estensione e del processo di
“mediatizzazione” della cucina innescato negli anni Settanta (Fischler, 1990).
In particolare, questa visibilità mette in primo piano la figura, l’immagine e lo
stile del creatore in cucina, portato alla notorietà dai media. Recentemente, i
cuochi ai vertici della ristorazione hanno acquisito un loro peculiare
posizionamento non solo nel mondo nel loro settore bensì sono spesso soggetti
produttori di discorsi su tematiche più diverse. Chef italiani come Vissani o a
livello internazionale Bocuse o Ducasse (oltre allo stesso Adrià) sono
personaggi pubblici balzati agli onori della stampa.
Come viene sottolineato da Fischler (ivi), si può riconoscere un’evidente
analogia fra grandi chef e grandi firme della moda, e fra il sistema e le logiche
dell’haute cuisine e dell’haute couture. La cucina contemporanea d’autore, e
quella d’Adrià in primis, risponde al medesimo bisogno del nuovo e del
principio dell’inesauribile rinnovamento delle forme che sta alla base della
Moda. Per gli oggetti creati, secondo questa logica acquisisce un senso “il
valore di scambio misurato dal valore di cambio”, dalla quantità di
innovazione vera o presunta (Volli, 1988, p.7).
Alla radici dell’esistenza di entrambe c’è “l’attesa di un possibile
differente” (Landowski, 1995, p.31), che ha fra i suoi sviluppi la ricerca di
un’infinita variazione nelle espressioni, pur nella ripresa di elementi del
passato. La sperimentazione creativa è una necessità impellente per
un’organizzazione in cui il fattore sorpresa è un marchio d’identità. Così come
gli appassionati di Moda attendono il lancio della nuova collezione di Armani,
una nutrita schiera di gourmet aspetta con ansia l’apertura di El Bulli ad aprile
per poter scorgere il nuovo menù. Chi ha la fortuna di entrare a El Taller, può
inoltre godere delle anticipazioni su ciò che sarà in futuro possibile degustare.
L’organizzazione di El Bulli, in modo particolarmente accentuato rispetto
ad altri chef ai vertici, condivide con il Sistema della Moda la dimensione
temporale di discontinuità, caratterizzata dalla scansione euforica del corso del
tempo per mezzo della diversione dal consueto e ordinario. Questa si articola
da un lato secondo una temporalità ciclica, dall’altro secondo una temporalità
lineare. Nel primo senso, possiamo riconoscere molte sue attività che sono
fondate sul principio della stagionalità: come anticipato, il ristorante apre in
primavera ed in autunno chiude i battenti, al fine di consentire il massimo
dispiegamento delle forze ad El Taller per lo sviluppo della creatività. Questo
tipo di organizzazione sollecita ed esalta l’attesa per la nuova “collezione”
dello chef, ovvero i nuovi piatti e le tecniche innovative codificate nei menù
della stagione. La temporalità di El Bulli è inoltre scandita non solo
quotidianamente bensì settimanalmente, in quanto si cambia carta ogni
settimana.
La seconda dimensione è quella che richiama la natura evolutiva della
cucina di Adrià, la sua costruzione e valorizzazione del nuovo. In linea con
l’atteggiamento avanguardista, il creatore si colloca in una posizione di rottura
rispetto al passato e alla tradizione. A livello micro inoltre, si deve assicurare
l’elemento sorpresa rendendo ogni cena un’esperienza eccezionale per il
commensale. In questo senso si euforizza il momento presente, sulla base di
una dinamica dell’adesso. A questo fine si possono ricondurre le già ricordate
procedure di personalizzazione dei menù per i vecchi clienti nonché
naturalmente le pratiche di valorizzazione dell’esperienza estetica.
Sempre rimanendo alla dimensione temporale, si può inoltre rilevare che
analogamente alla Moda il tempo dell’attualità della degustazione segue una
logica dello sfasamento rispetto alla creazione. Come scrive Volli (1988), “la
Moda non è mai interna al suo tempo pubblico”. I piatti nascono e si provano a
El Taller nei mesi invernali, fino ad avvicinarsi al massimo all’idea originale
del piatto, ma poi vengono rifiniti e perfezionati al momento del servizio
quando il ristorante è aperto. In quello stesso periodo Adrià e soci stanno già
probabilmente pensando in qualche altra direzione.
Un ulteriore aspetto parzialmente in comune fra la cucina di Adrià e il
sistema Moda riguarda il principio di normatività, alla base di quest’ultima.
Tecniche e concetti culinari sviluppati dall’équipe di Adrià diventano spesso
nucleo di riferimento per il mondo dei professionisti della cucina suoi
estimatori. Grazie all’affermazione e al riconoscimento pubblico del valore del
cuoco, nonché alla trasparenza delle sue innovazioni, spesso le sue tecniche
vengono riprodotte e riadattate in una sorte di versione prêt-à-porter delle sue
creazione. Spesso le sue scelte culinarie, trasmesse attraverso le numerose
pratiche comunicative adottate dallo chef (dai quotidiani incontri con la
stampa, dai suoi libri e interviste che rilascia alla stampa), creano una sorta di
quadro normativo di riferimento e una norma comune per il regime del gusto.
2. Il sifone e le spume.
Senza dubbio la tecnica innovativa per la quale Ferran Adrià è balzato alla
notorietà è quella delle spume, un prodotto e un concetto culinario nuovo
sviluppato grazie all’utilizzo peculiare di uno strumento poco comune: il
sifone.
Questo attrezzo da cucina non è un’invenzione sua, infatti già negli anni
cinquanta questo strumento era di moda nell’ambiente dei cocktail-bar per la
produzione del seltz, nonché una sua versione leggermente modificata era da
tempo impiegata per montare la panna, a fianco ad altre tecniche altrettanto
valide. Il contributo essenziale di Adrià è consistito nella modifica del suo uso
nella direzione di un’apertura verso un’eterogeneità di impieghi, a partire da
un utilizzo molto specifico e perciò limitativo. Covando in mente i tratti di una
consistenza nuova da realizzare, lo chef da vero bricoleur ha interrogato un
repertorio di utensili già in uso ricercando l’oggetto che con i suoi programmi
narrativi iscritti potesse portare a compimento nella maniera più prossima le
performance desiderate. Dopo alcuni tentativi vani e talvolta pericolosi a
mezzo di voluminose bombole di anidride carbonica, ha incontrato sulla sua
strada il sifone IsI nato per montare la panna e l’ha sperimentato per usi
segnatamente diversi da quelli che nell’oggetto erano storicamente iscritti.
Con esso infatti è riuscito a produrre, a partire da una vasta gamma di
ingredienti, una serie prodotti nuovi molto leggeri, dalla consistenza aerea,
riuniti sotto il nome di spume. Sviluppate a partire dal concetto tradizionale di
mousse, si differenziano nettamente da esse per composizione e purezza di
sapori. Adoperando il sifone per la produzione di prodotti assolutamente
originali e innovativi, Adrià è riuscito a trasformare uno strumento in disuso in
un oggetto nuovo che ritrova potenziato il suo valore strumentale e mitico.
Le spume di Ferran sono realizzate a partire da succhi o purè a base di
ingredienti vari61 ai quali non viene aggiunto nessun elemento modificatore
della loro essenza gustativa. Analogamente a Miguel Sánchez Romera col suo
micrì, con questo strumento lo chef raggiunge l’obiettivo di ottenere un
prodotto che è l’elaborazione della testure dell’ingrediente inserito senza una
sua de-naturalizzazione a livello sostanziale. A differenza delle mousse
classiche, dove l’ingrediente triturato e omogeneizzato veniva associato a
sostanze quali uova o prodotti caseari che avevano l’effetto di alterarne il
gusto, qui il prodotto base viene lasciato esprimere tutta la sua propria essenza
con la mera aggiunta di gelatina (che non modifica il sapore) e di aria
(l’elemento assenza per eccellenza). Si ottiene quindi un prodotto
dieteticamente in linea con le attuali tendenze verso il light, nonché in un certo
senso “essenziale”: si ritrova infatti post-operazione il 100% del componente
di partenza.
Si produce inoltre un prodotto elegante e sofisticato, associabile ad altri
ingredienti o degustabile da solo, dalla testura delicata che soavemente seduce
il palato. Non impone l’uso di coltelli né denti per la mastificazione,
infantilmente è associabile alle attività giocose perché, non necessitando che di
61 Cfr. Adrià (1997), dove sono elencati più di 120 prodotti con cui confezionare spume.
Fra essi troviamo in particolare prodotti della terra, come numerose varietà di frutta, verdure, ortaggi, erbe, spezie, funghi. Troviamo inoltre alcuni elementi piuttosto originali come l’acqua di molluschi, la crema catalana, riso con latte e perfino fumo.
minimi sforzi da parte del commensale, rende la degustazione più
piacevolmente oziosa.
Questo strumento rivela due caratteristiche fondanti della cucina
contemporanea d’autore: la ricerca dell’essenza e della purezza dei prodotti
utilizzati che non è una semplice riproposizione della natura nella sua
spontaneità, bensì il risultato di un processo di trasformazione ed elaborazione,
generato e giustificato da una riflessione culturale su ingredienti, tecniche e
memorie gustative. L’attività culinaria sforna in questo senso prodotti che
sono allo stesso tempo “essenziali” e “sofisticati”, secondo una concezione
della cucina come luogo della ricerca di qualificazione e raffinamento dei
sapori esistenti in natura come virtualità da portare alla luce attraverso l’opera
culinaria. In essa, gli elementi del gusto vengono invitati a giocare secondo
regole infinitamente negoziabili e risultati sempre sorprendenti.
In ciò si percepisce la dimensione ludica dell’attività culinaria, condivisa
con gradi e manifestazioni diverse da tutti e tre i cuochi da me presi in esame.
Lo chef interroga gli angoli della sua memoria per avere una sorgente di
ispirazione, consulta libri di ricette del passato e si informa delle evoluzioni
del presente per verificare le strade che già sono state percorse. Dialoga con la
sua memoria e la propria capacità immaginativa per fare congetture su
possibili nuove associazioni, o immagina una nuova interpretazione di piatti
esistenti attraverso la loro destrutturazione. Nel fare tutto questo attua un
lavoro di bricolage (intellettuale e materiale), in cui gioca con i più disparati
pezzi alla ricerca di nuove strategie che possano sorprendere ed emozionare
con lo stupore il commensale che verrà.
3.1. Fisiologia delle spume.
Nella mia analisi, vorrei in primo luogo focalizzare l’attenzione sui caratteri
della spuma intesa come oggetto di valore risultato di un processo di
trasformazione chimico-fisica per mezzo di un utensile culinario adoperato nei
suoi nuovi usi. Sulla base delle osservazioni di Bastide (1987) raccolte nel suo
saggio sul trattamento della materia, potremo quindi cercare di effettuare una
classificazione di questo oggetto nel suo stato finale in relazione a quello
iniziale pre-operazione. Ciò ci permette di individuare i caratteri funzionali
propri del sifone, nonché, attraverso una comparazione con la natura delle
mousse classiche, di esplorare gli elementi innovativi del nuovo prodotto.
A livello più generale, le spume vanno ricondotte alla categoria
dell’/amorfo/, alla quale vanno appartengono le sostanze la cui forma viene
determinata dal contenitore in cui sono collocate, in opposizione a quelle
associabili allo /strutturato/, in quanto dotate di morfologia propria e stabile. Il
loro status è /compatto/ non essendo composto da elementi discernibili senza
sforzo, opponendosi agli oggetti riconducibili alla categoria del /discreto/,
dotata del valore d’uso di consentire le operazioni di miscelazione e scelta. La
condizione di natura spaziale delle spume è di /espansione/, in opposizione
alla categoria del /concentrato/, come conseguenza dell’effetto dilatante della
presenza di gas nella costituzione del prodotto. A livello qualitativo, hanno
una struttura /semplice/ in quanto composte “da parti identiche o
indistinguibili” (ivi, p.347 della trad. it.).
Mentre le prime tre variabili sono condivise dalle spume e dalle mousse
classiche, quest’ultima categoria le differenzia. Le mousse infatti sono delle
sostanze di stato /composto/, ovvero costituite “da parti differenti riguardo
alla loro origine, forma”: si utilizzano infatti uova e altri ingredienti in
addizione al prodotto base. La semplicità (alla quale proporrei di associare la
categoria di /purezza/) può essere quindi letta come il tratto distintivo del
nuovo prodotto ottenuto col sifone.
Le mousse
tradizionali
Le spume
di Adrià
composizione:
1 l di puré o succo del prodotto
desiderato + 1 l di panna e uova =
50% del sapore
composizione:
1 l di puré o succo
del prodotto =
100% del sapore
Consideriamo ora il processo trasformativo concentrandosi specificamente
sulle nuove spume. Se consideriamo la materia nello status precedente alla sua
introduzione nel sifone, ovvero il succo gelatinato, in base a queste stesse
categorie potremmo definirla quale: amorfa, compatta (poiché la gelatina fa da
collante), concentrata, semplice. Ne deduciamo che il contributo del sifone è
stato quello di una trasformazione di tipo espansivo.
Un esame della definizione di queste sostanze dal punto di vista della loro
natura chimico-fisica da parte di Harold McGee risulta rivelatorio. Scrive
quest’autore, dedito ad un approccio scientifico alla gastronomia, che una
schiuma (alla cui categoria le spume vanno ricondotte) “è una dispersione di
gas in un liquido; in termini meno esatti, è una massa stabile di bolle […] è
fatta di piccole masse d’aria circondate da sottili pellicole d’acqua nelle quali
sono disciolte sostanze diverse” (McGee, 1984, p.78 della trad. it.). Le
molecole disperse nella schiuma diminuiscono la tensione superficiale
interrompendo “la matrice delle forze che agiscono nel liquido fino al punto
che le bolle possano formarsi” (ivi, p.79 della trad. it.). Nella costituzione delle
mousse, sono le proteine delle uova (o meglio degli albumi) a consentire la
“snaturalizzazione superficiale” e produrre la testura aerea desiderata, mentre
nelle spume di Adrià è la gelatina a garantire la viscosità necessaria per la
stabilizzazione della schiuma. Il movimento della sbattitura manuale o
meccanica che consente di intrappolare grandi bolle d’aria nell’albume è
sostituita però nella produzione delle spume dall’effetto pressione presente
all’interno del sifone, dotato di cariche di anidride carbonica.
3.2. Per una semiotica dell’oggetto: analisi del sifone. Dopo aver esaminato sinteticamente la natura innovativa del prodotto che
come ci ha dimostrato Adrià è possibile conseguire con il sifone, può essere
opportuno concentarsi sullo strumento in sé, utilizzando gli strumenti
sviluppati dalla semiotica per lo studio degli oggetti.
Come riconosciuto piuttosto recentemente in ambito socio-semiotico, gli
oggetti sono anch’essi interpretabili come testi nei quali si trovano iscritte le
marche di numerose pratiche significative (Pozzato, 2001), e di conseguenza
possono ritenersi qualificato argomento di indagine attraverso prospettive
diverse. Sulla spunto della metodologia adottata da Floch (1995b) e ripresa da
Marrone (2002b), che trae ispirazione dalle proposte di Greimas (1983) per
uno studio sui lessemi, mi propongo di analizzare l’oggetto secondo tre
dimensioni:
1. nella sua componente configurativa, ovvero esaminando le sue parti
componenti e le relazioni che esse intrattengono tra loro e con l’oggetto nella
sua totalità e complessità;
2. nella sua componente tassica, ossia esaminando i tratti differenziali che lo
caratterizzano nel suo statuto di “oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo”
(Greimas, ivi, p.19 della trad. it.);
3. nella sua componente funzionale, cioè nelle possibili valorizzazioni che
l’oggetto assume per uno o più soggetti, sia in senso strumentale che
simbolico62.
Seguendo questo percorso, si prenderà in esame sia l’oggetto in sé nella sua
struttura immanente e le sue qualità sensibili, sia necessariamente l’oggetto
nelle relazioni che intrattiene con il mondo-ambiente, ossia inserito in un
contesto sociale d’uso. Coerentemente con l’impostazione socio-semiotica, la
distinzione concettuale fra testo e contesto in un’analisi degli oggetti viene
meno, sulla base e a causa della natura stessa dell’oggettualità. Come ha
sottolineato Semprini, “l’oggetto si costituisce, si definisce e si offre a
un’esistenza e a un’utilizzazione soltanto ed esclusivamente all’interno di una
autentica relazione intersoggettiva” (Semprini, 1995, p.99 della trad. it.).
Innanzitutto, sulla base della considerazione per cui un oggetto è definito tale
in quanto portatore di un valore per un soggetto, è opportuno analizzare la
relazione fra soggetto e oggetto per esaminare che cosa il secondo fa per il
primo. Esaminato in una situazione narrativa specifica, possiamo rilevare non
solo le modalità con cui il soggetto iscrive nell’oggetto i suoi valori, bensì
anche come viceversa l’oggetto presuppone certe forme di soggettività con le
quali esso può, vuole o deve entrare in relazione (Marrone, 2002a). Inoltre è
possibile esplorare le relazioni che l’oggetto intrattiene sia nella sua totalità
che nelle parti costituenti con altri oggetti, ovvero in una dimensione di
interoggettivà. Secondo questa prospettiva, è possibile esaminare i rapporti che
l’oggetto assume a livello paradigmatico con altri oggetti virtualmente
sostituibili con esso o comunque comparabili, nonché nelle relazioni che
esperisce in praesentia a livello sintagmatico con altri oggetti che presuppone
o con cui convive.
62 Se facciamo riferimento al famoso quadrato di Floch (1990) sulle possibili
valorizzazioni di un oggetto, possiamo individuare quattro dimensioni: una pratica, una mitica o utopica, una ludico-estetica e una critica.
Fig.1 Le parti del sifone ISI. ICC (dalla rete).
Fig.2 Illustrazione dell’ utilizzo del sifone. Adrià (1997).
Concentriamoci però ora sul nostro caso in esame, ovvero il sifone. Se
esaminiamo innanzitutto la sua dimensione configurativa (incrociandola con
elementi della dimensione funzionale), possiamo scomporlo principalmente in
due parti di cui una ulteriormente suddivisibile.
Nella parte inferiore abbiamo un recipiente a forma cilindrica con
accentualizzazione verticale e assottigliamento finale, dalla struttura e
dimensioni analoghe ad una bottiglia. Quest’ultima, parafrasando Leroi-
Gourhan, non è altro che un contenitore di piccole dimensioni particolarmente
adeguato per la sua forma alla conservazione, al trasporto e al travaso di fluidi,
ovvero “masse mobili che bisogna imprigionare per mantenere uniti” (Leroi-
Gourhan, 1943, p.208 della trad. it.). Le tre funzioni vengono adempite dallo
stesso oggetto grazie alla sua configurazione peculiare:
1. la pancia è una “cavità profonda” che la rende atta al contenimento di
liquidi;
2. l’apertura ristretta fa si che si presti meglio per la per la conservazione del
suo contenuto che non ad esempio una pentola, in quanto limita il contatto con
l’aria esterna;
3. la morfologia di quest’ultima, “con collo in asse”, facilita inoltre la
prensione, il trasporto a mano e il travaso. Questo recipiente accoglie la
sostanza da elaborare, un oggetto di gusto parziale che ha già subito
un’operazione di de-naturalizzazione (non qualitativa ma quantitativa) e semi-
culturalizzazione attraverso un PN d’uso di triturazione (in caso di elemento
solido di partenza) e omogeneizzazione dello stesso. Il sifone infatti lavora
solo con puree o succhi di consistenza liquida e omogenea.
Le altre parti essenziali del sifone sono:
– le parte intermedie, ovvero la valvola e la giuntura di gomma. Sono
l’elemento di congiunzione fra la parte contenitrice e quella funzionale alle
operazioni. Garantendo una chiusura ermetica dell’oggetto lo rendono
inaggredibile dagli agenti esterni i quali potrebbero turbare la buona riuscita
dell’operazione, fungendo narrativamente da oppositori;
– la parte superiore, dove dal cappuccio dipartono gli elementi funzionali
dell’oggetto, determinanti il contatto fra soggetto-operatore e oggetto-
strumento, nonché fra quest’ultimo e gli oggetti di gusto parziale e finale.
Queste componenti sono costituite da:
1. una leva, la quale prevede l’azione umana operazionale, fa parte
dell’interfaccia soggetto-oggetto ed interviene nel momento dell’emissione
della spuma, ovvero a trasformazione avvenuta;
2. una valvola, la quale regola la quantità d’aria;
3. un supporto per le cariche di N2O compresso, il quale è l’ingresso
dell’elemento aria, agente chimicamente responsabile della reazione
trasformatrice della materia, producendo la testura aerea oggetto del desiderio.
Con il caricamento, si avvia la quasi-magica trasformazione dell’oggetto di
base in un altro culturalizzato, al quale è riconosciuto un valore gustativo-
estetico (e soprattutto, nel caso delle innovative spume, di produzione
dell’emozione del nuovo);
4. decoratori (assenti nel caso del seltz ma presenti nel sifone per panna), i
quali sono l’elemento di emissione de prodotto-risultato e convogliatici di esso
nel piatto stesso oggetto di sanzione, come elemento unico o come
componente di accompagnamento ad altre cibarie. Attraverso di essi si
attribuisce una forma (anche se non strutturata) all’output, nonché si regola
quantitativamente il prodotto all’uscita.
Per quanto riguarda la dimensione tassica del sifone, possiamo da un lato
compararlo in una dimensione diacronica con gli strumenti da cui esso è
derivato, dall’altro con oggetti con funzione simile. Come si scopre
esaminando dal dizionario, la tecnologia di cui stiamo parlando non è ancora
generalizzabile e codificata dal dizionario. Nel vocabolario Devoto Oli del
1971 il sifone nel contesto più prossimo al nostro è definito come: bottiglia robusta per contenere un liquido gasato e un po’ d’aria compressa, che
oltre a evitare la degassificazione del liquido, lo fa uscire da un apposito tubo quando
si aziona una levetta. _ da seltz.
Non si fa menzione degli usi di Adrià ma neanche di quelli per i quali già
era noto, in una evoluzione precedente a partire dal sifone apposito per il seltz,
ovvero l’uso di montare la panna. Oggi l’azienda ICC (International Cooking
Cocenpts) commercializza il sifone iSi legandolo al nome di Adrià,
assicurandosi quindi il patrocinio del grande cuoco che ha riportato in auge
uno strumento desueto (ri-valorizzandolo) e lo ha aperto a nuove potenzialità.
Lo chef garantisce ufficialmente l’affidabilità tecnica del prodotto e illustra i
suoi possibili usi, attraverso un libretto di ricette che accompagna la
confezione in vendita. Oggi si può dire chi cerca il sifone lo fa perché conosce
le invenzioni del cuoco-star e vuole riprodurre le sue produzioni in casa o
soprattutto in ambito professionale.
Se esaminiamo le relazioni paradigmatiche del sifone con altri oggetti
possiamo affermare che prende il posto di strumenti come sbattitori (Marrone,
2002b) nell’operazione di montare gli ingredienti, un’azione che come
sottolineato implica un come un passaggio dal concentrato all’espanso,
provocato dalla formazione di bolle d’aria. Il sifone però prevede un
funzionamento e l’esecuzione di una trasformazione della materia
sensibilmente differente da quella ottenibile con altri strumenti. Da ciò
traspare l’innovazione e l’interesse per questo utensile, il quale possiede
l’esclusiva competenza necessaria per la realizzazione di queste originali
spume.
A livello sintagmatico, ovvero relazionando lo strumento con altri oggetti in
presentia, si può sostenere che il sifone prevede e necessita la presenza di
utensili come la centrifuga con la quale si compie il PN d’uso di
omogeneizzazione del prodotto base, operazione preliminare al possibile
utilizzo del sifone.
Concentriamoci però ora sulla dimensione propriamente funzionale
dell’oggetto, da Greimas (1983) scomposta in Dell’Imperfezione in tre aspetti:
la dimensione propriamente strumentale, quella mitica e quella estetica.
Essendo il uno sifone uno strumento culinario, finalizzato quindi ad un far-
fare, la sua funzione pratica è evidente. Al sifone il soggetto umano delega una
serie di operazioni culinarie che solo la macchina è competente a fare, ovvero
la trasformazione delle sostanze di partenza allo stato semi-liquido in sostanze
dalla consistenza spumosa. La sua funzione strumentale è perciò quella di
produrre una testura particolare per la quale solo questo strumento possiede il
saper-fare.
A livello estetico, i caratteri più peculiari sono quelli di linearità, freddezza
ed evoluzione tecnica. La presenza di valvole, leve e cariche la differenziano
dagli strumenti culinari comuni d’uso domestico. L’assenza di dettagli
decorativi e il suo design essenziale le conferiscono il fascino degli oggetti
tecnologici.
Per quanto riguarda la dimensione mitica, possiamo sottolineare che il
sifone interviene in operazioni di natura qualitativa, ovvero di trasformazione
sostanziale dell’elemento sottoposto alla sua azione. Interpreta un ruolo di
mediazione fra il soggetto umano e l’ambiente, svolgendo al suo posto una
serie di operazioni di culturalizzazione, ovvero di elaborazione a partire da
elementi già de-naturalizzati63. Il sifone funge da aiutante nei confronti del
soggetto-operatore, o anche di oggetto magico capace di contribuire alla
ricerca dei valori. Il soggetto umano non è dispensato completamente da ogni
azione, infatti al fine di produrre un risultato soddisfacente deve adempiere ad
una serie di attenzioni: deve caricare esattamente il recipiente (senza contatto
diretto, utilizzando un bicchiere o un imbuto), inserire la carica d’aria,
63 Sebbene, come abbiamo detto, non a livello sostanziale.
chiudere ermeticamente il sifone ed infine agitarlo. Questo ultimo atto così
semplice e non implicante fatica fisica ma tuttavia necessario perché abbia
inizio l’operazione di trasformazione della materia, lo rende analogo all’azione
dell’agitamento della bacchetta nelle fiabe, dando l’impressione della
produzione di una magia. A differenza di altri strumenti come frullatori e
mixer inoltre, la performance messa in atto avviene all’interno dello spazio
utopico del sifone senza la testimonianza del destinante, che solo ad
operazione avvenuta (e dopo un’attesa, in quanto lo strumento va posto in
frigo per alcune ore), secondo un’aspettualità terminativa potrà sanzionare
l’oggetto di valore. A questo punto non può fare nulla per correggere gli
eventuali difetti senza re-iterare l’intero processo.
L’assenza di controllo da parte del soggetto umano e la natura delle sue
deleghe potrebbero spingere a concepire il sifone come un soggetto
manipolato per assumersi una serie di programmi d’azione e portarli a
compimento. I processi narrativi che implicano la performanza del sifone
infatti presuppongono la realizzazione di processi narrativi d’uso finalizzati
alla produzione di una sostanza omogenea in forma di purea o succo. La sua
dimensione mitica evoca un mondo di raffinatezza ed elaborazione culturale,
estranea agli strumenti che implicano un contatto immediato con la natura. Il
risultato della sua performanza entra a far parte dell’oggetto finale di gusto e
talvolta ne è elemento portante.
Un altro aspetto interessante da esaminare è quello dell’utilizzatore
modello iscritto nel sifone. Il soggetto costruito da questo oggetto deve
possedere una certa competenza tecnico-gastronomica per cui idealmente
questo prodotto è rivolto principalmente al professionista della cucina, anche
se non si esclude l’uso in ambito domestico. Il sifone è utilizzabile per una
eterogeneità di operazioni, infatti è adoperabile con una gran varietà di
ingredienti (soprattutto frutta e verdura ma anche ingredienti più originali
come il fumo) e per produrre portate di diverse temperature e che vanno dalle
pietanze salate a quelle dolci, dai primi ai dessert. La sua versatilità dipende
però dal suo utilizzatore, che deve essere capace di immaginarne i più originali
usi. Così come il coltello Opinel e a differenza di strumenti multi-funzione, il
saper-fare non è “dentro” l’oggetto bensì richiede una certa competenza
tecnica e soprattutto un’ingegnosità culinaria per sfruttare le sue potenzialità.
Fig.3 Una spuma al latte di cocco completa un cocktail.
Fig.4 Utilizzo del sifone per la preparazione del cocktail di benvenuto.
4. Una giornata ad El Bulli. La manipolazione dei saperi e dei sapori.
4.1. L’organizzazione del lavoro nel contesto ristorativo.
Questo capitolo racchiude una serie di riflessioni che traggono origine da
informazioni raccolte sul campo presso il ristorante El Bulli, nel mese di
Maggio dell’anno corrente. Adottando le tecniche dell’osservazione
partecipante e grazie alla disponibilità dello staff, ho potuto aggirarmi
liberamente per lo stabilimento prendendo appunti e immagini fotografiche
sulle attività in corso, nonché effettuare interviste e annotare le spiegazioni
fornitemi dal primo cuoco e da altri membri dell’équipe di cucina.
Nella mia visita, ho avuto la possibilità di assistere per l’intera giornata
lavorativa alle diverse fasi di allestimento della performance culinaria e della
sua “rappresentazione”. In maniera peculiare, negli ultimi anni il ristorante
non realizza due funzioni giornaliere bensì è aperto al pubblico solamente per
la cena, avvicinandosi anche negli orari agli assetti del sistema teatrale64.
Questa organizzazione lavorativa permette di interpretare il processo di
produzione quotidiano in senso non iterativo bensì dotato di un unico
momento finale e conclusivo, consistente nella congiunzione di un soggetto
desiderante con un oggetto di valore risultante da programmi di
trasformazione culinaria.
L’esperienza osservata dall’inizio al termine è adeguatamente inquadrabile
nello schema narrativo canonico secondo la prospettiva di una semiotica
dell’azione di natura pragmatica, focalizzata sulle operazioni di
trasformazione del mondo, consistenti in programmi di soggetti umani
finalizzati ad un far-essere di oggetti materiali (Greimas, 1983, pp.10-1 della
trad. it.). Non mi soffermerò però a lungo sul momento performativo inteso
come attività di modificazione ed alterazione della materia, approfondito in
altre parti di questo lavoro, bensì sul processo più in generale sviscerando fasi
e tematiche dalla posizione periferica, quali la manipolazione e la sanzione65.
Nella seconda parte di questa sezione, esaminerò quindi le tematiche della
temporalità e dell’organizzazione spaziale.
64 Come viene sottolineato dallo stesso Adrià (1997). 65 Greimas invoca a questi aspetti il riconoscimento di uno statuto di dispositivi semiotici
autonomi e auspica uno sviluppo di una semiotica della manipolazione e una semiotica della sanzione (Greimas, 1983).
Per le mie riflessioni mi avvalgo anche del confronto con le considerazioni
di Gary Alan Fine, etnografo organizzazionale che ha effettuato ricerche sul
campo all’interno delle cucine di ristoranti americani di diverso livello e stile,
adottando la tecnica dell’osservazione partecipante. Per mezzo del suo
soggiorno, ha potuto esaminare come le istituzioni oggetto della sua indagine
operino in pratica, con l’obiettivo di comprendere come l’interazione emerge
dalle strutture organizzative e come essa a sua volta diviene strutturata.
Nel suo studio, Fine (1996) porta alla luce due tematiche cruciali: come i
limiti organizzativi, economici ed ambientali influenzino le scelte nelle azioni
dei lavoratori nelle loro routine quotidiane, e come gli standard estetici
vengono negoziati in pratica. L’etnografo sottolinea come le considerazioni
estetiche debbano soggiacere agli standard di gusto del cliente, le costrizioni
temporali e l’economia dell’industria ristorativa. Quest’aspetto riscontrabile in
gran parte dei ristoranti è, nel caso della mia analisi, meno evidente in quanto
la sua eccezionalità lo fanno forse il caso che conferma la regola. La
vocazione elitaristica del luogo con la complessa macchina organizzativa
(numero di persone e loro professionalità, orari ridotti d’apertura, le spese che
i clienti sono disposti ad accettare etc.) lo rende un esercizio privilegiato. Ad
El Bulli infatti, si possono permettere di reperire sul mercato il prodotto dalla
forma e colore più perfetta, di avere una o più persone che dedicano del tempo
all’allestimento estetico del singolo piatto, di seguire la libera vocazione
estetica dello chef al quale è riconosciuto lo status d’artista, con il diritto di
decretare il gusto.
Nei ristoranti esaminati da Fine e nella maggioranza delle strutture
ristorative, è richiesta una grande flessibilità nel carico di lavoro e nell’utilizzo
delle risorse. Come sottolinea lo studioso (ivi), i cuochi non sanno esattamente
quante persone arriveranno, in quanto ci potrebbero essere clienti di passaggio
o riserve all’ultimo minuto. Devono essere quindi pronti a cucinare piatti
diversi anche simultaneamente, affrontando così ritmi molto frustranti.
Ad El Bulli questi elementi di imprevedibilità vengono meno attraverso una
serie di procedure più o meno peculiari:
– le prenotazioni molto anticipate (con un tutto esaurito assicurato), in cui è
specificata l’ora esatta del previsto arrivo dei clienti permettono un controllo
numerico; il tutto completo permette un rapporto numerico fisso cuoco-cliente;
– l’adozione del menù degustazione consente un acquisto economicamente
efficiente poiché calcolato dei prodotti necessari alla preparazione. Non è
necessario quindi che i cuochi sovraproducano certe pietanze per usi
successivi eventuali.
Possono essere messe in atto procedure organizzative molto complesse e
dettagliate, in cui l’elemento variabile è limitato agli imprevisti determinati
dal particolare stato di ingredienti o errori a livello esecutivo. Ciò permette di
facilitare l’organizzazione del lavoro e di tenere sotto controllo i ritmi dello
stesso, rendendolo il più possibile tollerabile66.
Ad El Bulli rende però più complessa l’organizzazione il rinnovamento
settimanale del menù, che impone maggior concentrazione rispetto a chi può
riprodurre quasi automaticamente (adottando i trucchi dell’esperienza) ricette
sempre uguali. Quelli che sono le informali procedure semplificatrici del
lavoro, ovvero l’approssimazione, i shortcuts67, l’uso di prodotti convenienti
etc. sono in questo ristorante meno ammessi che altrove, a causa delle
aspettative molto alte dei clienti e allo status del destinante. La freschezza, la
perfezione formale, la purezza e non sofisticazione delle tecniche sono
presupposte nello scambio fiduciario fra clienti e ristoratore, in quanto
vengono investiti in esso valori simbolici ed economici piuttosto alti.
Le procedure di approssimazione, da Fine indicate come uno dei metodi di
ripiego adoperati per rendere affrontabile il lavoro, sono escluse ad El Bulli.
Vengono ricercati con cura frutti e molluschi della stessa grandezza e aspetto
formale; per far sì che il piatto sia ai vertici inoltre non vengono mai proposti
piatti in periodi in cui gli ingredienti della composizione non soddisfano i
criteri di stagionalità. In una prospettiva semio-narrativa, se ammettiamo di
considerare per un momento l’elemento culinario come un soggetto (secondo
quanto proposto anche da Floch, 1995a), possiamo interpretare questa
selezione come una prova preliminare di competenzializzazione che rende il
prodotto in grado di poter-essere parte componente di un piatto di El Bulli.
Freschezza, giusta maturità, colore e dimensione, aspetto formale adeguato
66 Nonostante ciò, data la complessità delle operazione e gli altissimi standard valutativi
delle sanzioni, il ritmo si fa frenetico ugualmente. 67 Ovvero le tecniche che permettono un’abbreviazione dei tempi delle preparazioni (ad es.
il i dadi vegetali).
sono condizioni necessarie da soddisfare per poter andare avanti nelle prove di
riconoscimento dell’oggetto culinario quale eroe del gusto.
La prima prova avviene nello spazio paratopico68 del mercato, dove si ha la
selezione degli ingredienti, che si fonda su caratteristiche naturali ad essi
proprie. In seguito i prodotti si competenzializzano per opera dell’intervento
performativo di soggetti umani, i quali attraverso operazioni di de-
naturalizzazione e semi-culturalizzazione intervengono sugli ingredienti
rendendoli omogenei. I prodotti la cui forma non rimane intatta vengono
tagliati in modo che assumano una forma regolare, attraverso procedure
manuali ed artigianali ma anche con l’ausilio di mezzi di precisione. Per pesare
l’aglio si usa il bilancino a grammi, per le salse ci si aiuta con dosatori
normalmente usati negli stabilimenti americani per il ketchup, per il taglio
millimetrico di frutti e verdure si fa uso a volte perfino il righello, allineandosi
con il quale si incidono tacche sul tagliere da seguire.
La perfezione e l’identità del piatto con quello degli altri commensali sono
criteri primari nel giudizio di valore del piatto, e ogni sua violazione comporta
un disconoscimento della legittimità del gusto. Solo in limitatissimi casi alla
sanzione passa qualcosa di impercettibilmente imperfetto, magari rendendolo
formalmente il più possibile ineccepibile al giudizio del cliente, in molti altri
l’istanza giudicatrice lo rimanda indietro, non riconoscendo la pietanza come
adeguata.
Fig.1 Taglio meticoloso degli asparagi.
L’organizzazione di El Bulli prevede una divisione del lavoro molto
definita, ma allo stesso tempo è richiesta analogamente alle altre strutture
68 Per una tipologia dei tipi di spazi narrativi, cfr. Greimas, Courtés, (1979).
ristorative una notevole flessibilità, attraverso aspettative implicite o esplicite
di cooperazione reciproca. Ci si copre a vicenda in caso di difficoltà,
assumendo implicitamente che il favore verrà in futuro ricambiato. Come
sottolinea Fine (1996), in ambienti lavorativi come questi viene assunta una
comunanza di interesse da salvaguardare.
4.2. La manipolazione.
E’ possibile individuare all’interno del nostro ristorante un articolato
sistema di manipolazione, ovvero un insieme strutturato di procedure tendenti
a provocare un fare somatico per mezzo di un fare cognitivo69.
Nell’attribuzione di ogni compito e ruolo a livello organizzativo è possibile
riconoscere a livello astratto “un’azione dell’uomo sull’altro uomo, tendente a
far loro eseguire un dato programma “ (Greimas, Courtés, 1979, p.206 della
trad. it.). Si tratta di un far-fare informato da un’istanza ideologica a monte
che è finalizzato ad un atto pragmatico, sanzionato dal destinante-giudicante.
Ad El Bulli è prevista una suddivisione delle mansioni in correlazione a una
categorizzazione dei piatti, nonché una organizzazione gerarchica a più livelli.
Secondo una catena di deleghe di competenza70, ogni partita ha il suo
responsabile, che fa da mandante a sua volta controllato da un mandante a
livello superiore, il capo chef. I cuochi con maggiore esperienza inoltre sono
investiti secondo la modalità del /dovere/ per trasmettere la loro competenza
nei termini del /saper-fare/ ai cuochi meno esperti.
L’articolazione dei ruoli secondo la dimensione sintagmatica e
paradigmatica viene fatta corrispondere ad un’organizzazione spaziale. Nel
primo senso si ha la divisione principale delle cucine in due grandi aree: quella
delle preparazioni di base, e quella delle preparazioni finali. La prima,
fisicamente isolata dal resto per mezzo di un corridoio, è finalizzata alle
operazioni di lavaggio delle verdure, pulitura del pesce, tagli primari, volti
all’attuazione dei PN d’uso per la realizzazione di prodotti parziali, da
trasformare in attività culinarie successive.
La seconda area, articolata in parti, è comunicante e aperta sulla sala
centrale alla quale hanno libero accesso i clienti, nonché delimitata da vetrate
69 Cfr. la Prefazione di Patrizia Magli e Maria Pia Pozzato alla trad. it. a Greimas (1983, p.XII.)
70 Cfr. considerazioni di Landowski (1989, p. 106 della trad. it) su deleghe e mandati a proposito del sistema della magistratura.
che la rendono trasparente. Queste cucine sono divise in aree-partite: area
pasticceria, area cioccolata e preparazioni che necessitano di aria condizionata;
area cocktail e dessert, area piatti freddi, grande area di cucina e montaggio
dove si realizzano le preparazioni che necessitano i fornelli e le performance
culinarie al momento dell’ordinazione del cliente. Questa zona è quella
principale, la più grande e la più visibile. Se ne può dedurre una valorizzazione
dell’elemento cottura, processo trasformativo che gode di uno status
privilegiato nel mondo culinario71.
Ad un grado gerarchicamente superiore ai capi partita si ha il capo chef, il
quale orchestra il lavoro come un direttore d’orchestra. Riunisce e coordina le
varie partite, controlla ed è responsabile del lavoro degli altri, prepara i
programmi, attribuisce i compiti ad ognuno. E’ il supervisore e colui che solo
è competenzializzato per gridare le comande nel momento della performance
culinaria. Il suo ruolo non è primariamente operativo, ovvero non si occupa se
non in limitati casi della pratica culinaria. La sua non è quindi “un’azione
dell’uomo sulle cose”72 bensì un’attività di manipolazione nel suo senso
propriamente semiotico, ovvero “un’azione dell’uomo su altri uomini,
tendente a far loro eseguire un dato programma”. Mentre lo staff di cuochi si
occupa di un far-essere, iscritto in una dimensione pragmatica, il capo chef (e
come vedremo il suo superiore) si dedica ad un far-fare, situato in una
dimensione cognitiva. La sua è una manipolazione appoggiata su modalità di
potere in cui il destinatario manipolato è modalizzato secondo il dovere,
secondo le logiche lavorative.
A sua volta il capo chef è controllato e sanzionato dal Destinante massimo,
impersonato da Ferran Adrià, al quale deve rendere conto. Egli è il Destinante
in quanto garante del valore culinario, è il creatore (in alcuni casi non
esclusivo) dei piatti, colui che gode della fama ma anche che ne risponde a
quel sanzionatore generale di legittimazione che è l’opinione pubblica.
In lui la componente pragmatica è pressoché assente. La sua performanza
operativa si realizza ad El Taller, nell’ambito della creazione del piatto, ovvero
nella dimensione propriamente artistica della cucina. Il compito della
71 Da notare comunque la peculiare assenza del fuoco: i fornelli non sono a
gas bensì ad elettricità, assicurata da un generatore autonomo proprio. 72 Così viene definita l’operazione, distinguendola dalla manipolazione da Greimas,
Courtés (1979, p.206 della trad. it.).
riproduzione dell’opera viene delegato ad altri cuochi, di accertata
professionalità. Il guru della cucina non è modalizzato secondo il dovere (nel
senso di imposizione esterna) nella sua presenza al locale ad un orario preciso
nel corso dei tempi di preparazione, ed è occupato in attività supplementari
come ad esempio i rapporti con la stampa. Si occupa accanto al capo cucina
(quando non delega completamente quest’ultimo per questo ruolo) della
sanzione finale del piatto, che deve precedere necessariamente l’operazione di
avvicinamento di esso al cliente per mezzo del servizio in tavola. Inoltre,
diversamente dal capo cuoco si può allontanare dal luogo della produzione
culinaria per assistere in prima persona al momento della congiunzione
dell’oggetto con il suo destinatario. In ottemperanza alle forme narrative
canoniche, al termine della performance cerca la sua “glorificazione” e riceve
le celebrazioni dei frutti della sua impresa per opera del cliente, soggetto a sua
volta sanzionatore e competenzializzato per giudicare il successo della prova
culinaria (Greimas, 1983, p.146 della trad. it).
Fig.2 Ferran Adrià valuta la buona riuscita del piatto.
4.3. La sanzione.
Ad El Bulli possiamo identificare diverse istanze di sanzione sia di tipo
pragmatico, ovvero giudizi sul fare, sia di tipo cognitivo, ossia valutazioni
relative all’essere in condizioni si stato. Al secondo senso vanno ricondotti i
numerosi episodi in cui i cuochi sanzionano i prodotti d’uso delle preparazioni
base assaggiandoli, ovvero tramite introiezione. La sanzione finale però per
piatti strutturati non si può basare sul gusto, perché non è possibile alterare la
perfezione formale dal piatto. Si usa la vista73 o l’aspetto tattile per riconoscere
l’effettiva corrispondenza dell’oggetto prodotto con quello desiderato, ossia la
sua avvenuta valorizzazione.
Come già accennato, per il ruolo di giudice sanzionatore ufficiale sono
competenzializzati non i soggetti performanti, ovvero i cuochi ordinari, bensì
solo il capo chef e il guru della cucina, che impersonano il ruolo di destinanti
del valore culinario. Il loro intervento porta a realizzazione in primo luogo una
sanzione cognitiva, in quanto valuta l’oggetto di gusto sovradeterminandolo
grazie a modalità veridittive ed epistemiche74. In questo modo si giudica
l’accettabilità del piatto in rapporto ad un sistema di valutazione di ordine
estetico-gustativo, condizione presupposta per l’attribuzione successiva
dell’oggetto al destinatario. In secondo luogo si effettua una sanzione
pragmatica, in quanto si valuta il buono o cattivo operato dei responsabili
dell’impresa gastronomica. Il giudizio degli chef precede e cerca di anticipare
quello del commensale, il quale è l’unico modalizzato secondo il potere per la
congiunzione totale con l’oggetto di gusto, attraverso l’introiezione.
Quando il piatto viene servito in tavola, il cliente può quindi sanzionare il
valore di quanto atteso, giudicando prima coi sensi più superficiale e quindi
con il gusto, attraverso l’assaggio. La sanzione valuterà la performance del
soggetto dell’azione culinaria, realizzata in conformità al rapporto di scambio
alla base del sistema della ristorazione. Si avrà anche una sanzione di tipo
cognitivo che consiste nel riconoscimento e nella celebrazione dell’eroe
gastronomico. Questa si può manifestare per mezzo dei complimenti fatti al
termine personalmente allo chef, o dei commenti positivi o negativi raccolti
dai responsabili dell’accoglienza nel locale per poi essere registrati nelle
schede cliente di cui si è già parlato.
Diversamente dai ristoranti di livello mediocre, in cui capita che il cliente si
avochi la potestà indiscussa di giudizio del gusto, ad El Bulli e nei ristoranti
gastronomici in genere75 si suppone di poter individuare una motivazione ad
ogni scelta, tecnica o artistica che sia. I criteri prediletti possono essere o meno
condivisi dal commensali ma si presume che associazioni e cotture abbiamo
una base razionale.
73 Ad esempio, il colore spesso dà indicazione sulla cottura avvenuta. 74 Cfr. la nozione di sanzione in Greimas, Courtés (1979). 75 Secondo la definizione di Adrià (1997).
Come scrive Fine (1996), “un obiettivo primario della
‘professionalizzazione’ è assicurare che la fonte primaria di valutazione
occupazionale è interna, piuttosto che esterna, e che i clienti accettino questo”
(ivi, p.195, trad. mia). Ad El Bulli uno può gradire o meno, ma i piatti non
tornano indietro.
4.4. La dimensione temporale.
Una tematica a mio parere interessante da analizzare è quella della cornice
temporale, esperita dai soggetti performatori e dagli osservatori che animano
El Bulli. Come ricorda Fine (1996, p.13), l’attività culinaria è temporalmente
scandita sia nei microritmi della preparazione di singoli piatti sia nei più ampi
ritmi del lavoro giornaliero, e io intendo esplorare le modalità in cui queste
diverse articolazioni si incontrano e avvicendano, producendo l’andamento
complessivo della temporalità interna al ristorante.
Dimensioni dell’organizzazione temporale del lavoro sono: la sequenzialità,
il ritmo, il timing (o sincronizzazione), la durata. Relativamente al primo
punto, ci riferiamo alla prospettiva del tempo discreto, alla dimensione lineare
in cui si può riconoscere una successione di un prima ed un poi. In questo
senso verranno descritte le fasi principali in cui si segmenta la giornata
lavorativa, regolando l’attività culinaria. E’ opportuno considerare inoltre
anche le relazioni del continuo e del discontinuo, convogliate dalla dimensione
aspettuale76. In quest’ambito è particolarmente importante prendere in esame
la componente tensiva, la quale manifesta il carattere di gradualità progressiva
del processo culinario, cagionando in un certo senso la sua dinamizzazione77.
Come sottolinea Paul Valéry (1973) e viene rimarcato da Zilbergerg (2001), la
cognizione del tempo avviene mediante la tensione, non per mezzo del
cambiamento. Da qui ritroviamo il valore della dimensione ritmica,
particolarmente interessante nell’ambiente ristorativo. A differenza delle
occupazioni in cui il ritmo è stabile, ad es. le catene in fabbrica, in cucina così
come tutti i lavori artigianali il lavoro implica controllo temporale così come
autonomia decisionale (Fine, 1996).
76 In questo senso, interpretiamo quindi la manifestazione temporale come un processo che
comporta aspetti incoativi, durativi e terminativi. 77 Cfr. la definizione di tensione di Greimas, Courtés, (1979).
Ad El Bulli il ritmo è scandito in modo irregolare, organizzando l’orario
lavorativo in fasi più tranquille e pacate e in fasi molto frenetiche. Il corso
ritmico è essenzialmente ascendente, partendo dalle ore diurne delle
preparazioni parziali, alle più celeri attività della mise en place, nelle quali
diventa fondamentale la realizzazione dei piatti al tempo giusto, evitando di
fare aspettare il commensale.
4.4.1. La scansione temporale.
L’attività culinaria è segmentabile in due macro-sequenze, nettamente
distinguibili e che si presuppongono a ritroso, all’interno dei quali è possibile
riconoscere momenti ritmicamente accentuati o distensivi iscrivibili in una
dimensione temporale analogica. Possiamo riconoscere una fase della
preparazione e una della performance culinaria, associabili la prima ad un PN
di de-naturalizzazione degli ingredienti di base per la produzione di oggetti
d’uso, la seconda ad un PN di elaborazione e montaggio dei prodotti parziali
per la composizione dell’oggetto finale. La sequenza logica dei programmi
d’azione con il relativo sistema di presupposizioni vanno a costituire il
percorso narrativo78 messo in atto dai cuochi all’interno del ristorante.
4.4.2. Prima macro-sequenza. La fase preparatoria.
Focalizzandoci sul livello discorsivo, possiamo introdurre accanto alla
suddivisione temporale una segmentazione “attoriale” che prenda in
considerazione apparizioni, movimenti e scomparse degli attori in campo ad El
Bulli. Diversi soggetti popolano e spopolano le aree del ristorante in orari
diversi. Alle dodici, le cucine sono abitate dagli addetti alle pulizie, che
rendono il luogo pulito e ordinato ovvero igienicamente qualificato per le
successive operazioni trasformatorie dei cibi. Nel frattempo, arrivano anche i
furgoncini con i prodotti acquistati in giornata al mercato, provenienti dai
fornitori o raccolti manualmente da soggetti delegati nei dintorni della baia di
Roses. Alle quattordici c’è già qualcuno impegnato nelle attività propriamente
culinarie, in particolare nel settore delle preparazioni di base. Nell’area delle
cucine principali le attività sono fondamentalmente di natura cognitiva e
vengono realizzate attraverso la coordinazione del capo cucina.
78 Traggo ispirazione dal saggio di Floch (1990) sui percorsi narrativi e le diverse
tipologie dei viaggiatori della metropolitana.
Sui tavoli delle cucine sono presenti il diario giornaliero e settimanale, le
schede dei commensali e le ricette di tutti i piatti nuovi: polimorfe
manifestazioni discorsive della struttura modale del /saper fare/ colta come
procedura di programmazione (Greimas, 1983).
Fig.3 I capi partita programmano il lavoro giornaliero.
Il diario settimanale è organizzato in base alle partite e indica l’elenco dei
piatti in produzione corrispondentemente al menù degustazione in corso, in
vigore quest’anno per il medesimo arco di tempo. Sono annotati altresì tutte le
opzioni alternative in caso di eventi inaspettati, ovvero di contro-programmi.
A questo diario sono associate le ricette di ogni piatto, fornite dal capo cucina
alla singola partita a cui è delegata la relativa preparazione. Il capo chef si
occupa di mostrare e spiegare l’esecuzione del piatto, portando a realizzazione
in funzione di esempio quelle che sono ancora solo “manifestazioni di
competenza attualizzata” (Greimas,1983, p.154 della trad. it.), ovvero le
prescrizioni scritte.
Nel diario giornaliero compare la lista degli ingredienti da comprare,
nonché le eventuali alternative dettate dagli imprevisti del mercato. Vengono
calcolate e appuntate le quantità di ogni prodotto in modo molto preciso,
grazie alla possibilità di prevedere esattamente cosa mangerà ogni cliente. Al
documento sono associate le schede relative ad ogni singolo tavolo, in cui
vengono annotati i nomi dei commensali, l’elenco dei piatti che
degusteranno79 e l’orario per cui sono attesi.
Sempre all’interno del diario del giorno vengono enumerate tutte le attività
da fare nell’ambito della fase preparatoria, ovvero si ha una manifestazione del
dispositivo strategico relativo ai programmi narrativi d’uso. Per mezzo dei due
diari e dei documenti ad essi collegati viene esplicitata e dettagliata una
programmazione dei compiti, organizzati paradigmaticamente (attraverso la
suddivisione vari piatti inseriti nel PN globale della cena) e sintagmaticamente
(con programmazione temporale), oltre ad una esplicitazione delle deleghe
delle operazioni ai soggetti umani.
Le cucine iniziano ad essere animate verso le quindici, quando sono state
espletate le attività di natura prevalentemente cognitiva, consistenti
nell’acquisizione di una competenza del sapere quali compiti compiere e in
che modo, attraverso la programmazione e l’attribuzione dei ruoli a soggetti
delegati. In quest’orario le operazioni si realizzano con la calma necessaria
(ovvero in distensione) all’esecuzione di procedure che necessitano la
massima concentrazione.
Spesso si ha la collaborazione fra vari cuochi per realizzare un compito
particolarmente difficile, e la dimostrazione della corretta maniera da seguire
da parte dei cuochi più esperti.
Fig.4 Un cuoco istruisce un aiuto cuoco meno esperto sulla tecnica di cottura del cuscus di cavolfiore.
79 Con le eventuali opzioni alternative ai piatti del menù, in base alle preferenze
manifestate, in caso di precedente visita.
Il ritmo da lento acquista un’accelerazione incrementale verso le ore
diciassette, quando ci si proietta nel futuro focalizzandosi sull’ora prescritta
per la conclusione della prima macro-sequenza narrativa, ovvero il momento
associato all’aspettualità terminativa dell’oggetto parziale. Alle diciotto meno
dieci si pulisce e lucida tutto eliminando dalla vista tutti gli strumenti
dell’attività culinaria. Vengono interrotti i divergenti processi in corso anche
se non conclusi e tutti confluiscono alla realizzazione di uno stesso programma
narrativo esterno al PN principale della preparazione della cena per i clienti. Si
impegnano infatti nella trasformazione dei banconi metallici da lavoro a tavole
conviviali, affiancate da sedie di plastica e imbandite con le posate, ovvero
con gli utensili della passività culinaria.
I prodotti gastronomici che andranno a costituire i piatti vengono sigillati e
depositati in frigorifero all’interno di contenitori di plastica (difesi quindi
dall’aggressione esterna). Vengono immessi quindi in quello che altrove
abbiamo definito strumento della discontinuità temporale in quanto
interrompe il naturale processo di corruzione della materia. In questa
sospensione del tempo dell’azione, associata topologicamente allo spazio della
sedia (vs la posizione in piedi che caratterizza le fasi dell’attività), lo staff di
El Bulli si dedica alla medesima occupazione a cui si dedicheranno i clienti del
locale, ovvero a mangiare quanto è stato da altri preparato. La natura della loro
esperienza è però sensibilmente differente: il cibo da sussistenza e la
presentazione incurata, i brevi tempi a disposizione e l’imbandigione spartana
avvicinano questa esperienza molto più alla dimensione nutritiva e di
sostentamento dell’alimentazione che a quella di piacere estetico e gustativo.
Alle diciotto e trenta la pausa ha fine con lo smantellamento di posate e
resti del pasto. Si lucidano i banconi che riacquistano la loro funzione naturale
di base per le mansioni culinarie. Alcuni attori riprendono lo stadio operoso
sebbene con gradualità. Il clima è ancora disteso e ci si dedica a terminare le
attività sospese, in una fase di prolungamento del momento della preparazione.
Alle diciannove ha inizio un momento molto particolare non annunciato:
senza bisogno di alcuna parola lo staff di El Bulli al completo (ovvero cuochi
di ogni grado, camerieri e resto del personale di sala) prima distribuiti e sparsi
per le cucine in quanto impegnati ognuno nelle proprie mansioni, convergono
in semicerchio formando un’unità. I cuochi si dispongono uno accanto all’altro
ai lati della cucina principale, i camerieri e il resto del personale si affiancano
anch’essi presso i muri nel proseguimento del salone. Il capo cuoco si ritaglia
il suo spazio sulla destra, rompendo il semicerchio e assestandosi nell’area di
contiguità fra le cucine e in prossimità al bancone. Mentre gli altri se ne stanno
zitti e immobili, perlopiù a braccia conserte (in una posizione quindi di
chiusura), il capo-chef Albert Raurich con un foglio di appunti in mano inizia
a parlare aprendosi un varco gesticolando nello spazio, descrivendo i piatti in
menù nei minimi dettagli. Poi passa la parola al capo pasticciere che descrive i
dessert. Il primo cuoco riprende il turno d’interazione facendo commenti,
prescrivendo modifiche dei comportamenti abituali, annunciando la presenza
di clienti speciali nella serata e di visite particolari in programma per le
giornate successive. L’enunciatore assume il ruolo di destinante, soggetto
manipolatore (che attribuisce le deleghe) e di sanzionatore dell’operato dei
soggetti manipolati (attraverso commenti e critiche). In questa fase, la struttura
gerarchica è manifesta, come denota il passaggio dei turni di parola. E’ sempre
il capo cucina a cedere la parola a chiunque altro dello staff desideri
intervenire.
Fase dell’attività preparatoria
Fase della riunione
movimento, attività vs immobilità
distanza vs prossimità
divergenza vs convergenza
Fig.5 Il capo chef dà le indicazioni di lavoro allo staff.
4.4.3. Seconda macro-sequenza. La fase del montaggio.
Alle diciannove e un quarto, le attività riprendono a pieno ritmo e il lavoro
muta la sua natura: ha infatti inizio la fase determinante del montaggio dei
piatti, in prossimità all’arrivo dei clienti. Le operazioni da questo momento si
svolgono principalmente nella cucina aperta dotata di fuochi, dove si
concentra la maggioranza dei cuochi. Rimangono operative le aree specifiche
(ad es. l’area dessert e cocktail) con uno o due addetti, mentre le cucine per le
preparazioni di base non sono più attive. Da questo momento in poi il capo
cuoco assume una sua posizione centrale e fissa: non più all’interno delle
cucine, bensì dal bancone comunicante con la sala (ovvero in una posizione di
mediazione fra l’interno delle cucine e l’esterno) annuncia le comande. Per
evitare confusione, lui è il solo competenzializzato per dettare disposizioni
nonché attribuire mansioni culinarie, configurando il sistema attoriale per la
messa di atto dei vari PN in modo da assicurare la coordinazione delle
performance. Assumendo un ruolo fra il direttore d’orchestra e il capo
militare, egli determina dall’esterno i tempi dei programmi culinari, cercando
una loro armonizzazione con i tempi interni necessari all’effettiva
realizzazione delle trasformazioni culinarie. Con le sue direttive e i suoi
ammonimenti, coglie e cerca di determinare i processi nella loro incoatività e
terminatività, andando spesso a sfidare e contrastare la durata impressa dalla
performance del soggetto operatore. L’attività di sincronizzazione è
particolarmente ardua, in particolare perché dipendente non solo da
temporalità interne dell’organizzazione culinarie bensì anche esterne ad essa:
occorre infatti programmare una concomitanza fra quattro diverse temporalità,
inerenti da un lato le fasi di produzione e dall’altro quelle di servizio e
degustazione dei cibi:
– quella del cuoco che sottopone a cottura alcuni prodotti, li sottopone a
manipolazione e monta i componenti nell’assemblaggio finale;
– quella del tempo naturale di trasformazione chimico-fisica, atta a
determinare puntualmente il momento esatto della cottura;
– il tempo impiegato liberamente dai clienti per degustare e consumare le
pietanze, nonché il tempo supposto di aspettativa di attesa per la portata
successiva;
– il tempo di servizio necessario ai camerieri per l’attribuzione del piatto al
destinatario.
Quello dell’incontro fra commensale e oggetto valore è quindi un tempo
intersoggettivo (Landowski, 1999), determinato dalla possibilità di far
congiungere le diverse temporalità degli attori impegnati nel programma
culinario.
Fig.6 Predisposizione delle decorazioni del cuscus.
Alcune disposizioni decorative nei piatti vengono iniziate anteriormente
alle ordinazioni, a causa della loro complessità e grazie al loro minor rapido
deterioramento rispetto ai processi che necessitano una cottura. Spesso più
soggetti collaborano all’allestimento estetico dei piatti, in particolare quando
sono numerosi e implicano perciò azioni iterative. In questo caso generalmente
viene completato un primo piatto che funge da esempio per una
configurazione estetica da riprodurre in seguito ad una preliminare sanzione
del modello.
Fig.7 Allestimento di piatti.
Con i cibi caldi e quelli in cui la temperatura è più determinante costituendo
parte e valore (ad es. la “sopa de guisantes 50o/4o”) è particolarmente difficile
cogliere nel servizio esattamente il processo di cottura nella sua
terminatività80. Agli elementi decorativi meno deperibili (caratterizzati da
duratività sostanziale), vengono aggiunti gli elementi portanti più corruttibili
puntualmente cotti e con salsine o emulsioni si provvede a completare di
impiattare. In questa importante fase cuoco, cameriere e capo cucina sono
compresenti per assicurare attraverso la loro sincronizzata azione una
temporalizzazione che assicuri una rapida congiunzione dell’oggetto post-
trasformazione con il suo destinatario. Il passaggio dell’oggetto deve essere
infatti pronto e puntuale, assicurando una soluzione di non discontinuità81 fra
il momento terminativo della costituzione del piatto e il suo servizio. Fra la
conclusione del processo culinario per opera dallo cuoco e l’intervento del
cameriere con il suo allontanamento dell’oggetto dal suo produttore intercorre
un momento molto importante: la già citata sanzione ad opera del capo chef o
del suo mandante, usualmente espressa per mezzo di un semplice cenno del
capo. Questo giudizio condiziona i programmi successivi, ma la sua
manifestazione costituisce un semplice accento ritmico nel percorso narrativo,
che non prevede rotture bensì un raccordo fluido fra sequenze d’azione.
Secondo la prospettiva di chi opera nell’ambiente della ristorazione slow82,
si pone enfasi sulla negatività della discontinuità, alla quale viene attribuito un
disvalore: ogni secondo che si fa attendere al piatto sminuisce le sue qualità
sensibili. Per evitare di cogliere il prodotto culinario in contro-programma,
causa il prolungarsi naturale dei processi messi in atto dalla manipolazione
umana, occorre quindi un’efficace sincronizzazione dei soggetti performatori
del servizio con quelli operatori in cucina. Solo una forma di coordinamento
flessibile dei ritmi seguiti dai diversi attori (cuochi, camerieri, clienti), in
modo da assicurare un adeguamento fra anticipi e ritardi consente un
avvicendamento armonico di produzione e consumo, presentazione e
80 La terminatività è definita da Greimas, Courtés (1979) “un sema aspettuale che segnala il compimento di un processo”.
81 In riferimento al saggio di Floch sugli utilizzatori metropolitani, potremmo avvicinare il comportamento richiesto all’équipe di El Bulli a quello dei viaggiatori Professionisti, che con maestria affrontano le variazioni di percorso valorizzando la non-discontinuità. Cfr Siete esploratori o sonnambuli?, in Floch (1990).
82 Ovvero in opposizione al mondo della ristorazione rapida di fast-food e mense, ove si incorre in cibi precotti o ci si accontenta di cibi cotti in precedenza e già freddi.
degustazione dei piatti, scongiurando che si inceppino gli ingranaggi della
complessa macchina organizzativa che fa capo ad El Bulli.
Fig.8 Il piatto è pronto per essere servito.
VII.
PROSPETTIVE DI RICERCA.
Nel corso di questa tesi, ci siamo affacciati al mondo della cucina creativa
contemporanea attraverso uno studio, con approccio socio-semiotico, di alcune
sue manifestazioni singolari, ovvero le creazioni, gli strumenti e le filosofie
culinarie di tre chef particolarmente rappresentativi. Piuttosto che soffermarmi
su un unico aspetto dell’arte culinaria, ho preferito esplorare questo mondo
attraverso angolazioni differenti: da un lato nella dimensione trasformativa,
focalizzandomi sugli strumenti e sul processo di costruzione, dall’altra in
quella più statica dei prodotti culinari, pronti per la degustazione. E’ stato
analizzato l’oggetto culinario in tutti i suoi stati, da quello in progress a quello
composito nella sua aspettualità terminativa, per scomporlo (e decostruirlo
come alcuni cuochi) in tutte le sue componenti, al fine di sviscerare le strutture
della sua significazione.
Ora vorrei però riprendere alcune problematiche che sono emerse nel corso
della trattazione, per mettere in luce le costanti e le variabili dell’arte culinaria,
in un approccio comparato che indaghi le particolari strutture assiologiche
suscettibili di articolare, in senso valoriale, in contesti diversi, l’universo di
discorso culinario.
Innanzitutto, occorre focalizzare l’attenzione sulla condizione ibrida e
multidimensionale della cucina, il suo operare al crocevia di plurime categorie
semantiche: fra vita e morte, natura e cultura83, piacere e necessità, corpo e
psiche.
Come intendo approfondire, nel corso della storia dell’alta ristorazione qui
esaminata, i sistemi valoriali abbracciati non hanno avuto una durata
immutabile, delineandosi invece sulla base dell’alternarsi delle specifiche
ideologie culinarie.
83 O fra phiyis e téchne. Per una collocazione della cucina su questa dicotomia nel corso
della storia della filosofia Cfr. Rigotti (1999).
1. I principi e le costanti dell’attività culinaria.
Alcune considerazioni di Fischler (1990, p.59 della trad. it) mettono luce su
quello che è il nucleo semantico stabile dell’attività culinaria, attorno al quale
si iscrivono le varianti storicamente e culturalmente definite.
La cucina ha una virtù fondamentalmente “identificatrice”: una volta “cucinato”, cioè piegato a regole convenzionali, l’alimento è bollato da un sigillo, etichettato, riconosciuto, in breve identificato. Il cibo “grezzo” è portatore di un pericolo, di una barbarie che esclude il compromesso: così segnato, passando dalla Natura alla Cultura, sarà ritenuto meno pericoloso.
L’identificazione e classificazione degli oggetti passibili di subire la
manipolazione culinaria sono esercizi imprescindibili della cucina. La
selezione di un prodotto nocivo o velenoso può infatti fatalmente trasfigurare
quell’attività che è garanzia di vita84 nel suo polo categoriale contrario.
Sebbene spesso venga dimenticato, l’intervento culinario principalmente
mediante la cottura assolve primariamente ad una funzione di trasformazione
di ingredienti non commestibili in partenza in oggetti ingeribili e digeribili.
Interpreta quindi un ruolo fondamentale di mediazione fra la Natura e la
Cultura, di conversione del cattivo da mangiare in buono da mangiare85.
La cucina può, analogamente ad un farmaco, essere da un lato fonte
benefica per il corpo umano, essendo risorsa di nutrimento, dall’altro risultare
pericolosa per l’organismo qualora utilizzi ingredienti nocivi oppure
intervengano scelte culinarie inopportune. Come ricorda Fischler (ivi, p.47
della trad. it.), l’essere umano vive il “paradosso dell’onnivoro”: da un lato,
84 Dando spesso luogo, sulla base di quello che è il lato crudele della cucina, ad
un’operazione sintattica di affermazione della vita a partire dalla morte. Cfr. su questo aspetto Vázquez Montalbán (1990), che sottolinea all’inizio del suo libro: “Il gourmet giammai dimentica il nome del morto. Di più, mentre se lo mangia ne fa espressa menzione […] e ricorda altri assassinati e divoramenti anteriori, perché il piacere di mangiare è normalmente accompagnato dalla memoria dei passati banchetti.” (p.9, trad. mia).
85 Sebbene, come ricordato nell’introduzione, nell’ambito del potenzialmente commestibile sono le culture specifiche a determinare ciò che può diventare o meno cibo buono da mangiare. Come sottolinea Lévi-Strauss (1962b), gli alimenti per essere inseriti nei singoli sistemi culinari devono essere infatti anche “buoni da pensare”.
dipendendo dalla varietà, è indotto a sperimentare il nuovo, dall’altro, come si
è accennato, è naturalmente diffidente verso l’ignoto perché potenzialmente
rischioso
Come si è evidenziato, il cibo non risponde solamente a necessità
fisiologiche, bensì può essere anche manifestamente fonte di piacere, ed è
sulla soddisfazione del desiderio estetico-gustativo che l’alta cucina trova
ragione di esistere. Le preferenze alimentari così come i codici del gusto sono
notevolmente condizionati dal valore simbolico di certi alimenti nella società
di appartenenza, nonché da idiosincrasie individuali condizionate dalle passate
esperienze gustative.
Questa dimensione culturale della cucina non può in ogni caso prescindere
da quella materiale, l’elaborazione culinaria dalle proprietà chimico-
organolettiche dei cibi, l’appagamento psicologico da quello del corpo. Come
sottolinea Parasecoli (2001), su molteplici dimensioni, il cibo e la cucina
poggiano a livello profondo su strutture dicotomiche difficilmente risolvibili.
La natura ambivalente della cucina è stata letta e interpretata in modo alterno
nella storia dell’haute cuisine, vivendola spesso come una sfida, volta a
ricusare uno del suoi poli categoriali o a proporre una loro riconciliazione.
2. La variabilità storica delle dicotomie culinarie. 2.1. La sublimazione artistica e l’approccio alla dimensione
corruttibile dei cibi.
Una problematica rilevante emerge agli esordi della grande cuisine, con la
figura di Carême e l’istituzione di quello che è stato definito il primo
paradigma culinario. Come è stato approfondito nella parte storica, l’arte
culinaria è concepita da questo chef-pasticciere quale una trasfigurazione della
natura bruta in opere monumentali di valore primariamente scenografico e
decorativo. Degli ingredienti impiegati, risulta secondario il rispetto delle
proprietà gustative nell’intervento umano, e spesso nemmeno il principio di
commestibilità deve essere soddisfatto. Si valutano invece le qualità estetiche
e la loro adattabilità ad essere inserite nelle costruzioni architettoniche
culinarie innalzate dallo chef.
Si potrebbe interpretare il paradigma culinario di Carême quale opera di
sublimazione dell’atto alimentare in arte, e con essa di superamento della
natura corruttibile del cibo e del consumo, per mezzo dell’iscrizione dei suoi
prodotti nella durata. Nei bassorilievi di pastigliaccio o nelle innumerevoli
tipologie di pièce montées, lo status naturae degli ingredienti viene camuffato
sotto rivestimenti ed orpelli, disconoscendo il valore d’uso dell’esperienza
degustativa, a favore del consumo contemplativo di un allestimento
scenografico che evoca un ordine figurativo della stabilità. La dimensione di
scadimento del prodotto culinario sottoposto alla manipolazione è trascurata, o
addirittura dissimulata mediante la costruzione con esso di opere
monumentali, portatrici di un valore simbolico di eternità.
Nello stesso modello di servizio in uso all’epoca di Carême, la condizione
effimera delle proprietà degli oggetti culinari è elemento irrilevante.
Nell’ambiente ristorativo, l’adozione del servizio alla francese se non implica
necessariamente la condivisione di un’assiologia di valori coincidente con
quella di Carême, non si discosta palesemente da essa. Questo sistema prevede
infatti il rispetto di un rigido codice di allestimento spaziale delle vivande,
sorvolando sul problema della prontezza di servizio, ovvero del suo
dispiegamento ottimale in una dimensione temporale. I commensali sono
costretti frequentemente ad una lunga attesa per ricevere i piatti desiderati,
serviti spesso già freddi, andando a scapito della loro palatività, come se
invece la rigorosa disposizione scenografica fosse garanzia di una loro eterna
bontà.
E’ con l’entrata in uso del servizio alla russa che la struttura valoriale
profonda sembra assestarsi diversamente. Il dispiegamento sintagmatico delle
portate e la distribuzione ai commensali delle vivande appena pronte
presuppongono infatti un riconoscimento del loro valore transitorio, ossia della
loro intrinseca corruttibilità.
Con i cambiamenti organizzativi introdotti da Escoffier e con i
miglioramenti introdotti negli ultimi tempi, sia nell’ambito del servizio che in
quello della preparazione culinaria, si prende gradatamente atto (fino a una sua
valorizzazione) della variazione qualitativa delle pietanze nel tempo. Come
sottolineato nella sezione dedicata all’organizzazione di El Bulli, e come ora
intendo approfondire, si enfatizza nel contesto ristorativo moderno la
componente tensiva dell’attività culinaria.
La prospettiva attraverso la quale il processo e i prodotti culinari sono
investiti di valore è manifestamente diversa nell’età di Carême e nella cucina
più recente, soprattutto a partire dagli anni della nouvelle cuisine. Nella cucina
scenografica di Carême, l’elaborazione culinaria è concepita quale
commutazione di uno status iniziale in uno finale marcatamente diverso, in cui
è iscritta una condizione di permanenza, propria delle arti plastiche. Le opere
culinarie vengono osservate e valutate nella loro aspettualizzazione
terminativa, quale momento di contemplazione estetica nell’occasione
conviviale.
L’approccio culinario osservato ad El Bulli e negli altri ristoranti oggetto di
studio è piuttosto differente: l’intervento sul prodotto iniziale non è
trasfigurazione ma incontro attivo con il naturale corso delle cose,
indirizzabile e informabile in base all’ispirazione creativa dello chef. L’arte
culinaria in questo senso deve adeguarsi ad operare nel contesto di un
continuum temporale, al quale vanno iscritti per condizione naturale gli
alimenti. I processi di cottura, così come quelli di conservazione, possono sì
alterare o interrompere il corso degli eventi producendo una forma di
discontinuità temporale, ma il loro effetto non può essere definitivo: l’incontro
dello chef con la pietanza e del piatto con il commensale deve necessariamente
affrontare la condizione del divenire. Le cotture devono essere quindi esatte, la
loro realizzazione sincronizzata, il servizio rigorosamente tempestivo. Emerge
qui la già citata dimensione tensiva dell’attività culinaria: l’intervento del
cuoco deve infatti incidere sul continuum, producendo quindi quella che
Greimas (1976) definisce una contrazione del sema durativo con un sema
puntuale. Il servizio inoltre, secondo una modalità già definita della non-
discontinuità, assicura l’incontro fra i ritmi di lavoro degli attanti responsabili
della performanza culinaria, la corruzione temporale dell’oggetto culinario e i
tempi di degustazione del destinatario. Dall’incontro di queste diverse
temporalità, si determina un tempo intersoggettivo (Landowski, 1999) e
interoggettivo, che nella prospettiva più ampia dell’attività culinaria definisce
secondo un’aspettualizzazione puntuale il valore dell’esperienza
gastronomica. Come conseguenza del riconoscimento della natura effimera del
prodotto estetico e gustativo, si sottolinea l’importanza di non far aspettare
l’oggetto culinario, nel quale è inscritta una dimensione di vitalità86,
collocandosi in un sistema di valori contrapposto a quello che le opere
mummificate di Carême dimostrano di abbracciare. Dimostrando una
premurosa cura sia nei confronti del cliente che dell’oggetto gastronomico, c’è
l’impegno ad assicurare il valore di caldo o comunque della temperatura
ottimale prevista dalla preparazione. In piatti come la citata “sopa de
guisantes” di Adrià, i gradi a cui dev’essere servita sono perfino indicati nel
menù, e in tutti i ristoranti da me visitati sono utilizzati specifici termometri
per sanzionare la cottura avvenuta, nonché strumenti come la campana
d’argento sono a volte utilizzati per ritardare il raffreddamento del piatto.
In relazione al soggetto destinatario del piatto, si mostra inoltre
un’attenzione particolare per far sì che esso non venga costretto all’attesa
spesso frustrante caratteristica del servizio della francese. In questo sistema, la
dimensione dell’attesa non viene comunque cancellata, bensì dislocata ad altre
dimensioni dell’esperienza gastronomica, che non gravano sulla qualità del
prodotto culinario né sul godimento della degustazione.
In primo luogo, l’attesa viene spostata al di fuori dell’evento in cui si
realizza la performanza culinaria. Ricordiamo ad esempio che per ottenere un
tavolo ad El Bulli può essere necessario prenotare con un anno di anticipo,
nonché, come si è visto, per arrivarvi è necessario percorrere delle strade
impervie: analogamente ad una prova di qualificazione, viene richiesta una
pazienza ed una tenacia notevole. Come nel sistema della moda inoltre, ogni
anno gli appassionati fremono aspettando la presentazione della nuova
collezione di piatti dello chef.
Nel corso dell’esperienza di degustazione, permane poi l’elemento
dell’attesa euforica del piatto successivo nel dispiegamento sintagmatico del
lungo ma rapido menù degustazione. In quest’accezione, l’attesa viene
presumibilmente vissuta positivamente dal destinatario, in quanto l’estensione
temporale permette di intensificare ed approfondire l’esperienza estetica,
garantendo quella che Greimas definisce la “coalescenza delle sensazioni”
(Greimas, 1987, p.54 della trad. it.). Il sincretismo sensoriale attivato da ogni
86 Sulla dicotomia /vita/ vs /morte/ in rapporto alla manipolazione culinaria Miguel
Sánchez Romera ha un punto di vista interessante. Secondo la sua teoria, l’intervento sugli ingredienti deve avvenire secondo due modalità: i prodotti morti vanno fatti rivivere (ad esempio, il piccione va cotto al sangue per essere riportati in vita), quelli che arrivano vivi in cucina (come gli scampi) vanno uccisi nel modo giusto.
piatto si intreccia con la successione temporale dei vari sensi coinvolti nella
degustazione, nonché si ripete con il susseguirsi dei piatti. Può essere
interessante notare che alcuni chef hanno escogitato un nuovo metodo
aggiuntivo inteso a moltiplicare lo stesso effetto: ad esempio, negli “otto
cucchiai d’antipasto” ideati da Moreno Cedroni, la pietanza è composta da otto
parti fisicamente distinguibili che vanno assaggiate secondo un ordine preciso,
sulla base di una progressiva intensificazione del sapore. Questo modello di
piatto, da un lato concentra nel piatto individuale la dimensione processuale
del più ampio svolgersi del menù, dall’altro, nella prospettiva del pasto
completo, andando a definire un livello di microstruttura magnifica la
componente tensiva dell’esperienza di degustazione.
2.2. L’approccio alla stagionalità.
Al diverso approccio degli chef nei confronti della dimensione naturale ed
intrinsecamente corruttibile di alimenti e processi culinari, possiamo
ricondurre anche il mutare nella storia dell’attitudine verso gli ingredienti. Nel
processo di selezione dei prodotti, è una novità dell’ultimo trentennio la
valorizzazione all’interno dell’alta ristorazione del prodotto rigorosamente
/stagionale/.
Come sottolinea Montanari (1993), occorre sfatare il radicato mito
dell’immaginario contemporaneo secondo il quale si ha nei tempi andati un
rapporto armonico tra uomo e natura. Sebbene per necessità il primo debba
sottostare quasi sempre ai ritmi, ciò non è vissuto in un atteggiamento di
accettazione compiacente. Soprattutto negli ambienti poveri, si desidera
primariamente conservare, ovvero “sconfiggere le stagioni”, in modo da
“sottrarsi dall’incertezza e all’imprevedibilità della natura” (Montanari, 1993,
p.201). I ricchi hanno l’opportunità di fornirsi di cibi freschi e deperibili, ma
non per questo non desiderano superare la stagionalità e con essa la
dipendenza della natura. Le tecniche di conservazione sono anche da loro
utilizzate, solo che si fanno più costose.
A differenza dell’atteggiamento che domina nell’alta ristorazione attuale,
agli esordi c’è nell’attività culinaria meno deferenza verso le qualità
organolettiche dei prodotti: questi vengono manipolati e trasfigurati nella
costruzione di allestimenti scenografici, nonché, nella dimensione meno
decorativa, sono seppelliti sotto salse coprenti e sottoposti a lunghe e sfibranti
cotture. Queste diverse modalità di intervento culinario hanno anche degli
obiettivi funzionali: permettono di conservare meglio i cibi con le molteplici
cotture, di mascherare l’eventuale stato non perfettamente fresco con le ricche
salse, di trasformare ed elevare la natura “impura” trasformandola
nell’apparire in opera d’arte.
- +
Natura limitativa
stagionalità e territorio = vincoli
Cultura come arte trasfigurante
la natura
cucina che supera i limiti naturali
Abbastanza presto quest’approccio inizia a venire messo in questione,
prefigurando l’adozione di una nuovo sistema di valori gastronomici. Già con
Escoffier ad esempio, si sottolinea l’importanza di esaltare nella
manipolazione culinaria la qualità degli ingredienti, non uniformandoli con le
classiche salse onnipresenti mediante le quali “tutte le note della gamma dei
gusti vanno a confondersi in un’unica, insipida tonalità” (Escoffier, 1907, p.4
della trad. it). Nella cucina di Escoffier, la preparazione di ricche e complesse
salse è in ogni caso considerata la base della gourmandise.
Come ricorda Parasecoli (2001), è con il movimento della nouvelle cuisine
che i principi che ad inizio secolo sono solo abbozzati si impongono
definitivamente, contribuendo a diffondere una nuova assiologia di valori. Si
enfatizza così l’importanza di lavorare con ingredienti freschi e legati alla
stagionalità, da cucinare per tempi brevi in modo da preservare le proprietà
nutrizionali. Il contesto storico è un altro, è cambiato l’approccio dell’uomo
nei confronti della natura, perché diverse sono le problematiche da affrontare,
differenti i valori contro cui opporsi.
I prodotti superano senza difficoltà i confini territoriali e le stagioni, grazie
all’allargamento della diffusione dei sistemi meccanizzati di conservazione e
distribuzione alimentare. Come ricorda Montanari (1993, p.205), “i cibi
precotti industriali sono un perfezionamento delle tecniche collaudate da
millenni delle ‘cotture plurime’”. E’ al modello imperante dei prodotti in
scatola dal gusto omogeneizzante che il mondo della gastronomia si oppone,
unificando su questo tema le due antagoniste correnti in cui si divide, quella
che porta avanti una cucina innovativa e quella legata alla cucina tradizionale.
L’alta ristorazione pone enfasi all’importanza della selezione degli ingredienti,
che possono essere anche culturalmente (o simbolicamente) “umili” ma che
devono essere all’apice della loro qualità sulla base delle variabili condizioni
ambientali. I prodotti portati in auge, ovvero i vegetali e il pesce, devono
essere nel primo caso rigorosamente stagionali, nel secondo assolutamente
fresco e preferibilmente non di allevamento. La ricerca di ingredienti che
superino queste condizioni non è assolutamente facile: il prodotto fresco,
biologico e artigianale è infatti ai nostri tempi generalmente più raro e costoso
dell’equivalente surgelato e industriale. All’interno di un contesto dove la
possibilità di farne a meno è generalizzata, la dipendenza dalla natura è segno
di distinzione.
- +
Cultura industriale
prodotti atemporali, conservati
Natura ritrovata
prodotti stagionali, freschi
Nel mondo contemporaneo, l’approccio al cibo conservato e viceversa a
quello fresco cambia anche in relazione alla categoria semantica /vita/ vs
/morte/ o meno drasticamente a quella /sicuro/ vs /pericoloso/. Sulla base dei
suoi studi etnografici, Lévi Strauss riporta l’obbligo imposto in alcune società
indigene a individui considerati impuri87 di consumare esclusivamente cibi
conservati, quale forma di protezione della “purezza dell’ essere e delle cose
dall’impurità del soggetto” (Lévi Strauss, 1968, p.453 della trad. it.).
L’utilizzo di alimenti conservati è del resto largamente considerato strumento
di difesa dal /crudo/ e dalla corruzione delle cose nello stato /putrido/, ovvero
di tutela per la /vita/. Secondo l’antropologo, le stesse massaie americane sue
contemporanee preferiscono nutrire i loro figli con cibi in scatola non solo per
comodità ma anche perché li ritengono più /sicuri/. Nella società di oggi la
situazione è decisamente mutata. Il prodotto industriale è diventato un
“Oggetto Commestibile Non Identificato” (Fischler, 1990, p.168 della trad.
it.), di cui non si conosce l’origine e l’identità, ovvero un elemento
potenzialmente pericoloso, perché non permette di soddisfare la funzione di
identificazione alla base dell’atto alimentare. Il prodotto stagionale e
riconosciuto come “fresco” e “garantito” dall’occhio clinico dello chef o dal
87 Ragazze puberi.
fornitore di fiducia, oppure etichettato dal “sigillo del pubblico potere”88 (ivi,
p.170 della trad. it.), è perciò in questi tempi molto più sicuro.
2.3. L’enigma del pesce crudo.
Anche a proposito del trattamento di cottura a cui questi ingredienti sono
sottoposti è possibile fare alcune brevi riflessioni. Nel sistema culinario
elaborato dalla nouvelle cuisine e dai suoi sviluppi, nell’ambito della corrente
creativa della cucina, si prediligono per i prodotti ittici e i vegetali le cotture
brevi, violando nel primo caso il consolidato tabù del pesce crudo. Come
manifesta il successo dei susci di Moreno Cedroni e la moda dilagante dei
sushi, lo stile di tradizione giapponese di degustare il pesce non sottoposto a
cottura e accompagnato da bocconcini di riso sta entrando in uso anche da noi.
La valorizzazione di un prodotto /crudo/ o /poco cotto/ può sembrare
controversa prendendo in considerazione le teorie antropologiche elaborate da
Lévi-Strauss a proposito della dicotomia di /crudo/ e /cotto/, e le correlazioni
tracciate tra essa e le coppie /morte/ vs /vita/, /natura/ vs /cultura/. A mio
parere, è possibile invece ritrovare una spiegazione razionale al fenomeno.
Innanzitutto, occorre sottolineare che sia il sushi giapponese che la
controparte italianizzata89 non vanno intesi tracciando una corrispondenza fra
/crudo/ e /non elaborato/: il pesce viene infatti sottoposto a rigorose operazioni
di selezione, lavaggio, pulitura (deliscamento e sfilettamento) e taglio
finissimo. Nel caso del susci di Cedroni, le strisce sottili di pesce ottenute
vengono inoltre a seconda dei casi accompagnati da una vinaigrette, lasciati in
infusione in olii aromatizzati a freddo o a caldo, fatti marinare in olio e aceto,
sottoposti a salatura e affumicatura artigianale: si dovrebbe parlare quindi più
di un /quasi-crudo/ che di un /crudo/ assoluto. Ne risulta quindi un prodotto
decisamente “culturale”, piuttosto distante dal valore semantico di una
naturalità spontanea e intatta.
Relativamente all’asse /vita/ vs /morte/, il pesce crudo potrebbe
potenzialmente avvicinarsi al secondo polo in quanto se non assolutamente
88 Fischler (ivi) fa l’esempio del cibo decretato come kasher dalle autorità religiose, ma io
aggiungerei la dimensione più laica di sigle come DOC e DOGP, finalizzate a garantire sull’identità del prodotto e delle sue origini.
89 Come ricorda Paolo Marchi (Cedroni, 2001, p.3), il primo chef a proporre in Italia il sushi in chiave mediterranea mediterranea è Gualtiero Marchesi, all’inizio degli anni Novanta.
fresco si può annidare effettivamente su di esso un parassita90 molto
pericoloso. I maestri giapponesi del sushi studiano però molti anni per
padroneggiare una buona tecnica ed imparare a riconoscere il pesce
freschissimo, richiesto da questa complessa preparazione. Moreno Cedroni
inoltre, in ottemperanza alla legislazione europea in materia, provvede ad
ovviare al rischio del parassita abbattendo di temperatura fino a –20º C al
cuore, i pesci e i cefalopodi da lui utilizzati (Cedroni, 2001). Questo insieme di
precauzioni permette di allontanare da questo alimento /crudo/ o /quasi-crudo/
il valore semantico di /morte/ (o pericolo) da Lévi-Strauss (1968) associata
alla maggioranza dei prodotti alimentari non sottoposti a cottura.
Questo cibo /non-cotto/ può essere anzi interpretato nel contesto
contemporaneo quale oggetto molto più culturale di altri oggetti /cotti/:
richiede infatti maggiore attenzione delle fasi di selezione, lavaggio e pulitura,
nonché abilità tecnica e rigore nelle diverse fasi di realizzazione. Si potrebbe
anzi sostenere che parte del fascino del sushi sta nelle operazioni culinarie in
esse inscritte e di cui conserva traccia.
2.4 . Dieta e gastronomia.
All’intreccio fra la dimensione del piacere e quella della necessità, fra la
funzione nutrizionale e quella simbolica, dobbiamo ricondurre il rapporto
controverso fra dieta e gastronomia. Nel corso della storia diverso è
l’approccio verso queste due dimensioni, interpretate di volta in volta come
aspetti antagonistici e distanti oppure come assimilabili o quantomeno
compatibili.
I legami profondi che correlano (e allo stesso tempo oppongono) cucina e
dietetica sono facilmente individuabili: “entrambe contribuiscono a strutturare
i nostri usi e i nostri comportamenti alimentari. Ma gestiscono anche, insieme
o in modo antagonistico, il nostro rapporto con il cibo, il nostro modo di
pensare e, in certo qual modo, il mondo” (Fischler, 1990, p.178 della trad. it.).
Tutte e due condividono inoltre una dimensione normativa e una di
codificazione: così come i dettami dietetici del medico, i diversi sistemi
alimentari e le ideologie culinarie adottate stabiliscono e registrano quello che
si dovrebbe mangiare. L’utilizzo in molti idiomi del termine “ricetta” sia per
90 L’anisakis simplex, nematode intestinale dell’ordine degli ascaridi, presente in numerosi pesci di mare e resistente all’acidità. Ivi.
il contesto medico che per quello culinario rende ragione a questo proposito di
“una sorta di simmetria” originaria fra il ruolo del medico e quello del cuoco:
entrambi procedono per prescrizioni (ivi, p.183 della trad. it.).
La dimensione di antagonismo fra i due concetti è parimenti manifesta: la
cucina è associata per natura alla sfera del piacere, dissociata nel modo di
vedere contemporaneo alla sfera della salute, in base alla diffusa credenza in
un’incompatibilità radicale fra il buono e il sano. Il dominio delle pulsioni e
dei desideri a cui la gola apre, pare inoltre naturalmente restio a soggiacere ad
un regime di imposizioni e restrizioni.
Come ricorda Fischler, non sempre nella storia è concepito in senso
antagonistico il rapporto fra ciò che è appetitoso e ciò che è salutare.
Nell’antichità e fino al Seicento, l’alimentazione è considerata quale strumento
per preservare l’equilibrio del corpo, e della dimensione del piacere nei libri di
cucina91 c’è pudore a parlare, per motivi essenzialmente religiosi. “E’ come se
il discorso sull’alimento ancora non operasse una netta distinzione fra le nostre
categorie del dietetico e del culinario, come se il confine dovesse disegnarsi
molto più tardi” (ivi, p.182 della trad. it.).
cucina = dietetica
(norme culinarie) = (norme salutistiche)
E’ con l’avvento della grande cuisine che ha luogo il primo divorzio
annunciato fra dietetica e gastronomia. La codificazione, da parte di
professionisti della cucina, di un quanto mai articolato corpo di regole
culinarie crea infatti una sorta di conflitto di competenza fra cuoco e medico in
relazione alle materie alimentari. A partire da questo periodo, gli chef tendono
a imporre le proprie e indipendenti norme del buon gusto, contribuendo a
costruire le fondamenta di un’arte culinaria in cui le considerazioni salutistiche
sono lasciate al di fuori. Prima all’interno delle case nobiliari, poi, come si è
visto, nella sfera meno privatistica dei ristoranti, viene proclamata la “libertà
del ventre” (Aron, 1973, p.18 della trad. it.). In questa cucina dove si
rivaleggia per sfarzo e magnificenza, le portate sono sontuose e copiose, le
salse ricche e a profusione. Anche nei locali meno lussuosi, le abbondanti
91 Le ricette in essi raccolte non hanno una giustificazione d’ordine gustativo, bensì
dietetico, nel senso degli effetti che alimenti e tecniche di cottura sono supposti produrre sul corpo relativamente a temperamenti ed umori.
porzioni e il largo uso di condimenti sono espressione della nuova moda della
ghiottoneria.
arte culinaria vs dietetica
competenza del cuoco vs competenza del medico
E’ nel ventesimo secolo che il problema del dissidio fra gastronomia e
salute viene non solo messo in luce ma funge per la prima volta da movente
per l’istituzione di uno stile culinario diverso, che non gravi sull’ago della
bilancia.
Nel nostro paese, come si è visto, la critica all’opulenza gastronomica è
portata avanti nell’ambito del movimento futurista da Marinetti e Fillìa, i quali
con i loro proclami estremistici declamano la necessità di sublimare l’attività
culinaria in arte, disancorandola completamente dalla funzione nutritiva.
Secondo il loro manifesto, ci si può alimentare con le pillole di stato, e
trasformare l’arte culinaria in eventi di pura sollecitazione multisensoriale,
dove spesso i piatti non si assaggiano nemmeno. Come risulta evidente, la
guerra combattuta dai futuristi contro la cucina “passatista” e i suoi simboli
(come la pastasciutta) viene combattuta all’esterno del campo gastronomico,
poiché va a snaturare con la sua ideologia quello che è il nucleo base dell’arte
culinaria, ovvero il suo dialogo fra una dimensione culturale e una materiale,
fra una spirituale e una corporea92. Una cucina dove non si mangia per nulla
non può essere definita tale.
cucina futurista vs “cucina passatista”
corpo futurista – dinamico93 corpo pesante
E’ solo alla fine degli anni Sessanta, con il movimento della nouvelle
cuisine, che il problema del rapporto fra dieta e gastronomia viene risolto
all’interno del mondo culinario. Prendendo atto degli studi recentemente
conseguiti in ambito nutrizionale, nonché adeguandosi alle mutate esigenze
alimentari nella più sedentaria vita moderna, gli esponenti di questa corrente
92 E’ opportuno ricordare che le ricette proposte dai cuochi futuristi non soddisfano
neppure il corpo dal punto di vista di una sollecitazione sensoriale anche effimera del gusto: come si è visto nella parte storica, i piatti non rispettano il principio dell’armonia dei sapori. Anche per questi motivi, quindi, non si può dire che l’esperienza dei futuristi abbia operato in ambito gastronomico.
93 La cucina futurista è una sorta di dieta agli estremi, che non grava per nulla sul corpo.
alleggeriscono la cucina introducendo l’uso di alimenti ipocalorici e snellendo
salse e condimenti. Affiancando a quest’intervento d’ordine qualitativo quello
quantitativo di riduzione (e frequentemente miniaturizzazione) delle porzioni,
si decreta con questo movimento la fine del dissidio fra dieta e cucina. Il basso
apporto calorico dei piatti e dei menù della nouvelle cuisine riesce a coniugare
il piacere della tavola con il dominante modello corporeo della magrezza,
aprendo la strada ad un processo di decolpevolizzazione della gola.
Negli ultimi anni i rapporti fra il mondo culinario e la dimensione
salutistica sono di aperto dialogo, senza che comunque i valori della prima
vengano subordinati alla dimensione prescrittiva della seconda. L’arte
culinaria è lontana dai rigori dietetici estremi, radicandosi in un contesto dove
diversamente dagli anni Settanta pare dominare un modello dell’“essere in
forma” (Grandi, 1995, p.70) più che della magrezza. Il richiamo della gola
pare inoltre più che in passato essere giustificato. Non si verificano quasi mai
gli eccessi di quei ristoranti che, capita male la lezione, contribuiscono a gettar
discredito sulla nouvelle cuisine proponendo piatti dalle porzioni
microscopiche. Tutt’al più, si controbilanciano le quantità ridotte del piatto
singolo con la copiosità delle portate previste dai menù degustazione.
Da un altro punto di vista, però, l’armonizzazione fra la gastronomia e i
valori salutistici è molto maggiore attualmente che nei decenni passati. Grazie
anche al contributo degli strumenti tecnologici oggi disponibili, la cucina si è
notevolmente sgrassata e alleggerita. Nel mondo della cucina creativa, è
largamente sentita la necessità di ricercare sempre nuove soluzioni che
permettano di conciliare il dominio del gusto con la dimensione del sano.
Sono esempio di questa esigenza la maggioranza degli oggetti esaminati in
questa trattazione. Il nuovo uso attribuito al sifone da Adrià permette di
realizzare aeree spume, molto più leggere delle tradizionali mousse. Il micrì di
Sánchez Romera risolve il problema della testura non apportando nessun
contributo calorico agli ingredienti a cui si combina. I due piatti di cuscus sono
inoltre ipocalorici a differenza della pietanza nazionale maghrebina a cui si
possono richiamare. I susci di Cedroni rimandano poi all’influenza di una
cucina leggera come quella nipponica sulla nostra. Tutti questi esempi sono
prova delle opportunità che una ricerca tecnico-culinaria può aprire al
raggiungimento di risultati gastronomici in cui il valore gustativo del piatto
non è assolutamente diminuito, bensì in certi casi reso più intenso rispetto ad
alternative soluzioni ipercaloriche.
2.5. Tra Neofobia e Neofilia.
Un altro tema interessante da discutere è quello del rapporto ambiguo
dell’uomo con la novità e viceversa con la tradizione culinaria. Come
accennato, l’essere umano vive per propria natura il paradosso dell’onnivoro,
il quale consiste “nel conflitto, nell’oscillazione fra due poli, quello della
neofobia (prudenza, paura dell’ignoto, resistenza all’innovazione) e quello
della neofilia (tendenza all’esplorazione, bisogno del cambiamento, della
novità, della varietà)” (Fischler, 1990, p.47 della trad. it.).
Da sempre la cucina è convissuta con questa duplice identità, ovvero fra il
vecchio e il nuovo, il conosciuto e lo sconosciuto. Anzi, si potrebbe sostenere
che essa permette di conciliare e attenuare il conflitto tra questi caratteri
contraddittori. Un’osservazione di Fischler (ivi, p.59 della trad. it.) a questo
proposito è particolarmente significativa:
Cucinare, condire un alimento, equivale da un lato ad adattare la novità o l’ignoto, letteralmente, ‘alla salsa’ o ‘alla maniera’ della tradizione. Ma vuol dire anche, dall’altro lato e al tempo stesso, introdurre qualcosa di familiare nell’inedito, un po’ di varietà nel monotono”.
Nella storia della cucina, il gioco si è svolto a grandi linee secondo questi
termini. E’ grazie all’introduzione di novità anche piccole, talvolta originate
dalla necessità di rimediare ad una mancanza, a volte dall’incontro con
l’ingrediente o con tecniche provenienti da lontano, a volte perfino da un
provvidenziale errore, che l’arte culinaria ha potuto svilupparsi ed arricchirsi.
A lungo però, nella storia dell’haute cuisine, in particolare dall’età di
Escoffier fino agli ultimi quarant’anni, l’introduzione dell’innovazione in
cucina viene decisamente ostacolata, concependo il ruolo di cuoco come
interprete del blocco codificato di regole e ricette dell’Età d’Oro dell’arte
culinaria. Come descritto, è il movimento della nouvelle cuisine ad attribuire
allo chef il compito di sperimentare il nuovo in cucina, liberandolo dai vincoli
della tradizione consolidata.
Assieme al ruolo dello chef, cambia anche il concept dell’esercizio
ristorativo che si poggia sulla nuova ideologia culinaria. Il ristorante non è più
il luogo dove degustare i piatti codificati come classici dell’alta cucina
internazionale, ovvero oggetti privi di precise coordinate spazio-temporali,
etichettabili anche come acontestuali94 e transcontestuali (Semprini, 2001,
p.53). Al ristorante che propone la cucina creativa, ci si reca per assaggiare
pietanze che non è possibile trovare altrove, ovvero oggetti dove le istanze di
enunciazione e di fruizione sono entrambe contestualizzabili localmente e
irriproducibili al di fuori.
Chi ricerca il familiare, o il piacere che può derivare dalla rievocazione di
passate esperienze proprie o altrui, così come registrate nella memoria
consapevole personale o nell’immaginario collettivo, è preferibile che si
rivolga agli esercizi che propongono la cucina classica internazionale o le
cucine tradizionali regionali. Nei locali che portano avanti una ricerca della
creatività, si allontana la paura dell’ignoto, valorizzando la curiosità verso il
nuovo. Questi sono luoghi dove la neofilia è istituzionalizzata, ossia dove il
cliente ci va per soddisfare il proprio desiderio dell’inedito o dell’inaspettato,
emergenti in primo luogo dall’oggetto culinario o dalle circostanze di
fruizione.
Come si è detto, il piatto d’autore non è destinato ad un consumatore
distratto o “sonnambulo”, per adottare il termine di Floch (1997), bensì ad un
soggetto che fruisca dell’oggetto culinario e dell’ambiente circostante ponendo
gli organi sensoriali all’ascolto delle azioni di gusto delle sue molteplici
componenti, delle loro qualità olfattive e tattile, delle sonorità e della
dimensione visiva del piatto e del contesto ristorativo. Il degustatore modello
del piatto d’autore vive con esso un’esperienza estetico-sensoriale che emerge
quale introduzione di una discontinuità dal quotidiano, e di differenziato dal
già esperito.
Può essere interessante notare che visitando alcuni dei ristoranti creativi
portati alla celebrità, il cliente non acquista semplicemente uno o più piatti in
essi proposti, bensì ricerca e stabilisce un contatto anche con la filosofia del
suo autore. La frequentazione di questa categoria di istituzioni all’avanguardia
nell’arte culinaria è interpretabile nei termini di appartenenza ad una
comunità95 di gusto peculiare, individuabile dall’apertura all’imprevisto in
94 O meglio, privi di una specificità contestuale, nell’ambito del contesto ampio di
ristorante di alta cucina. 95 In certi casi, la comunità acquista anche un’identità pubblica. Si può rilevare ad esempio
la costituzione di alcuni fan club dedicati a Ferran Adrià, organizzati nella forma di comunità virtuali e spontaneamente sorti in differenti nazioni.
cucina. La relazione che in questo senso si attiva fra il cliente e l’esercizio
ristorativo può essere ricondotta a quella che Landowski (1989, p.143 della
trad. it) definisce una “logica del contratto”. Questa tipologia di avventore, che
prende spesso la forma di habitué del locale, concede al ristoratore un’alta
fiducia nelle sue performance, mostrando con la frequentazione un’adesione
ad un medesimo sistema di valori estetico-gustativi.
Andando oltre, si può sostenere che il cliente che va alla ricerca di una
cucina d’avanguardia si aspetti con la sua visita di vedere il nuovo all’opera, di
avere prova concreta e “commestibile” della creatività. Questo fenomeno è
assai peculiare, considerata la natura della materia in cui l’ingegno inventivo
trova manifestazione. Ci si attende quindi che un oggetto consueto come
quello alimentare, ed un’attività onnipresente nella vita quotidiana come
quella culinaria, vengano sublimati in un’esperienza estetico-gustativa che
emerga dalla monotonia dell’ordinario e acquisti un carattere di eccezionalità.
Sulla base della concezione greimasiana (Greimas, 1987), perché la frattura
della dimensione della quotidianità possa aver luogo, è però necessario che
nell’incontro del soggetto con l’oggetto si superino tutte le aspettative, così
che il momento dell’esthesis giunga come una sensazione inattesa. Con questi
presupposti, l’atto culinario, culturalmente svalutato in quanto destinato ad una
pratica di consumo, viene risemantizzato ricevendo una valorizzazione in cui è
iscritta la contrazione della sua duratività in una “puntualità imprevedibile”.
Come i dipinti di sabbia dell’arte sacra buddista96, dove un lavoro che può
richiedere intere settimane viene infine spazzato via per simboleggiare la
caducità delle cose, nell’arte culinaria si costruiscono opere in cui il fugace e il
transitorio trovano consacrazione.
96 Elementi della tradizione artistica del buddismo tantrico, queste opere fugaci costituite
da milioni di grani colorati di sabbia disposti in forme astratte o figurative, sono rappresentazione del mandala, ovvero cosmogonie dell’universo.
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