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LA FOTOGRAFIA DIAGNOSTICA Macrofotografia a falsi colori in luce radente di un particolare delle decorazioni pittoriche delle volte del Serapeo a Villa Adriana. Foto di Alfredo Corrao / S.B.A.L.

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LA FOTOGRAFIA DIAGNOSTICA

Macrofotografia a falsi colori in luce radente di un particolare delle decorazioni pittoriche delle volte del Serapeo a Villa Adriana. Foto di Alfredo Corrao / S.B.A.L.

L’insieme di indagini scientifiche che forniscono informazioni sullo stato di conservazione e sulla modalità di esecuzione di un oggetto artistico è comunemente conosciuto come “diagnostica artistica”. Tali indagini si avvalgono di diverse tecniche tra cui l’esplorazione, attraverso la fotografia, dello spettro di radiazioni elettromagnetiche sia nel visibile che nell’invisibile.

La fascia di radiazioni che comprende la luce visibile per l’occhio umano è limitata ad una lunghezza d’onda tra i 400 e i 750 nm (nanometri, miliardesimi di metro). Tra questi due valori vi sono le emissioni luminose che generano i colori, dal viola fino al rosso. Al di sotto del viola abbiamo l’ultravioletto, al di sopra del rosso l’infrarosso.

Le radiazioni elettromagnetiche costituiscono una grande famiglia che comprende forme di energia che siamo abituati a considerare molto diverse tra di loro quali calore, onde radio, microonde, ecc. Esse sono caratterizzate da una propagazione “pulsante” che ha fatto sì che si parlasse di onde e, conseguentemente, di lunghezze d’onda.

Attraverso la fotografia si può tuttavia registrare la risposta dei corpi alle radiazioni ultraviolette e, con particolari pellicole, le emissioni IR fino a circa 1200/1300 millimicron (l’infrarosso si estende da circa 700 a 40.000 millimicron).

La fotografia entra quindi con una considerevole importanza nella diagnostica dei beni culturali per via della versatilità del mezzo. Attraverso l’accorto uso delle normali fonti luminose essa è in grado, infatti, di rivelare particolari altrimenti nascosti (come nel caso dell’uso della luce radente in fase di ripresa di dipinti) e tramite la registrazione e la restituzione visiva dei raggi X, o di quelli IR o UV, altrimenti invisibili, permette di attraversare il bene in esame per scoprirne l’effettivo stato di salute e modus costruttivo.

Comparazione di un particolare di un dipinto ripreso in luce visibile (sopra) ed in luce radente (sotto).

Dalla criminologia all’arte La possibilità di fissare su carta, e di riprodurre per condividere e confrontare, le risposte che i beni offrivano a queste radiazioni aprirono alla fotografia un mondo nuovo di tecnologia ed applicazioni e ai beni culturali una più precisa possibilità di indagine. Curiosamente coloro che aprirono la strada della scienza alla fotografia furono i criminologi e le forze di polizia. La necessità - che costoro avevano - di raccogliere e documentare prove spinse i più intraprendenti di loro a sperimentare il mezzo fotografico e le applicazioni della luce, sia quella visibile che quella invisibile, sui diversi tipi di materiali. Nel 1914 Gustav Kögel sperimentò gli effetti della luce ultravioletta su antichi manoscritti recuperando traccia di testi in seguito cancellati ed Edmond Bayle (Direttore del Service d’Identité Judiciaire di Parigi e fondatore della polizia scientifica francese), in quegli stessi anni, identificava un falso Goya attraverso l’analisi spettrale, la radiografia e l’esame della fluorescenza da ultravioletti.

La realizzazione, da parte di Robert W. Wood, nel 1921, di un filtro all’ossido di nichel che consentiva, applicato a lampade a vapori di mercurio, di tagliare la luce ad una lunghezza d’onda compresa fra i 330 ed i 380 nanometri e di eccitare così la fluorescenza dei materiali con la trasmissione di raggi ultravioletti diede un ulteriore impulso a queste ricerche.

Due immagini, una macro a luce visibile ed una alla lampada di Wood, di un “due grana” delle Province Napoletane. La foto agli UV rivela la presenza di macchie causate da funghi o batteri generati dalle colle organiche usate in passato.

Altrettanto, e forse di più, fece l’uso - iniziato in campo artistico poco prima della Grande Guerra - dei raggi X. Usati sulle pitture consentivano una migliore individuazione dei falsi e degli interventi successivi alla prima stesura del colore, sui manufatti in metallo agevolavano la comprensione dei punti di saldatura e, conseguentemente, gli eventuali interventi di restauro.

Dosso Dossi; “Melissa”. Montaggio radiografico. Sono evidenti, oltre ai montanti del telaio, i difetti della tela e le composizioni dei diversi pigmenti che assorbono diversamente le radiazioni.

Foto da “La diagnostica artistica” di Cardinali; De Ruggieri; Falcucci.

L’infrarosso, altrettanto importante nella diagnostica, fu a disposizione del mezzo fotografico relativamente tardi rispetto alla sua scoperta. Fu solo negli anni Trenta, infatti, che si poté iniziare una regolare produzione di pellicole sensibili a tali radiazioni (fino ad una lunghezza d’onda di 1300 nm) con una certa stabilità di emulsione. Con la fotografia ai raggi IR si potevano, in campo pittorico, leggere gli strati inferiori di un dipinto: modifiche, anche dell’autore stesso, disegni preparatori, firme e scritte; quanto coperto dai colori visibili tornava ad essere osservato. Attraverso la risposta, inoltre, dei pigmenti alle sollecitazioni degli IR, si potevano individuare gli interventi di restauro e la loro successione nel tempo.

La scoperta degli infrarossi avvenne nel 1800 grazie all’astronomo inglese Sir William Herschel che, nel corso di un esperimento volto allo studio degli effetti termici della luce solare, fece passare un raggio di sole attraverso un prisma per scinderne la luce nel caratteristico spettro. Muovendo un termometro lungo lo spettro, riuscì a misurare l’effetto termico della radiazione solare nei vari colori, partendo dalla regione del blu verso quella del rosso. Herschel scoprì che proseguendo nello spostamento dello strumento oltre la regione rossa dello spettro, dove non c’è luce visibile, il riscaldamento del termometro continuava. Si scoprì così una nuova regione dello spettro elettromagnetico: quella dell’infrarosso. Le successive applicazioni di questa combinazione radiazione IR/calore portarono successivamente allo sviluppo della termografia.

Il miglioramento delle tecniche diagnostiche, dai primi tentativi, non si è più fermato ed il loro sviluppo ne ha portato la nascita di altre. È il caso della termografia che prende il via dall’evoluzione delle tecniche all’infrarosso. Una volta accertato, infatti, che all’emissione di raggi IR si accompagna un aumento di calore - sempre più intenso man mano che ci si sposta nello spettro - si è provveduto, attraverso appositi apparecchi, a registrare fotograficamente le differenti risposte (traducibili in toni di grigio) dei materiali al loro assorbimento. Altre metodologie di indagine sviluppate in tempi recenti sono la gammagrafia, la stereoradiografia e l’applicazione, su determinati soggetti, della fotografia stereoscopica.

Una applicazione di stereofotogrammetria su di un reperto archeologico per visualizzazioni 3d

Queste, e molte altre, sono tecniche che nella loro metodologia e sviluppo si allontanano dal concetto classico di fotografia (andando ad affermarsi via via come discipline a sé stanti e prettamente scientifiche) ma hanno con questa - nella loro capacità di registrare un documento/immagine su di un supporto cartaceo - una base comune molto più profonda di quanto non si creda.

Analisi alla fluorescenza XRF e, a destra, il suo risultato sul monitor del computer collegato allo spettrometro portatile.

Relatore
Note di presentazione
Rappresentazione grafica di una ricerca

Fotografie nello spettro visibile Fotografia in luce radente

Utilizzo della luce radente su pitture parietali; particolare delle decorazioni pittoriche (in corso di restauro) delle volte del Serapeo a Villa Adriana. Foto di Alfredo Corrao / S.B.A.L.

Nello specifico archeologico l’uso della luce radente riguarda le opere pittoriche su supporti in legno o murali. Le prime rendono, fotografate in tal modo, visibili il numero delle tavole che le compongono, le tracce di eventuali tasselli o nodi, la commettitura e la crettatura; le seconde evidenziano le caratteristiche del supporto mostrandone chiaramente stato di conservazione e tecnica pittorica.

Per i dipinti su tela, dove maggiormente la luce radente è usata, questa tecnica

renderà visibili anche i più piccoli rilievi del colore e della preparazione dovuti

alla stesura del colore, alla planarietà del supporto e allo stato di conservazione.

Grazie ad essa tecnica esecutiva e stato di conservazione dell’opera sono

facilmente leggibili.

Anonimo; Henri IV a la battaille d'Arques. Claude Monet; La gare d'Argenteuil.

Normalmente dipinti ed opere d’arte vengono documentati con fotografie eseguite a luce diffusa, ovvero in condizioni di illuminazione, ricreate anche artificialmente, che rendano leggibile al meglio la composizione, i suoi valori cromatici ed il senso che l’autore ha voluto imprimervi. Per far ciò queste fotografie vengono realizzate eliminando qualsiasi riflesso speculare della superficie che ne possa disturbare la visione cercando, al tempo stesso, di rispettare il più possibile le normali condizioni di osservazione dell’opera. Nella fotografia a fini diagnostici questi principi di ripresa vengono stravolti fino ad ottenere, a volte, immagini in cui l’originale è irriconoscibile.

Il primo passo per esaminare un dipinto con lo scopo di ottenere nuove informazioni sul suo stato di conservazione e sulla tecnica con il quale è stato eseguito consiste nell’illuminarne con un fascio di luce radente la superficie. Per luce radente si intende un fascio luminoso - ottenibile perlopiù in ambienti controllati con fonti d’illuminazione artificiali - parallelo alla superficie o formante con questa un angolo molto ridotto (5-15° al massimo). E’ necessario che questo fascio di luce, la cui intensità è regolabile, sia condensato da delle lenti e ben delimitato, in modo da aumentare il contrasto fra le zone illuminate e quelle che rimangono in ombra e da evitare diffusioni di luce che attenuerebbero l’effetto voluto. I raggi luminosi sono così riflessi in direzioni diverse da quanto accade in una normale ripresa fotografica evidenziando tutti i difetti della superficie.

Jacopo Del Sellaio La Vergine e Bambin Gesu‘ http://www.culture.fr

La tecnica esecutiva del dipinto è svelata dal carattere, il ductus, delle pennellate che sono qui evidenziate dal gioco di luci ed ombre che la luce radente mette in risalto. La forma e l’intensità delle pennellate - il loro rilievo, direzione, larghezza e curvatura - sono la firma implicita dell’autore e questo consente, grazie ai confronti, l’identificazione, oltre che dell’autenticità dell’opera, del periodo in cui egli l’ha realizzata e della scuola di appartenenza.

Inoltre si possono leggere le distorsioni e le congiunzioni fra un pannello e l’altro ed i tipici fenomeni di deformazione, dovuti al tempo e alle variazioni termoigrometriche, delle tavole: imbarcature, svergolature, arcuature, falcature. Lo stato di conservazione dell’opera è così ben documentato, attraverso riprese del totale o di piccole porzioni in macrofotografia, senza alcuna interferenza fisica con essa.

A sinistra, luce radente dall’alto. A destra, luce radente da destra.

Macrofotografia in luce radente di un particolare delle decorazioni pittoriche delle volte del Serapeo a Villa Adriana.

1. Colori reali 2. Falsi colori 1 3. Falsi colori 2 Foto di Alfredo Corrao / S.B.A.L.

Nei dipinti murali la luce radente evidenzia innanzitutto il supporto, lo spessore dell’intonaco, i metodi impiegati per la sua stesura, la sua composizione; gli affreschi romani presentano in genere una parete levigata con un alto grado di lucentezza e riflessione. Con questa tecnica di indagine si può leggere sulla parete il susseguirsi delle giornate lavorative occorse a realizzare l’opera grazie al sottile rilievo che la sovrapposizione dei bordi produce. Indicazioni involontarie - quali impronte digitali dell’autore, segni lasciati da righe, squadre, cartoni - vengono resi evidenti da questa tecnica di illuminazione che permette, inoltre, di registrare lo stato di conservazione dell’affresco palesando eventuali problemi fisici (quali deformazioni, distacchi, fessurazioni, ecc.) e chimici (muffe, efflorescenze saline dovute all’umidità, microcadute dovute alla solfatazione o, nel caso di pitture a secco, sollevamenti e cadute del colore dovuti alla scarsa aderenza dello strato pittorico).

Macrofotografia Nella fotografia diagnostica la macrofotografia è ampiamente usata e singolarmente e combinandola a tecniche diverse che prevedono anche l’uso di radiazioni non visibili. L’osservazione del particolare, che spesso sfugge all’occhio umano, consente - nella fotografia a luce radente, in quella all’infrarosso o all’ultravioletto - infatti di comprendere meglio peculiarità ed eventuali patologie del bene in esame.

A beneficiare maggiormente di questo metodo non invasivo di indagine sono i dipinti e, per quanto concerne le tecniche di lavorazione, le sculture. Sulle pitture la macrofotografia diventa fondamentale nello studio della pennellata e della crettatura (o craquelure).

L’analisi della pennellata, di cui si è già parlato a proposito della luce radente, se fotografata isolata dal contesto e quindi confrontata con immagini, nella stessa scala, provenienti da quadri la cui attribuzione è certa, consente l’identificazione e dell’autore e del periodo in cui questo ha realizzato il dipinto. Operando su diversi gradi di ingrandimento è possibile, inoltre, isolare particolari morfologici che si rivelano distintivi nella produzione di un dato pittore e che ne svelano il percorso artistico. Infine è di grande importanza la possibilità, che il forte ingrandimento permette, di visualizzare gli elementi caratteristici della crettatura che raramente è assente dai dipinti antichi. Oltre a mettere in luce ritocchi, ridipinture e lesioni dello strato pittorico, questo infatti consente di stabilire le cause per le quali la crettatura si è generata: trazioni del supporto (craquelure di invecchiamento), impiego di materiali inadeguati o non compatibili (craquelure di essiccamento).

“Busto di Gabriele Fonseca” del Gian Lorenzo Bernini, macrofotografia. Foto da: Cardinali / De Ruggieri / Falcucci, “Diagnostica artistica”

Macrofotografia in luce radente di un particolare delle decorazioni pittoriche delle volte del Serapeo a Villa Adriana. Foto di Alfredo Corrao / S.B.A.L.

Aldilà dei vantaggi pratici che la fotografia macro apporta nella diagnostica essa è comunque uno strumento indispensabile nella divulgazione. L’archeologia, e i beni culturali in genere, sono pieni di reperti che possono essere apprezzati nella loro intera bellezza solo se visti ad un forte ingrandimento.

La “Gemma Claudia”; probabile prima metà del I secolo d.C.; Kunsthistorisches Museum, Vienna. Foto da http://www.khm.at/homeE3.html

Kunsthistorisches Museum, Vienna. La “Gemma augustea”. Realizzata in onice nei primi anni del I secolo d.C. da Dioscuride (?), è alta 19 cm. Foto da http://www.khm.at/homeE3.html

Particolare di fermatreccia in bronzo; VIII-VII sec. a.C., Museo Nazionale Archeologico di Cassino.

Foto di Alfredo Corrao, S.B.A.L.

Particolare di fibula con arco in bronzo rivestito con elementi in ambra; VIII-VII sec. a.C., Museo Nazionale Archeologico di Cassino. Foto di Alfredo Corrao, S.B.A.L.

GLI ACCESSORI PER LA FOTO MACRO

Museo civico S. Angelo Romano. Bottone da sepolture pre romane rinvenute in località “Le Caprine”. Foto A. Corrao / S.B.A.L.

La macrofotografia è, in ambito fotografico, un aspetto della professione a cui si dedicano - per motivi diversi - molti operatori dell’immagine. Usata nella fotografia naturalistica, scientifica, documentativa e sperimentale comporta l’uso di particolari ottiche (dette “macro”) od accessori (tubi di prolunga, soffietti) che consentono la riproduzione fino a scala 1:1 di quanto fotografato. Le problematiche tecniche di questo tipo di fotografia sono legate perlopiù all’illuminazione del soggetto (la quale cambia nelle sue fonti e modalità a seconda di ciò che si riprende e di cosa si vuole ottenere) ed alla scarsa profondità di campo che obbliga a lavorare con diaframmi molto chiusi.

Soffietto di prolunga Nikon

LA PROFONDITÀ DI CAMPO (P.d.C.) è lo spazio in cui un soggetto può muoversi restando a fuoco. Si estende per 1/3 davanti e per 2/3 dietro il punto di messa a fuoco e dipende da tre fattori: focale usata (più è corta e maggiore è la P.d.C.); diaframma usato (più è chiuso e maggiore è la P.d.C.); punto di messa a fuoco (più è lontano e maggiore è la P.d.C.).

L'OBIETTIVO MACRO Un obiettivo macro è un obiettivo appositamente progettato per ottenere un'immagine il più possibile fedele nelle riprese ravvicinate, eliminando le aberrazioni che nelle distanze di messa a fuoco più ravvicinate negli obiettivi normali sono molto evidenti. Molti obiettivi macro dispongono di particolari ghiere di allungamento che consentono, entro certi limiti, di evitare l'uso di tubi o soffietti. L'unione di un obiettivo progettato per riprese macro e di tubi di prolunga o meglio di un soffietto però costituisce il sistema migliore e più professionale per effettuare riprese macro di grande fedeltà con immagini nette e precise e fortissimi fattori di ingrandimento.

IL SOFFIETTO Questo accessorio consente un esatto “tiraggio” della distanza ottica/piano pellicola. È in assoluto il miglio sistema per ottenere immagini macro e micro fotografiche di alta qualità ma il suo uso è consigliato a fotografi con una certa esperienza in quanto il calcolo dell’esposizione e del rapporto macro necessitano di molta attenzione. Il suo uso, inoltre, è decisamente poco pratico il che lo rende maggiormente adatto a fotografie da studio.

GLI ANELLI DI INVERSIONE DELL'OTTICA Chi non vuole o non può affrontare la spesa di un obiettivo macro può ricorrere all'impiego di un obiettivo normale montato rovesciato. In tal modo si minimizzano le aberrazioni alle distanze ravvicinate e si facilita la messa a fuoco da vicino. Per far questo esistono i cosiddetti anelli di inversione dell'ottica che con un apposito attacco consentono di montare l'obiettivo sulla macchina fotografica al rovescio. Questo sistema però non consente di conservare i vari automatismi, né quello del tempo e del diaframma (che andranno impostati a mano) né quello dell'autofocus. Il sistema funziona bene con gli obiettivi di focale compresa tra 24 mm. e 50 mm. Con gli obiettivi grandangolari consente di ottenere facilmente rapporti di ingrandimento spinti, senza compromettere la qualità dell'immagine. Non funziona invece con i teleobiettivi e gli zoom.

I TUBI DI PROLUNGA Sono dei tubi particolari di diversa lunghezza che vanno interposti tra il corpo macchina e l'obiettivo al fine di allungare la distanza tra macchina ed obiettivo, avvicinando così il soggetto. Con essi si può ottenere un'ampia gamma di rapporti di riproduzione, si usano singolarmente o in combinazione, secondo quanto ci si vuole avvicinare e conservano sia l'automatismo del diaframma che l'accoppiamento all'esposimetro. E' quindi possibile inquadrare, focheggiare e misurare l'esposizione nelle migliori condizioni di luminosità, senza dover procedere alla chiusura manuale del diaframma prima dello scatto. Consentono anche il controllo automatico dell'esposizione come in una normale fotografia. A tanti vantaggi corrisponde un'unico neo: la perdita di luminosità dell'obiettivo che ovviamente varia in base alla lunghezza del o dei tubi usati. Generalmente però essa non è troppo forte e viene ben compensata se le misurazioni vengono fatte con l'esposimetro della macchina fotografica.

LE LENTI ADDIZIONALI Con esse si fa in modo che la lunghezza focale dell'obiettivo venga corretta esattamente come accade a chi porta gli occhiali. Sono delle lenti biconvesse montate su un apposito supporto che in genere si avvitano direttamente sulla ghiera portafiltri della macchina fotografica e rappresentano il sistema più semplice ed economico per ridurre la messa a fuoco minima dell'obiettivo. L'uso di queste lenti non pregiudica la misurazione esposimetrica TTL e l'automatismo di esposizione. Per incrementare il contrasto dell' immagine e minimizzare le riflessioni le moderne lenti addizionali dispongono tutte di un particolare trattamento antiriflesso e spesso sono costruite a strati o con elementi apocromatici in grado di assicurare un'elevata qualità di immagine.

Si distingue dalla macrofotografia la microfotografia.

Microfotografia. Stratigrafia di una sezione del dipinto di Jacopo del Sellaio “La Vergine e il Bambin Gesù” Foto da http://www.culture.gouv.fr

Microfotografia dei pigmenti. Claude Monet; “Falaises pres de Dieppe”, olio su tela. Foto da http://www.culture.gouv.fr

Fotografie in microscopia elettronica SEM (145.000x). Analisi della trama del tessuto di un abito di età romana proveniente dalla cd “Tomba di Carvilio” a Grottaferrata (Rm). Foto di Mauro Rubini, Servizio di Antropologia S.B.A.L.

FOTOGRAFIA IN LUCE TRASMESSA

L’esame in luce trasmessa, o transilluminazione, consente la comprensione delle caratteristiche di un dipinto semplicemente tramite l’osservazione dei raggi luminosi che, provenienti da una fonte posta alle spalle del quadro, attraversano la tela e i vari strati pittorici che la ricoprono.

Il dipinto viene sistemato tra la fonte di illuminazione e la macchina fotografica, posta in asse con il centro di questi al fine di evitare distorsioni, e quindi fotografato nella sua interezza e nei particolari giudicati più interessanti. L’uso di lampade in grado di sviluppare molto calore è potenzialmente dannoso per il dipinto stesso, soprattutto quando il raggio è concentrato su una porzione della tela, e pertanto è consigliato l’uso di opportune fonti di illuminazione - quali le fibre ottiche - o, in loro assenza, di tempi di lavoro molto rapidi. La fotografia così ottenuta mostrerà - così come l’osservazione diretta - le diverse quantità di luce che riusciranno ad attraversare gli strati del dipinto rivelando crettature, ritocchi (riconoscibili dalla variazione dell’intensità luminosa: minore quando il suo spessore, o i materiali di cui è composto, sono più opachi alla luce di quanto non lo sia il colore originale, maggiore quando gli strati originali sono parzialmente o totalmente mancanti), estensione e forma di eventuali lacerazioni o strappi del supporto poi riparate con l’applicazione di una toppa sul retro dell’opera.

W. Bouguereau; “Cavallo”, 1892 ca. Fotografia all’infrarosso trasmesso.

L’eventuale evidenziazione di zone con una forte luminosità può anche sottintendere la presenza di una pittura abrasa (fortemente ridotta, per vari motivi, nel suo spessore) o all’uso, da parte dell’autore, di materiali con un potere coprente più basso degli altri. Naturalmente non tutti i dipinti su tela sono leggibili in luce trasmessa: alcuni supporti sono ricoperti da strati pittorici densi ed opachi che bloccano quasi totalmente la transilluminazione ed in questi casi il ricorso a tecniche quali la fluorescenza UV o la fotografia agli infrarossi è indispensabile.

FOTOGRAFIE NELLO SPETTRO INVISIBILE

Un oggetto investito da raggi UV reagisce nello stesso modo in cui si comporta quando a colpirlo sono le radiazioni dello spettro visibile: in parte le assorbe, in parte le riflette, in parte le trasmette. La riflessione dei raggi UV viene parzialmente registrata dalle pellicole dando luogo alla fotografia ad ultravioletto riflesso, una metodica poco usata in diagnostica; l’assorbimento produce, invece, un fenomeno più rilevante: un’eccitazione delle molecole dei componenti dell’oggetto. Nel passaggio dalla fase di eccitazione indotta dall’irraggiamento UV al ripristino del normale livello energetico vi è un’emissione di fotoni aventi un’energia minore rispetto a quelli che avevano colpito l’oggetto. In sostanza i materiali riflettono radiazioni con una lunghezza d’onda diversa da quella incidente e - visto che le radiazioni meno energetiche sono quelle con una lunghezza d’onda maggiore - ecco che i fotoni di ritorno, prima invisibili, ricadono ora nello spettro del visibile. È possibile così osservare, tramite questo processo detto di fluorescenza, i raggi UV e i loro effetti.

FOTOGRAFIA DELLA FLUORESCENZA UV

La pellicola fotografica, nel registrare tutto ciò, fissa inoltre anche le fluorescenze più deboli, quelle che in genere l’occhio umano non riesce a percepire. Questa metodologia di ricerca è applicabile ad ogni sorta di bene culturale di cui si voglia indagare la superficie: i raggi UV, infatti, non sono in grado di dare risposte relative agli strati sottostanti quello esterno e proprio per questo viene usata principalmente per le pitture. Anche tessuti, ceramiche e smalti sono oggetti di tale metodica usata in archeologia per i manufatti lapidei, lignei e quelli, più rari, in avorio.

Un particolare, ripreso con la tecnica della fluorescenza UV, delle decorazioni pittoriche del Serapeo di Villa Adriana attualmente oggetto di una campagna di restauro. Foto F.lli Fabretti

Ripresa nello spettro visibile. Lo stesso punto fotografato in fluorescenza UV. L’uso di tale tecnica ha permesso di individuare disomogeneità composizionali dovute ad interventi successivi e di pervenire alla ricostruzione della vicenda conservativa oltre che di ottenere informazioni sulla qualità e natura di alcuni pigmenti (in particolare si è potuto riconoscere nel giallo delle riquadrature un pigmento a base ferrosa, probabilmente un’ocra gialla). Entrambe le foto sono dei F.lli Fabretti

Le zone ricoperte da una foglia d’oro risultano completamente scure agli UV, e quindi non fluorescenti, dal momento che è stata eliminata in ripresa la componente riflessa della emissione visibile a cui le lampade di Wood sono sensibili. Particolare della cuspide esaminato alla lampada di Wood: si nota una lieve crettatura non visibile nelle altre due immagini.

Lorenzo Monaco; Incoronazione della Vergine

Sui dipinti, sia quelli su tela che quelli su tavole, le differenti luminosità osservabili quando questi vengono illuminati da una lampada UV sono in funzione non solo della composizione chimica delle varie sostanze che costituiscono la vernice protettiva e gli strati pittorici, ma variano anche in base al tempo che è trascorso da quando questi materiali sono stati applicati. Ecco perché con questo esame è spesso agevole differenziare le ridipinture dalla pittura originale: i materiali sovrapposti, essendo meno antichi, risultano più scuri.

Fotografia in fluorescenza UV dell’anello rinvenuto nella cd “Tomba di Carvilio” a Grottaferrata (Rm).

Foto in luce visibile e agli UV di un dipinto su tavola

Per riconoscere i restauri la sola tecnica della fluorescenza UV può però non bastare in quanto questi potrebbero essere stati eseguiti a breve distanza di tempo dall’esecuzione dell’originale; a rendere il tutto più complicato vi è inoltre la forte fluorescenza che molte vernici protettive sovrapposte al colore mostrano (spesso, infatti, queste hanno una fluorescenza maggiore di quella dello strato pittorico sottostante rendendolo di difficile interpretazione).

Le lacune delle vernici antiche, quando sono in corrispondenza di zone di pittura scura e quindi poco fluorescenti benché originali, possono anche apparire sotto forma di macchie molto scure spesso difficili da distinguere da una ridipintura; per questo, e per il fatto che l’ultravioletto indaga solo la superficie pittorica, è importante il costante confronto con le indagini all’infrarosso e le radiografie. Generalmente, comunque, ritocchi e restauri sullo strato pittorico sono riconoscibili dalla presenza di zone più o meno scure che si presentano come macchie o come segni di pennellate. Queste differenze cromatiche renderanno la loro successione temporale attraverso il loro grado di luminosità.

L’applicazione di questa tecnica permette inoltre di riconoscere l’uso di pigmenti diversi - ma appartenenti alle stesse classi cromatiche nello spettro del visibile - che ad una osservazione in luce bianca non sono distinguibili tra loro. A materiali diversi corrisponderanno, così, colori ed intensità diversi di fluorescenza. Con un’unica immagine è pertanto possibile comprendere non solo quali e quanti tipi di pigmenti siano stati usati dall’artista nel suo lavoro, ma anche la precisa localizzazione - sulla superficie pittorica - della loro applicazione.

Anonimo; “Henri IV a la battaille d’Arques”. Immagine in luce visibile (sopra) e alla lampada di Wood (sotto). Foto da http://www.culture.fr

Claude Monet; “La gare d’Argenteuil”. Fotografia in luce visibile e, sotto, foto UV in B/N e a colori. La ripresa, in fluorescenza UV del dipinto. L’opera, insieme a migliaia di altre, è stata sottoposta dal Governo francese ad una campagna fotografica diagnostica (il Progetto Narcisse - Network of Art Research Computer Image SyStems in Europe - che contiene più di 15.000 opere per un totale di quasi 40.000 foto) con una serie di immagini sia nello spettro del visibile, sia in quello invisibile. Le immagini e le dettagliate informazioni relative al quadro sono state poi acquisite in alta definizione ed archiviate in banche dati multimediali. Tutte sono disponibili sul sito http://www.culture.fr/cgi-bin/wave.cgi?dqi=lrmf&icon=/documentation/icones

L’uso della fotografia alla fluorescenza indotta dagli ultravioletti su materiali diversi dalle pitture è ancora poco praticato e documentato. Stampe, disegni e manoscritti possono essere studiati e meglio interpretati per la possibilità, che la fluorescenza consente, di leggere zone scolorite o cancellate più o meno intenzionalmente. L’inchiostro nero, scarsamente fluorescente, darà una risposta tonale tendente al bruno se antico e al violetto scuro se recente; ciò consente di scoprire restauri o falsificazioni. Anche l’eventuale presenza di supporti cartacei diversi diventa evidente con questo metodo di indagine che permette, tra l’altro, di riconoscere la presenza di sostanze organiche dannose (muffe, ecc.).

Sui materiali lapidei quali sculture o manufatti l’esame alla fluorescenza mette in evidenza i restauri (i diversi tipi di marmo, ad esempio, rispondono differentemente) e la presenza di materie organiche altrimenti invisibili quali residui di pittura, resini o cere. Per quanto concerne lo stato di conservazione del bene, la fluorescenza rivela il fenomeno del degrado del marmo in gesso (la trasformazione del carbonato di calcio - costitutivo del marmo - in solfato di calcio [gesso] è una realtà che colpisce molte sculture od elementi architettonici esposti all’aperto) in quanto questo si presenta di un bianco più intenso rispetto alle zone sane. La risposta cromatica di un manufatto antico esente da tracce organiche è di un bianco con zone giallastre tendenti al blu, quella di uno di recente lavorazione è, invece, di un deciso viola/porpora.

Tecnicamente la realizzazione di fotografie all’UV è semplice: il soggetto viene illuminato esclusivamente da lampade ai vapori di mercurio schermate con filtri all’ossido di nickel comunemente dette di Wood (dal loro inventore) la cui lunghezza d’onda va dai 320 ai 400 nm. Gli schemi di illuminazione sono gli stessi usati con le normali fonti luminose e nel caso di una superficie planimetrica come quella di un dipinto si cercherà di sottoporre lo stesso ad un’illuminazione costante in ogni sua parte. Il modo più semplice è quello di disporre le lampade rispettivamente a sinistra e a destra del soggetto con un’inclinazione di 45° e ad un’altezza che cade all’incirca alla sua metà. La macchina fotografica deve essere in asse col centro del dipinto per evitare deformazioni ottiche e, per lo stesso motivo, non deve montare focali corte. Un comune filtro UV, montato sull’obbiettivo, impedirà inoltre ai raggi ultravioletti riflessi di raggiungere la pellicola che, come si è già detto, è tarata per i 5.500 K (daylight) e di bassa sensibilità. L’esposizione, generalmente lunga, varia in funzione dell’intensità della fluorescenza emessa dal soggetto stesso.

Dal modo di illuminare, e dalla lunghezza d’onda delle lampade, cambia, comunque, il risultato finale.

Oggi l’apporto del digitale sta comunque modificando, come tutta la diagnostica, anche la metodologia di analisi tramite la fluorescenza UV. L’immagine viene registrata su sensori, di fotocamere o telecamere digitali, letta “in diretta” sul monitor del PC ad esse collegato ed elaborata per ottenere un risultato cromaticamente corretto (molta attenzione viene fatta affinché i tre canali RGB siano il più possibile conformi agli standard delle curve di tristimolo1) pur partendo dalla constatazione che la fluorescenza è visibile per emissione, e non per riflessione, di luce. Interessanti ricerche ed esperimenti sono stati condotti, in questo senso, da ricercatori del CNR di Firenze in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

1Poiché la visione umana a colori è dovuta a tre distinti recettori sensibili, immagini colorimetricamente corrette si ottengono combinando linearmente la risposta di tre canali (Rosso, Verde, Blu) la cui trasmissione abbia le caratteristiche delle tre curve di tristimolo, ovvero delle curve di sensibilità di ciascuno dei tre recettori.

FOTOGRAFIA ALL’INFRAROSSO

Sul lato opposto, rispetto agli ultravioletti, dello spettro visibile vi sono le radiazioni infrarosse. Queste si distinguono in gruppi (NIR, MIR, FIR) a seconda della minore o maggiore vicinanza dalla luce visibile e, insieme, occupano uno spazio dello spettro elettromagnetico che va dai 750 ai (circa) 40.000 nm, dove confinano con le microonde. E se i raggi UV si “limitano” ad esplorare gli strati superficiali del soggetto, gli IR, al contrario, penetrano nel soggetto tanto più profondamente tanto più è alta la loro lunghezza d’onda. Essi si riflettono in maniera differente dai raggi “visibili” in quanto il loro assorbimento è condizionato dalle proprietà fisico/chimiche dell’oggetto che ne viene illuminato. Questa diversità di risposta dei raggi IR è quella che consente, all’analisi diagnostica, di studiare le condizioni dell’opera in esame.

In natura foschia e nebbia leggera sono attraversate dai raggi IR in misura maggiore rispetto alla luce visibile; acqua e superficie del cielo li assorbono completamente (mostrandosi in fotografia praticamente neri); sostanze organiche come la clorofilla, invece, li riflettono quasi completamente apparendo estremamente luminosi se non addirittura bianchi.

Lo stesso punto di verde di una foglia apparirà diverso se ottenuto con pigmenti chimici e due piante apparentemente verdi allo stesso modo diverranno, in fotografia, molto diverse se le loro foglie conterranno differenti quantitativi di clorofilla (a seconda dello stato di salute, ad esempio).

La radiazione infrarossa attraversa completamente la superficie pittorica per essere poi diffusa (in maniera diversa a seconda del tipo di pigmento impiegato, dal suo spessore, dalla sua macinazione, dalla natura e dalla quantità del legante, dal colore e, infine, dalla lunghezza d’onda della radiazione stessa) all’esterno dove il supporto fotografico la registrerà come contrasti che dal bianco della piena riflessione, attraverso una gamma di grigi, arriveranno al nero del pieno assorbimento. Registrare in un’immagine tutto ciò consente di ottenere risposte a molteplici domande quando si esamina, ai fini diagnostici, un manufatto quale un dipinto: vi sono disegni preparatori sotto la superficie dell’opera? Ripensamenti, lacune? E ancora: vi sono stati ritocchi, interventi di falsificazione?

I disegni preparatori, le ridipinture diventano visibili ai raggi IR - in maniera tanto maggiore quanto più sono trasparenti gli strati superiori - permettendo la migliore comprensione dell’opera, dello stile dell’autore, della storia del dipinto e di poter quindi valutare come intervenire in fase di restauro.

Antonio Caneletto, “Veduta di piazza San Marco a Venezia” XVIII secolo.

Anonimo; “Saint Sebastien a la lanterne”, pittura a olio esposta presso il Musée des Beaux-Arts di Orléans.

Un altro aspetto dell’uso della fotografia agli IR riguarda l’individuazione delle parti non originali. Le radiazioni visibili infatti, pur colpendo materiali di diversa natura chimica possono dar luogo ad una risposta simile tanto da far assumere a questi lo stesso colore. Ciò succede, ad esempio, con il verdigris e il verde di cobalto, con l’azzurrite ed il blu oltremare artificiale. Non necessariamente, però, tali materiali hanno lo stesso comportamento nelle altre regioni dello spettro. Pertanto molti pigmenti stesi sulla pittura, puri o in mescolanza tra loro, che appaiono dello stesso colore (e perciò indistinguibili) nel visibile nella fotografia all’infrarosso appariranno più chiari o più scuri. Dato che l’uso di materiali differenti, ma dello stesso colore, sulla superficie di un opera può derivare da ridipinture o da altri interventi di restauro, è chiara l’importanza dell’applicazione di tale tecnica diagnostica.

Fotografie agli infrarossi per le decorazioni pittoriche del Serapeo di Villa Adriana. L’analisi agli infrarossi, sfruttando la maggiore trasparenza dei materiali pittorici alle radiazioni ad onda lunga, ha rivelato interessanti particolari sull’esecuzione delle opere quali il ductus delle pennellate e la presenza di un disegno preparatorio realizzato in nero vegetale. Mediante l’analisi delle disomogeneità di riflettanza nella banda spettrale dell’I.R. risultano inoltre confermati alcuni dati su interventi successivi e sui pigmenti utilizzati già acquisiti per mezzo degli U.V.

Per tentare, inoltre, di stabilire quanto della superficie di un dipinto è originale, si può ricorrere alla tecnica dell’infrarosso colore che registra il comportamento delle radiazioni IR e, contemporaneamente, quello di una parte dello spettro visibile. Utilizzando quindi una pellicola IR a colori ed anteponendo all’obiettivo un filtro che tagli completamente le radiazioni blu, registreremo sulla stessa immagine le radiazioni verdi, rosse e infrarosse riflesse dal dipinto. A queste la pellicola attribuisce dei colori arbitrari: l’IR risulterà rosso, il rosso e il verde risulteranno rispettivamente verde e blu: i cosiddetti falsi colori. L’osservazione dei colori così ottenuti permetterà di valutare l’eventuale presenza di materiali diversi differenziando pigmenti apparentemente simili: il verde rame e il verde di cobalto, ad esempio, si mostreranno il primo magenta e il secondo blu; una colorazione apparentemente di un rosso uniforme si può differenziare in giallo (se sono usati il cinabro o la lacca carminio), verde (se è stato usato il rosso veneziano), ecc.

Particolare delle decorazioni pittoriche del Serapeo di Villa Adriana; visibile e IR riflesso

Aldilà delle sue indubbie capacità di mostrare gli strati sottogiacenti a quello visibile, gli IR sono utilizzati anche per comprendere il tipo di pigmento utilizzato dall’autore. Molti studi sono stati fatti in proposito e dal modo in cui la radiazione infrarossa è assorbita, riflessa, trasmessa dalla materia pittorica si può risalire al tipo di pigmento (organico, inorganico, ecc.). Nel caso i leganti usati fossero acquosi o semi-acquosi la trasparenza agli IR è alta; laddove fossero, invece, usati quelli oleosi la trasparenza - e relativa leggibilità, diminuisce. La fotografia all’infrarosso, ed ancora di più la riflettografia IR (tecnica messa a punto dallo scienziato olandese Jan Van Asperen De Boer e che sfrutta una lunghezza d’onda intorno ai 1800 nm), permette quindi - con la sua capacità di attraversare gli strati superficiali e di riflettersi a seconda della natura chimica e fisica dei materiali - di analizzare il dipinto là dove, ad una semplice visione, nulla di anomalo sembra apparire.

Viste le possibilità offerte dalla ripresa IR è semplice intuire il ruolo che gli infrarossi hanno nel campo della diagnostica di documenti e dipinti

L’uso della pellicola, come supporto dell’immagine agli IR, sta progressivamente lasciando spazio ai sensori della fotografia digitale - che hanno al loro attivo una praticità d’uso ed un’estensione maggiore nello spettro - ma la sua definizione è ancora, per certi versi, insuperata. I film sensibilizzati agli IR hanno generalmente un taglio intorno ai 900 nm anche se esistono pellicole che arrivano fino ai 1350 nm. Queste ultime, però, hanno ancora più delle altre necessità di trattamenti molto particolari in quanto estremamente sensibili al calore. Tutte, comunque, vanno caricate e scaricate al buio più assoluto (indispensabile un sacco nero per gli esterni) e sviluppate al più presto per prevenirne la velatura. Sono ormai poche le ditte che producono film e rivelatori per gli infrarossi e tale materiale, così come il loro trattamento, risulta essere relativamente costoso.

Foto in luce visibile riflessa della “Madonna con bambino” di Giovanni Bellini e particolare della riflettografia I.R. eseguita sull’opera dal laboratorio di Archeometria dell’Università di Milano in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Ottica (INO) di Firenze utilizzando uno scanner I.R. ad alta risoluzione. Il disegno preparatorio del bambino e del vestito di Maria è estremamente nitido e si può, così, apprezzare appieno il lavoro dell’artista.

RIFLETTOGRAFIA

ALL’INFRAROSSO

I limiti della fotografia all’infrarosso, residenti nella limitata escursione nello spettro IR (dai 900 ai 1350 nm), vengono compensati, nella necessità di un esame più approfondito su strati pittorici scarsamente penetrabili a quelle lunghezze d’onda, dall’uso della riflettografia infrarossa che si spinge fino ai 2100/2200 nm con i tubi VIDICON e 1100/1200 nm con i sensori CCD, esenti da aberrazioni e con una più alta risoluzione. La riflettografia IR si è sviluppata inizialmente utilizzando telecamere del tipo televisivo a cui erano applicate tubi del tipo vidicon (un particolare tubo catodico al solfuro di piombo - PbS - sensibilizzato agli IR fino ai 2100/2200 nm e con un picco di sensibilità intorno ai 1800 nm) che, a seconda della quantità di luce che lo colpisce, fa scorrere - attraverso la scansione di un pennello elettronico e con un’intensità ad essa proporzionale - una corrente elettrica. Questa, una volta decodificata, mostrerà su di un monitor ad alta risoluzione l’immagine inquadrata che, a questo punto, può essere registrata o fotografando il monitor con una normale fotocamera o riversando le sequenze su nastro magnetico o, ancora meglio, acquisendo e digitalizzando, tramite una scheda video, l’immagine direttamente su computer dove può essere successivamente elaborata e montata.

Tale sistema, pur offrendo un chiaro miglioramento nella lettura di strati profondi o di pigmenti altrimenti illeggibili nella normale fotografia IR, presenta evidenti limiti qualitativi dovuti e alla bassa risoluzione del sistema televisivo e alla convessità del tubo/sensore vidicon; la somma di queste due caratteristiche fa infatti sì che della superficie di un dipinto si possano riprendere solo piccole porzioni da montare poi in un foto mosaico. Per ovviare alle palesi difficoltà che un simile sistema presenta (di tipo anche logistico dovendo collegare telecamera, monitor, pc e/o videoregistratore) si è passati ad usare particolari telecamere - o fotocamere - dotate di sensore piano del tipo, generalmente, CCD.

O. Gentileschi; “San Michele Arcangelo”. In alto foto in luce visibile, in basso montaggio digitale di 12 riflettogrammi IR.

Una maggior praticità d’uso, una memoria praticamente inesauribile - grazie alle schede intercambiabili - e un risultato in formato digitale già pronto, quindi, ad essere elaborato, archiviato e comparato, hanno fatto sì che i sensori CCD prendessero rapidamente il posto dei vidicon. Ultimamente si è cercato di migliorare ancora di più la riflettografia IR attraverso l’utilizzo di uno scanner appositamente progettato; questo ha un’alta risoluzione ed è capace di analizzare aree grandi fino a quasi un metro quadro fornendo immagini prive di distorsioni geometriche con un ottimo contrasto ed illuminate in maniera omogenea da una piccola fonte luminosa che si muove insieme al sensore. L’immagine digitale permette di elaborare al computer caratteristiche come contrasto, nitidezza e luminosità semplicemente intervenendo sulle curve di tali parametri. Inoltre è possibile restituire le immagini con falsi colori che, contrariamente a quanto succede con le pellicole, possono, volendo, anche essere assegnati arbitrariamente.

Ambrogio Bergognone; “Cristo portacroce con Certosini.

Raffaello; ritratto di Francesco Maria della Rovere (particolare). Firenze, Galleria degli Uffizi. In questa sovrapposizione tra immagine riflettografica e fotografia a luce visibile, è possibile apprezzare come la riflettografia abbia messo in luce un disegno sottostante che imposta, con tratti schematici, i lineamenti del volto.