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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in Scienze della Comunicazione LA CUCINA D’AUTORE. UN’ANALISI SOCIO-SEMIOTICA DELLE CUCINE DI: LA MADONNINA DEL PESCATORE, L’ESGUARD, EL BULLI. Tesi di laurea in Semiotica del Testo Relatore: Chiar.ma Prof.ssa MARIA PIA POZZATO Presentata da: CHIARA BUOSI Sessione II Anno Accademico 2001-2002

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in Scienze della Comunicazione

LA CUCINA D’AUTORE.

UN’ANALISI SOCIO-SEMIOTICA DELLE CUCINE DI:

LA MADONNINA DEL PESCATORE, L’ESGUARD,

EL BULLI.

Tesi di laurea in Semiotica del Testo

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa MARIA PIA POZZATO

Presentata da:

CHIARA BUOSI

Sessione II

Anno Accademico 2001-2002

INDICE.

I. GLI APPROCCI ALL’OGGETTO CULINARIO: QUESTIONI INTRODUTTIVE.

1

1. La gourmandise. 1

1.1. L’approccio semio-narrativo al fare-culinario. 2

1.2. L’approccio strutturale antropologico. Lévi Strauss. 3

1.3. La semiotica dell’oggetto. Una prospettiva socio-semiotica. 4

2. La gastronomia. 6

2.1. Lo status dell’oggetto culinario e i suoi vincoli materiali. 6

2.2. La dimensione estetica e la sensorialità. 8

2.3. L’esthesis e il ruolo dei sensi nella degustazione in Dell’Imperfezione.

11

II. EXCURSUS NELLA STORIA DELL’ALTA RISTORAZIONE.

17

1. La nascita dei primi ristoranti: l’inizio dell’egemonia culinaria francese.

17

2. Il primo paradigma culinario. 21

2.1. Carême e l’architettura in cucina. 21

2.2. Dubois e l’introduzione del servizio alla russa. 26

3. Il secondo paradigma. L’Età di Escoffier. 29

4. La parentesi italiana della cucina futurista. 34

5. La nouvelle cuisine. 38

6. Gli ultimi anni. La cucina creativa e d’autore.

50

III. I RISTORANTI IN ESAME: INTRODUZIONE AI CASI.

54

1. La scelta dei ristoranti. 54

2. Il contesto ristorativo italiano e spagnolo. 54

2.1. Le ragioni di un ritardo storico. 55

2.2. Gli ultimi cinquant’anni: le ragioni di una rivalsa. 59

2.3. Tra tradizione e innovazione. 61

2.4. L’avanguardia catalana. 63

3. I tre ristoranti in esame e i loro chef. 65

3.1. La Madonnina del Pescatore. 65

3.2. L’Esguard. 66

3.3. El Bulli.

67

IV. MORENO CEDRONI.

68

1. Analisi di un piatto: la costoletta di rombo. 68

1.1. Il fare-culinario. Analisi semio-narrativa della costruzione del piatto.

69

1.1.1. Il dispositivo strategico. 71

1.1.2. (PN2) La cottura delle erbe di campo strascinate. 71

1.1.3. (PN3) La cottura della trippa di coda di rospo. 73

1.1.4. (PN1) La preparazione della costoletta di rombo. 76

1.1.5. Le cotture. 82

1.2. Assaporando parole. Giochi linguistici nel nome del piatto. 84

1.3. L’esthesis culinaria. Il momento della degustazione. 89

1.4. Analisi del piatto. 93

1.4.1. Strutture dei sapori e universi culinari. 93

1.4.2. Unità ed attori del gusto. 97

1.4.3. I sapori a contatto. 99

1.4.4. Bello da mangiare: la presentazione del piatto. 102

1.5. Lo chef-bricoleur e la manipolazione dei sapori.

103

V. MIGUEL SÁNCHEZ ROMERA.

106

1. 1. Lo chef scienziato e l’invenzione del micrì. 106

2. Analisi di un piatto: le venticinque verdure di stagione con cuscus.

111

2.1. Il programma generale di costruzione dell’oggetto. 112

2.2. Una lettura semiotica del processo creativo. 114

2.3. La genesi dell’oggetto culinario. 116

2.3.1. Il processo induttivo. 116

2.3.2. Il processo creativo in prospettiva greimasiana. 119

2.4. La costruzione del piatto. 120

2.4.1. Il dispositivo strategico 121

2.4.2. La scelta del cuscus. Un alimento dalla storia millenaria.

121

2.4.3. La lavorazione del cuscus.

123

2.4.4. La selezione e la cottura delle verdure. 129

2.4.5. La preparazione delle spezie. 131

2.4.6. La preparazione della salsa di pomodoro. 131

2.5. La fase del montaggio. 132

2.6. Il piatto finito. Un’analisi dell’oggetto di gusto nelle sue dimensioni sensoriali.

134

2.6.1. L’aspetto visivo. 134

2.6.2. La dimensione mitologica e il contrappunto di sapori e consistenze.

135

2.7. Il cuscus di Sánchez Romera e quello di Adrià a confronto. 140

3. I sens i, il cibo e il cervello. 144

3.1. Il ruolo del cervello. 144

3.2. Il ruolo dei sensi. 146

3.2.1. Il senso della vista. 146

3.2.2. Il senso dell’olfatto. 148

3.2.3. Il senso del gusto. 149

3.2.4. Il senso del tatto. 150

3.2.5. Il senso dell’udito. 151

VI. FERRAN ADRIÀ.

152

1. La strada per El Bulli e i suoi spazi. 152

2. El Bulli Taller. Fra laboratorio e atelier. 159

3. Il sifone e le spume. 163

3.1. Fisiologia delle spume. 165

3.2. Per una semiotica dell’oggetto: analisi del sifone. 167

4. Una giornata ad El Bulli. La manipolazione dei saperi e dei sapori.

175

4.1. L’organizzazione del lavoro nel contesto ristorativo. 175

4.2. La manipolazione. 179

4.3. La sanzione. 182

4.4. La dimensione temporale. 184

4.4.1. La scansione temporale. 185

4.4.2. Prima macro-sequenza. La fase preparatoria. 185

4.4.3. Seconda macro-sequenza. La fase del montaggio.

190

VII. PROSPETTIVE DI RICERCA. 194

1. I principi e le costanti dell’attività culinaria. 195

2. La variabilità storica delle dicotomie culinarie. 196

2.1. La sublimazione artistica e l’approccio alla dimensione corruttibile del cibo.

196

2.2. L’approccio alla stagionalità. 200

2.3. L’enigma del pesce crudo. 203

2.4. Dieta e gastronomia. 205

2.5. Tra neofobia e neofilia.

209

BIBLIOGRAFIA 212

Ringraziamenti.

Vorrei ringraziare innanzitutto coloro senza i quali non avrei potuto

realizzare questo lavoro, ovvero gli chef e il personale dei tre ristoranti oggetto

di osservazione sul campo.

Ringrazio Moreno Cedroni per l’ospitalità alla Madonnina del Pescatore,

per l’entusiasmo che ha dimostrato per il mio lavoro e per la disponibilità

continuativa con cui ha risposto alle mie domande. Un grazie sentito va a

Michel Sánchez Romera per l’estrema gentilezza con cui mi ha accolto

all’Esguard, per l’interesse espresso e i preziosi consigli, per aver discusso

amabilmente con me le sue teorie. Ringrazio molto Ferran Adrià e la sua

équipe, nelle persone di Albert Raurich e Oriol Castro per avermi ospitato e

guidato all’interno delle cucine del ristorante; Silvia Fernandez per la visita a

El Taller e l’accesso alla biblioteca gastronomica.

Inoltre, vorrei ringraziare per la gentile collaborazione Fabio Parasecoli,

Paolo Marchi e Jeffrey Kallen.

I.

GLI APPROCCI ALL’OGGETTO CULINARIO:

QUESTIONI INTRODUTTIVE.

In questa tesi intendo esplorare attraverso una prospettiva socio-semiotica

una particolare area del mondo culinario, quella dell’alta cucina d’autore dei

nostri giorni, focalizzandomi su tre suoi autorevoli esponenti: Moreno Cedroni

chef della Madonnina del Pescatore di Marzocca di Senigallia, Miguel

Sánchez Romera dell’Esguard di Sant Andreu de Llavaneres e Ferran Adrià di

El Bulli, ristorante di Roses. Questi tre casi, oggetti di studio mediante

osservazione etnografica all’interno delle cucine dei rispettivi ristoranti, vanno

intesi non solo nella loro singola specificità, bensì anche quali exempla

funzionali ad un tentativo di attribuzione di un ordine di significazione a

processi, strumenti, spazi e prodotti culinari.

Il mondo della cucina viene qui letto e interpretato in alcune sue plurime

dimensioni, che comprendono: l’ambito della produzione, manipolazione e

scambio di oggetti alimentari, la configurazione strutturale dei prodotti

dell’elaborazione culinaria, le dinamiche intrattenute fra il soggetto

destinatario e l’oggetto gastronomico nel corso del processo di degustazione.

1. La gourmandise.

Il primo ambito è quello che designa la gourmandise, ovvero l’anima

pratica della cucina, intesa come un processo di selezione, trasformazione e

combinazione di sostanze alimentari in oggetti culturali destinati ad essere

mangiati. Ci ricongiungiamo quindi in primo luogo alla semiotica narrativa e

in particolare all’area della semiotica dell’azione, che esplora la dimensione

della performanza umana, intesa in questo caso quale attività di costruzione di

un oggetto di valore. Invadiamo quindi il campo della semiotica dell’oggetto,

quando andiamo a considerare gli strumenti utilizzati per tali processi di

trasformazione nel rapporto di mediazione fra soggetto e oggetto del desiderio,

nonché nelle relazioni paradigmatiche fra gli oggetti selezionabili all’interno

del repertorio culinario e quelle sintagmatiche fra gli elementi combinati nel

processo di manipolazione.

1.2. L’approccio semio-narrativo al fare-culinario.

In questa tesi, mi focalizzerò sul processo di costruzione dell’oggetto

culinario in due sezioni, dedicate all’analisi della preparazione della

“costoletta di rombo, con erbe strascicate e trippa di coda di rospo” e delle

“venticinque verdure di stagione con cuscus”, rispettivamente di Cedroni e di

Sánchez Romera. Un piatto di Adrià verrà descritto anche in questi termini in

un’ottica comparativa con la pietanza elaborata dello chef dell’Esguard, in

quanto presenta numerosi aspetti in comune. Si tratta infatti di un “cuscus di

cavolfiore in salsa solida di aromatici”.

Mi avvalgo per questo ambito della teoria semio-narrativa greimasiana,

secondo la quale la dimensione del fare-culinario è inquadrata nei termini di

una serie di operazioni organizzabili gerarchicamente finalizzate alla

costruzione di un oggetto di valore. L’identificazione delle diverse fasi

processuali e l’individuazione della struttura attanziale alla loro base ci

permetterà di sviscerare più a fondo le forme della manipolazione culinaria. Ci

consentirà infatti di esplorare il rapporto fra natura ed intervento culturale, fra

ingredienti “grezzi” previncolati non dotati propriamente di un senso

gastronomico1 e i prodotti culinari, provvisti di un significato inteso quale

valorizzazione estetico-gustativa.

Sempre avvalendomi del costrutto teorico del Percorso Generativo

greimasiano, mi soffermo inoltre su alcune componenti sintattiche a livello

delle strutture discorsive, relative all’aspettualizzazione attoriale, temporale e

spaziale. Questi concetti mi risultano utili nell’analisi dello svolgersi

dell’attività culinaria, non solo nella preparazione di un unico piatto ma anche

nell’organizzazione più ampia dei processi culinari nel corso di una giornata

lavorativa.

1.2. L’approccio strutturale antropologico. Lévi-Strauss. Un contributo molto rilevante all’indagine dei comportamenti alimentari e

delle tecniche culinarie ci viene dall’antropologia, grazie soprattutto agli studi

1 Cfr. Eric Landowski (1989, p.239 della trad. it) che inquadra i processi culinari

nell’ambito della razionalità strategica, riallacciandosi al concetto espresso in Greimas, Courtés (1979) sulle strategie partecipative finalizzate alla costruzione di attanti collettivi sintagmatici.

mitologici di Claude Lévi-Strauss, i quali hanno influenzato ampiamente la

semiotica greimasiana, portando l’attenzione sul livello semantico.

Secondo la prospettiva strutturalista di Lévi-Strauss, l’esame dei sistemi

alimentari e culinari di una società ci permette non solo di esplorarla

superficialmente bensì di penetrarla in profondità, perché nelle sue scelte e

classificazioni sono inscritti i valori alla sua base. In particolare, la forma del

mito di origine alimentare viene sfruttata dalle società tradizionali per

organizzare e codificare i propri significati culturali secondo una “logica del

concreto”, ovvero selezionando i “significanti” dal mondo della natura.

Si può così sperare di scoprire, per ogni caso particolare, come la cucina di una società costituisca un linguaggio nel quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni. (Lévi-Strauss, 1968, p.445 della trad. it).

Mediante il celebre triangolo del crudo e del cotto elaborato nelle

Mitologiche, Lévi-Strauss classifica le diverse tecniche di trasformazione

culinaria di elementi della Natura, sottoposti ad operazioni di selezione e

categorizzazione, in prodotti adatti ad essere ingeriti. I metodi di cottura

conosciuti già dalle società primitive, come l’arrostitura, l’affumicatura e la

bollitura, vengono posizionati ai diversi vertici corrispondenti ai diversi stati

naturali del cibo, ovvero rispettivamente: il crudo, il cotto e il putrido. Ad

ognuna delle tecniche si attribuisce inoltre un valore di prossimità ad uno dei

due poli del binomio di Natura e Cultura, sulla base del grado di mediazione

che impone nei mezzi l’operazione di cottura, nonché in relazione allo stato

dei cibi che ne è risultato.

Nelle analisi dei piatti, farò uso del triangolo culinario, quando necessario

in una versione a forma di tetraedro che comprende i metodi di cottura più

moderni attualmente in uso, nonché adattandolo alla natura dei particolari testi

gustativi in esame, caratterizzati da una composizione di tecniche diverse più

che da una unica. Sulla base della rilettura greimasiana dell’opera di Lévi-

Strauss, farò inoltre riferimento alle operazioni sintattiche implicate nelle

trasformazione culinarie, nella forma di affermazioni e negazioni dei valori

che i processi culinari realizzano in un quadrato semiotico, pensato per

articolare logicamente la categoria del crudo e del cotto.

Un concetto di Lévi-Strauss particolarmente interessante per l’analisi è

quello di bricolage, adoperato dall’antropologo per descrivere un particolare

approccio umano alla materia, definibile quale attività di manipolazione di

forme culturali depositate per costruire qualcosa di nuovo, in cui è iscritta la

personalità del performatore. Questo modo di agire, così come la figura del

bricoleur quale suo agente, è esportato dall’ambito antropologico a quello

semiotico da Jean Marie Floch, che ne fa largo uso nella sua opera Identità

visive (Floch, 1995c). In questo libro, la prassi del bricoleur e quella

dell’ingegnere, ad esso opposto in quanto deputato ad un fare-specialistico che

si avvale di strumenti appropriati, vengono chiamati in causa fra l’altro

nell’analisi del coltello Opinel (Floch, 1995b), ma anche in ambito culinario

per definire l’approccio dello chef Michel Bras alle materie alimentari.

I concetti di bricoleur e scienziato/ingegnere mi risultano utili nell’esame

del modo di operare dei cuochi in esame, per alcuni versi assimilabili e per

altri discernibili. L’approccio individuale agli ingredienti culinari nella

costruzione dei piatti, nonché l’adozione di peculiari strumenti e tecniche

culinarie, forniscono l’occasione per definire il fare culinario di ognuno degli

chef con differenti sfumature.

1.3. La semiotica dell’oggetto. Una prospettiva

socio-semiotica.

L’esplorazione del mondo culinario attraverso una prospettiva semiotica va

inscritto nell’ambito degli studi sull’oggettività2. Le operazioni alla base della

gourmandise comprendono infatti attività di produzione, elaborazione e

scambio di oggetti di natura alimentare, a cui un soggetto è desideroso di

congiungersi.

Nelle pratiche culinarie risultano protagoniste due diverse categorie di

oggetti: da un lato i piatti che ci si propone di realizzare, dall’altro gli

strumenti culinari che rendono possibili le preparazioni. Nel primo senso,

l’attività di manipolazione culinaria può essere letta quale operazione che,

mediante l’elaborazione e la combinazione di prodotti di partenza, consente di

dare forma ad un oggetto, rendendolo definibile quanto tale. La seconda

tipologia comprende invece le entità poste alla mediazione fra il soggetto

2 Il termine oggetto va inteso nella sua funzione attanziale, ovvero per la relazione che con

essa intrattiene un soggetto. La natura materiale è proprietà frequente ma non necessaria per lo status di oggetto. Come scrive Felice Cimatti (2001, p.88), “una cosa, ossia un’entità materiale, può diventare un oggetto, ma […] non tutti gli oggetti sono anche cose”.

umano e l’oggetto culinario da produrre. Sono le protagoniste della

trasformazione culinaria, e in quanto tali interpretabili anche quali soggetti

delegati per la performanza da realizzare.

Il problema della genesi dell’oggetto-piatto verrà discusso, come accennato,

nelle sezioni relative all’analisi del momento di preparazione e montaggio

delle pietanze in esame. A questo proposito, ci si può chiedere come fa

Gianfranco Marrone se sia più opportuno interpretare un piatto quale il

“risultante della composizione e della trasformazione di una serie di oggetti o

di un oggetto singolo” (Marrone, 2002a, p.34). Alla luce di questa questione,

si potrebbero chiamare in causa le problematiche dell’interoggettività, ovvero

delle relazioni (ad es. di associazione, compatibilità) nel primo caso fra oggetti

diversi, nel secondo fra parti di uno stesso oggetto.

Uno strumento culinario che verrà analizzato nel dettaglio è invece il

sifone, reso da Ferran Adrià celebre per la ricodificazione di molteplici ed

innovativi usi. Quest’oggetto sarà preso in esame sia nelle sue proprietà

testuali immanenti, con riferimento al modello greimasiano, sia nella sua

dimensione contestuale. Secondo una lettura dominante della branca della

socio-semiotica, quest’ultima viene integrata nell’oggetto di studio

interpretandola come testo, ovvero testualizzandola3. Si considereranno quindi

anche le relazioni dell’oggetto con altri oggetti in absentia o praesentia, sulla

base di un’analisi interoggettiva. Inoltre, non verrà trascurata la dimensione

delle pratiche d’uso, accolta anch’essa nell’ambito della prospettiva socio-

semiotica su ispirazione dell’analisi intersoggettiva, di cui etnometodologi

come Garfinkel o sociologi delle tecniche come Latour vengono considerati

padri (Semprini, 2001)4.

2. La gastronomia.

La seconda dimensione dell’arte culinaria è quella gastronomica, ovvero

l’ambito di discussione ragionata sulle pietanze così come si predispongono al

momento della degustazione. Si considerano da questo punto di vista da un

lato le qualità sensoriali e materiche dei cibi risultanti dalle operazioni

culinarie nella prospettiva di una “scienza del concreto” (Lévi-Strauss, 1962),

3 Cfr. su questa prospettiva Landowski (1989) e Floch (1990). 4 Cfr. anche Semprini (1995) per un approfondimento sulle problematiche dell’oggettività.

dall’altro negli effetti di senso che le pietanze culinarie producono nei

commensali a cui sono destinate.

2.1 . Lo status dell’oggetto culinario e i suoi vincoli materiali.

Nello studio di questo livello, viene alla luce la natura materiale degli

oggetti alimentari, così come la natura di corpo fra corpi dell’essere umano.

Come risulta manifesto, quest’ultimo con il cibo intrattiene da un lato un

rapporto di necessità fisiologica, avendone bisogno per il proprio nutrimento,

dall’altro di soddisfazione emotiva ed estetica, perché l’incontro con

l’alimento desiderato è foriero di una sensazione di piacere. Quest’ambiguità

di fondo è alle radici dello status peculiare da attribuire alle pietanze culinarie,

al centro di questa trattazione. Come verrà messo in luce più oltre anche per

mezzo di un excursus storico, l’istituzione dell’alta cucina si sviluppa in una

società dell’abbondanza, dove non c’è la preoccupazione del sostentamento, e

dove si può scegliere di andare al ristorante perché esso è luogo di

un’esperienza estetica5.

Come risulta anche dall’osservazione della preparazione e dell’allestimento

di alcuni piatti, i prodotti dell’arte culinaria ai suoi vertici tenderebbero ad

approssimarsi per padronanza tecnica e di stilistica ad opere d’arte. La cucina

non può però ergersi a livello delle “belle arti” perché la sublimazione dalla

dimensione corporea dell’atto di degustazione a cui è destinata non può essere

portata a pieno grado a realizzazione. La creatività culinaria possiede dei

vincoli materiali molto netti: gli ingredienti su cui si esercita la libertà creativa

dello chef devono innanzitutto essere commestibili, e il prodotto che ne risulta

deve essere adatto ad essere ingerito e digerito dal soggetto umano. Possiede

inoltre delle costrizioni motivate dal contesto delle sue pratiche d’uso: come

sottolinea Ferran Adrià, “la cucina è fatta per essere servita in uno stabilimento

che si chiama ristorante, il quale deve funzionare come esercizio commerciale

indipendentemente dallo spirito artistico più o meno alto del cuoco” (Adrià,

1997, p.14, trad. mia). Come si approfondirà in una sezione dedicata

all’organizzazione di El Bulli, le opere culinarie devono essere

necessariamente riproducibili e soddisfare alle costrizioni temporali,

economiche o organizzative in genere vigenti all’interno dell’ambiente

5 Come specifica Floch, “quella di un ridispiegamento delle qualità sensibili del mondo”. Floch (1995b, p.161 della trad. it. in Marrone, 1995).

ristorativo. In questo senso, secondo quanto sostiene Adrià, nella cucina si

combina l’arte con l’artigianalità.

Due ulteriori importanti vincoli materiale propri degli oggetti culinari sono

la deperibilità fisica e la loro provvisorietà della loro destinazione, entrambe

proprietà legate alla dimensione temporale. In primo luogo, i cibi hanno una

durata che determina la loro commestibilità e all’interno di questi termini un

intervallo di gradimento ottimale della degustazione, dipendente

dall’intervallo che separa la preparazione culinaria dall’assaggio.

Secondariamente, non bisogna dimenticare che le pietanze sono fatte per

essere consumate e sono quindi per natura entità periture, non finalizzate a

durare come le opere d’arte nella più stretta accezione.

Come si vedrà nella parte storica, non sono mancati nei secoli ripetuti

tentativi da parte di professionisti o meno dell’arte culinaria di prescindere dai

suoi vincoli materiali, giungendo finanche a combatterli con la convinzione di

poter portare la cucina all’eccellenza sublimando il suo valore d’uso, ovvero

parificandola alle arti maggiori. I risultati di questi interventi sono stati però

gastronomicamente scadenti, dimostrando la necessità per la cucina di operare

entro i suoi confini, valorizzando quelle che paiono essere sue costrizioni quali

elementi di differenziazione e distinzione dagli altri campi dell’agire umano.

La violazione della commestibilità e della transitorietà del valore gustativo

dei cibi sono aspetti non trascurabili, poiché il loro rispetto è un principio

fondante dell’alimentazione in genere. Come sottolinea una lunga tradizione di

studi di ambito sociologico ed antropologico, i sistemi alimentari si fondano

sulla classificazione del cibo buono da quello cattivo da mangiare6, il

commestibile dal nocivo, il fresco dal putrido. Per un approfondimento di

questa importante tematica, così come dell’intreccio fra la desiderabilità delle

pietanze e la dimensione temporale di produzione e degustazione, rimando

però alla sezione finale di questo lavoro, dove verrà proposta una lettura di

questi fenomeni in una prospettiva socio-semiotica.

2.2 . La dimensione estetica e la sensorialità.

6 Secondo il filone del “materialismo culturale”, di cui è esponente Marvin Harris (1985), la scelta dei cibi “buoni da mangiare” fra quelli potenzialmente commestibili dipende dal rapporto fra costi e benefici nella produzione, all’interno di un dato ecosistema. Secondo il polo “struttural-culturalista”, rappresentato in particolare da Mary Douglas (oltre che, con diverso approccio, da Lévi Strauss), i tabù alimentari vanno spiegati in termini tassonomici, determinati da fattori culturali (Douglas, 1972).

Quando ci proponiamo di esaminare le pietanze culinarie sulla base di

quelle che Lévi-Strauss definisce “le logiche del sensibile”, emerge la

dimensione relazionale fra l’oggetto gastronomico ed il soggetto umano

protagonista della degustazione, entrambi dotati di una corporeità. Legati da

una relazione ambivalente fra esteriorità ed interiorità7, l’alimento e il corpo

sono trasformati dal loro reciproco incontro oppure dalla loro separazione.

All’esterno del corpo, il cibo partecipa di una semiosi culturale; quando è

ingerito e assimilato, esso produce delle alterazioni sia nel corpo che in se

stesso (Belleguic, Longstreet, 1994). Ecco che l’aforisma di Anthelme Brillat-

Savarin (1835) “dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei” diventa pregnante.

Queste tematiche aprono al dominio dell’aisthesis, ovvero, secondo la

definizione di Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone, all’ambito “della

sensibilità, dei modi e dei tempi con cui un soggetto si rapporta a un oggetto, a

se stesso o ad altri soggetti mediante il proprio apparato sensoriale, il proprio

corpo, la propria affettività” (Fabbri, Marrone, 2001, p.267). A partire dalla

svolta degli anni Ottanta, in cui nel pensiero greimasiano è stato riconosciuta

l’esistenza di una “macrosemiotica del mondo naturale”, accanto alla

tradizionale “macrosemiotica delle lingue naturali” (Greimas, Courtés, 1986),

si è dato avvio inizialmente agli studi sui testi visivi, e quindi alla fondazione

di una semiotica dell’estesia. Come ricordano Fabbri e Marrone (2001, p.266),

questo filone di ricerca “si occupa di integrare nel modello teorico del

percorso generativo del senso la dimensione sensoriale e somatica”. Prima di

esplorare gli sviluppi semiotici in questo campo, esaminando l’ultima opera di

Greimas, dedicata a questo tema, vorrei prendere sinteticamente in

considerazione le teorie sulla percezione elaborate in ambito filosofico da

Maurice Merleau-Ponty, e quelle di un paleoantropologo come André Leroi-

Gourhan. La loro influenza sugli studi semiotici è evidente, e Greimas stesso

si proclama merleau-pontiano.

Merleau-Ponty (1945) pone l’accento sul ruolo della corporeità, che nella

Fenomenologia della percezione definisce lo strumento generale della

comprensione del mondo. “Il mio corpo è la testura comune di tutti gli

7 La centralità di questa tematica quale nucleo teorico per rifondare una semiotica del cibo

in una prospettiva non strutturalista viene sostenuta da Thierry Belleguic e Lynda-Davey Longstreet (1994), nell’introduzione ad un numero monografico di «Recherches sémiotiques» dedicato alla semiotica dell’alimentazione.

oggetti” ed esso “non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso

di qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona

per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro

significato primordiale in virtù del modo in cui le accoglie”. Secondo questa

prospettiva, il corpo è quindi dispositivo preso in carico dalle due funzioni

attanziali implicate nella realizzazione dell’estesia, essendo sia parte del

mondo che punto di vista nell’acquisizione sensoriale del mondo. Il corpo è

concepito come un sistema sinergico, che entrando in contatto non solo con

oggetti naturali, ma anche con oggetti culturali come le parole, dà luogo ad

una tensione dinamica produttrice di senso. In questa visione, l’aisthesis viene

concepita come un esperienza totalizzante che permette di ripristinare la

comunione originale fra il senziente e il sensibile.

La dimensione sensoriale, al nucleo della congiunzione descritta, è messa in

primo piano anche da Leroi-Gourhan. Come sostiene in Il gesto e la parola

per l’uomo è fondamentale “la sua attrezzatura sensoriale, messa al servizio di

un apparato meraviglioso atto a trasformare le sensazioni in simboli” (Leroi-

Gourhan,1965, p.328 della trad. it).

Nella prospettiva di questo paleoantropologo, l’estetica andrebbe

interpretata come la terza tappa dell’evoluzione umana, acquisita dopo la

costituzione dell’utensile e del linguaggio in un processo di progressiva

esteriorizzazione. Questo fenomeno va inteso come una presa di distanza fra

l’esperienza vissuta e l’organismo umano, per mezzo dell’istituzione di una

facoltà simbolica, che permette all’uomo di collocare la memoria delle

esperienze al di fuori di se stesso.

Secondo Leroi-Gourhan (ivi, p. 317 della trad. it.), il “codice delle

emozioni estetiche è fondato su proprietà biologiche comuni all’insieme degli

esseri viventi, quelle dei sensi che permettono la percezione dei valori e dei

ritmi”. Collocato in una rete di movimenti originati dall’esterno o da se stesso,

il soggetto attivo, animale o essere umano, interpone alla ritmicità ambientale

per il tramite della percezione una risposta dotata di una certa motilità.

Nell’uomo vengono individuali diversi strumenti del dispositivo sensoriale:

sensibilità viscerale, sensibilità muscolare, gusto, olfatto, tatto, udito ed

equilibrio, vista. Leroi-Gourhan propone una precisa gerarchia

dell’attrezzatura sensoriale umana, attribuendo solo a vista e udito, diventati

per evoluzione zoologica i nostri sensi di riferimento spaziale, la facoltà di

astrazione, che permette di classificarli quali i sensi più nobili.

“L’estetica gastronomica è fondata su un fatto biologico molto generale che

è l’identificazione alimentare” (ivi, p.338 della trad. it.). In essa intervengono

diversi ordini sensoriali che forniscono percezioni che si completano a

vicenda. L’organo del gusto è considerato il senso inferiore, biologicamente

funzionale a segnalare in funzione preventiva l’ingestione di sostanze tossiche

per l’organismo. Così come nella maggior parte degli animali, il registro delle

percezioni gustative dell’uomo è piuttosto limitato: permette infatti di

distinguere solo l’acido, il salato, l’amaro e il dolce. In gastronomia, le poco

varie sensazioni recepite dalle papille gustative “sono chiamate a sostenere la

parte di nota fondamentale; come in musica, danno il tono e forniscono una

specie di basso continuo sul quale si dispongono gli altri valori” (ivi, pp.340-1

della trad. it.). Interviene l’apparato olfattivo, che dà forma alla “sovrastruttura

del senso gastronomico”, e arricchisce l’esperienza percettiva possedendo un

registro molto sottile. Abbiamo i valori recepiti dal tatto orale, ovvero la

percezione della temperatura e della consistenza degli alimenti, fondamentale

nelle cucine più evolute.

L’udito occupa un ruolo marginale, mentre la vista adempie alla

fondamentale funzione di riconoscimento del cibo in prima istanza,

influenzando la sua accettazione. Dopo queste riflessioni, Leroi-Gourhan

giunge a formulare un giudizio piuttosto netto in negativo sulla cucina: nella

sua opinione infatti “l’arte culinaria sfugge alla caratteristica di tutte le altre

arti, cioè alla possibilità figurativa, non affiora al livello di simboli” (ivi, p.342

della trad. it). Su questa considerazione, a mio parere opinabile, c’è stato

anche chi ha dissentito come Jean-Marie Floch (1995a), che nella sua citata

analisi di un piatto di Michel Bras ha assegnato manifestamente uno statuto di

pratica significante alla cucina.

2.3. L’esthesis e il ruolo dei sensi nella degustazione

in Dell’Imperfezione.

Una maggiore considerazione alla valenza estetica di oggetti non

appartenenti alle arti tradizionali monosensoriali bensì al mondo totalizzante

della quotidianità8 e di ciò che emerge da esso è esibita nell’ultima opera di

Greimas (1987). Traendo ispirazione dalla filosofia merleau-pontiana, il

semiologo si sofferma sugli effetti del contatto sensoriale degli esseri umani

con il mondo, interpretandoli nei termini di incontro fra soggetto e oggetto

della percezione, in un processo di progressiva congiunzione. In

Dell’Imperfezione, queste tematiche sono originalmente esplorate attraverso

l’analisi di poesie e brevi brani letterari, in cui si descrivono le esperienze

estetiche nella prospettiva di coloro che le vivono. Per mezzo di

quest’approccio, viene focalizzata l’attenzione sulla “componente affettiva e

sensibile dell’esperienza quotidiana” (ivi, p.IX della trad. it.). Nella

trattazione, viene discusso il tema delle presa estetica proponendo una

gerarchia degli ordini sensoriali sulla base della distanza fisica che instaurano

fra il soggetto e l’oggetto della percezione.

A differenza da Leroi-Gourhan, Greimas non privilegia i sensi della vista e

dell’udito, che definisce “superficiali”9 in quanto attivati già in lontananza

dalle cose. Si sofferma più a lungo invece sul tatto, pertinente ad un ordine

sensoriale più profondo, in quanto la distanza con l’oggetto viene colmata e

ridotta a zero. Per mezzo di questo senso, può porsi in essere un’intimità

ottimale fra il soggetto e il mondo, realizzando seppur fugacemente una

fusione momentanea fra le due parti. Come sottolinea Luiz Tatit, secondo la

prospettiva di Greimas quale rimedio temporaneo alla naturale assenza di

continuità fra soggetto e oggetto vi può essere solamente e provvisoriamente

l’estesia, “la cui più espressiva rappresentazione sensoriale è il contatto”

(Tatit, 1997, p.52 della trad. it). Per mezzo di esso, si realizza quella

comunione momentanea con il mondo che permette al soggetto di superare,

almeno per un istante, la barriera del sembrare per penetrare nel mondo

dell’essere. Il tatto e l’olfatto sono due ordini sensoriali entrambi profondi, i

8 Cfr. Maria Pia Pozzato (1995, p.12), dove si sottolinea nell’introduzione che “a differenza delle cosiddette ’belle arti’, l’estetica della vita quotidiana trova la propria area di appartenenza proprio nell’incrociarsi dei cinque sensi”. 9 Non in accezione negativa, comunque.

quali producono degli effetti particolari: provocano infatti non solo il

sincretismo ma anche una potenziale “inversione merleau-pontiana delle

funzioni attanziali” (ivi). Come viene esemplificato da Tatit, quando

assorbiamo un profumo ne siamo anche assorbiti, così come manifestamente

toccare implica anche essere a nostra volta toccati.

Greimas inoltre elabora una teoria particolarmente interessante a proposito

del senso più inerente al cibo, nostro oggetto di studio: il gusto. In contrasto

con l’opinione di Leroi-Gourhan, secondo cui il gusto è nell’uomo il senso

inferiore, Greimas attribuisce a quest’ordine sensoriale uno status peculiare,

sebbene non accordandogli lo stesso grado di profondità10 del tatto.

Apparentemente, il gusto si manifesta come il senso di congiunzione

ottimale, in quanto l’appercezione ha luogo nella piena intimità della bocca.

Avvenendo all’interno del corpo del soggetto, però, quest’ultimo può

mantenerne il controllo godendo della posizione di dominio, senza consentire

come il tatto uno scambio delle funzioni attanziali. Il contatto del cibo con le

papille gustative è inoltre effimero, lasciando subitaneamente posto alla fase di

ingestione, che occulta l’alimento nelle cavità della gola. L’incontro fra il

protagonista dell’assaggio e il cibo sul piano sensibile è quindi talmente lieve

e fugace che si rasenta appena l’esperienza di comunione fra il soggetto e

l’oggetto alimentare, transitando repentinamente dall’esperienza sensoriale

alla razionalizzazione.

Secondo Greimas, la tendenza dell’appercezione gustativa a generalizzarsi

e ad intellettualizzarsi rende conto della tendenza ad adoperare il concetto di

gusto molto al di là dell’ambito gastronomico, applicandolo “all’insieme degli

approcci con il mondo” (Greimas, 1987, p.35 della trad. it.). La derivazione

etimologica del temine francese savoir [sapere] dal latino sapere [avere

sapore] è a questo proposito allusiva della dilatazione della sua significazione.

L’esplorazione di Josè Luiz Fiorin dei significati che il termine “gusto” può

assumere nella prospettiva di una sua definizione semiotica mette in luce le

motivazioni della transizione dal dominio della “discriminazione dei sapori” a

quella della “differenziazione di valore degli oggetti estetici” (Fiorin,1997,

p.18 della trad. it.). Come ricorda lo studioso, i significato più generale del

“gusto” quando è relativo ad un soggetto rimanda alla capacità di discriminare

10 Intesa quale grado di prossimità, garante di congiunzione con l’oggetto.

e apprezzare determinate cose. Alla sensibilità di discernimento si correlano

poi le caratteristiche proprie degli oggetti, un valore che le rende distinguibili e

al quale ci si riferisce attribuendo loro un certo tipo di gusto. Sia il soggetto

che l’oggetto vengono definiti in termini relazionali: il primo infatti è

determinato dal voler-essere congiunto a ciò che preferisce rispetto ad altre

cose, mentre il secondo è contraddistinto sulla base di caratteristiche rilevate

dal giudizio di un individuo sanzionatore. Se volessimo individuare il

significato del gusto in una forma più astratta, potremmo concordare con la

formulazione di Fiorin, secondo il quale esso “rappresenta l’istituzione della

discontinuità nella continuità, del differente nel differenziato” (ivi, p.19 della

trad. it.). Anche da questa definizione rimane evidente il conferimento al gusto

di una natura più relazionale che sostanziale.

Si suppone e si sottolinea in questi discorsi quindi la condizione di inerenza

reciproca tra soggetto e oggetto, che nella presa estetica trova la sua

sensibilizzazione. In ambito gastronomico, così come in generale

nell’apprezzamento di un’opera d’arte o di oggetti della quotidianità, la

dimensione percettiva e soggettiva si combina però a vari gradi con quella

riflessiva e normativa, dando luogo talvolta ad un effetto destabilizzante.

Con l’appercezione gustativa pura secondo l’opinione di Greimas la

pienezza dell’esperienza estetica è pressoché preclusa a causa di una tendenza

del gusto a generalizzarsi, producendo un giudizio immediato sull’esperienza

sensibile. Le attività celebrale implicate all’occorrere di queste circostanze

sono comunque limitate all’operazione di riconoscimento approssimativo dei

sapori del corpo sapido venuto a contatto con le papille gustative.

Per vivere un’esperienza estesica totalizzante non è sufficiente la fugace

sensazione registrata dai poco specifici organi di gusto. E’ necessario infatti

garantire, nei termini di Greimas, la “coalescenza delle sensazioni” (Greimas,

1987, p.54 della trad. it.), ovvero l’effetto di approfondimento e

prolungamento delle impressioni mediante il coinvolgimento di altre sfere

sensoriali. La prima modalità per ottenere questo risultato viene ottenuto è il

sincretismo, ossia la partecipazione simultanea di diversi organi di senso nel

momento degustativo. E’ palese che nell’approccio con il cibo intervengano

altre dimensioni sensoriali oltre a quella propriamente gustativa: la

presentazione del piatto e tutti gli aspetti visivi relativi non solo alla

disposizione delle pietanze ma anche all’ambiente ristorativo, la consistenza

degli alimenti percepita dalle labbra e con l’azione della forchetta, le sonorità

ambientali e i rumori prodotti dal contatto con i denti o le cavità orali, gli

aromi sprigionati dalle cibarie. Tutte queste sensazioni concomitanti hanno un

ruolo non secondario bensì determinante nel forgiare l’esperienza

gastronomica.

La partecipazione dell’olfatto è particolarmente importante, poiché

possiede una capacità discriminatoria di molto superiore al gusto, anche se

esiste una grande variabilità nella sensibilità di ogni persona, per

predisposizione genetica e per addestramento.

Il senso della vista viene anch’esso coinvolto nell’esperienza gastronomica,

costituendo un elemento importante nell’identificazione della commestibilità e

dell’appetibilità dei cibi. La configurazione formale degli alimenti costituisce

per il degustatore un fattore di riconoscibilità dei cibi e mediante la

comparazione con quanto conosciuto può essere all’origine di sentimenti di

desiderio o inquietudine, a seconda delle passate esperienze e delle

idiosincrasie individuali o culturali.

La dimensione del tatto è anch’essa un elemento fondamentale della cucina.

Grazie a questo senso, l’esperienza gastronomica viene arricchita e dotata di

una base somatica, permettendo di ancorare la percezione effimera delle

sensazioni propriamente gustative e permettere la coalescenza delle

sensazioni. Nella prospettiva greimasiana, il contributo della dimensione tattile

ovvero l’intervento del senso di maggior profondità è essenziale per garantire

quella congiunzione temporanea fra soggetto e mondo che caratterizza la presa

estesica nella sua completezza.

L’udito è il senso meno rilevante nella cucina, ma ha comunque una

funzione di integrazione delle altre sensazioni esperite nel corso

dell’esperienza gastronomica. Il suo coinvolgimento è manifesto ad esempio

nella percezione dei suoni prodotti dalla masticazione di cibi croccanti, dal

sorseggiare alimenti liquidi, dai movimenti delle posate.

Come abbiamo visto, nella degustazione sono coinvolti tutti i cinque sensi,

che contribuiscono ognuno per la sua parte all’intensificazione dell’esperienza

estesica. Il sincretismo sensoriale, ovvero la presenza simultanea e

concomitante dei diversi organi di senso non è comunque l’unico approccio

possibile per garantire la “coalescenza delle sensazioni”. Come sottolinea

Greimas (1987), il coinvolgimento delle diverse sfere sensoriali può aversi non

solo a livello paradigmatico bensì anche sintagmatico, in un loro

dispiegamento temporale. In Dell’Imperfezione si fa in primo luogo l’esempio

lampante della cerimonia giapponese del tè, dove si susseguono una dopo

l’altra percezioni che coinvolgono ogni singolo organo di senso, in una

magnificazione dell’esperienza estesica. Anche nella cucina francese,

sottolinea Greimas, ritroviamo diverse forme di ritualità che prevedono

l’intervento dei diversi sensi in un ordine consecutivo e codificato. Secondo

questa modalità, a mio parere estendibile all’ambito generale dell’alta cucina,

nell’approccio al cibo vengono coinvolti innanzitutto la vista, che anticipa e

stimola mediante l’attesa la percezione gustativa, nonché il senso dell’udito, il

quale già a distanza arricchisce l’esperienza raccogliendo gli stimoli uditivi

che pervadono il contesto ambientale ristorativo. Più in intimità con l’oggetto

interviene l’olfatto che circonda con l’aroma la pietanza, percepita in modo

effimero nel suo gusto dalla papille gustative e resa sensorialmente duratura e

profonda con il coinvolgimento del senso del tatto. Come scrive Greimas, si

può avvertire in questo modo almeno per un momento un “sapore di eternità”,

ravvisando allo stesso tempo “un fondo11 di imperfezione” (ivi, p.52 della trad.

it).

11 Da Tatit (1997) assimilabile a “retrogusto”.

II.

EXCURSUS NELLA STORIA DELL’ALTA

RISTORAZIONE.

1. La nascita dei primi ristoranti: l’inizio

dell’egemonia culinaria francese.

Come ricorda Jean-Robert Pitte (1996, p.602), “il ristorante è una delle

istituzioni alimentari più diffuse al mondo”. E’ dagli anni che hanno visto

sorgere i primi ristoranti come li intendiamo oggi che intendo iniziare il mio

excursus storico, in quanto la loro nascita e la diffusione segna un punto di

svolta nell’evoluzione dell’alta cucina. Con essi, si aprono infatti le porte del

mondo dell’arte culinaria privandola dello status privatistico che caratterizzava

il rapporto fra cuochi e nobili committenti, e donandole invece uno status

pubblicistico.

Nella storia possiamo ritrovare numerose forme di precursori

dell’istituzione ristorativa, sebbene alieni nella struttura al modello attuale.

Inteso come locale dove fuori casa si può mangiare seduti in tavola a

pagamento, il ristorante ha lontane origini, che vengono fatte risalire alla

diffusione dei mercati e delle fiere. Esistono già dall’antichità locande o

stazioni di posta collocate sulle strade principali, ove i contadini e gli artigiani

lontani da casa si possono riposare e rifocillare. In questi luoghi, destinati in

particolare ai viaggiatori, è possibile mangiare i piatti semplici offerti dall’oste

a seconda di quanto disponibile in giornata.

Un po’ ovunque nascono inoltre nei centri maggiori in epoca medievale le

botteghe alimentari, luoghi dove la gente può portare la propria carne per farla

cuocere, oppure acquistare un piatto caldo precotto. Come riferisce Stephen

Mennell (1985), questi esercizi sono destinati in particolare alla popolazione

meno abbiente, che non dispone nelle abitazioni di adeguati mezzi per la

cottura dei cibi. Nei secoli queste botteghe attraversano un’evoluzione,

trasformandosi in rosticcerie o nei take away, oppure anche in luoghi dove ci

reca per prendere qualcosa in compagnia, come i moderni bar.

Nel diciottesimo secolo, periodo in cui come vedremo in Francia sorgono i

primi ristoranti veri e propri, nel resto d’Europa gli esercizi che servono

pietanze seguono modelli che non combinano allo stesso modo una cura

dell’ambiente e dell’offerta gastronomica.

Negli spacci di bevande alcoliche si servono un po’ ovunque12 piatti

modesti e a buon mercato, preparati sul posto oppure portati da una vicina

locanda o bottega di alimentari. In Spagna si possono degustare tapas nelle

bodegas, pies nei pubs inglesi, carni lesse o in umido e frattaglie nelle taverne

francesi (Pitte, 1996), mentre piatti della tradizione regionale vengono

consumati nelle osterie italiane. Sebbene la tipologia di questi esercizi sia

quanto mai varia, andando dalle bettole più sudice a luoghi più dignitosi

specialmente in ambito cittadino, sono locali conviviali piuttosto rumorosi e

sia loro che i loro esercenti godono di uno status non elevato.

Un ambiente più raffinato è quello dei caffè, i quali, sorti dapprima a Parigi

e quindi anche in altre città europee come Venezia, Vienna, San Pietroburgo e

Londra, diventano luoghi alla moda dove la gente dabbene si incontra per

socializzare sorseggiando anche tè e cioccolato, o degustando dolci e sorbetti.

A Parigi aleggia in essi lo spirito dei Lumi, mentre a Londra sono frequentati

soprattutto dalla classe parlamentare, che in questi luoghi disegna nuovi

intrighi politici.

Per assaggiare piatti cucinati è preferibile recarsi in questo periodo in

alcune buone locande, o presso le rosticcerie oppure soprattutto nei trattori

francesi o nelle italiane “trattorie”. In Francia, le corporazioni di trattori

detengono assieme ai salumieri13 il monopolio della vendita delle carni cotte

ad esclusione dei tortini di carne macinata avvolta in un involucro di pasta,

responsabilità dei pasticcieri. Solo il popolo però consuma i pasti all’interno di

questi trattori dall’ambiente poco curato, mentre i benestanti scelgono

generalmente di farsi consegnare le pietanze a domicilio o presso le foresterie

dove sono alloggiati (ivi, p.603).

In Inghilterra, esistono invece dal diciottesimo secolo degli esercizi che si

approssimano maggiormente all’istituzione ristorativa: le taverns. Questi

locali sono specializzati nella mescita di vino e non di birra come le più

diffuse ale-houses. Destinate ad una clientela di classe sociale superiore,

alcune di esse nella capitale sono centro delle vita sociale cittadina, nonché

12 Fanno eccezione le osterie parigine, dove si serve solo vino. Cfr. Pitte (1996). 13 Venditori di carne di maiale tritata e cotta. Ivi.

fungono da rinomati posti di ristoro dove la clientela può scegliere le pietanze

da un menù composto da piatti inglesi e francesi (Mennell, 1985).

Nel frattempo, come ricorda Pitte (ivi, p.604), gli elementi che

caratterizzano il panorama gastronomico francese sono: “una grande cucina

inaccessibile al comune mortale, moltissime rivendite di cibo e di vino che

servono piatti di fattura popolare e, in qualche caso, un po’ più raffinati […]

dei caffè in cui è possibile nutrire la mente, ma non lo stomaco, e finalmente,

lo sguardo dell’élite colta rivolta verso l’Inghilterra”.

La nascita dei ristoranti a Parigi può essere considerata la risposta francese

alle taverns, in un periodo in cui è di moda tutto ciò che è inglese. Non a caso

il primo grande ristorante degno di questo nome è denominato La Grande

Taverne de Londres. Questo lussuoso locale, aperto nella capitale francese nei

1782 da Beauvillier, incontra fin da subito un gran riscontro di pubblico,

attratto dalla novità che esso rappresenta. Come ricorda Brillat-Savarin (1825,

p.279 della trad. it.), egli per primo ha “una sala elegante, camerieri ben

vestiti, una cantina scelta e una cucina ottima”.

Due sono però i presupposti che rendono possibile l’affermazione della

nuova istituzione ristorativa: uno di carattere giuridico, uno collegato al

particolare contesto storico, economico e sociale. Relativamente al primo

punto, i memoriali ricordano il celebre caso di Boulanger, che con la sua

intraprendenza sfida le restrizioni al commercio delle produzioni culinarie. Nel

1756, quest’uomo entrato nella storia apre una bottega nei pressi del Louvre,

nella quale si servono principalmente dei “ristoranti”, ovvero brodi di carne

pensati per ristorare le forze. Prepara e vende però anche dai piedi di montone

in salsa bianca, sfidando il rigido monopolio della corporazione dei trattori, i

quali intentano un processo. Il giudice dà sorprendentemente ragione a

Boulanger, aprendo per quest’ultimo le porte del successo e offrendo

all’istituzione ristorativa le precondizioni per lo sviluppo.

Negli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese si

presentano inoltre le condizioni che permettono di fornire all’esercizio

ristorativo una domanda adeguata: i deputati rivoluzionari che dalla provincia

giungono a Parigi e qui vi alloggiano mostrano di gradire l’opportunità di

pranzare assieme nei nuovi raffinati locali sorti nei pressi del Palazzo Reale.

Col loro esempio, stabiliscono una moda che molti altri si mostrano desiderosi

di imitare, decretando il successo di questi primi ristoranti, conosciuti però

ancora piuttosto a lungo quali “trattori”, come testimonia la tarda entrata della

parola “ristorante” nel Dictionaire dell’Accademia, registrata per la prima

volta nel 1835.

Gli eventi rivoluzionari contribuiscono alla creazione delle condizioni di

mercato alla base dell’istituzione ristorativa non solo stimolando la domanda,

bensì anche favorendo e consentendo la formazione di un’offerta che possa

dare risposta ai nuovi desideri. Con la fuga o la morte a colpi di ghigliottina

degli esponenti della classe aristocratica, gli chef a servizio nelle casi nobiliari

si ritrovano all’improvviso senza lavoro, e con la conseguente necessità di

provvedere alla ricerca di un’occupazione alternativa. I cuochi che hanno

acquisito maggior professionalità decidono in gran numero di aprire delle

attività in proprio, accompagnati da giovani apprendisti al seguito. Il numero

dei ristoranti moltiplica in pochi anni, passando da meno di un centinaio

dell’inizio della rivoluzione francese all’ordine delle tre migliaia del periodo

della restaurazione.

Lo splendore e la raffinatezza della cucina delle case nobiliari viene

riprodotta nei ristoranti più lussuosi dei boulevards parigini, mentre uno stile

più sobrio ma comunque di un certo valore gastronomico si ritrova nelle

diverse tipologie di locali adeguati a tutte le tasche (Brillat-Savarin, 1825).

Come commenta Pitte (1996, p.607), “la rivoluzione francese, lungi

dall’uccidere la creatività culinaria e dal rimettere in discussione questo

brillante aspetto della cultura dominante del XVIII sec., ha permesso di

trasferire quest’arte alla borghesia e anche, in parte, alle classi popolari,

tramite un’istituzione nata dalla decadenza delle corporazioni”.

Il passaggio all’ambiente ristorativo porta con sé delle ripercussioni

evidenti sui caratteri della professione di chef e dell’arte culinaria.

Abbandonando il rapporto subordinato che intratteneva con il padrone

aristocratico, il cuoco divenuto spesso anche ristoratore intrattiene con i suo

clienti ad una rapporto di scambio di natura tendenzialmente egualitaria. Da

questo momento inoltre, gli chef non si devono confrontare più solamente con

il datore di lavoro, bensì entrano in competizione fra loro per conquistarsi una

clientela. La professione culinaria acquista quindi un suo proprio pubblico,

determinando con esso la nascita di una pubblica opinione sulle materie di

gusto culinario. Lo chef da questo momento deve iniziare a preoccuparsi

seriamente di come guadagnarsi una reputazione e di come mantenerla,

dovendosi confrontare incessantemente al giudizio dei suoi clienti e della

neonata critica gastronomica. I cuochi acquistano una collocazione del vedere

(altri cuochi ed esperienze culinarie) ed essere visti (da una clientela pubblica,

e dai concorrenti).

In questo contesto, l’orgoglio professionale e il pungolo competitivo

offrono lo stimolo all’innovazione culinaria e in particolare alla creazione di

nuovi piatti d’alta cucina “molto elaborati e quindi costosi […] con ambizioni

‘artistiche’ sia visive che gustative” (Mennell, Murcott, van Otterloo, 1992,

p.83, trad. mia). Gli chef di questi anni, fatto ingresso nel sistema di mercato,

sono sospinti a cercare di distinguersi nelle abilità culinarie, mentre l’influenza

dello stile sfarzoso in voga nelle imbandigioni nobiliari stabilisce il corso

dell’evoluzione della grande cuisine.

2. Il primo paradigma culinario. 2.1. Carême e l’architettura in cucina.

Con la rilevante figura di Antoine Carême, la grande cuisine del periodo

napoleonico viene per la prima volta codificata e si affermano nuovi codici

estetici e culinari che avrebbero influenzato un’intera generazione di cuochi.

Con lui ha inizio una fase di ascesa della dimensione scenografica e decorativa

della cucina, la quale viene assurta per lungo tempo a valore preponderante

nell’attività culinaria.

Riverito come il più grande talento culinario del suo tempo, Carême non è

un ristoratore, ma lavora al servizio di una lunga serie di personaggi illustri,

come Talleyrand, il Principe Reggente della casa inglese, il barone di

Rothschild, lo zar Alessandro I.

Prima che cuoco, Carême è soprattutto un pasticciere che vuole applicare in

ambito gastronomico i principi e gli stili dell’architettura, sua grande passione.

Iniziato a quest’arte mediante la contemplazione di stampe e incisioni della

Biblioteca Reale presso la corte parigina in cui è impiegato, si dedica a

progettare complesse strutture culinarie di impianto monumentale. Convintosi

dello stato miserevole in cui versa l’arte pasticciera ai suoi tempi, si impegna a

introdurre un nuovo stile su ispirazione dei modelli d’architettura studiati.

Acquista una grande abilità nel comporre delle pièces montées in uno stile

nuovo, più misurato rispetto alle costruzioni pompose in voga nel secolo

precedente, in conformità con l’ideale neoclassico di semplicità e proporzione.

I canoni estetici e culinari che sostiene sono in ogni caso tutt’altro che

imperniati sull’essenzialità e sulla sobrietà.

In primo luogo egli assegna il primato alla dimensione ornamentale, senza

la quale a suo parere non vi può nemmeno essere alta cucina. Nel

diciannovesimo secolo, egli sostiene, deve essere celebrato il matrimonio fra

architettura e sapore. Nella pratica culinaria si deve esigere il più rigoroso

contegno stilistico, nel rispetto di canoni estetici paralleli a quelli delle arti

plastiche.

Nell’allestimento delle imbandigioni, quello che conta più che la bontà

delle vivande è essenzialmente la cura perfezionistica della cornice di

accoglimento, secondo un appropriato uso degli elementi decorativi, sulla base

di una necessaria coerenza fra l’apparato scenografico e l’occasione del

convivio.

Come sottolineano Gualtiero Marchesi e Luca Vercelloni (1992),

l’importanza attribuita alla dimensione esornativa dei cibi è essenzialmente

legata alla manifestazione del loro uso sociale nell’ambito dei sontuosi

banchetti, appannaggio distintivo almeno fino ad allora delle classi agiate. Gli

elementi decorativi sono capaci di rendere gli alimenti più preziosi

insignendoli di un “supplemento simbolico che trascende le funzioni di

sostentamento per trasformare il cibo in un bene voluttuario” (Marchesi,

Vercelloni, 1992, p.49). Tanto più manifestamente quanto gratuiti (in quanto

non commestibili), gli addobbi esornativi vanno concepiti come tributi

funzionali al rituale sociale e collettivo di “autoincensamento in cui i

commensali traggono piacere dallo spettacolo in cui essi stanno recitando”

(ivi, p.56).

Carême esporta le tecniche della pasticceria in cucina, ambito distinto dal

primo dall’utilizzo preponderante di ingredienti dotati di una configurazione

naturale, poco inclini ad uniformarsi per mezzo della manipolazione culinaria

a sembianze artefatte, quali le sculture e i tempietti in miniatura da lui

progettati. E’ tuttavia proprio in questo suo progetto di estensione degli ideali

decorativi al settore gastronomico più refrattario per natura che egli si rivela

autentico innovatore.

Come vorrei dimostrare, portando avanti un progetto estetico ubiquitario

che include preparazioni di ogni genere, egli in un certo senso eleva la

dimensione strutturale alla potenza. Per prima cosa, occorre puntualizzare che

la “pasticceria” non va intesa nell’accezione ristretta all’ambito dolciario,

bensì nel senso allargato di Carême, il quale al suo interno vi annovera fra gli

altri timballi, sformati, soufflé: preparazioni accomunate dal conferire

mediante la lavorazione una configurazione a materie che di natura ne sono

prive. In questo senso, adottando la terminologia di Françoise Bastide (1987,

p.347 della trad. it.) l’arte pasticcera si fonda sulla realizzazione di programmi

di strutturazione, ovvero nell’operazione che “parte da elementi allo stato

amorfo per fabbricare un oggetto dotato di struttura”. Per mezzo

dell’innovazione introdotta da Carême, si afferma la tendenza ad attribuire

anche a prodotti strutturati di natura come pesci o carni una configurazione

seconda, adoperandoli14 all’interno delle sue pièces montées per la costruzione

di strutture architettoniche spesso a sfondo imitativo. Spesso alcuni dei

prodotti culinari vengono inizialmente semi-destrutturati, tagliandoli e

inserendoli ad esempio sugli hâtelets, spiedini ornamentali dall’impugnatura

istoriata da conficcare sulla sommità dei tagli di carne e dei pesci di più grande

dimensione. Come questa sua creazione rende particolarmente evidente, più

che in una valorizzazione di una struttura originaria e di una aggiunta, la sua

operazione si riduce comunemente nella negazione della struttura naturale

degli elementi trattati per l’affermazione di una struttura alternativa da lui

imposta.

Nel corso della sua carriera, Carême elabora un vasto campionario di

cartamodelli per la costruzione di complessi basamenti istoriati, spiedini

ornamentali e altri orpelli decorativi. Mediante l’impiego esagerato di addobbi

la natura dei prodotti culinari veniva rivestita, camuffata e dissimulata in un

processo di elaborazione condotto fino ai limiti estremi dell’artificioso. Nella

costruzione delle sue pièces montées, il gusto e le proprietà sensoriali dei cibi

vengono trascurati e svalorizzati in rapporto alla dimensione scenografica

14 Spesso però semi-destrutturati nella forma di spiedini. In questo caso si può osservare

che la struttura di partenza e quindi naturale viene negata per l’affermazione di una struttura culturale artificiosa.

sottoponendoli a manipolazioni che li rendono scarsamente appetibili, se non

assolutamente immangiabili.

Il processo di de-naturalizzazione e culturalizzazione dei prodotti per

mezzo del trattamento culinario porta, nel caso di Carême, ad una vera e

propria negazione del valore naturale dell’oggetto di partenza. L’alimento

viene infatti straniato sistematicamente dalla sua origine naturale per essere

trasfigurato in qualcosa di assolutamente diverso, ovvero la riproduzione in

miniatura di monumenti o fregi architettonici. Nelle opere di Carême quindi la

presenza del cibo affiora solo in funzione allusiva, nella scelta dei materiali a

cui ricorrere per le costruzioni.

Gli oggetti risultanti della trasposizione delle arti plastiche in cucina sono

caratterizzati da imperfettibilità, a causa dell’affioramento di una non

coincidenza fra il punto d’incontro delle dimensioni materiali e funzionali

associato ai due distinti ambiti settoriali. Gli elementi sono infatti da un lato

depauperati delle loro qualità gustative e perciò di dubbio o nullo valore

gastronomico, e dall’altro fragili e precari in qualità di fregi architettonici in

quanto i materiali scelti li rendono deperibili.

Il contributo offerto da Carême alla cucina va però oltre le sue monumentali

costruzioni architettoniche. Introduce infatti una profonda trasformazione nella

concezione e nella fabbricazione delle salse rispetto al disorganico sistema

fino allora in uso. Mentre in precedenza ogni salsa veniva composta

dall’assemblaggio fra un fondo, un legante e guarnizioni, con Carême si

individuano quattro grandi salse base (la espagnole, la velouté, la allemande,

la béchamel), dalle quali si generano nuove salse per mezzo di uno o più

elementi aggiuntivi.

La preparazione di questi fondi, sebbene decisamente complessa per gli

standard moderni, rappresenta una rilevante semplificazione delle procedure

precedentemente seguite. Ognuna delle salse madri viene preparata

anticipatamente in grandi quantità nelle cucine professionali e quindi si

possono elaborare piccole modifiche ed effettuare le ultime aggiunte il giorno

del servizio. In questo modo si può avere a disposizione un ampio spettro di

salse “composte”, fra le quali si individuano quelle più adeguate agli specifici

piatti. Grazie a questo sistema, si assiste ad un processo di moltiplicazione

delle salse senza fine: ognuna infatti nasce dall’altra secondo un meccanismo

che ha spinto Jean-Pierre Aron (1973) a paragonare l’arte delle salse al gioco

delle bambole russe. Poiché da una salsa base si può crearne una nuova con

l’aggiunta di un nuovo ingrediente, e trasformare quanto prodotto con la

semplice addizione di una sfumature, ognuna delle salse ne contiene altre e

“queste altre ancora, così tutto l’insieme si gonfia dall’interno fino a

avviluppare l’intera cucina” (ivi, p.128 della trad. it).

Le salse di questa generazione godono nel piatto di una posizione di primo

piano; esse non solo legano e arricchiscono ma anche ricoprono i materiali di

base fungendo da mediatrici della trasformazione della natura in un prodotto

costruito dall’uomo.

Secondo Stephen Mennell (1985), si può sostenere che Carême sia il

responsabile dell’elaborazione del primo paradigma della cucina professionale

francese, se ammettiamo di applicare la lettura di Thomas Kuhn (1962) del

mondo della scienza all’ambito gastronomico. Carême è infatti il primo a

codificare l’arte culinaria fino a divenire un punto di riferimento per il mondo

dei professionisti che lo seguono. Come per i paradigmi in ambito scientifico,

ad un certo punto poi affioreranno alcuni problemi che faranno sì che le

assunzioni principali siano messe in crisi, sollecitando la sostituzione con un

paradigma nuovo.

2.2. Dubois e l’introduzione del servizio alla russa.

I successori di Carême e continuatori della sua opera sono Emile Bertrand,

Jules Gouffe e Urbain Dubois. Quest’ultimo in particolare, approfondisce la

lezione del maestro sull’arte decorativa e lo supera nelle costruzioni

monumentali. Acquisita una notevole maestria cesellatrice, prosegue

nell’opera di trasfigurazione della materia bruta, in operazioni di

agghindamento ad oltranza che sanciscono il trionfo dell’artificio sulla natura.

Le sue presentazioni manifestano un gusto ossessivo per la disposizione

regolare, per la simmetria e la ridondanza. Cibi strutturati come costolette,

filetti o polli interi sono accostati in serie e ammucchiati nella costituzione di

un pattern particolare che dissimula la configurazione naturale in un processo

di valorizzazione di una struttura artificiosa seconda. Spesso le combinazioni

sortiscono involontariamente degli effetti fra il grottesco e l’orrido:

incontriamo ad esempio nei suoi ricettari orecchi di montone ritte come

pinnacoli per configurare una corona surreale, oppure crani di beccacce

disposti in circolo con i becchi rivolti verso l’alto ad imitazione di rostri

appuntiti. L’anatomia animale, mutilata o meno, ed esibita come un trofeo,

viene regolarmente impreziosita mediante rifiniture, fronzoli decorativi e

dispositivi scenografici, come nastri di pasta cesellati, verdure finemente

tornite e zoccoli scolpiti in grasso animale.

Come commentano Marchesi e Vercelloni (1992, p.70), “non sempre la

costruzione decorativa assolve la mansione di mastodontico supporto”. Capita

spesso, infatti, che nell’accumulazione decorativa si assista a “un’inversione di

ruoli, in cui il cibo finisce per recitare la parte di supporto”. Nel “grande

zoccolo dell’agricoltura” troviamo ad esempio crostacei e tartufi collocati in

funzione di guarnizione alla base di un’imponente scultura in grasso a forma

di fontana e al di sotto di un carro guidato da un putto-tritone.

Dubois è maestro in queste sculture in grasso, nate dalla volontà di emulare

le opere in marmo o in alabastro delle arti maggiori. Per aumentarne la dignità

artistica, prende l’iniziativa di rinominare “steato-plastica” il grasso animale

impiegato in funzione ornamentale. E’ interessante osservare che pur non

essendo commestibili queste statuine si uniformano nel materiale alla pietanze

cui vengono aggregate. Mentre infatti per agghindare le pietanze dolci

vengono adoperati il pastigliaccio o la pasta di zucchero, il grasso animale

viene simbolicamente associato alla preparazioni a base di carne o pesce. Con

lo stesso rigore stilistico del suo predecessore, Dubois continua nell’opera di

valorizzazione del lavoro artistico-decorativo del cuoco di professione.

Palesando una visione del mondo positivistica, Dubois è inoltre convinto

della legittimità della cucina ad ambire allo statuto di una scienza, e le assegna

una missione civilizzatrice ad estensione planetaria. Forte dell’affermazione e

del consolidamento della cucina francese a espressione d’arte compiuta,

proclama l’opportunità di estendere la professionalità culinaria conseguita al di

là dei confini nazionali. Questa sua vocazione ecumenica non deve essere

comunque intesa come una volontà di esportare un repertorio codificato

rigidamente, bensì nella riproduzione in ambito globale di metodi processuali

e codici estetici adattabili al contesto locale. Come affermano Marchesi e

Vercelloni (1992, p.65), “la cucina si libera così dall’assoggettamento

stanziale a sapori, preparazioni ed approvvigionamento, per assurgere a

spettacolo itinerante”. Queste ambizioni universalistiche trovano facile

realizzazione nell’ambiente protetto dei grandi alberghi, luogo dove esercita

la sua professione. Dietro a questo programma di internazionalizzazione vi si

potrebbe leggere un processo di de-localizzazione dei metodi culinari, i quali

sono intesi per funzionare a livello transcontestuale (Semprini, 1995).

Doubois dà inoltre inizio ad una innovazione di grande rilievo nel contesto

ristorativo. E’ il primo infatti a promuovere l’introduzione del servizio alla

russa in sostituzione al servizio alla francese. Quest’ultimo complesso

sistema, in voga fin dal Medioevo, segue dei principi estranei ai nostri attuali

criteri. Esso consiste in una successione di tre servizi, che rappresentano le tre

sequenze principali, i tre stadi d’una evoluzione. Ognuna delle sequenze è

associata ad una serie di portate: la prima alle minestre, i piatti di mezzo e i

primi; la seconda agli arrosti e ai tramezzi; la terza ai dessert. Le procedure e i

meccanismi che regolano la presentazione delle serie di piatti sono piuttosto

complessi. Allorché infatti è servita la padrona di casa, in ottemperanza ai

codici del galateo, viene fatto portare tutto l’insieme dei piatti di mezzo e dei

primi, disposti dai camerieri simultaneamente sulla tavola secondo una

rigorosa logica spaziale. Nel rispetto di un principio di simmetria topologica, i

piatti vengono collocati sulla base delle tipologia di preparazione e sul loro

volume. Anche nella successione delle sequenze è mantenuta una simmetria,

questa volta formale: come vengono sempre riservate le posizioni all’estremità

della tavola alle pietanze di grande dimensione, così i tramezzi prendono il

posto dei primi piatti.

Questa rigorosa disposizione spaziale risulta talvolta frustrante per i

commensali. Essi infatti possono essere più o meno fortunati nel trovarsi

seduti davanti al piatto da loro preferito. Naturalmente se desiderano degustare

una pietanza non a loro portata possono certamente farsi passare le vivande di

mano in mano dai convitati, oppure farsi aiutare dal personale di sala, ma ciò

spesso non è semplice. Bisogna infatti rispettare il principio di riportare

sempre le portate nella posizione di partenza, nonché per essere serviti

accondiscendere ai dettami dal galateo, le quali prescrivono un ordine rigoroso

per il servizio. Inoltre, per le carni più grandi è necessario provvedere alla

trinciatura, operazione affidata generalmente all’anfitrione e a qualche aiutante

ospite i quali invece di rilassarsi devono impegnarsi in un faticoso lavoro.

Come commenta Aron (1973, p.174 della trad. it) il pranzo è “il campo d’una

attività frenetica, di movimenti, di circolazioni ininterrotte”. In questa

situazione il commensale deve spesso subire le angosce della frustrazione. C’è

chi è servito puntualmente e chi deve attendere, ricevendo perciò le pietanze

già fredde. Capita perfino che alcuni piatti non arrivino mai a chi li ha

richiesti.

L’introduzione del servizio alla russa comporta un notevole snellimento

delle procedure, a beneficio dei convitati e della macchina organizzativa. In

questo nuovo sistema, le varie pietanze vengono presentate secondo un ordine

di successione lineare, scandito in base alla tipologia qualitativa delle vivande.

Poiché ogni sequenza è destinata a tutti, la serie dei piatti è ridotta all’unità dei

cibi. Escludendo la posa in tavola dell’insieme delle pietanze, si possono

abbattere i tempi morti del servizio. Gli alimenti vengono tagliati in cucina,

decorati e quindi inviati in sala. Per i piatti importanti e voluminosi, si

preferisce presentare la pietanza integra e poi farla trinciare dal maître in un

tavolino a parte, per essere porzionata e servita agli ospiti individualmente.

Questa tipologia di servizio introdotta da Doubois risulta molto più agevole

a livello organizzativo soprattutto per le cene improvvisate e con pochi

coperti, rispondendo alle richieste della maggioranza della clientela dei

ristoranti. Risolve inoltre il problema più rilevante che grava sul servizio

francese, ovvero la snervante attesa imposta frequentemente ai commensali

per ricevere i piatti, con il conseguente raffreddamento delle pietanze stesse.

Con la transizione al servizio alla russa, si passa da una configurazione

prevalentemente spaziale e secondariamente temporale ad un’organizzazione

esclusivamente processuale delle pietanze, dove la successione delle portate si

coordina con l’andamento temporale dei processi di degustazione e digestione.

3. Il secondo paradigma. L’Età di Escoffier.

Il paradigma culinario di Carême viene messo in crisi e affossato con

George August Escoffier, il quale dà inizio alla trasformazione della cucina

professionale francese della fine del diciannovesimo secolo. Escoffier acquista

una notevole notorietà durante la sua vita, e le sue innovazioni hanno notevoli

ripercussioni, influenzando più di una generazioni di chef che lo seguono. La

sua Guide culinarie (Escoffier, 1907), acquista lo status di una bibbia per i

professionisti della cucina, e ancor oggi è considerato un testo base per

apprendere le tecniche classiche della cucina.

Le sue idee innovative hanno il merito di rispondere ai cambiamenti

verificatisi nel contesto dell’ambiente ristorativo della sua generazione. E’

infatti il periodo in cui si sviluppano i grandi hotel internazionali, sorti in parte

come tarda risposta all’aumento dei viaggiatori benestanti che sempre più

spesso si avventurano oltre frontiera, così come si spostano nelle capitali e nei

resorts del proprio paese.

Escoffier ha un ruolo decisivo nello sviluppo di questa nuova tipologia di

hotel, non più aperti solo ai soci di determinati circoli sociali come i

prestigiosi alberghi londinesi del passato, bensì esclusivi solo per il loro costo.

Questi lussuosi hotel divengono di moda per cene a ore tarde dopo il teatro,

nonché per i pasti domenicali dei benestanti, nel giorno di riposo dei loro

inservienti (Mennell, 1985, p.158).

Il nome di Escoffier viene associato al celebre César Ritz, per il quale

lavora promovendo i nuovi hotel prima nella Riviera e quindi a Londra. Nel

1890 prende le redini del Savoy Hotel, per spostarsi quindi al Carlton, dove vi

rimane fino al temine della sua carriera.

Escoffier rivoluziona l’organizzazione delle cucine professionali di larga

scala, razionalizzandole e rendendole più integrate. In precedenza, all’interno

delle cucine più grandi sono presenti più sezioni, ognuna diretta da uno chef e

associata ad una data preparazione ma non comunicante con le altre. Di

conseguenza, in queste sezioni monadiche, le preparazioni d’uso che ricorrono

per più piatti, come le salse, vengono spesso realizzate da diverse sezioni

contemporaneamente, con un conseguente spreco di risorse ed energie.

Senza seguire questo sistema, Escoffier organizza le sue cucine in cinque

partite interdipendenti, ognuna responsabile per una specifica operazione

culinaria. Nella partita del garde-manger si realizzano i piatti freddi e le

preparazioni di base utili per la cucina nel suo complesso; l’area a capo del

l’entremettier è dedicata alle zuppe, alle verdure e ai dessert; il rôtisseur è

responsabile delle cottura degli arrosti, delle grigliate e delle fritture; ci sono

infine le zona dello saucier e quella del pâtisseur.

La nuova suddivisione del lavoro, interpretabile nel senso di un processo di

razionalizzazione del sistema di deleghe, risulta in un’organizzazione molto

più efficiente. Le nuove forme di specializzazione, connesse all’attivazione di

un regime di comunicazioni fra le aree della cucina, risultano infatti in una

notevole riduzione dei tempi necessari per la preparazione dei piatti. Per

mezzo di questa riorganizzazione degli spazi, si riesce a semplificare il lavoro

dello staff nonché a rendere il servizio molto più rapido, permettendo di

soddisfare le mutate esigenze della clientela, presumibilmente desiderosa di

ricevere prontamente la cena specialmente al ritorno dal teatro.

In risposta ai cambiamenti verificatisi negli stili di vita e nel modo di

approcciarsi al ristorante, nel corso della generazione di Escoffier vengono

messo in crisi anche i codici estetici promotori dello sfarzo decorativo in

tavola. Già Philéas Gilbert, cuoco rinomato e gastronomo di fama, in un

articolo del 1899 s’interroga sull’utilità degli zoccoli, i piedistalli finemente

istoriati portati in auge da Doubois in un’ottica puramente scenografica di

messa in risalto delle opere culinarie. In essi il cuoco soddisfa il proprio

orgoglio di provare la propria abilità artistica, risultato di anni di studio ed

esperienze, senza che poi il pubblico da profano gli riconosca il suo valore.

Come sostiene con maggior vigore Prosper Montagné, futuro autore della

Larousse gastronomique, questi pomposi lavori artistici in materiali non

commestibili possono essere eseguiti anche da persone estranee alla

professione di cuoco, non consentendo di provare la maestria culinaria degli

autori. Sebbene nelle esposizioni culinarie sia ammesso ricorrere allo sfoggio

di opere monumentali, per il contesto ristorativo è preferibile per lo chef

dedicarsi a decorazioni più semplici e adoperando ingredienti commestibili

riconoscibili come tali, quali verdure intagliate, crostacei o gelatina dai colori

non contraffatti.

Lo stesso Escoffier mette sotto accusa la fatiscenza ornamentale a cui si è

giunti seguendo i proclami di Carême e dei suoi seguaci. Critica gli

allestimenti troppo complessi e sontuosi, i quali richiedono troppo tempo per

l’esecuzione e fanno sì che gli alimenti inclusi nell’opera manipolatoria si

raffreddino. Per rispondere alle mutate esigenze organizzative dei ristoranti,

dove si ambisce a conciliare i ritmi di lavoro con quelli sempre più rapidi della

vita quotidiana, è necessario semplificare la fase di preparazione dei piatti

eliminando gli ornamenti superflui. Promovendo un nuovo ideale estetico di

continenza decorativa, sopprime l’uso degli zoccoli, degli hâtelets e delle

costruzioni di modello architettonico. Come sottolineano Marchesi e

Vercelloni, in realtà però i suoi proclami teorici di sobrietà non sono

pienamente rispettati nella pratica, manifestando una certa ambiguità.

Escoffier infatti sfoggia grande maestria nella costruzione di sculture di

ghiaccio e promuove l’arte ornamentale di sfondo floreale, pubblicando una

rubrica sull’imitazione dei fiori in cera. Se nella razionalizzazione del lavoro

in cucina così come in altri ambiti Escoffier si rivela un autentico innovatore, a

livello della presentazione “lascia invece un messaggio contraddittorio,

decretando l’obsolescenza di una tradizione decorativa di cui si propone nel

contempo come l’ultimo rappresentante” (Marchesi, Vercelloni, 1992, p.90).

Le sue soluzioni estetiche pur alleggerendo il lavoro di preparazione e

allestimento risultano scenograficamente non nettamente discernibili dal

passato, risultando in uno stile d’imbandigione molto elaborato.

In ambito più propriamente gastronomico, Escoffier interpreta un ruolo

decisamente più considerevole e di notevole influenza per le generazioni di

chef successive. In primo luogo, egli ha un importante ruolo di codificatore e

innovatore dell’ambito delle salse. A livello concettuale, sottolinea la necessità

di concepire salse e condimenti non come camuffamento o copertura dei cibi a

cui si accompagnano bensì quale presenza discreta, in funzione di esaltazione

dei loro gusti naturali. Sebbene nella Guide culinarie vengano esaltati i fonds

de cuisine come la base della cucina professionale francese, e siano elencati

quasi duecento salse diverse, Escoffier critica l’impiego massiccio della

espagnole, la béchamel, e la velouté. Al posto di queste salse che hanno il

difetto di rendere ogni pietanza simile nel gusto, Escoffier promuove la

diffusione di fondi meno omogeneizzanti, derivati dalla cottura dei cibi. Il

grande chef recupera il principio di François Massialot (che ha tardato ad

imporsi), in base al quale nella scelta delle salse occorre rispettare la natura del

prodotto a cui si accompagnano. Seguendo questi dettami un pezzo di

cacciagione va ad esempio servito con una salsa preparata con un fondo di

cacciagione, così come il pesce non va associato ad una salsa neutra bensì ad

un fumetto di pesce (Escoffier, 1907).

Proseguendo su questa linea Escoffier moltiplica il numero delle salse di

base: registra ad esempio una vellutata di vitello, una vellutata di pollo, una

vellutata di pesce etc. Il processo di crescita del numero delle salse con

Escoffier viene accelerato, ed aumentata la complessità del sistema per mezzo

dell’introduzione di numerosi livelli di articolazione.

Oltre a riorganizzare il sistema delle salse, Escoffier è responsabile

dell’invenzione e della codificazione di innumerevoli piatti e preparazioni

culinarie. In un mercato altamente competitivo per gli chef e i ristoranti d’alta

cucina, Escoffier tenta di incontrare le richieste di una clientela alla ricerca di

sensazioni sempre diverse per il suo palato. Per la creazione di nuovi piatti trae

ispirazione da svariate fonti. In primo luogo, studia sistematicamente le opere

di autori precedenti come Carême, Dubois, Bernard, ma anche dal Viander di

Guillaume Tirel detto il Taillevent, ed infatti in molti piatti sono riconoscibili

le origini in ricette del passato.

Secondariamente, rivede e trasforma alcune pietanze della tradizione

contadina in piatti d’alta cucina mediante la sostituzione di ingredienti di umili

con altri più nobili. Un’ampia gamma di opere culinarie codificate nella Guide

culinarie non risultano essere derivate da piatti già conosciuti, bensì vanno

ritenute assolutamente originali, frutto dell’ingegno creativo di Escoffier.

Tutti questi piatti (fra cui ad esempio le crêpes suzette) non passano però

alla storia con il nome del loro autore, bensì entrano a far parte di un corpus di

ricette trattate come anonime, liberamente riprodotte all’infinito nelle cucine

professionali o meno. Esse diventano quindi di dominio pubblico senza che

Escoffier possa protestare per il plagio.

L’opera codificata da Escoffier diviene una bibbia per i professionisti della

cucina, stabilendo una nuova ortodossia in vigore per più di mezzo secolo.

Così come frequentemente accade nell’ambito religioso nel passaggio di un

messaggio fra un profeta e i suoi seguaci, spesso coloro che seguono i suoi

principi lo fanno ciecamente, e con risultati che spesso sfiorano la mediocrità.

In un processo di routinizzazione del carisma, all’interno di alberghi

internazionali e ristoranti nessuno mette in dubbio l’uso preponderante delle

salse espagnole e béchamel che Escoffier ha messo in discussione. E’ proprio

contro queste forme di sclerotizzazione del gusto che si battono i fondatori di

quel fondamentale movimento culinario che ha costruito le basi del terzo

paradigma culinario: la nouvelle cuisine.

4. La parentesi italiana della cucina futurista.

Mentre a livello internazionale dominano ancora i canoni culinari ed

estetici dettati da Escoffier, in Italia sorge in un ambito estraneo al circolo dei

professionisti della cucina un movimento che proclama intenti rivoluzionari

nei confronti del sistema culinario dominante.

La centralità della dimensione estetica della cucina a cui abbiamo assistito

in particolare nel corso della grande cuisine non solo ritorna in auge ma

diviene soverchiante nel manifesto della Cucina Futurista, proclamato nel

1930 alla radio da un tavolo del ristorante milanese Penna d’Oca e giunto alle

stampe due anni dopo, per mano di Filippo Marinetti e Tommaso Fillìa (1932).

In un assemblaggio di dichiarazioni ideologiche e programmatiche, stralci

polemici, descrizioni di banchetti e ricette, riproducendo lo stile per cui erano

noti, questi autori esportano i principi dell’arte futurista al mondo culinario. I

loro intenti sono di portata rivoluzionaria e nelle loro auliche parole dettate

dallo “scopo alto, nobile e utile a tutti di modificare radicalmente

l’alimentazione della nostra razza, fortificandola, dinamizzandola e

spiritualizzandola con nuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza e

la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione

e il costo” (Marinetti, Fillìa, 1932, p.5). Occorre escludere il plagio ed esigere

l’originalità creativa, rifiutando in blocco in quanto “passatista” sistema e

codici gastronomici allora in uso. Della vecchia cucina non rimarrà in piedi

niente, proclama Fillìa, “appena le vecchie casseruole. E’ finito il tempo delle

pietanze dell’Artusi” (ivi, p.89).

Il Corpo Futurista raffigurato nell’immaginario come una macchina agile e

scattante deve relazionarsi al cibo secondo un approccio attivo, attento e

ricettivo verso l’esperienza estetica della degustazione. Come scrive Marinetti,

la cucina deve essere liberata dalle antiche ossessioni del peso e del volume

dei pasti, dettate da animali istinti famelici. Solo disancorando l’attività

culinaria da quella nutritiva, è possibile vivere il momento conviviale-

degustativo nel senso artistico più puro. Al fine di rispondere alle necessità

biologiche e consentire questa sublimazione, i futuristi affidano alla chimica il

compito di inventare il modo per “dare presto al corpo le calorie necessarie

mediante equivalenti nutritivi (gratuiti di Stato) in polvere o pillole”,

garantendo oltretutto “un reale ribasso del prezzo della vita e dei salari, con

relativa riduzione delle ore di lavoro” (ivi, p.97).

In attesa di evoluzioni scientifiche della scienza, i futuristi si adoperano a

ricusare i piatti della tradizione, lanciando i propri strali più polemici

nientemeno che contro la pasta, definita “assurda religione gastronomica

italiana”. Come motivano i due esponenti futuristi, nonostante possa apparire

gradevole al palato, la pastasciutta è un cibo obsoleto, “crudamente

materialista” e rozzo (ivi). Un bel piatto ricolmo di spaghetti è agli occhi dei

futuristi irrimediabilmente sgraziato ed inestetico. L’appesantimento allo

stomaco che si prova nella sua assimilazione ha inoltre come effetti collaterali

l’induzione di una riprovevole indolenza dello spirito; “fiacchezza,

pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo” (ivi, p.29). Al fine di liberarsi

dalla dittatura dello stomaco si prescrivono pasti leggeri strutturati in unità

degustative minime in cui l’ingestione del cibo doveva essere ritardata e

preferibilmente evitata.

Per concretizzare i loro intenti programmatici si organizzano una serie di

pranzi dove vengono presentate al pubblico le nuove vivande create dagli

“areopoeti” e “aeropittori” futuristi in uno scenario che le rende più simili a

happening teatrali che ad amabili cene conviviali. In questi eventi dove ogni

dettaglio è studiato per sorprendere gli invitati, vengono sollecitati con

originali espedienti tutti e cinque i sensi, relegando il gusto ad una delle tante

dimensioni da esplorare.

Allo sconcertato commensale vengono presentate una serie di “complessi

plastici saporiti” dai nomi fantasiosi15, aspetto inusuale e composizione

improbabile, accompagnandoli da intense stimolazioni degli altri canali

sensoriali. Spesso si allestisce un’ambientazione particolare come

nell’Aerobanchetto, in cui le tavole sono disposte in modo da simulare la

configurazione di un veivolo, integrate con una vera elica fortunatamente

ferma, coperte da fogli d’alluminio al posto delle solite tovaglie, ed addobbate

con panini a forma di monoplano. Nel salone immerso in una diafana luce

azzurra camerieri dal colletto di celluloide servono “rombi d’ascesa” (in realtà

una sorta di risotto al sugo d’arancia) e versano nei bicchieri “il carburante

15 Dall’“antipasto intuitivo” al “pollo d’acciaio”, dal “carneplastico” al “diavolo in tonica

nera”, dall’ “ortocubo” al “senato della digestione”. Cfr. Marinetti, Fillìa (1932).

nazionale” (vino comune) da alcune latte di olio extradenso, mentre si ode

dalla sala accanto il rumore di un motore scoppiettante16.

Ogni banchetto è comunque una storia a sé. A seconda delle occasioni, il

pranzo può essere accompagnato a livello sonoro da una lettura di poesie

intervallata da interventi strumentali, ovvero da mere sonorità d’atmosfera

alternate a silenzi studiati ove si possono percepire i rumori delle mascelle dei

commensali impegnati nella masticazione. Per eccitare l’olfatto nell’attesa di

una pietanza talvolta vengono inoltre spruzzati in prossimità dei commensali

dei profumi che vengono poi aspirati per mezzo di appositi ventilatori

nell’intercalare delle portate, al fine di ripristinare ogni volta la “verginità

gustativa”. La stimolazione della percezione tattile viene attuata eliminando le

posate qualora la portata possieda particolare qualità “pre-labiali”, nonché

offrendo ai commensali placchette rivestite di materiali diversi da accarezzare

con una mano mentre con l’altra si porta il cibo alla bocca. Alla dimensione

visiva viene attribuito un ruolo di estremo rilievo. Occorre esaltare il colore

naturale degli elementi esplorando le associazioni cromatiche come se si

trattasse di dipingere un quadro. Come ricorda Fortunato Depero, “l’amonia

delle zucche marine, del rosso delle carote, dei gialli zafferani dei risotti, delle

uova, delle frittate, della frutta e dei dolci; tutte le gradazioni di verde delle

insalate offrono possibilità di accordi pittorici svariatissimi” (Depero, 1933,

p.1). La composizione formale è anch’essa estremamente curata, e indice

dell’abilità e professionalità del cuoco è la capacità di “concepire per ogni

vivanda un’architettura originale”, preferibilmente personalizzata per ogni

commensale. Di fronte a questi complessi plastici saporiti frutto di uno studio

accurato dell’armonia cromatica e formale, il commensale deve avere “la

sensazione di mangiare, oltre che buoni cibi, anche delle opere d’arte”

(Marinetti, Fillìa, 1932, p.193)

L’aspetto gustativo in rapporto agli altri sensi viene quindi ridimensionato

e in alcune occasioni viene perfino annullato: si raggiunge l’eccesso in cui le

portate vengono fatte ammirare, annusare e toccare dai commensali per essere

poi portate via lasciandoli a bocca asciutta. Sull’appetibilità di alcuni piatti

futuristi in ogni caso ci sarebbe molto da dubitare, e le testimonianze ci

16 Per il quale Marinetti offriva una motivazione a suo avviso razionale: “ – Osservate

come il rumore dei motori favorisca e nutra lo stomaco…E’ una specie di massaggio dell’appetito…” (ivi, p.133).

riportano episodi di commensali alquanto restii ad assaggiare ad esempio le

“elettricità atmosferiche candite”, cibarie dalla “forma di coloratissime

saponette di finto marmo, contenenti al loro interno una pasta dolciastra

formata con ingredienti che solo sarebbe possibile precisare con una paziente

analisi chimica” (ivi, p.128). Anche leggendo la ricetta di piatti la cui

composizione è nota, non siamo maggiormente rassicurati. Un esempio fra

tutti potrebbe essere il piatto definito da Fillìa la “porroniana” e da Marinetti

“porco eccitato”: un normale salame cotto viene presentato immerso in una

soluzione concentrata di caffè espresso, e condito con Acqua di Colonia.

Le pietanze futuriste hanno l’imperdonabile difetto di trascurare il

principio dell’armonia dei sapori, così come nei suoi proclami paiono essere

completamente estranei i dettami del gusto. Né i suoi poco credibili piatti né i

suoi improbabili intenti di abolire la pastasciutta incontrano i favori del

pubblico generale e dei professionisti della cucina. Leggiamo di

manifestazioni popolari di piazza e raccolte di firme a favore del piatto

nazionale, articoli polemici e satirici sulla stampa contro Marinetti e soci,

nonché opposizioni ufficiale dell’Accademia Gastronomica Italiana nei

confronti dei cuochi futuristi. Certo non manca una schiera di sostenitori fra

cui alcuni ristoratori disposti ad ospitare le loro cene-evento ma l’appoggio è

numericamente limitato e la realizzazione di questi esperimenti risulta ben

presto inadeguata, portando ben presto al suo definitivo abbandono. La

presunta rivoluzione culinaria risulta perciò in un tentativo abortito dei

futuristi di intervenire in un campo regolato da una logica complessa di cui

hanno scordato l’elemento portante, ovvero l’armonia dei sapori, di cui non

sono padroni.

5. La nouvelle cuisine.

La nouvelle cuisine è un movimento, sviluppatosi in Francia negli anni

Sessanta e Settanta, che ha innovato profondamente il sistema culinario,

rompendo con le tradizioni del passato, liberando gli chef dai vecchi

paradigmi “sino a configurarsi come la koinè dell’alta cucina” ancora in voga

(Marchesi, Vercelloni, 1992, p.151).

Il termine non è originale, storicamente era stato adoperato già nei secoli

precedenti, nel 1740 per la nuova cucina di La Chapelle, Marin e Meron e

occasionalmente nel diciannovesimo secolo per l’opera della generazione di

Escoffier. Questa denominazione viene ripresa poi negli anni Sessanta dai

critici gastronomici Henry Gault e Christian Millau per descrivere lo stile

innovativo di chef quali Paul Bocuse, Jean e Pierre Troisgros, Michel Guérard,

Roger Vergé e Raymond Oliver. Nei memoriali di storia della cucina si ricorda

l’evento accidentale che ha portato i due giornalisti a scoprire la formula

rivelatrice della rivoluzione in atto. Dopo un pranzo consumato in grande stile

da Bocuse, la coppia di critici si ripresenta la stessa sera al ristorante,

ordinando una cenetta leggera. Lo chef prendendoli alla lettera serve loro una

comune insalata di fagiolini al burro e delle triglie di scoglio rosate sulla lisca,

due piatti dalla semplicità disarmante che al primo assaggio suscitano

meravigliato stupore al palato di Gault e Millau. Dietro alla sobrietà della

preparazione si rivela infatti un’assoluta padronanza delle tecniche nonché il

piacere del sapore naturale dei prodotti. Sorpreso dall’entusiasmo manifestato

dai due critici, Bocuse li invita a far visita ai fratelli Troisgros, presso i quali

potranno fare l’esperienza di una cucina votata ad una semplicità essenziale

dissociata da approssimazione e trascuratezza. Nei loro piatti si esprime una

perfezione tecnica prestata ad una cucina scevra dalle pomposità della cucina

borghese tradizionale. Il loro stile risponde al celebre aforisma di Curnonsky

secondo il quale “la vera cucina è quella in cui le cose hanno il gusto di ciò

che sono” (Marchesi, Vercelloni 1992, p.144).

Gault e Millau fanno ben presto conoscere al grande pubblico la rivoluzione

in atto trasformando questa tendenza in una vera e propria moda, che viene

esportata all’estero e riprodotta con alcuni eccessi in Europa e oltreoceano.

Bocuse in seguito polemizzerà aspramente con i due critici, sostenendo che la

nouvelle cuisine è da ritenersi soltanto un’invenzione giornalistica della quale

essi sono responsabili. Questa sua opinione non è però quella più diffusa e

viene riconosciuto pressoché unanimemente il ruolo di rottura interpretato

storicamente da questa corrente. Innanzitutto la nouvelle cuisine ha liberato i

cuochi dai comandamenti enunciati da Escoffier17, facendo comprendere che

era inutile continuare a riproporre e riprodurre all’infinito i piatti codificati

dalla Guide Culinarie senza dar spazio alla creatività individuale. I punti

caratterizzanti questo movimento che ne determineranno il suo successo sono

17 Questo punto viene sottolineato da Pierre Troisgros e confermato da Miguel Guérard in un’intervista rilasciata a Laura Mantovano (1999) per «Gambero Rosso».

però molto più numerosi, Gault e Millau ne contano e delineano dieci, che qui

approfondiremo ma senza seguire pedissequamente l’enumerazione prevista18.

L’elemento più distintivo del nuovo stile culinario è il rifiuto della

complicazione non necessaria in cucina, dell’elaborazione eccessiva dei

prodotti naturali attraverso processi di trasformazione lunghi e artificiosi.

Andando contro abitudini e tabù consolidati, si sostiene la necessità di ridurre i

tempi di cottura per pesci, molluschi e vegetali verdi al fine di conservare i

succhi e le proprietà nutritive degli stessi, rivelando sapori dimenticati e

riscoprendo il gusto naturale di questi alimenti.

La nouvelle cuisine propaganda una “cucina di mercato”, come richiamato

anche nel titolo originale di un libro di Bocuse (1976): La cuisine du marché.

La cucina viene concepita come l’incontro dello chef con il prodotto, e il suo

intervento deve essere improntato alla massima discrezione, nel senso di

naturalezza. Il cuoco assolve quindi ad una funzione maieutica, ovvero portare

alla luce l’autenticità del prodotto, la sua pura essenza. Si sottolinea

l’importanza della qualità degli ingredienti, che devono essere quelli più

freschi disponibili al momento sul mercato, raccolti o acquistati in giornata e

nel rispetto della stagionalità. Si preferisce eliminare gli ingredienti di qualità

inferiore piuttosto che mascherarli per mezzo di salse aggressive.

In questo periodo vengono riscoperti ingredienti umili e dimenticati, come

varie erbe odorose o anche verdure d’uso corrente come cavoli e porri.

All’improvviso prodotti accettati solo nella cucina spontanea acquisiscono la

stessa dignità di tartufi e foie gras, facendo entrata nelle tavole dell’alta

ristorazione.

Recuperando il legame perso con il territorio, gli chef del nuovo corso

promuovono e valorizzano una cucina attenta ai prodotti e alle tradizioni

locali. In un processo di riscoperta della tipicità che esprime nostalgia del

paradiso perduto viene portato avanti un processo di arricchimento e

diversificazione delle risorse da cui attingere per le opere culinarie. Vengono

accolti elementi delle cucine regionali e locali ma con una certa peculiarità:

vengono infatti rielaborate, contaminate e dotate di raziocinio. In questo

processo, viene superato il gap che rende lontani e incompatibili la cucina dei

grandi ristoranti e la cucina popolare.

18 Per una descrizione fedele all’elenco dei due critici, cfr. Mennell (1985, p.163).

Come ricordano Marchesi e Vercelloni, l’alta cucina si distingue dalla

cucina rustica su una base squisitamente culturale. Mentre la prima

razionalizza la prassi all’interno di una teoria, la seconda si fonda su un sapere

rudimentale e limitato nelle sue possibilità di applicazione in quanto non riesce

a diventare ‘pensante’, essendo vincolata a gestualità rituale e memoria

sensoriale (Marchesi, Vercelloni 1992). La nouvelle cuisine stimola e

incoraggia lo sviluppo di cucine colte di ispirazione locali, nonché la

rivisitazione di piatti tradizionali con una mentalità rinnovata ed aperta a

suggestioni esterne. Nella ricerca di soluzioni sempre nuove, gli ingredienti

popolari e locali vengono infatti interpolati con prodotti esotici disponibili sul

mercato nonché con le tecniche più innovative.

Liberati dalle costrizioni dei codici culinari esistenti, gli chef vanno infatti

alla ricerca di sempre nuove forme di innovazione culinaria, sperimentando

inusuali combinazioni seguendo l’ispirazione individuale del creatore. La

ricerca di personalizzazione nell’opera culinaria e di riscoperta di una natura

autentica è espressione di una tendenza culturale d’opposizione in atto nel

periodo storico di riferimento. Negli anni Settanta infatti con l’esplosione del

conflitto petrolifero e la manifestazione delle prime fratture del mito della

crescita economica si comincia a mettere in discussione gli sviluppi

dell’industrializzazione. Nel settore alimentare l’opinione pubblica inizia a

criticare i prodotti agroalimentari industriali, fonte di semplificazione e di

aiuto del lavoro domestico a partire dal ventennio, ma anche di

standardizzazione dei sapori e di artificiosità dei programmi culinari19. Il

movimento della nouvelle cuisine attraverso il suo richiamo ad un ritorno al

naturale si ribella alla meccanizzazione dei processi. In alternativa alla vecchia

opposizione categoriale:

alta gastronomia vs alimentazione rurale

viene promossa una nuova dicotomia:

alta gastronomia &

gastronomia rustica

vs

alimentazione

industrializzata

19 Per una storia dell’evoluzione tecnica in cucina focalizzata sulla nostra nazione e degli

effetti nell’ambito domestico, cfr. Alberto Capatti, Massimo Montanari (1999).

Se prendiamo in considerazione le condizioni storiche di quegli anni,

posiamo rilevare l’affermarsi del tabù del lusso irrazionale e l’emergere di un

modello estetico della magrezza, nuova qualità di distinzione in una società

dell’abbondanza. E’ finito il tempo in cui l’appetito sveglio è segnale di buona

salute e la pancia tonda il sintomo di benessere e prestigio sociali (Capatti,

Montanari, 1999, cap.IX).

Negli anni Sessanta si valorizzano le silhouette filiformi e vengono

divulgati a livello popolare i principi della dietetica, razionalizzati e

medicalizzati. Inizialmente ciò conduce alla negazione dei valori gastronomici

attraverso il riconoscimento di una dissonanza fra buono e sano, nonché, come

sottolineano Edmond Neirinck, Jean-Pierre Poulain (1988), con il prendere

piede di scelte votate all’“ascetismo alimentare”.

Nel decennio successivo però anche gli chef portano avanti la loro

rivoluzione e introducono nuovi valori gastronomici, adeguati al cambiamento

dei tempi. Rispondendo al culto del corpo magro, si promuove una cucina

improntata sulla leggerezza e sulla delicatezza. Uno dei principali esponenti

della nouvelle cuisine, Michel Guérard (1976), pubblica La grande cuisine

minceur, volume di ricette in cui anche nel nome si pone enfasi sul rispetto dei

principi della dietetica. Viene così discolpevolizzata la gola, evocando un

possibile matrimonio fra gusto e linea.

In questa direzione vanno le modifiche del concetto di salsa sia in senso

quantitativo che qualitativo. Nella prima accezione, le salse non hanno più una

funzione dominante e non vengono più usate per coprire totalmente la

pietanza, bensì utilizzate in senso accessorio macchiando appena il piatto in

un’alternanza di spazi pieni e vuoti. Nel secondo, si cerca di alleggerire le

salse, e la regola più comunemente usata con questo intento è la soppressione

della farina per addensare. Salse classiche come la besciamella e la spagnola

scompaiono dai ricettari e l’utilizzo del roux20 viene demonizzato. Guérard

propone di adoperare in funzione di legante prodotti lattei poveri di grassi

(come yogurt o formaggi magrissimi) o anche puree di verdure, amalgamate

per mezzo di sbattitori a gran velocità. Nella maggioranza dei casi però, come

sostiene Joël Robuchon, queste salse moderne sono costituite da un fondo

20 Ovvero di un composto di burro e farina.

ridotto nel quale viene incorporata una materia grassa, burro o crema, che si

sbatte fino ad ottenere un’emulsione.

Diversamente dagli intingoli in voga nel diciannovesimo secolo, risultanti

da cotture molto lunghe, le salse elaborate dai rappresentanti della nouvelle

cuisine non passano lo stesso tempo sul fuoco. Secondo quanto sostiene

Robuchon (Neirinck, Poulain, 1988), i fondi per esprimersi al meglio devono

macerare per la giusta durata e non in eccesso come in uso in passato, così

come le tisane che per essere buone vanno lasciate in infusione il tempo

necessario. Grazie agli strumenti tecnologici che appaiono sul mercato in

quegli anni, come i mixer o le piastre di cottura, è possibile modificare i

processi per la produzione dei fondi, consentendo di “snellire radicalmente le

salse”21.

Sulla presunta leggerezza di queste nuove salse si esprimono in ogni caso

oggi molti dubbi, manifestati dagli stessi sostenitori del nuovo corso. L’alta

quantità di burro utilizzata non li rende certamente prodotti ipocalorici, e

occorre ricordare che un legame con burro soltanto piuttosto che con farina o

con un roux apporta molte più calorie. Secondo quanto sostenuto in Histoire

de la cuisine et des cuisiniers (Neirinck, Poulain, 1988), la nozione di

leggerezza evocata dagli chef e dai gastronomi del tempo non è dovuta

primariamente a principi di dietetica bensì anche e soprattutto da una

sensazione gustativa. Mentre infatti le salse legate con la farina si piegano alla

lingua, le salse emulsionate con il burro o altri grassi rilasciano un bouquet

aromatico.

Sulla base degli stessi criteri che hanno ispirato le evoluzioni nell’ambito

delle salse, diventano di moda in questo periodo le mousse, un prodotto

culinario riscoperto grazie all’apparizione di nuovi strumenti nonché in

risposta ai nuovi canoni gustativi. Lo sbattitore in primo luogo semplifica e

perfeziona le operazioni di incorporazione, omogeneizzazione e montatura

delle componenti. La sua particolare consistenza e la sua composizione la

rendono inoltre un prodotto capace di apportare una sensazione di soavità e

delicatezza, in accordo con i proclami in difesa della leggerezza. Le mousse, in

precedenza poco valorizzate perché considerate scipite e prive di un’identità

precisa, riacquistano la loro dignità sulle tavole dell’alta ristorazione. Come

21 Così sostiene Miguel Guérard. Cfr. Mantovano (1999).

vedremo in un’altra sezione, il concetto di mousse elaborato ed evoluto grazie

anche a tecniche più moderne, superata una nuova fase di denigrazione è

ripreso attualmente da uno dei grandi chef oggetto di questa trattazione22,

costituendo un campo fertile per le sue sorprendenti creazioni culinarie.

Se volessimo porre a confronto i valori semantici affermati dalla cucina

classica e dalla nouvelle cuisine, potremmo ricorrere al quadrato semiotico e

posizionare le due prospettive culinarie rispettivamente in prossimità ad un

polo gustativo del sapore pieno e robusto e ad uno del leggero e delicato.

Nel caso della nouvelle cuisine si nega e considera anti-gastronomico ciò

che non è leggero, non è delicato. Viene quindi rifiutato dalla tavola ciò che è

ritenuto troppo forte, grasso, grossolano. La cucina classica invece predilige i

sapori più pieni e decisi, mentre lancia i suoi strali verso la cucina priva di

carattere, dai sapori troppo tenui e dalla labile consistenza.

Sulla base dello schema proposto Neirinck e Poulain (1988, p.127 della

trad. spag.) da me rivisto e adattato, potremmo collocare anche un asse degli

elementi naturali, che associa il polo della leggerezza all’elemento aria e il suo

opposto alla terra.

22 Ovvero da Ferran Adrià, come si vedrà nel capitolo dedicato al sifone e alle spume.

La leggerezza e la delicatezza delle moderne opere culinarie viene riflessa

anche nelle modalità di composizione del piatto, nelle dosi e nella struttura

formale. Ogni elemento secondo una logica di giustapposizione dei sapori

viene introdotto in dosi misurate e spesso centellinato, lasciato così interagire

con le altre componenti ognuna risultante da un particolare trattamento

culinario. I vari elementi portanti sono posti all’ultimo momento su un piatto

appena macchiato da un velo di salsa in forma di emulsione, lontana dagli

intingoli del passato che coprono interamente la pietanza centrale sovrastando

i loro sapori. Il gusto non è quindi basato su una logica di intensificazione dei

sapori, che caratterizzano le componenti intervenute nel processo di

manipolazione culinaria, bensì è strutturato sulla base di unità discrete,

ricostruibili in una sensazione gustativa definitiva solo nella bocca del

commensale.

Questo stile culinario è ben rappresentato da un piatto del nuovo corso, la

revisione della classica ratatouille sperimentata da Roger Vergé, in cui ad ogni

verdura tradizionalmente raggruppata in un unico insieme, nella nuova

versione viene associata una propria cottura, realizzata separatamente. In

questo modo la naturale consistenza e il gusto di ogni singola verdura giunge

distinto al palato, producendo un gioco di alternanza di valori tattili e gustativi.

Si afferma a partire dalla nouvelle cuisine uno stile di cucina

dell’istantaneità, non nel senso della rapidità frutto di approssimazione o di

uso di prodotti pre-cotti come nel fast-food, bensì nel senso della velocità delle

cotture, della loro cronometrizzazione e del perfetto sincronismo necessario

per il servizio. Viene attuata una dissociazione delle cotture dei vari

componenti che vanno poi riunite solo alla fine nel momento del montaggio

del piatto. La presentazione è necessariamente immediata e spontanea,

evitando qualsiasi artificio eccessivo e rendendo apertamente riconoscibile la

vera natura degli elementi, esprimendo il nuovo valore della sincerità

(Marchesi, Vercelloni, 1992). Viene sancito da questo momento il principio

della commestibilità integrale: scompaiono dalla composizione tutte le

decorazioni gratuite e gli scarti (come lische o pelle), portando a realizzazione

una “nuova cosmesi culinaria” (ivi, p.148). Le varie componenti vengono

accuratamente smembrate, tagliate e spezzettate a misura di boccone per opera

del cuoco, in modo da soddisfare inoltre ad esigenze di tipo pratico-

funzionale: si risparmiano infatti al commensale le tradizionali operazioni di

pulizia preliminari alla degustazione. In questo modo la distanza fra il cibo e il

suo destinatario viene abbreviata, in quanto non viene richiesto al cliente un

intervento attivo per dar via all’assaggio.

Con la nouvelle cuisine si afferma e diventa preponderante il servizio al

piatto, che riflette un nuovo modo di vivere l’esperienza al ristorante. Ogni

piatto viene singolarmente montato e decorato con minuziosa cura,

dimostrando così di riservare un’attenzione personale al cliente già

dall’interno delle cucine ovvero a partire dal momento di produzione del

piatto. Come sottolineano Marchesi e Vercelloni (1992), questa modalità di

servizio marca l’ascensione all’individualismo. Il commensale si libera dagli

obblighi gastronomici sociali ed è legittimato a soddisfare il proprio personale

piacere della gola. In accordo con le nuove modalità di fruizione, la

disposizione del cibo nel piatto è “concepita per essere osservata in pianta, in

una posa scopertamente fotogenica” (ivi, p.147), ovvero a beneficio del

singolo cliente che lo ha ordinato. La porzionatura curata e misurata, la

rarefazione del cibo nel piatto con la presenza di spazi vuoti possono risultare

attraverso l’adozione di schemi preordinati (ad es. la disposizione ad orologio)

o secondo l’ispirazione dello chef in una configurazione attraente secondo i

nuovi canoni estetici. Riflettendo il nuovo contesto storico ed ideologico,

vengono abbandonati gli allestimenti sontuosi dei vassoi stipati di cibo che

valorizzavano l’abbondanza dell’imbandigione, prediligendo invece la

miniaturizzazione delle porzioni e la composizione degli elementi in

un’armonica disposizione caratterizzata da nitore formale. Cade

definitivamente in disuso nell’ambiente ristorativo il rito di spartizione del

cibo, con una conseguente trasformazione del momento di assunzione del

cibo in una pratica voluttuaria dalla valenza estetica e a destinazione

principalmente individuale.

Alla medesima tendenza di privatizzazione del piacere va ricondotto

l’utilizzo frequente della campana argentata, un’invenzione escogitata da

Guérard con una funzionalità pratica di mantenere in caldo più a lungo la

pietanza ma soprattutto con una valenza coreografica nonché di fascinazione

per il commensale. Nel primo senso, l’operazione di sollevamento della

campana “riesuma in forma stilizzata il gesto familiare di scoperchiare la

pentola in tavola per farne sprigionare i profumi” (Marchesi, Vercelloni, 1992,

p.148). In secondo luogo, questa configurazione può contribuire ad accrescere

la desiderabilità del piatto nascosto facendo uso dello sperimentato

meccanismo di seduzione mediante il celare. La visione della copertura

argentea che richiama lo sguardo del commensale nei momenti precedenti

l’arrivo del piatto in tavola alimenta l’attesa per la fruizione. La scopertura

prende le forme di una rivelazione privata, svelando il contenuto in tutto il suo

splendore formale percepibile in massimo grado solo al destinatario.

Gli esponenti della nouvelle cuisine introducono delle innovazioni anche al

livello dell’organizzazione del ristorante, per quanto riguarda la struttura

proprietaria, la locazione e l’organizzazione del lavoro. Gli chef sono spesso

proprietari dei loro ristoranti, imprimono con il loro stile culinario un’identità

precisa all’attività e le loro creazioni culinarie oltre all’abilità tecnica

contribuiscono alla configurazione di un’immagine pubblica. Possono quindi

garantirsi gli onori a premio del loro genio creativo, ma devono anche rendere

conto di un’eventuale impressione negative della stampa, nonché diventano

responsabili del buon andamento economico dell’impresa.

In alternativa ai grandi ristoranti cittadini dell’età di Escoffier, i quali si

appoggiavano spesso a strutture alberghiere per poter sostenere i complessi

processi organizzativi previsti, si costruiscono piccoli locali in provincia

adibiti meramente e specificatamente all’attività ristorativa. I menù non

ripetono più i classici della tradizione bensì includono solamente le creazioni

dello chef-patron. La cucina proposta non è quindi un modello immutabile e

liberamente esportabile, bensì è assolutamente personalizzata e correlata con

la localizzazione del ristorante. Lo chef infatti fa uso dai prodotti freschi che la

natura gli offre, usufruendo dei prodotti tipici del suo territorio o di altri di

diversa provenienza che il mercato rende disponibili in quel dato periodo. La

collezione dei piatti creati dallo chef va a costituire nel rispetto della

stagionalità e della reperibilità degli ingredienti richiesti un menù molto più

breve rispetto a quelli della cucina classica. La limitatezza delle scelte è

comunque garanzia di una maggiore cura nell’esecuzione di ogni singolo

piatto. La manipolazione culinaria secondo il nuovo stile prevede una minore

artificiosità delle procedure23 e lunghezza delle cotture ma allo stesso tempo

implica un’attenzione maggiore alla qualità dei prodotti e un’esatta definizione

ed esecuzione del trattamento prescelto. Una certa semplificazione dei

processi culinari è resa possibile anche dall’apparizione e dall’adozione in

cucina di una nuova generazione di strumenti di lavoro, comprendenti padelle

antiaderenti, varie tipologie di forni e il frullatore Robocoupe24. Queste

tecniche hanno inoltre il vantaggio di permettere un perfezionamento di certe

preparazioni come le mousse nonché di rendere più leggere le salse.

Le innovazioni apportate dalla nouvelle cuisine sono perciò numerose e i

suoi effetti si faranno sentire molto lontano nel tempo e nello spazio dalle

regioni e dagli anni in cui questo movimento è generato. In poco tempo si

afferma in tutta la Francia e rapidamente attraversa i confini esercitando le sue

influenze sui cuochi europei e facendo ingresso in particolare in Italia con

Gualtiero Marchesi. Il grande chef cerca di applicare i rivoluzionari concetti

culinari ai piatti e alle ricette tradizionali italiane. Pochi anni dopo la nuova

corrente attraversa anche l’Oceano e i continenti, ottenendo un notevole

successo negli Stati Uniti ma non solo, conquistando fra gli altri Giappone ed

Australia e influenzando lo sviluppo delle loro cucine. Sono gli stessi chef

francesi a viaggiare per il mondo, invitati a propagandare la nouvelle cuisine

francese, ad offrire consulenza presso grandi catene alberghiere internazionali

o per l’industria agroalimentare. Come ricordano Neirinck e Poulain (1992,

p.130 della trad. spag.), “i grandi chef francesi promuovono una concezione

della cucina attenta ai patrimoni culinari locali. Questo incontro con altre

culture alimentari avrà due conseguenze”: contribuirà in primo luogo “allo

sviluppo delle cucine colte di ispirazione locali consentendo la nascita delle

nuove cucine del Quebec, giapponese, australiana, californiana, tedesca…”

(ivi, trad. mia), secondariamente, introdurrà nella cucina francese prodotti e

tecniche esotiche.

In alcuni casi c’è chi porta i nuovi principi della libertà inventiva agli

eccessi, proponendo abbinamenti improbabili in piatti come “sardine con

fragole” o “rombo con kiwi”, nonché sperimentando un insieme di scelte

23 Come ricorda Fabio Parasecoli, le nuove ricette non richiedevano necessariamente meno

lavoro rispetto a quelle vecchie, “piuttosto, il ruolo e l’abilità dello chef dovevano palesarsi più chiaramente” (Parasecoli, 2001, trad. mia).

24 L’elemento dell’adozione di novità tecnologiche in cucina è considerato Michel Guérard uno dei punti più rilevanti nella rivoluzione della nouvelle cuisine. Cfr. Mantovano (1999).

tecniche frutto di scarsa perizia. L’espansione dell’inusitato fervore creativo

conduce a risultati frequentemente non certo ineccepibili, in particolare

quando viene adottata da cuochi meno talentuosi dei suoi fondatori. Alcune

invenzioni culinarie degli esordi vengono riproposte oltremisura così che

anche quello che era un movimento di liberazione dai canoni prestabiliti cade

nella routine. Come racconta Bocuse, “nel giro di poco, è scoppiata la moda.

Non ci poteva essere nouvelle cuisine se non c’erano alla carta delle mousse.

Mousse di verdure, di pesce, di crescione, non se ne poteva proprio più!”

(Mantovano, 1999). Molte critiche di pubblico più o meno motivate sono

rivolte inoltre ai cambiamenti introdotti nella misura delle porzioni. Anche

grandi chef come il nostro Gualtiero Marchesi inizia a proporre in questo

periodo piatti dalla quantità decisamente irrisoria. Così ricorda in una

intervista rilasciata a Stefano Bonilli (1999):

Quando ho aperto nel 1977, la cucina italiana non funzionava, o meglio, esisteva soltanto la qualità della massaia della trattoria. Valeva la regola dell’abbuffata. Per far capire che la cucina moderna era un’altra cosa bisognava partire con un effetto choc: ecco allora sette penne e sette asparagi con 20 g di tartufo nero di Norcia, il concetto non era quello di dare la pasta ma di giocare con il piatto bello. Molti facevano fatica a capire ma io già sentivo il bisogno di andare oltre.

L’esiguità delle dosi arriva all’opinione pubblica come la caratteristica

fondamentale della nouvelle cuisine e le porta le maggiori critiche, sebbene

esso ne sia solo un dettaglio secondario e superfluo. Ancora oggi è comune fra

i non addetti ai lavori il giudizio per cui nei locali di questo stile “si mangia

troppo poco e sono cari”. La nouvelle cuisine invece è molto di più e le sue

innovazioni costituiscono le fondamenta dei codici culinari della cucina

creativa contemporanea. Il nuovo ruolo riconosciuto allo chef, la sua capacità

di crearsi un proprio stile, l’importanza della freschezza delle materie prime e

di evitare una manipolazione artificiosa, la distruzione di tabù consolidati

come la lunga cottura di pesci e molluschi: questi e altri elementi fanno della

nouvelle cuisine un movimento rivoluzionario della storia della ristorazione.

6. Gli ultimi anni. La cucina creativa e d’autore.

In pochi anni dall’uscita del celebre articolo di Gault e Millau, parte

rilevante della grande ristorazione europea fa suoi i principi rivoluzionari della

nouvelle cuisine, adottandone soprattutto “la tecnologia e la parure”

(Marchesi, Vercelloni, 1992, p.151).

Da “nuova” questa cucina viene presto ribattezzata come “creativa”,

termine ancor oggi utilizzato per classificare i locali dove non si propongono

pietanze canonizzate bensì piatti nati dalla fantasia dello chef in loco. Come

specificano Marchesi e Vercelloni, la cucina creativa “non è tale perché

contraddistinta da una sequela di invenzioni estemporanee, bensì perché non

prevede più una rigida separazione tra testo ed esecutore” (ivi, pp.153-4).

Essa si differenzia dalla cucina classica principalmente nel differente

rapporto che il cuoco instaura con norme e codici culinari prestabiliti. Nella

vecchia concezione, l’arte culinaria è concepita quale un corpus di ricette

omologate e canonizzate, riconoscibili dal pubblico ed esportate in contesti

differenti. In questo sistema, lo chef deve limitarsi a ripetere all’infinito i testi

codificati nell’Età dell’Oro della gastronomia. Il grande cuoco è quindi

“essenzialmente un grande interprete”, che esibisce il suo talento personale

“nel tocco originale, nella mano ispirata” (Marchesi, 1988, p.43), nell’esito più

o meno felice della propria esecuzione.

Lo chef che fa cucina creativa non attinge più ad un repertorio di ricette

preconfezionato, bensì persegue l’obiettivo di produrre qualcosa di originale,

fatto salvo il possibile riferimento a temi o singoli elementi già sperimentati.

Egli è non perciò più solo un esecutore, bensì un “solista-compositore”, libero

di creare i propri pezzi, riarrangiarli negli anni e adattarli a contesti diversi.

Continuando con l’analogia musicale, Marchesi (1988a) definisce quest’arte

come una “cucina jazz”, in quanto priva di spartito e aperta alle

improvvisazioni e personali reinterpretazioni.

Lo stesso approccio alla gourmandise è altrimenti definibile come “cucina

d’autore”25 perché i suoi piatti non contengono più un modello di libera

riproducibilità e canonizzazione, bensì ogni imitazione è vissuta come un

plagio. Le creazioni culinarie non rimangono più anonime come accaduto con

le ricette originali codificate da Escoffier. Ora, anzi, il piatto d’autore ha un

valore addizionale pari al vestito griffato, e il suo ideatore può godere della

notorietà di uno stilista di moda. Il rispetto della proprietà intellettuale su

ricette e tecniche originali vive in una condizione ambigua. Da un lato,

dovendo adeguarsi all’esposizione mediatica, molti celebrity-chef si prestano

di buon grado a concedere ricette e a svelare alcuni dei loro segreti culinari.

25 Portata ai vertici innanzitutto da grandi chef della transizione post nouvelle cuisine come Joël Robuchon e Jacques Maximin.

Dall’altro, è allo stesso tempo diffusa la tendenza a far valere i diritti sulle

proprie opere dell’ingegno26 registrando le proprie idee, tecniche o

denominazioni originali per proteggerle dall’imitazione ma anche per

sfruttarle economicamente.

Se è sulle fondamenta della nouvelle cuisine che poggia l’evoluzione della

cucina creativa e d’autore dei nostri giorni, non possiamo comunque spiegare

il complesso mondo dell’alta cucina contemporanea quale semplice

prosecuzione di quella di Bocuse e Troisgros. Innanzitutto, è opportuno

ricordare che l’influenza diretta dei principi della nouvelle cuisine si è sentita

in Europa per un periodo limitato, confrontandosi all’esterno della Francia non

con un inesistente apparato d’alta cucina bensì con le tradizioni regionali e

popolari. Inoltre, i cuochi creativi dell’ultima generazione, sebbene

generalmente riconoscano un debito verso il rivoluzionario movimento

francese, non sempre sono cresciuti attorno alla sua orbita e soprattutto hanno

sviluppato un approccio distintivo.

Oggi probabilmente rispetto al periodo della nouvelle cuisine c’è meno

omogeneità ideologica e più dispersione territoriale. Non si porta avanti una

cucina innovativa solo in Francia, bensì anche e in modo rilevante in altri

paesi dentro e fuori dell’Europa. E’ difficile tracciare un quadro dai tratti netti

trattandosi di situazioni ancora in corso, che solo nel futuro potranno acquisire

un senso compiuto e dimostrare se quelle che oggi sono correnti d’avanguardia

potranno costituire una tradizione o un punto di svolta per nuove rivoluzioni.

In ogni caso, è possibile delineare alcune delle tendenze emergenti nella

cucina d’autore più recente.

Oltre alle considerazioni sul ruolo di chef creatore, sono ormai assimilate le

lezioni sul rispetto delle proprietà organolettiche nelle cotture, sulla scelta di

ingredienti che rispettino la stagionalità, sull’apertura alle nuove tecnologie in

cucina. Non c’è però una medesima attenzione verso il principio di semplicità

collocato dalla nouvelle cuisine ai vertici della propria assiologia valoriale. Il

numero degli ingredienti talvolta è molto alto, tanto che Claude Fischler

(1990) parla di una tendenza verso il neobarocco, in contrapposizione al

neoclassico della nouvelle cuisine. Si introducono prodotti esotici prima meno

26 Nell’ambito degli chef che saranno presi in esame troviamo alcuni esempi di rivendicazione dei diritti d’autore: Miguel Sánchez Romera ha brevettato il suo micrì, Ferran Adrià un modello di sifone da lui perfezionato, Moreno Cedroni il marchio “susci”.

conosciuti; in particolare, le spezie e gli aromi sono sempre più numerosi. Si

porta avanti una cucina aperta a “ispirazioni sempre più sincretiche” (Fischler,

1990, p.212 della trad. it.), dove si fonde territorio ed esotismo e le fonti di

ispirazione tendono a moltiplicarsi.

Le note più rilevanti, sebbene più nascoste e sfumate, che a mio parere

convogliano la natura distintiva di questa cucina sono però altre. Innanzitutto,

quelle che potremmo definire le ali di avanguardia portano avanti un discorso

di rottura teso a scardinare i tabù culinari più consolidati, andando oltre alle

rigidità talvolta manifestate dagli stessi esponenti della nouvelle cuisine. Si

cerca l’innovazione pura, che non è semplice revisione o restyling formale

delle vecchie ricette della tradizione, ma creazione di opere culinarie originali,

che offrano al commensale una sensazione estetico-gustativa intensa e nuova,

attivando un dialogo più che con le esperienze coscienti con la memoria

palatale mentale (Sánchez Romera, 2001). L’innovazione si deve basare su

una conoscenza rigorosa da parte dello chef delle proprietà dei cibi e una

padronanza rigorosa delle tecniche che permettano di esaltare le loro proprietà.

Anche la rivoluzione culinaria deve quindi essere credibile ed ogni scelta deve

essere motivabile.

Un aspetto molto importante che distingue gli chef dell’ultima generazione

è la loro volontà di operare l’innovazione lavorando su concetti (Adrià, 1997),

più che sulla creazione di singoli piatti. Con questo termine si intende per

esempio l’idea alla base di pietanze come la paella o la tortilla27, dalla cui

struttura si può partire per inventare infinite variazioni. Questa cucina per

andare avanti riflette su se stessa28, sui suoi codici e le possibilità che le

tecniche offrono per elaborarla. Come si vedrà approfondendo gli approcci dei

tre chef scelti qui come casi, la costruzione del nuovo può prendere diverse

forme, seguire diversi percorsi di creazione. Si può partire ad esempio da un

piatto classico e destrutturarlo lasciando inalterata l’anima ma intervenendo

sulle sue singole componenti, così da sconvolgere quella che è la sua struttura.

Oppure è possibile muoversi in senso induttivo partendo da un prodotto o da

una idea per costruire un piatto mediante l’impiego di una nuova tecnica

27 Riportando gli esempi di Adrià, che evocano la sua nazionalità spagnola. Cfr. Adrià

(1997). 28 A questo proposito, si propone anche la definizione di metacucina. Cfr. Sánchez Romera

(2001).

ovvero una combinazione originale di esse. Ancora, è possibile trasmutare da

un contesto culinario all’altro quello che è un concetto codificato dalla

tradizione. Sulla base di queste considerazioni, si può ragionevolmente

classificare questo approccio alla cucina come intellettuale.

In certi casi, le nuove generazioni valorizzano anche l’elemento dell’umore

in cucina. Non solo, nella dimensione estetica del piatto, si cura l’elemento

cromatico per produrre una sensazione di allegria nel commensale, ma a volte

si vuole divertire giocando ad introdurre in senso funzionale oggetti quotidiani

esterni al mondo culinario, oppure ad attribuire forme inusitate che richiamano

al concetto del piatto più che allo status naturae degli ingredienti. Si manifesta

quindi in questo senso anche una dimensione ludica dell’arte culinaria.

III.

I RISTORANTI IN ESAME: INTRODUZIONE AI CASI.

1. La scelta dei ristoranti.

La scelta dei ristoranti presi in esame non è stata arbitraria né casuale: sono

tutti ristoranti appartenenti al filone della cucina d’autore, fortemente motivati

alla sperimentazione creativa e collocabili ai vertici della ristorazione.

Certamente non c’è volontà esaustiva di coprire con questi tre locali un’area

anche delimitata dell’alta cucina, né si pretende di stilare una classifica

oggettiva dei migliori chef in assoluto, ma tutti e tre i ristoranti possono

ritenersi fra i più rappresentativi dell’ala d’avanguardia della ristorazione

contemporanea.

In tutti questi locali si porta avanti una cucina ai massimi livelli, ragionata e

improntata alla ricerca quasi spasmodica dell’innovazione culinaria. I loro

chef sono inoltre dotati di una personalità spiccata, e della capacità di

raccontare con le proprie opere e le proprie scelte culinarie la loro storia

individuale.

Essendo necessaria una selezione, nell’ambito dell’eccellenza ho pensato

proprio a questi tre locali perché le figure dei loro chef, così come dai media

mi era passata, avevano suscitato più o prima di altri la mia curiosità, e

desideravo fare esperienza dal vivo del loro personale approccio all’arte

culinaria, incontrandoli e osservando con i miei occhi come le loro idee

fossero messe in atto all’interno delle cucine.

2. Il contesto ristorativo italiano e spagnolo.

I ristoranti presi in esame non appartengono tutti allo stesso contesto: uno è

italiano, delle Marche, gli altri sorgono nella regione spagnola della Catalogna.

In questi ambiti territoriali si sta verificando negli ultimi anni una sfida e forse

un ribaltamento dell’egemonia francese che nei secoli si era consolidata

nell’ambito dell’alta cucina. Non che in Francia siano assenti grandi chef, ma

pochi esprimono modelli d’avanguardia e più che in altri stati europei portano

avanti una cucina estremamente esclusiva per i prezzi imposti ai clienti. In

Spagna e in Italia si sta invece progredendo, con una rilevante schiera di

cuochi più o meno giovani che stanno introducendo un modello innovativo

della cucina.

2.1. Le ragioni di un ritardo storico. Per ricercare le ragioni della recente crescita di livello dell’alta cucina

d’autore è opportuno prendere in considerazione l’evoluzione del contesto

storico e la variazione di alcuni fattori di ordine economico e culturale. Se

consideriamo questi due paesi in quella che è stata definita l’Età dell’Oro della

gastronomia, ovvero il diciannovesimo secolo, ci rendiamo conto che il

modello culinario da essi sostenuto non raggiunge il livello evolutivo di quello

francese. In questa nazione, grazie anche all’evento determinante della

Rivoluzione Francese e dell’ascesa socio-economica del Terzo Strato,

ritroviamo dalla fine del diciottesimo secolo le condizioni necessarie allo

sviluppo dell’istituzione ristorativa e con questa allo stimolo all’innovazione

dell’alta cucina. L’azione centralizzante di Parigi, dall’ambito politico si

riflette anche a livello gastronomico, consentendo lo sviluppo nella nazione

francese di una “sensibilità globale”29 del gusto, favorendo un’evoluzione

culinaria unitaria che avrebbe dato luogo alla durevole supremazia

gastronomica di questo paese.

In Italia e in Spagna mancano nello stesso periodo le condizioni alla base

dello sviluppo dell’alta cucina. In Spagna è difficile individuare un quadro

gastronomico unitario, a causa delle diverse identità delle varie zone. Inoltre,

come sottolinea Manuel Vázquez Montalbán (1990), nell’Ottocento la classe

borghese è debole e scarsamente sviluppata praticando nel campo culinario la

stessa assenza storica manifestata in altre dimensioni culturali. Mentre le classi

popolari, attanagliate dalla fame, sono costrette a praticare una cucina della

sopravvivenza, la fragile borghesia spagnola adotta una cucina propria di

radici tradizionali, costruita però essenzialmente mediante assimilazione dei

ricettari internazionali, francesi in particolare.

In Italia, come ricorda Emilio Faccioli30, nella pratica culinaria

ottocentesca si perpetua “una condizione di crisi che risale alla decadenza

della tradizione rinascimentale e al successivo compromesso fra la grande

cuisine importata d’Oltralpe e la vitalità residua delle nostre cucine regionali e

29 Cfr. Piero Camporesi, Introduzione ad Artusi (1891), per l’edizione Einaudi del 1970. 30 Cfr. Emilio Faccioli, Introduzione all’edizione italiana a Jean- Paul Aron (1973).

locali” (Aron, 1973, p.XVI della trad. it.). I grandi splendori dell’arte culinaria

sono lontani, ma per lungo tempo si continua a promuovere uno stile

culinario31 “profondamente legato alla cultura medievale dell’artificio, che

proprio sulle tavole dell’Italia rinascimentale raggiunse il più altro grado di

perfezione”32 (Capatti, Montanari, 1999, p.128). Il fervore letterario dell’area

francese, dove emergono le figure di gastronomi quali Grimod de la Reynière

e Brillat-Savarin, nonché viene celebrato il connubio fra cucina e narrativa

grazie ai riferimenti al mondo gastronomico di celebri scrittori, non trova

raffronti comparabili nella trattatistica del nostro paese. Sebbene

occasionalmente di una certa raffinatezza, sono infatti più episodiche le opere

di saggistica33 scritte dai gourmet nostrani, i quali a partire dalla fine del

diciottesimo secolo codificano un’arte culinaria di modello francese,

adottandone la terminologia o cercando di trasporla in forma italiana. Dal

primo Ottocento la letteratura gastronomica si converte ad una manualistica

spoglia in cui è evidente la connotazione regionale, e dove ricette della

territorio vengono narrate frequentemente nel dialetto locale.

Nel frattempo, le classi inferiori sono gravate dal problema della scarsità

alimentare e soprattutto nel settentrione dal monofagismo, all’origine già dalla

fine del Settecento della diffusione della pellagra, anche definito “male della

miseria” (Faccioli, 1973). Un modello di frugalità se non di indigenza è anche

quello tramandato dalle rappresentazioni della quotidianità alimentare dei

nostri letterati.

Solo alla fine dell’Ottocento la “scienza” entra in cucina con Pellegrino

Artusi, che con il suo celebre trattato (Artusi, 1891) porta avanti il progetto di

codificare la cucina nazionale, realizzando una sorta di mappa gastronomica di

ricette e usi delle diverse aree del territorio34. Con questa opera si darà al paese

31 Caratterizzato da un profluvio di spezie e di zucchero, la mescolanza di dolce e agro.

Cfr. Capatti, Montanari (1999). 32 Certa storiografia riporta che il modello italiano è stato esportato in Francia per tramite

dei cuochi al seguito di Caterina de Medici, giunti a Parigi in seguito al matrimonio con Enrico de Valois. Per loro tramite l’arte culinaria italiana sarebbe divenuta punto di riferimento per le successive evoluzioni apportate dagli chef francesi. Qualche dubbio sul valore determinante di questo evento è espressa da Capatti, Montanari (ivi, p.127).

33 Come l’Apicio moderno di Francesco Leopardi, del 1790. 34 L’atlante gastronomico non copre però opportunamente l’Italia intera. Sulla base delle

proprie conoscenze, Artusi raccoglie in proporzione maggiore ricette della Toscana, della Romagna e di Bologna. Da altre aree codifica inoltre piatti soprattutto di origine cittadina. Anche quando per le successive ristampe fa uso delle informazioni epistolari delle sue lettrici, la raccolta risulta carente nel coprire le zone meridionali. Cfr. Capatti, Montanari (1999, p.33).

le basi teoriche di una cucina borghese priva di fasti e di sprechi. Si afferma

con essa inoltre un codice gustativo caratterizzato da una certa delicatezza dei

sapori, segno di distinzione per il gourmet borghese dai gusti forti e agrodolci,

riprodotte nelle cucine popolari35.

La cucina borghese, che inizialmente riprende il modello francese “con una

certa aria di titolata nobiltà” (Capatti, Montanari, 1999, p.138), se ne distacca

presto proponendo uno stile più semplice, liberato dai costi del lavoro dell’arte

decorativa in voga fra gli chef parigini, nonché scevro dall’adozione delle

salse classiche francesi, accusate di essere indigeste. Nello stile e nei gusti “la

cucina borghese elaborerà un modello equidistante dai servizi della tavole

internazionale come dai piatti della festa paesana” (ivi, p.138).

A sua volta, lo stile di vita borghese provoca delle ripercussioni

sull’approccio al cibo degli aristocratici. Nel nostro paese conquista un certo

peso la dimensione domestica in cui si vive la gastronomia nell’ambiente dei

ceti medi. Il gourmet nostrano preferisce dar sfogo al proprio piacere

all’interno della casa, dove padroneggia l’arte di invitare e farsi invitare.

Rinuncia per motivi economici allo chef d’oltralpe, e si accontenta di una

domestica, che non conosce ricette complesse di origine francese né garantisce

lo stesso servizio, ma può soddisfare comunque il suo difficile palato.

Saltuariamente frequenta ristoranti e trattorie, se coinvolto in un pranzo

formale, o nei giorni di viaggio e di solitudine.

Il modello culinario familiare viene in un certo senso riproposto anche dai

cuochi di corte, i quali senza rinunciare al cerimoniale né alla raffinatezza

dello stile eliminano le decorazioni ostentatorie, adattano il numero di portate

all’appetito reale, nonché introducono piatti italiani della tradizione regionale

(ivi, p.343).

Il principio di soddisfazione del ventre verrà negato e combattuto in

particolare fra le due guerre e nel corso della seconda: nelle proclamazioni a

favore di una cucina agile e scattante nella campagna dei futuristi; a causa

delle conseguenze del conflitto sul mercato alimentare; oppure semplicemente

perché in una fase di benessere consolidato per la borghesia la pancia diventa

superflua. I ricettari e i manuali italiani che vengono pubblicati in questo

periodo manifestano logicamente un principio di sobria razionalità: quelli più

35 Ove si possono avvertite “le tracce di antichi gusti aristocratici, imitati e replicati come in una tardiva conquista di sapori a lungo negati”. Ivi, p.136.

popolari raccolgono insegnamenti su come supplire alla penuria con l’ingegno,

mentre quelli diretti alle elite descrivono le tecniche per la lunga

conservazione dei cibi, in funzione cautelativa, nonché suggeriscono pasti

leggeri e rapidi.

Nel frattempo la Spagna subisce le conseguenze della guerra civile, che

impongono uno stile culinario improntato alla frugalità. Anche al termine della

guerra civile inoltre le classi borghesi sono prive secondo Vázquez Montalbán

(1990) di un’educazione gastronomica, facendo del rito del mangiare una

questione di quantità e di costo. Come sostiene quest’autore, “la cucina

spagnola non deve niente alla borghesia” (ivi, p.111, trad. mia), che si

dimostrerà mediocre nella tavola così come nella responsabilità nella crisi

della restaurazione spagnola negli anni Cinquanta.

In Italia anche dopo la ripresa economica post-conflitto rimane un certo

pudore per l’ostentazione del cibo, consumato dalle classi borghesi

preferibilmente all’interno delle mura domestiche. Il gourmet vive in questo

periodo nell’ambiguità fra le proprie tentazioni e i dettami dietetici proclamati

nella trattatistica degli anni Cinquanta36, portatrice di un modello corporeo di

magrezza (Capatti, Montanari, 1999, p.348).

2.2. Gli ultimi cinquant’anni: le ragioni di una rivalsa.

Sulla base di quanto visto, si possono ragionevolmente riconoscere

numerosi elementi in comune nel contesto storico, geografico ed economico

con cui si sono dovute confrontare la cucina italiana e quella spagnola dall’Età

dell’Oro della gastronomia francese agli ultimi cinquant’anni.

La cucina italiana, così come quella spagnola, sono sempre state

caratterizzate da un particolarismo delle tradizioni culinarie, da ricondurre

principalmente al frazionamento delle unità politico-amministrative e alla

diversificazione delle influenze culturali esterne. Il carattere decentrato di

questi paesi ha costituito un elemento discriminante contro lo sviluppo di un

codice estetico e culinario unificato pari a quello alla base delle grande cuisine

francese.

36 Anche se in quegli anni le pubblicità ancora “sono improntate di preferenza

all’immagine tradizionale di una corporeità florida e piena. Solo negli ultimi due-tre decenni l’ideologia del magro appare veramente vittoriosa”. Montanari (1993, p.210).

Oggi però la non uniformità delle tradizioni non costituisce più un limite

bensì un valore culturale internazionalmente conosciuto e fonte di promozione

turistica dei territori nazionali. In Italia già negli anni Cinquanta si sente la

necessità di tutelare questo patrimonio culinario con il grido d’allarme lanciato

da Orio Vergani, in un contesto che lascia presagire il pericolo della sua

demolizione. In quegli anni infatti, in corrispondenza ad un aumento del potere

d’acquisto e di miglioramento della distribuzione dei prodotti industriali, è

oramai consolidato l’uso delle scatolette e di altri oggetti semilavorati, il ché

dà l’avvio ad un processo di de-localizzazione dei consumi (Petrini, 2001). In

seguito all’emergere di queste nuove abitudini alimentari si afferma una

tendenza all’omogeneizzazione del gusto di massa, standardizzato per mezzo

dei trattamenti industriali. Nel 1953 Vergani porta concretezza alla propria

battaglia fondando l’Accademia Italiana della Cucina, un’istituzione con una

forte identità sociale e con l’ambizione di porre sotto tutela la nostra pregevole

cucina regionale, .

Propositi simili ma tendenze politiche opposte incarnano negli anni Settanta

l’associazione Arcigola, nata dall’ala de «il manifesto» amante della buona

tavola e desiderosa di rivendicare il piacere del cibo, del vino, e della

convivialità concepita come valore in sé. Con questo movimento, evoluto nel

1996 nella fondazione di Slowfood, ci si propone innanzitutto di

“salvaguardare il patrimonio agroalimentare dal degrado ambientale,

costantemente impoverito, e degno invece di una produzione di qualità” (ivi,

p.14).

Nella lotta di questo movimento i nemici da combattere sono “le

multinazionali dell’appiattimento dei sapori” (ivi, p.19) quali McDonald’s e

Pizza Hut, che propongono un modello di alimentazione rapida e

standardizzata, nella quale il cibo è ridotto a consumo a discapito della cura

per la qualità e la ritualità tutta italiana del pasto. In risposta alla pretesa

omologazione indotta dal modello fast-food”, Slowfood sostiene le culture

locali, promovendo le produzioni del territorio nel rispetto delle tecniche

culinarie tradizionali. Fra i progetti più importanti del movimento troviamo

innanzitutto: il progetto dell’Arca, che prevede la tutela di selezionati prodotti

di qualità “storici e locali” realizzati in piccole produzioni a rischio di

estinzione; la costituzione dei Presidi, ovvero un’azione di salvaguardia diretta

della qualità e dei modi di produzione delle Dop (prodotti di origine protetta).

Questo movimento è inquadrabile in una tendenza più generale che

recentemente ha contribuito a riconoscere che l’eterogeneità territoriale dei

nostri prodotti e del loro trattamento vanno ritenuti un elemento di ricchezza e

distinzione in ambito internazionale. Come denota il successo di iniziative

come quella di Slowfood e l’attenzione che offrono nel settore turistico gli

eventi e i luoghi che preservano le antiche tradizioni gastronomiche,

attualmente la vivacità e la varietà delle tradizioni regionali e locali sta dando i

suoi frutti.

Focalizzandosi sui riflessi di questa tendenza sui modelli ristorativi,

possiamo riconoscerne un ruolo portante in quel filone della cucina

contemporanea che si fonda sulla rivisitazione e riabilitazione del ricettario

tradizionale locale, nonché sulla valorizzazione dei prodotti del territorio. Da

un lato il luogo simbolo deputato per la realizzazione della cucina tradizionale

è la rivalutata osteria, caratterizzata da una cucina sincera dalla conduzione

familiare e dal servizio semplice, dall’offerta di vino di qualità, dal prezzo

contenuto (Petrini, 2001). In una fascia più alta (dove cambia costo e servizio),

i ristoranti che dichiarano di fare cucina “del territorio” manipolano

ingredienti locali e riproducono ricette autoctone, talvolta in versione rivisitata

anche per adeguarsi ai gusti e i valori dietetici attuali.

2.3. Tra tradizione e innovazione.

Nell’ambito del filone culinario più innovativo, al centro di questo lavoro,

sebbene con modalità diverse l’impegno per la tutela di prodotti di qualità

poco conosciuti prodotti artigianalmente rimane di estrema importanza. La

disponibilità di ingredienti genuini che a livello locale si possono esprimere ad

un livello qualitativo ottimale, nonché racchiudono una storia e una memoria

di antichi usi, costituiscono uno stimolo per lo chef ad esplorare nuove

possibilità gustative.

La memoria delle passate esperienze del cuoco ha delle influenze sulla sua

assiologia di valori e quindi sul modo in cui crea, così come nel giudizio di

gusto del soggetto degustatore ha un ruolo determinante l’archivio delle

precedenti esperienze alimentari. Coscientemente o meno, nelle scelte

culinarie intervengono sempre assiologie di valori gustativi ed estetici, di

natura sociale o individuale e idiosincratica, rinvenibili anche nell’ambito

della creazione.

Naturalmente però c’è molto di più all’origine del lavoro di quei ristoratori

che perseguono con fermezza l’innovazione culinaria, riconducibile

semanticamente al polo categoriale opposto alla tradizione, interprete migliore

dei valori propagati dal movimento di SlowFood.

Senza dimenticare che anche e manifestamente dalla cucina povera e

relativamente limitata nelle risorse cresce la volontà di sperimentare il nuovo

(Capatti, Montanari 1999), occorre identificare quale fattore storico-culturale

determinante per lo sviluppo della cucina d’autore contemporanea l’influenza

della nouvelle cuisine.

Il celebre movimento degli anni Settanta ha dato ai professionisti della

cucina l’incitamento alla sperimentazione di nuove soluzioni culinarie a partire

da una riflessione su prodotti locali spesso d’umile origine, liberamente

combinati con ingredienti anche esotici a seconda dell’ispirazione creativa

dello chef. Un settore molto ampio dell’alta ristorazione italiana e spagnola,

così come delle controparti europee e d’Oltreoceano, ha accolto ben presto il

richiamo degli chef francesi a rivoluzionare l’approccio alla cucina,

promuovendo una cucina riflessiva ma purificata da ogni artificiosità, che

avrebbe dovuto portare la natura in tavola ma in una versione ingentilita,

esteticamente aggraziata.

Questo stile culinario si rivolge ad una tipologia di consumatore con delle

richieste sensibilmente diverse nei confronti della proposta gastronomica

rispetto al cliente della cucina tradizionale. L’enunciatario presupposto da un

piatto37 della nouvelle cuisine ricerca nella degustazione un’esperienza non

provata in precedenza, assimilabile alla tipologia dei consumatori-flâneurs

delineata da Floch, alla quale appartengono “quelli che accettano di gustare un

cibo nuovo, quelli le cui papille infine si risvegliano”(Floch, 1997, p.203 della

trad. it.).

La pietanza servita nei ristoranti di cucina creativa non implica il

riconoscimento da parte del commensale del piatto tradizionale conosciuto o

almeno potenzialmente conoscibile, codificato in un patrimonio culturale

37 Se concepito come enunciazione, sulla base della proposta di Floch (1995a).

associato alla memoria di un popolo o di un territorio. Colui che assaggia il

piatto verrà sorpreso dall’esperire una sensazione gustativa originale mai

provata, che implica disconoscimento dell’appartenenza dell’oggetto ad

un’enciclopedia culinaria culturalmente condivisa, quale presupposto del

riconoscimento del suo valore estetico e gastronomico.

Non si cerca come nella cucina tradizionale il richiamo alla tipicità, alla

memoria storica di un uso culinario stabilito, nel senso delle continuità per chi

mantiene inalterate le tradizioni o della rievocazione di un tempo andato per

colui che non è più solito mangiare la pietanza o mai l’ha provata in vita sua. Il

piatto generato nel filone della cucina creativa va collocato in una posizione

nel segno della discontinuità e dell’inesplorato38 rispetto ai mondi culinari

conosciuti dal passato o conoscibili in altri luoghi della contemporaneità. La

degustazione viene invece vissuta come frattura del quotidiano, nel senso

dell’esperienza estetica descritta da Greimas (1987) in Dell’Imperfezione.

La percezione estetico-degustativa può comunque entrare in dialogo con

precedenti esperienze particolari archiviate, ed eventualmente rimosse, ma

soprattutto colpendo il commensale per la sua originalità può ambire ad

entrare nell’archivio memoriale futuro, quale esperienza estetica che

arricchisce e ricostruisce il pattern memoriale precedentemente in uso

(Parasecoli 2002).

2.4. L’avanguardia catalana.

I tre ristoranti scelti per la mia analisi vanno ricondotti a questo filone

culinario, in quanto tutti e tre conducono con determinazione una ricerca

dell’innovazione culinaria. Nel loro paese non sono gli unici a portare avanti

un discorso sulla creatività, anche se sono certamente fra i rappresentanti più

autorevoli. In Italia la schiera degli chef creativi è sempre in crescita, sparsi un

po’ dovunque per la penisola.

In Catalogna il fenomeno della creatività culinaria è però sorprendente,

infatti in questa piccola regione della Spagna la concentrazione delle stelle

della cucina è inusitatamente elevata. Il giornalista e gourmet Paul Arenós

(1999) riconosce l’esistenza di un vero e proprio movimento spontaneo, da lui

denominato avanguardia culinaria catalana.

38 Ma anche nella riscoperta di prodotti umili, dimenticati dall’alta cucina classica.

Questo gruppo di cuochi innovatori sostengono e portano avanti una

visione dinamica della cucina, imprimendo una spinta verso la costituzione

dell’arte culinaria del futuro. Come riferisce Arenós (ivi), potremmo

individuare nei diversi ambiti del contesto della Catalogna contemporanea

alcuni fattori che hanno favorito lo sviluppo di questo fervore culinario

innovativo. In ambito propriamente gastronomico, dovremmo rilevare la

ricchezza e l’eccentricità del ricettario tradizionale. Geograficamente, la

vicinanza alla Francia ha facilitato l’apprendimento e l’assorbimento delle

conoscenze gastronomiche alla base della lunga supremazia culinaria del

vicino orientale. A livello economico, il rilevante incremento dei redditi della

popolazione di questa regione soddisfa i presupposti per la costituzione di una

domanda potenziale adeguata per la ristorazione di lusso.

Naturalmente questi elementi non possono spiegare da soli la nascita del

movimento, ma ne costituiscono le condizioni alla sua base. Per Arenós, “la

cucina è una delle chiavi per spiegare la Catalogna attuale” (ivi, p.12, trad.

mia). Alcuni degli aspetti che accomunano gli chef catalani individuati da

Arenós sono comunque generalizzabili al mondo della cucina creativa nel suo

complesso, e manifestamente allo chef marchigiano qui preso in esame.

Potremmo riconoscere a livello internazionale una larga schiera di chef più

o meno giovani che potrebbero essere considerati esponenti di quella che

potremmo definire l’avanguardia culinaria della nostra generazione. Sebbene il

rifiuto di codici rigidi sia uno dei tratti caratteristici, è possibile individuare

delle tendenze largamente condivise fra questi cuochi.

Nei locali portatori dei nuovi valori si promuove innanzitutto una cucina

ragionata, di riflessione, dove tutte le scelte culinarie adottate hanno sempre

delle spiegazioni. I cuochi conoscono le proprietà organolettiche, gustative ed

estetiche dei loro prodotti, nonché i migliori modi di trattarli per saperli

esprimere al meglio essendo consapevoli delle trasformazioni chimico-fisiche

implicate dalle diverse tecniche culinarie. Si lavora principalmente con

l’ingrediente locale e stagionale, ma non si rifiuta quello straniero. In ogni

caso, il valore del prodotto non è determinato da suo prezzo sul mercato, bensì

dalle sue qualità organolettiche e dal ruolo che potrebbero interpretare nel

complesso del piatto.

Nei ristoranti o in luoghi appositi si porta avanti un discorso di ricerca,

appoggiando e valorizzando le idea creative, nonché sottoponendole a ripetute

sperimentazioni. C’è inoltre una precisione estrema nelle procedure di

elaborazione a freddo e una cronometrizzazione dei processi di cottura, ove i

tempi (tendenzialmente più corti che in passato) sono esattamente definibili e

sanzionabili. Si lavora molto sul piano della testura e della temperatura,

considerati elementi portanti del piatto. Come accennato, inoltre, l’umore e il

divertimento che si producono nel commensale costituiscono una dimensione

importante delle opere culinarie di questa generazione di chef.

3. I tre ristoranti in esame e i loro chef. 3.1. La Madonnina del Pescatore.

La Madonnina del Pescatore, ristorante che guarda sul lungomare di

Marzocca di Senigallia (AN), è un locale ai vertici della ristorazione italiana,

premiato dal 2001 con le Tre Forchette, valutazione massima nella classifica

della guida ai Ristoranti d’Italia di Gambero Rosso.

Il suo chef-patron Moreno Cedroni, membro dell’Associazione dei Giovani

Ristoratori d’Europa, è uno degli esponenti più rappresentativi dalla nuova

generazione di chef portatori di una visione d’avanguardia dell’arte culinaria.

Grande estimatore di Ferran Adrià, porta avanti una cucina che analogamente

al suo maestro non rinuncia mai a stupire. Ispirato dai prodotti del mare, ne

propone un’interpretazione sempre originale, sperimentando associazioni

inconsuete ma sempre motivate. Adottando un approccio ludico alla cucina,

sorprende e diverte il commensale con una carta in cui propone fra gli altri

“costoletta di rombo”, “bresaola di tonno”, “spaghetti psichedelici”, “bufalina

di spada” (nuova versione della pizza, a base di pesce).

Nel suo viaggio verso il nuovo, lo chef rimane sempre memore delle sue

origini, evocando nelle sue scelte culinarie tecniche e sapori tipicamente

marchigiani. Anche in una delle sue più celebri specialità, il “susci” (senza h

secondo la personale denominazione dello chef), il noto piatto protagonista

della cucina giapponese viene reinterpretato in chiave mediterranea, con

condimenti e preparazioni che richiamano in particolare alla tradizione

culinaria della sua regione. Esclusivamente a queste sue preparazioni è

dedicato il “susci bar” Clandestino, versione prêt-à-porter della Madonnina

del Pescatore che sorge sulla spiaggia di Portonuovo. Di prossima apertura, è

inoltre un secondo locale questa volta dedicato al pubblico cittadino: esso

vedrà infatti la luce al centro di Bologna, presso la Sala Borsa.

3.2 . L’Esguard.

Questo ristorante, aperto da soli sei anni ma già molto conosciuto ed

ampiamente elogiato dalla stampa gastronomica europea, nordamericana e

giapponese, sorge nel cuore di Sant Andreu de Llavaneres, cittadina costiera a

mezz’ora di macchina da Barcellona.

Il nome “L’Esguard”, riportato nel logo (ad es. sulle copertine del menù)

accanto al disegno stilizzato di una porta vetrata dell’antico edificio, parlano

dell’identità di questo locale, che dischiude al commensale lo sguardo su un

inesplorato mondo interiore. L’accenno cromatico al muro esterno e

l’inclinazione delle imposte non del tutto spalancate danno la direzione di un

percorso di osservazione in senso convergente. E’ oltre la cornice

apparentemente senza vetri e nella sua dimensione interna che viene diretta

l’attenzione del cliente dell’Esguard, accompagnato in un viaggio verso la

riflessione, la riscoperta delle proprie emozioni, la costituzione di un nuovo

registro gustativo.

Fig.1 Il disegno sul menù.

Miguel Sánchez Romera, chef e proprietario dell’Esguard, è anche da più di

vent’anni neurologo e neurofisiologo specializzato negli studi dell’epilessia. In

un libro uscito di recente su cui ci soffermeremo, La cocina de los sentitos

(Sánchez Romera, 2001), egli fa dialogare i suoi due mondi professionali, solo

apparentemente lontani, investigando le relazioni fra il cervello, i sensi, la

memoria e l’arte culinaria.

La cucina di questo chef, concettualmente innovativa e tecnicamente

meticolosa, visivamente allegra ma non ludica richiama ad un approccio

intellettuale all’arte culinaria. Come emergerà nel corso delle analisi, il

rapporto che Sánchez Romera intrattiene, nell’ambito del processo creativo e

dell’intervento culinario, con i prodotti alimentari e con le possibilità virtuali

della tecnica, lo rendono un caso peculiare nel contesto culinario catalano e nel

mondo dell’alta ristorazione in genere.

3.3. El Bulli.

A nove chilometri dalla cittadina di Roses, in Costa Brava, incontriamo

questo rinomato locale, insignito dal 1998 con le prestigiose tre stelle

Michelin, traguardo che condivide con pochi ristoranti al mondo. Aperto solo

la sera e da Aprile ad Ottobre, vi lavorano in perfetto sincronismo oltre

sessanta persone fra sala e cucina, per soli quarantacinque coperti. Negli altri

sei mesi, un’équipe di undici cuochi è impegnata a tempo pieno ad El Taller, il

laboratorio-atelier dove si porta avanti il discorso della creatività.

Ferran Adrià, dal 1984 alla guida di questo locale e responsabile della sua

svolta, è stato incoronato il migliore cuoco dei nostri tempi dal grande chef

Joël Robuchon, allora indiscusso numero uno della ristorazione mondiale. La

cucina del nuovo guru catalano, all’insegna della creatività pura e della

sperimentazione di nuove tecniche culinarie, combina un approccio ludico e

uno intellettuale. Convinto della necessità di sdrammatizzare l’atto del

mangiare, Adrià cerca di divertire e sorprendere il commensale osando

combinazioni culinarie al di là di ogni immaginazione. Allo stesso tempo,

propone dei piatti che sono anche “buoni da pensare” (Parasecoli, 2002),

perché implicano un ripensamento dei codici culinari culturalmente acquisiti e

dati per scontati. Nella sua cucina scompare l’associazione fra dolce e gelato,

fra minestre e stato liquido, così come la classica separazione fra pietanze

salate e dessert. Ad El Bulli è possibile degustare ad esempio sorbetti e gelati

salati (fra cui il celebre “semifreddo al parmigiano”), minestre destrutturate

dove ogni verdure ha una testura differenziata, ravioli liquidi, spume di fumo.

Negli ultimi anni, a fianco del ristorante e a sostegno del suo progetto di

ricerca creativa, sono state sviluppati per volere di Adrià e del suo socio Juli

Soler altre iniziative: ElBulliCarmen, ovvero una società di consulenze ad

aziende (fra cui la Lavazza), ristoranti ed hotel; ElBulliCatering, impresa che

organizza banchetti fino a mille coperti; ElBulliHotel, ovvero l’apertura di una

catena di alberghi di gran lusso.

IV.

MORENO CEDRONI.

1. Analisi di un piatto: la costoletta di rombo.

Sprigionato dall’ingegnosità creativa dello chef marchigiano, il piatto che

mi accingo ad analizzare ha un nome completo piuttosto lungo ed evocativo:

“costoletta di rombo panata nella birra chiara, con erbe di campo strascinate e

trippa di coda di rospo”.

Intendo focalizzarmi su quest’opera culinaria interpretandola in primo

luogo in qualità di oggetto in trasformazione, attraverso un’analisi del

processo della sua creazione, e poi nel suo aspetto terminativo di oggetto

finito. In linea con quanto suggerito da Floch (1995a), vorrei quindi

attraversare le due facce comunicanti del mondo della cucina: l’ambito della

produzione dei piatti, ovvero l’anima pratica dell’arte culinaria meglio definita

come gourmandise, e quello della degustazione consapevole e della

discussione ragionata sul cibo, cioè la gastronomia.

Inizierò con un’analisi dei procedimenti di realizzazione del piatto

focalizzata sul livello semio-narrativo, sottoporrò quindi il titolo ad analisi

semantica, percorrerò il problema della degustazione del piatto ed esaminerò il

piatto nella sua concretezza nei suoi aspetti sensibili alla ricerca degli effetti

gustativi e delle strutture semantiche soggiacenti.

Per quanto riguarda la metodologia seguita, ai fini dell’analisi del processo

di produzione culinaria ho adottato la tecnica dell’osservazione partecipante.

Grazie infatti alla disponibilità dello chef-patron e dei suoi collaboratori, ho

avuto la possibilità di essere ospite per un giorno alla Madonnina del

Pescatore, dove ho potuto assistere dall’interno delle cucine alla diverse fasi di

preparazione del piatto di mio interesse nelle sue procedure ordinariamente

attivate in seguito ad ordinazione da parte di clienti. Ho preso appunti e

documentato fotograficamente i procedimenti seguiti, nonché approfondito

alcune problematiche relative al discorso culinario con Moreno Cedroni

prevalentemente attraverso posta elettronica.

1.1. Il fare-culinario. Analisi semio-narrativa

della costruzione del piatto.

Adottando una prospettiva greimasiana, possiamo riconoscere nel momento

di realizzazione del piatto un programma di produzione che consiste nella

creazione di un oggetto di valore, in questo caso improntato alla soddisfazione

di un piacere piuttosto che di un bisogno. Dal momento che piatti come questi

non sono normalmente pensati e preparati semplicemente per placare la fame,

possiamo tranquillamente supporre che il valore investito consisterà in una

sensazione gustativa euforica.

Allargando il nostro sguardo al contesto dell’ordinazione al ristorante,

questo programma di costruzione va inquadrato in un programma narrativo di

scambio realizzato (corrispondente ad una doppia performanza di dono) di

oggetti di valore sulla base del contratto fiduciario implicitamente instaurato

fra il ristoratore e i suoi clienti. Lo stadio della produzione del piatto in

quest’ottica può essere interpretato come un PN d’uso presupposto da un PN

base che consiste nell’attribuzione, da parte del soggetto S1, “lo chef”,

dell’oggetto O1, la “costoletta di rombo” a un soggetto di stato S2, i “clienti”,

in cambio di un oggetto O2 di valore equivalente, ovvero il suo prezzo.

E’ su questo programma d’uso di produzione che concentrerò la mia

attenzione in questa prima sezione, iniziando da un esame della sua sintassi

narrativa, prendendo spunto dall’esemplare analisi condotta da Greimas (1983)

sulla zuppa al pesto. Nonostante le analogie nella natura dell’oggetto costruito,

è necessario individuarne preliminarmente anche le numerose differenze.

L’analisi di Greimas infatti verteva su un testo verbale, costituito dalla ricetta

della zuppa. Come messo in luce da Floch, “la ricetta è un meta-discorso

verbale che rende conto, in modo programmatico e pedagogico, di una pratica

culinaria” (Floch, 1995a, p.161 della trad. it. in Marrone, 1995), mentre qui si

vuole analizzare la pratica culinaria in sé nella sua realizzazione, concependo

come testo il processo di costruzione del piatto.

In ottemperanza allo Schema narrativo canonico proposto da Greimas,

riconosciamo a monte del programma una performanza cognitiva con la quale

un destinante garante del valore del piatto induce un soggetto trasformatore a

portare avanti il compito di produzione dell’oggetto di valore. A livello del PN

di base, il cliente con la sua ordinazione esercita una manipolazione nei

confronti del cuoco ovvero cerca di provocare un fare somatico costituito dalla

preparazione del piatto. E’ questa istanza ideologica ad informare a monte

l’azione che dovrà poi essere riconosciuta a valle da un’istanza di sanzione, ad

opera di un destinante giudicatore (il cliente-degustatore).

Il PN d’uso di costruzione dell’oggetto di valore (d’ora in avanti PNc) è

scomponibile in programmi narrativi distinti e gerarchicamente articolati che

comprendono anche dei PN delegati. Come esamineremo più analiticamente, il

piatto in esame si articola in tre PN paralleli e indipendenti corrispondenti alla

preparazione delle tre componenti del piatto, in cui possiamo individuare tre

oggetti parziali. Il PNc prevede poi al suo interno una fase di assemblaggio di

questo oggetti che vanno a comporre il piatto nel suo stadio conclusivo.

L’attante-soggetto Sc, investito dal destinante della modalità del /dover

fare/, solo nel corso del percorso narrativo acquisisce completamente le

competenze modali necessarie per l’esecuzione del PNc. Egli infatti si trova

competenzializzato (essendo dotato di un /dover fare/ e /voler fare/, nonché

grazie alle sue abilità, cognizioni e specializzazioni di un /saper fare/ e /poter

fare/) per lo svolgimento di alcune operazioni presupposte dal PNc ma non per

altre, per le quali si avvale dell’aiuto di alcuni collaboratori.

Attraverso l’installazione di peculiari strutture di manipolazione, soggetti

umani delegati specializzati (e competenzializzati per questi compiti) vengono

chiamati alla realizzazione di programmi culinari annessi al PNc. Questi PN

sono messi in opera in un tempo anteriore rispetto al PNc costituendo

operazioni preliminari all’attualizzazione dello stesso. In un certo senso, è

possibile interpretare questi PN quali i corrispettivi della prova qualificante

della fiaba secondo il modello di Propp, e sulla base di una rilettura

greimasiana in termini di competenzializzazione come PN d’uso modali. In

quest’ottica possiamo tradurre gli interventi degli aiutanti dello schema

proppiano come momenti che consentono ad Sc di modalizzarsi secondo il

poter fare, dotandosi così dell’equipaggiamento modale completo necessario

per portare aventi il programma globale da compiere.

1.1.1. Il dispositivo strategico.

All’interno del quadro delimitato dal PNc, è possibile inscrivere tre PN

paralleli e indipendenti che portano alla costruzione di tre oggetti parziali

congiunti alla fine del processo nell’oggetto di valore unico O che verrà

servito in tavola:

PN1 = preparazione della

“costoletta di rombo”

O1 = costoletta di rombo

PN2 = preparazione delle

“erbe strascinate”

O2 = erbe strascicate

PN3 = preparazione della

“trippa di coda di rospo”

O3 = trippa di coda di rospo

dove O = “costoletta di rombo panata nella birra chiara con erbe strascinate

e trippa di coda di rospo”.

Dall’esame di ognuno dei programmi sopracitati possiamo individuare un

PN principale e una serie di PN aggiunti. Come si può dedurre dal titolo, Il

PN1 porta alla costituzione dell’elemento centrale del piatto, mentre gli altri

vanno a costituire una sorta di accompagnamenti e completamento

dell’equilibrio gustativo. Per semplicità di esposizione, prenderò in

considerazione in primo luogo la preparazione delle componenti di contorno.

1.1.2. (PN2) La cottura delle erbe di campo strascinate. Questo programma si scompone in due processi, condotti in due tempi

diversi e discontinui nonché realizzati da diversi attori. Le verdure vengono

prima di tutto lessate al dente e poi passate in padella in un tempo successivo.

Abbiamo un PN2a in cui il processo culinario predispone alla trasformazione

di un oggetto di partenza (le erbe di campo: 70% biete e 30% cicoria) in un

altro, passando da uno stato di oggetto crudo ad uno stato cotto-al dente. Il

processo di trasformazione, realizzato nello spazio utopico costituito da una

pentola d’acqua salata, porta alla costituzione di un oggetto parziale, che

subisce una successiva alterazione in un PN2b. A livello profondo, secondo la

rilettura di Greimas delle analisi condotte da Lévi-Strauss (1964) sui miti

borori, possiamo riconoscere dietro questi processi una serie di trasformazioni

da /crudo/ a /non crudo/ a /quasi-cotto/ che presiedono alla “de-

naturalizzazione” delle verdure crude fino alla loro “culturalizzazione”

sebbene parziale a causa dell’interruzione della cottura nello stato “al dente”.

Queste operazioni prevedono l’instaurazione di una struttura di

manipolazione peculiare: il soggetto umano delega infatti i suoi poteri ad altri

soggetti del fare (acqua e fuoco) investiti del compito di trasformare le /erbe

crude/ in /erbe cotte/, o meglio lessate. Il fuoco assume la funzione di soggetto

del fare che porta le verdure a cottura ma in una modalità mediata, attraverso

la presenza dell’acqua, la quale oltre a costituirsi come oggetto di

trasformazione (essendo portata a stato di ebollizione dal calore) assume a sua

volta un ruolo di soggetto operatore nella lessatura delle erbe. L’acqua

bollente in seguito al processo di riscaldamento col fuoco e “de-naturalizzata”

dal soggetto umano attraverso la sua salatura si pone quale agente di

trasformazione diretta delle verdure in un processo mediato che ben evoca la

sua qualifica “culturale”.

Se prendiamo in considerazione il famoso triangolo culinario di Lévi-

Strauss (1968),

dobbiamo collocare le erbe oggetto di questa preparazione in un qualche punto

del lato destro del triangolo, in quanto cotte in acqua ma lontane dagli estremi

dei poli del crudo dell’inizio del processo e del putrido, risultato di una

lessatura molto protratta.

Un secondo programma narrativo (PN2b) costituito dalla “strascinatura”

delle erbe porta a compimento la loro preparazione. Questa operazione viene

compiuta dal soggetto artefice del PN1 e all’interno del quadro del PNc. Le

erbe lessate e conservate in frigorifero (macchina del freddo operatrice di

discontinuità) vengono girate in padella (strascinate appunto) con aglio e olio.

Questa fase realizza una cottura rapida attraverso l’olio, scaldato a sufficienza

in modo che la temperatura raggiunga il cibo da cuocere dall’esterno senza

permettere che i liquidi interni fuoriescano. A differenza dell’acqua, agente

che trasforma la natura degli oggetti che in essa sono posti acquisendo la loro

sapidità, l’olio non è dotato di adeguato /poter-fare/, non è in grado di

realizzarsi come soggetto appropriandosi del valore posseduto dal cibo (anti-

soggetto). Secondo quanto scrive Marrone (1997 p.189 della trad. it.), “se nel

caso della bollitura l’unione mitica è dunque fra l’acqua e il fuoco, con la

semplice mediazione del cibo”, nel caso della cottura in padella con olio “è il

cibo a unirsi con il fuoco, usando il liquido come puro strumento della propria

realizzazione”. Ci fermeremo più in là su una possibile raffigurazione grafica

che rende conto della natura di tale tecnica di cottura; basti dire per ora che

con i passaggi seguiti si producono alla fine delle erbe più secche all’esterno

che all’interno, di una consistenza fibrosa e internamente abbastanza umida.

La scelta di produrre delle erbe cotte-al dente risponde a precise finalità legate

alla natura degli ingredienti, alle loro trasformazioni in termini di masticabilità

e digeribilità attraverso cottura. Si potrebbe dire che per questo componente la

disposizione aspettuale del poco-cotto è quella ritenuta ideale.

1.1.3. (PN3) La cottura della trippa di coda di rospo. Il PN3 porta a compito la preparazione della “trippa della coda di rospo”

attraverso un processo di cottura misto, scomponibile in due fasi distinte.

Diversamente dalle erbe protagoniste del PN2, la coda di rospo è un elemento

de-naturalizzato già prima della cottura: consiste infatti in un taglio preciso

ricavato dalla “rana pescatrice”, una sezione del pesce che si è guadagnata una

denominazione precisa, appunto “coda di rospo”, grazie al suo utilizzo in

cucina. Potremmo qualificare come “culturale” questo elemento in partenza, in

opposizione all’oggetto pre-cottura del PN2 (le erbe di campo), ove

tracciassimo una corrispondenza semantica:

culturale = + elaborato dall’uomo; naturale = - elaborato dall’uomo.

La trippa della coda di rospo subisce le elaborazioni riservate alla cottura

tradizionale della “trippa”, nome che designa un particolare taglio di carne,

ovvero una parte dello stomaco dei ruminanti con la quale si prepara un piatto

comune della cucina popolare “poco confacente agli stomaci deboli e delicati”

(Artusi, 1891, pp.308-9). Secondo la classificazione dell’autore della Scienza

in cucina, le modalità della sua produzione la fanno classificare fra gli

“umidi”, caratterizzati da cotture lente e dolci che prevedono l’aggiunta di

grassi e liquidi.

Se teniamo conto degli studi condotti da Lévi-Strauss, dobbiamo

riconoscere a questo metodo di cottura degli elementi che la rendono non

direttamente riconducibile al modello del già citato triangolo culinario,

elaborato sulla base di sistemi culinari privi della discriminante dell’uso dei

grassi. Come prospettato idealmente dall’antropologo, si potrebbe elaborare il

modello trasformando il triangolo in un tetraedro39 che costituirebbe uno

schema capace di esprimere almeno alcune delle più numerose variabili

presenti nei sistemi culinari moderni. Una proposta concreta di griglia ci viene

da Piero Ricci (1981b), che si propone di armonizzare gli studi e le proposte di

Lévi-Strauss (1968) con le diverse tecniche che compaiono nell’Artusi (ivi).

Vediamo che gli umidi vengono avvicinati al polo del putrido, ma vengono

a complicarsi nella classificazione per l’utilizzo di grassi in aggiunta al liquido

di cottura, nonché per la velocità di cottura. Ma veniamo al nostro caso della

cottura della trippa di coda di rospo e analizziamo le sue peculiarità: notiamo

la presenza di una cottura lenta ad immersione in acqua bollente (lessatura),

quindi una cottura nell’olio caldo a cui si aggiungono altri liquidi (brasatura).

La trippa di coda di rospo è prima di tutto lessata con sedano, carota e

cipolla. Come già spiegato prima, con la lessatura si ha una cottura mediata

dalla presenza dell’acqua come soggetto operatore, una cottura endogena in

opposizione a quella esogena tipica della cottura arrosto. La lessatura produce

una cottura omogenea del cibo immerso che provoca un parziale rilasciamento

dei suoi liquidi nell’acqua di cottura, la quale modifica il proprio stato

trasformandosi in brodo. I vari elementi introdotti nello spazio utopico della

39 Per una raffigurazione diversa del tetraedro culinario, cfr. Salvatore D’Onofrio (1992), che ne propone un utilizzo adattato alle tecniche della cucina siciliana.

pentola, ovvero l’acqua, la coda di rospo, la cipolla, il sedano e le carote,

subiscono quindi una trasformazione chimica fino all’ottenimento finale di

oggetti diversi: abbiamo la coda di rospo cotta, del brodo e delle verdure

private di parte delle loro sostanze nutritive .

La coda di rospo già culturalizzata in quanto cotta subisce ulteriori

modificazioni questa volta ad opera dell’artefice umano, che la taglia a

julienne in un’operazione manuale di sminuzzamento, e poi la mette a rosolare

con dei grassi (olio e lardo) e delle erbe aromatiche (che hanno subito un

intervento di de-naturalizzazione in quanto sono state triturate). Ora la cottura

non è più mediata dall’acqua ma avviene ad opera del fuoco, sebbene

permanga una seppur minore mediazione costituita dall’olio e dal lardo. Si

aggiunge poi del pomodoro fresco e dei liquidi che rendono questa cottura

mista, costituendo la classica cottura del “brasato”. Si fa sobbollire quindi per

venti minuti e si aggiunge infine del parmigiano (oggetto culturale in sé, con

una propria storia e un programma narrativo di costruzione). Questo metodo di

cottura fase dopo fase percorre il lato destro del tetraedro andandosi a

concentrare verso il polo del putrido (ben inteso, spogliato da ogni

connotazione negativa).

La trippa una volta cotta viene conservata in frigorifero: una macchina del

freddo o dell’anti-fuoco, come direbbe Isabella Brugo (1998), uno strumento

che riproduce una condizione di discontinuità bloccando il tempo e i processi

naturali di putrefazione. Al momento dell’ordinazione del piatto da parte del

cliente, il soggetto operatore tira fuori dal frigo quest’oggetto parziale di

valore e lo introduce nel forno a microonde per riscaldarlo. In opposizione al

frigo o ancor meglio al congelatore, il microonde può essere classificato come

una macchina del caldo che in un tempo di preparazione in-naturale e sintetico

opera un trapasso dal caldo al freddo, riproducendo una condizione di

“simultaneità, soglia minima del discontinuo” (Brugo, ivi).

1.1.4. (PN1) La preparazione della costoletta di rombo.

Il PN1 è relativo alla procedura di cottura più complessa e caratterizzata da

discontinuità. Essa viene portata a termine dall’inizio alla fine al momento

dell’ordinazione, sebbene per la sua preparazione comprenda l’utilizzo di

oggetti parziali prodotti in precedenza da soggetti umani delegati.

Il PN di taglio.

Si ha un primo passaggio da /crudo/ a /non-crudo/ attraverso le procedure di

taglio e sfilettamento del rombo, che richiedono delle operazioni abbastanza

complesse. Per mezzo di un coltello, il rombo intero viene privato della sua

forma naturale e caratteristica dalla quale ha ricevuto il nome per acquistare

una forma nuova e “culturale”, quella di una costoletta. Questa sua

conformazione le viene conferendo un trattamento differenziato ai due lati che

si costituiscono attraverso un’incisione longitudinale. Un lato viene sfilettato e

ciò che si ricava viene messo da parte per altre preparazioni. Quindi si rischia

via completamente la polpa dalla lisca. Con colpi netti trasversali percorrenti

tutta la sezione il pesce è infine tagliato in tranci, che prolungandosi al pezzo

di lisca del lato opposto e debitamente spellati assumono una forma analoga a

costolette.

Questa configurazione, corrispondente ad un taglio di carne e priva di un

corrispettivo nei tagli classici del pesce a causa della diversa morfologia,

produce nell’osservatore un effetto disorientante e di stupore. Secondo la

definizione data dall’Artusi (1891, p.26), la costoletta è “una braciola colla

costola, di vitella di latte, di agnello, di castrato e simili”. Una “costoletta di

rombo” probabilmente non si era mai vista; è una sorta di gioco simulatorio

che si basa sul principio dell’intervento manipolatorio sul cibo al fine di un

allontanamento dalla memoria collettiva. E’ una sfida ai tabù alimentari e alle

abitudini consolidate, un atto provocatorio che forse deve parte della sua

incisività al fatto di riferirsi ad un pesce che dalla sua forma ha tratto il suo

nome. L’idea di fare un taglio diverso è il principio base da cui è nato il piatto,

come riferisce Moreno Cedroni. Da qui attraverso prove, considerazioni ed

assaggi si è cercato di individuare i migliori abbinamenti possibili, valutare

ingredienti e cotture ideali per creare un equilibrio gustativo globale.

Fig.1-2 Il taglio del rombo.

Un PN aggiunto: la prezzemolata.

Prima della cottura la costoletta viene condita con sale e pepe, nonché

cosparsa di una prezzemolata, oggetto prodotto in un programma narrativo

anteriore proprio e completo, per opera di un soggetto umano delegato. Questo

PN annesso e aggiunto è costituito da un’operazione di triturazione attraverso

una macchina del freddo: degli elementi iniziali, prezzemolo, pancarrè

(oggetto culturale di per sé) ed aglio vengono sminuzzati e ridotti in un altro

oggetto proprio sufficientemente omogeneo e secco. La prezzemolata che si

ricava funge da rivestimento della costoletta e da mediazione fra il /crudo/ e il

/cotto/.

Il PN di cottura alla griglia.

La costoletta così ricoperta viene posta prima di tutto su una griglia molto

calda, ricevendo una cottura esogena che colora e secca l’esterno del pesce

senza far raggiungere un’alta temperatura all’interno. La costoletta viene

girata in tutti e quattro i lati cosicché da produrre una crosticina uniforme.

Il passaggio dal /non-crudo/ al /cotto/ è poi interrotto attraverso un processo

di raffreddamento che viene messo in atto in seguito a questa cottura. La

costoletta viene infatti messa alcuni minuti in frigo, come abbiamo detto una

macchina del freddo della discontinuità temporale, affinché il pesce non superi

la temperatura dalla quale inizia il rilasciamento dei liquidi.

Fig.3 La costoletta sulla piastra.

La cottura prosegue in padella antiaderente, in seguito ad un’ulteriore

panatura.

Un PN aggiunto: la panatura.

La pastella è oggetto che risulta da un PN proprio ed annesso. E’ costituita

da birra Peroni, farina, albume e rosmarino. La preparazione della pastella

reclama un fare culinario non delegato a fuoco o acqua bensì ad un soggetto

umano, il quale deve:

– PNa (d’uso): triturare oggetti solidi (rosmarino), ovvero dividere in minime

parti un elemento naturale intero;

– PNb: amalgamare oggetti solidi e liquidi unificando ciò che è diviso per

costruire un oggetto nuovo di stato intermedio (fluido) e colore modificato.

La pastella è costituita da un elemento liquido (birra), degli elementi solidi

(farina e il rosmarino triturato, oggetto parziale del PN precedente) e

coagulanti (albume). Il composto che risulta di consistenza morbida e cremosa

viene utilizzato per ricoprire la costoletta prima della cottura. Il suo scopo è

quello di proteggere la polpa interna della costoletta dal calore del fuoco con

cui viene a contatto.

Il PN della cottura in padella.

Segue un nuovo PN di cottura, in cui il soggetto umano delega i suoi poteri

al fuoco per l’operazione trasformativa culinaria. La costoletta viene posta a

cuocere con olio, rosmarino e aglio vestito in una padella che è stata portata a

temperatura elevata. La disposizione aspettuale di questo processo di cottura è

molto importante, come sottolinea il cuoco: la costoletta va infatti sistemata

sul fuoco al momento opportuno, “dopo una lunga attesa piena di tensione,

quando il calore dell’olio è talmente intenso da poter trasformare, bruscamente

ed istantaneamente, la superficie dell’oggetto in una volta dura e dorata”

(Marrone, 1997, p.190 della trad. it.). Ad alta temperatura e con l’olio bollente,

la pastella di birra si solidifica formando una sorta di strato isolante che va ad

aggiungersi alla crosticina formatasi con la cottura dello strato secco della

prezzemolata. Attraverso questa cottura veloce, intensa ed esogena, l’interno e

l’esterno del pesce subiscono l’aggressione del calore in maniera differenziata.

Il passaggio da /non crudo/ a /cotto/ non è quindi ancora portato a conclusione.

Fig.4 La cottura in padella.

Il PN della cottura in forno.

La cottura della costoletta viene portata a termine nel forno, per

irraggiamento. L’agente di cottura è quindi l’aria calda, che ha la proprietà di

conservare mediante concentrazione tutti i succhi degli elementi. L’agente

concentrante colpisce e inviluppa la costoletta scaldando il primo strato, i

succhi si ritirano verso il centro protetti dalla superficie secca. Il calore si

trasmette in successione agli altri strati e i succhi trattenuti dalla crosticina

esterna, non potendo fuoriuscire dal tessuto, si riscaldano essi stessi

contribuendo alla cottura. Ne risulta che la polpa all’interno risulta alla fine del

processo più umida e morbida rispetto alla parete superficiale.

Fig.5 Cottura della costoletta panata in forno.

Il passaggio dal crudo al cotto è quindi portato a termine, ma questa sua

felice conclusione è oggetto di verifica attraverso una sanzione cognitiva: il

soggetto umano infatti introduce nel forno all’interno della costoletta un

termometro da cucina con il quale verifica che la polpa abbia raggiunto la

temperatura di 50°, tacca che indica la cottura ideale della costoletta. Questo

momento interpretativo segna un punto di distacco con lo schema narrativo

canonico, pensato nel quadro di una semiotica del soggetto. In un caso come

questo in cui l’attenzione è focalizzata sul processo di costruzione di un

oggetto di valore, alla fine del processo non si giudica infatti tanto l’avvenuta

trasformazione di un soggetto-operatore quanto di un oggetto: è il piatto ad

essere riconosciuto quale unico vero eroe del gusto, portatore dei valori che il

codice gustativo gli fornisce e che un destinante attorializzato in forma

antropomorfa garantisce. In quest’ottica, possiamo concordare con l’opinione

di Piero Ricci (1981b), secondo cui la fase in cui il cuoco con l’assaggio o

altre forme di controllo determina se la pietanza da lui cucinata “è o non è un

ragù” (o nel nostro caso se è o non è una costoletta di rombo) corrisponde alla

prova qualificante della fiaba,”che marca l’eroe e gli conferisce un nome

proprio nella logica del racconto” (ivi, p.132).

Al termine dei rispettivi processi di cottura, i tre oggetti parziali O1, O2 e

O3 risultato dei corrispondenti programmi narrativi vengono combinati

assieme nel montaggio del piatto. L'assemblaggio non è comunque un

semplice accostamento dei vari elementi. Comprende un ulteriore aggiunta,

una sorta di vezzo che però è possibile collocare in un sistema di

significazione. Sul letto di erbe strascicate viene posta la costoletta di rombo

impanata contornata dalla trippa di coda di rospo e sovrastata da un pezzetto di

pelle di rombo affumicata e fritta.

La pelle di rombo.

Questa buccia croccante è un oggetto "culturalizzato" prodotto da un PN

aggiunto e indipendente proprio. La pelle del rombo è cotta in forno per

mezz’ora a 100° in modo da asciugarsi completamente. Tagliata a listarelle è

fritta nell'olio molto caldo in modo che risulti croccante. Questo tipo di cottura

la ravvicina molto al polo del cotto-affumicato, caratterizzata com'è da una

cottura atta a rendere l'alimento completamente ed omogeneamente secco. Vi

si può individuare una qualche analogia con le preparazioni della carne

essiccata frequenti nelle popolazioni studiate da Lévi-Strauss e da lui

ricondotte proprio al polo sopra indicato.

Si aggiunge inoltre una salsina di olio, limone e sale. Essendo

un'emulsione, è una sostanza che esalta le differenze, creando delle

opposizioni con gli elementi internamente omogenei circostanti. E' inoltre un

elemento trasparente, in contrasto con l'opacità della costoletta, un elemento

crudo ed umido (liquido) in opposizione agli elementi secchi.

Fig.6 Il piatto finito e montato.

1.1.4. Le cotture.

Per concludere questa sezione d’analisi in cui fra le altre cose si è discusso

sulle diverse tecniche di preparazione alla base del nostro piatto, ritengo utile

schematizzare in una tabella le diverse nature delle cotture effettuate fase dopo

fase in ognuna delle componenti principali.

Componenti Tecnica Elementi Esog./End.

alla griglia (+prezzemolata)

+aria esogena

saltata in padella (+panatura)

+olio esogena

(PN1) COTTURA COSTOLETTA DI ROMBO

arrosto al forno

+aria esogena

lessate +acqua endogena (PN2) COTTURA ERBE DI CAMPO

saltate in padella

+olio esogena

(PN3) COTTURA TRIPPA DI CODA DI ROSPO

lessata +acqua endogena

Come si deduce dallo schema, è possibile ricondurre i tre componenti a

diversi poli nell’opposizione di base tra natura endogena ed esogena delle

cottura. La costoletta di rombo, cotta alla griglia dopo esser stata rivestita da

una prezzemolata, saltata in padella previa panatura e quindi arrostita in forno

implica in tutte le fasi delle modalità di cottura esogene, caratterizzate da un

passaggio del calore dall’esterno verso l’interno e da una conseguente

difformità fra il livello di cottura della superficie e della polpa della pietanza.

La trippa di coda di rospo all’opposto si concentra verso il polo delle tecniche

endogene, poiché, nella lessatura prima e nella cottura in umido poi, il calore

proveniente dall’interno fa sì che il cibo non risulti alla fine più secco

all’esterno e più crudo all’interno. Le erbe di campo, lessate e strascinate in

padella, si collocano da questo punto di vista in una posizione intermedia,

prevedendo una commistione fra una tecnica endogena ed una esogena, e

andando quindi ad equilibrare le opposte tendenze seguite dalle altre

componenti del piatto.

Vorrei proporre un’ulteriore classificazione delle tecniche che tiene conto

del quarto elemento ideale del piatto, ovvero la pelle di rombo essiccata e

fritta. Sebbene la sua funzione sia principalmente decorativa e tattile (creando

un contrasto grazie alla sua croccantezza), essa può giocare un ruolo

importante nelle strutture differenziali immanenti ai metodi di cottura.

Prendendo in considerazione la già citata griglia proposta da Ricci (1981b) in

forma di tetraedro, vediamo che le preparazioni dei quattro oggetti parziali

vanno a coprire e completare essenzialmente tutte le principali aree della

figura:

Sul lato destro dall’alto troviamo le erbe di campo bollite brevemente in acqua

e strascinate con un po’ dell’olio in modo da mantenersi ad uno stadio quasi-

crudo, più in basso individuiamo la trippa di coda di rospo lessata e cotta a

lungo in umido fino a portarsi ad uno stadio molto cotto (quasi putrido). Sul

lato sinistro incontriamo la costoletta di rombo che attraverso le sue complesse

fasi percorre pressoché tutta l’area superiore, e chiudiamo l’intera figura

esplorando l’area inferiore coperta dalla pelle di rombo essiccata e fritta,

prossima al polo del cotto affumicato.

1.2. Assaporando parole. Giochi linguistici nel nome del piatto.

Così come un titolo può essere considerato parte di un’opera, il nome dato

ad un piatto è parte integrante dell’oggetto culinario, da cui la sua rilevanza in

un’indagine delle sue strutture formali e dei suoi effetti di senso. Nel caso

specifico inoltre, un’analisi semantica del nome può rilevare un supplementare

interesse in quanto tutta la complessità e l’originalità dell’idea alla base del

piatto è espressa nelle peculiari (e quasi idiolettali) scelte linguistiche adottate

dall’autore.

Il nome completo del titolo è: "costoletta di rombo panata nella birra chiara,

con erbe strascicate e trippa di coda di rospo". Ad un livello intertestuale, pare

opportuno rilevare che lo stile iperrealista e bucolico del titolo corrisponde a

quello attualmente in voga nei menù dei grandi ristoratori a partire dalle

innovazioni nel gergo culinario apportate dalla nouvelle cuisine, di riflesso agli

scossoni perpetrati alle fondamenta della cucina classica. Un piatto come la

"scaloppa di salmone all'acetosella" dei fratelli Troisgrois, dal nome essenziale

ma preciso, e costituito semplicemente da una fettina di salmone fresco cotta

appena quaranta secondi, una salsa leggera a base riduzione di aromi e foglie

di acetosella, si contrappone per esempio ad una pietanza classica come

"l'aragosta à la Thermidor". Questo piatto dalla nomenclatura tronfia prevede

l'uso di una salsa composta (la Mornay), la quale occulta il sapore

dell'aragosta. In un'opposizione come questa che coinvolge il piano delle

denominazioni così come quello delle operazioni culinarie si può riconoscere

nell'innovazione dei sacerdoti della nouvelle cuisine lo svolgersi di

un'operazione sintattica sul sistema dei valori soggiacenti, ove l'aspetto

manipolatorio dell'arte culinaria viene rifiutato in favore di un avvicinamento

alla vera natura dei cibi.

Fatta propria ed elaborata la lezione stilistica della nuova cucina, il

linguaggio della càrte di Moreno Cedroni combina il realismo dei dettagli su

componenti e cotture con un uso massiccio di figure retoriche, frutto di un'alta

inventiva e specchio di un approccio ludico all'arte culinaria. Nel menù

troviamo per esempio delle “cappesante fritte in tempura al nero di seppia con

vongole, zucchine e paranzola croccante” o una “porchetta di tonno con

vinaigrette con fagiolini e patate e spuma al finocchio selvatico”. Il nome del

piatto in questione non è certamente da meno. Incontriamo i primi tropi già

con l’espressione /costoletta di rombo/, nella quale possiamo considerare i due

lessemi /costoletta/ e /rombo/. Adottando una prospettiva non completamente

aderente a quella greimasiana finora privilegiata, può essere interessante

seguire il pensiero di Eco e provare a ripercorrere il percorso che il Lettore

modello (in questo caso degustatore a venire) compie quando si trova di fronte

a queste espressioni. Sulla base del topic (qui si descrive un piatto culinario) e

del co-testo (Eco, 1979), egli mette in opera dei processi di amalgama

confrontando questi lessemi con il sistema di codici e sottocodici provvisti

dalla lingua in cui sono scritti e dalla competenza enciclopedica a cui essa

rinvia. Alcune proprietà dei sememi corrispondenti saranno quindi magnificate

e tenute presente nel corso della decodifica, mentre altre verranno tenute sotto

narcosi.

Sappiamo per esempio dal dizionario che la costoletta è un taglio di carne

prossima alla costola, e che il rombo in questa selezione contestuale non è un

rumore ma un pesce piatto. Naturalmente possiamo avere in mente altre cose,

come che il rombo è un pesce pregiato, che prende il nome dalla sua forma,

che è noto in cucina fin dall'antichità ed è citato perfino in una satira di

Giovenale. Richiamando la nostra conoscenza sui pesci, la selezione

contestuale magnifica la proprietà dei pesci di non avere costole.

Ne ricaviamo che il lessema /costoletta/ dev'essere stato usato in senso

traslato, per trasporto di natura o proprietà sensibili. Siamo incorsi quindi in

una metafora, o meglio una proposta catacresica, nella quale si inventa nuovo

termine utilizzandone due già noti (/costoletta/, /rombo/) e presupponendone

uno inespresso (quest'oggetto inedito) (Eco, 1984). Tra le virtualità dei lessemi

/costoletta/ e /rombo/ richiamate dal contesto culinario individuiamo due semi

incompatibili, rispettivamente uno di /animalità terrestre/ e l’altro di /animalità

marina/ che subiscono sorte diversa nella realizzazione sulla base della

manifestazione lineare. /Rombo/ è collocato in una posizione dominante sul

piano sintagmatico poiché segue la preposizione /di/: può quindi realizzare il

sema (classema) di /animalità marina/ mentre /costoletta/ neutralizzerà il sema

inerente40 /animalità terrestre/ e renderà salienti altri semi, presumibilmente

esterocettivi.

Leggiamo dal proseguo del titolo che la /costoletta/ è /panata nella birra

chiara/; il nostro lettore modello è supposto sapere che il procedimento della

panatura è un passaggio obbligato nelle principali preparazioni classiche delle

costolette di vitello. Sulla base del contesto (o del co-testo nell’accezione di

Eco nel Lector in Fabula), il semema in cui si manifesta e si realizza la

40 Per usare il termine di Rastier, riportato in Pozzato (2001).

virtualità semantica del lessema /costoletta/ sarà costituito da una

combinazione semica del tipo /solidità+spigolosità+con protuberanza + uso a

cottura etc./ (Marsciani; Zinna, 1991).

Qualcosa di parallelo avviene anche nell'ultima parte del titolo

nell’espressione /trippa di coda di rospo/. Anche qui dobbiamo ricorrere alle

conoscenze enciclopediche per sapere che la trippa in un contesto culinario è

un taglio di carne, una parte dello stomaco dei bovini macellati. Fra le altre

cose, abbiamo cognizione che si cuoce e si condisce in vari modi, costituendo

un piatto di cucina popolare. Per quanto riguarda la /coda di rospo/, sappiamo

che in cucina è meglio conosciuta con questo nome la rana pescatrice, un

grosso pesce dall'aspetto un po' mostruoso del quale non si utilizza l’enorme

testa. Anche /coda/ e /rospo/ sono usati in senso traslato ma possiamo limitarci

ad analizzarli assemblati come lessia.

Come nel caso precedente, /trippa/ e /coda di rospo/ richiamano

virtualmente i semi inerenti rispettivamente di /animalità terrestre/ e di

/animalità marina/. Ancora una volta, causa pressione del co-testo sull'asse

sintagmatico al momento della degustazione ci aspetteremo del pesce e non

della carne, con la conseguente neutralizzazione di quest’ultimo sema. La coda

di rospo presenterà qualche analogia con la trippa, presumibilmente ne

condividerà l'aspetto esteriore o la cottura.

Sulla base di quanto è stato rilevato finora, all'interno di una generale

isotopia alimentare cui rinvia nel complesso il titolo è possibile ravvisare nel

testo in esame una serie di isotopie seconde parzialmente sovrapponibili.

Innanzitutto, sulla base delle considerazioni di Greimas (1966), l'iteratività

delle denominazioni figurative (come "costoletta di rombo", "trippa di coda di

rospo", che potrebbe far ricondurre il testo in esame ad una comunicazione

poetica) può portare all'individuazione di un'isotopia complessa sulla base alla

categoria classematica animalità terrestre/animalità marina. In accordo con

quanto espresso in Semantica strutturale, torna utile creare una distinzione tra

il piano manifesto e pratico, generalmente il solo esplorato dalle analisi livello

semantiche, ed un secondo piano latente e mitico, rilevante soprattutto ma non

esclusivamente in poesia. Se come suggerisce Greimas (ivi) per riferirci a

questi due livelli utilizziamo operativamente e rispettivamente i termini testo e

metatesto, ritroviamo che nelle metafore sopracitate il classema "animalità

ittica" stabilisce l'isotopia positiva che si manifesta nel testo, mentre il

classema "animalità terrestre" determina l'isotopia negativa relativa al

metatesto.

animalità ittica positivo

? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ?

animalità terrestre negativo

In questo senso assumiamo totalmente il termine di animalità terrestre, e

parzialmente (ma a livello poetico in modo determinante) quello di animalità

marina (Greimas, Courtés, 1979).

A livello figurativo, si potrebbero individuare anche una serie di campi

semantici riferibili a piani isotopi parzialmente sovrapposti all'isotopia

descritta. Ad esempio possiamo rintraccia un'opposizione semantica /mondo

rurale/ vs /mondo ittico/, ove riconduciamo al primo termine "erbe di campo",

"trippa", "costoletta di x panata" e al secondo "rombo", "coda di rospo".

Essendo inoltre questi ultimi ingredienti dei pesci bianchi pregiati, potremmo

individuare un'altra coppia di valori semantici, /cucina raffinata/ vs /cucina

povera/ (quest'ultima rappresentata da "trippa" ed "erbe di campo"), che può

rinviare ad un'isotopia tematica.

Ritorniamo però all'isotopia complessa relativa alla natura animale: la sua

iscrizione nel discorso infatti può essere associata ad un posizionamento

particolare sul quadrato di veridizione, nel quale possiamo iscrivere due valori

semantici, /carne/ vs /pesce/, alla base della costruzione e della presentazione

del piatto.

Le rappresentazioni possibili sono due, a seconda della focalizzazione su

uno o l'altro dei valori. Riportiamo quello che presuppone un osservatore che

porge la sua attenzione sull'aspetto esteriore del piatto, alla base di una ricetta

come questa.

Siamo in presenza di un gioco di mascheramento, dove il pesce assume le

sembianze di carne, alla quale semanticamente si oppone. La carne è collocata

sul piano dell’apparire e il pesce su quello dell’essere. La costoletta di rombo

sembra carne ma non lo è, ponendosi quindi su un piano di menzogna

(Greimas, 1983) manifesta ed accettata attraverso adesione al gioco, mentre

secondo un'altra prospettiva potremmo dire che è pesce anche se non lo

sembra (focalizzandosi sul piano dell'essere sarebbe quindi un segreto).

Appare opportuno notare che al di là dell'ambiguità apparente delle nature la

configurazione del piatto risulta d'altro canto assolutamente veritiera sulle

trasformazioni e le operazioni effettuate sui cibi: il rombo è infatti veramente

panato e cotto (con qualche variante) come nella ricetta tradizionale della

costoletta di vitello, e il termine "trippa" svela e rende manifesta l'adozione di

una tecnica analoga a quella usata per la carne nella cucina popolare.

1.3. L’esthesis culinaria. Il momento della degustazione.

L’oggetto di gusto giudicato “pronto” (e quindi sanzionato una prima volta)

dal soggetto-creatore (lo chef) viene servito in tavola al cliente che lo

desiderava e se ne può congiungere. E’ quest’ultimo a decretare il

superamento effettivo della prova principale esercitando il diritto di sanzione

del piatto, secondo la logica del contratto fiduciario alla base dell'esercizio

della ristorazione. Questo soggetto di stato (che chiameremo soggetto-

degustatore) esercita il suo giudizio di gusto in una determinazione aspettuale

tendenzialmente terminativa, in quanto deve riconoscere l’avvenuta

valorizzazione dell’oggetto alla conclusione del processo culinario. Secondo

Piero Ricci (1981b), con le debite differenziazioni già evidenziate, si realizza

in questa fase l’equivalente della prova principale della fiaba e.con il parlare

della portata l’omologo della prova glorificante.

In questo momento in cui soggetto e oggetto, cliente e piatto stanno uno di

fronte all’altro, perdono di pertinenza (almeno fino ad un certo punto e in una

certa misura) “le catene di presupposizioni semio-narrative che fanno di

questo luogo della significazione, e di questo percorso di produzione un

programma d’uso in vista di un programma di base distinto” (Marsciani, 1997,

p.36 della trad. it.). A diversi livelli di distanza a seconda degli organi di senso

attivati può esercitarsi una sanzione positiva o negativa del piatto,

determinando con le parole di Fiorin (1997, p.26 della trad. it.) “la legittimità o

l’illegittimità del gusto”.

Per esemplificare un caso infausto al grado di distanza più alto, un cliente

può rifiutare una portata al momento in cui essa gli viene servita perché la

giudica nell’aspetto non corrispondente alla descrizione che compare nel

menù, in quanto compaiono ingredienti diversi da quelli selezionati attraverso

la scelta del piatto.

In questa situazione l'oggetto di valore viene misconosciuto e il soggetto

giudicante colloca il piatto che gli è stato portato in una posizione di falsità nel

quadrato di veridizione: l'oggetto non-sembra (questo giudizio infatti si ha

all'apparire) e non-è nell’ottica di questo attore quello che è stato dato per vero

da chi ha servito il piatto. Si trova quindi davanti ad un non-valore e si ha una

“sospensione della trasformazione” messa in atto nel processo di scambio

(Greimas, 1983, p.40 della trad. it.).

In assenza del verificarsi di un caso limite come questo, l’oggetto di gusto

viene accettato nel suo statuto valoriale e può portarsi a compimento il

fenomeno della sensibilizzazione dell’inerenza reciproca tra soggetto e

oggetto. Siamo di fronte ad un’esperienza estesica, in cui centrale è la

percezione sensoriale e dove il soggetto è collocabile in una posizione di

ricettività, posizione intermedia in una scala di modulazioni della soggettività

(Pozzato, 2001, p.165).

Il degustatore in un modello canonico si avvicina progressivamente al

piatto, esercitando un giudizio di gusto prima a distanza con la vista e con

l’olfatto, poi in un punto di liason attraverso una percezione tattile della

consistenza (in un primo momento mediata da uno strumento come la

forchetta) e quindi in congiunzione nell’introiezione dell’oggetto che si ha

nell’assaggio (Greimas, 1987). Il processo di degustazione nella sua interezza

comporta però una percezione di natura essenzialmente sincretica, in quanto

gli organi di senso intervengono simultaneamente e in interazione fra loro.

In questa fase il cliente potrà produrre una sanzione sensibile del piatto,

sulla base di una esthesis che si scinde in una dimensione propriamente

estetica della fruizione dei valori appresi sul piano figurativo “di superficie”,

ed in una dimensione più “profonda” e primitiva, che spiega il carattere

euforico o disforico delle sensazioni (Landowski, 1997). L’assaggiatore della

costoletta di rombo proverà quindi una sensazione euforica (o disforica) alla

visione del piatto presentato in tavola, nel percepirne gli aromi e

nell’affondarvi la forchetta, nel gustarne il sapore.

Dalla giudizio estesico prende le mosse un giudizio cognitivo (o razionale),

dove c’è un soggetto degustatore razionale incaricato di valutare ciò che gli

organi di senso registrano. E’ in questa fase che vengono riconosciute le

componenti dei piatti attraverso un processo di discernimento

dell’indifferenziato e di denominazione degli elementi. Il degustatore del

nostro piatto avrà un’esperienza estetico-gustativa completa, in cui proverà

euforia (o disforia) di fronte al gioco del mascheramento delle forme del

rombo, nel ravvisare l’equilibrio fra l’amaro delle erbe e il dolciastro del sugo,

nel percepire i contrasti fra la croccantezza della pelle fritta e la morbida

consistenza della coda di rospo.

Gli stati euforici che si possono raggiungere nella degustazione dipendono

direttamente dalle caratteristiche strutturali interne che definiscono il piatto

(sulla base di proprietà organolettiche di ingredienti e trasformazioni chimiche

operate dalle cotture), ma l’attualizzazione di un effetto di senso particolare

rimanda ad altri parametri di natura soggettuale (per usare il termine di

Landowski) e sociale.

Il giudizio di gusto sulla costoletta di rombo dipende essenzialmente dal

punto di vista e dallo stato del soggetto nel momento in cui si pone in

relazione con l’oggetto. E’ determinante in questo campo la dimensione

aspettuale data dalla memoria gustativa: a seconda che qualcuno percepisca

un gioco formale, esplori la consistenza e assapori i contrasti gustativi di un

piatto per la prima volta oppure che già li conosca e li abbia iterativamente

conosciuti, è possibile che nel primo caso trovi quel cibo “delizioso” perché

gli ha fatto scoprire nuove sensazioni, mentre nel secondo stemperi (o perfino

ribalti) la positività del giudizio perché si è esaurito l’incanto del nuovo.

Naturalmente ciò non significa che si sia esaurito l’incanto dell’oggetto in sé,

supponendo nell’ipotesi che esso sia rimasto lo stesso, “ma quello delle

sensazioni che gli corrispondono, già sperimentate fino alla sazietà in

occasioni di precedenti degustazioni” (Landowski, 1997, p. 108 della trad. it.).

Del resto può accadere anche l’opposto, ovvero un piatto può produrre

sentimenti euforici perché reiterando emozioni gustative già sperimentate

evoca e presentifica un luogo antropologico fatto di memorie, storie e affetti

(Teti, 1999). In questo caso, il processo di degustazione che possiede come

abbiamo visto una modulazione aspettuale terminativa (relativamente al

programma di produzione) ma anche una dimensione durativa (nel persistere

delle sensazioni gustative in bocca), è capace di aprire il mondo del ricordo,

“caratterizzato da una sorta di densità, durativo temporalmente ed esteso e

compatto spazialmente” (Grignaffini, 1997, p.223 della trad. it). E’ questo un

mondo noto alla letteratura, e forse l’esempio più noto e citato sono i

riferimenti nostalgici alla madeleine nella Recherche proustiana.

Già dall’esame di questi aspetti emerge la rilevanza nel giudizio di gusto di

una dimensione collettiva di valutazione, che si aggiunge a quella più

individuale e soggettiva. Sulla valenza propriamente sociale del gusto si

sofferma fra gli altri Greimas (1987), che sottolinea come la configurazione

sensibile di un oggetto vada investita da valori collettivi: “sebbene il sapore sia

avvertito nell’intimità della bocca, ci si chiede come sia possibile che la

comprensione del gusto tenda a generalizzarsi e ad intellettualizzarsi” (p.53

della trad. it.).

Le forme naturali manifestate dall’oggetto di gusto sono coniugate a

determinate forme culturali, e nel sottoporlo a giudizio vengono esplorate

relazioni e corrispondenze andando oltre i confini dell’estetica per coinvolgere

dimensioni quali quella etica ed epistemica (delle quali, per inciso, Greimas

intende ricostruire un’assiologia).

La pratica di degustazione si rileva quindi un processo significante che

coinvolge una dimensione estetica ed una cognitiva, una più legata alla

percezione individuale e una di natura prevalentemente sociale. Implica degli

effetti patemici e delle operazioni di discernimento, categorizzazione e

assiologizzazione di valori. Il soggetto implicito in questo processo non può

essere naturalmente un consumatore-sonnambulo di cibo41: sarà infatti un

consumatore-gourmet, capace di semantizzare il proprio consumo, identificare

elementi ed effetti gustativi, riconoscere la qualità sinestetica del piacere

offerto dal cibo degustato.

Secondo l’opinione di Landowski (1997), dobbiamo inoltre discernere due

modalità di esercizio del gusto, che individuano tipologie di soggetti e processi

distinti. Esiste in primo luogo un gusto oggettuale di godere il mondo, dove un

soggetto si colloca nella posizione di un consumatore disposto a valutare le

qualità degli oggetti e possibilmente a goderne. Questa modalità tende a

ridurre il mondo a corpi senz’anima. In secondo luogo esiste un secondo modo

di relazionarsi al mondo, apparentemente molto vicino e somigliante al primo,

ma che non si confonde con esso: il fruire gli oggetti. La “condizione iniziale

per ciò che riguarda l’attualizzazione di questa forma di piacere è che il

potenziale ‘fruitore’, S2, sappia riconoscere, o costruire, la realtà esterna, S1,

in quanto spazio popolato da presenze sensibili che producano significato,

vale a dire da soggetti” (ivi, p.117 della trad. it.). Questi possono manifestarsi

quasi indifferentemente sotto forma di esseri umani o di cose, ma la

condizione che le rende istanze pronte ad interagire esteticamente ed

esteticamente con S2 è costituita dal fatto che quest’ultimo entrandone in

relazione “sia disposto a considerarli proprio come attanti pienamente

competenti” (ivi, p.118 della trad. it).

Come un enunciato presuppone e costruisce un enunciatario, così la

costoletta di rombo presuppone e costruisce un certo tipo di degustatore. Come

propone Floch (1997) a livello ideale nello studio sulla birra e come mette in

opera nell’analisi di un piatto di Michel Bras (Floch, 1995a), potremmo

accostarci alla creazione di Cedroni non solo come oggetto di valore culturale,

bensì come un autentico enunciato gustativo. Nella parte che segue andremo a

considerare la costoletta di rombo nella sua natura di “piatto reale” costruito e

pronto per essere consumato e gustato, e non nelle sue fasi di costruzione,

concependolo come un vero e proprio racconto, dove i componenti del piatto

si rivelano soggetti agiti e soggetti agenti.

1.4. Analisi del piatto.

41 Per usare un’espressione applicata a questo campo da Floch (1997) a modello della sua

più famosa classificazione dei viaggiatori di metrò (Floch, 1990).

1.4.1. Strutture dei sapori e universi culinari.

Dopo aver analizzato su un piano semio-narrativo il momento della

produzione del piatto attraverso la griglia concettuale del processo di

creazione di un oggetto di valore, ed aver esplorato più astrattamente il

momento di sanzione e fruizione dello stesso da parte di un soggetto-

degustatore, possiamo focalizzare la nostra attenzione sul piatto finito.

Traendo ispirazione dalla metodologia seguita da Floch (1995a) nella sua

analisi della “spigola al finocchietto”, il nostro livello di pertinenza sarà

costituito dalle qualità sensoriali e materiche dei componenti del piatto, così

come degli effetti di senso correlati, nella degustazione, a queste qualità.

Il piatto nel suo complesso è strutturato in sezioni rappresentate da

ingredienti diversi che subiscono ognuno una propria preparazione e cottura.

Le componenti si stagliano contribuendo ad un gioco di contrasti nei gusti e

nella consistenza. La cucina di Moreno Cedroni verrebbe probabilmente

definita secondo la terminologia adottata da Marchesi “timbrica”, aggettivo

mutuato dalla pittura dove compare nella sua natura complementare a

“tonale”. E’ timbrica la tecnica di preparazione grazie alla quale i sapori

giungono distinti al palato. E’ tonale invece la cucina dove “i sapori sono

amalgamati per dar vita ad un unico motivo conduttore” (Marchesi, 1988b). A

quest'ultima tipologia di cottura possiamo ricondurre la cucina europea

classica e popolare, di cui un piatto particolarmente rappresentativo è il

brasato, dove la carne sottoposta a cottura dolce scambia con l’elemento

liquido (vino, brodo, o altro) succhi e umori con gli aromi. Si opera in questo

caso una miscelazione di sapori al fine di restituire, seppure in un variegarsi di

sfumature, un unico effetto. Come scrive Marchesi, al termine del progressivo

scambio di elementi nel processo della brasatura, “la carne e la salsa

diverranno sottili variazioni su uno stesso tema” (ivi, p.65).

Diversamente, nel piatto di Cedroni la preparazione culinaria gioca sulla

struttura di sapori accostati e coordinati insieme garantendo che ogni

componente venga valorizzato ed esaltato nella sua specificità attribuendogli

un trattamento peculiare. Come auspicato dai sacerdoti della nouvelle cuisine,

abbiamo un cuoco interprete dell’essenza delle cose che adotta le tecniche e i

tempi di cottura più adatti alle caratteristiche organolettiche degli ingredienti,

con un occhio di riguardo alla loro unione nella composizione. Segue

quest'ultima principi di conciliazione di elementi contrastanti variamente

disposti su strutture oppositive: un singolo elemento che assaggiato da solo

può creare squilibrio e aspettualizzarsi in una delle forme dell’eccesso (es. se

domina l’amaro) combinandosi con un altro ingrediente accentuato verso un

altro polo può produrre un effetto di equilibrio gustativo composito. Possiamo

ricondurre questo stile culinario a quella che Ferraro (1998) definisce una

“cucina di distinzione di indirizzo combinatorio e strutturale, che gioca

sull’unione di elementi opposti”.

Come ha fatto Floch nell’analisi della “spigola al finocchio selvatico”,

possiamo in primo luogo andare ad esplorare la dimensione concettuale dei

componenti del nostro piatto e la loro collocazione nell’universo culinario in

generale, e di Moreno Cedroni in particolare. Consideriamo innanzitutto i due

elementi di contorno all’elemento centrale: la costoletta. Abbiamo le erbe di

campo, vegetali spontanei, un ingrediente che richiama ad una natura

incontaminata, preservata da trasformazioni ed condizionamenti umani.

Essendo il risultato di un intervento minimo dell'uomo, sono accostabili ad una

dimensione naturale piuttosto che culturale, o corrispondentemente a termine

del selvatico invece che dell'elaborato.

Abbiamo poi la trippa di coda di rospo, un elemento legato alla cultura,

essendo stato oggetto di successive operazioni da parte di un artefice umano.

La sua preparazione piuttosto lunga e complessa ha necessitato infatti di

operazioni di taglio e cotture prolungate, con l’aggiunta di altri elementi fra

cui il parmigiano, prodotto in questo senso dotato di uno statuto culturale. La

cottura mutuata dalla trippa di vitello è inoltre una ricetta classica della cucina

contadina, appartenente quindi al bagaglio di conoscenze della cultura

popolare. Sulla base di queste considerazioni, possiamo affermare che le erbe

di campo strascinate si oppongono semanticamente alla trippa di coda di rospo

all'interno della categoria /natura vs cultura/.

Le erbe inoltre evocano il mondo vegetale, mentre la trippa di coda di rospo

analogamente alla costoletta di rombo richiama il mondo ittico per le proprietà

materiche e il mondo carnivoro per configurazione sensoriale e tecnica di

preparazione. Nella loro combinazione perciò occupano i tre poli di un

immaginario triangolo che rappresenti le tre nature primarie del micro-

universo culinario: vegetali, pesce e carne (ove solo le primi due però sono

realizzate).

L'elemento dominante del piatto, ovvero la costoletta di rombo, va

ricondotto analogamente alla trippa al termine della cultura, in quanto ha

subito numerose elaborazioni e trasformazioni, e nell’artificio della forma ha il

suo perno. Queste componenti sono inoltre accomunate dal gioco del

mascheramento pesce/carne, nonché dal contrasto fra l’uso di prodotti ittici

pregiati e tecniche tipiche della cucina povera tradizionale.

Attraverso uno schema è possibile evidenziare uno spettro di categorie

semantiche che avvicinano costoletta e trippa di coda di rospo e oppongono le

stesse alle erbe di campo strascinate.

Livello mitico.

Costoletta di rombo & Trippa di coda di rospo

Erbe di campo strascinate

mondo animale vs mondo vegetale

sembianza carne/natura pesce vs sembianza natura = vegetale

elaborato vs selvatico

cultura vs natura

tecnica popolare vs

+ prodotto pregiato

tecnica popolare

+ prodotto povero

Il sistema di opposizioni appena delineato rivela molte cose sul discorso

culinario prodotto dell’enunciatore, ovvero dallo chef-creatore del piatto.

Trippa, erbe e costoletta, gli eroi culinari del nostro racconto, parlano di una

cucina ingegnosa, ludica e sorprendente, che gioca ai travestimenti ma senza

camuffamenti rivela la vera essenza degli ingredienti, evitando condimenti

eccessivi e salse coprenti. E’ una cucina che evoca ed assimila le ricette della

tradizione (come la trippa e la costoletta panata) ma le reinterpreta in chiave

nuova e personale, trasponendole a contesti gastronomici differenti, lasciando

così riconoscere la cifra interpretativa dell’autore. I caratteri di questi attori del

gusto sono espressione di uno stile altamente creativo, proprio di un artista che

vuole stupire ed ammaliare, che richiama e sfida la memoria gustativa,

rifiutando i trinceramenti dell’haute cuisine e allontanandosi dalle forme

archetipe acquisite. Potremmo forse definire l’arte di Moreno Cedroni così

come viene espressa da questo piatto una cucina del dialogo e della

conciliazione ironica, ove si ha un’interpolazione di ingredienti e tecniche

della cucina alta e popolare, e dove cultura e natura dialogano e si

confrontano, senza che nessuna di essa soccomba.

Se volessimo posizionare in un quadrato le valorizzazioni espresse dal

piatto in esame nell’ambito della categoria cultura/natura mettendolo a

confronto con quelle espresse dai piatti della cucina classica e dei fratelli

Trosgrois precedentemente citati, il sistema delineato potrebbe apparire

approssimativamente in questo modo:

Sul lato sinistro dovremmo porre “l’aragosta à la Thermidor”, prodotto di

una trasformazione culinaria che facendo uso di salse coprenti rischia di

“snaturare” gli ingredienti. A destra potremmo collocare “la scaloppa di

salmone all’acetosella”, in cui si rifiuta ogni eccessivo artificio attraverso

cotture semplici e brevi che mirano a cercare un contatto con l’essenza degli

ingredienti. “La costoletta di rombo” realizza invece una conciliazione fra

natura e cultura (spingendosi un po’ di più verso questo valore), in quanto da

un lato realizza notevoli processi manipolatori, richiama e gioca con le

tradizioni culinarie, dall’altro rispetta e valorizza i prodotti della natura

attraverso cotture non eccessive e adeguate alle loro caratteristiche

organolettiche.

1.4.2. Unità ed attori del gusto.

Passiamo ora al piano dei rapporti e degli effetti di gusto, ovvero l'ambito

più determinante dell'arte culinaria. Sebbene infatti lo chef-creatore presti

attenzione anche agli effetti registrati dagli altri organi di senso,

nell'invenzione di un nuovo piatto si propone innanzitutto di esplorare

sfumature di gusto e abbinamenti insoliti o dimenticati, applicando la propria

personale idea della struttura compositiva degli elementi del gusto.

Fra gli altri, antropologi come Lévi-Strauss e Mary Douglas sono andati ad

indagare i fattori discriminanti del gusto, proponendosi di individuare le unità

minime del sistema culinario, equivalenti in ambito semiotico ai tratti semici

del gusto, per i quali è stato coniato il temine di "gustemi". A causa delle

caratteristiche fisiche degli organi preposti alla degustazione, questi elementi

sono riconosciuti in numero molto ristretto nonché legati ad altri ordini

sensoriali, in primo luogo olfatto e tatto. Secondo Luz Pessoa de Barros

(1997), i tratti si organizzano secondo differenti e in genere sinestetiche

categorie gustative (come dolce vs amaro, salato vs dolce, piccante vs dolce)

che creano diversi sistemi di opposizioni e che possono essere combinati ad

esempio conciliando i contrari, come nell'agrodolce frequente nella cucina

cinese, oppure fondendo i contraddittori (es. salato e non salato), o ancora

esplorando le deissi (es. dolce e non acido).

In una prospettiva più comune, all'interno della cultura Occidentale si

riconosce invece la presenza di quattro unità basilari del gusto (acido, dolce,

salato, amaro) che vanno accostati e regolati in modo da produrre un equilibrio

gustativo globale. Nell'opinione di Moreno Cedroni, il piatto più sconvolgente

ed emozionante del mondo è quello dove tutti i quattro elementi gustativi sono

presenti e bilanciati allo stesso tempo, cosicché tutte le papille gustative siano

eccitate. Le sue creazioni nascono a volte da intuizioni di innovazioni formali

o da barlumi sull'effetto di un accoppiamento insolito fra ingredienti, ma poi

per la costruzione del piatto nella sua completezza si avanza per tentativi ed

errori sperimentando combinazioni equilibrative per ottenere l'appagamento

totale del palato. Come sostiene nel suo libro lo chef di Senigallia (Cedroni,

2001), per raggiungere tale risultato è essenziale la regolazione della sapidità e

dell'acidità del piatto.

Venendo al nostro caso specifico, possiamo individuare le performanze dei

diversi attori del gusto, che si incontrano e scontrano nel racconto culinario.

Abbiamo in primo luogo la costoletta di rombo che è dotata di una delicata

sapidità ed una componente di untuosità, conseguenza della cottura in olio

avvolta nella pastella. Ad essa si oppongono le erbe di campo strascinate,

vegetali dal tenore amarognolo e dall'effetto astringente che ben compensano

la grassezza della pietanza centrale. Infine incontriamo la trippa di coda di

rospo, che conferisce una persistente sapidità anche grazie al parmigiano,

nonché aggiunge una leggera nota dolciastra e la necessaria componente di

acidità attraverso i pomodori (eventualmente accompagnati da una buccia di

limone), regolando così l'equilibrio gustativo del piatto.

Livello gustativo.

Costoletta di rombo Erbe di campo

Strascinate

Trippa di coda di rospo

sapidità delicata del

pesce ? (? )?

? ? ? ? ?

sapidità persistente del

parmigiano e del sugo

untuosità della

panatura ? vs ?

astringente (? )?

amaro ? vs?

acido e

zuccherino dei pomodori

1.4.3. I sapori a contatto. Oltre alla discriminazione dei sapori, nel processo di degustazione sono

rilevanti sensazioni di altra natura, come quelle relative al piano delle

consistenze, valutato da categorie di ordine tattile e secondariamente uditivo.

Questo livello è determinato dalle caratteristiche materiche degli ingredienti

impiegati nonché dalle trasformazioni chimico-fisiche subite dagli stessi in

seguito ad elaborazioni e cotture.

Possiamo iniziare in quest'analisi dall’elemento centrale: la costoletta di

rombo viene panata e cotta attraverso una serie di procedimenti altrove

descritti che consentono di mantenere la temperatura interna al di sotto della

soglia che provoca il disperdimento degli umori della polpa. A fine

preparazione la carne del rombo sarà compatta ma morbida, né molle né dura.

Si può avanzare l’idea che in essa si realizzi l’equilibrio tra il secco e l’umido

per mezzo di una cottura che si colloca a eguale distanza dal crudo e dal

bruciato.

Poiché l'uso culinario della panatura produce nella degustazione un effetto

sensoriale discontinuo e differenziato attraversando gli strati superficiale e

profondo, è utile attribuire uno statuto proprio alla polpa ed uno alla crosta

della costoletta analizzandoli come elementi distinti. La crosticina della

panatura diversamente dalla parte interna è un elemento secco e relativamente

duro. E' inoltre una componente dalla struttura solida e conchiusa.

Le erbe di campo strascinate sono per natura un elemento umido dalla

consistenza granulosa, e molto umida è anche la trippa di coda di rospo,

arricchita nei liquidi grazie al sugo formatosi in seguito alla cottura, nonché

per le caratteristiche organolettiche piuttosto elastica al contatto. Entrambi

questi elementi, teneri e destrutturati, producono una sensazione diversa da

quella percepita affrontando la compattezza della costoletta.

Un elemento apparentemente di mera funzione decorativa, la pelle di rombo

fritta, assume a livello tattile (ed uditivo) una funzione oppositiva ed

equilibratrice. E’ infatti un elemento inusuale dalla consistenza croccante, che

va ad accordarsi con l’altro elemento secco, ovvero la crosticina della

costoletta, per contrastare la struttura aperta e amorfa di elementi quali la

trippa e le erbe di campo.

Traendo ispirazione dallo schema ideato da Floch (1995a), provo a tracciare

uno schema che rappresenti le strutture oppositive che contrappongono le

varie componenti del piatto sul piano della consistenza. Percependo il cuore

della costoletta come elemento che realizza l'equilibrio nelle categorie del

secco e dell'umido, è possibile collocare le sostanze di contorno su un asse dei

disequilibri, arricchito di ulteriori specificazioni.

Livello delle consistenze.

Pelle di rombo

(molto) secco

(molto) croccante

compatto (chiuso)

Crosta costoletta

secco

croccante

compatto (chiuso)

Polpa costoletta equilibrio secco/umido

Erbe di campo

umido

tenero

discreto (aperto)

granuloso

Trippa di coda di rospo

(molto) umido

(molto) tenero

discreto (aperto)

elastico

Vediamo che sarebbe possibile tracciare un asse diagonale che coordini a

livello aspettuale la pelle e la trippa, entrambi collocabili su un piano

dell'eccesso su valori che li oppongono. E' possibile inoltre individuare

un'ulteriore struttura differenziale che evidenzia gli elementi di contrasto fra le

erbe di campo e la trippa di coda di rospo: le prime infatti hanno una

consistenza granulosa, mentre la seconda conserva una struttura piuttosto

elastica.

Come si avvince dallo schema, l'esperienza tattile del degustatore sarà

molto variegata e non noiosa, grazie alla presenza di sostanze dalla struttura

chimico-fisica molto diversa. Come sostiene Cedroni, per un piatto che dura

più di cinque minuti è indispensabile spezzare la monotonia di consistenze

uniformi, al fine di evitare che nel corso dell'assaggio subentri una caduta del

desiderio gustativo e si spenga la gioia della scoperta del nuovo. Per questo si

è scelto di introdurre un elemento insolito e dall'apparente funzione decorativa

come la pelle di rombo fritta: la sua consistenza croccante risulta stimolante

producendo una variazione delle sensazioni percepite da palato e forchetta.

1.4.4. Bello da mangiare: la presentazione del piatto.

La dimensione visiva del piatto è un aspetto anch'esso molto rilevante nel

processo di degustazione e fondante nel giudizio dell'oggetto del gusto. La

vista è inoltre temporalmente il primo dei sensi a percepire le qualità del cibo,

prima della vera e propria congiunzione con esso nell'introiezione che si ha

con l'assaggio; è importante quindi che la presentazione del piatto lo valorizzi

anticipando ed accrescendo la sensazione euforica che ci si propone di

produrre con il gioco dei sapori.

Moreno Cedroni sceglie di utilizzare quale contenitore un piatto dalla

configurazione non ordinaria: è infatti di forma ovale, differenziandosi dal

molto più comune piatto circolare, è in vetro azzurro trasparente, piuttosto che

in ceramica o in altri materiali opachi. La forma allungata del piatto non è

adeguata a una delle disposizioni più classiche dell'arte culinarie, ovvero

quella "ad orologio", che prevede una collocazione degli elementi a raggiera.

Risulta invece adatta per riprendere la struttura asimmetrica di uno o più

componenti: in questo caso fa "rima" con la morfologia della costoletta, in cui

l'osso (nel caso, un pezzo di lisca) è sporgente rispetto al corpus compatto dei

filetti. La tendenza alla trasparenza del contenitore inoltre pressoché

neutralizza la sua funzione di mediazione col cibo, che si manifesta in tutta la

sua concretezza materiale e nelle sue intense tonalità cromatiche.

Passando al contenuto del piatto, per un'analisi della presentazione sul

piano plastico è interessante concentrarsi innanzitutto sul livello topologico,

articolabile in varie categorie come alto/basso e centrale/periferico, nonché su

quello cromatico. In posizione centrale, la costoletta panata dal giallo dorato si

staglia primeggiando sugli altri elementi godendo di una collocazione in alto,

al di sopra di un letto di erbe di campo strascinate, ingrediente che anche nel

nome evoca un tratto di orizzontalità. Il colore verde cupo di questi vegetali,

tendenzialmente disforico, li sospinge verso una collocazione quasi nascosta.

Al di sopra del rombo viene posto il pezzetto di pelle di rombo e il manico

della costoletta viene ricoperto con un po' di carta stagnola, dall'analogo colore

argentato. Abbiamo quindi un contrasto cromatico fra gli elementi in alto dalle

tonalità brillanti (la costoletta dorata, pelle e carta argentate) e l'ingrediente in

basso dal colore opaco. Sempre in basso ma perifericamente e senza copertura

da parte di altre sostanze troviamo disposta simmetricamente ai lati la trippa di

coda di rospo, elemento di contorno dalle tonalità più vivaci grazie al rosso

intenso dei pomodorini. Entrambe le componenti umide quindi (ovvero erbe e

trippa), come generalmente si verifica anche per motivazioni tecnico-fisiche,

sono collocate ai livelli bassi, mentre gli elementi più secchi sono posti in

posizione superiore. La disposizione topologica degli elementi sembra basarsi

soprattutto su principi di ordine estetico ed estesico, più che su relazioni

attinenti al piano del contenuto. Vi si può riconoscere inoltre una dimensione

funzionale, correlata alle strutture dei sapori: ad esempio, il posizionamento

delle erbe di campo al di sotto della costoletta suggerisce un ordine di

degustazione, ovvero incita a far seguire un boccone di rombo da uno di erbe,

equilibrando il leggero senso di untuosità della panatura con l'effetto

astringente provocato dai vegetali.

Generalmente parlando, la presentazione del piatto è essenzialmente volta a

valorizzare quello che è il prodotto del fare culinario, nonché ad introdurre ed

accrescere il piacere dell'esperienza gustativa in sé. In questo caso specifico,

una componente di piacere può essere costituita anche dalla gioia di

riconoscere i valori immanenti e soprattutto di assistere al gioco (plastico-

figurativo) illusorio creato dall'attribuzione di una sembianza di carne al pesce,

recependo la sfida che esso provoca all'associazione fra memoria visiva e

memoria gustativa. Si può comunque ritenere che operando a livello

sinestetico tutti i vari aspetti coinvolti nella costruzione del piatto possiedono

innanzitutto valorizzazioni legate all'ambito dell'efficacia simbolica, ovvero

come affermava Lévi-Strauss (1958) di quelle pratiche semiosiche che

producono degli effetti sul corpo (Pozzato, 2001).

1.5. Lo chef-bricoleur e la manipolazione dei sapori. Andiamo infine ad esaminare il comportamento che il cuoco adotta con le

materie che manipola e trasforma nella produzione dei suoi piatti. Egli può

accostarsi ad un dato ingrediente perché vuole valorizzare un certo sapore o

anche solo perché è alla ricerca di una consistenza peculiare. Le sue scelte e le

sue attività seguono una logica del sensibile, principio regolatore della scienza

del concreto di cui parla Lévi-Strauss (1962a). Quest'ultima secondo quanto lo

studioso sostiene nel Pensiero selvaggio è una delle due forme attraverso cui

"la natura si lascia aggredire dal pensiero scientifico" (p.28 della trad. it.):

quello approssimativamente adeguato al livello della percezione e

dell'intuizione sensibile.

Quando crea, lo chef ha a disposizione un repertorio molto vasto di

ingredienti impiegabili ad uso gastronomico, e da questo insieme ne preleva

alcuni per combinarli e produrre qualcosa di nuovo. Questi materiali però

nascono ognuno con una propria storia e delle caratteristiche intrinseche che

allo stesso tempo limitano e suggeriscono i loro possibili impieghi. Se il cuoco

sceglie ad esempio di cucinare del rombo, sa che questo gode di uno statuto di

pesce pregiato e che può richiamare alla memoria precedenti esperienze

gustative. Quando decide di usare della coda di rospo, deve tener conto che

essa ha un valore nella storia della cucina mediterranea, ha una sua propria

sapidità delle carni e delle caratteristiche organolettiche che non la rendono

adatta per cotture troppo brevi. Allorché si appresta ad utilizzare delle erbe di

campo, è consapevole che evocano una dimensione culinaria più semplice e

naturale.

Gli ingredienti di cui si fa uso in cucina possono essere considerati secondo

l'espressione di Lévi-Strauss dei materiali "previncolati" che vengono

convocati e fatti interagire nella prassi enunciativa. Come sottolineato da

Floch (1995a) riflettendo sui concetti dell'antropologo, il modo di muoversi

dello chef lo avvicina al bricoleur, il quale si avvale di pezzi precostituiti che

adatta di volta in volta per costruire l'oggetto del suo progetto del momento.

Come è noto, l'autore del Pensiero selvaggio riconosce al bricolage un vero e

proprio statuto cognitivo, assumendolo come elemento essenziale del

funzionamento del pensiero umano ed esportandolo ad ambiti molto diversi e

meno ristretti dell'hobby casalingo in cui si impegna il bricoleur per

antonomasia. Nell'estetica per esempio e nella stessa elaborazione culturale

delle tradizioni di un popolo, si adoperano, elaborano e adattano forme

culturali depositate per la costruzione di nuove configurazioni. Lo chef

analogamente all'artista opererà retrospettivamente convocando un insieme di

materie ed utensili spesso già conosciuti e impiegati, nonché riprendendo

modalità del loro trattamento da altri o da se stesso sperimentate, codificate o

meno in ricette della tradizione nel primo caso e da movimenti artistici nel

secondo.

Anche in una cucina creativa come quella di Moreno Cedroni così come è

espressa dal piatto in esame, nonostante l'originalità delle idee si deve

riconoscere la presenza di fondo di una dialettica fra passato e innovazione,

libertà e costrizioni della materia ovvero delle risorse a disposizione. Le

modalità in cui lo chef intrattiene un dialogo con gli oggetti che adopera, la

loro storia e i mezzi di esecuzione sono rivelatori inoltre almeno in parte della

sua personalità. Da ciò si evince secondo Lévi-Strauss (1962a) la poesia del

bricolage: questo infatti “non si limita a portare a termine, o ad eseguire, ma

‘parla’, non soltanto con le cose […] ma anche mediante le cose: raccontando

attraverso le scelte che opera tra un numero limitato di possibili, il carattere e

la vita del suo autore" (p.34 della trad. it.).

2. Analisi di un piatto: le venticinque verdure

di stagione con cuscus. Vorrei analizzare un piatto di Miguel Sánchez Romera a mio parere molto

interessante perché ci permette di esplorare una delle modalità di approccio

seguite da questo chef nei confronti dei prodotti gastronomici,

dell’innovazione culinaria e dei codici della memoria. Sul modello dell’analisi

della costoletta di rombo di Moreno Cedroni, effettuerò un’analisi semio-

narrativa del processo di costruzione di questo piatto e quindi mi focalizzerò

brevemente sulla pietanza finita dal punto di vista della sua dimensione

estetico-sensoriale. A differenza del caso precedente, prenderò in

considerazione in primo luogo il momento di creazione e non solo di

produzione del piatto, concentrandomi quindi anche sulla sua genesi.

Il momento generativo in tutte le sue possibili manifestazioni per quanto

concerne l’intenzionalità dell’autore è generalmente esclusa dall’approccio

semiotico, ma in una prospettiva greimasiana può essere interpretata nel suo

farsi come progressiva competenzializzazione dell’autore nel portare avanti la

propria performance creativa culinaria. Focalizzandomi sulle tecniche che

questa preparazione comporta, farò inoltre riferimento a studi antropologici di

impianto strutturale, in particolare approfondendo il già discusso triangolo

culinario di Lévi-Strauss.

La denominazione completa della pietanza in esame è: “las veinticinco

verduras de temporada con cuscús ahumado y especiado”. Come verrà messo

in luce dall’analisi, il piatto in esame consiste in una sorta di cuscus moderno,

molto più leggero di quello tradizionale maghrebino, diverso nella concezione

di fondo e manifestamente nell’esperienza di degustazione dal punto di vista

della percezione gustativa e tattile. Viene rispettata la tecnica di cottura

ortodossa del cuscus, ma viene associata all’utilizzo di tecniche aggiuntive

alternative, nonché associato ad elementi manipolati in modo differente, dando

forma ad una costruzione culinaria assolutamente nuova, che non solo adegua

una pietanza tradizionale ai bisogni nutrizionali contemporanei, bensì è

manifestazione di un universo differente.

2.1. Il programma generale di costruzione dell’oggetto.

Secondo la prospettiva che ho scelto di adottare in questo caso, il

programma narrativo principale oggetto di esame è la costruzione di un piatto

nuovo, ovvero un programma non solo di produzione bensì di creazione

culinaria. Il soggetto performatore si propone di ideare e portare a

realizzazione concreta un oggetto di gusto il cui valore è dato dalla sensazione

estetico-gustativa che produce nel suo destinatario. Questo programma va

inquadrato in una cornice più ampia nel contesto ristorativo, ove si porta a

realizzazione un programma narrativo di scambio commerciale dell’oggetto

per mezzo dell’attribuzione da parte di un soggetto creatore e produttore del

piatto42 dell’opera culinaria ad un soggetto di stato, il cliente che lo richiede.

Nel contratto fiduciario instaurato implicitamente nel contesto di un ristorante

creativo come questo, il valore in cui investe il commensale comprende in

modo preponderante la quantità e qualità di innovazione culinaria iscritta

nell’oggetto desiderato.

Il programma di invenzione di un nuovo piatto può essere considerato come

un PN d’uso presupposto alla successiva riproduzione della pietanza nelle

cucine del ristorante nell’orario di apertura, a sua volta subordinata al

programma di scambio dell’oggetto stesso (col servizio, nel momento di

attribuzione). L’atto creativo dello chef inventore nel suo complesso

comprende due componenti articolabili secondo un ordine di presupposizione

logica: la competenza e la performanza. Il momento più propriamente rivolto

all’ideazione di un oggetto nuovo e al suo prendere forma nell’immaginazione

dell’autore è identificabile con quella che Greimas definisce “un’istanza

potenziale in cui si trovano tutte le condizioni preliminari sia dell’essere che

del fare” (Greimas, 1983, p.74 della trad. it). La competenza è “ciò che fa

essere”, o “l’essere” che modalizza il “fare”, rendendo possibile l’intervento

del soggetto sulla materia, il suo momento produttivo. Parte centrale dell’atto

creativo è inoltre il fare somatico (progressivo e conclusivo) costituito dalla

realizzazione, dal “far essere” dell’oggetto di gusto per mezzo della messa in

pratica delle idee escogitate.

42 Eventualmente disgiunti a livello discorsivo in quanto realizzati materialmente da attori

diversi.

Da un punto di vista delle modalizzazioni del fare, ad un esame del

programma narrativo di creazione vengono alla luce le problematiche relative

alle modalità attualizzanti in cui si articola la competenza nonché a quelle

realizzanti proprie della performanza. Nel primo senso, risulta essenziale il

momento di acquisizione del poter-fare e saper-fare il piatto originale, ovvero

la qualificazione del soggetto agente per l’attività creativa. Si ha inoltre una

messa alla prova delle competenze acquisite per mezzo della sperimentazione

empirica e del conseguente affinamento delle associazioni di ingredienti e

procedimenti culinari immaginati dallo chef.

Da un punto di vista delle modalità di stato dovremmo invece considerare

le modalizzazioni dell’essere, intese quali modificazioni dello statuto

dell’oggetto culinario nel senso del suo prendere forma in quanto luogo di

investimento di valore. Sono i valori modalizzati iscritti nell’oggetto a definire

le relazioni di congiunzione o disgiunzione con il soggetto di stato, costituenti

gli stadi costitutivi della sua esistenza. Il /poter-essere/ caratterizza ad esempio

l‘oggetto come possibile, il /saper-essere/ lo definisce quale autentico, il

/voler-essere/ può essere interpretato come “l’essere voluto” dell’oggetto

ovvero quale entità desiderabile per il soggetto (Greimas, 1983, p. 95 della

trad. it.). Nella fase di creazione e prova dei nuovi piatti, possiamo far

coincidere il soggetto di stato e quello del fare interpretati entrambi nella

figura dello chef, il quale è anche destinante del valore dell’oggetto e

destinatario in prima istanza, che si auto-attribuisce l’oggetto creato da testare.

Solo nella cornice più ampia del contesto ristorativi, a livello del PN di base

già descritto possiamo disgiungere questi ruoli con la comparsa di un secondo

soggetto, il “cliente”, il quale può fruire del piatto prodotto e sottoporlo a

sanzione.

2.2. Una lettura semiotica del processo creativo.

Prima di passare all’analisi vera e propria, ritengo opportuno discutere

brevemente una tematica a mio parere interessante, ovvero il processo

d’invenzione da un punto di vista semiotico. La creazione culinaria è

inquadrabile nello schema narrativo più generale dell’invenzione,

interpretabile come un fare cognitivo con estensione pragmatica finalizzato

alla produzione di un oggetto nel cui valore viene presupposto l’elemento di

innovazione. L’oggetto creato deve quindi possedere la qualità di /non essere/

alcuna altra cosa in altro tempo o altro luogo già realizzata.

Il fare creativo analogamente ai processi di scoperta scientifica è segnato

frequentemente da elementi accidentali, ovvero da quelle che Greimas

definisce “rotture evenemenziali” del regolare corso degli eventi, non

necessarie e impreviste fratture del continuum. “La discontinuità, creatrice di

senso, e la non-necessità, forma oggettivata della libertà” (Greimas, 1983,

p.202 della trad. it), caratterizzano i processi d’invenzione in genere.

L’elemento di casualità interviene spesso nel puntualizzare l’inizio del

processo creativo in cucina ma l’attività viene altrettanto comunemente

dirottata intenzionalmente, talvolta già dall’origine e in ogni caso nelle fasi di

sviluppo delle idee iniziali. Per quanto riguarda il primo punto, basta ricordare

le personali tecniche escogitate dagli chef (come del resto dai creativi in

genere) per dare una direzione all’ispirazione, sfiorando il suo opposto per

mezzo di procedimenti caratterizzati da premeditazione.

Ferran Adrià e la sua équipe per supplire ad un’eventuale assenza di

pulsioni creative e ad integrazione alle intuizioni originate da elementi culinari

ed esterni ricorrono spesso ad una serie di articolate liste di ingredienti,

condimenti, tecniche di cottura e presentazione, che aiutino a formulare

associazioni compatibili “trasformando quasi la creazione in un’operazione

informatica” (Adrià, Soler, 1993, p.108, trad. mia).

.Miguel Sánchez Romera invece, piuttosto che aspettare l’ispirazione

improvvisa, ritiene che l’impulso alla creazione venga sollecitato e favorito da

una continua attenzione, che nel suo caso prende le forme di una

“ipervigilanza cerebrale”. Entrambi i cuochi provvedono poi a mettere alla

prova le loro idee sperimentando in cucina l’opportunità di adoperare una

varietà o l’altra degli ingredienti e la possibilità di modificare e affinare le

tecniche ipotizzate.

Può essere interessante notare che la prima delle procedure condiziona la

libertà e l’indeterminazione mentre la seconda va a contrastare la

discontinuità. Si hanno quindi forme di indirizzamento dell’ingegno finalizzate

a sfuggire all’incontrollabilità del regime del caso sottoponendo il fare

cognitivo e pragmatico al governo della consapevolezza. A mio parere, è

possibile interpretare questa serie di operazioni come una modalizzazione nel

senso del /volere/, in quanto i soggetti del programma narrativo dotano di

volontà il processo creativo, altrimenti di natura prevalentemente incosciente e

non premeditata.

Lo sviluppo delle idee comporta un lavoro di ricerca e riflessione, che

prevede un cammino d’investigazione caratterizzato da ipotesi meditate e

adozioni di scelte motivate e ragionate. Nella cucina la libertà inventiva più

che in altre arti applicate è condizionato dalle proprietà sostanziali, dalla

natura organolettica degli elementi combinatori e non solo da quelli estetico-

formali. Come ricorda Sánchez Romera, il limite dell’arte culinaria è dato dal

fatto che si mangia: non è possibile associare colori e forme semplicemente

per intuizione perché il cibo deve essere non solo sensorialmente allettante ma

anche digeribile. Gli ingredienti che andranno a far parte dell’oggetto della

creazione saranno quindi caratterizzati su un piano di commestibilità da una

condizione di necessità ovvero modalizzati secondo un /dover-essere/

mangiabili da parte di un destinatario umano.

Come abbiamo visto quindi anche la libertà creativa non prevede

un’indeterminata e incondizionata possibilità di scelta: esistono tutta una serie

di codici e regole di natura chimico-fisica ma anche e manifestamente di

ordine gustativo ed estetico, dettati da canoni culturali e da preferenze o

idiosincrasie soggettive. Intervengono a questo proposito i vincoli della

memoria, le esperienze sensibili provate dallo chef durante la sua storia

personale e collezionate in una sorta di individuale archivio gustativo. Anche

nel proposito del cambiamento, nell’intento di creare una frattura nella linea

della continuità culinaria si rileva il peso e il confronto con i piatti e le

tecniche del passato. Talvolta la tradizione è fonte di ispirazione per un

cammino verso il nuovo, come riferisce Adrià inserendo l’adattamento fra i

possibili procedimenti43 seguiti nella ricerca creativa, attività alla base della

cucina d’autore. Con questo termine ci si riferisce al processo di

riconfezionamento di un piatto esistente sulla base dell’interpretazione

personale del cuoco. Un metodo particolarmente interessante sviluppato da

Adrià è inoltre quello del decostruzionismo, attraverso il quale si

scompongono i processi culinari di un piatto codificato nelle sue componenti

per costruire un oggetto nuovo.

43 Oltre ai già discussi metodi di associazione e ispirazione (tutti liberamente integrabili fra loro). Cfr. Adrià, Soler (1993).

2.3. La genesi dell’oggetto culinario.

2.3.1. Il processo induttivo.

Ogni cuoco ha comunque i suoi metodi (più o meno irrigiditi in schemi), e

diversi sono i percorsi che può seguire l’estro creativo di ognuno e le modalità

con cui esso è combinato con la razionalità e la conoscenza delle tecniche

appropriate e delle proprietà dei prodotti. Miguel Sánchez Romera ha

sviluppato un atteggiamento verso la ricerca creativa ai limiti dell’ossessione.

Come ricorda personalmente l’autore, ogni idea richiede generalmente un

lungo tempo per svilupparsi, e lo chef deve mantenere un’attenzione sempre

vigile perché essa prenda forma fino al raggiungimento dello stadio definitivo

del piatto.

A differenza della maggioranza dei cuochi, il processo creativo dello chef

dell’Esguard prende le forme del procedimento induttivo. Egli si propone un

obiettivo da realizzare spesso di natura concettuale, e a partire da ingredienti o

immagini gustative particolari cerca di produrre qualcosa che si approssimi al

massimo grado al suo scopo. Cerca poi di immaginare e sottoporre a prova il

possibile elemento mancante per rimediare alle lacune rilevate al fine di

conseguire il perfezionamento del piatto, in cui ogni parte è combinata

secondo un principio unificante d’equilibrio.

Il piatto oggetto d’analisi esemplifica perfettamente nella sua generazione

le varie fasi del processo di invenzione secondo il delineato metodo induttivo.

L’idea da cui ha origine quest’opera culinaria è fare un cuscus moderno,

alleggerito rispetto all’alto contributo calorico che caratterizza il piatto unico

della cucina maghrebina. Per adeguare questo piatto alle diminuite esigenze

caloriche dei tempi contemporanei, lo chef decide di fare a meno non solo

della carne d’agnello ma anche del fumetto con esso prodotto, fonte di sapore

ma anche ricco di grassi. Si propone quindi di realizzare un cuscus interamente

vegetariano, in cui si conservi tutto il gusto del piatto originale andando a

costruire attraverso la ricerca di tecniche ed elementi da combinare una nuova

concezione del cuscus, sana, elegante e sensorialmente allettante anche per la

vista e per il tatto.

Gli elementi di base da cui si parte nella costruzione del piatto sono:

Oc: il cuscus della tradizione maghrebina;

Ov: le verdure.

In negativo, Sánchez Romera era intenzionato a non far uso dell’elemento

liquido grasso dato dal fumetto, associato nella tradizione all’Oc, e quindi di

optare per un cuscus neutro. Le verdure in ottemperanza ai codici culinari in

uso a partire dalla nouvelle cuisine dovevano essere tutte di stagione e le

qualità determinate dalla reperibilità del mercato. Come si evince dal titolo

della ricetta, in cui al primo posto vengono riportate proprio le “veinticinco

verduras de temporada”, (in realtà ordinariamente in numero di ventisette), i

vegetali sono i veri protagonisti di questo piatto.

Ognuna delle verdure viene trattata indipendentemente, con cottura separata

di durata appropriata alle relative caratteristiche organolettiche. La

salvaguardia della personalità di ogni singolo vegetale dovrebbe portare a

correggere l’iniziale categorizzazione in un solo oggetto componente, e ad

indicare con termini distinti tutte le distinte varietà. Avremmo quindi un Ov1,

Ov2,…,Ov25(o 27).

Avendo a disposizione solamente questi oggetti culinari non è possibile

costruire però che un piatto scipio, povero di sapidità e di equilibrio gustativo.

Si introducono perciò le spezie, così da valorizzare e arricchire il gusto del

cuscus e della verdure. Si decide di produrre un curry ovvero una miscela di

spezie, in tutto ventiquattro diverse, di cui dodici fresche e dodici secche.

Diversamente dalle verdure, il loro trattamento unificato attraverso la

macerazione e l’amalgamazione le rende un oggetto pressoché omogeneo

sebbene composito, che sarà denominato Os.

Ciò non è ancora sufficiente per produrre il piatto voluto. Tutti gli elementi

sono infatti caratterizzati da /solidità/, e ciò renderebbe la combinazione degli

ingredienti eccessivamente asciutta. E’ necessario perciò introdurre un

condimento liquido, che supplisca all’assenza del fumetto di agnello. Si pensa

per prima cosa all’olio di oliva, elemento simbolo della cucina del

Mediterraneo e protagonista di un piatto andaluso che presenta alcune analogie

con il cuscus nella configurazione: le migas.

Questo piatto della tradizione popolare di cui esistono molte varianti44 in

altre regioni spagnole è costituito nella versione base da farina e acqua

amalgamate in palline e fatte friggere in padella, aggiungendo anche olio a

termine cottura. Le migas sono una pietanza rurale che viene evocata nella

nuova creazione grazie alla comune base di carboidrati, la forma granulosa e la

presenza di olio di oliva a crudo, ma viene privata della sua pesantezza.

La presenza di olio non è però sufficiente per garantire l’umidità desiderata,

perciò si decide di aggiungere un altro elemento liquido: una salsa di

pomodoro al naturale. Questa componente che denomineremo Op una volta

versata sul fondo del piatto avrebbe raccolto e intriso di succo i granelli secchi

del cuscus neutro.

Gli elementi a questo punto adeguatamente trattati e combinati possono

contribuire alla costruzione di un piatto equilibrato ed armonico a livello delle

consistenze e dei sapori. Sottoponendo a verifica empirica il processo culinario

originato dalle idee al momento immaginate, lo chef neurologo si accorge che

ancora qualcosa di indeterminato lo porta a sanzionare negativamente l’opera

prodotta, non riconoscendola con l’immagine culinaria del desiderio.

L’oggetto di valore non può ancora superare la prova di qualificazione che lo

dovrebbe eleggere quale protagonista degno di affrontare nella prova di gusto

la sanzione finale del cliente al ristorante.

Il risultato è ancora troppo rustico e selvaggio per essere accolto come

opera dell’alta cucina, adeguata quindi al contesto di sua destinazione. Occorre

quindi introdurre un elemento di sofisticazione, e si pensa di ottenerlo non per

mezzo di ulteriori ingredienti bensì di determinati procedimenti culinari. Si

decide di ricorrere al fumo, elemento associato nella tradizione culinaria

catalana alla cottura di carni e verdure in padella (dove si produce appunto del

fumo). In questo caso si sceglie di ricorrere alla tecnica dell’affumicatura a

freddo da applicare non ai vegetali bensì con una certa originalità al cuscus,

successivamente alla cottura classica a vapore.

44 Nella variante più diffusa della ricetta troviamo ad esempio dei piccoli tocchi di pane

fritti nell’olio con vari condimenti, piuttosto che semplice farina. Juan Cruz Cruz indica le migas e la paella come esempi di “modelli culinari” alla base della cucina popolare, sui quali nascono numerose varianti regionali. Questi modelli vengono definiti come “i grandi temi di una fuga musicale di sapori, le cui variazioni organistiche si incontrano in uno spazio molto ampio”. Cruz (1991, p.265).

La lunga ricerca dello chef e la ripetuta verifica empirica attraverso prove

ed errori hanno portato così alla costruzione di un piatto gustativamente

equilibrato e assolutamente nuovo perché diverso nella concezione da pietanze

tradizionali come il cuscus maghrebino e le migas da cui trae ispirazione. Il

risultato della creazione culinaria è un piatto fresco e naturale, leggero,

raffinato e allettante per la varietà dei colori e delle consistenze. Cuscus e

verdure, gli elementi più visivamente riconoscibili e associabili al piatto

nazionale marocchino nella versione vegetariana, per il loro particolare

trattamento assumono un valore chiaramente distinguibile rispetto alla

tradizione.

2.3.2. Il processo creativo in prospettiva greimasiana.

L’oggetto finale è però per il momento meno interessante da analizzare

rispetto al percorso che ha portato alla sua creazione. Vorrei infatti sviscerare i

meccanismi sottostanti al corso di ricerca in quanto momento di transizione e

“tensione” fra un punto zero iniziale e la realizzazione dell’essere e del fare. Il

processo di invenzione culinaria ha infatti portato attraverso prove ed errori

alla progressiva acquisizione da parte del soggetto performatore delle

competenze attualizzanti ovvero il sapere e poter costruire il piatto innovativo.

Dal punto di vista dell’oggetto risultante dalla combinazione di tutti gli O

componenti sottoposti a manipolazione culinaria è possibile riconoscere un

processo di ottenimento delle qualità necessarie alla sua valorizzazione.

Attraverso lo sviluppo delle idee iniziali l’oggetto gastronomico si modalizza

in numerosi sensi, acquistando innanzitutto il suo essere desiderabile e il suo

essere possibile. Per mezzo ad esempio dell’aggiunta delle spezie conferenti

sapidità o del fumo che dona raffinatezza vengono acquisite quelle

competenze necessarie all’oggetto per esprimere il proprio valore gustativo.

Nella specificazione delle risorse di cui fruire e nella messa a punto dei

procedimenti culinari più appropriati si può riconoscere inoltre la sconfitta e la

neutralizzazione di un anti-soggetto, responsabile degli ostacoli sul percorso di

creazione. Ogni manchevolezza che rendeva impossibile l’ottenimento

dell’equilibrio gustativo come l’insipidità o l’eccessiva secchezza è stata

infatti efficacemente colmata introducendo di volta in volta un nuovo

ingrediente o una peculiare tecnica culinaria. In questo modo si è potuto

portare a buon fine il fare cognitivo e pragmatico dell’attività creativa, fino

alla definizione dell’oggetto nuovo obiettivo del programma narrativo di base

di produzione culinaria.

2.4. La costruzione del piatto.

Dopo aver preso in esame il piatto di Sánchez Romera dal punto di vista

della sua invenzione, ritengo opportuno analizzarlo a livello della sua

realizzazione, ovvero nelle forme della sua riproduzione nel contesto del

ristorante. Analogamente a quanto rilevato nel corso dell’analisi della

costoletta di rombo di Moreno Cedroni, è opportuno identificare innanzitutto

la serie dei programmi narrativi in cui si articola il processo di costruzione

culinaria, nonché gli oggetti parziali di cui si compone il piatto finito.

Nel quadro di un PN base di attribuzione dell’oggetto di gusto al cliente

dell’Esguard che l’ha richiesto, riconosciamo un programma narrativo di

trasformazione culinaria scomponibile in diverse fasi e relativa alle sue varie

componenti.

E’ possibile identificare un dispositivo strategico inteso come piano

dell’organizzazione del lavoro culinario. Causa il notevole livello di

articolazione delle operazioni richieste per la realizzazione del piatto in

questione, pare opportuno presentare inizialmente uno schema semplificato

che verrà dettagliato e precisato nel corso dell’analisi.

2.4.1. Il dispositivo strategico.

PNc = elaborazione del “cuscús” Oc = cuscús medio

PNv1, PN v2,…PN v25 = elaborazione delle “verduras de temporada”

O v1= finocchio, O v2 =asparago…

PNs = preparazione del “curry de especias”

Pnf = elaborazione erbe aromatiche fresche (x6fresche)

Pns = elaborazione (x6secche)

PNp = ”preparazione della salsa di pomodoro speziata”.

Da un esame di ognuno di questi programmi è possibile individuare una

serie di PN subordinati, nonché la presenza di un’interrelazione fra alcuni di

questi programmi eventualmente inscatolabili. L’organizzazione temporale del

processo culinario porta inoltre alla suddivisione del lavoro in due fasi

principali nettamente distinguibili: una fase di preparazione e una di

montaggio o “performance” finale, come viene denominata dall’équipe

dell’Esguard. La prima ha luogo durante la mattinata nell’ambito dell’insieme

delle operazioni preliminari svolte nel ristorante, la seconda viene realizzata in

seguito all’ordinazione specifica dell’oggetto di gusto da parte del cliente.

2.4.2. La scelta del cuscus. Un alimento dalla storia millenaria.

Lo chef seleziona con accuratezza la qualità di cuscus per l’impiego

culinario. E’ un cuscus medio (una delle tre possibili varietà in base alla

dimensione), non precotto come quello che si trova ordinariamente nei

supermercati europei. Si prevede quindi una lavorazione artigianale,

sottoponendolo alle cotture necessarie senza gli abbreviamenti dei tempi

concessi dall’uso di prodotti industriali.

Pur essendo quello in uso un prodotto valorizzato come naturale a

confronto in particolare con l’equivalente precotto, il cuscus in genere è

manifestamente identificabile come un oggetto culturale. Costituito nella

forma presente essenzialmente da cereali (generalmente grano duro) e acqua,

richiede per la sua produzione una serie di operazioni umane. Le origini di

questo alimento portano lontano nella storia: il cuscus nasce infatti come

metodo escogitato dalle popolazioni nomadi del nord Africa e del Sahara per

ottenere una “pienezza gastrica” sfruttando i piccoli grani ricavati dalla

raccolta di graminacei spontanei (Gast, 1996, p.209, trad. mia). La lavorazione

prevede la macerazione dei grani, nella tradizione in un mortaio, l’idratazione

degli stessi e la loro cottura a vapore o per bollitura. Attualmente, il cuscus si

ricava dalla semola di grano duro, agglutinata45 mediante la miscelazione con

acqua e sottoposta a processi culinari che comprendono cottura a vapore e fasi

di essiccazione qualora sia destinato alla conservazione.

Il cuscus è ancor oggi elemento forgiante l’identità culturale degli arabo-

berberi del Maghreb e del Sahara, per i quali è cibo quotidiano che convoglia

un’alta carica simbolica. Anche a livello linguistico viene espressa la centralità

di questa pietanza per questi popoli: infatti “in arabo, come in molte lingue

berbere, l’alimento, la sussistenza, taám, ays, ussu […] designano senza

45 Come sottolinea Marcel Gast (1996), è grazie al processo di agglutinazione delle

particelle umide che si rende possibile cuocere rapidamente a vapore un cereale.

ambiguità il cuscus” (ivi, p.213, trad. mia). E’ nell’ambito di questa cultura

uno di quegli alimenti centrali46 che nei diversi sistemi alimentari forniscono

la componente predominante della dieta nonché polarizzano l’attenzione e

l’affettività di un popolo. Così come il riso per il mondo asiatico o il mais per

il Messico, è a base di carboidrati, glucidi di ordine vegetale che per le loro

qualità organolettiche riescono a riempire lo stomaco e ad accompagnarsi ad

una gran varietà di condimenti, di originale vegetale o animale.

Il cuscus è un alimento che si è esteso molto più in là rispetto alle aree

geografiche delle sue origini, diffondendosi un po’ in tutto il mondo ma in

particolare nel mondo Mediterraneo. In Spagna, in particolare nelle regioni

meridionali, è entrato in uso grazie ai frequenti e stabili contatti con le

popolazioni arabe che hanno avuto notevoli influenze sui ricettari locali. La

presenza del cuscus nel piatto di Sánchez Romera evoca quindi all’avventore

dell’Esguard un mondo mitologico molto ricco, che parla di una cultura

millenaria non lontana ma anche potenzialmente vicina, richiamante alla

memoria pietanze della tradizione rurale con una base tipicamente

Mediterranea.

2.4.3. La lavorazione del cuscus. Il PN d’idratazione.

Il processo di lavorazione del cuscus secondo il metodo classico è piuttosto

complesso ma viene rispettato rigorosamente dallo chef in tutte le sue fasi. La

prima operazione di elaborazione e quindi culturalizzazione è quella

dell’idratazione, identificabile quale programma narrativo indipendente in

quanto dotata di un proprio spazio utopico (ovvero di performanza). Il cuscus

crudo viene posto in una bacinella riempita con un po’ d’acqua e viene lasciato

lì per mezz’ora aspettando che cresca. In questa fase, il soggetto operatore

umano delega il proprio fare all’acqua, unico agente dotato della competenza

necessaria per la realizzazione del processo culinario. Attraverso

l’instaurazione di strutture di manipolazione ritroviamo quindi che un

elemento naturale diventa responsabile dell’azione nei confronti dell’oggetto

di partenza.

46 Sul ruolo degli alimenti centrali e periferici nei sistemi alimentari, cfr. Igor De Garine

(1998).

Diversamente dal ruolo che assume in più comuni processi culinari come la

bollitura, l’elemento liquido non svolge qui semplicemente una funzione di

mediazione nei confronti di altri agenti protagonisti dell’azione analogamente

al fuoco nel programma di cottura. L’acqua in questo caso funge da elemento

quasi magico di modificazione diretta dello status del cuscus gonfiandolo

mediante idratazione. Mediante la semplice compresenza degli elementi nella

bacinella si origina naturalmente un processo di trasformazione della materia

nel senso di un passaggio dal concentrato all’espanso, secondo le categorie

delineate da Bastide (1987). Il soggetto umano esercita solamente un ruolo di

attesa, occupandosi di controllare il processo culinario mediante la

determinazione del suo stadio terminativo dal punto di vista aspettuale.

Trascorsa la mezz’ora prevista, lo chef sanziona l’avvenuta idratazione del

cuscus e la sua conseguente crescita di volume.

Fig.1 Lo chef controlla la riuscita del processo di espansione.

Un PN dipendente. L’asciugatura.

In una sorta di coda al PN di idratazione viene realizzato un processo di

asciugatura, scomponibile in due fasi distinte per soggetto operatore. Per

prima cosa lo chef scola il cuscus impregnato d’acqua mediante l’uso di un

colino, il quale funge da filtro fra la materia utile e gli scarti, ovvero l’acqua in

eccesso che non entra a far parte dell’oggetto parziale di gusto. Il cuoco

attende quindi per una ventina di minuti il compimento effettivo

dell’asciugatura, un processo semanticamente opposto a quello d’idratazione e

che implica nuovamente l’intervento di un elemento naturale in qualità di

soggetto operatore, l’aria in questo caso.

Il PN di cottura a vapore.

Dopo queste fasi preliminari, può aver inizio il processo di cottura

corrispondente ad un PN centrale indipendente e autonomo. La performance

culinaria ha luogo in uno spazio proprio, una cuscussiera di provenienza

maghrebina.

Questo recipiente è una pentola composta da due parti che la sezionano

nella sua dimensione verticale. Quella inferiore è dotata di un fondo robusto in

cui tradizionalmente è possibile collocare e portare ad ebollizione la carne, i

vegetali e il loro brodo. La parte superiore presenta una base in metallo

perforato o in erbe intrecciate e viene inserita su quella inferiore per la cottura

a vapore del cuscus. Questa configurazione risulta funzionale a far sì che

mentre si cuociono i condimenti i grani si impregnino del vapore aromatizzato.

Nell’opera culinaria di Sánchez Romera, causa l’assenza del fumetto e dei

suoi aromi aerei, la cuscussiera è utilizzata in due momenti diversi per la

cottura delle componenti principali del piatto, ovvero le verdure e il cuscus.

Una volta che la parte inferiore è stata riempita d’acqua e portata ad

ebollizione, è possibile utilizzare la parte superiore per cuocere a vapore i

grani di semola agglutinati.

Questa tecnica culinaria è collocabile in una particolare posizione

all’interno del già discusso triangolo culinario di Lévi-Strauss (1968, p.444

della trad. it)47. In questa cottura si ha una complessa serie di deleghe del fare

fra un soggetto operatore e l’altro. Il cuoco fa compiere al fuoco l’attività di

produrre il calore necessario, il quale viene trasmesso all’acqua che a sua volta

riscalda l’aria producendo i vapori responsabili finali della cottura. Questo

processo in cui l’acqua interviene in modo indiretto trovandosi a distanza dal

cibo può essere collocato sul triangolo culinario a metà strada fra il bollito e

l’affumicato.

47 Cfr. anche Lévi-Strauss (1966, p.595).

Nel processo culinario previsto per la preparazione del cuscus però

l’elemento liquido ha un duplice ruolo, distinguendosi dall’ordinaria tecnica di

cottura a vapore. Il soggetto performatore umano infatti si occupa di bagnare

ripetutamente i grani manipolandoli con dell’acqua raccolta da un’apposita

bacinella. In questo caso specifico quindi sebbene l’acqua non intervenga che

a distanza nel processo di cottura, essa entra anche a contatto diretto con il

cibo in funzione di idratazione e per mezzo dell’azione umana.

Fig.2 Lo chef bagna i grani di semola durante la cottura.

Questo PN aggiunto di manipolazione umidificata viene aspettualizzato

iterativamente: va infatti ripetuto più volte, dieci in rispetto alla tradizione

maghrebina e ogni cinque minuti. Questa operazione è funzionale alla

produzione di una consistenza gradevole: si vuole infatti evitare che i vapori di

cottura rendano il cuscus colloso e far sì che i grani rimangano invece ben

distinti. L’acqua che bagna le mani non è più soggetto operatore autonomo

bensì adiuvante dell’agente umano, che viene mediante essa dotato del poter-

fare necessario alla performanza, diretta alla valorizzazione dell’oggetto

parziale di gusto sulla sua dimensione tattile.

Il PN di essiccatura.

Segue a questo processo un PN di essicatura, realizzato in uno spazio

proprio, ovvero una piastra, dove i grani vengono lasciati disidratare.

Focalizzandosi sul processo culinario nella sua totalità, possiamo individuare

una sorta di percorso ciclico costituito da un movimento bipolare di

avvicinamento all’elemento acqua mediante il processo di idratazione e nel

senso opposto di accostamento all’anti-acqua per mezzo dell’essicazione48.

Il PN di affumicatura.

Una volta portate a termine le procedure culinarie di cottura del cuscus

secondo la prassi più tradizionale, lo chef sceglie di intervenire ulteriormente

sull’oggetto semi-finito apportandogli un trattamento peculiare e di

innovazione rispetto ai ricettari codificati. I grani di semola cotti ed essiccati,

dopo essere stati distribuiti sulla piastra vengono introdotti in un forno per

essere sottoposti ad un’affumicatura a bassa temperatura.

Il PN in questione ha luogo in uno spazio indipendente, una macchina

costruita artigianalmente dallo chef appositamente per affumicare i cibi sia a

caldo che a freddo. Questo forno comprende due dispositivi oltre alla camera

di stagno e al cassetto per contenere i carboni roventi: uno per la regolazione

della temperatura, ed uno per l’attivazione di un ventilatore. In questo caso si

selezionano 25oC e si utilizza solamente il fumo e non l’aria delle ventole,

finalizzata alla disidratazione preventiva di carni e pesci.

Fig.3 Il cuscus dentro al forno artigianale per l’affumicatura.

Il soggetto operatore umano quindi delega l’attività di affumicatura al fuoco

e ai fumi da esso prodotti, interpretando solamente un ruolo di sorveglianza e

controllo di temperature e tempi del processo. Il lavoro umano è comunque

richiesto per la realizzazione del programma ad un livello anteriore e più

profondo, ovvero per la costruzione di un forno che permetta questo specifico

trattamento culinario.

48 Sul processo in senso negativo, cfr. Jacques Dournes (1969).

Per il mezzo culturale che necessita, come rilevato da Lévi-Strauss (1968,

p.437 della trad. it.) l’operazione di affumicatura si avvicina al processo di

cottura per ebollizione, il quale prevede l’utilizzo di un recipiente che

contenga l’acqua. Occorre sottolineare però il bollito si oppone da un altro

punto di vista all’affumicatura “in relazione alla presenza o all’assenza

dell’acqua” (ivi, p.438 della trad. it.). In questo senso, l’affumicatura implica

un’operazione non mediata o mediata a diverso grado49, non essendoci niente

che si frapponga fra il cibo e il fuoco se non l’aria. Secondo questa

prospettiva, da un punto di vista dei mezzi l’affumicato risulta essere rispetto

al bollito più prossimo al polo della natura.

Concentrandosi sulle due tecniche utilizzate per l’elaborazione del cuscus

nel suo complesso, è opportuno osservare che entrambe implicano l’elemento

aria ma a differenti stadi di purezza: nella fase iniziale e più tradizionale si

impiegavano infatti i vapori provenienti dall’acqua in ebollizione, mentre in

questo momento finale intervengono i fumi, depurati dall’elemento liquido e di

provenienza diretta dal fuoco, o meglio dai carboni ardenti.

Per mezzo di questo PN conclusivo si percorre il lato inferiore del triangolo

a partire dal “cotto a vapore” in direzione della sua sinistra, approssimandosi

al grado massimo alla categoria astratta del cotto, al quale si fa corrispondere

appunto l’affumicato. Questa tipologia di percorso inscritta in questa antica

tecnica culinaria ha la proprietà di avvicinare l’oggetto al polo della cultura

“per quanto concerne i risultati” (ivi, p.440 della trad. it.).

L’affumicatura recando le tracce del fuoco mediante l’odore dei fumi di cui

impregna le cibarie “rappresenta la tecnica più culturale e allo stesso tempo

più apprezzata nella prassi indigena” (ivi, p.438 della trad. it.). Su queste basi

probabilmente si spiegano le ragioni per cui nella produzione ad esempio del

salmone o del prosciutto d’oca affumicato una tecnica di antiche origini

acquista nel mondo moderno un valore di prestigio essendo espressione di

raffinamento, ossia di incivilimento e di distinzione culturale.

Trascorsi quarantacinque minuti nel forno, il cuscus affumicato viene

raccolto dalla piastra in cui era /disteso/ dando forma ad una pallina avvolta da

49 Si potrebbe infatti rilevare che c’è comunque oltre all’elemento aereo la presenza di

un’altra mediazione, ovvero il forno apposito di cui abbiamo già parlato e che non va distrutto immediatamente dopo l’uso diversamente dal boucan, traliccio per l’affumicatura adoperato dagli Indios della Guyana. Cfr. Lévi-Strauss (1968, p.437 della trad. it.).

una pellicola trasparente. E’ quindi /compatto/ in uno spazio più piccolo

mediante una membrana aderente sul cibo che in un primo senso lo protegge

dagli agenti esterni, e in un secondo lo rende più fisicamente controllabile e

maneggiabile, adempiendo quindi ad una funzione pratico-logistica. In questo

stato, l’oggetto parziale semi-finito verrà fatto attendere fino al momento

dell’ordinazione, ovvero potrà incorrere in quella discontinuità temporale del

processo culinario che caratterizza manifestamente la distinzione fra una fase

preliminare e preparativa e una di montaggio finale.

2.4.4. La selezione e la cottura delle verdure.

Quotidianamente gli aiuto-cuochi vengono delegati per il compito di

acquistare le verdure assieme agli altri prodotti necessari al mercato della

Boqueria, nel cuore delle Ramblas di Barcellona. E’ qui che è possibile

reperibile la più ampia varietà di ingredienti e aver la possibilità di selezionare

con cura freschezza e qualità degli stessi. Per questa ricetta la ricerca dei

prodotti adeguati comporta un lavoro non irrilevante in quanto si richiedono

rigorosamente verdure di stagione e per un totale di almeno venticinque

varietà diverse.

In questa prima fase di scelta delle risorse si ha una performanza di

qualificazione degli stessi ad entrare a far parte dell’oggetto in costruzione. Le

verdure acquistate già in un certo senso valorizzate ma solamente a livello

potenziale subiscono un primo intervento umano di lavaggio e taglio,

risultante in una loro de-naturalizzazione.

Ogni qualità di vegetale viene trattata come un oggetto distinto, affettata

molto finemente (all’incirca di 3 mm) o sminuzzata secondo i casi (ad esempio

il cavolfiore). Le verdure già semi-culturalizzate vengono quindi collocate in

bacinelle di vetro distinte, sulla base della loro qualità. Anche per quanto concerne la cottura viene rispettato il principio di

specificità di ogni singolo prodotto. Alcuni vegetali come i ravanelli sono

lasciati crudi, mentre gli altri vengono leggermente sbollentati. Ogni verdura

viene trattata separatamente e cotta per il tempo adeguato alle proprie

caratteristiche organolettiche, per una durata che non supera comunque i due

minuti. Si rispettano quindi i nuovi codici culinari che a partire dalla nouvelle

cuisine sostengono l’impiego di cotture molto brevi per i vegetali,

mantenendole anche se sottoposte a calore ad uno stato /quasi-crudo/.

Viene per prima cosa messo sul fuoco un pentolino d’acqua nel quale è

stato addizionata una quantità rilevante di sale, pari al 5% del peso

dell’elemento liquido. Il sale è soggetto performatore di un’operazione

concernente la dimensione visiva dell’oggetto di valore: fissa infatti il colore

dei vegetali immessi, i quali risulteranno in questo modo molto più brillanti e

esteticamente gradevoli.

Le verdure vengono immerse nell’acqua quando essa è nella fase aspettuale

appropriata, ovvero quella di bollitura. Si sincronizza quindi il tempo esatto di

cottura e puntualmente si procede alla scolatura, provvedendo ad immergere il

tutto nuovamente in acqua, ma questa volta gelata.

Il ghiaccio presente permette di abbassare bruscamente la temperatura,

bloccando la cottura e quindi andando a produrre una discontinuità nel

processo culinario. E’ il differente stato di calore dell’acqua a farne di essa

perciò in un primo caso un soggetto agente di cottura e nell’altro della sua

inibizione. Per opera del raffreddamento improvviso ancora una volta si

stabilizza il colore delle verdure e si evita il processo di ossidazione.

Fig.4 Le verdure vengono scolate.

Concluso il programma di cottura, si stende la pellicola trasparente e vi si

pongono le singole verdure in mucchietti distanziati. Da questo stato /aperto/ e

/disteso/ si passa ad uno stato /chiuso/ e /compatto/ raccogliendo e sigillando

l’insieme dei vegetali in un unico sacchetto, dove comunque rimangono

visivamente distinguibili tutte le varietà.

2.4.5. La preparazione delle spezie.

Per la preparazione del curry si ricorre a dodici spezie fresche e a dodici

secche. Queste ultime si reperiscono in polvere, ovvero disidratate e macerate;

sono quindi prodotti già culturalizzati in partenza. Le erbe aromatiche invece

una volta selezionate devono essere trattate nelle cucine dall’operatore umano

delegato. Il PN di preparazione prevede che tutte le varietà vengano triturate

su un tagliere facendo molta pressione col coltello. Ciò conduce alla de-

naturalizzazione delle erbe stesse.

Il processo di sminuzzamento a cui si ricorre in questo caso si distingue da

quello di semplice taglio a cui sono sottoposte le verdure poiché implica più

chiaramente un processo di /destrutturazione/ del prodotto di partenza. Spezie

secche e fresche vengono quindi incorporate in un composto /compatto/, dove

a differenza del sacchetto di verdure è praticamente impossibile discernere fra

gli elementi a causa del loro stato di semi-polverizzazione.

Fig.5 Miguel Sánchez Romera tritura le erbe aromatiche.

2.4.6. La preparazione della salsa di pomodoro.

Questo PN consiste nella preparazione di una semplice passata di

pomodoro al naturale, ottenuta da pomodori italiani spellati e privati dei semi.

L’operazione preliminare può essere interpretata sulla base delle osservazioni

di Bastide (1987) come una possibile manifestazione figurativa di un

programma di selezione: il risultato è infatti “la riduzione di una eterogeneità

‘naturale’ – pelle/polpa, contenente/contenuto, esterno/interno, polpa/semi”

(p.350 della trad. it). Si produce quindi per mezzo di un processo di

destrutturazione parziale una salsa, nella quale rimangono dei pezzetti interi, i

quali richiamano il passato stato naturale dei pomodori, o l’incompletezza del

suo processo di culturalizzazione.

Fig.6 Preparazione della salsa di pomodoro.

2.5. La fase del montaggio.

L’insieme dei PN fino ad ora descritti portano al completamento della fase

preparatoria del piatto, messa in opera nel corso della mattinata, durante le ore

precedenti all’apertura del locale al pubblico. La fase più determinante in

quanto soggetta a vincoli temporali più costrittivi è però quella di montaggio,

ovvero la performance culinaria finale, nella quale al momento

dell’ordinazione si concludono o riprendono alcuni processi culinari per

portare alla temperatura esatta tutti i componenti, nonché si provvede al loro

allestimento scenico nel piatto.

Fig.7 Gli elementi del piatto prima del montaggio.

Il PN di riscaldamento.

In questa fase vengono estratti dal frigorifero gli oggetti parziali semi-finiti,

assoggettati ad una nuova manipolazione culinaria per mezzo di programmi di

riscaldamento, un’operazione che consiste nel ripristino del loro stato di calore

ideale. Per mezzo di questo intervento, i soggetti delegati riattivano la

continuità dei processi di cottura, determinando quella cessazione della

discontinuità temporale che era stata originata dall’intrusione del gelo

(ottenuta con il ghiaccio e con l’adozione della macchina del freddo).

Sulla base perforata della cuscussiera, riempita d’acqua in stato di

ebollizione, viene deposto il sacchetto di cuscus perché acquisisca nuovamente

una temperatura aggradabile al palato. Successivamente, nel momento

calcolato puntualmente per la sincronizzazione dell’aspettualità terminale dei

diversi componenti, si aggiunge accanto al cuscus anche il sacchetto con le

verdure. Nel frattempo che le componenti principali vengono riportate ai gradi

appropriati grazie ai vapori, la polpa di pomodoro viene riscaldata in un

pentolino e il piatto vuoto è tenuto in caldo.

Queste operazioni apparentemente semplici implicano l’assunzione da

parte del soggetto umano di un’importante ruolo di sincronizzazione del

programmi narrativi delegati rispettivamente ai vapori acquei, al fuoco e

all’aria calda. Solo l’esatta esecuzione di questa fase permette un’efficace

sintetizzazione di tutto il lavoro preparatorio preliminare alla costruzione

dell’opera culinaria.

Il PN di allestimento.

In un tempo inferiore al minuto, al fine di non lasciare che la temperatura

delle componenti scenda oltremodo portando alla decrescita del valore

dell’oggetto di gusto, viene realizzata l’operazione di montaggio del piatto,

ovvero si provvede ad “impiattare”, secondo il gergo culinario. Sul fondo del

piatto viene dischiuso il sacchetto contenete il cuscus, il quale viene poi

/sparso/ e /disteso/ con le mani ponendo fine al suo stato /concentrato/ e

/compatto/. La salsa di pomodoro viene versata tendenzialmente ai bordi del

piatto e la pietanza è cosparsa nella sua totalità con la miscela di spezie. Viene

quindi dissigillata la pellicola con le verdure, le quali vanno a coprire il cuscus

conquistandosi una posizione dominante. Manualmente si ritocca la

configurazione e si provvede al suo perfezionamento formale adottando

piccoli accorgimenti decorativi, come il posizionamento verticale di una foglia

di insalata a guisa di una vela. Si aggiunge infine l’ultimo oggetto componente

del piatto, ovvero un filo d’olio di oliva, portando al suo compimento finale e

alla sua chiusura.

2.6. Il piatto finito. Un’analisi dell’oggetto di gusto nelle sue

dimensioni sensoriali e culturali.

2.6.1. L’aspetto visivo.

Sul piatto tondo sono collocate le varie componenti secondo una

configurazione non geometricamente ordinata, aliena dai giochi fra pieni e

vuoti spesso adottati nella cucina contemporanea su ispirazione dello stile

giapponese. La presentazione è naturalistica e sincera, ovvero si distinguono

apertamente gli elementi principali che compongono il piatto, ovvero i vegetali

e il cuscus, e l’artificio nella loro disposizione è minimo.

In alto, ovvero in posizione topologicamente dominante sono collocate le

verdure sminuzzate, discernibili fra loro grazie alla naturale diversità formale.

I colori dei vegetali sono molto vivaci e brillanti, anche grazie agli

accorgimenti tecnici seguiti durante la loro lavorazione. Il loro aspetto da al

potenziale degustatore del piatto un’impressione di freschezza e di naturalezza

alle manipolazioni sui prodotti. L’unico elemento decorativo costruito è una

piccola vela formata adagiando verticalmente una foglia di insalata, con

l’effetto di spezzare la simmetria. Sul fondo si scorge il cuscus sgranato dal

colore giallo oro reso più intenso e caldo dalla presenza delle spezie, nonché a

macchie si distingue il rosso della salsa di pomodoro, che fa da base e dona

opacità al piatto.

Diversamente dal cuscus tradizionale maghrebino, la ricchezza della

composizione non implica visivamente una sola entità compatta, bensì una

struttura in cui le componenti vegetali si stagliano in un contrappunto

cromatico ed eidetico. Questo piatto spicca per la vivacità e la brillantezza dei

suoi colori, che percorre in molteplici sfumature le gamme cromatiche del

verde, del rosso e del giallo, i colori più valorizzati nella cucina mediterranea e

anche più comuni nei prodotti della terra della regione. Questi stessi tre colori

sono anche quelli prediletti e più diffusi nella personale cucina del nostro chef,

che riproduce ai bordi di ogni suo piatto nelle sembianze di un logo, costituito

da tre minuscoli frammenti commestibili in queste tonalità.

Fig. 8 Le venticinque verdure con cuscus. Sánchez Romera (2001).

Fotografia di Francesc Guillamet.

2.6.2. La dimensione mitologica e il contrappunto di sapori e consistenze.

Il piatto costruito acquista una volta portato a compimento un’autonomia

dal soggetto performatore del suo programma di preparazione. Come già

sperimentato nell’analisi della costoletta di rombo sull’esempio di Floch

(1995a), possiamo interpretare l’opera culinaria come un enunciato gustativo,

dove il cuscus affumicato, le verdure e le altre componenti sono concepiti

come soggetti fra loro interagenti. Può essere interessante perciò focalizzare

l’attenzione su analogie, differenze e opposizioni che è possibile rintracciare

nella struttura del piatto ad un livello di mitologia culinaria, nonché sui piani

relativi ai livelli sensibili del gusto, dell’olfatto e del tatto.

Sono i sapori e gli aromi delle singole componenti associate alle loro

consistenze (condizionate dalle tecniche di cottura seguite) che combinandosi

fra loro generano i peculiari effetti estetico-gustativi nei quali prende forma la

loro performanza. Ognuno di questi soggetti del gusto ha un suo

posizionamento nell’universo culinario sia per la sua natura di partenza pre-

trasformazione che per il trattamento subito mediante il processo culinario.

Il cuscus per esempio evoca la cultura e lo stile di vita dei berberi o di altri

popoli del Maghreb e del Sahara, nonché grazie alla sua diffusione più in

generale il mondo culinario mediterraneo. A causa della lavorazione che

necessita la produzione della semola agglutinata e dei complessi processi che

abbisogna per la cottura già secondo la tradizione il cuscus è un elemento di

status chiaramente culturale. La tecnica di affumicatura applicata

nell’originale ricetta di Sánchez Romera accresce ancora maggiormente il suo

grado di elaborazione.

Le venticinque verdure si oppongono a livello mitologico al in quanto

prodotti che conservano e esprimono la proprie radici naturali. Sono tutte

verdure fresche e di stagione ovvero qualificate in base a proprietà

condizionate dal corso dei processi di crescita e di maturazione, determinate

non dalle attività umane bensì dai cicli naturali. Il loro trattamento culinario,

ovvero una semplice sbollentatura che le lascia in uno stato /quasi-crudo/,

mantiene il loro carattere autentico e non elaborato.

Un altro elemento che assume una posizione particolare nella struttura del

piatto a livello di valori semantici profondi è il curry di spezie. E’ un elemento

che conserva il suo legame con la terra, e in particolare per quanto riguarda il

composto di spezie secche si contrappone a livello mitologico e gustativo alle

verdure pur nell’ambito di un comune universo culinario vegetale. In esse è

assente infatti l’elemento acqua in quanto sono soggette a disidratazione, e ciò

si ripercuote a livello degli effetti di gusto. Come rilevano Peter Kaminsky e

Gray Kunz (2001) nella loro analisi degli “elementi del gusto”, le verdure

dell’orto infatti conservano un elemento di acquosità che si esperisce in bocca,

mentre le spezie ridotte in polvere portano con sé un aroma che sospinge il

gusto dell’insieme.

Secondo una classificazione più propria delle culture orientali ma non

estranea anche al mondo occidentale, il curry è inoltre un elemento

semanticamente identificabile come /caldo/, in opposizione all’appartenenza

dei vegetali ad una categoria del /freddo/. Secondo Eugene Anderson (1980),

questa dicotomia sulla cui base sono stati costruiti storicamente e pressoché

universalmente “sistemi umorali” 50 molto diffusi a livello di credenza

popolare è motivato dagli effetti che i diversi cibi producono su chi mangia

(all’assaggio e durante la digestione). Come ricorda Yvonne Verdier (1969)

inoltre, le spezie nell’ambito del pensiero cinese partecipano di un principio

“yang”, caldo, attivo, maschile, mentre le verdure specialmente se bollite

partecipano di un principio “yin”, freddo, passivo, femminile.

50 Non è noto se l’origine di questi sistemi vada ascritto alla scuola di Ippocrate, a studiosi

dell’India o del vicino oriente, ma in ogni caso si è diffuso universalmente ed è ancor oggi alla base della medicina tradizionale cinese e indiana. Cfr. Anderson (ivi).

Esaminando più in profondità l’universo tattile e gustativo esplorato dagli

attori del gusto, è possibile abbozzare meglio il tracciato che prende forma

dall’incontro delle performance culinarie di ognuno di essi nel racconto di

sapori rivelato dal piatto.

Il cuscus ha nella sua testura granulosa buona parte della sua attrattiva,

offrendo grazie alla sua irregolarità superficiale uno stimolo per le papille

gustative. La sua peculiare consistenza non levigata le viene dal processo di

disgregazione in unità minime e indipendenti dell’amalgama di un elemento

solido ed uno liquido. Questa sua ruvidezza rende il cuscus particolarmente

adatto ad impregnarsi degli elementi liquidi e grassi, in questo caso limitati ad

un velo di salsa di pomodoro e ad un filo d’olio d’oliva, non risultanti nella

testura pastosa caratteristica della pietenza tradizionale. I grani rimangono

quindi indivisi alla percezione sulla lingua, puntualizzati dall’aroma di fumo

prodotto dalla leggera affumicatura.

La consistenza granulare del cuscus contrasta con la testura solida e

croccante delle verdure quasi-crude, molto lontane a livello percettivo dalla

componente vegetale del piatto nazionale marocchino, sottoposte a cottura

molto prolungata che le sfibra e rende molli. Il trattamento individualizzato di

ogni singola varietà e l’esiguità dell’elaborazione permettono inoltre la

conservazione della naturale e peculiare fibrosità di ogni esemplare. In linea

con i codici dell’alta cucina moderna e in contrasto col cuscus tradizionale, la

sensazione gustativa non è omogenea e complessiva ovvero associabile ad

un’unica entità gustativa, bensì ogni elemento è distinguibile, con esaltazione

di un’attività di riconoscimento del soggetto che lo mangia. La sensazione del

croccante, qui prodotta a vario grado dai frammenti vegetali, ha inoltre

secondo la lettura di Kaminsky e Kunz (2001) l’effetto di un punto in una

frase, in quanto segnala il termine di un’esperienza gustativa e l’inizio di una

nuova.

Strutture oppositive.

Cuscus

Cultura vs

cotto a vapore

+affumicato vs

doppiamente cotto vs

granuloso vs

Verdure

Natura

appena sbollentate

quasi-crude

fibrose, croccanti

Gli elementi solidi del piatto vengono controbilanciati dai due elementi

tendenzialmente liquidi del piatto, ovvero la salsa di pomodoro e l’olio, i quali

permettono un prolungamento e una distensione della percezione tattile. Il

primo di queste componenti sul piano dell’armonia gustativa fornisce al piatto

la necessaria acidità. La componente grassa ha all’interno della struttura

compositiva della pietanza una funzione non primariamente associabile agli

elementi gustativi bensì perlopiù assimilabile al livello della testura, secondo

l’accezione di questo concetto dei sopracitati Kaminsky e Kunz (2001).

Questi autori definiscono la testura come una parte critica del gustare non

relativa al sapore; un elemento che puntualizza il gusto, “aiuta a leggere

messaggi più lunghi di gusto e a produrre senso da questi” (ivi, trad. mia).

L’olio di oliva appunto, così come i grassi in genere, ha la funzione primaria

di “disseminare il gusto, diffonderlo al palato e portarlo come aroma al naso”.

All’interno di una ricetta esso “funziona come una virgola in un lungo

elegante periodo” (ivi).

Il curry di spezie macerate si presenta alla lingua come una polvere in cui

ogni suo elemento a differenza delle verdure è fisicamente non discernibile,

nonché generalmente di scarsa palatività anche nel composto se esperito

autonomamente dai cibi. Le erbe aromatiche spingono ed esaltano i sapori

specifici degli ingredienti che accompagnano. Esse hanno, nell’armonia del

piatto, la funzione di ornamento e di accento delicato, paragonabili all’arpa nel

contesto musicale (ivi). Le spezie secche, analogamente ad una tromba in

un’orchestra, accrescono e magnificano l’insieme, producendo note

chiaramente identificabili. La loro funzione fondamentale è sviluppare un

bouquet aromatico che sospinge e risalta il gusto del cuscus, del pomodoro e

dei vegetali, contribuendo in modo determinante alla sapidità del piatto.

Strutture oppositive.

Verdure

“freddo” vs

acquose vs

discernibili vs

compatte vs

Spezie

“caldo”

disidratate (elemento terra)

composto omogeneo

polverizzate

Gli attori del racconto culinario esprimendo loro proprietà gustative, tattili

ed olfattive interpretano la loro parte contribuendo all’armonia globale del

piatto. L’ottenimento del livello opportuno di sapidità grazie all’intervento

delle spezie, della componente di untuosità per mezzo dell’olio di oliva,

dell’elemento liquido mediante la polpa di pomodoro, vanno ad accompagnare

in ruoli di contorno la performance dei protagonisti del gusto di questo piatto,

ovvero il cuscus e le verdure.

L’esplorazione di un ampio spettro di categorie tattili mediante tutte le sue

componenti rende l’esperienza di degustazione piacevole e varia. La testura

croccante e differenziata delle verdure in accompagnamento alle sfumature di

gusto che esprime, puntualizza il processo di assaggio dando forma alla sua

discontinuità, presupposto alla saisie esthetique. Le sottili tracce di fumo

impresse nei grani per mezzo del processo di affumicatura intensificano

l’esperienza di degustazione del cuscus, in particolare nella sua componente

olfattiva. La sua consistenza granulosa rende inoltre persistente la percezione

dei sapori, poiché adatta ad impregnarsi delle proprietà aromatiche e gustative

liberate dal pomodoro, dalle spezie e dalle erbe floreali.

L’intreccio e l’incontro della struttura dei gusti e degli aromi,

l’articolazione delle sue differenti consistenze e la configurazione del piatto

nella sua dimensione visuale e in particolare cromatica, risultano

nell’architettura singolare di questo piatto. La nuova costruzione generata

mediante la creazione delle “venticinque verdure con cuscus” consente

l’esplorazione di una combinazione di sensazione estetico-gustative

assolutamente inedita, in dialogo però con le precedenti esperienze sensoriali

del commensale. L’utilizzo di prodotti del territorio e la riproduzione di

parziali nuclei gustativi ragionevolmente evocatori di passate libagioni

permettono al destinatario dell’opera culinaria di riportare alla luce ricordi

percettivi sopiti (Sánchez Romera, 2001). Lo chef riferisce ad esempio il

racconto dell’esperto gourmet che alla degustazione di questo piatto si è

emozionato e divertito a riconoscere ognuna delle venticinque differenti

varietà di vegetali incluse nel piatto, nonché è stato piacevolmente sorpreso

nell’esplorarne ineditamente a pieno le proprietà aromatiche, cromatiche,

gustative e tattili.

2.7. Il cuscus di Sánchez Romera e quello di Adrià a

confronto.

Per una curiosa coincidenza, anche nel menù di degustazione di El Bulli in

corso al momento della mia visita è presente un piatto di “cuscus”, pure in

questo caso assolutamente innovativo e non assimilabile alla pietanza

tradizionale maghrebina, se non per alcuni ingredienti e per alcuni aspetti della

sua configurazione visiva. Nel piatto di Adrià sorprendentemente è assente

perfino la semola, ovvero il prodotto base di questa preparazione classica. Il

protagonista del gusto è infatti semplice cavolfiore bollito e triturato,

sottoposto adoperando un termine di Bastide (1987) ad un processo di

destrutturazione, perché acquisti la peculiare consistenza granulosa che

caratterizza il cuscus. Non mantenendo la natura sostanziale del piatto classico

ma le sue sembianze, il nome funge in quest’accezione in senso traslato. Viene

mantenuto però un altro elemento appartenente al nucleo base della ricetta

maghrebina, ovvero il fondo di agnello, il quale risulta invece assente nella

costruzione culinaria di Sánchez Romera. Così come nella tradizione, questo

elemento provvede alla necessaria componente liquida ed untuosa del piatto,

per soddisfare le quali lo chef dell’Esguard è ricorso alla salsa di pomodoro e

all’olio di oliva. Un elemento comune alle due nuove creazioni nella sostanza

è inoltre l’inclusione di un bouquet di spezie, le quali contribuiscono alla

struttura aromatico-gustativa del piatto. Ad El Bulli le spezie non si presentano

però come una unica miscela bensì come un insieme di elementi discernibili,

assolvendo quindi al ruolo interpretato dalle verdure all’interno del piatto di

Sánchez Romera, ovvero nell’introduzione dell’elemento di disomogeneità

percettiva. Nel cuscus di Adrià l’elaborazione e l’allestimento delle spezie

corrisponde al programma narrativo più impegnativo nell’ambito della

produzione globale in relazione ai soggetti performatori umani che coinvolge.

Tutte le differenti erbe e spezie sono trattate singolarmente e in combinazione

con altri elementi vengono disposte accuratamente ai bordi del piatto tondo, a

distanza regolare come se si trattasse delle ore di un orologio. Foglie o fiori di

erbe aromatiche vengono alternate a dadini di mela e pera, nonché a cubetti

ottenuti dalla solidificazione di una gelatina di Campari e di una riduzione di

Cabernet Sauvignon.

Questo insieme di elementi dalla configurazione altamente decorativa va a

costituire il nucleo concettualmente più innovativo di quest’opera culinaria.

Come ricorda il nome sul menù, esso infatti è interpretabile come una salsa

solida. Analogamente ad una salsa infatti esprime una gamma di sapori forti

che donano sapidità e accompagnano con un bouquet aromatico la base

gustativa. In questo stato, esse producono nel commensale un effetto tattile

sensibilmente differente rispetto alle salse classiche in quanto risultano a vario

grado croccanti al palato e pungenti per le papille gustative. L’analogia con le

salse è in ogni caso riconoscibile se immaginiamo un intervento di

trasformazione dello stato discreto degli elementi iniziali in uno stato

compatto, ovvero di sottoposizione degli stessi ad un processo di chiusura

(Bastide, 1987), per mezzo di semplici operazioni meccaniche. Elaborando

infatti l’insieme di questi prodotti con un thermomix si produce una pasta,

trasformabile in una salsa con la mera aggiunta di un elemento liquido.

Si potrebbe sostenere che il nuovo concetto di salsa solida è il risultato di

un processo di decostruzione del PN di produzione di una salsa ordinaria (nel

senso di liquida), o meglio del disassemblaggio virtuale del suo oggetto finale

in un insieme di oggetti riconducibili ad alcune delle sue fasi o differenti

qualità sensoriali del suo stadio terminale. In questo caso troviamo ad esempio

disposti ad orologio un “pan de especias”, un dado di gelatina di Campari e

una goccia di salsa spessa a base di vino, associabile ad una fase intermedia o

semi-finale della processualità. Si fa uso per la salsa solida quindi di elementi

discreti per stato naturale e di componenti sottoposti ad un’operazione di

chiusura o compattificazione (come nella preparazione della gelatina),

interrotta e seguita dal processo inverso di frammentazione in minuscole unità.

In un’ottica allargata, la nuova idea di Adrià può essere concepita come il

corrispettivo del micrì di Sánchez Romera, in quanto entrambi danno forma ad

un nuovo concetto di salsa. Le operazioni messe in atto dai due chef sono

sensibilmente differenti nelle direzioni seguite mediante l’attività creativa.

Adrià ha infatti conservato il contributo delle salse sul piano dei sapori, mentre

ha sottratto, alterato o riportato alla natura primitiva degli ingredienti il piano

della consistenza. Sánchez Romera invece ha valorizzato l’apporto offerto

dalle salse a livello di testura, rimovendo l’apporto gustativo oltre che

calorico fornito in maniera accessoria dagli elementi presenti nelle ricette

classiche in funzione di liason. Lo chef dell’Esguard ha in particolare

valorizzato e incrementato il grado di coesione delle salse ordinarie

attribuendo al suo micrì il ruolo di soggetto performatore di operazioni di

chiusura, mediante la testurizzazione degli ingredienti con cui si combina

nella produzione di un’emulsione stabile, ovvero introducendo uno stato

compatto (Bastide, 1987).

Ritornando al confronto fra i due cuscus, si possono rilevare anche qui

numerose analogie nel processo seguito dai due chef, così come alquante

specificità. Come attestano le tabelle sottostanti, un esame comparato degli

elementi inclusi per la costituzione dell’oggetto finale nonché della struttura

tattile del piatto risulta rivelatorio a questo proposito.

Le componenti.

“Le venticinque verdure con

cuscus affumicato e speziato”

“Cuscus di cavolfiore con salsa

aromatica solida”

vegetali: venticinque distinti vegetali: una da protagonista:

il cavolfiore

fondo: /. salsa di pomodoro + olio fondo: classico fondo di agnello

cuscus: classico, + affumicato

cuscus: /. cavolfiore.

spezie: miscela omogenea

spezie: distinte, salsa solida

Le consistenze.

granuloso: semola di grano duro granuloso: cavolfiore

croccante: verdure croccante: salsa solida di spezie

liquido: salsa di pomodoro liquido: fondo di agnello

untuoso: olio d’oliva untuoso: “ “ “

polveroso: spezie polveroso: parte di spezie

Entrambi hanno utilizzato come oggetti fondanti del piatto prodotti

provenienti dal mondo vegetale, accompagnandoli con elementi non

sovrastanti ma che potessero esaltarne la sapidità e costruire la struttura

olfattiva. Senza riadattare né nemmeno decostruire la ricetta base tradizionale

in cui è impiegato da protagonista il cuscus, essi hanno prodotto un piatto

innovativo fresco e leggero. Allo stesso tempo, non hanno rinunciato a coprire

un vasto spettro di sapori intensificati e depurati mediante la scelta di

trattamenti naturali e l’impiego di ingredienti che esprimano un bouquet

aromatico.

Entrambi hanno lavorato per esplorare un’ampia gamma di consistenze con

le diverse componenti, rendendo l’esperienza di degustazione molto varia a

livello di tattilità orale. In un processo di discretizzazione della dimensione

gustativa e tattile del piatto nella sua totalità, si sono ricercate le note migliori

per esprimere con questa creazione una cucina timbrica, capace di rendere

l’esperienza di degustazione discontinua, dispiegandola a livello temporale.

3. I sensi, il cibo e il cervello. Miguel Sánchez Romera, come precedentemente accennato, non svolge

esclusivamente la professione di cuoco. E’ infatti anche uno specialista di

neurologia clinica, e questa sua formazione ha influenzato il suo approccio

all’arte culinaria, passione che l’ha spinto a dedicarsi professionalmente anche

alla ristorazione. Non concependo i due ambiti di cui si occupa come due sfere

separate bensì come mondi comunicanti, ha voluto indagare la problematica

delle relazioni fra cervello, sensi e cucina, e divulgarli nel suo libro La cocina

de los sentidos. In questa sezione, vorrei discutere alcune delle tematiche

esplorate in quest’opera, anche alla luce della lettura filosofica che propone

Fabio Parasecoli (2002).

3.1. Il ruolo del cervello. Nel suo libro, lo chef-neurologo prende in esame, adottando una prospettiva

prevalentemente neurobiologica, come nel rapporto con il cibo siano coinvolte

diverse aree celebrali attraverso la mediazione dei canali sensoriali e la

stimolazione degli organi del piacere. Partecipa innanzitutto l’ippotalamo,

organo complesso che regola le funzioni base (come mangiare, bere, dormire),

e che in forma indiretta è vincolato ai centri che regolano l’emotività e il

piacere. Neurologicamente, l’ippotalamo si collega ad altre aree celebrali

impiegate per la memoria e l’apprendimento nonché a zone della corteccia

grigia responsabili delle attività coscienti e intelligenti, quali operazioni di

riconoscimento alimentare così come attività di scelta e giudizio. Come illustra

Sánchez Romera mediante spiegazioni scientifiche, nei confronti del cibo

intervengono quindi le necessità fisiologiche del corpo legate agli stimoli

dell’appetito, una sfera emozionale e motivazionale collegata anche alle

memoria di passate esperienze, nonché una dimensione intellettiva razionale.

Come sottolinea Parasecoli, il cibo è collocabile in una posizione di

frontiera fra il biologico e il simbolico, fra il mondo materiale e quello

immateriale. Il lavoro dello chef si situa quindi peculiarmente all’intersezione

fra la produzione di oggetti tangibili destinati al nutrimento e l’attività artistica

e culturale di creazione di opere finalizzate a provocare emozioni nel

commensale e a dialogare con la sua memoria estetica e gustativa.

La natura peculiare degli oggetti culinari li rende difficilmente classificabili

nelle due categorie di corpo e mente, concepite quali poli dicotomici non

comunicanti secondo la tradizione culturale occidentale dominante. Come si

sostiene in Hungry Engrams (Parasecoli, 2001), la demarcazione fra psiche e

materia che il cibo nega è in realtà messa in crisi già dalla natura ibrida

detenuta dal cervello umano.

Parasecoli adotta in questo saggio una prospettiva opposta a quella

cognitivista più classica, che concepisce i processi mentali quali operazioni di

immagazzinazione, selezione ed elaborazione di informazioni

indipendentemente dal mezzo in cui avviene. Sulla base delle recenti teorie

elaborate da George Lakoff e Mark Johnson (1999), Parasecoli enfatizza la

natura “corporificata” della mente, la presenza di una relazione dinamica fra

gli stati mentali e l’esperienza corporea. Non a caso, sottolinea lo studioso,

Cartesio ha collocato la coniugazione fra la res cogitans e la res extensa

proprio nel cervello, per mezzo dell’organo da lui denominato ghiandola

pineale.

Il corpo e la dimensione materiale vanno quindi tenuti in considerazione

quali aspetti fondamentali del nostro modo di esperire il mondo che

intervengono nel nostro approccio alla realtà. Attraverso i canali sensoriali,

riceviamo gli input dal mondo esterno che vengono elaborati nella mente, e il

nostro modo di recepire la realtà e memorizzarla è influenzato anche dal lato

emozionale, che con l’esperienza somatica è associato. Il reale non è

riprodotto a livello mentale nella forma di una rappresentazione fedele

all’originale, bensì sulla base di sensazioni corporee presenti ed esperienze

passate conserviamo nella memoria un’interpretazione del mondo oggettivo

che ne è una ricostruzione personale51. Il cervello non registra perciò

passivamente il mondo esteriore, bensì, nel processo dinamico in cui è

coinvolto, partecipano la nostra curiosità e la nostra attenzione, influenzate da

motivazioni soggettive, ma comunque stimolino più o meno efficacemente

dall’esterno.

3.2 . Il ruolo dei sensi.

Come viene enfatizzato da Sánchez Romera (2001), nella cucina è compito

primario del cuoco curarsi che le proprie opere culinarie sollecitino

incisivamente ma sottilmente gli organi di senso del commensale, sulla base

della riflessione che è solo mediante la percezione sensoriale che l’atto

gastronomico può dare origine ad una sensazione di piacere.

Secondo quanto osserva il cuoco dell’Esguard, è essenziale nella

professione culinaria prendere atto della necessità di lavorare su tutti i livelli

sensoriali, tanto più se si considera che l’arte culinaria gode dell’unicità di far

partecipare “i cinque sensi in forma globale” (ivi, p.86, trad. mia). A questo

punto, può essere interessante sviscerare più a fondo la tematica relative al

ruolo interpretato dai diversi sensi nell’esperienza culinaria e del loro rapporto

con la dimensione celebrale, adottando la prospettiva scelta nel suo libro dello

chef-neurologo.

3.2.1. Il senso della vista.

Mediante gli organi della vista, possiamo avere una percezione

tridimensionale stabile di ciò che mangiamo e cuciniamo, nonché di tutto

l’ambiente circostante. Come già sottolineato in altre sezioni, nella cucina

quello visivo è essenzialmente un senso di anticipazione dell’esperienza

gastronomica: esso interviene infatti, assieme all’udito, nel corso del

51 Questa teoria, condivisa da Parasecoli (2002), implica l’adozione di un modello non-

rappresentazionale della mente.

cerimoniale che precede la degustazione, ovvero nell’osservazione dello

scenario del ristorante, dell’arredamento della sala e della tavola,

dell’allestimento dei piatti.

La percezione visiva può predisporre l’organismo alle sensazioni di piacere,

prima del contatto diretto con l’oggetto gastronomico. La dimensione visiva

dell’opera culinaria, che comprende innanzitutto l’architettura e le dimensioni

eidetica e cromatica, consente la riconoscibilità della pietanza al commensale,

nonché costituisce il livello più facilmente dominabile dal cuoco nel controllo

della riproducibilità52.

La visione di una pietanza può produrre effetti emozionali diversi nel

destinatario, come una sensazione di familiarità, di seduzione o di

apprensione. Poiché l’essenza dell’oggetto gastronomico si anticipa quindi con

la vista, è necessario secondo l’opinione di Sánchez Romera “non caricare di

artificialità i nostri piatti” (ivi, p.92, trad. mia). E’ opportuno quindi non

defraudare la percezione visiva con un allestimento infedele alla realtà, dato

che con la degustazione è possibile per il cliente comparare le sembianze del

piatto con la sua sostanza. Si può ritenere, sulla base di queste considerazioni,

che nella concezione di Sánchez Romera l’allestimento del piatto debba

allettare e predisporre al piacere il commensale, mentre la sorpresa venga fatta

intervenire solo nel momento dell’assaggio, nella percezione dei sapori e con

essi dell’“essenza” della pietanza.

Nell’anticipazione del gusto, la dimensione cromatica è molto importante:

il colore può ad esempio far sì che da crudo un alimento risulti più o meno

fresco e commestibile, mentre quando cucinato se cotto al punto giusto o

eccessivamente. Come riportano Marchesi e Vercelloni (1992, p.8), il celebre

esperimento dell’alimentarista Moir è particolarmente significativo a

proposito. In questa circostanza, si cerca di provare l’influenza dei colori nel

giudizio gastronomico organizzando un banchetto di contraffazioni

cromatiche, dove le portate di impeccabile qualità vengono colorate

artificialmente in maniera anomala all’insaputa dei commensali. Molti di essi,

colleghi inconsapevoli di Moir, sperimentano una sensazione di nausea e

malessere, determinata dalla sola incongruità fra i cibi e i colori loro associati.

52 E’ più difficile riprodurre esattamente gusto e odore di un piatto, in quanto essi

dipendono da molte variabili, come il prodotto, la tecnica, la stagione e l’autore del piatto. (Sánchez Romera, ivi, p.90).

In altri esperimenti, Moir studia inoltre l’influenza della dimensione cromatica

nell’identificazione dei cibi. Dalle sue prove, risulta ad esempio che il

riconoscimento dei sapori di sciroppi e gelatine è quasi sempre erroneo in

presenza di colori falsati53.

3.2.2. Il senso dell’olfatto.

Nonostante sia ritenuto di scarsa importanza nell’ambito della cultura

occidentale, l’olfatto ha un ruolo cruciale all’interno della vita emozionale

dell’essere umano, nonché nella modulazione della nostra memoria e del

nostro apprendimento.

Nell’uomo questo senso è meno sviluppato che in alcuni animali, ma ciò

non toglie che la nostra capacità olfattiva sia molto più elevata rispetto a quella

gustativa. Una persona addestrata, come un profumista o un miscelatore di

whisky, può riuscire a distinguere anche centomila odori differenti.

Nell’identificazione e nell’apprezzamento dei cibi, la componente odorifera

è molto importante. Come ricorda Sánchez Romera (ivi), dobbiamo renderci

conto che “un sapore è la somma di gusto e olfatto, e che in molte occasioni il

gusto è solo olfattivo”54.

Neurologicamente, sebbene da un lato protagonista di istinti primari, è

anche manifestamente all’opera in attività pienamente coscienti e intelligenti.

A differenza degli altri sensi, che hanno solo una via indiretta di accesso ai

centri coscienti del cervello, l’olfatto ha la peculiarità di avere anche una

seconda strada, veloce e diretta, che giunge alla corteccia celebrale senza la

mediazione di punti di contatto collocati nel tronco celebrale (ivi, p.97).

Il processo olfattivo ha origine con il deposito delle molecole odorose del

corpo sapido nell’epitelio olfattivo; prosegue con il loro passaggio attraverso

la corrente d’aria della narice55; continua poi nel transito delle stesse molecole

alla via retronasale, una volta che le sostanze sono state masticate e degustate

in bocca. Nella Fisiologia del gusto (Brillat-Savarin, 1825, p.59 della trad. it.)

si riconosce l’estrema rilevanza dell’olfatto e si suggerisce di verificare quanto

questo senso sia implicato nella degustazione per mezzo di prove empiriche:

quando si è raffreddati o se si mangia chiudendo il naso la sensazione di gusto

53 Mentre con sciroppi incolori il degustatore non incontra eccessive difficoltà. 54 Ad es. il tartufo ha odore intenso ma scarso sapore. Ivi, p.100. 55 Producendo “l’effetto chimenea”, se adoperiamo il termine di Brillat-Savarin (1825).

è imperfetta, così come se quando si inghiotte il cibo si tiene attaccata la

lingua al palato, impedendo la circolazione dell’aria in gola.

3.2.3. Il senso del gusto.

Il gusto è assieme all’olfatto etichettato quale “senso chimico”, in quanto

capace di trasmettere informazioni al cervello relative a sostanze del mondo

esterno per mezzo di strutture denominate recettori, ovvero di cellule o gruppi

di cellule specializzate, collocate nella lingua e nella cavità boccale (Sánchez

Romera, ivi, p.111). Raggruppate nelle papille gustative, queste cellule

captano secondo gli studi perlomeno quattro sapori base: dolce, salato, amaro

e acido. Ultimamente è stato identificato anche un quinto sapore, l’umami,

caratteristico delle cucine dell’Estremo Oriente, e prodotto in particolare dal

glutammato monosodico56, contenuto in abbondanza nella quasi onnipresente

salsa di soia e nell’alga konbu, componente del brodo di base giapponese, il

dashi (Dalessandri, 2001).

La percezione del salato e dell’acido sono collegate a quella che è l’origine

evolutiva dell’uomo e alle funzioni primarie del gusto: il salato ricorda la

discendenza dell’essere umano dagli invertebrati abitanti nel mare,

l’identificazione dell’acido è preventiva all’ingestione di elementi tossici.

Successivamente, si è sviluppato un senso del gusto più versatile e hanno fatto

la loro apparizione i sapori dolce e amaro. La preferenza gustativa verso il

dolce si manifesta naturalmente già dalla nascita, mentre il gradimento di

sostanze amare può verificarsi con l’acquisizione di un’esperienza e la

modificazione dei gusti alimentari.

L’identificazione e l’apprezzamento di un alimento in particolare prevede

però una specificità che va al di là della semplice associazione ai sapori di

dolce, salato, acido e amaro. Per prima cosa, ogni cibo attiva una peculiare

combinazione di sapori basici differenti. Secondariamente, come si è detto, il

sapore è il risultato della somma di gusto e odore. Terzo, entrano in gioco

anche elementi come la testura e la temperatura.

Come ricorda Sánchez Romera (2001), nell’operazione di riconoscimento e

di valutazione del cibo, il cervello analizza e sintetizza percezioni

multisensoriali, in cui vengono fatti intervenire tre sistemi: quello gustativo,

56 Oltre allo iosinato disodico e gualinato disodico. Cfr. Enza Dalessandri (2001).

quello olfattivo e quello sensitivo o trigeminale. Quest’ultimo è ritenuto

innanzitutto responsabile della sensazione del piccante o di calore degli

alimenti.

Nelle scelte culinarie, è fondamentale secondo lo chef-neurologo tenere in

considerazione le modalità in cui l’essere umano entra in contatto con

l’oggetto gastronomico e vive l’esperienza gustativa. E’ necessario ad esempio

ricordare che si verifica nella percezione del gusto un adattamento al sapore,

ovvero nella ripetizione ravvicinata di un assaggio si produce una riduzione

dell’intensità della sensazione gustativa. Nella programmazione di un menù

occorre quindi valutare in che modo le qualità gustative di una pietanza

possono alterare la percezione delle successive. Per rendere più intensa

l’esperienza gustativa, Sánchez Romera inoltre preferisce attribuire alle

preparazioni culinarie una consistenza viscosa, gelatinosa o untuosa, al fine di

garantire che le papille gustative possano essere adeguatamente impregnate

dalle molecole gustative e odorose, nonché che le loro informazioni si

mantengano a lungo in bocca. Queste testure, hanno infatti la proprietà di

produrre quella che lo chef dell’Esguard definisce “una grande superficie di

adattamento nella cavità oronasale” (ivi, p.128).

3.2.4. Il senso del tatto.

Neurologicamente, il senso del tatto è costituito dal sistema sensoriale

somatico, il quale rappresenta la congiunzione fra corpo e sensibilità, come la

derivazione etimologica dai termini greci soma ed estesia rende manifesto. Per

mezzo dei recettori nervosi diffusi nelle differenti zone del corpo fra cui anche

nella lingua, nella cavità boccale e nella mano, vengono percepite numerose

sensazioni. Nel caso degli oggetti gastronomici, si acquisiscono e trasmettono

al cervello informazioni relative alla testura, al peso, alla temperatura delle

pietanze, nonché si avvertono eventualmente segnali di dolore (ivi, p.130). E’

molto importante che lo chef conosca e domini l’intera gamma delle

consistenze, studiando i possibili contrasti che è possibile creare a questo

livello fra le componenti di ogni suo piatto, così da rendere l’esperienza di

degustazione più variegata. Una corretta valutazione del parametro della

temperatura è un aspetto altrettanto essenziale per determinare la sensibilità di

percezione dei sapori da parte del commensale.

3.2.5. Il senso dell’udito.

Il senso dell’udito non ha un ruolo primario nell’esperienza gastronomica,

bensì solamente una funzione di arricchimento dell’esperienza percettiva

globale. Viene attivato, così come la vista, già a distanza dal cibo, nella

ricezione delle onde sonore che si producono nell’attività di ristorazione, come

nel lavoro di cucina, nelle mansioni del personale di sala, nel vociare degli

altri commensali. In prossimità con le pietanze, i rumori sono quelli emessi

dagli spostamenti delle posate, nonché dalle sonorità risultanti dal contatto con

i denti di cibi dalla consistenza croccante. Questi suoni ci portano a volte nel

mondo del ricordo, arricchendo l’esperienza presente con quella di passate

degustazioni.

VI.

FERRAN ADRIÁ.

1. La strada per El Bulli e i suoi spazi.

La localizzazione di El Bulli è certamente inusuale considerato il suo

prestigio e il conseguente richiamo di un pubblico numeroso e a vocazione

internazionale: non solo non si trova in una grande città (ma questa non

sarebbe una grande novità per i ristoranti di alto livello), ma accedervi

comporta un viaggio impervio e solitario, che lo rendono molto più vicino ad

un pellegrinaggio al santuario che ad una rituale uscita domenicale al

ristorante di turno.

Abbandonato l’ambiente cittadino della vicina città di Girona, e fatto arrivo

a Roses, cittadina balneare vittima del deturpamento edilizio, dobbiamo

lasciare le rotte frequentate per avventurarci nei pressi di Cala Montjoy,

piccolo villaggio che dà su una splendida baia originariamente frequentata

soprattutto dagli amanti del sub. Questa affascinante quanto desolata località

sorge sulla sommità di una lunga serie di tornanti a strapiombo che rendono

l’accesso a El Bulli piuttosto difficoltoso e precludono l’avvicinamento

casuale del viaggiatore alla ricerca di un posto di ristoro. La nota ancor più

curiosa è l’assenza di alcuna sorta di segnalazione stradale che informi sulla

direzione da prendere per raggiungere il locale.

Costruito in pietra perfettamente integrabile con l’ambiente, esso sembra

volersi pudicamente ritrarre dall’attenzione indiscreta di chi non lo conosce,

non essendo iniziato alla cultura del gourmet. Il suo giardino ha sentieri

anch’essi di pietra, immersi in una vegetazione rigogliosa.

Chi ci arriva quindi è un soggetto pienamente competenzializzato nel senso

del sapere: deve sapere infatti di che ristorante si tratta, presumibilmente

conoscere il nome e l’identità del suo chef-patron, nonché necessariamente

dove si trova esattamente e come è possibile raggiungerlo. Ciò comunque non

basta, il suo frequentatore deve possedere tutta una serie di competenze per

accedervi:

– come abbiamo visto, deve sapere della sua esistenza;

– deve fare la prenotazione del tavolo con un anticipo di parecchi mesi,

nonché fare la fatica di raggiungerlo;

– deve potere sostenere la spesa economica non indifferente per la cena e (se

non si tratta di un quasi frontista) per il viaggio, nonché (non necessariamente

ma realisticamente) potere disporre di un mezzo di trasporto per arrivarci.

Superate tutte queste prove di qualificazione, il nostro eroe è identificabile

come tale perché ha dimostrato di fare parte – per desiderio e non per meriti o

capacità accertate – del circolo non troppo ristretto degli estimatori della

cucina creativa e del suo guru, Adrià.

Fig.1 L’entrata di El Bulli.

Lo spazio interno ha caratteri completamenti diversi da quelli vissuti in

precedenza. Ciò che prima quasi pudicamente non si voleva mostrare

precludendo l’accesso all’informazione da parte dell’utente, ora risulta

assolutamente chiaro, trasparente e accessibile. Da questo momento tutte le

porte della conoscenza gli si aprono, ogni azione diviene miracolosamente più

agevole, ogni suo curiosità facilmente soddisfabile, e l’oggetto del suo

desiderio sempre più prossimo fino ad un finale congiungimento. Dopo la

fatica l’eroe riceve il premio di un’esperienza unica e irrepetibile,

gustativamente ed esteticamente esaltante, differente da tutto ciò che si ha

sperimentato prima.

La strada impervia da Roses a Cala Montjoy è uno spazio paratopico che si

oppone al programma del soggetto (il cliente), può essere quindi anche inteso

a livello narrativo come un oppositore (che manifesta un non poter-fare) nei

suoi confronti. Sconfitto l’oppositore, il soggetto qualificato come eroe

virtuale entra in uno spazio in cui numerosi adiuvanti (ovvero il numeroso

staff) lo aiuteranno a congiungersi con l’oggetto desiderato. Qui l’oggetto può

essere molte cose diverse: l’esperienza gustativa ed estetica di piatti mai

provati, la conoscenza del guru della cucina creativa, l’acquisizione di

prestigio nell’iniziazione a gourmet, o persino, nella degustazione dei piatti

una sorta di ”cannibalismo di alta cultura” del suo autore (Arenós, 1999, p.9,

trad. mia).

A questo punto si apre tutto un mondo accessibile alla vista (e al gusto): le

cucine sono trasparenti all’esterno grazie alle enormi vetrate che danno sul

giardino (e di notte si illuminano nella loro magnificenza e in tutta la loro

febbrile attività), nonché all’interno perché le cucine nella sezione principale

di montaggio dei piatti sono aperte e perfettamente visibili. Ci si può scegliere

anche un tavolo proprio accanto per cenare e così assicurarsi non solo lo

spettacolo dei piatti ma della performance culinaria.

Il copioso personale a disposizione si prende cura di tutte le esigenze dei

clienti, dedicando tutta l’attenzione resa possibile da un rapporto numerico: un

cuoco - un cliente, e consentendo loro a volte di salutare il guru Ferran e

scambiare qualche parola. Alla fine inoltre lo staff avrà cura di verificare

direttamente il gradimento dei piatti da parte dei commensali, raccogliere

critiche e sondare preferenze per mezzo di colloqui personali. Tutto questo

processo di sanzione finale degli oggetti di gusto ha delle funzionalità

pratiche, non solo di verifica generale delle performance per eventuali

modifiche da apportare ai procedimenti culinari, ma anche e sostanzialmente

in previsione di un possibile ritorno del cliente stesso. Le note di gradimento

infatti vengono accuratamente registrate in schedine personali conservate in un

apposito archivio che verrà consultato in caso di una nuova visita. Sulla base

del principio della relatività dei gusti, si cerca quindi di adeguarsi alle

preferenze e idiosincrasie alimentari del commensale entro il limite posto dal

rispetto del potere impositivo-creativo dello chef.

Quest’ultimo del resto assume una posizione di vantaggio rispetto a quella

usualmente prevista dal contratto fiduciario a base della relazione fra

ristoratore è cliente: il cuoco infatti ha la facoltà di dettare pressoché tutte le

regole del gioco, essendo a lui delegata la selezione degli oggetti di gusto da

servire attraverso la semi-imposizione del menù degustazione.

Necessariamente questa operazione implica una quota molto alta di fiducia

concessa da parte del soggetto sanzionatore al soggetto performatore

dell’operazione culinaria.

Lo chef cerca di non tradire le aspettative riposte in lui ponendo una

particolare cura alla massima valorizzazione degli oggetti gustativi. Per

assicurare che l’esperienza sia unica anche per i numerosi clienti affezionati,

evitando un affievolimento dell’elemento sorpresa causato dall’iteratività della

visita (Greimas, 1987), la macchina organizzativa di El Bulli si prende inoltre

cura che i piatti del menù degustazione non siano gli stessi della volta

passata57. Sulla base delle note di gradimento inoltre verranno sostituiti tutti

gli ingredienti o combinazioni non di gusto con altri compatibili col personale

sistema di preferenze.

La strada per El Bulli (El Bulli fuori) L’interno di El Bulli

natura selvaggia e impervia spazio strutturato, con ogni

comodità

senza aiutanti (anzi ostacoli) affollato di aiutanti

(maghi/servitori)

desolato densamente popolato

non umanizzato né personificato:

assenza di segni identitari

personalizzato:

tutto richiama il suo

proprietario

spazio della prova spazio del premio

spazio ove l’oggetto di valore è

nascosto, difficilmente accessibile

trasparente, aperto alla vista

Le cucine, nella partita dedicata alle performance finali, sono

architettonicamente aperte alla curiosità del cliente essendo prive di muri e

divisori ad altezza superiore di un balcone. Sono infatti collocate nel salone

maggiore dell’edificio, il luogo utopico della performance, dove è presente

anche un tavolo dove il cliente che lo desidera può sedersi per la cena. Tutto

ciò che avviene in cucina è quindi assolutamente aperto allo sguardo curioso

del commensale.

57 Questo è un problema che non si poteva verificare negli anni passati in cui la carta era

completamente rinnovata ogni anno, ma solo quest’anno dedicato alla memoria, nel quale appunto si provvede a sostituire individualmente tutte le pietanze già assaggiate.

Fig.2 Lo staff di El Bulli.

Dopo questa prima analisi del viaggio fino a El Bulli, letto come percorso

di un soggetto-attante nello spazio, intendo approfondire ulteriormente il tema

della spazialità in un’ottica però differente, e teoricamente riconducibile ad un

diverso approccio semiotico. Fino a questo momento ho esaminato

l’organizzazione dello spazio relativamente al suo intreccio con il livello delle

strutture semio-narrative, ovvero secondo quello che Greimas ha proposto di

chiamare “la spazialità discorsiva oggettivata […] concepita come una

distribuzione topologica” (Greimas, 1976). Secondo questa prospettiva i

luoghi ritrovano la loro funzionalità e acquistano il loro valore attraverso

l’associazione con corrispondenti fasi dello schema narrativo.

Ora mi vorrei invece concentrare su quella che Bertrand (1995, p.122 della

trad. it.) definisce “la spazialità che fonda il soggetto”. In questo caso non è

infatti il soggetto che proietta il proprio spazio bensì lo spazio che proietta il

soggetto, il quale “si identifica con l’istanza di enunciazione stessa”.

Quest’ultima “si configura poco a poco, quasi incisa sul soggetto, o appare

dietro di lui come sua ombra e può essere descritta come un fascio di

atteggiamenti cognitivi specifici, basati proprio sugli usi – realizzati

concretamente – dei rapporti fra alcune categorie spaziali” (ivi).

Questa seconda prospettiva, ampiamente esplorata negli studi sulla

spazialità attraverso l’ottica socio-semiotica, nasce dalla constatazione

dell’esistenza di “un insieme di entità fisiche diversamente articolate che parla

del mondo in cui si dispiega, parla di se stesso ma molto più spesso parla

d’altro, parla della società come serbatoio complesso di significati e

valorizzazioni” (Marrone, 2001, p.293).

Consideriamo quindi la spazialità come testo, ossia gli spazi fisici

significanti, e lo esaminiamo come sistema e come processo, tentando di

ritrovare le forme di azione compiute dall’attore spazio (nella dimensione

cognitiva) e i tipi di soggettività inscritta nell’articolazione topologica.

Il livello più interessante da analizzare è quello cognitivo, costituito dalla

dimensione del sapere e dalle sue condizioni di possibilità date dal vedere. In

questo spazio agiscono due attanti principali: l’osservatore (ovvero il soggetto

delegato a vedere) e l’informatore (oggetto verso cui dirigere lo sguardo),

associabili ad un livello discorsivo nel primo caso con i clienti-visitatori, nel

secondo con la struttura proprietaria e organizzativa di El Bulli.

Schema della cognizione58

Potremmo interpretare la salita a Cala Montjoy come uno “spazio negato”,

caratterizzato da una relazione fra un soggetto informatore modalizzato

secondo un voler non informare e un soggetto osservatore a cui è negato di

vedere e sapere a causa della scarsa accessibilità dei luoghi. Arrivati a El Bulli,

gli spazi si aprono allo sguardo rendendosi molto più accessibili, indicando la

modificazione dello status dell’informatore da soggetto che pudicamente si

ritrae a soggetto che ora “non vuole non informare” e che non ostenta59 ma

rivela mancanza di imbarazzo60 nel lasciarsi osservare.

Si ha quindi un passaggio da uno spazio negato a uno spazio proposto, che

va di pari passo a livello narrativo con l’acquisizione da parte del soggetto-

58 Questo schema è stato proposto da Fontanille (1987, p.187), e riportato in Marrone (2001) nella sua analisi socio-semiotica degli spazi della Facoltà di Ingegneria dell’università di Palermo.

59 Infatti, ad esempio, solo il cliente che su propria iniziativa lo ha scelto verrà servito al tavolo del salone-cucina (riuscendo ad essere più prossimo alla costruzione dell’oggetto di valore), mentre normalmente sarà collocato in un salone a parte.

60 Termini riportati in Landowski (1989, p.120 della trad. it.).

utente dello status di cliente reale e riconoscibile, presupposto per la

successiva operazione di congiungimento con l’oggetto desiderato.

Dal punto di vista narrativo è come se il destinante-ristoratore avesse

sottoposto a prova di selezione il cliente potenziale nello spazio paratopico

della salita montana, nel quale è stata comprovata la fiducia del soggetto-

fruitore nei confronti del soggetto-performatore della performance culinaria.

A questo punto, il destinante si prepara a premiare questa fiducia concessa

permettendo al commensale un avvicinamento allo spazio utopico della

produzione gastronomica e contribuendo ad un disvelamento del valore

racchiuso nell’oggetto di gusto.

Il soggetto-gourmet che era stato lasciato solo, viene infine preso per mano

facendo ingresso in un mondo in cui la presa estetica dell’oggetto assume le

forme di un’attività assolutamente personale ed individuale. Distinguendosi

probabilmente da ogni altro esercizio di ristorazione a struttura non familiare,

El Bulli mette in atto tutta una serie di iniziative finalizzate a rendere

l’esperienza degustativa assolutamente unica e singolare. La presenza nel

locale di uno staff numeroso e attento a soddisfare ogni esigenza, l’adozione

delle schede di gusto associate ai singoli nominativi e con l’elenco dei singoli

piatti, l’associazione numerica di un cuoco per cliente al fine di garantire la

maggior qualità possibile delle pietanze, tutti questi e molti altri elementi,

contribuiscono a creare l’eccezionalità dell’evento e il suo sorgere ad

esperienza estetica dell’individuo sull’orizzonte anestetizzato della

quotidianità.

2. El Bulli Taller. Fra laboratorio e atelier.

Da alcuni anni, a sostegno della crescita creativa del ristorante di Roses, è

sorto El Bulli Taller, un laboratorio finalizzato alla elaborazione dei piatti da

inserire nel menù della stagione successiva. El Taller nasce dall’esigenza di

avere uno spazio appositamente dedicato alla creazione, elemento fondante

della cucina di Adrià, basata sul principio della novità e sorpresa e regolata

dal ricambio stagionale completo della carta. Il laboratorio è da un lato il

risultato dell’applicazione di una logica d’impresa, essendo paragonabile

all’area di Ricerca e Sviluppo presente in ogni azienda di un certo livello, e

dall’altro l’adozione delle logiche della Moda, essendo per altri versi simile ad

un atelier.

Fig.1 La cucina tecnologica di El Taller.

El Taller funziona pienamente da ottobre a maggio, mesi in cui il ristorante

è chiuso; lo chef accompagnato dalla sua équipe costituita da undici cuochi di

alta professionalità si riuniscono a pensare e sperimentare i nuovi piatti. Negli

altri mesi il laboratorio rimane aperto ma risulta meno attivo, in quanto lo staff

di cuochi e altro personale di deve dedicare al ristorante.

Fig.2 Vasetti con ingredienti per la sperimentazione.

La nuova fucina della creatività sorge nel pieno centro di Barcellona, in

una strada laterale della Rambla, il cuore della vita cittadina, a due passi dal

Mercato della Boqueria, dove gli chef si riforniscono per gli ingredienti più

freschi. Collocata nella dependance di un’antica palazzina neogotica, è

arredata in uno stile assolutamente moderno e molto affascinante dal punto di

vista del design. Molto spazioso (300 m2) e luminoso, ha tutto l’aspetto di un

ambiente costruito per essere visto, un luogo dove le “prove”, usualmente

proprie di uno “spazio di retroscena” (Goffman, 1959) acquistano la dignità

della ribalta, assumendo i caratteri dello spettacolo.

Il laboratorio non è infatti un luogo chiuso agli sguardi indiscreti, un ritiro

dello chef in isolamento. Su appuntamento infatti, si effettuano al suo interno

stage e visite a beneficio della stampa o professionisti della cucina. Nello

stesso ambiente inoltre sono presenti uno show room con cimeli dello chef (dai

suoi libri d’appunti a vecchie foto), un ufficio, un salotto dove ricevere i

giornalisti, una sala stampa ricavata da un’antica cappella in cui Adrià illustra

le due idee, una biblioteca gastronomica molto fornita.

In questo luogo che Landowski (1989) definirebbe dell’ostentazione, o del

“voler essere visti”, emerge l’elemento di visibilità dell’alta cucina, a cui

stiamo assistendo negli ultimi anni, in un’estensione e del processo di

“mediatizzazione” della cucina innescato negli anni Settanta (Fischler, 1990).

In particolare, questa visibilità mette in primo piano la figura, l’immagine e lo

stile del creatore in cucina, portato alla notorietà dai media. Recentemente, i

cuochi ai vertici della ristorazione hanno acquisito un loro peculiare

posizionamento non solo nel mondo nel loro settore bensì sono spesso soggetti

produttori di discorsi su tematiche più diverse. Chef italiani come Vissani o a

livello internazionale Bocuse o Ducasse (oltre allo stesso Adrià) sono

personaggi pubblici balzati agli onori della stampa.

Come viene sottolineato da Fischler (ivi), si può riconoscere un’evidente

analogia fra grandi chef e grandi firme della moda, e fra il sistema e le logiche

dell’haute cuisine e dell’haute couture. La cucina contemporanea d’autore, e

quella d’Adrià in primis, risponde al medesimo bisogno del nuovo e del

principio dell’inesauribile rinnovamento delle forme che sta alla base della

Moda. Per gli oggetti creati, secondo questa logica acquisisce un senso “il

valore di scambio misurato dal valore di cambio”, dalla quantità di

innovazione vera o presunta (Volli, 1988, p.7).

Alla radici dell’esistenza di entrambe c’è “l’attesa di un possibile

differente” (Landowski, 1995, p.31), che ha fra i suoi sviluppi la ricerca di

un’infinita variazione nelle espressioni, pur nella ripresa di elementi del

passato. La sperimentazione creativa è una necessità impellente per

un’organizzazione in cui il fattore sorpresa è un marchio d’identità. Così come

gli appassionati di Moda attendono il lancio della nuova collezione di Armani,

una nutrita schiera di gourmet aspetta con ansia l’apertura di El Bulli ad aprile

per poter scorgere il nuovo menù. Chi ha la fortuna di entrare a El Taller, può

inoltre godere delle anticipazioni su ciò che sarà in futuro possibile degustare.

L’organizzazione di El Bulli, in modo particolarmente accentuato rispetto

ad altri chef ai vertici, condivide con il Sistema della Moda la dimensione

temporale di discontinuità, caratterizzata dalla scansione euforica del corso del

tempo per mezzo della diversione dal consueto e ordinario. Questa si articola

da un lato secondo una temporalità ciclica, dall’altro secondo una temporalità

lineare. Nel primo senso, possiamo riconoscere molte sue attività che sono

fondate sul principio della stagionalità: come anticipato, il ristorante apre in

primavera ed in autunno chiude i battenti, al fine di consentire il massimo

dispiegamento delle forze ad El Taller per lo sviluppo della creatività. Questo

tipo di organizzazione sollecita ed esalta l’attesa per la nuova “collezione”

dello chef, ovvero i nuovi piatti e le tecniche innovative codificate nei menù

della stagione. La temporalità di El Bulli è inoltre scandita non solo

quotidianamente bensì settimanalmente, in quanto si cambia carta ogni

settimana.

La seconda dimensione è quella che richiama la natura evolutiva della

cucina di Adrià, la sua costruzione e valorizzazione del nuovo. In linea con

l’atteggiamento avanguardista, il creatore si colloca in una posizione di rottura

rispetto al passato e alla tradizione. A livello micro inoltre, si deve assicurare

l’elemento sorpresa rendendo ogni cena un’esperienza eccezionale per il

commensale. In questo senso si euforizza il momento presente, sulla base di

una dinamica dell’adesso. A questo fine si possono ricondurre le già ricordate

procedure di personalizzazione dei menù per i vecchi clienti nonché

naturalmente le pratiche di valorizzazione dell’esperienza estetica.

Sempre rimanendo alla dimensione temporale, si può inoltre rilevare che

analogamente alla Moda il tempo dell’attualità della degustazione segue una

logica dello sfasamento rispetto alla creazione. Come scrive Volli (1988), “la

Moda non è mai interna al suo tempo pubblico”. I piatti nascono e si provano a

El Taller nei mesi invernali, fino ad avvicinarsi al massimo all’idea originale

del piatto, ma poi vengono rifiniti e perfezionati al momento del servizio

quando il ristorante è aperto. In quello stesso periodo Adrià e soci stanno già

probabilmente pensando in qualche altra direzione.

Un ulteriore aspetto parzialmente in comune fra la cucina di Adrià e il

sistema Moda riguarda il principio di normatività, alla base di quest’ultima.

Tecniche e concetti culinari sviluppati dall’équipe di Adrià diventano spesso

nucleo di riferimento per il mondo dei professionisti della cucina suoi

estimatori. Grazie all’affermazione e al riconoscimento pubblico del valore del

cuoco, nonché alla trasparenza delle sue innovazioni, spesso le sue tecniche

vengono riprodotte e riadattate in una sorte di versione prêt-à-porter delle sue

creazione. Spesso le sue scelte culinarie, trasmesse attraverso le numerose

pratiche comunicative adottate dallo chef (dai quotidiani incontri con la

stampa, dai suoi libri e interviste che rilascia alla stampa), creano una sorta di

quadro normativo di riferimento e una norma comune per il regime del gusto.

2. Il sifone e le spume.

Senza dubbio la tecnica innovativa per la quale Ferran Adrià è balzato alla

notorietà è quella delle spume, un prodotto e un concetto culinario nuovo

sviluppato grazie all’utilizzo peculiare di uno strumento poco comune: il

sifone.

Questo attrezzo da cucina non è un’invenzione sua, infatti già negli anni

cinquanta questo strumento era di moda nell’ambiente dei cocktail-bar per la

produzione del seltz, nonché una sua versione leggermente modificata era da

tempo impiegata per montare la panna, a fianco ad altre tecniche altrettanto

valide. Il contributo essenziale di Adrià è consistito nella modifica del suo uso

nella direzione di un’apertura verso un’eterogeneità di impieghi, a partire da

un utilizzo molto specifico e perciò limitativo. Covando in mente i tratti di una

consistenza nuova da realizzare, lo chef da vero bricoleur ha interrogato un

repertorio di utensili già in uso ricercando l’oggetto che con i suoi programmi

narrativi iscritti potesse portare a compimento nella maniera più prossima le

performance desiderate. Dopo alcuni tentativi vani e talvolta pericolosi a

mezzo di voluminose bombole di anidride carbonica, ha incontrato sulla sua

strada il sifone IsI nato per montare la panna e l’ha sperimentato per usi

segnatamente diversi da quelli che nell’oggetto erano storicamente iscritti.

Con esso infatti è riuscito a produrre, a partire da una vasta gamma di

ingredienti, una serie prodotti nuovi molto leggeri, dalla consistenza aerea,

riuniti sotto il nome di spume. Sviluppate a partire dal concetto tradizionale di

mousse, si differenziano nettamente da esse per composizione e purezza di

sapori. Adoperando il sifone per la produzione di prodotti assolutamente

originali e innovativi, Adrià è riuscito a trasformare uno strumento in disuso in

un oggetto nuovo che ritrova potenziato il suo valore strumentale e mitico.

Le spume di Ferran sono realizzate a partire da succhi o purè a base di

ingredienti vari61 ai quali non viene aggiunto nessun elemento modificatore

della loro essenza gustativa. Analogamente a Miguel Sánchez Romera col suo

micrì, con questo strumento lo chef raggiunge l’obiettivo di ottenere un

prodotto che è l’elaborazione della testure dell’ingrediente inserito senza una

sua de-naturalizzazione a livello sostanziale. A differenza delle mousse

classiche, dove l’ingrediente triturato e omogeneizzato veniva associato a

sostanze quali uova o prodotti caseari che avevano l’effetto di alterarne il

gusto, qui il prodotto base viene lasciato esprimere tutta la sua propria essenza

con la mera aggiunta di gelatina (che non modifica il sapore) e di aria

(l’elemento assenza per eccellenza). Si ottiene quindi un prodotto

dieteticamente in linea con le attuali tendenze verso il light, nonché in un certo

senso “essenziale”: si ritrova infatti post-operazione il 100% del componente

di partenza.

Si produce inoltre un prodotto elegante e sofisticato, associabile ad altri

ingredienti o degustabile da solo, dalla testura delicata che soavemente seduce

il palato. Non impone l’uso di coltelli né denti per la mastificazione,

infantilmente è associabile alle attività giocose perché, non necessitando che di

61 Cfr. Adrià (1997), dove sono elencati più di 120 prodotti con cui confezionare spume.

Fra essi troviamo in particolare prodotti della terra, come numerose varietà di frutta, verdure, ortaggi, erbe, spezie, funghi. Troviamo inoltre alcuni elementi piuttosto originali come l’acqua di molluschi, la crema catalana, riso con latte e perfino fumo.

minimi sforzi da parte del commensale, rende la degustazione più

piacevolmente oziosa.

Questo strumento rivela due caratteristiche fondanti della cucina

contemporanea d’autore: la ricerca dell’essenza e della purezza dei prodotti

utilizzati che non è una semplice riproposizione della natura nella sua

spontaneità, bensì il risultato di un processo di trasformazione ed elaborazione,

generato e giustificato da una riflessione culturale su ingredienti, tecniche e

memorie gustative. L’attività culinaria sforna in questo senso prodotti che

sono allo stesso tempo “essenziali” e “sofisticati”, secondo una concezione

della cucina come luogo della ricerca di qualificazione e raffinamento dei

sapori esistenti in natura come virtualità da portare alla luce attraverso l’opera

culinaria. In essa, gli elementi del gusto vengono invitati a giocare secondo

regole infinitamente negoziabili e risultati sempre sorprendenti.

In ciò si percepisce la dimensione ludica dell’attività culinaria, condivisa

con gradi e manifestazioni diverse da tutti e tre i cuochi da me presi in esame.

Lo chef interroga gli angoli della sua memoria per avere una sorgente di

ispirazione, consulta libri di ricette del passato e si informa delle evoluzioni

del presente per verificare le strade che già sono state percorse. Dialoga con la

sua memoria e la propria capacità immaginativa per fare congetture su

possibili nuove associazioni, o immagina una nuova interpretazione di piatti

esistenti attraverso la loro destrutturazione. Nel fare tutto questo attua un

lavoro di bricolage (intellettuale e materiale), in cui gioca con i più disparati

pezzi alla ricerca di nuove strategie che possano sorprendere ed emozionare

con lo stupore il commensale che verrà.

3.1. Fisiologia delle spume.

Nella mia analisi, vorrei in primo luogo focalizzare l’attenzione sui caratteri

della spuma intesa come oggetto di valore risultato di un processo di

trasformazione chimico-fisica per mezzo di un utensile culinario adoperato nei

suoi nuovi usi. Sulla base delle osservazioni di Bastide (1987) raccolte nel suo

saggio sul trattamento della materia, potremo quindi cercare di effettuare una

classificazione di questo oggetto nel suo stato finale in relazione a quello

iniziale pre-operazione. Ciò ci permette di individuare i caratteri funzionali

propri del sifone, nonché, attraverso una comparazione con la natura delle

mousse classiche, di esplorare gli elementi innovativi del nuovo prodotto.

A livello più generale, le spume vanno ricondotte alla categoria

dell’/amorfo/, alla quale vanno appartengono le sostanze la cui forma viene

determinata dal contenitore in cui sono collocate, in opposizione a quelle

associabili allo /strutturato/, in quanto dotate di morfologia propria e stabile. Il

loro status è /compatto/ non essendo composto da elementi discernibili senza

sforzo, opponendosi agli oggetti riconducibili alla categoria del /discreto/,

dotata del valore d’uso di consentire le operazioni di miscelazione e scelta. La

condizione di natura spaziale delle spume è di /espansione/, in opposizione

alla categoria del /concentrato/, come conseguenza dell’effetto dilatante della

presenza di gas nella costituzione del prodotto. A livello qualitativo, hanno

una struttura /semplice/ in quanto composte “da parti identiche o

indistinguibili” (ivi, p.347 della trad. it.).

Mentre le prime tre variabili sono condivise dalle spume e dalle mousse

classiche, quest’ultima categoria le differenzia. Le mousse infatti sono delle

sostanze di stato /composto/, ovvero costituite “da parti differenti riguardo

alla loro origine, forma”: si utilizzano infatti uova e altri ingredienti in

addizione al prodotto base. La semplicità (alla quale proporrei di associare la

categoria di /purezza/) può essere quindi letta come il tratto distintivo del

nuovo prodotto ottenuto col sifone.

Le mousse

tradizionali

Le spume

di Adrià

composizione:

1 l di puré o succo del prodotto

desiderato + 1 l di panna e uova =

50% del sapore

composizione:

1 l di puré o succo

del prodotto =

100% del sapore

Consideriamo ora il processo trasformativo concentrandosi specificamente

sulle nuove spume. Se consideriamo la materia nello status precedente alla sua

introduzione nel sifone, ovvero il succo gelatinato, in base a queste stesse

categorie potremmo definirla quale: amorfa, compatta (poiché la gelatina fa da

collante), concentrata, semplice. Ne deduciamo che il contributo del sifone è

stato quello di una trasformazione di tipo espansivo.

Un esame della definizione di queste sostanze dal punto di vista della loro

natura chimico-fisica da parte di Harold McGee risulta rivelatorio. Scrive

quest’autore, dedito ad un approccio scientifico alla gastronomia, che una

schiuma (alla cui categoria le spume vanno ricondotte) “è una dispersione di

gas in un liquido; in termini meno esatti, è una massa stabile di bolle […] è

fatta di piccole masse d’aria circondate da sottili pellicole d’acqua nelle quali

sono disciolte sostanze diverse” (McGee, 1984, p.78 della trad. it.). Le

molecole disperse nella schiuma diminuiscono la tensione superficiale

interrompendo “la matrice delle forze che agiscono nel liquido fino al punto

che le bolle possano formarsi” (ivi, p.79 della trad. it.). Nella costituzione delle

mousse, sono le proteine delle uova (o meglio degli albumi) a consentire la

“snaturalizzazione superficiale” e produrre la testura aerea desiderata, mentre

nelle spume di Adrià è la gelatina a garantire la viscosità necessaria per la

stabilizzazione della schiuma. Il movimento della sbattitura manuale o

meccanica che consente di intrappolare grandi bolle d’aria nell’albume è

sostituita però nella produzione delle spume dall’effetto pressione presente

all’interno del sifone, dotato di cariche di anidride carbonica.

3.2. Per una semiotica dell’oggetto: analisi del sifone. Dopo aver esaminato sinteticamente la natura innovativa del prodotto che

come ci ha dimostrato Adrià è possibile conseguire con il sifone, può essere

opportuno concentarsi sullo strumento in sé, utilizzando gli strumenti

sviluppati dalla semiotica per lo studio degli oggetti.

Come riconosciuto piuttosto recentemente in ambito socio-semiotico, gli

oggetti sono anch’essi interpretabili come testi nei quali si trovano iscritte le

marche di numerose pratiche significative (Pozzato, 2001), e di conseguenza

possono ritenersi qualificato argomento di indagine attraverso prospettive

diverse. Sulla spunto della metodologia adottata da Floch (1995b) e ripresa da

Marrone (2002b), che trae ispirazione dalle proposte di Greimas (1983) per

uno studio sui lessemi, mi propongo di analizzare l’oggetto secondo tre

dimensioni:

1. nella sua componente configurativa, ovvero esaminando le sue parti

componenti e le relazioni che esse intrattengono tra loro e con l’oggetto nella

sua totalità e complessità;

2. nella sua componente tassica, ossia esaminando i tratti differenziali che lo

caratterizzano nel suo statuto di “oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo”

(Greimas, ivi, p.19 della trad. it.);

3. nella sua componente funzionale, cioè nelle possibili valorizzazioni che

l’oggetto assume per uno o più soggetti, sia in senso strumentale che

simbolico62.

Seguendo questo percorso, si prenderà in esame sia l’oggetto in sé nella sua

struttura immanente e le sue qualità sensibili, sia necessariamente l’oggetto

nelle relazioni che intrattiene con il mondo-ambiente, ossia inserito in un

contesto sociale d’uso. Coerentemente con l’impostazione socio-semiotica, la

distinzione concettuale fra testo e contesto in un’analisi degli oggetti viene

meno, sulla base e a causa della natura stessa dell’oggettualità. Come ha

sottolineato Semprini, “l’oggetto si costituisce, si definisce e si offre a

un’esistenza e a un’utilizzazione soltanto ed esclusivamente all’interno di una

autentica relazione intersoggettiva” (Semprini, 1995, p.99 della trad. it.).

Innanzitutto, sulla base della considerazione per cui un oggetto è definito tale

in quanto portatore di un valore per un soggetto, è opportuno analizzare la

relazione fra soggetto e oggetto per esaminare che cosa il secondo fa per il

primo. Esaminato in una situazione narrativa specifica, possiamo rilevare non

solo le modalità con cui il soggetto iscrive nell’oggetto i suoi valori, bensì

anche come viceversa l’oggetto presuppone certe forme di soggettività con le

quali esso può, vuole o deve entrare in relazione (Marrone, 2002a). Inoltre è

possibile esplorare le relazioni che l’oggetto intrattiene sia nella sua totalità

che nelle parti costituenti con altri oggetti, ovvero in una dimensione di

interoggettivà. Secondo questa prospettiva, è possibile esaminare i rapporti che

l’oggetto assume a livello paradigmatico con altri oggetti virtualmente

sostituibili con esso o comunque comparabili, nonché nelle relazioni che

esperisce in praesentia a livello sintagmatico con altri oggetti che presuppone

o con cui convive.

62 Se facciamo riferimento al famoso quadrato di Floch (1990) sulle possibili

valorizzazioni di un oggetto, possiamo individuare quattro dimensioni: una pratica, una mitica o utopica, una ludico-estetica e una critica.

Fig.1 Le parti del sifone ISI. ICC (dalla rete).

Fig.2 Illustrazione dell’ utilizzo del sifone. Adrià (1997).

Concentriamoci però ora sul nostro caso in esame, ovvero il sifone. Se

esaminiamo innanzitutto la sua dimensione configurativa (incrociandola con

elementi della dimensione funzionale), possiamo scomporlo principalmente in

due parti di cui una ulteriormente suddivisibile.

Nella parte inferiore abbiamo un recipiente a forma cilindrica con

accentualizzazione verticale e assottigliamento finale, dalla struttura e

dimensioni analoghe ad una bottiglia. Quest’ultima, parafrasando Leroi-

Gourhan, non è altro che un contenitore di piccole dimensioni particolarmente

adeguato per la sua forma alla conservazione, al trasporto e al travaso di fluidi,

ovvero “masse mobili che bisogna imprigionare per mantenere uniti” (Leroi-

Gourhan, 1943, p.208 della trad. it.). Le tre funzioni vengono adempite dallo

stesso oggetto grazie alla sua configurazione peculiare:

1. la pancia è una “cavità profonda” che la rende atta al contenimento di

liquidi;

2. l’apertura ristretta fa si che si presti meglio per la per la conservazione del

suo contenuto che non ad esempio una pentola, in quanto limita il contatto con

l’aria esterna;

3. la morfologia di quest’ultima, “con collo in asse”, facilita inoltre la

prensione, il trasporto a mano e il travaso. Questo recipiente accoglie la

sostanza da elaborare, un oggetto di gusto parziale che ha già subito

un’operazione di de-naturalizzazione (non qualitativa ma quantitativa) e semi-

culturalizzazione attraverso un PN d’uso di triturazione (in caso di elemento

solido di partenza) e omogeneizzazione dello stesso. Il sifone infatti lavora

solo con puree o succhi di consistenza liquida e omogenea.

Le altre parti essenziali del sifone sono:

– le parte intermedie, ovvero la valvola e la giuntura di gomma. Sono

l’elemento di congiunzione fra la parte contenitrice e quella funzionale alle

operazioni. Garantendo una chiusura ermetica dell’oggetto lo rendono

inaggredibile dagli agenti esterni i quali potrebbero turbare la buona riuscita

dell’operazione, fungendo narrativamente da oppositori;

– la parte superiore, dove dal cappuccio dipartono gli elementi funzionali

dell’oggetto, determinanti il contatto fra soggetto-operatore e oggetto-

strumento, nonché fra quest’ultimo e gli oggetti di gusto parziale e finale.

Queste componenti sono costituite da:

1. una leva, la quale prevede l’azione umana operazionale, fa parte

dell’interfaccia soggetto-oggetto ed interviene nel momento dell’emissione

della spuma, ovvero a trasformazione avvenuta;

2. una valvola, la quale regola la quantità d’aria;

3. un supporto per le cariche di N2O compresso, il quale è l’ingresso

dell’elemento aria, agente chimicamente responsabile della reazione

trasformatrice della materia, producendo la testura aerea oggetto del desiderio.

Con il caricamento, si avvia la quasi-magica trasformazione dell’oggetto di

base in un altro culturalizzato, al quale è riconosciuto un valore gustativo-

estetico (e soprattutto, nel caso delle innovative spume, di produzione

dell’emozione del nuovo);

4. decoratori (assenti nel caso del seltz ma presenti nel sifone per panna), i

quali sono l’elemento di emissione de prodotto-risultato e convogliatici di esso

nel piatto stesso oggetto di sanzione, come elemento unico o come

componente di accompagnamento ad altre cibarie. Attraverso di essi si

attribuisce una forma (anche se non strutturata) all’output, nonché si regola

quantitativamente il prodotto all’uscita.

Per quanto riguarda la dimensione tassica del sifone, possiamo da un lato

compararlo in una dimensione diacronica con gli strumenti da cui esso è

derivato, dall’altro con oggetti con funzione simile. Come si scopre

esaminando dal dizionario, la tecnologia di cui stiamo parlando non è ancora

generalizzabile e codificata dal dizionario. Nel vocabolario Devoto Oli del

1971 il sifone nel contesto più prossimo al nostro è definito come: bottiglia robusta per contenere un liquido gasato e un po’ d’aria compressa, che

oltre a evitare la degassificazione del liquido, lo fa uscire da un apposito tubo quando

si aziona una levetta. _ da seltz.

Non si fa menzione degli usi di Adrià ma neanche di quelli per i quali già

era noto, in una evoluzione precedente a partire dal sifone apposito per il seltz,

ovvero l’uso di montare la panna. Oggi l’azienda ICC (International Cooking

Cocenpts) commercializza il sifone iSi legandolo al nome di Adrià,

assicurandosi quindi il patrocinio del grande cuoco che ha riportato in auge

uno strumento desueto (ri-valorizzandolo) e lo ha aperto a nuove potenzialità.

Lo chef garantisce ufficialmente l’affidabilità tecnica del prodotto e illustra i

suoi possibili usi, attraverso un libretto di ricette che accompagna la

confezione in vendita. Oggi si può dire chi cerca il sifone lo fa perché conosce

le invenzioni del cuoco-star e vuole riprodurre le sue produzioni in casa o

soprattutto in ambito professionale.

Se esaminiamo le relazioni paradigmatiche del sifone con altri oggetti

possiamo affermare che prende il posto di strumenti come sbattitori (Marrone,

2002b) nell’operazione di montare gli ingredienti, un’azione che come

sottolineato implica un come un passaggio dal concentrato all’espanso,

provocato dalla formazione di bolle d’aria. Il sifone però prevede un

funzionamento e l’esecuzione di una trasformazione della materia

sensibilmente differente da quella ottenibile con altri strumenti. Da ciò

traspare l’innovazione e l’interesse per questo utensile, il quale possiede

l’esclusiva competenza necessaria per la realizzazione di queste originali

spume.

A livello sintagmatico, ovvero relazionando lo strumento con altri oggetti in

presentia, si può sostenere che il sifone prevede e necessita la presenza di

utensili come la centrifuga con la quale si compie il PN d’uso di

omogeneizzazione del prodotto base, operazione preliminare al possibile

utilizzo del sifone.

Concentriamoci però ora sulla dimensione propriamente funzionale

dell’oggetto, da Greimas (1983) scomposta in Dell’Imperfezione in tre aspetti:

la dimensione propriamente strumentale, quella mitica e quella estetica.

Essendo il uno sifone uno strumento culinario, finalizzato quindi ad un far-

fare, la sua funzione pratica è evidente. Al sifone il soggetto umano delega una

serie di operazioni culinarie che solo la macchina è competente a fare, ovvero

la trasformazione delle sostanze di partenza allo stato semi-liquido in sostanze

dalla consistenza spumosa. La sua funzione strumentale è perciò quella di

produrre una testura particolare per la quale solo questo strumento possiede il

saper-fare.

A livello estetico, i caratteri più peculiari sono quelli di linearità, freddezza

ed evoluzione tecnica. La presenza di valvole, leve e cariche la differenziano

dagli strumenti culinari comuni d’uso domestico. L’assenza di dettagli

decorativi e il suo design essenziale le conferiscono il fascino degli oggetti

tecnologici.

Per quanto riguarda la dimensione mitica, possiamo sottolineare che il

sifone interviene in operazioni di natura qualitativa, ovvero di trasformazione

sostanziale dell’elemento sottoposto alla sua azione. Interpreta un ruolo di

mediazione fra il soggetto umano e l’ambiente, svolgendo al suo posto una

serie di operazioni di culturalizzazione, ovvero di elaborazione a partire da

elementi già de-naturalizzati63. Il sifone funge da aiutante nei confronti del

soggetto-operatore, o anche di oggetto magico capace di contribuire alla

ricerca dei valori. Il soggetto umano non è dispensato completamente da ogni

azione, infatti al fine di produrre un risultato soddisfacente deve adempiere ad

una serie di attenzioni: deve caricare esattamente il recipiente (senza contatto

diretto, utilizzando un bicchiere o un imbuto), inserire la carica d’aria,

63 Sebbene, come abbiamo detto, non a livello sostanziale.

chiudere ermeticamente il sifone ed infine agitarlo. Questo ultimo atto così

semplice e non implicante fatica fisica ma tuttavia necessario perché abbia

inizio l’operazione di trasformazione della materia, lo rende analogo all’azione

dell’agitamento della bacchetta nelle fiabe, dando l’impressione della

produzione di una magia. A differenza di altri strumenti come frullatori e

mixer inoltre, la performance messa in atto avviene all’interno dello spazio

utopico del sifone senza la testimonianza del destinante, che solo ad

operazione avvenuta (e dopo un’attesa, in quanto lo strumento va posto in

frigo per alcune ore), secondo un’aspettualità terminativa potrà sanzionare

l’oggetto di valore. A questo punto non può fare nulla per correggere gli

eventuali difetti senza re-iterare l’intero processo.

L’assenza di controllo da parte del soggetto umano e la natura delle sue

deleghe potrebbero spingere a concepire il sifone come un soggetto

manipolato per assumersi una serie di programmi d’azione e portarli a

compimento. I processi narrativi che implicano la performanza del sifone

infatti presuppongono la realizzazione di processi narrativi d’uso finalizzati

alla produzione di una sostanza omogenea in forma di purea o succo. La sua

dimensione mitica evoca un mondo di raffinatezza ed elaborazione culturale,

estranea agli strumenti che implicano un contatto immediato con la natura. Il

risultato della sua performanza entra a far parte dell’oggetto finale di gusto e

talvolta ne è elemento portante.

Un altro aspetto interessante da esaminare è quello dell’utilizzatore

modello iscritto nel sifone. Il soggetto costruito da questo oggetto deve

possedere una certa competenza tecnico-gastronomica per cui idealmente

questo prodotto è rivolto principalmente al professionista della cucina, anche

se non si esclude l’uso in ambito domestico. Il sifone è utilizzabile per una

eterogeneità di operazioni, infatti è adoperabile con una gran varietà di

ingredienti (soprattutto frutta e verdura ma anche ingredienti più originali

come il fumo) e per produrre portate di diverse temperature e che vanno dalle

pietanze salate a quelle dolci, dai primi ai dessert. La sua versatilità dipende

però dal suo utilizzatore, che deve essere capace di immaginarne i più originali

usi. Così come il coltello Opinel e a differenza di strumenti multi-funzione, il

saper-fare non è “dentro” l’oggetto bensì richiede una certa competenza

tecnica e soprattutto un’ingegnosità culinaria per sfruttare le sue potenzialità.

Fig.3 Una spuma al latte di cocco completa un cocktail.

Fig.4 Utilizzo del sifone per la preparazione del cocktail di benvenuto.

4. Una giornata ad El Bulli. La manipolazione dei saperi e dei sapori.

4.1. L’organizzazione del lavoro nel contesto ristorativo.

Questo capitolo racchiude una serie di riflessioni che traggono origine da

informazioni raccolte sul campo presso il ristorante El Bulli, nel mese di

Maggio dell’anno corrente. Adottando le tecniche dell’osservazione

partecipante e grazie alla disponibilità dello staff, ho potuto aggirarmi

liberamente per lo stabilimento prendendo appunti e immagini fotografiche

sulle attività in corso, nonché effettuare interviste e annotare le spiegazioni

fornitemi dal primo cuoco e da altri membri dell’équipe di cucina.

Nella mia visita, ho avuto la possibilità di assistere per l’intera giornata

lavorativa alle diverse fasi di allestimento della performance culinaria e della

sua “rappresentazione”. In maniera peculiare, negli ultimi anni il ristorante

non realizza due funzioni giornaliere bensì è aperto al pubblico solamente per

la cena, avvicinandosi anche negli orari agli assetti del sistema teatrale64.

Questa organizzazione lavorativa permette di interpretare il processo di

produzione quotidiano in senso non iterativo bensì dotato di un unico

momento finale e conclusivo, consistente nella congiunzione di un soggetto

desiderante con un oggetto di valore risultante da programmi di

trasformazione culinaria.

L’esperienza osservata dall’inizio al termine è adeguatamente inquadrabile

nello schema narrativo canonico secondo la prospettiva di una semiotica

dell’azione di natura pragmatica, focalizzata sulle operazioni di

trasformazione del mondo, consistenti in programmi di soggetti umani

finalizzati ad un far-essere di oggetti materiali (Greimas, 1983, pp.10-1 della

trad. it.). Non mi soffermerò però a lungo sul momento performativo inteso

come attività di modificazione ed alterazione della materia, approfondito in

altre parti di questo lavoro, bensì sul processo più in generale sviscerando fasi

e tematiche dalla posizione periferica, quali la manipolazione e la sanzione65.

Nella seconda parte di questa sezione, esaminerò quindi le tematiche della

temporalità e dell’organizzazione spaziale.

64 Come viene sottolineato dallo stesso Adrià (1997). 65 Greimas invoca a questi aspetti il riconoscimento di uno statuto di dispositivi semiotici

autonomi e auspica uno sviluppo di una semiotica della manipolazione e una semiotica della sanzione (Greimas, 1983).

Per le mie riflessioni mi avvalgo anche del confronto con le considerazioni

di Gary Alan Fine, etnografo organizzazionale che ha effettuato ricerche sul

campo all’interno delle cucine di ristoranti americani di diverso livello e stile,

adottando la tecnica dell’osservazione partecipante. Per mezzo del suo

soggiorno, ha potuto esaminare come le istituzioni oggetto della sua indagine

operino in pratica, con l’obiettivo di comprendere come l’interazione emerge

dalle strutture organizzative e come essa a sua volta diviene strutturata.

Nel suo studio, Fine (1996) porta alla luce due tematiche cruciali: come i

limiti organizzativi, economici ed ambientali influenzino le scelte nelle azioni

dei lavoratori nelle loro routine quotidiane, e come gli standard estetici

vengono negoziati in pratica. L’etnografo sottolinea come le considerazioni

estetiche debbano soggiacere agli standard di gusto del cliente, le costrizioni

temporali e l’economia dell’industria ristorativa. Quest’aspetto riscontrabile in

gran parte dei ristoranti è, nel caso della mia analisi, meno evidente in quanto

la sua eccezionalità lo fanno forse il caso che conferma la regola. La

vocazione elitaristica del luogo con la complessa macchina organizzativa

(numero di persone e loro professionalità, orari ridotti d’apertura, le spese che

i clienti sono disposti ad accettare etc.) lo rende un esercizio privilegiato. Ad

El Bulli infatti, si possono permettere di reperire sul mercato il prodotto dalla

forma e colore più perfetta, di avere una o più persone che dedicano del tempo

all’allestimento estetico del singolo piatto, di seguire la libera vocazione

estetica dello chef al quale è riconosciuto lo status d’artista, con il diritto di

decretare il gusto.

Nei ristoranti esaminati da Fine e nella maggioranza delle strutture

ristorative, è richiesta una grande flessibilità nel carico di lavoro e nell’utilizzo

delle risorse. Come sottolinea lo studioso (ivi), i cuochi non sanno esattamente

quante persone arriveranno, in quanto ci potrebbero essere clienti di passaggio

o riserve all’ultimo minuto. Devono essere quindi pronti a cucinare piatti

diversi anche simultaneamente, affrontando così ritmi molto frustranti.

Ad El Bulli questi elementi di imprevedibilità vengono meno attraverso una

serie di procedure più o meno peculiari:

– le prenotazioni molto anticipate (con un tutto esaurito assicurato), in cui è

specificata l’ora esatta del previsto arrivo dei clienti permettono un controllo

numerico; il tutto completo permette un rapporto numerico fisso cuoco-cliente;

– l’adozione del menù degustazione consente un acquisto economicamente

efficiente poiché calcolato dei prodotti necessari alla preparazione. Non è

necessario quindi che i cuochi sovraproducano certe pietanze per usi

successivi eventuali.

Possono essere messe in atto procedure organizzative molto complesse e

dettagliate, in cui l’elemento variabile è limitato agli imprevisti determinati

dal particolare stato di ingredienti o errori a livello esecutivo. Ciò permette di

facilitare l’organizzazione del lavoro e di tenere sotto controllo i ritmi dello

stesso, rendendolo il più possibile tollerabile66.

Ad El Bulli rende però più complessa l’organizzazione il rinnovamento

settimanale del menù, che impone maggior concentrazione rispetto a chi può

riprodurre quasi automaticamente (adottando i trucchi dell’esperienza) ricette

sempre uguali. Quelli che sono le informali procedure semplificatrici del

lavoro, ovvero l’approssimazione, i shortcuts67, l’uso di prodotti convenienti

etc. sono in questo ristorante meno ammessi che altrove, a causa delle

aspettative molto alte dei clienti e allo status del destinante. La freschezza, la

perfezione formale, la purezza e non sofisticazione delle tecniche sono

presupposte nello scambio fiduciario fra clienti e ristoratore, in quanto

vengono investiti in esso valori simbolici ed economici piuttosto alti.

Le procedure di approssimazione, da Fine indicate come uno dei metodi di

ripiego adoperati per rendere affrontabile il lavoro, sono escluse ad El Bulli.

Vengono ricercati con cura frutti e molluschi della stessa grandezza e aspetto

formale; per far sì che il piatto sia ai vertici inoltre non vengono mai proposti

piatti in periodi in cui gli ingredienti della composizione non soddisfano i

criteri di stagionalità. In una prospettiva semio-narrativa, se ammettiamo di

considerare per un momento l’elemento culinario come un soggetto (secondo

quanto proposto anche da Floch, 1995a), possiamo interpretare questa

selezione come una prova preliminare di competenzializzazione che rende il

prodotto in grado di poter-essere parte componente di un piatto di El Bulli.

Freschezza, giusta maturità, colore e dimensione, aspetto formale adeguato

66 Nonostante ciò, data la complessità delle operazione e gli altissimi standard valutativi

delle sanzioni, il ritmo si fa frenetico ugualmente. 67 Ovvero le tecniche che permettono un’abbreviazione dei tempi delle preparazioni (ad es.

il i dadi vegetali).

sono condizioni necessarie da soddisfare per poter andare avanti nelle prove di

riconoscimento dell’oggetto culinario quale eroe del gusto.

La prima prova avviene nello spazio paratopico68 del mercato, dove si ha la

selezione degli ingredienti, che si fonda su caratteristiche naturali ad essi

proprie. In seguito i prodotti si competenzializzano per opera dell’intervento

performativo di soggetti umani, i quali attraverso operazioni di de-

naturalizzazione e semi-culturalizzazione intervengono sugli ingredienti

rendendoli omogenei. I prodotti la cui forma non rimane intatta vengono

tagliati in modo che assumano una forma regolare, attraverso procedure

manuali ed artigianali ma anche con l’ausilio di mezzi di precisione. Per pesare

l’aglio si usa il bilancino a grammi, per le salse ci si aiuta con dosatori

normalmente usati negli stabilimenti americani per il ketchup, per il taglio

millimetrico di frutti e verdure si fa uso a volte perfino il righello, allineandosi

con il quale si incidono tacche sul tagliere da seguire.

La perfezione e l’identità del piatto con quello degli altri commensali sono

criteri primari nel giudizio di valore del piatto, e ogni sua violazione comporta

un disconoscimento della legittimità del gusto. Solo in limitatissimi casi alla

sanzione passa qualcosa di impercettibilmente imperfetto, magari rendendolo

formalmente il più possibile ineccepibile al giudizio del cliente, in molti altri

l’istanza giudicatrice lo rimanda indietro, non riconoscendo la pietanza come

adeguata.

Fig.1 Taglio meticoloso degli asparagi.

L’organizzazione di El Bulli prevede una divisione del lavoro molto

definita, ma allo stesso tempo è richiesta analogamente alle altre strutture

68 Per una tipologia dei tipi di spazi narrativi, cfr. Greimas, Courtés, (1979).

ristorative una notevole flessibilità, attraverso aspettative implicite o esplicite

di cooperazione reciproca. Ci si copre a vicenda in caso di difficoltà,

assumendo implicitamente che il favore verrà in futuro ricambiato. Come

sottolinea Fine (1996), in ambienti lavorativi come questi viene assunta una

comunanza di interesse da salvaguardare.

4.2. La manipolazione.

E’ possibile individuare all’interno del nostro ristorante un articolato

sistema di manipolazione, ovvero un insieme strutturato di procedure tendenti

a provocare un fare somatico per mezzo di un fare cognitivo69.

Nell’attribuzione di ogni compito e ruolo a livello organizzativo è possibile

riconoscere a livello astratto “un’azione dell’uomo sull’altro uomo, tendente a

far loro eseguire un dato programma “ (Greimas, Courtés, 1979, p.206 della

trad. it.). Si tratta di un far-fare informato da un’istanza ideologica a monte

che è finalizzato ad un atto pragmatico, sanzionato dal destinante-giudicante.

Ad El Bulli è prevista una suddivisione delle mansioni in correlazione a una

categorizzazione dei piatti, nonché una organizzazione gerarchica a più livelli.

Secondo una catena di deleghe di competenza70, ogni partita ha il suo

responsabile, che fa da mandante a sua volta controllato da un mandante a

livello superiore, il capo chef. I cuochi con maggiore esperienza inoltre sono

investiti secondo la modalità del /dovere/ per trasmettere la loro competenza

nei termini del /saper-fare/ ai cuochi meno esperti.

L’articolazione dei ruoli secondo la dimensione sintagmatica e

paradigmatica viene fatta corrispondere ad un’organizzazione spaziale. Nel

primo senso si ha la divisione principale delle cucine in due grandi aree: quella

delle preparazioni di base, e quella delle preparazioni finali. La prima,

fisicamente isolata dal resto per mezzo di un corridoio, è finalizzata alle

operazioni di lavaggio delle verdure, pulitura del pesce, tagli primari, volti

all’attuazione dei PN d’uso per la realizzazione di prodotti parziali, da

trasformare in attività culinarie successive.

La seconda area, articolata in parti, è comunicante e aperta sulla sala

centrale alla quale hanno libero accesso i clienti, nonché delimitata da vetrate

69 Cfr. la Prefazione di Patrizia Magli e Maria Pia Pozzato alla trad. it. a Greimas (1983, p.XII.)

70 Cfr. considerazioni di Landowski (1989, p. 106 della trad. it) su deleghe e mandati a proposito del sistema della magistratura.

che la rendono trasparente. Queste cucine sono divise in aree-partite: area

pasticceria, area cioccolata e preparazioni che necessitano di aria condizionata;

area cocktail e dessert, area piatti freddi, grande area di cucina e montaggio

dove si realizzano le preparazioni che necessitano i fornelli e le performance

culinarie al momento dell’ordinazione del cliente. Questa zona è quella

principale, la più grande e la più visibile. Se ne può dedurre una valorizzazione

dell’elemento cottura, processo trasformativo che gode di uno status

privilegiato nel mondo culinario71.

Ad un grado gerarchicamente superiore ai capi partita si ha il capo chef, il

quale orchestra il lavoro come un direttore d’orchestra. Riunisce e coordina le

varie partite, controlla ed è responsabile del lavoro degli altri, prepara i

programmi, attribuisce i compiti ad ognuno. E’ il supervisore e colui che solo

è competenzializzato per gridare le comande nel momento della performance

culinaria. Il suo ruolo non è primariamente operativo, ovvero non si occupa se

non in limitati casi della pratica culinaria. La sua non è quindi “un’azione

dell’uomo sulle cose”72 bensì un’attività di manipolazione nel suo senso

propriamente semiotico, ovvero “un’azione dell’uomo su altri uomini,

tendente a far loro eseguire un dato programma”. Mentre lo staff di cuochi si

occupa di un far-essere, iscritto in una dimensione pragmatica, il capo chef (e

come vedremo il suo superiore) si dedica ad un far-fare, situato in una

dimensione cognitiva. La sua è una manipolazione appoggiata su modalità di

potere in cui il destinatario manipolato è modalizzato secondo il dovere,

secondo le logiche lavorative.

A sua volta il capo chef è controllato e sanzionato dal Destinante massimo,

impersonato da Ferran Adrià, al quale deve rendere conto. Egli è il Destinante

in quanto garante del valore culinario, è il creatore (in alcuni casi non

esclusivo) dei piatti, colui che gode della fama ma anche che ne risponde a

quel sanzionatore generale di legittimazione che è l’opinione pubblica.

In lui la componente pragmatica è pressoché assente. La sua performanza

operativa si realizza ad El Taller, nell’ambito della creazione del piatto, ovvero

nella dimensione propriamente artistica della cucina. Il compito della

71 Da notare comunque la peculiare assenza del fuoco: i fornelli non sono a

gas bensì ad elettricità, assicurata da un generatore autonomo proprio. 72 Così viene definita l’operazione, distinguendola dalla manipolazione da Greimas,

Courtés (1979, p.206 della trad. it.).

riproduzione dell’opera viene delegato ad altri cuochi, di accertata

professionalità. Il guru della cucina non è modalizzato secondo il dovere (nel

senso di imposizione esterna) nella sua presenza al locale ad un orario preciso

nel corso dei tempi di preparazione, ed è occupato in attività supplementari

come ad esempio i rapporti con la stampa. Si occupa accanto al capo cucina

(quando non delega completamente quest’ultimo per questo ruolo) della

sanzione finale del piatto, che deve precedere necessariamente l’operazione di

avvicinamento di esso al cliente per mezzo del servizio in tavola. Inoltre,

diversamente dal capo cuoco si può allontanare dal luogo della produzione

culinaria per assistere in prima persona al momento della congiunzione

dell’oggetto con il suo destinatario. In ottemperanza alle forme narrative

canoniche, al termine della performance cerca la sua “glorificazione” e riceve

le celebrazioni dei frutti della sua impresa per opera del cliente, soggetto a sua

volta sanzionatore e competenzializzato per giudicare il successo della prova

culinaria (Greimas, 1983, p.146 della trad. it).

Fig.2 Ferran Adrià valuta la buona riuscita del piatto.

4.3. La sanzione.

Ad El Bulli possiamo identificare diverse istanze di sanzione sia di tipo

pragmatico, ovvero giudizi sul fare, sia di tipo cognitivo, ossia valutazioni

relative all’essere in condizioni si stato. Al secondo senso vanno ricondotti i

numerosi episodi in cui i cuochi sanzionano i prodotti d’uso delle preparazioni

base assaggiandoli, ovvero tramite introiezione. La sanzione finale però per

piatti strutturati non si può basare sul gusto, perché non è possibile alterare la

perfezione formale dal piatto. Si usa la vista73 o l’aspetto tattile per riconoscere

l’effettiva corrispondenza dell’oggetto prodotto con quello desiderato, ossia la

sua avvenuta valorizzazione.

Come già accennato, per il ruolo di giudice sanzionatore ufficiale sono

competenzializzati non i soggetti performanti, ovvero i cuochi ordinari, bensì

solo il capo chef e il guru della cucina, che impersonano il ruolo di destinanti

del valore culinario. Il loro intervento porta a realizzazione in primo luogo una

sanzione cognitiva, in quanto valuta l’oggetto di gusto sovradeterminandolo

grazie a modalità veridittive ed epistemiche74. In questo modo si giudica

l’accettabilità del piatto in rapporto ad un sistema di valutazione di ordine

estetico-gustativo, condizione presupposta per l’attribuzione successiva

dell’oggetto al destinatario. In secondo luogo si effettua una sanzione

pragmatica, in quanto si valuta il buono o cattivo operato dei responsabili

dell’impresa gastronomica. Il giudizio degli chef precede e cerca di anticipare

quello del commensale, il quale è l’unico modalizzato secondo il potere per la

congiunzione totale con l’oggetto di gusto, attraverso l’introiezione.

Quando il piatto viene servito in tavola, il cliente può quindi sanzionare il

valore di quanto atteso, giudicando prima coi sensi più superficiale e quindi

con il gusto, attraverso l’assaggio. La sanzione valuterà la performance del

soggetto dell’azione culinaria, realizzata in conformità al rapporto di scambio

alla base del sistema della ristorazione. Si avrà anche una sanzione di tipo

cognitivo che consiste nel riconoscimento e nella celebrazione dell’eroe

gastronomico. Questa si può manifestare per mezzo dei complimenti fatti al

termine personalmente allo chef, o dei commenti positivi o negativi raccolti

dai responsabili dell’accoglienza nel locale per poi essere registrati nelle

schede cliente di cui si è già parlato.

Diversamente dai ristoranti di livello mediocre, in cui capita che il cliente si

avochi la potestà indiscussa di giudizio del gusto, ad El Bulli e nei ristoranti

gastronomici in genere75 si suppone di poter individuare una motivazione ad

ogni scelta, tecnica o artistica che sia. I criteri prediletti possono essere o meno

condivisi dal commensali ma si presume che associazioni e cotture abbiamo

una base razionale.

73 Ad esempio, il colore spesso dà indicazione sulla cottura avvenuta. 74 Cfr. la nozione di sanzione in Greimas, Courtés (1979). 75 Secondo la definizione di Adrià (1997).

Come scrive Fine (1996), “un obiettivo primario della

‘professionalizzazione’ è assicurare che la fonte primaria di valutazione

occupazionale è interna, piuttosto che esterna, e che i clienti accettino questo”

(ivi, p.195, trad. mia). Ad El Bulli uno può gradire o meno, ma i piatti non

tornano indietro.

4.4. La dimensione temporale.

Una tematica a mio parere interessante da analizzare è quella della cornice

temporale, esperita dai soggetti performatori e dagli osservatori che animano

El Bulli. Come ricorda Fine (1996, p.13), l’attività culinaria è temporalmente

scandita sia nei microritmi della preparazione di singoli piatti sia nei più ampi

ritmi del lavoro giornaliero, e io intendo esplorare le modalità in cui queste

diverse articolazioni si incontrano e avvicendano, producendo l’andamento

complessivo della temporalità interna al ristorante.

Dimensioni dell’organizzazione temporale del lavoro sono: la sequenzialità,

il ritmo, il timing (o sincronizzazione), la durata. Relativamente al primo

punto, ci riferiamo alla prospettiva del tempo discreto, alla dimensione lineare

in cui si può riconoscere una successione di un prima ed un poi. In questo

senso verranno descritte le fasi principali in cui si segmenta la giornata

lavorativa, regolando l’attività culinaria. E’ opportuno considerare inoltre

anche le relazioni del continuo e del discontinuo, convogliate dalla dimensione

aspettuale76. In quest’ambito è particolarmente importante prendere in esame

la componente tensiva, la quale manifesta il carattere di gradualità progressiva

del processo culinario, cagionando in un certo senso la sua dinamizzazione77.

Come sottolinea Paul Valéry (1973) e viene rimarcato da Zilbergerg (2001), la

cognizione del tempo avviene mediante la tensione, non per mezzo del

cambiamento. Da qui ritroviamo il valore della dimensione ritmica,

particolarmente interessante nell’ambiente ristorativo. A differenza delle

occupazioni in cui il ritmo è stabile, ad es. le catene in fabbrica, in cucina così

come tutti i lavori artigianali il lavoro implica controllo temporale così come

autonomia decisionale (Fine, 1996).

76 In questo senso, interpretiamo quindi la manifestazione temporale come un processo che

comporta aspetti incoativi, durativi e terminativi. 77 Cfr. la definizione di tensione di Greimas, Courtés, (1979).

Ad El Bulli il ritmo è scandito in modo irregolare, organizzando l’orario

lavorativo in fasi più tranquille e pacate e in fasi molto frenetiche. Il corso

ritmico è essenzialmente ascendente, partendo dalle ore diurne delle

preparazioni parziali, alle più celeri attività della mise en place, nelle quali

diventa fondamentale la realizzazione dei piatti al tempo giusto, evitando di

fare aspettare il commensale.

4.4.1. La scansione temporale.

L’attività culinaria è segmentabile in due macro-sequenze, nettamente

distinguibili e che si presuppongono a ritroso, all’interno dei quali è possibile

riconoscere momenti ritmicamente accentuati o distensivi iscrivibili in una

dimensione temporale analogica. Possiamo riconoscere una fase della

preparazione e una della performance culinaria, associabili la prima ad un PN

di de-naturalizzazione degli ingredienti di base per la produzione di oggetti

d’uso, la seconda ad un PN di elaborazione e montaggio dei prodotti parziali

per la composizione dell’oggetto finale. La sequenza logica dei programmi

d’azione con il relativo sistema di presupposizioni vanno a costituire il

percorso narrativo78 messo in atto dai cuochi all’interno del ristorante.

4.4.2. Prima macro-sequenza. La fase preparatoria.

Focalizzandoci sul livello discorsivo, possiamo introdurre accanto alla

suddivisione temporale una segmentazione “attoriale” che prenda in

considerazione apparizioni, movimenti e scomparse degli attori in campo ad El

Bulli. Diversi soggetti popolano e spopolano le aree del ristorante in orari

diversi. Alle dodici, le cucine sono abitate dagli addetti alle pulizie, che

rendono il luogo pulito e ordinato ovvero igienicamente qualificato per le

successive operazioni trasformatorie dei cibi. Nel frattempo, arrivano anche i

furgoncini con i prodotti acquistati in giornata al mercato, provenienti dai

fornitori o raccolti manualmente da soggetti delegati nei dintorni della baia di

Roses. Alle quattordici c’è già qualcuno impegnato nelle attività propriamente

culinarie, in particolare nel settore delle preparazioni di base. Nell’area delle

cucine principali le attività sono fondamentalmente di natura cognitiva e

vengono realizzate attraverso la coordinazione del capo cucina.

78 Traggo ispirazione dal saggio di Floch (1990) sui percorsi narrativi e le diverse

tipologie dei viaggiatori della metropolitana.

Sui tavoli delle cucine sono presenti il diario giornaliero e settimanale, le

schede dei commensali e le ricette di tutti i piatti nuovi: polimorfe

manifestazioni discorsive della struttura modale del /saper fare/ colta come

procedura di programmazione (Greimas, 1983).

Fig.3 I capi partita programmano il lavoro giornaliero.

Il diario settimanale è organizzato in base alle partite e indica l’elenco dei

piatti in produzione corrispondentemente al menù degustazione in corso, in

vigore quest’anno per il medesimo arco di tempo. Sono annotati altresì tutte le

opzioni alternative in caso di eventi inaspettati, ovvero di contro-programmi.

A questo diario sono associate le ricette di ogni piatto, fornite dal capo cucina

alla singola partita a cui è delegata la relativa preparazione. Il capo chef si

occupa di mostrare e spiegare l’esecuzione del piatto, portando a realizzazione

in funzione di esempio quelle che sono ancora solo “manifestazioni di

competenza attualizzata” (Greimas,1983, p.154 della trad. it.), ovvero le

prescrizioni scritte.

Nel diario giornaliero compare la lista degli ingredienti da comprare,

nonché le eventuali alternative dettate dagli imprevisti del mercato. Vengono

calcolate e appuntate le quantità di ogni prodotto in modo molto preciso,

grazie alla possibilità di prevedere esattamente cosa mangerà ogni cliente. Al

documento sono associate le schede relative ad ogni singolo tavolo, in cui

vengono annotati i nomi dei commensali, l’elenco dei piatti che

degusteranno79 e l’orario per cui sono attesi.

Sempre all’interno del diario del giorno vengono enumerate tutte le attività

da fare nell’ambito della fase preparatoria, ovvero si ha una manifestazione del

dispositivo strategico relativo ai programmi narrativi d’uso. Per mezzo dei due

diari e dei documenti ad essi collegati viene esplicitata e dettagliata una

programmazione dei compiti, organizzati paradigmaticamente (attraverso la

suddivisione vari piatti inseriti nel PN globale della cena) e sintagmaticamente

(con programmazione temporale), oltre ad una esplicitazione delle deleghe

delle operazioni ai soggetti umani.

Le cucine iniziano ad essere animate verso le quindici, quando sono state

espletate le attività di natura prevalentemente cognitiva, consistenti

nell’acquisizione di una competenza del sapere quali compiti compiere e in

che modo, attraverso la programmazione e l’attribuzione dei ruoli a soggetti

delegati. In quest’orario le operazioni si realizzano con la calma necessaria

(ovvero in distensione) all’esecuzione di procedure che necessitano la

massima concentrazione.

Spesso si ha la collaborazione fra vari cuochi per realizzare un compito

particolarmente difficile, e la dimostrazione della corretta maniera da seguire

da parte dei cuochi più esperti.

Fig.4 Un cuoco istruisce un aiuto cuoco meno esperto sulla tecnica di cottura del cuscus di cavolfiore.

79 Con le eventuali opzioni alternative ai piatti del menù, in base alle preferenze

manifestate, in caso di precedente visita.

Il ritmo da lento acquista un’accelerazione incrementale verso le ore

diciassette, quando ci si proietta nel futuro focalizzandosi sull’ora prescritta

per la conclusione della prima macro-sequenza narrativa, ovvero il momento

associato all’aspettualità terminativa dell’oggetto parziale. Alle diciotto meno

dieci si pulisce e lucida tutto eliminando dalla vista tutti gli strumenti

dell’attività culinaria. Vengono interrotti i divergenti processi in corso anche

se non conclusi e tutti confluiscono alla realizzazione di uno stesso programma

narrativo esterno al PN principale della preparazione della cena per i clienti. Si

impegnano infatti nella trasformazione dei banconi metallici da lavoro a tavole

conviviali, affiancate da sedie di plastica e imbandite con le posate, ovvero

con gli utensili della passività culinaria.

I prodotti gastronomici che andranno a costituire i piatti vengono sigillati e

depositati in frigorifero all’interno di contenitori di plastica (difesi quindi

dall’aggressione esterna). Vengono immessi quindi in quello che altrove

abbiamo definito strumento della discontinuità temporale in quanto

interrompe il naturale processo di corruzione della materia. In questa

sospensione del tempo dell’azione, associata topologicamente allo spazio della

sedia (vs la posizione in piedi che caratterizza le fasi dell’attività), lo staff di

El Bulli si dedica alla medesima occupazione a cui si dedicheranno i clienti del

locale, ovvero a mangiare quanto è stato da altri preparato. La natura della loro

esperienza è però sensibilmente differente: il cibo da sussistenza e la

presentazione incurata, i brevi tempi a disposizione e l’imbandigione spartana

avvicinano questa esperienza molto più alla dimensione nutritiva e di

sostentamento dell’alimentazione che a quella di piacere estetico e gustativo.

Alle diciotto e trenta la pausa ha fine con lo smantellamento di posate e

resti del pasto. Si lucidano i banconi che riacquistano la loro funzione naturale

di base per le mansioni culinarie. Alcuni attori riprendono lo stadio operoso

sebbene con gradualità. Il clima è ancora disteso e ci si dedica a terminare le

attività sospese, in una fase di prolungamento del momento della preparazione.

Alle diciannove ha inizio un momento molto particolare non annunciato:

senza bisogno di alcuna parola lo staff di El Bulli al completo (ovvero cuochi

di ogni grado, camerieri e resto del personale di sala) prima distribuiti e sparsi

per le cucine in quanto impegnati ognuno nelle proprie mansioni, convergono

in semicerchio formando un’unità. I cuochi si dispongono uno accanto all’altro

ai lati della cucina principale, i camerieri e il resto del personale si affiancano

anch’essi presso i muri nel proseguimento del salone. Il capo cuoco si ritaglia

il suo spazio sulla destra, rompendo il semicerchio e assestandosi nell’area di

contiguità fra le cucine e in prossimità al bancone. Mentre gli altri se ne stanno

zitti e immobili, perlopiù a braccia conserte (in una posizione quindi di

chiusura), il capo-chef Albert Raurich con un foglio di appunti in mano inizia

a parlare aprendosi un varco gesticolando nello spazio, descrivendo i piatti in

menù nei minimi dettagli. Poi passa la parola al capo pasticciere che descrive i

dessert. Il primo cuoco riprende il turno d’interazione facendo commenti,

prescrivendo modifiche dei comportamenti abituali, annunciando la presenza

di clienti speciali nella serata e di visite particolari in programma per le

giornate successive. L’enunciatore assume il ruolo di destinante, soggetto

manipolatore (che attribuisce le deleghe) e di sanzionatore dell’operato dei

soggetti manipolati (attraverso commenti e critiche). In questa fase, la struttura

gerarchica è manifesta, come denota il passaggio dei turni di parola. E’ sempre

il capo cucina a cedere la parola a chiunque altro dello staff desideri

intervenire.

Fase dell’attività preparatoria

Fase della riunione

movimento, attività vs immobilità

distanza vs prossimità

divergenza vs convergenza

Fig.5 Il capo chef dà le indicazioni di lavoro allo staff.

4.4.3. Seconda macro-sequenza. La fase del montaggio.

Alle diciannove e un quarto, le attività riprendono a pieno ritmo e il lavoro

muta la sua natura: ha infatti inizio la fase determinante del montaggio dei

piatti, in prossimità all’arrivo dei clienti. Le operazioni da questo momento si

svolgono principalmente nella cucina aperta dotata di fuochi, dove si

concentra la maggioranza dei cuochi. Rimangono operative le aree specifiche

(ad es. l’area dessert e cocktail) con uno o due addetti, mentre le cucine per le

preparazioni di base non sono più attive. Da questo momento in poi il capo

cuoco assume una sua posizione centrale e fissa: non più all’interno delle

cucine, bensì dal bancone comunicante con la sala (ovvero in una posizione di

mediazione fra l’interno delle cucine e l’esterno) annuncia le comande. Per

evitare confusione, lui è il solo competenzializzato per dettare disposizioni

nonché attribuire mansioni culinarie, configurando il sistema attoriale per la

messa di atto dei vari PN in modo da assicurare la coordinazione delle

performance. Assumendo un ruolo fra il direttore d’orchestra e il capo

militare, egli determina dall’esterno i tempi dei programmi culinari, cercando

una loro armonizzazione con i tempi interni necessari all’effettiva

realizzazione delle trasformazioni culinarie. Con le sue direttive e i suoi

ammonimenti, coglie e cerca di determinare i processi nella loro incoatività e

terminatività, andando spesso a sfidare e contrastare la durata impressa dalla

performance del soggetto operatore. L’attività di sincronizzazione è

particolarmente ardua, in particolare perché dipendente non solo da

temporalità interne dell’organizzazione culinarie bensì anche esterne ad essa:

occorre infatti programmare una concomitanza fra quattro diverse temporalità,

inerenti da un lato le fasi di produzione e dall’altro quelle di servizio e

degustazione dei cibi:

– quella del cuoco che sottopone a cottura alcuni prodotti, li sottopone a

manipolazione e monta i componenti nell’assemblaggio finale;

– quella del tempo naturale di trasformazione chimico-fisica, atta a

determinare puntualmente il momento esatto della cottura;

– il tempo impiegato liberamente dai clienti per degustare e consumare le

pietanze, nonché il tempo supposto di aspettativa di attesa per la portata

successiva;

– il tempo di servizio necessario ai camerieri per l’attribuzione del piatto al

destinatario.

Quello dell’incontro fra commensale e oggetto valore è quindi un tempo

intersoggettivo (Landowski, 1999), determinato dalla possibilità di far

congiungere le diverse temporalità degli attori impegnati nel programma

culinario.

Fig.6 Predisposizione delle decorazioni del cuscus.

Alcune disposizioni decorative nei piatti vengono iniziate anteriormente

alle ordinazioni, a causa della loro complessità e grazie al loro minor rapido

deterioramento rispetto ai processi che necessitano una cottura. Spesso più

soggetti collaborano all’allestimento estetico dei piatti, in particolare quando

sono numerosi e implicano perciò azioni iterative. In questo caso generalmente

viene completato un primo piatto che funge da esempio per una

configurazione estetica da riprodurre in seguito ad una preliminare sanzione

del modello.

Fig.7 Allestimento di piatti.

Con i cibi caldi e quelli in cui la temperatura è più determinante costituendo

parte e valore (ad es. la “sopa de guisantes 50o/4o”) è particolarmente difficile

cogliere nel servizio esattamente il processo di cottura nella sua

terminatività80. Agli elementi decorativi meno deperibili (caratterizzati da

duratività sostanziale), vengono aggiunti gli elementi portanti più corruttibili

puntualmente cotti e con salsine o emulsioni si provvede a completare di

impiattare. In questa importante fase cuoco, cameriere e capo cucina sono

compresenti per assicurare attraverso la loro sincronizzata azione una

temporalizzazione che assicuri una rapida congiunzione dell’oggetto post-

trasformazione con il suo destinatario. Il passaggio dell’oggetto deve essere

infatti pronto e puntuale, assicurando una soluzione di non discontinuità81 fra

il momento terminativo della costituzione del piatto e il suo servizio. Fra la

conclusione del processo culinario per opera dallo cuoco e l’intervento del

cameriere con il suo allontanamento dell’oggetto dal suo produttore intercorre

un momento molto importante: la già citata sanzione ad opera del capo chef o

del suo mandante, usualmente espressa per mezzo di un semplice cenno del

capo. Questo giudizio condiziona i programmi successivi, ma la sua

manifestazione costituisce un semplice accento ritmico nel percorso narrativo,

che non prevede rotture bensì un raccordo fluido fra sequenze d’azione.

Secondo la prospettiva di chi opera nell’ambiente della ristorazione slow82,

si pone enfasi sulla negatività della discontinuità, alla quale viene attribuito un

disvalore: ogni secondo che si fa attendere al piatto sminuisce le sue qualità

sensibili. Per evitare di cogliere il prodotto culinario in contro-programma,

causa il prolungarsi naturale dei processi messi in atto dalla manipolazione

umana, occorre quindi un’efficace sincronizzazione dei soggetti performatori

del servizio con quelli operatori in cucina. Solo una forma di coordinamento

flessibile dei ritmi seguiti dai diversi attori (cuochi, camerieri, clienti), in

modo da assicurare un adeguamento fra anticipi e ritardi consente un

avvicendamento armonico di produzione e consumo, presentazione e

80 La terminatività è definita da Greimas, Courtés (1979) “un sema aspettuale che segnala il compimento di un processo”.

81 In riferimento al saggio di Floch sugli utilizzatori metropolitani, potremmo avvicinare il comportamento richiesto all’équipe di El Bulli a quello dei viaggiatori Professionisti, che con maestria affrontano le variazioni di percorso valorizzando la non-discontinuità. Cfr Siete esploratori o sonnambuli?, in Floch (1990).

82 Ovvero in opposizione al mondo della ristorazione rapida di fast-food e mense, ove si incorre in cibi precotti o ci si accontenta di cibi cotti in precedenza e già freddi.

degustazione dei piatti, scongiurando che si inceppino gli ingranaggi della

complessa macchina organizzativa che fa capo ad El Bulli.

Fig.8 Il piatto è pronto per essere servito.

VII.

PROSPETTIVE DI RICERCA.

Nel corso di questa tesi, ci siamo affacciati al mondo della cucina creativa

contemporanea attraverso uno studio, con approccio socio-semiotico, di alcune

sue manifestazioni singolari, ovvero le creazioni, gli strumenti e le filosofie

culinarie di tre chef particolarmente rappresentativi. Piuttosto che soffermarmi

su un unico aspetto dell’arte culinaria, ho preferito esplorare questo mondo

attraverso angolazioni differenti: da un lato nella dimensione trasformativa,

focalizzandomi sugli strumenti e sul processo di costruzione, dall’altra in

quella più statica dei prodotti culinari, pronti per la degustazione. E’ stato

analizzato l’oggetto culinario in tutti i suoi stati, da quello in progress a quello

composito nella sua aspettualità terminativa, per scomporlo (e decostruirlo

come alcuni cuochi) in tutte le sue componenti, al fine di sviscerare le strutture

della sua significazione.

Ora vorrei però riprendere alcune problematiche che sono emerse nel corso

della trattazione, per mettere in luce le costanti e le variabili dell’arte culinaria,

in un approccio comparato che indaghi le particolari strutture assiologiche

suscettibili di articolare, in senso valoriale, in contesti diversi, l’universo di

discorso culinario.

Innanzitutto, occorre focalizzare l’attenzione sulla condizione ibrida e

multidimensionale della cucina, il suo operare al crocevia di plurime categorie

semantiche: fra vita e morte, natura e cultura83, piacere e necessità, corpo e

psiche.

Come intendo approfondire, nel corso della storia dell’alta ristorazione qui

esaminata, i sistemi valoriali abbracciati non hanno avuto una durata

immutabile, delineandosi invece sulla base dell’alternarsi delle specifiche

ideologie culinarie.

83 O fra phiyis e téchne. Per una collocazione della cucina su questa dicotomia nel corso

della storia della filosofia Cfr. Rigotti (1999).

1. I principi e le costanti dell’attività culinaria.

Alcune considerazioni di Fischler (1990, p.59 della trad. it) mettono luce su

quello che è il nucleo semantico stabile dell’attività culinaria, attorno al quale

si iscrivono le varianti storicamente e culturalmente definite.

La cucina ha una virtù fondamentalmente “identificatrice”: una volta “cucinato”, cioè piegato a regole convenzionali, l’alimento è bollato da un sigillo, etichettato, riconosciuto, in breve identificato. Il cibo “grezzo” è portatore di un pericolo, di una barbarie che esclude il compromesso: così segnato, passando dalla Natura alla Cultura, sarà ritenuto meno pericoloso.

L’identificazione e classificazione degli oggetti passibili di subire la

manipolazione culinaria sono esercizi imprescindibili della cucina. La

selezione di un prodotto nocivo o velenoso può infatti fatalmente trasfigurare

quell’attività che è garanzia di vita84 nel suo polo categoriale contrario.

Sebbene spesso venga dimenticato, l’intervento culinario principalmente

mediante la cottura assolve primariamente ad una funzione di trasformazione

di ingredienti non commestibili in partenza in oggetti ingeribili e digeribili.

Interpreta quindi un ruolo fondamentale di mediazione fra la Natura e la

Cultura, di conversione del cattivo da mangiare in buono da mangiare85.

La cucina può, analogamente ad un farmaco, essere da un lato fonte

benefica per il corpo umano, essendo risorsa di nutrimento, dall’altro risultare

pericolosa per l’organismo qualora utilizzi ingredienti nocivi oppure

intervengano scelte culinarie inopportune. Come ricorda Fischler (ivi, p.47

della trad. it.), l’essere umano vive il “paradosso dell’onnivoro”: da un lato,

84 Dando spesso luogo, sulla base di quello che è il lato crudele della cucina, ad

un’operazione sintattica di affermazione della vita a partire dalla morte. Cfr. su questo aspetto Vázquez Montalbán (1990), che sottolinea all’inizio del suo libro: “Il gourmet giammai dimentica il nome del morto. Di più, mentre se lo mangia ne fa espressa menzione […] e ricorda altri assassinati e divoramenti anteriori, perché il piacere di mangiare è normalmente accompagnato dalla memoria dei passati banchetti.” (p.9, trad. mia).

85 Sebbene, come ricordato nell’introduzione, nell’ambito del potenzialmente commestibile sono le culture specifiche a determinare ciò che può diventare o meno cibo buono da mangiare. Come sottolinea Lévi-Strauss (1962b), gli alimenti per essere inseriti nei singoli sistemi culinari devono essere infatti anche “buoni da pensare”.

dipendendo dalla varietà, è indotto a sperimentare il nuovo, dall’altro, come si

è accennato, è naturalmente diffidente verso l’ignoto perché potenzialmente

rischioso

Come si è evidenziato, il cibo non risponde solamente a necessità

fisiologiche, bensì può essere anche manifestamente fonte di piacere, ed è

sulla soddisfazione del desiderio estetico-gustativo che l’alta cucina trova

ragione di esistere. Le preferenze alimentari così come i codici del gusto sono

notevolmente condizionati dal valore simbolico di certi alimenti nella società

di appartenenza, nonché da idiosincrasie individuali condizionate dalle passate

esperienze gustative.

Questa dimensione culturale della cucina non può in ogni caso prescindere

da quella materiale, l’elaborazione culinaria dalle proprietà chimico-

organolettiche dei cibi, l’appagamento psicologico da quello del corpo. Come

sottolinea Parasecoli (2001), su molteplici dimensioni, il cibo e la cucina

poggiano a livello profondo su strutture dicotomiche difficilmente risolvibili.

La natura ambivalente della cucina è stata letta e interpretata in modo alterno

nella storia dell’haute cuisine, vivendola spesso come una sfida, volta a

ricusare uno del suoi poli categoriali o a proporre una loro riconciliazione.

2. La variabilità storica delle dicotomie culinarie. 2.1. La sublimazione artistica e l’approccio alla dimensione

corruttibile dei cibi.

Una problematica rilevante emerge agli esordi della grande cuisine, con la

figura di Carême e l’istituzione di quello che è stato definito il primo

paradigma culinario. Come è stato approfondito nella parte storica, l’arte

culinaria è concepita da questo chef-pasticciere quale una trasfigurazione della

natura bruta in opere monumentali di valore primariamente scenografico e

decorativo. Degli ingredienti impiegati, risulta secondario il rispetto delle

proprietà gustative nell’intervento umano, e spesso nemmeno il principio di

commestibilità deve essere soddisfatto. Si valutano invece le qualità estetiche

e la loro adattabilità ad essere inserite nelle costruzioni architettoniche

culinarie innalzate dallo chef.

Si potrebbe interpretare il paradigma culinario di Carême quale opera di

sublimazione dell’atto alimentare in arte, e con essa di superamento della

natura corruttibile del cibo e del consumo, per mezzo dell’iscrizione dei suoi

prodotti nella durata. Nei bassorilievi di pastigliaccio o nelle innumerevoli

tipologie di pièce montées, lo status naturae degli ingredienti viene camuffato

sotto rivestimenti ed orpelli, disconoscendo il valore d’uso dell’esperienza

degustativa, a favore del consumo contemplativo di un allestimento

scenografico che evoca un ordine figurativo della stabilità. La dimensione di

scadimento del prodotto culinario sottoposto alla manipolazione è trascurata, o

addirittura dissimulata mediante la costruzione con esso di opere

monumentali, portatrici di un valore simbolico di eternità.

Nello stesso modello di servizio in uso all’epoca di Carême, la condizione

effimera delle proprietà degli oggetti culinari è elemento irrilevante.

Nell’ambiente ristorativo, l’adozione del servizio alla francese se non implica

necessariamente la condivisione di un’assiologia di valori coincidente con

quella di Carême, non si discosta palesemente da essa. Questo sistema prevede

infatti il rispetto di un rigido codice di allestimento spaziale delle vivande,

sorvolando sul problema della prontezza di servizio, ovvero del suo

dispiegamento ottimale in una dimensione temporale. I commensali sono

costretti frequentemente ad una lunga attesa per ricevere i piatti desiderati,

serviti spesso già freddi, andando a scapito della loro palatività, come se

invece la rigorosa disposizione scenografica fosse garanzia di una loro eterna

bontà.

E’ con l’entrata in uso del servizio alla russa che la struttura valoriale

profonda sembra assestarsi diversamente. Il dispiegamento sintagmatico delle

portate e la distribuzione ai commensali delle vivande appena pronte

presuppongono infatti un riconoscimento del loro valore transitorio, ossia della

loro intrinseca corruttibilità.

Con i cambiamenti organizzativi introdotti da Escoffier e con i

miglioramenti introdotti negli ultimi tempi, sia nell’ambito del servizio che in

quello della preparazione culinaria, si prende gradatamente atto (fino a una sua

valorizzazione) della variazione qualitativa delle pietanze nel tempo. Come

sottolineato nella sezione dedicata all’organizzazione di El Bulli, e come ora

intendo approfondire, si enfatizza nel contesto ristorativo moderno la

componente tensiva dell’attività culinaria.

La prospettiva attraverso la quale il processo e i prodotti culinari sono

investiti di valore è manifestamente diversa nell’età di Carême e nella cucina

più recente, soprattutto a partire dagli anni della nouvelle cuisine. Nella cucina

scenografica di Carême, l’elaborazione culinaria è concepita quale

commutazione di uno status iniziale in uno finale marcatamente diverso, in cui

è iscritta una condizione di permanenza, propria delle arti plastiche. Le opere

culinarie vengono osservate e valutate nella loro aspettualizzazione

terminativa, quale momento di contemplazione estetica nell’occasione

conviviale.

L’approccio culinario osservato ad El Bulli e negli altri ristoranti oggetto di

studio è piuttosto differente: l’intervento sul prodotto iniziale non è

trasfigurazione ma incontro attivo con il naturale corso delle cose,

indirizzabile e informabile in base all’ispirazione creativa dello chef. L’arte

culinaria in questo senso deve adeguarsi ad operare nel contesto di un

continuum temporale, al quale vanno iscritti per condizione naturale gli

alimenti. I processi di cottura, così come quelli di conservazione, possono sì

alterare o interrompere il corso degli eventi producendo una forma di

discontinuità temporale, ma il loro effetto non può essere definitivo: l’incontro

dello chef con la pietanza e del piatto con il commensale deve necessariamente

affrontare la condizione del divenire. Le cotture devono essere quindi esatte, la

loro realizzazione sincronizzata, il servizio rigorosamente tempestivo. Emerge

qui la già citata dimensione tensiva dell’attività culinaria: l’intervento del

cuoco deve infatti incidere sul continuum, producendo quindi quella che

Greimas (1976) definisce una contrazione del sema durativo con un sema

puntuale. Il servizio inoltre, secondo una modalità già definita della non-

discontinuità, assicura l’incontro fra i ritmi di lavoro degli attanti responsabili

della performanza culinaria, la corruzione temporale dell’oggetto culinario e i

tempi di degustazione del destinatario. Dall’incontro di queste diverse

temporalità, si determina un tempo intersoggettivo (Landowski, 1999) e

interoggettivo, che nella prospettiva più ampia dell’attività culinaria definisce

secondo un’aspettualizzazione puntuale il valore dell’esperienza

gastronomica. Come conseguenza del riconoscimento della natura effimera del

prodotto estetico e gustativo, si sottolinea l’importanza di non far aspettare

l’oggetto culinario, nel quale è inscritta una dimensione di vitalità86,

collocandosi in un sistema di valori contrapposto a quello che le opere

mummificate di Carême dimostrano di abbracciare. Dimostrando una

premurosa cura sia nei confronti del cliente che dell’oggetto gastronomico, c’è

l’impegno ad assicurare il valore di caldo o comunque della temperatura

ottimale prevista dalla preparazione. In piatti come la citata “sopa de

guisantes” di Adrià, i gradi a cui dev’essere servita sono perfino indicati nel

menù, e in tutti i ristoranti da me visitati sono utilizzati specifici termometri

per sanzionare la cottura avvenuta, nonché strumenti come la campana

d’argento sono a volte utilizzati per ritardare il raffreddamento del piatto.

In relazione al soggetto destinatario del piatto, si mostra inoltre

un’attenzione particolare per far sì che esso non venga costretto all’attesa

spesso frustrante caratteristica del servizio della francese. In questo sistema, la

dimensione dell’attesa non viene comunque cancellata, bensì dislocata ad altre

dimensioni dell’esperienza gastronomica, che non gravano sulla qualità del

prodotto culinario né sul godimento della degustazione.

In primo luogo, l’attesa viene spostata al di fuori dell’evento in cui si

realizza la performanza culinaria. Ricordiamo ad esempio che per ottenere un

tavolo ad El Bulli può essere necessario prenotare con un anno di anticipo,

nonché, come si è visto, per arrivarvi è necessario percorrere delle strade

impervie: analogamente ad una prova di qualificazione, viene richiesta una

pazienza ed una tenacia notevole. Come nel sistema della moda inoltre, ogni

anno gli appassionati fremono aspettando la presentazione della nuova

collezione di piatti dello chef.

Nel corso dell’esperienza di degustazione, permane poi l’elemento

dell’attesa euforica del piatto successivo nel dispiegamento sintagmatico del

lungo ma rapido menù degustazione. In quest’accezione, l’attesa viene

presumibilmente vissuta positivamente dal destinatario, in quanto l’estensione

temporale permette di intensificare ed approfondire l’esperienza estetica,

garantendo quella che Greimas definisce la “coalescenza delle sensazioni”

(Greimas, 1987, p.54 della trad. it.). Il sincretismo sensoriale attivato da ogni

86 Sulla dicotomia /vita/ vs /morte/ in rapporto alla manipolazione culinaria Miguel

Sánchez Romera ha un punto di vista interessante. Secondo la sua teoria, l’intervento sugli ingredienti deve avvenire secondo due modalità: i prodotti morti vanno fatti rivivere (ad esempio, il piccione va cotto al sangue per essere riportati in vita), quelli che arrivano vivi in cucina (come gli scampi) vanno uccisi nel modo giusto.

piatto si intreccia con la successione temporale dei vari sensi coinvolti nella

degustazione, nonché si ripete con il susseguirsi dei piatti. Può essere

interessante notare che alcuni chef hanno escogitato un nuovo metodo

aggiuntivo inteso a moltiplicare lo stesso effetto: ad esempio, negli “otto

cucchiai d’antipasto” ideati da Moreno Cedroni, la pietanza è composta da otto

parti fisicamente distinguibili che vanno assaggiate secondo un ordine preciso,

sulla base di una progressiva intensificazione del sapore. Questo modello di

piatto, da un lato concentra nel piatto individuale la dimensione processuale

del più ampio svolgersi del menù, dall’altro, nella prospettiva del pasto

completo, andando a definire un livello di microstruttura magnifica la

componente tensiva dell’esperienza di degustazione.

2.2. L’approccio alla stagionalità.

Al diverso approccio degli chef nei confronti della dimensione naturale ed

intrinsecamente corruttibile di alimenti e processi culinari, possiamo

ricondurre anche il mutare nella storia dell’attitudine verso gli ingredienti. Nel

processo di selezione dei prodotti, è una novità dell’ultimo trentennio la

valorizzazione all’interno dell’alta ristorazione del prodotto rigorosamente

/stagionale/.

Come sottolinea Montanari (1993), occorre sfatare il radicato mito

dell’immaginario contemporaneo secondo il quale si ha nei tempi andati un

rapporto armonico tra uomo e natura. Sebbene per necessità il primo debba

sottostare quasi sempre ai ritmi, ciò non è vissuto in un atteggiamento di

accettazione compiacente. Soprattutto negli ambienti poveri, si desidera

primariamente conservare, ovvero “sconfiggere le stagioni”, in modo da

“sottrarsi dall’incertezza e all’imprevedibilità della natura” (Montanari, 1993,

p.201). I ricchi hanno l’opportunità di fornirsi di cibi freschi e deperibili, ma

non per questo non desiderano superare la stagionalità e con essa la

dipendenza della natura. Le tecniche di conservazione sono anche da loro

utilizzate, solo che si fanno più costose.

A differenza dell’atteggiamento che domina nell’alta ristorazione attuale,

agli esordi c’è nell’attività culinaria meno deferenza verso le qualità

organolettiche dei prodotti: questi vengono manipolati e trasfigurati nella

costruzione di allestimenti scenografici, nonché, nella dimensione meno

decorativa, sono seppelliti sotto salse coprenti e sottoposti a lunghe e sfibranti

cotture. Queste diverse modalità di intervento culinario hanno anche degli

obiettivi funzionali: permettono di conservare meglio i cibi con le molteplici

cotture, di mascherare l’eventuale stato non perfettamente fresco con le ricche

salse, di trasformare ed elevare la natura “impura” trasformandola

nell’apparire in opera d’arte.

- +

Natura limitativa

stagionalità e territorio = vincoli

Cultura come arte trasfigurante

la natura

cucina che supera i limiti naturali

Abbastanza presto quest’approccio inizia a venire messo in questione,

prefigurando l’adozione di una nuovo sistema di valori gastronomici. Già con

Escoffier ad esempio, si sottolinea l’importanza di esaltare nella

manipolazione culinaria la qualità degli ingredienti, non uniformandoli con le

classiche salse onnipresenti mediante le quali “tutte le note della gamma dei

gusti vanno a confondersi in un’unica, insipida tonalità” (Escoffier, 1907, p.4

della trad. it). Nella cucina di Escoffier, la preparazione di ricche e complesse

salse è in ogni caso considerata la base della gourmandise.

Come ricorda Parasecoli (2001), è con il movimento della nouvelle cuisine

che i principi che ad inizio secolo sono solo abbozzati si impongono

definitivamente, contribuendo a diffondere una nuova assiologia di valori. Si

enfatizza così l’importanza di lavorare con ingredienti freschi e legati alla

stagionalità, da cucinare per tempi brevi in modo da preservare le proprietà

nutrizionali. Il contesto storico è un altro, è cambiato l’approccio dell’uomo

nei confronti della natura, perché diverse sono le problematiche da affrontare,

differenti i valori contro cui opporsi.

I prodotti superano senza difficoltà i confini territoriali e le stagioni, grazie

all’allargamento della diffusione dei sistemi meccanizzati di conservazione e

distribuzione alimentare. Come ricorda Montanari (1993, p.205), “i cibi

precotti industriali sono un perfezionamento delle tecniche collaudate da

millenni delle ‘cotture plurime’”. E’ al modello imperante dei prodotti in

scatola dal gusto omogeneizzante che il mondo della gastronomia si oppone,

unificando su questo tema le due antagoniste correnti in cui si divide, quella

che porta avanti una cucina innovativa e quella legata alla cucina tradizionale.

L’alta ristorazione pone enfasi all’importanza della selezione degli ingredienti,

che possono essere anche culturalmente (o simbolicamente) “umili” ma che

devono essere all’apice della loro qualità sulla base delle variabili condizioni

ambientali. I prodotti portati in auge, ovvero i vegetali e il pesce, devono

essere nel primo caso rigorosamente stagionali, nel secondo assolutamente

fresco e preferibilmente non di allevamento. La ricerca di ingredienti che

superino queste condizioni non è assolutamente facile: il prodotto fresco,

biologico e artigianale è infatti ai nostri tempi generalmente più raro e costoso

dell’equivalente surgelato e industriale. All’interno di un contesto dove la

possibilità di farne a meno è generalizzata, la dipendenza dalla natura è segno

di distinzione.

- +

Cultura industriale

prodotti atemporali, conservati

Natura ritrovata

prodotti stagionali, freschi

Nel mondo contemporaneo, l’approccio al cibo conservato e viceversa a

quello fresco cambia anche in relazione alla categoria semantica /vita/ vs

/morte/ o meno drasticamente a quella /sicuro/ vs /pericoloso/. Sulla base dei

suoi studi etnografici, Lévi Strauss riporta l’obbligo imposto in alcune società

indigene a individui considerati impuri87 di consumare esclusivamente cibi

conservati, quale forma di protezione della “purezza dell’ essere e delle cose

dall’impurità del soggetto” (Lévi Strauss, 1968, p.453 della trad. it.).

L’utilizzo di alimenti conservati è del resto largamente considerato strumento

di difesa dal /crudo/ e dalla corruzione delle cose nello stato /putrido/, ovvero

di tutela per la /vita/. Secondo l’antropologo, le stesse massaie americane sue

contemporanee preferiscono nutrire i loro figli con cibi in scatola non solo per

comodità ma anche perché li ritengono più /sicuri/. Nella società di oggi la

situazione è decisamente mutata. Il prodotto industriale è diventato un

“Oggetto Commestibile Non Identificato” (Fischler, 1990, p.168 della trad.

it.), di cui non si conosce l’origine e l’identità, ovvero un elemento

potenzialmente pericoloso, perché non permette di soddisfare la funzione di

identificazione alla base dell’atto alimentare. Il prodotto stagionale e

riconosciuto come “fresco” e “garantito” dall’occhio clinico dello chef o dal

87 Ragazze puberi.

fornitore di fiducia, oppure etichettato dal “sigillo del pubblico potere”88 (ivi,

p.170 della trad. it.), è perciò in questi tempi molto più sicuro.

2.3. L’enigma del pesce crudo.

Anche a proposito del trattamento di cottura a cui questi ingredienti sono

sottoposti è possibile fare alcune brevi riflessioni. Nel sistema culinario

elaborato dalla nouvelle cuisine e dai suoi sviluppi, nell’ambito della corrente

creativa della cucina, si prediligono per i prodotti ittici e i vegetali le cotture

brevi, violando nel primo caso il consolidato tabù del pesce crudo. Come

manifesta il successo dei susci di Moreno Cedroni e la moda dilagante dei

sushi, lo stile di tradizione giapponese di degustare il pesce non sottoposto a

cottura e accompagnato da bocconcini di riso sta entrando in uso anche da noi.

La valorizzazione di un prodotto /crudo/ o /poco cotto/ può sembrare

controversa prendendo in considerazione le teorie antropologiche elaborate da

Lévi-Strauss a proposito della dicotomia di /crudo/ e /cotto/, e le correlazioni

tracciate tra essa e le coppie /morte/ vs /vita/, /natura/ vs /cultura/. A mio

parere, è possibile invece ritrovare una spiegazione razionale al fenomeno.

Innanzitutto, occorre sottolineare che sia il sushi giapponese che la

controparte italianizzata89 non vanno intesi tracciando una corrispondenza fra

/crudo/ e /non elaborato/: il pesce viene infatti sottoposto a rigorose operazioni

di selezione, lavaggio, pulitura (deliscamento e sfilettamento) e taglio

finissimo. Nel caso del susci di Cedroni, le strisce sottili di pesce ottenute

vengono inoltre a seconda dei casi accompagnati da una vinaigrette, lasciati in

infusione in olii aromatizzati a freddo o a caldo, fatti marinare in olio e aceto,

sottoposti a salatura e affumicatura artigianale: si dovrebbe parlare quindi più

di un /quasi-crudo/ che di un /crudo/ assoluto. Ne risulta quindi un prodotto

decisamente “culturale”, piuttosto distante dal valore semantico di una

naturalità spontanea e intatta.

Relativamente all’asse /vita/ vs /morte/, il pesce crudo potrebbe

potenzialmente avvicinarsi al secondo polo in quanto se non assolutamente

88 Fischler (ivi) fa l’esempio del cibo decretato come kasher dalle autorità religiose, ma io

aggiungerei la dimensione più laica di sigle come DOC e DOGP, finalizzate a garantire sull’identità del prodotto e delle sue origini.

89 Come ricorda Paolo Marchi (Cedroni, 2001, p.3), il primo chef a proporre in Italia il sushi in chiave mediterranea mediterranea è Gualtiero Marchesi, all’inizio degli anni Novanta.

fresco si può annidare effettivamente su di esso un parassita90 molto

pericoloso. I maestri giapponesi del sushi studiano però molti anni per

padroneggiare una buona tecnica ed imparare a riconoscere il pesce

freschissimo, richiesto da questa complessa preparazione. Moreno Cedroni

inoltre, in ottemperanza alla legislazione europea in materia, provvede ad

ovviare al rischio del parassita abbattendo di temperatura fino a –20º C al

cuore, i pesci e i cefalopodi da lui utilizzati (Cedroni, 2001). Questo insieme di

precauzioni permette di allontanare da questo alimento /crudo/ o /quasi-crudo/

il valore semantico di /morte/ (o pericolo) da Lévi-Strauss (1968) associata

alla maggioranza dei prodotti alimentari non sottoposti a cottura.

Questo cibo /non-cotto/ può essere anzi interpretato nel contesto

contemporaneo quale oggetto molto più culturale di altri oggetti /cotti/:

richiede infatti maggiore attenzione delle fasi di selezione, lavaggio e pulitura,

nonché abilità tecnica e rigore nelle diverse fasi di realizzazione. Si potrebbe

anzi sostenere che parte del fascino del sushi sta nelle operazioni culinarie in

esse inscritte e di cui conserva traccia.

2.4 . Dieta e gastronomia.

All’intreccio fra la dimensione del piacere e quella della necessità, fra la

funzione nutrizionale e quella simbolica, dobbiamo ricondurre il rapporto

controverso fra dieta e gastronomia. Nel corso della storia diverso è

l’approccio verso queste due dimensioni, interpretate di volta in volta come

aspetti antagonistici e distanti oppure come assimilabili o quantomeno

compatibili.

I legami profondi che correlano (e allo stesso tempo oppongono) cucina e

dietetica sono facilmente individuabili: “entrambe contribuiscono a strutturare

i nostri usi e i nostri comportamenti alimentari. Ma gestiscono anche, insieme

o in modo antagonistico, il nostro rapporto con il cibo, il nostro modo di

pensare e, in certo qual modo, il mondo” (Fischler, 1990, p.178 della trad. it.).

Tutte e due condividono inoltre una dimensione normativa e una di

codificazione: così come i dettami dietetici del medico, i diversi sistemi

alimentari e le ideologie culinarie adottate stabiliscono e registrano quello che

si dovrebbe mangiare. L’utilizzo in molti idiomi del termine “ricetta” sia per

90 L’anisakis simplex, nematode intestinale dell’ordine degli ascaridi, presente in numerosi pesci di mare e resistente all’acidità. Ivi.

il contesto medico che per quello culinario rende ragione a questo proposito di

“una sorta di simmetria” originaria fra il ruolo del medico e quello del cuoco:

entrambi procedono per prescrizioni (ivi, p.183 della trad. it.).

La dimensione di antagonismo fra i due concetti è parimenti manifesta: la

cucina è associata per natura alla sfera del piacere, dissociata nel modo di

vedere contemporaneo alla sfera della salute, in base alla diffusa credenza in

un’incompatibilità radicale fra il buono e il sano. Il dominio delle pulsioni e

dei desideri a cui la gola apre, pare inoltre naturalmente restio a soggiacere ad

un regime di imposizioni e restrizioni.

Come ricorda Fischler, non sempre nella storia è concepito in senso

antagonistico il rapporto fra ciò che è appetitoso e ciò che è salutare.

Nell’antichità e fino al Seicento, l’alimentazione è considerata quale strumento

per preservare l’equilibrio del corpo, e della dimensione del piacere nei libri di

cucina91 c’è pudore a parlare, per motivi essenzialmente religiosi. “E’ come se

il discorso sull’alimento ancora non operasse una netta distinzione fra le nostre

categorie del dietetico e del culinario, come se il confine dovesse disegnarsi

molto più tardi” (ivi, p.182 della trad. it.).

cucina = dietetica

(norme culinarie) = (norme salutistiche)

E’ con l’avvento della grande cuisine che ha luogo il primo divorzio

annunciato fra dietetica e gastronomia. La codificazione, da parte di

professionisti della cucina, di un quanto mai articolato corpo di regole

culinarie crea infatti una sorta di conflitto di competenza fra cuoco e medico in

relazione alle materie alimentari. A partire da questo periodo, gli chef tendono

a imporre le proprie e indipendenti norme del buon gusto, contribuendo a

costruire le fondamenta di un’arte culinaria in cui le considerazioni salutistiche

sono lasciate al di fuori. Prima all’interno delle case nobiliari, poi, come si è

visto, nella sfera meno privatistica dei ristoranti, viene proclamata la “libertà

del ventre” (Aron, 1973, p.18 della trad. it.). In questa cucina dove si

rivaleggia per sfarzo e magnificenza, le portate sono sontuose e copiose, le

salse ricche e a profusione. Anche nei locali meno lussuosi, le abbondanti

91 Le ricette in essi raccolte non hanno una giustificazione d’ordine gustativo, bensì

dietetico, nel senso degli effetti che alimenti e tecniche di cottura sono supposti produrre sul corpo relativamente a temperamenti ed umori.

porzioni e il largo uso di condimenti sono espressione della nuova moda della

ghiottoneria.

arte culinaria vs dietetica

competenza del cuoco vs competenza del medico

E’ nel ventesimo secolo che il problema del dissidio fra gastronomia e

salute viene non solo messo in luce ma funge per la prima volta da movente

per l’istituzione di uno stile culinario diverso, che non gravi sull’ago della

bilancia.

Nel nostro paese, come si è visto, la critica all’opulenza gastronomica è

portata avanti nell’ambito del movimento futurista da Marinetti e Fillìa, i quali

con i loro proclami estremistici declamano la necessità di sublimare l’attività

culinaria in arte, disancorandola completamente dalla funzione nutritiva.

Secondo il loro manifesto, ci si può alimentare con le pillole di stato, e

trasformare l’arte culinaria in eventi di pura sollecitazione multisensoriale,

dove spesso i piatti non si assaggiano nemmeno. Come risulta evidente, la

guerra combattuta dai futuristi contro la cucina “passatista” e i suoi simboli

(come la pastasciutta) viene combattuta all’esterno del campo gastronomico,

poiché va a snaturare con la sua ideologia quello che è il nucleo base dell’arte

culinaria, ovvero il suo dialogo fra una dimensione culturale e una materiale,

fra una spirituale e una corporea92. Una cucina dove non si mangia per nulla

non può essere definita tale.

cucina futurista vs “cucina passatista”

corpo futurista – dinamico93 corpo pesante

E’ solo alla fine degli anni Sessanta, con il movimento della nouvelle

cuisine, che il problema del rapporto fra dieta e gastronomia viene risolto

all’interno del mondo culinario. Prendendo atto degli studi recentemente

conseguiti in ambito nutrizionale, nonché adeguandosi alle mutate esigenze

alimentari nella più sedentaria vita moderna, gli esponenti di questa corrente

92 E’ opportuno ricordare che le ricette proposte dai cuochi futuristi non soddisfano

neppure il corpo dal punto di vista di una sollecitazione sensoriale anche effimera del gusto: come si è visto nella parte storica, i piatti non rispettano il principio dell’armonia dei sapori. Anche per questi motivi, quindi, non si può dire che l’esperienza dei futuristi abbia operato in ambito gastronomico.

93 La cucina futurista è una sorta di dieta agli estremi, che non grava per nulla sul corpo.

alleggeriscono la cucina introducendo l’uso di alimenti ipocalorici e snellendo

salse e condimenti. Affiancando a quest’intervento d’ordine qualitativo quello

quantitativo di riduzione (e frequentemente miniaturizzazione) delle porzioni,

si decreta con questo movimento la fine del dissidio fra dieta e cucina. Il basso

apporto calorico dei piatti e dei menù della nouvelle cuisine riesce a coniugare

il piacere della tavola con il dominante modello corporeo della magrezza,

aprendo la strada ad un processo di decolpevolizzazione della gola.

Negli ultimi anni i rapporti fra il mondo culinario e la dimensione

salutistica sono di aperto dialogo, senza che comunque i valori della prima

vengano subordinati alla dimensione prescrittiva della seconda. L’arte

culinaria è lontana dai rigori dietetici estremi, radicandosi in un contesto dove

diversamente dagli anni Settanta pare dominare un modello dell’“essere in

forma” (Grandi, 1995, p.70) più che della magrezza. Il richiamo della gola

pare inoltre più che in passato essere giustificato. Non si verificano quasi mai

gli eccessi di quei ristoranti che, capita male la lezione, contribuiscono a gettar

discredito sulla nouvelle cuisine proponendo piatti dalle porzioni

microscopiche. Tutt’al più, si controbilanciano le quantità ridotte del piatto

singolo con la copiosità delle portate previste dai menù degustazione.

Da un altro punto di vista, però, l’armonizzazione fra la gastronomia e i

valori salutistici è molto maggiore attualmente che nei decenni passati. Grazie

anche al contributo degli strumenti tecnologici oggi disponibili, la cucina si è

notevolmente sgrassata e alleggerita. Nel mondo della cucina creativa, è

largamente sentita la necessità di ricercare sempre nuove soluzioni che

permettano di conciliare il dominio del gusto con la dimensione del sano.

Sono esempio di questa esigenza la maggioranza degli oggetti esaminati in

questa trattazione. Il nuovo uso attribuito al sifone da Adrià permette di

realizzare aeree spume, molto più leggere delle tradizionali mousse. Il micrì di

Sánchez Romera risolve il problema della testura non apportando nessun

contributo calorico agli ingredienti a cui si combina. I due piatti di cuscus sono

inoltre ipocalorici a differenza della pietanza nazionale maghrebina a cui si

possono richiamare. I susci di Cedroni rimandano poi all’influenza di una

cucina leggera come quella nipponica sulla nostra. Tutti questi esempi sono

prova delle opportunità che una ricerca tecnico-culinaria può aprire al

raggiungimento di risultati gastronomici in cui il valore gustativo del piatto

non è assolutamente diminuito, bensì in certi casi reso più intenso rispetto ad

alternative soluzioni ipercaloriche.

2.5. Tra Neofobia e Neofilia.

Un altro tema interessante da discutere è quello del rapporto ambiguo

dell’uomo con la novità e viceversa con la tradizione culinaria. Come

accennato, l’essere umano vive per propria natura il paradosso dell’onnivoro,

il quale consiste “nel conflitto, nell’oscillazione fra due poli, quello della

neofobia (prudenza, paura dell’ignoto, resistenza all’innovazione) e quello

della neofilia (tendenza all’esplorazione, bisogno del cambiamento, della

novità, della varietà)” (Fischler, 1990, p.47 della trad. it.).

Da sempre la cucina è convissuta con questa duplice identità, ovvero fra il

vecchio e il nuovo, il conosciuto e lo sconosciuto. Anzi, si potrebbe sostenere

che essa permette di conciliare e attenuare il conflitto tra questi caratteri

contraddittori. Un’osservazione di Fischler (ivi, p.59 della trad. it.) a questo

proposito è particolarmente significativa:

Cucinare, condire un alimento, equivale da un lato ad adattare la novità o l’ignoto, letteralmente, ‘alla salsa’ o ‘alla maniera’ della tradizione. Ma vuol dire anche, dall’altro lato e al tempo stesso, introdurre qualcosa di familiare nell’inedito, un po’ di varietà nel monotono”.

Nella storia della cucina, il gioco si è svolto a grandi linee secondo questi

termini. E’ grazie all’introduzione di novità anche piccole, talvolta originate

dalla necessità di rimediare ad una mancanza, a volte dall’incontro con

l’ingrediente o con tecniche provenienti da lontano, a volte perfino da un

provvidenziale errore, che l’arte culinaria ha potuto svilupparsi ed arricchirsi.

A lungo però, nella storia dell’haute cuisine, in particolare dall’età di

Escoffier fino agli ultimi quarant’anni, l’introduzione dell’innovazione in

cucina viene decisamente ostacolata, concependo il ruolo di cuoco come

interprete del blocco codificato di regole e ricette dell’Età d’Oro dell’arte

culinaria. Come descritto, è il movimento della nouvelle cuisine ad attribuire

allo chef il compito di sperimentare il nuovo in cucina, liberandolo dai vincoli

della tradizione consolidata.

Assieme al ruolo dello chef, cambia anche il concept dell’esercizio

ristorativo che si poggia sulla nuova ideologia culinaria. Il ristorante non è più

il luogo dove degustare i piatti codificati come classici dell’alta cucina

internazionale, ovvero oggetti privi di precise coordinate spazio-temporali,

etichettabili anche come acontestuali94 e transcontestuali (Semprini, 2001,

p.53). Al ristorante che propone la cucina creativa, ci si reca per assaggiare

pietanze che non è possibile trovare altrove, ovvero oggetti dove le istanze di

enunciazione e di fruizione sono entrambe contestualizzabili localmente e

irriproducibili al di fuori.

Chi ricerca il familiare, o il piacere che può derivare dalla rievocazione di

passate esperienze proprie o altrui, così come registrate nella memoria

consapevole personale o nell’immaginario collettivo, è preferibile che si

rivolga agli esercizi che propongono la cucina classica internazionale o le

cucine tradizionali regionali. Nei locali che portano avanti una ricerca della

creatività, si allontana la paura dell’ignoto, valorizzando la curiosità verso il

nuovo. Questi sono luoghi dove la neofilia è istituzionalizzata, ossia dove il

cliente ci va per soddisfare il proprio desiderio dell’inedito o dell’inaspettato,

emergenti in primo luogo dall’oggetto culinario o dalle circostanze di

fruizione.

Come si è detto, il piatto d’autore non è destinato ad un consumatore

distratto o “sonnambulo”, per adottare il termine di Floch (1997), bensì ad un

soggetto che fruisca dell’oggetto culinario e dell’ambiente circostante ponendo

gli organi sensoriali all’ascolto delle azioni di gusto delle sue molteplici

componenti, delle loro qualità olfattive e tattile, delle sonorità e della

dimensione visiva del piatto e del contesto ristorativo. Il degustatore modello

del piatto d’autore vive con esso un’esperienza estetico-sensoriale che emerge

quale introduzione di una discontinuità dal quotidiano, e di differenziato dal

già esperito.

Può essere interessante notare che visitando alcuni dei ristoranti creativi

portati alla celebrità, il cliente non acquista semplicemente uno o più piatti in

essi proposti, bensì ricerca e stabilisce un contatto anche con la filosofia del

suo autore. La frequentazione di questa categoria di istituzioni all’avanguardia

nell’arte culinaria è interpretabile nei termini di appartenenza ad una

comunità95 di gusto peculiare, individuabile dall’apertura all’imprevisto in

94 O meglio, privi di una specificità contestuale, nell’ambito del contesto ampio di

ristorante di alta cucina. 95 In certi casi, la comunità acquista anche un’identità pubblica. Si può rilevare ad esempio

la costituzione di alcuni fan club dedicati a Ferran Adrià, organizzati nella forma di comunità virtuali e spontaneamente sorti in differenti nazioni.

cucina. La relazione che in questo senso si attiva fra il cliente e l’esercizio

ristorativo può essere ricondotta a quella che Landowski (1989, p.143 della

trad. it) definisce una “logica del contratto”. Questa tipologia di avventore, che

prende spesso la forma di habitué del locale, concede al ristoratore un’alta

fiducia nelle sue performance, mostrando con la frequentazione un’adesione

ad un medesimo sistema di valori estetico-gustativi.

Andando oltre, si può sostenere che il cliente che va alla ricerca di una

cucina d’avanguardia si aspetti con la sua visita di vedere il nuovo all’opera, di

avere prova concreta e “commestibile” della creatività. Questo fenomeno è

assai peculiare, considerata la natura della materia in cui l’ingegno inventivo

trova manifestazione. Ci si attende quindi che un oggetto consueto come

quello alimentare, ed un’attività onnipresente nella vita quotidiana come

quella culinaria, vengano sublimati in un’esperienza estetico-gustativa che

emerga dalla monotonia dell’ordinario e acquisti un carattere di eccezionalità.

Sulla base della concezione greimasiana (Greimas, 1987), perché la frattura

della dimensione della quotidianità possa aver luogo, è però necessario che

nell’incontro del soggetto con l’oggetto si superino tutte le aspettative, così

che il momento dell’esthesis giunga come una sensazione inattesa. Con questi

presupposti, l’atto culinario, culturalmente svalutato in quanto destinato ad una

pratica di consumo, viene risemantizzato ricevendo una valorizzazione in cui è

iscritta la contrazione della sua duratività in una “puntualità imprevedibile”.

Come i dipinti di sabbia dell’arte sacra buddista96, dove un lavoro che può

richiedere intere settimane viene infine spazzato via per simboleggiare la

caducità delle cose, nell’arte culinaria si costruiscono opere in cui il fugace e il

transitorio trovano consacrazione.

96 Elementi della tradizione artistica del buddismo tantrico, queste opere fugaci costituite

da milioni di grani colorati di sabbia disposti in forme astratte o figurative, sono rappresentazione del mandala, ovvero cosmogonie dell’universo.

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