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1 © 2014 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati ••• APPROFONDIMENTI ••••• LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA: VANTAGGI, RISCHI, LIMITI di Fabio TITTARELLI L’articolo, oltre a presentare sinteticamente le varie forme in cui si attua la delocalizzazione produttiva, ne sottolinea sia i vantaggi sia i limiti. LA GLOBALIZZAZIONE, PREMESSA ALLA DELOCALIZZAZIONE Circa un ventennio fa veniva coniato un concetto che, successivamente, sarebbe divenuto talmente popolare da essere considerato il principale tratto caratterizzan- te la nostra attuale epoca: quello di globalizzazione. Con tale accezione (taluni hanno parlato, ma con meno efficacia semantica, di internazionalizzazione) non si intendeva – e meno che meno si intende oggi – riferirsi a una maggiore apertu- ra dei mercati, o a un’accelerazione negli scambi commerciali tra Paesi, oppure a un’estensione del liberismo economico a contesti che sino a quel momento ne erano stati esclusi (si pensi, per esempio, ai Paesi dell’ex bloc- co sovietico, che in passato avevano aderito al comunismo). Quanto sopra, semmai, va considerato come una conseguen- za della globalizzazione, non la globalizzazione in se stessa. Quest’ultima, infatti, rileva un fenomeno assai più complesso, indotto dai notevoli progressi nel campo delle tecnologie della comunicazione, per effetto del quale si è determinato un pro- cesso di crescente interdipendenza tra i diversi mercati nazio- nali, sino a diventare parte di un unico “sistema globale”. Per rappresentare sinteticamente questo fenomeno si usa riferirsi al cosiddetto “effetto farfalla” (già affrontato decenni or sono da diversi scienziati nella teoria del caos): una farfalla sbatte le ali a Tokyo e scoppia un uragano a New York. Decodificando: un qualsiasi evento, pur irrilevante (come il battito d’ali della farfalla) che avviene in un dato sistema, tende a ripercuotersi e ad amplificarsi in altri sistemi, in modo tale che nel volgere di breve tempo l’evento iniziale viene a “globalizzarsi”. Que- sta metafora, peraltro, è stata anche utilizzata per sottolineare la maggiore fragilità dell’economia mondiale oggi rispetto al passato, in quanto l’interdipendenza determina necessariamen- te un “effetto domino” (altra metafora) dagli esiti non facil- mente prevedibili. E, come sopra accennato, nel processo di globalizzazione dell’effetto iniziale, un’ulteriore tendenza è quella della sua crescita (ossia l’“effetto valanga”, terza meta- fora, equivalente all’uragano di New York successivo al battito d’ali della farfalla a Tokyo). La recente crisi economica – le cui drammatiche conseguenze sono sotto gli occhi di tutti – origi- natasi negli Stati Uniti ma propagatasi a tutti i Paesi dell’area capitalistica (e non solo) ne è la prova più evidente. Non a caso si parla di “recessione mondiale”, dunque di “globalizzazione della crisi”.

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LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA: VANTAGGI, RISCHI, LIMITIdi Fabio TITTARELLI

”L’articolo, oltre a presentare sinteticamente le varie forme in cui si attua la delocalizzazione produttiva, ne sottolinea sia i vantaggi sia i limiti.

LA GLOBALIZZAZIONE, PREMESSA ALLA DELOCALIZZAZIONE

Circa un ventennio fa veniva coniato un concetto che, successivamente, sarebbe divenuto talmente popolare da essere considerato il principale tratto caratterizzan-te la nostra attuale epoca: quello di globalizzazione. Con tale accezione (taluni hanno parlato, ma con meno efficacia semantica, di internazionalizzazione) non si intendeva – e meno che meno si intende oggi – riferirsi a una maggiore apertu-ra dei mercati, o a un’accelerazione negli scambi commerciali tra Paesi, oppure a un’estensione del liberismo economico a contesti che sino a quel momento ne

erano stati esclusi (si pensi, per esempio, ai Paesi dell’ex bloc-co sovietico, che in passato avevano aderito al comunismo). Quanto sopra, semmai, va considerato come una conseguen-za della globalizzazione, non la globalizzazione in se stessa. Quest’ultima, infatti, rileva un fenomeno assai più complesso, indotto dai notevoli progressi nel campo delle tecnologie della comunicazione, per effetto del quale si è determinato un pro-cesso di crescente interdipendenza tra i diversi mercati nazio-nali, sino a diventare parte di un unico “sistema globale”. Per rappresentare sinteticamente questo fenomeno si usa riferirsi al cosiddetto “effetto farfalla” (già affrontato decenni or sono da diversi scienziati nella teoria del caos): una farfalla sbatte le ali a Tokyo e scoppia un uragano a New York. Decodificando: un qualsiasi evento, pur irrilevante (come il battito d’ali della farfalla) che avviene in un dato sistema, tende a ripercuotersi e ad amplificarsi in altri sistemi, in modo tale che nel volgere di breve tempo l’evento iniziale viene a “globalizzarsi”. Que-sta metafora, peraltro, è stata anche utilizzata per sottolineare la maggiore fragilità dell’economia mondiale oggi rispetto al passato, in quanto l’interdipendenza determina necessariamen-te un “effetto domino” (altra metafora) dagli esiti non facil-mente prevedibili. E, come sopra accennato, nel processo di globalizzazione dell’effetto iniziale, un’ulteriore tendenza è quella della sua crescita (ossia l’“effetto valanga”, terza meta-fora, equivalente all’uragano di New York successivo al battito d’ali della farfalla a Tokyo). La recente crisi economica – le cui drammatiche conseguenze sono sotto gli occhi di tutti – origi-natasi negli Stati Uniti ma propagatasi a tutti i Paesi dell’area capitalistica (e non solo) ne è la prova più evidente. Non a caso si parla di “recessione mondiale”, dunque di “globalizzazione della crisi”.

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La globalizzazione ha poi informato di sé altri ambiti non economici, e in particola-re quello culturale in senso lato, con una progressiva omogeneizzazione (i suoi cri-tici parlano, con espressione tagliente, di “omologazione”) delle mode, delle scelte e, in definitiva, degli stili di vita. Possiamo dunque fornire, tra le tante, la seguente definizione del fenomeno della globalizzazione: un processo che collega imprese, Paesi, persone, tecnologie, risorse, conoscenze di diverse aree geografiche, econo-miche e culturali, in un circuito basato sui principi del libero mercato.Nell’ambito di questo processo – appena avviatosi – un posto di rilievo occupa il fenomeno della internazionalizzazione della produzione, ossia della produzione che si effettua in un certo contesto ma destinata, in tutto o in larga parte, ad altri conte-sti. Tale fenomeno non implica soltanto la vocazione delle imprese all’esportazione di merci e capitali, ma un modo specifico di pensare la produzione, di adattarla a determinati mercati al di fuori di quello di origine, di “localizzarla” in quei diversi contesti assecondando le esigenze, le preferenze e i gusti dei relativi consumatori, nonché – se ritenuto utile al fine di favorire una maggiore concorrenzialità – di de-localizzare la produzione. Di quest’ultimo processo ci occuperemo, in particolare, nelle pagine che seguono.

LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA

Tecnicamente si intende per delocalizzazione il trasferimento della produzione di beni o servizi (in tutto o soltanto in parte) da aziende situate nel territorio di un dato Paese ad altre aziende localizzate all’estero. Tale spostamento può avvenire all’interno di una stessa impresa (per esempio, quando esso viene affidato, in peri-feria, a una filiale o comunque a un’altra impresa operante nell’ambito dello stesso gruppo, o conglomerato, come spesso si verifica da parte di imprese multinazionali o transnazionali) e allora si parla di delocalizzazione in senso stretto, ovvero può comportare una esternalizzazione della produzione, affidata a imprese in altri Paesi che non sono filiali di quella nazionale, e non appartengono al medesimo gruppo. In questo secondo caso, più correttamente, si fa riferimento al concetto di outsourcing (termine inglese traducibile come “approvvigionamento esterno”). In senso lato, tuttavia, entrambi gli schemi di trasferimento di produzione fanno capo alla deloca-lizzazione produttiva.

L’outsourcing sotto il profilo giuridico

Considerata dal punto di vista giuridico, la pratica dell’outsourcing (o esternalizzazione produttiva) rientra nella categoria dei contratti, e in particolare dei cosiddetti contratti atipici per i quali, cioè, non vi è ancora una speci-fica disciplina nell’ordinamento italiano. L’outsourcing si può definire come l’accordo in forza del quale un sog-getto (detto outsourcee) trasferisce in capo a un altro soggetto (outsourcer, o partner, o provider) alcuni segmenti della catena produttiva, in funzione della realizzazione dello scopo imprenditoriale. Di tale accordo si è occupata la Corte di Cassazione, che in una sentenza del 2006 ha definito «il fenomeno che comprende tutte le possibili tecniche mediante cui un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi che sono estranei alle competenze di base (l’attività centrale)».

L’EVOLUZIONE DEL FENOMENO DELLA INTERNAZIONALIZZAZIONE

La proiezione delle imprese sul piano internazionale ha attraversato diverse fasi, in parallelo con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Gli storici dell’eco-nomia ne individuano almeno quattro.

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La prima fase è relativa al periodo che va dalla fine del XIX secolo ai primi decenni del successivo, e vede affermarsi essenzialmente imprese europee, con una loro crescente presenza sui mercati internazionali favorita soprattutto dalla possibilità di sfruttare le risorse provenienti dai mercati coloniali. Una seconda fase ha inizio dopo l’ultimo conflitto mondiale, e vede protagoniste imprese statunitensi, maggiormente innovative e all’avanguardia sul piano tecnolo-gico, anche sull’onda della notevole crescita derivante dalle politiche di aiuti eco-nomici concessi dagli Stati Uniti ai Paesi europei per la ricostruzione post-bellica. In una terza fase, che data approssimativamente dagli anni Ottanta, si assiste alla notevole performance delle imprese giapponesi, che accrescono notevolmente i loro investimenti all’estero in molti settori, nei quali quel Paese ha meno vantaggi com-petitivi a causa dei salari più elevati e della carenza di materie prime. L’area nella quale si impegnano maggiormente tali imprese è quella asiatica, in ciò stimolando lo sviluppo di Paesi che, nel volgere di pochi anni, implementano proprie politiche industriali e divengono, a loro volta, economie in grado di competere pienamente sul piano internazionale. L’ultima fase, che è tuttora in atto, ha inizio con la fine del millennio e si accompa-gna alla globalizzazione dell’economia di mercato. In tale contesto l’impresa “muta pelle” rispetto alla configurazione passata, caratterizzandosi per una sua estrema flessibilità e capacità di coordinare le diverse risorse presenti nei mercati, adattan-dosi però (o, per meglio dire, modellandosi) alle esigenze locali dei consumatori. Gli studiosi parlano, a questo riguardo, di un’impresa che sa essere, a un tempo, efficiente a livello globale e aderente alle richieste locali. È propriamente in questa fase che si attua con maggior slancio il processo di delo-calizzazione produttiva, unitamente a consistenti iniziative di ristrutturazione azien-dale (fusioni, acquisizioni, riorganizzazione di siti produttivi, chiusura o ridimen-sionamento di stabilimenti ecc.).

LE FORME IN CUI SI ESPRIME LA DELOCALIZZAZIONE

La delocalizzazione produttiva (in senso lato) si può attuare in varie forme e con diversi gradi di impegno nella ricerca di nuovi mercati e di nuove fonti di approvvi-gionamento. Possiamo distinguere, in merito, tre diverse formule:

a. la joint venture;

b. la sub-contrattazione;

c. l’investimento diretto verso l’estero.

a. La joint venture

Mediante la joint venture (“società mista”) si perviene a un accordo di collaborazione tra più imprese, di nazionalità diversa, per una finalità di natura industriale o commerciale. Si tratta di una modalità di internazionalizzazione che fa leva sul vantaggio di porre in comune co-noscenze (know how) e capitali in funzione di un obiettivo prestabilito (una particolare linea di produzione, la ricerca di nuove tecnologie ecc.). Talvolta le imprese coinvolte nella joint venture si limitano a fissare, per ciascuna di esse, le rispettive competenze e responsabili-tà, senza dare luogo alla creazione di un nuovo soggetto (si parla, nella fattispecie, di contrac-

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tual joint venture), mentre in altri casi (oggi più frequenti) l’accordo di collabo-razione è finalizzato alla nascita di una nuova impresa, giuridicamente distinta (abbiamo, così, una incorporated joint venture). Esempio del primo tipo è la pro-duzione di autovetture che, pur utilizzando conoscenze e tecnologie di due o più imprese, fa capo a una data impresa (il modello Ulysse della Fiat, tra gli altri, è realizzato con meccanica Peugeot). Classico esempio del secondo tipo, inve-ce, è la produzione marcata “Sony-Ericsson”, nata dalla collaborazione tra due transnazionali specializzate l’una nell’elettronica (Sony) e l’altra nella telefonia (Ericsson).

b. La sub-contrattazione

Abbiamo, in questo ambito, diverse tipologie di sub-contratti, che vanno dal sem-plice accordo per l’acquisto del prodotto finale da un’impresa estera, al sub-ap-palto di semilavorati con l’impegno, da parte del sub-appaltatore, del successivo acquisto dei prodotti finiti, alla sub-locazione e così via. Nel complesso, comun-que, le diverse tipologie di sub-contrattazione sono tutte finalizzate a creare forme di collaborazione per ridurre i costi di produzione e/o migliorare la qualità della produzione.

c. L’Investimento diretto verso l’estero (Ide)

L’Ide rappresenta la modalità più impegnativa e articolata, da parte di un’impresa, per internazionalizzarsi, in quanto richiede ingenti risorse e una partecipazione di medio-lungo periodo. Esso può essere definito come l’investimento internazionale realizzato da un’impresa residente in un Paese che ha l’obiettivo di stabilire un interesse durevole in un’impresa residente in un altro Paese. Tale “interesse dure-vole” comporta un rapporto di lungo termine tra i due soggetti, oltre all’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa. In tal modo l’impresa, attraverso l’Ide, «delocalizza le attività della catena del valore per agire direttamente nel mercato estero» (Gianpaolo Baronchelli, La delocalizzazione nei mercati internazionali. Da-gli IDE all’offshoring). Anche in questo caso, si possono avere diverse forme nelle quali si sostanzia l’in-vestimento diretto:

• la creazione di una filiale all’estero in seguito all’acquisizione di un’azienda loca-le, che giuridicamente viene meno;

• la creazione ex novo di una filiale all’estero;

• l’acquisizione del controllo di un’impresa locale, che giuridicamente permane;

• l’accordo con un’impresa locale per lo svolgimento, in tutto o in parte, di un’at-tività industriale o commerciale. In tal caso l’impresa locale viene ristrutturata (e solitamente potenziata) in funzione dei nuovi interessi dell’impresa estera.

Nell’elencazione di cui sopra – non esaustiva, poiché si possono avere formule ibri-de rispetto a quelle citate – gli investimenti che consistono nell’apertura di una nuova unità economica vengono tecnicamente definiti greenfield, mentre quelli che comportano l’aggiunta di capacità produttiva laddove è già presente una certa quan-tità di capitale fisso, sono detti brownfield. Va inoltre tenuto distinto l’investimento internazionale diretto, del quale abbiamo sinora trattato, dall’investimento internazionale di portafoglio, effettuato per pure ragioni finanziarie, più frequentemente a breve termine, come per esempio l’eroga-zione di prestiti o il finanziamento del capitale di rischio a un’impresa locale.

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I PRESUPPOSTI DELLA DELOCALIZZAZIONE

La regola aurea dell’accumulazione capitalistica – che ciascuno studente di econo-mia dovrebbe ben conoscere – è quella di ottenere il massimo risultato con il mini-mo costo, che si po’ tradurre, sinteticamente, con il principio della massimizzazione del profitto. In effetti tale principio-cardine della legge di mercato è stato messo ampiamente in discussione da molti studiosi, anche di matrice liberista, che hanno dimostrato come spesso sia più conveniente, per un’impresa, perseguire lo scopo della massimizzazione delle vendite (che può non coincidere, nel breve periodo, con quello di rendere massimi i profitti) o quello di un profitto sicuro (specie quando il mercato è instabile e caratterizzato da irrigidimenti di tipo oligopolistico). In ogni caso, è del tutto evidente che chi opera in regime di libero mercato deve poter “gua-dagnare” abbastanza da non rischiare di uscirne, e per fare ciò non può prescindere dal monitorare costantemente l’andamento dei costi di produzione. Un apprezzabile livello dei profitti, dunque, deve essere sempre associato al più basso livello dei costi che è possibile ottenere nelle condizioni date. Sono queste, in sintesi, le due motivazioni che spingono di volta in volta qualsiasi imprenditore a fare investimenti o a desistere in attesa di occasioni migliori, a incrementare la produzione o a man-tenerla inalterata, a ristrutturare e riorganizzare l’attività di uno stabilimento o ad aprirne di nuovi e così via. E sono sempre queste le due fondamentali motivazioni che spingono molte imprese a delocalizzare, optando per la formula ritenuta più idonea alla propria politica aziendale. Fermi restando questi due macro-obiettivi (maggiori profitti, minori costi), occorre allora verificare se e in quale misura un’impresa è in grado di procedere sulla via della delocalizzazione produttiva. Indichiamo, a questo riguardo, due fattori di cui va tenuto conto nell’analisi della fattibilità di delocalizzare. Innanzitutto, affinché un’impresa proceda a delocalizzare, spostando in tutto o in parte le linee di produzione all’estero, occorre che sia organizzativamente e strut-turalmente in condizioni di poterlo fare; deve cioè possedere una articolazione dell’attività produttiva tale per cui le sia possibile “scomporre” porzioni del pro-cesso produttivo per “ricomporle” altrove. L’ideale, in tal senso, è dato da quelle imprese (solitamente di grandi dimensioni) che operano per comparti produttivi relativamente indipendenti l’uno dall’altro, in modo che sia tecnicamente possi-bile – senza particolare aggravio nei costi – recidere uno o più di tali “segmenti” e impiantarli in altri Paesi. Tipico è il caso delle imprese automobilistiche (alcune linee di produzione rimangono nel Paese di origine, altre vengono delocalizzate e ricollocate all’estero). Il secondo fattore è dato dalla convenienza effettiva a realizzare la delocalizzazio-ne. Non ci si riferisce al mero vantaggio, in termini di minori costi di produzione, che si può ottenere dallo spostamento all’estero della produzione, ma a una valu-tazione di maggior respiro, per così dire, che deve tener conto delle regole, degli usi e costumi, della possibilità o meno di ottenere facilitazioni, dei possibili rischi dovuti al quadro politico di quel contesto e così via. In altri termini, il criterio della economicità occorre che sia valutato non soltanto con riferimento al puro e semplice indicatore del livello dei costi di produzione “interni” alla gestione aziendale, ma anche di quelli “esterni” a essa, ma influenti ai fini della concreta convenienza a delocalizzare.

I VANTAGGI DELLA DELOCALIZZAZIONE

Fermo restando quanto sopra accennato circa la possibilità e la convenienza ef-fettiva, da parte di una data impresa, ad avviare un processo di delocalizzazione produttiva, le ragioni che inducono a tale strategia sono molteplici, e in partico-lare:

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a) la reperibilità, nel Paese desti-natario dell’eventuale deloca-lizzazione, di risorse naturali necessarie alla produzione, facilmente accessibili e a co-sti inferiori rispetto al Paese di origine. Si pensi, al riguardo, alla necessità per un’impre-sa che utilizza ampiamente il legname nella produzione, di poterne disporre in ingenti quantitativi in contesti quali il Nord Europa (soprattutto conifere) o, per altri versi, il Brasile;

b) la presenza, nel medesimo Paese, di manodopera retribuibile a costi inferiori per l’impresa (a parità di orario di lavoro), ovvero disponibile a un orario di lavoro giornaliero più esteso (a parità di retribuzione mensile). È il caso, in Europa, dei lavoratori dei Paesi dell’Est, ma condizioni retributive più favorevoli si incon-trano agevolmente anche in altri contesti (Cina, India, Paesi dell’America Latina ecc.), come avremo modo di sottolineare più oltre;

c) la possibilità di disporre di un mercato di consumo più esteso di quello presente nel Paese di origine, evitando l’accesso a tale mercato mediante il canale delle esportazioni, che può comportare aggravi di costo non indifferenti (trasporto, rischi di cambio delle valute, avarie ecc.);

d) un trattamento fiscale più favorevole sia per le merci, sia per i profitti d’impresa, rispetto a quanto avviene nel Paese di origine;

e) la possibilità di ottenere agevolazioni creditizie o forme “attrattive” di incenti-vazione per le imprese straniere, presenti nel Paese destinatario dell’eventuale delocalizzazione;

f) la possibilità di accesso a un insieme di servizi a costi più ridotti di quelli presenti nel Paese di origine.

Tra i diversi vantaggi che si sono individuati, certamente un ruolo di rilievo ha la valutazione del differenziale nei costi di produzione, con particolare riferimento al costo del lavoro, che in molte imprese costituisce una parte rilevante dell’insieme dei costi aziendali (per esempio nel settore manifatturiero). Ma occorre anche va-lutare la qualità del lavoro cui l’impresa può avere accesso all’estero, compatibil-mente con le proprie necessità. Così, è più agevole per un’impresa, a parità di altre condizioni, la scelta di delocalizzare se il tipo di beni che produce non richiede una manodopera particolarmente qualificata, bensì una manodopera disponibile ad ac-cettare condizioni lavorative diverse rispetto ai lavoratori nel Paese di origine (orari più estesi, salari più contenuti, scarsa o assente sindacalizzazione ecc.). Viceversa, qualora un’impresa, per la sua specifica attività, necessiti di personale altamente qualificato, la delocalizzazione sarà vantaggiosa soltanto a condizione che il Paese di destinazione disponga di tali maestranze e a costi inferiori. In sintesi, i vantaggi della delocalizzazione devono potersi misurare dal confronto tra ciò che si perderebbe spostando in tutto o in parte la produzione all’estero e quello che si otterrebbe in cambio. Ed è del tutto evidente che, tanto più risulta (o è percepita) precaria, incerta, destabilizzante – per varie ragioni – la prospettiva di mantenere la produzione nel Paese di origine, tanto maggiori possono essere i van-taggi a delocalizzare. Come ha sostenuto di recente Giuseppe Bortolussi, segretario dell’Associazione artigiani di Mestre, riferendosi alla situazione dell’Italia: «le im-poste, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’ineffi-

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cienza della pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima sociale nei confronti dell’azienda è più favorevo-le». Vi sarebbero da aggiungere, a giudizio di chi scrive, due fattori che, per la loro negatività, hanno determinato e continuano a determinare una consistente fuga delle imprese dal nostro territorio: la corruzione politica, associata spesso alla concussio-ne, e l’influenza della criminalità organizzata (di tipo mafioso, camorristico ecc.) sull’attività imprenditoriale.

I RISCHI E I LIMITI DELLA DELOCALIZZAZIONE

Procedere allo smembramento, e persino allo smantellamento integrale di una linea di produzione, non è, per un’impresa, un’iniziativa da poco: richiede una verifica approfondita delle condizioni che stanno alla base della possibile scelta di delo-calizzare, nonché una valutazione delle conseguenze, nel proprio Paese, che tale spostamento di produzione può determinare. Di seguito cercheremo di dar conto di taluni rischi e/o limiti sottesi al processo di delocalizzazione. Il primo e più rilevante effetto dello spostamento di produzioni all’estero è la riduzione del livello di occupazione nel Paese di origine. Questo, di per sé, è un fattore che per un’impresa potrebbe risultare indifferente, o al più essa potrebbe considerarlo un “male necessario” al recupero di competitività o alla sopravvivenza stessa della propria attività lucrativa. Ma le tensioni sociali che si possono determinare a seguito della diminuzione di posti di lavoro interessano certamente l’impresa che intenda comunque mantenere proprie sedi sul territorio nazionale. In tempi recenti, per esempio, è scoppiato in Italia il caso Electrolux. Si tratta di una multinazionale svedese all’avanguardia nel settore della produzione di elettrodomestici (i marchi Aeg, Kelvinator, Castor, Rex, Zoppas, Philco ecc. fanno tutti capo al medesimo gruppo), che ha diversi stabilimenti nel no-stro Paese, dando occupazione a quasi 6mila dipendenti. Per comprendere la portata di

questo colosso, è sufficiente dire che la sua produzione assor-be un quarto della domanda mondiale di elettrodomestici. La direzione di questa impresa aveva annunciato la possibilità di chiudere una linea di produzione in Friuli (lo stabilimento di Porcìa), che dà lavoro a oltre mille persone, e delocalizzare in altri Paesi alla ricerca di un più basso costo del lavoro, qualora i sindacati non avessero accettato una consistente ri-duzione delle retribuzioni. La resistenza delle organizzazioni sindacali a questo progetto ha, per il momento, scongiurato la chiusura dello stabilimento, ma il ridimensionamento del personale, quale condizione per il mantenimento della produ-zione a Porcìa, è un dato ormai acquisito, e la tensione sociale in quell’area non si è del tutto riassorbita.

I reati di corruzione e concussione nel nostro ordinamento

Secondo il codice penale italiano, il reato di corruzione ha diverse fattispecie, cui sono applicate distinte san-zioni. Si ha, in particolare, la corruzione per un atto d’ufficio (art. 318 c.p.), per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), la corruzione in atti giudiziari (art. 320 c.p.), quella di un incaricato di pubblico ser-vizio (art. 321 c.p.). Sempre secondo il codice penale, la fattispecie della concussione si ha quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promet-tere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità (art. 317 c.p.).

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Per molte imprese italiane, poi, un secondo limite alla scelta della delocalizzazione è dato dalla perdita di immagine che ne può derivare. È noto come in molti settori il made in Italy sia particolarmente rinomato e apprezzato all’estero: un’impresa che volesse spostare una linea di produzione in altri Paesi dovrebbe, quindi, valu-tare lo scadimento della propria immagine sui mercati internazionali. Si pensi, per esempio, al settore delle calzature, nel quale da sempre il nostro Paese gode merita-tamente di grande considerazione all’estero. Qualora un’impresa leader in tale set-tore volesse delocalizzare, poniamo, in Polonia o in Cina, i vantaggi derivanti dalla riduzione nel costo del lavoro o nel costo delle materie prime potrebbero essere più che assorbiti dagli svantaggi dovuti alla perdita di immagine, poiché non potrebbe più fregiarsi della esclusività della produzione nazionale (e dell’eccellenza della sua qualità), così ricercata all’estero. Un terzo fattore di rischio è dato dalla possibile perdita di know how, ossia il com-plesso di abilità operative e di conoscenze necessarie a svolgere una data attività. Un più contenuto livello nel costo del lavoro in un altro contesto potrebbe, infatti, esse-re associato a una scarsa o comunque modesta capacità lavorativa della manodopera locale, con il risultato di una perdita di efficienza dell’intera produzione. Da ultimo (ma certamente non ultimo come importanza) va segnalato ciò che favo-risce – o comunque non interdice o non ostacola – il processo di delocalizzazione nei Paesi destinatari dello spostamento delle produzioni: il mancato rispetto dei diritti umani, nel suo più ampio significato. Quando parliamo di risparmio nei costi di produzione, e segnatamente nel costo del lavoro, che si può ottenere in molti Paesi asiatici o anche, in Europa, in quelli dell’area balcanica, inevitabilmente ci ri-feriamo a standard sociali, di sicurezza sul lavoro, di welfare e di utilizzazione della manodopera decisamente inferiori rispetto a ciò che le economie capitalisticamente avanzate hanno raggiunto con le conquiste dei lavoratori e, più in generale, dei popoli nel corso degli ultimi due secoli. Basti pensare alla lunghezza dell’orario di lavoro: in un recente studio la Hong Kong Confederation of Trade Unions (Confe-derazione dei sindacati) ha analizzato le normative sull’orario di lavoro in 50 Paesi, giungendo a formulare una graduatoria in base alla quale gli orari più gravosi sono in Perù (oltre la metà dei lavoratori lavora più di 48 ore settimanali), in Corea del Sud, in Thailandia, in Pakistan, mentre Hong Kong si collocherebbe al quinto posto, con circa il 41% dei lavoratori impiegati settimanalmente per oltre 48 ore. Al di sotto di tale monte-ore settimanale, in gran parte dei Paesi presi in esame, l’impiego non viene neppure considerato a tempo pieno, ma part time. Praticamente ciò che avveniva nel Regno Unito o in Germania quasi due secoli or sono. Per non parlare degli orari di lavoro non ufficiali, ossia al di fuori delle normative in materia, che portano a uno sfruttamento ignobile della manodopera, e che nei Paesi solitamente destinatari delle produzioni delocalizzate sono tutt’altro che l’eccezione. Detto que-sto, è evidente che le strategie volte a spostare linee di produzione in questi Paesi contribuiscono a perpetuare, se non ad aggravare, la pesante condizione lavorativa della manodopera locale. Infatti, secondo la Confederazione sindacale di cui sopra la tendenza che si registra oggi non sarebbe per un alleggerimento di tale condi-zione, bensì andrebbe nel senso opposto, verso un suo progressivo peggioramento, specie in taluni settori. Stesso discorso si può fare per i livelli salariali. Ciò che percepisce un operaio polacco, rumeno, filippino, indiano ecc. – a parità di potere d’acquisto – è non soltanto notevolmente inferiore a quanto riceve per contratto un lavoratore nei Paesi attualmente interessati dal processo di delocalizzazione (tra cui il nostro), ma scandalosamente inferiore. In Cina, per esempio, dove pure negli ultimi tempi si è assistito a una sensibile crescita dei livelli salariali dei lavoratori, il salario medio annuo di un operaio è di circa 24mila yuan, corrispondente a poco più di 3000 euro, cioè a 250 euro mensili. In India la situazione è assai più critica: il salario medio annuo di un lavoratore locale è di circa 12mila rupie, corrispondenti a meno di 150 euro! E stiamo parlando di un’area popolata dalla metà della popo-lazione mondiale…

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I POSSIBILI INTERVENTI PER EVITARE LA DELOCALIZZAZIONE

Molti studiosi del fenomeno delocalizzativo giudicano illusorio ritenere che tale fenomeno possa essere invertito o anche solo rallentato. Il capitalismo moderno, sostengono, per poter continuare il processo accumulativo della ricchezza deve pro-cedere sempre verso le soluzioni che apportino maggiori profitti e limitino i costi di produzione. È una regola che tuttora non può essere smentita. E la delocalizzazione produttiva va esattamente in questa direzione. Ma si dà il caso che il capitalismo moderno sia profondamente in crisi, nonostante la corsa alla internazionalizzazione, una crisi che è evidente anche ai non addetti ai lavori. Una crisi che, da un lato, sta producendo (questo sì) milioni di disoccupati e un rallentamento significativo del tasso di crescita della ricchezza mondiale, e dall’altro è causa di un impoverimento ulteriore in molte aree del pianeta, nonché di un incremento nella disuguaglianza sociale ed economica all’interno stesso dei Paesi a economia avanzata. A giudizio di altri studiosi, pertanto, occorrerebbe ripensare profondamente il siste-ma di mercato, in direzione di una più equa distribuzione delle risorse (che porte-rebbe, ovviamente, anche un aumento della domanda) e di un uso meno dissennato dell’ambiente. In parallelo, occorrerebbe esaminare i caratteri specifici di ciascuna realtà territoriale per poter attuare delle politiche industriali e commerciali adeguate, in tal modo riducendo la convenienza delle imprese a delocalizzare. Inoltre, sareb-be necessario stabilire regole condivise sul piano fiscale, in modo da non rendere

La delocalizzazione in Italia e altrove: alcune cifre

Secondo una ricerca dell’Osservatorio per l’analisi e lo studio dell’innovazione nella Regione Lazio (Filas), condotto su un campione di cento imprese tra le prime 500 aziende europee in termini di fatturato, risulta che a tutt’oggi circa il 40% di esse ha già trasferito parte della produzione e dei servizi all’estero (di queste, il 25% sono tedesche), mentre un altro 44% (di cui il 40% tedesche) ha dichiarato la propria intenzione a delocalizzare nel prossimo futuro. Il 90% delle scelte delocalizzative è comunque concentrato in Gran Bretagna, Germania e Benelux. In particolare, è la Gran Bretagna che deterrebbe il primato delle delocalizzazioni.In base a quanto contenuto in un recente rapporto della Fondazione per la diffusione della responsabilità sociale delle imprese (Icsr) l’Italia si muoverebbe, nell’ambito dei processi di internazionalizzazione, «in misura ancora relativamente modesta, se confrontata con quella degli altri Paesi economicamente avanzati». Più in dettaglio, l’incidenza delle attività estere realizzate da imprese italiane, rispetto a quelle realizzate in Italia (dato che assume il termine di “internazionalizzazione attiva”) è del 12,7% per l’industria e del 7,5% per i servizi. Come confronto, si prenda per esempio la Finlandia, con una internazionalizzazione attiva del 63,5% nell’industria e di circa il 24% nei servizi. La Germania, in questa graduatoria, si colloca ai primi posti, ma con una incidenza maggiore nei servizi (37%) rispetto all’industria. Nondimeno, sono molte ormai le grandi imprese italiane che hanno avviato processi più o meno intensi di de-

localizzazione produttiva. Tra esse vale la pena ricordare nomi quali Geox, Benetton, Bialetti, Calzedonia, Stefanel, Rossignol e così via. E non si può non fare riferimento anche alla Fiat che, dopo aver incorporato la Chrysler di Detroit (Stati Uniti) e aver per-sino cambiato denominazione (oggi è FCA, Fiat Chrysler Automobiles) e spostato la pro-pria sede legale in Olanda e quella fiscale in Inghilterra, si appresta verosimilmente, nel prossimo futuro, a incrementare la propria strategia di delocalizzazione.

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più “appetibile” per le imprese la collocazione della produzione in Paesi nei quali attualmente possono godere di condizioni fiscali particolarmente favorevoli. Infine, sarebbe indispensabile pervenire a una certa omogeneizzazione delle condizioni la-vorative e retributive sul piano globale, al fine di sottrarre alle imprese il vantaggio (oggi innegabile) di sfruttare i differenziali salariali per spostare le produzioni al-trove. Questa riflessione, tuttavia, è ben lungi dall’essere anche soltanto “ai nastri di par-tenza”. Nel frattempo, sembra che le uniche proposte per contrastare il processo delocalizzativo siano quelle di assecondare una significativa riduzione dei salari e/o una maggiore flessibilità nell’orario di lavoro nei Paesi interessati da tale processo (il caso Electrolux, già richiamato, è paradigmatico al riguardo).