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1. SIGNIFICATO E ORIGINE DELLA LETTURA 1.1 importanza e significato della lettura Nella nostra cultura, l’incontro tra il bambino e il libro è quasi obbligato poichè la scrittura è molto diffusa: non necessariamente, però, tale approccio avviene con l’inizio della scolarizzazione, anzi, molto spesso, si verifica prima in contesti extrascolastici attraverso la televisione, la pubblicità e i libri per bambini letti con l’adulto più o meno precocemente a seconda delle abitudini familiari. Di solito già nella prima infanzia (da 0 a 3 anni) i bambini hanno dimestichezza con un libro e la lettura di esso attraverso l’interazione con l’adulto. Per i bambini più piccoli la lettura si svolge attraverso la decodifica delle immagini e delle figure che riempiono i testi dedicati a quest’età, e ciò risulta molto più formativo se accanto ai bambini si pone il genitore o l’insegnante o meglio ancora il coetaneo. La vicinanza con l’adulto, specie se si tratta del genitore, rende il momento dedicato alla lettura particolarmente caro al bambino perchè ne favorisce non solo la formazione culturale, ma anche le relazioni interpersonali. Con l’adulto, che fa da guida nello scambio conversazionale, si rendono 1 1

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Page 1: La Dislessia - Tesionline  · Web view1. SIGNIFICATO E ORIGINE DELLA LETTURA. 1.1 importanza e significato della lettura. Nella nostra cultura, l’incontro tra il bambino e il libro

1. SIGNIFICATO E ORIGINE DELLA LETTURA1.1 importanza e significato della lettura

Nella nostra cultura, l’incontro tra il bambino e il libro è quasi obbligato poichè

la scrittura è molto diffusa: non necessariamente, però, tale approccio avviene

con l’inizio della scolarizzazione, anzi, molto spesso, si verifica prima in

contesti extrascolastici attraverso la televisione, la pubblicità e i libri per

bambini letti con l’adulto più o meno precocemente a seconda delle abitudini

familiari. Di solito già nella prima infanzia (da 0 a 3 anni) i bambini hanno

dimestichezza con un libro e la lettura di esso attraverso l’interazione con

l’adulto.

Per i bambini più piccoli la lettura si svolge attraverso la decodifica delle

immagini e delle figure che riempiono i testi dedicati a quest’età, e ciò risulta

molto più formativo se accanto ai bambini si pone il genitore o l’insegnante o

meglio ancora il coetaneo. La vicinanza con l’adulto, specie se si tratta del

genitore, rende il momento dedicato alla lettura particolarmente caro al bambino

perchè ne favorisce non solo la formazione culturale, ma anche le relazioni

interpersonali. Con l’adulto, che fa da guida nello scambio conversazionale, si

rendono possibili la comprensione della mente e le capacità socio-cognitive

connesse allo sviluppo della conoscenza psicologica. Con il coetaneo il

bambino, attraverso il libro, inteso come mediatore culturale, progredisce dal

punto di vista cognitivo osservando e imitando le azioni del compagno;

l’interazione per il bambino, secondo la Dunn (1994) rappresenta un fertile

contesto di scambi nel quale egli, trovandosi in una relazione simmetrica in un

rapporto alla pari, può confrontarsi con i bisogni e gli interessi diversi dai propri,

assumendo perciò il proprio punto di vista .

Con la scolarizzazione, leggere diventa uno degli obiettivi primari

dell’alfabetizzazione e imparare a leggere nei primi anni di scuola, diventa

inevitabile per non venire esclusi da gran parte del curricolo scolastico.

Vista e concepita nei termini curricolari, la lettura è importante per la

formazione scolastica e poi culturale del bambino; ma dal punto di vista emotivo

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e intrapersonale è il mezzo più appropriato che consente l’accesso a storie

sempre diverse e a mondi fantastici. Purtroppo però, accade che nella scuola si

dia la precedenza al leggere per imparare a leggere piuttosto che all’imparare a

leggere per leggere; questo ovviamente rende l’apprendimento un’attività fine a

se stessa.

1.2 origini della letturaLa lettura è un’attività cognitiva che, a differenza del linguaggio, non segue uno

“ sviluppo naturale ”. Infatti il bambino con i soli propri mezzi non imparerà mai

a leggere o scrivere attraverso l’incontro casuale con il mondo. Leggere è

un’abilità che deve essere insegnata e deve poter poggiare su basi cognitive già

formate, quali la capacità di scrivere e comprendere una parola o di vedere e

trasformare un segno in un suono. E’ per questo che la capacità di lettura è per

noi la più significativa impresa culturale e cognitiva.

Il presupposto principale della lettura è la scrittura: se non ci fosse niente di

scritto, non ci sarebbe niente da leggere. La scrittura, in quanto rappresentazione

grafica del linguaggio fatta di segni visibili organizzati, è nata dalla necessità

dell’uomo, fin dalla preistoria, di trasmettere il pensiero ai suoi simili: la lettura

è quindi, l’attivazione e la produzione di questa trasmissione e comunicazione.

1.2.1 iter storico della scritturaLa pittografia è la più antica forma di scrittura le cui origini si confondono

appunto con la pittura. Le frasi del discorso sono immagini più o meno stilizzate

di oggetti a cui si riferiscono. Con la pittografia però non si possono

rappresentare idee astratte e d’altra parte lo sviluppo del sapere e la necessità di

conservarlo fanno aumentare il numero dei pittogrammi fino a rendere la lettura

privilegio di pochi. Verso il 3000 a. C. nasce l’ideografia in cui ogni segno

rappresenta una parola: se essa indica oggetti concreti si utilizzano pittogrammi,

se invece indica idee astratte si usano segni o immagini convenzionali allusive e

combinate insieme. Esempi di pittografia e di ideografia sono i geroglifici

egiziani, la scrittura cuneiforme dei popoli mesopotamici e infine la scrittura

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cinese che forse è la più rappresentativa della pittografia per l’uso del pennello

come strumento scrittorio. Il progresso verso un sistema di scrittura che

rappresenta suoni, inizia con i geroglifici egizi e si sviluppa quando i fenici

acquisiscono dagli egiziani i simboli per rappresentare le sillabe del loro

linguaggio.

La conversione da un sistema ideografico a uno sillabico, si ha nel 1500 a. C.;

dalla rappresentazione dell’idea col segno a quella del suono del linguaggio,

cioè l’alfabeto, la scrittura diventa lo strumento pratico di cui si serve la civiltà

per esprimersi e comunicare. Nel 900 a. C. i Greci aggiungono simboli per

denotare le vocali, assenti nel sistema fenicio, costituendo un alfabeto completo

e definitivo.

2. PROCESSO DI LETTURA COME ABILITA’ COGNITIVA2.1 I processi di codifica

Come facciamo a riconoscere le parole scritte ?

Chi è abile nel leggere non si rende conto della complessità dei processi

psicologici che rendono possibile la lettura. Essere capaci a leggere è come

saper guidare la macchina : all’inizio tutto è nuovo e complicato, ma ora

riusciamo a guidare implicando altre capacità cognitive e fisiologiche come

ascoltare la radio, comprendere ciò che dice, cantare, parlare ... E così anche a

noi, abili lettori, capita di leggere magari essendo immersi nella musica

riuscendo a concentrarci in ciò che leggiamo e non in ciò che sentiamo; magari

ci troviamo in una sala rumorosa eppure ci separiamo dagli altri suoni tuffandoci

senza problemi nella lettura; oppure ancora mentre leggiamo pensiamo ad altro,

specie se il testo non ci attrae, senza tuttavia distogliere lo sguardo dalle righe

ma finendo però a non badare alla comprensione.

Insomma facciamo tante cose mentre leggiamo e non ci rendiamo conto di

quanto, invece, sia già di per sé complicato il riconoscere e capire le parole

scritte. Lo stadio iniziale dell’evoluzione della lettura è la decodifica delle

parole. Sebbene decodificare una parola rappresenti solo una parte del processo 3

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cognitivo del leggere, è tuttavia una parte essenziale che spesso si trova alla base

delle difficoltà della lettura. Sappiamo che il fine ultimo della lettura non è solo

il riconoscere le parole, ma comprendere i concetti esposti nel testo.

Pertanto, per poter quindi individuare il meccanismo che ci permette di leggere

dobbiamo far riferimento a due modi di codifica delle parole: la lettura con

l’orecchio e la lettura con l’occhio.

2.1.1 lettura “a orecchio”La lettura “a orecchio”, o mediazione fonologica, è una strategia che il lettore

usa quando incontra in una pagina una parola sconosciuta e la pronuncia per

vedere se gli suona familiare anche se a occhio così non sembra. Ma è una

strategia che può essere riferita anche a chi non sa ancora leggere e che si pone

quindi come ascoltatore delle parole che gli vengono lette.

Neurologicamente, quando qualcuno parla il suono colpisce l’orecchio sotto

forma di onde sonore che arrivano al cervello in un insieme di impulsi nervosi

attraverso fasci di nervi. Se io sento dire la parola “gatto” l’onda sonora viene

trasformata in un codice acustico dal sistema di analisi acustica dell’orecchio e

delle zone uditive del cervello. Questo codice viene trasmesso al sistema di

riconoscimento uditivo della parola che se corrisponde ad una a me familiare,

attiva allora una particolare unità di riconoscimento. La parola “gatto” risveglia

in me dunque l’immagine dell’animale.

Leggere “a orecchio” significa quindi dover passare da un codice scritto a un

codice basato sul linguaggio parlato. Si ottiene con la conversione dell’input

scritto in una rappresentazione fonologica effettuata dal linguaggio.

Secondo alcuni psicologi, anche i lettori abili fanno uso della mediazione

fonologica anche per parole che hanno magari già incontrato e letto tante volte :

è quindi un passaggio obbligato della lettura ?

Questa domanda fu posta già nel XIX secolo dal neurologo tedesco Wernicke e

recentemente da Rubinstein (1971) e Gough (1972) .

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Il modello di Rubinstein prevede la ricodifica fonologica dello stimolo : il lettore

che si trova di fronte a una stringa di parole, segmenta lo stimolo in lettere e lo

trasforma in fonemi ricercando poi le lettere nella memoria lessicale e

confrontando queste con quelle già preesistenti. Sulla base di queste operazioni,

sono stati fatti degli esperimenti che sembrano convalidare le ipotesi dell’autore,

specialmente quando il lettore si trova di fronte a parole esistenti ma difficili da

pronunciare; parole non esistenti ( non parole ) difficili da pronunciare; non

parole omofone a parole esistenti. I risultati hanno mostrato un tempo di

reazione maggiore per le parole reali di difficile pronuncia rispetto a quelle non

reali. Il tempo usato per riconoscere le non parole omofone a quelle reali è stato

superiore rispetto al tempo impiegato nel pronunciare le non parole non

omofone. Questo ci dice che il soggetto quando segmenta lo stimolo non

riconosce la parola inesistente fin dalle prime lettere perchè la memoria lessicale

non offre alcuna entrata. Se segmentiamo lo stimolo ci rendiamo conto che non

abbiamo nella memoria lessicale insiemi di lettere simili a quelli proposti dalla

non parola. E quindi la ricodificazione fonologica favorisce il riconoscimento

delle parole, ponendo le non parole in cima alla scala delle difficoltà.

Le critiche mosse a questa teoria fonologica vedono come il riconoscimento

della non parola rispetto a quella esistente derivi da un immediato

riconoscimento visivo e non dall’operazione di ricodificazione fonemica.

Il modello di Gough, invece, prevede che ci sia un lavoro di elaborazione

dell’informazione effettuato dal lettore abile nel tempo che passa tra la

fissazione oculare e la pronuncia della parola. Lo stimolo visivo viene

trasformato in percezione visiva chiamata dall’autore “ icona ”; segue poi il

riconoscimento di ogni singola lettera effettuato dalla memoria lessicale e che

avviene sulla base delle caratteristiche fonologiche; dalla traduzione dei grafemi

in fonemi si passa alla rappresentazione fonologica della parola. Da qui vengono

richiamati i sistemi di sintassi e semantica che rappresentano lo strumento di

comprensione e quindi di riconoscimento della parola stessa . Le critiche che

furono rivolte a questo modello riguardavano la modalità di riconoscimento di 5

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parole omofone ma non omografe (es: l’ago-lago) visto che il riconoscimento

avviene su base fonologica e non visiva. Inoltre non viene fatto riferimento al

richiamo di strutture di ordine superiore da parte del lettore abile quando mostra

flessibilità di elaborazione nel processo di lettura, nè specifiche strategie di

comprensione.

2.1.2 lettura “a occhio”I lettori abili riconoscono parole familiari più facilmente attraverso la lettura “a

occhio” che “a orecchio”. Quando leggiamo “a occhio”, riconosciamo le parole

in modo diretto. I lettori costruiscono unità di identificazione e poi riconoscono

le forme scritte in parole familiari

Tali unità sono proprio come le unità di riconoscimento uditivo delle parole, con

la differenza che nella lettura “a occhio” si identificano codici di lettere invece

che codici acustici. Se incontro una parola più volte e mi diventa familiare in me

si crea un’unità di riconoscimento visivo della parola che mi servirà qualora la

dovessi incontrare ancora. La lettura “a occhio” è una strategia utilizzata dai

lettori abili i quali devono possedere migliaia di tali unità nei loro sistemi di

riconoscimento visivo della parola. Quando incontrerò una parola che ho già

visto e riconosciuto non ci sarà bisogno di pronunciarla ad alta voce per

identificarla : essa è stata già categorizzata.

La lettura visiva, o diretta, risulta essere avvantaggiata nella lettura di parole

omofone perchè vengono lette e differenziate: una parola omofona non costituirà

un problema perchè la possiamo vedere e non solo ascoltare, ci renderemo conto

che è omofona ma non omografa e quindi avrà un diverso significato.

Due studiosi dell’Università di San Diego, in California, Rumelhart e

McClelland (1981) hanno cercato di spiegare come l’uomo riconosca le parole

sviluppando un modello informatico (con l’aiuto di un computer) basato sul

modo visivo di identificazione della parola, cioè sulla lettura “a occhio”.

Questo modello può identificare circa 1200 parole di quattro lettere e con un

carattere tipografico particolare che sia costituito esclusivamente di linee rette e

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System Data Center S.p.A., 03/01/-0001,
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non di curve. Il modello è costituito da un sistema di analisi visiva e uno di

identificazione visiva della parola, di cui il primo sistema si suddivide in due

livelli: il livello-tratto e il livello-lettera. Quando una parola si presenta al

computer e le lettere della parola sono fatti di tratti, il computer aziona un

diverso rilevatore di tratti per ognuna delle linee che compongono le lettere.

Se al computer mostriamo la parola TRIP, il computer isola ciascuna lettera

individuando in essa tutti i tratti e le linee rette di cui essa è composta. La lettera

T contiene una linea retta nella parte superiore del grafema, per cui si attiva il

rilevatore corrispondente a questo tratto; nel frattempo vengono selezionate le

lettere che hanno un tratto superiore nel grafema come lo ha la lettera T ( E, F,

I ), inibendo quelle che non lo hanno ( H, L, M ,N ,Y ). Questo sistema di

attivazione -inibizione è la caratteristica del modello dei due studiosi

californiani. Continuando ad analizzare la lettera T, notiamo che possiede una

linea retta centrale per cui si attiva il rilevatore a livello-lettera; le lettere ( E, F ),

che prima erano state scelte in quanto aventi il tratto superiore nel grafema,ora

vengono scartate perchè non possiedono, come la T, quella linea retta centrale: il

rilevatore corrispondente viene quindi inibito. Questo gioco di attivazione -

inibizione verrà eseguito dal computer per le restanti tre lettere della parola

TRIP.

Una volta che i rilevatori del livello-lettera per la T, la R, la I e la P vengono

attivate, queste azionano i rilevatori del livello-parola. La parola in questione

che inizia con la lettera T, ha connessioni con l’attivazione di altre parole che

cominciano con la T e che per esempio differiscono dalla parola iniziale soltanto

per una lettera, come TRAP. Questa, infatti, sarà altamente attivata, per le lettere

che ha in comune con la parola stimolo mentre verrà inibita per la lettera A che

differisce dalla I. Le parole TAPE, TIME, TAKE... saranno invece direttamente

inibite. Un’altra causa di inibizione è data dal fatto che quando le unità del

livello-parola sono attivate cercano, le une contro le altre, di inibirsi; ci sono

cioè connessioni inibitorie mutue tra unità di livello-parola che assicura la

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vittoria di una sola unità di parola affinchè questa rimanga attiva per il processo

ultimo di comprensione.

Questo è uno dei pochi modelli che va oltre la specificazione di ciò che viene

fatto dal sistema cognitivo, illustrando come il sistema potrebbe elaborare

l’informazione durante il riconoscimento delle parole. Tuttavia, spiega soltanto

come viene riconosciuta una singola parola mediante l’uso della lettura “ a

occhio ”.

Infatti non esiste un modello di elaborazione pari per la lettura “ a orecchio”, né

uno di elaborazione di uno qualsiasi degli altri processi cognitivi di livello

superiore implicati nella comprensione.

2.2.MODALITA’ DI LETTURA, COMPRENSIONE E APPRENDIMENTO2.2.1 movimenti oculari

Attraverso il movimento degli occhi che muoviamo da sinistra a destra, a

differenza dei cinesi che li muovono dall’alto in basso, siamo in grado di

leggere. All’apparenza può sembrare che durante la lettura i nostri occhi

scorrano armonicamente e uniformemente lungo le righe. Al contrario, gli occhi

avanzano lungo una riga secondo una se quenza di rapidi scatti che prendono

il nome di saccadi (o movimenti saccadici),ognuno dei quali è separato dal

successivo da brevi pause ( o fissazioni). La durata media di un movimento

saccadico varia da 20-50 millesimi di secondo mentre le fissazioni durano

mediamente tra i 200-500 millesimi di secondo. In conclusione, i nostri occhi,

durante la lettura, rimangono immobili per circa il 90% del tempo.

Cosa accade durante la fissazione ? Avviene quella parte importante della

codifica di un testo che è la comprensione. Comprendere significa raccogliere un

certo numero di informazioni che il lettore prenderà all’interno di uno spazio

chiamato “campo visivo effettivo” ossia l’area intorno al punto di fissazione

dalla quale ricaviamo le informazioni delle parole. Per fare un esempio del

campo visivo effettivo possiamo far riferimento a una frase senza senso

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compiuto al centro della quale poniamo una “x” e ai lati di essa delle parole: ora

concentrandoci sulla “x” saremo in grado di cogliere il campo visivo effettivo

cioè l’area che circonda il punto centrale del quale ricorderemo solo alcune delle

parole disposte ai lati della “x”.

Il campo effettivo visivo è in grado di abbracciare 10-12 caratteri circa ed è

esteso più verso destra che a sinistra del punto di fissazione.

2.2.2 processi di riconoscimento delle parole.Nel momento in cui leggendo una riga, fissiamo una porzione di testo il

contenuto di esso va a finire in un magazzino mnestico chiamato ‘memoria

iconica’ perchè ad ogni informazione corrisponde un immagine di essa. In tale

sede, però, l’informazione non è ancora stata elaborata, è quindi ancora grezza

così come l’hanno rilevata gli organi di senso.

Per trasformare l’informazione grezza in una perfezionata, cioè in una

rappresentazione chiara di stimoli, bisogna operare su di essa una serie di analisi

affinchè si possa riconoscere lo stimolo.

La caratteristica del riconoscimento dello stimolo consiste nella parzialità delle

analisi ossia nella rilevazione di una parte ridotta delle caratteristiche dello

stimolo stesso.

Gli studi sulla percezione visiva hanno evidenziato che i nostri sensi, attraverso

gruppi di cellule specializzate, sono in grado di rilevare alcune caratteristiche

che determinano lo stimolo: la localizzazione e l’orientamento delle linee, la

presenza di angoli, il numero e il tipo di curvature, etc... Per esempio, al fine di

riconoscere una lettera maiuscola scritta in stampatello, la si osserva nei minimi

particolari fino a descriverne la struttura.

Due linee verticali e una orizzontale in mezzo è la descrizione della lettera H e

non qualcun’altra. Due linee verticali con una diagonale può farci pensare a una

N, se invece le linee sono orizzontali allora si tratta di una Z... Insomma nessuna

lettera è uguale all’altra. Una volta definite le caratteristiche di una lettera, si

passa all’esclusione delle altre che in parte rispecchiano la lettera individuata: se

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la lettera prima individuata era la H ci si chiede quale altra lettera assomigli

all’H per numero e tipo di linee (L, E, Z, N). Come abbiamo visto, le parole si

presentano come configurazioni visive estremamente complesse e con un certo

numero di caratteristiche. Data la normale rapidità di lettura è opportuno che

l’informazione sulle lettere da leggere sia ridotta per garantire il riconoscimento.

Ma in ogni caso, come facciamo noi, lettori esperti, a riconoscere le parole e

quali sono i processi che mettiamo in atto per farlo ?

Uno dei processi che analizzano e riconoscono le parole come unità attraverso

un’elaborazione che avviene sulle caratteristiche delle parole, è chiamato effetto

di superiorità della parola (word superiority effect),e consiste in una

rapidissima identificazione di una lettera-bersaglio inserita in una parola rispetto

a quando fa parte di una sequenza di lettere senza senso.

Secondo Thompson e Massaro (1973), l’identificazione delle lettere all’interno

delle parole è più facile grazie alle inferenze che il lettore fa sulla base delle sue

conoscenze ortografiche. In particolare, Massaro ipotizza due meccanismi di

riconoscimento: uno primario che contiene le lettere corrispondenti alle

fissazioni oculari, l’altro secondario che trasforma l’informazione in significato.

Il primo meccanismo si basa sull’aspetto esterno delle lettere e l’efficienza del

riconoscimento primario dipende da come si elabora l’informazione visiva e

dalla conoscenza che il soggetto ha dell’ortografia; il secondo meccanismo,

invece, coglie l’aspetto interno delle lettere cioè mira al significato del termine e

l’efficienza del riconoscimento secondario dipende dal successo del primario in

quanto il secondario utilizza i risultati del primario oltre che le aspettative

sintattiche e semantiche. Poichè il riconoscimento secondario dipende dal primo,

l’analisi delle parole è caratterizzata dalla presenza di lettere ascendenti (b,t, f, l)

e da quelle discendenti (g, p, q ). Se mostriamo a un soggetto una frase in cui sia

stata cancellata la parte superiore delle parole noteremo una certa difficoltà di

riconoscimento, in quanto tutta l’informazione più significativa sembra essere

contenuta proprio lì e non nella parte inferiore. La forma esterna delle parole può

sembrare una informazione generica per il riconoscimento: eppure permette di 10

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ridurre il numero di alternative possibili circa la parola da riconoscere, e poi se

combinata con informazioni di tipo semantico e sintattico riduce la possibilità di

un falso riconoscimento.

Insieme con Thompson, Massaro mostra a un soggetto delle lettere in una

sequenza ortograficamente irregolare e poi in un’altra ortograficamente regolare

chiedendogli di identificare e ricordare più rapidamente le lettere contenute nelle

sequenze. E’ risultato che nella sequenza scritta in maniera regolare la parola

anche senza senso viene identificata e ricordata molto più rapidamente che non

nella sequenza ortograficamente irregolare. La parola che gli autori propongono

è “SBAND” rispetto a “DBSNA”: quest’ultima viene male riconosciuta perchè

secondo le regole grammaticali tra la lettera B e la N ci aspettiamo per forza di

cose una vocale e non una S.

L’automaticità del riconoscimento delle parole segue anche un altro processo

chiamato stroop effect : al lettore esperto viene chiesto di dire con quale colore

sono scritte le parole che definiscono a loro volta un colore, ciò comporta una

certa difficoltà a denominare il colore di quelle parole perchè non

corrispondono al colore che rappresentano. Se il soggetto si trova di fronte alla

parola “rosso” scritta con dell’inchiostro verde, il compito di denominare il

verde è compromesso dall’avvenuto riconoscimento della parola “rosso” che

però non era richiesto. Questa sorta di conflitto è chiamato stroop effect.

Finora abbiamo focalizzato l’attenzione sui tipi di processi implicati nel

riconoscimento di parole note per il lettore esperto. E per quelle nuove e senza

senso ?

Accanto alla via visiva diretta di lettura, per cui dal segno si passa al significato

senza alcuna mediazione, possiamo trovare il meccanismo di ricodificazione

fonologica : la parola viene suddivisa in grafemi, questi tradotti in fonemi che

fusi tra loro producono la pronuncia tramite la quale si accede al significato.

Questo meccanismo, anche se lento, comporta numerosi vantaggi rispetto alla

via visiva che è più diretta : tutti i lettori esperti delle lingue basate sul sistema

alfabetico sono in grado di saper leggere e comprendere le migliaia di parole che 11

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sono contenute in un dizionario, rispetto ai lettori di lingue basate su sistemi

ideografici ( come i cinesi), i quali ne comprendono solo una parte in quanto gli

ideogrammi, ciascuno dei quali corrisponde a una parola per volta e alla sua

relativa pronuncia, devono essere memorizzati uno ad uno.

Il lettore esperto utilizza sia la via diretta che quella più lenta per la lettura, ma

in casi decisamente diversi : per parole ad alta frequenza usa la via visiva,

mentre se si trova di fronte una parola sconosciuta usa strategie basate sulla

ricodifica fonologica. In altri casi può usare la via più lenta per avere conferme

del riconoscimento avvenuto con la via diretta.

2.2.3 processi implicati nella comprensioneLa comprensione di un testo può definirsi un processo continuo, attivo, in cui la

conoscenza acquisita precedentemente nel soggetto ha un ruolo importante. Ma

come avviene la comprensione di un testo, o meglio ancora come avviene la

comprensione di una singola parola ?

Innanzitutto per comprendere un linguaggio scritto, è necessario saper

comprendere un linguaggio parlato. Se per quest’ultimo è essenziale l’intervento

delle informazioni contestuali, per quello scritto è il lettore stesso che deve

avvalersi delle sue conoscenze personali oltre che del contesto. Può sembrare

che la comprensione sia un‘analisi obiettiva di un testo, laddove invece consiste

in una serie di operazioni di assimilazione del testo all’esperienza del lettore: è

ciò che accade nel caso di interpretazione di un significato che dà il lettore

rispetto a quello che in realtà voleva dare l’autore.. Quindi, la comprensione non

è un mero atto di ricezione del contenuto del testo, bensì l’informazione di esso

diventa significativa solo nel momento in cui viene connessa alle informazioni

che il lettore possiede.

Per arrivare alla comprensione di un brano, non occorre che il lettore giunga alla

fine del testo per riassumere le principali fonti di informazione : può avvenire a

metà della lettura o perfino soltanto dal titolo. Per esempio se il testo parla di

qualcuno che sta facendo la spesa ovviamente a questa rappresentazione ci si

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aspetteranno informazioni adeguate al contesto di cui si parla, e quindi a

prendere il carrello, scegliere la merce esposta sugli scaffali, riempirlo di merce,

fare la fila alla cassa per pagare....tutte scene di luoghi comuni all’esperienza del

soggetto. Questo attendersi determinate informazioni si chiama ‘schema’ e può

capitare che non tutto ciò che è contenuto nel testo sia coerente con esso. Infatti

se le informazioni non si adattano allo schema non verranno codificate e quindi

ricordate; se invece si adattano parzialmente allora lo schema può essere

modificato o nella struttura o con l’inserimento di nuovi contenuti in modo da

far adattare quelle informazioni ad esso. Può, inoltre, capitare di reinventarsi uno

schema nuovo perchè le informazioni in esso contenute non sono assimilabili,

come nel caso di una lettura non familiare al lettore.

2.2.4 apprendimento della letturaConsiderando che lo sviluppo del bambino, secondo Piaget, avviene per fasi

nell’acquisizione della capacità di lettura dobbiamo avvalerci dello stesso

criterio. Due studiose, Ferreiro e Teberosky (1979) hanno descritto varie

acquisizioni della lingua scritta che i bambini fanno in età prescolare. I bambini

di quattro anni,e anche meno, sono in grado di differenziare ciò che è scritto da

ciò che è immagine anche se non sanno distinguere le lettere dai numeri;

riconoscono una lettera ma la considerano leggibile solo se è inserita in un

determinato contesto fatto di un certo numero di altre lettere; sanno che non

capita quasi mai di incontrare grafemi isolati, eppure è proprio a scuola che si

trovano di fronte a questa situazione nella lettura di piccole parole come “uva”

per indicare la lettera U e la relativa immagine, o l’ “ape” per imparare la A e

l’immagine corrispondente, o ancora S come “sole”, etc... elaborano alcune

regole sulle caratteristiche formali di un testo affinchè possa essere letto : la

parola non può contenere lettere tutte uguali, e le parole devono avere una certa

quantità di lettere (il minimo sono tre). Quindi se il bambino si trova di fronte a

una stringa di lettere del tipo AAA o BC le definisce ‘parole da non leggere’

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perchè la prima non risponde alla regola della varietà delle lettere in una parola,

mentre la seconda non rispetta la regola della quantità minima di caratteri.

Sempre in età prescolare, i bambini sanno leggere secondo certe disposizioni

spaziali (a serpente, cioé da sinistra a destra tornando a sinistra), mentre

imparano a scuola a leggere da sinistra a destra o dall’alto in basso.

Soffermandosi sui bambini prescolari, le due autrici hanno potuto rilevare che.

con un libro per la prima infanzia pieno di immagini, anche quando in loro non è

ancora avvenuta la differenziazione tra immagine e scritto, il bambino attua la

fase dell’ipotesi del nome, aspettandosi cioè che alla frase “il topo mangia il

formaggio” corrisponda l’immagine di un topolino e di un formaggio; oppure la

lunghezza del nome che diciamo deve corrispondere alla lunghezza dell’oggetto

che lo rappresenta : la nave come oggetto è grande eppure si scrive con quattro

lettere, la formica dovrebbe essere scritta con poche lettere perchè rappresenta

un minuscolo animale. Se il bambino guarda una figura che rappresenta un orso,

si aspetta di trovare sotto nella dicitura, una O di orso. L’ipotesi della sillaba,

invece, è un meccanismo che i bambini di quattro anni attuano quando devono

segmentare la parola per riconoscerla : man mano che il bambino cresce questa

capacità aumenta.

Importante in questo campo, oltre agli studi della Ferreiro e della Teberosky, è

stata la teoria di Marsh, Friedman, Welch e Desberg (1981) sui quattro stadi di

apprendimento della lettura.

Il primo stadio può essere chiamato ipotesi linguistica determinata dal fatto che

il bambino piccolo,che ha a che fare e che riconosce un numero limitato di

parole, quando ne incontra una nuova e isolata da un contesto utile, non è in

grado di identificarla nè di comprenderla; ma se la stessa parola è inserita

all’interno di una frase o di un racconto il bambino si concentrerà sul contesto

della frase e sostituirà quella parola a lui sconosciuta con un’altra simile a lui

però familiare. Questi tipi di sostituzioni furono chiamati da Critchley &

Critchley (1978) come “sostituzioni narremiche”. Il secondo stadio detto ipotesi

discriminativa è caratterizzato dal fatto che il bambino riesce maggiormente a 14

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rispondere a parole nuove che gli vengono presentate isolatamente. E lo fa

basandosi sulla loro somiglianza grafica con parole che conosce. Se per

esempio conosce le parole “papà” e “palla” per distinguerle andrà a cercare

l’accento sull’ultima lettera che contraddistingue la prima parola dall’altra. Il

terzo stadio detto decodifica sequenziale e non più ipotesi, vede un bambino (di

circa 7 anni) che sta diventando un lettore più indipendente in quanto ha la

possibilità di riuscire a decodificare la parola che non conosce, aumentando

l’ampiezza del vocabolario, avendo migliori capacità di elaborazione cognitiva,

rispetto al precedente stadio, adottando dunque la strategia di decodifica

sequenziale dei grafemi. In particolare, la parola sconosciuta viene analizzata

lettera per lettera e ad ogni grafema viene assegnato il fonema corrispondente; i

fonemi così ricavati vengono fusi per formare la parola. Si giunge a questo

stadio quando al bambino viene impartito l’insegnamento fonetico. Il bambino,

quindi, con questa strategia non trova difficoltà a leggere correttamente le

parole nuove se sono regolari; trova ancora difficoltà di fronte a quelle parole

che contengono grafemi come “c” e “g” perchè hanno una duplice pronuncia,

in italiano,più pronunce nell’inglese o nel tedesco. Frith (1985) chiama questa

fase “alfabetica”. Il quarto e ultimo stadio è detto decodifica gerarchica perchè

costituisce l’ultimo scalino dell’apprendimento della lettura; le abilità di

decodifica del bambino-lettore del terzo stadio (8-10 anni) sono ancora basilari

ma si affinano sempre di più con la crescita del soggetto. Il bambino saprà

riconoscere ora dopo l’insegnamento fonetico del terzo stadio, che la “g” avrà un

suono diverso se è seguita da “hi” (ghiro) o da una “i” (giro), e così nel caso di

una “c” (nella lingua italiana). Secondo gli autori, il bambino usa strategie di

analogie per la pronuncia di parole nuove, ed è per questo che Frith identifica

questa fase con il nome di “fase ortografica” nella quale il bambino si affinano

le acquisizioni per una lettura corretta, e in cui la lettura del bambino del quarto

stadio è paragonabile a quella dell’adulto.

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3. DISTURBO DELLA LETTURA : DISLESSIA3.1 interpretazioni sull’argomentoSul problema della dislessia si sono fatte varie interpretazioni: alcuni la

considerano come effetto di deficit percettivi ed emotivi, altri come conseguenza

di ritardi nello sviluppo linguistico e di anomalie neurologiche, altri ancora

come il risultato di disadattamenti di tipo familiare, scolastico e ambientale.

Negli ultimi anni la ricerca psicosociale si è ampiamente interessata

all’argomento consentendo più spazio a quelle che sono le relazioni

interpersonali, i condizionamenti ambientali esercitati sul bambino, insomma

alla sfera pedagogica che riguarda sia internamente che esternamente la sua

personalità. Queste hanno infatti come obiettivo l’individuazione degli indicatori

del comportamento relazionale che l’insegnante deve favorire al fine di

prevenire e rimuovere situazioni di disagio vissute dal bambino.

3.2 teorie sulla dislessiaDurante i primi anni ‘70, Vellutino riporta una serie di teorie sull’argomento

classificandole in due gruppi sulla base delle loro ipotesi : quelle unifattoriali e

quelle multifattoriali. Nelle prime vengono messe a fuoco le teorie dello

sviluppo e delle conseguenze dovute a ritardi maturazionali e quelle con base

medico-neurologica (Morgan & Kerr, 1896; Hinshelwood, 1900; Thompson,

1966; Orton e la “strefosimbolia”, 1925; Bender, 1956; Gesell, 1952; Eustis,

1947; Olson, 1949); teorie che si fondano sulla convinzione che vi siano alla

base delle disfunzioni nei processi visuo-spaziali e in particolare nella memoria

visiva e nella percezione in generale (Bakker, 1970; Rabinovitch, 1968;

Elkoming & Downing, 1973; Shankeweiler & Libermann, 1972; Zangwill,

1962); e infine studi sulla trasmissione genetica (Hermann & Norrie, 1958;

Hallgren, 1950); ma sono effettivamente pochi gli autori che distinguono la

dislessia (in quanto incapacità nel leggere) da incapacità specifica del

linguaggio.

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Nelle teorie multifattoriali, invece, gli autori mettono in rilievo l’esistenza di

categorie o sottotipi di dislessie piuttosto che elaborare teorie eziologiche in

senso stretto.

Il più influente di questi autori è stato Birch (1962), il quale ha sostenuto che la

dislessia sia associata a tre diversi tipi di disturbi di base, ognuno dei quali tocca

diversi aspetti del processo di lettura. Il primo di questi disturbi che ha poi

destato più attenzione rispetto agli altri consiste nell’incapacità di stabilire

equivalenze intersensoriali : questo danno non è limitato soltanto ai sistemi

visivi e uditivi ma avrebbe toccato anche l’area dell’apprendimento dei rapporti

visuo-tattili e cinestetici. Il secondo disturbo, deputato alla difficoltà di lettura, è

l’inadeguato sviluppo di un’appropriata organizzazione gerarchica dei sistemi

sensoriali e poichè il sistema visivo è il più importante nella scala sensoriale,

una volta danneggiato quello il soggetto è incapace a leggere. Infine il terzo

disturbo consiste in una particolare disfunzione nell’analisi e nella sintesi

visiva. La teoria di Birch si pone su basi neuropsicologiche come appunto la

percezione e pertanto egli definisce dislessico quel soggetto che anche in

minima parte è carente nella capacità di analizzare o sintetizzare lo stimolo

visivo. Basandosi su una teorizzazione eziologica della dislessia, Myklebust e

altri (1962, 1967) hanno individuato due tipi di dislessia a seconda dei due più

importanti sistemi sensoriali (la vista e l’udito) considerando come causa del

disturbo l’“incapacità psiconeurologica di imparare”. Secondo Boder (1970),

esistono due tipi di dislessici le cui cause sono rintracciabili nella terminologia

con cui sono stati identificati : i dislessici disfonetici sono quelli che presentano

deficit nella fusione lettera-suono e nell’apprendimento fonetico, i dislessici

diseidetici presentano invece deficit nella percezione delle parole come figure

intere. Infine Satz e collaboratori (1970, 1974) attribuiscono ad un’anormalità

nell’andamento dello sviluppo del SNC la causa di problemi della dislessia.

3.3 tipologie della dislessia3.3.1 dislessia acquisita

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Per molto tempo i ricercatori hanno discusso su come definire la dislessia, ma

hanno ritenuto più opportuno rivolgersi alla classificazione, alla tipologia del

disturbo e poi alla conseguente definizione. Fino a poco tempo fa si riconosceva,

nell’incapacità di lettura, la dislessia acquisita cioè quella che insorgeva in

seguito ad un trauma cerebrale, ad un ictus,etc...Le prestazioni in lettura di

persone affette da dislessia acquisita sono state analizzate ed è risultato che

esistono varie forme di dislessia acquisita in base a determinate caratteristiche.

Per poterle identificare bisognava studiare casi singoli.

Sono stati identificati ben cinque sottotipi di dislessia acquisita : l’alessìa pura

( o lettura lettera per lettera) consistente nell’incapacità di segmentare la scrittura

in unità maggiori delle singole lettere, come sillabe, morfemi, parole... il

soggetto deve poter prima identificare una per una le lettere che compongono la

parola per poi leggerla; la dislessia superficiale caratterizzata dall’incapacità di

leggere parole regolari che diventano irregolari se lette con errata pronuncia

(invece di leggere “scàtola”, leggerà “scatòla”; e non sarà in grado di attribuire il

giusto significato a parole omofone ma non omografe: “l’ago”-“lago”)...ma sa

tuttavia leggere parole regolari e non-parole; la dislessia fonologica, associata a

disgrafia, è caratterizzata dall’incapacità di leggere le non-parole con una

discreta abilità per le parole regolari; la dislessia profonda caratterizzata dalla

sostituzione delle parole per un’attivazione imprecisa del significato a livello del

sistema semantico (leggerà “mela” al posto di “arancia”: la mela appartiene

come l’arancia alla categoria ‘frutta’), ed è molto più problematica dei tipi

precedenti in quanto è compromessa anche la via fonologica oltre che quella

visiva e per diverse lesioni all’emisfero sinistro sovraccaricando quello destro;

infine, l’iperlessìa consistente in un deficit di comprensione dovuto forse a una

contemporanea compromissione della via fonologica e dell’accesso semantico :

il lettore usa la via visiva non semantica per leggere le parole, non riuscendo

però nelle non-parole.

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3.3.2 dislessia evolutivaProprio per distinguerla da quella derivata da lesioni cerebrali, la dislessia

evolutiva si inserisce in un contesto molto diverso , perchè vede in soggetti sani

in assenza di carenze intellettive, socio-culturali e affettive, un vero e proprio

ritardo dell’imparare a leggere.

Ci sono stati ricercatori che hanno voluto attribuire una causa biologica a questo

ritardo a partire dal fatto che prevaleva nei soggetti maschi e con una frequenza

familiare piuttosto elevata. Si pensò quindi che le basi biologiche implicassero

un fattore ereditario, ma le numerose ricerche svolte sull’argomento non hanno

riportato dei validi risultati; altri studi biologici hanno ipotizzato che il ritardo

fosse causato da un deficit percettivo visivo : se risulta danneggiata l’analisi

visiva che rappresenta il primo stadio del processo di lettura, sarà di

conseguenza ostacolata l’integrazione delle informazioni visive con quelle

uditive e il loro magazzino lessicale (Britmeyer & Lovegrove, 1983, 1986 -con

il mascheramento percettivo-; Duffy e coll., 1980- con la riduzione dell’attività

corticale-; Orton, 1937-con una cattiva organizzazione dell’emisfero linguistico-;

Witelson, 1977- che presuppone l’esistenza di due emisferi destri con la

conseguente riduzione delle funzioni linguistiche-; Kinsbourne, 1989-con il

cattivo funzionamento del corpo calloso-). Poteva essere una valida teoria se

non fosse che nei dislessici l’acuità visiva appare normale e la miopia o

l’astigmatismo o lo strabismo non costituiscono la causa della dislessia (Suchoff,

1981); anche secondo Rayner (1983) non ci sono correlazioni significative tra la

durata della fissazione e il numero dei movimenti oculari anche se sono presenti

molte irregolarità e le fissazioni tendono ad essere più lunghe .

4. dislessia come problema relazionale4.1 ipotesi psicodinamicaConsiderando la dislessia come problema relazionale, si vuole fondare

l’approccio educativo sulla concezione psicodinamica della persona , superando

l’ottica di un intervento di tipo curativo-riabilitativo. Infatti se centriamo la 19

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medicina sulla malattia e non sul malato in quanto persona, non facciamo che

aggravare lo stesso disturbo.

L’approccio psicodinamico considera il malato come un uomo, e postula un

intervento tecnico comprensivo e preventivo su tutti i livelli.

Liberando l’handicap da ogni connotazione medica, prende più spazio l’area di

intervento psico-pedagogico-sociale e la prassi riabilitativa si confronta con il

concetto di educazione come rapporto e prospettiva. Soltanto questo modo di

intervenire accresce e permette di modificare il tipo di comunicazione con gli

altri e la relazione con la famiglia, la scuola e la comunità sociale.

Con ciò non si vuole, però , sottovalutare la reale incidenza della dislessia nel

processo di apprendimento, ma considerare che , specie nei soggetti in età

evolutiva, il concetto salute-malattia va affrontato ricercando i limiti della

malattia nella salute e i meccanismi della salute nella malattia. L’educazione non

si fonda quindi sull’esigenza di attuare un programma riabilitativo, bensì di

valorizzare completamente la personalità del bambino e delle sue aree di

sviluppo potenziale.

Ragionare nei termini di un’educazione volta esclusivamente con l’intento di far

acquisire un’abilità, che è quella del leggere, riduce nel bambino l’interesse e la

possibilità di apprenderla provocando disagi e reattività. Occorre quindi

concepire la pratica pedagogico-educativa come prospettiva di sviluppo per

come il bambino è e si rapporterà nelle sue future mete cognitive. E’ importante

perciò cercare di riconoscere presto il bambino dislessico, e alimentare fin dalla

nascita, attraverso i suoi traguardi personali di conoscenza e sviluppo, le sue

competenze e abilità in modo da prevenire eventuali difficoltà di apprendimento.

La comunicazione tra l’adulto e il bambino diventa un momento delicato perchè

si possano porre le basi per la costruzione dei processi di comunicazione futuri.

L’intervento che si vuole dare in questi casi, si estende all’approccio educativo

più globale di tipo psicoterapico che coinvolga le relazioni bambino-educatore o

ancora meglio bambino-famiglia. Infatti tra le cause che portano a una cattiva

relazione e conseguentemente a una cattiva comunicazione tra il bambino e i 20

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suoi genitori, si trovano la scarsa curiosità intellettuale e l’inadeguata

identificazione con loro. L’adulto può trovare fastidiosi e invadenti gli spazi che

il bambino occupa in quelli del genitore non rendendosi egli conto che “il

sopraggiungere di emozioni conduce frequentemente ad una riduzione dell’area

psicologica esistente”(Lewin) ,ostacolando la costruzione degli schemi di

conoscenza e alimentando poi una condotta reattiva; e dietro le incertezze egli

errori comunemente addebitati all’inesperienza, il bambino maschera le sue

difficoltà che troveranno sfogo e esplosione nell’impatto diretto con la lettura

alfabetica a scuola. Nella maggior parte dei casi questo disagio non è

riconosciuto come problema psicologico e l’intervento dell’educatore può

rivelarsi controproducente favorendo così sentimenti negativi di disistima

nell’età infantile e di vere e proprie crisi di identità durante l’adolescenza.

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