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LA RESISTENZA ITALIANA E GLI ALLEATI (*) Quando Mussolini dichiarò la guerra alla Francia, il io giugno 1940, gli elementi che portarono alla sconfitta dell’Italia fascista, alla resistenza e alla nascita dell’Italia repubblicana erano già pre- senti. Il problema essenziale fu anzi posto quel giorno: come avreb- be reagito il fascismo alla guerra e quali forze si sarebbero sprigiona- te dalla nazione italiana? Era un’esperienza nuova e tragica, che ave- va un valore generale, per tutta l’Europa. Quale era la vera natura e quale la solidità dei nazionalismi, dei fascismi, e in particolare di quello italiano? La proclamata volontà del fascismo di essere e di rappresentare l’anti-Europa avrebbe retto alla prova dei fatti? E il popolo italiano sarebbe stato in grado di esplicare una propria azio- ne, di affermare una propria volontà di tornare ad essere Europa, di inserirsi nel mondo delle nazioni libere? La risposta a queste domande stava anch’essa in germe nella realtà che sfociava, il io giugno 1940, alla guerra. Il fascismo era in grado di inserirsi nel conflitto mondiale, ma la sua debolezza e la sua crisi interna già prometteva la catastrofe. Le vecchie classi diri- genti, simboleggiate dalla monarchia, espresse nei comandi militari, nei ministeri, nelle ambasciate, nelle prefetture, legate alla struttura dello stato italiano tradizionale, dimostrarono quel giorno di non essere capaci di opporsi al fascismo e alla sua politica di guerra. Mu- te assistevano al compiersi di un destino che esse avevano tanto contribuito a mettere in movimento venti anni prima e che ora le sovrastava come una fatalità ineluttabile. La società italiana, ancora tutta anchilosata e chiusa quel giorno nello stato corporativo e ditta- toriale era ancora strumento passivo nelle mani di Mussolini. Come avrebbe reagito di fronte alla guerra? Dalla triste partenza dei sol- dati , il io giugno 1940, verso le Alpi, alle dure mobilitazioni e battaglie che seguirono in Africa, nei Balcani, in Russia, ovun- que la pazza strategia del dittatore disperse le forze italiane, dalle prime reazioni incredule e impensierite all’approfondirsi ogni gior- no più grave della crisi italiana, si accumularono di fronte alla co- scienza e alla volontà del paese i problemi essenziali. Perchè questa (*) Relazione italiana presentata al II Congresso internazionale di storia della Resistenza europea, del quale si dà notizia alle pagg. 93-94 di questo stesso fascicolo.

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LA RESISTENZA ITALIANA E GLI ALLEATI (*)

Quando Mussolini dichiarò la guerra alla Francia, il io giugno 1940, gli elementi che portarono alla sconfitta dell’Italia fascista, alla resistenza e alla nascita dell’Italia repubblicana erano già pre- senti. Il problema essenziale fu anzi posto quel giorno: come avreb- be reagito il fascismo alla guerra e quali forze si sarebbero sprigiona­te dalla nazione italiana? Era un’esperienza nuova e tragica, che ave­va un valore generale, per tutta l’Europa. Quale era la vera natura e quale la solidità dei nazionalismi, dei fascismi, e in particolare di quello italiano? La proclamata volontà del fascismo di essere e di rappresentare l’anti-Europa avrebbe retto alla prova dei fatti? E il popolo italiano sarebbe stato in grado di esplicare una propria azio­ne, di affermare una propria volontà di tornare ad essere Europa, di inserirsi nel mondo delle nazioni libere?

La risposta a queste domande stava anch’essa in germe nella realtà che sfociava, il io giugno 1940, alla guerra. Il fascismo era in grado di inserirsi nel conflitto mondiale, ma la sua debolezza e la sua crisi interna già prometteva la catastrofe. Le vecchie classi diri­genti, simboleggiate dalla monarchia, espresse nei comandi militari, nei ministeri, nelle ambasciate, nelle prefetture, legate alla struttura dello stato italiano tradizionale, dimostrarono quel giorno di non essere capaci di opporsi al fascismo e alla sua politica di guerra. Mu­te assistevano al compiersi di un destino che esse avevano tanto contribuito a mettere in movimento venti anni prima e che ora le sovrastava come una fatalità ineluttabile. La società italiana, ancora tutta anchilosata e chiusa quel giorno nello stato corporativo e ditta­toriale era ancora strumento passivo nelle mani di Mussolini. Come avrebbe reagito di fronte alla guerra? Dalla triste partenza dei sol­dati , il io giugno 1940, verso le Alpi, alle dure mobilitazioni e battaglie che seguirono in Africa, nei Balcani, in Russia, ovun­que la pazza strategia del dittatore disperse le forze italiane, dalle prime reazioni incredule e impensierite all’approfondirsi ogni gior­no più grave della crisi italiana, si accumularono di fronte alla co­scienza e alla volontà del paese i problemi essenziali. Perchè questa

(*) Relazione italiana presentata al II Congresso internazionale di storia della Resistenza europea, del quale si dà notizia alle pagg. 93-94 di questo stesso fascicolo.

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guerra? Perchè dalla parte di Hitler? Perchè contro le Nazioni uni' te? Perchè contro la Francia, l’Inghilterra, la Russia, gli Stati Uniti e tutti gli altri stati che combattevano fascismo e nazismo? Il risub tato di questa evoluzione, la risposta a questi interrogativi si chia- mera la resistenza. Ma lunghi anni di incubazione, di lacerazioni e di sconfitte saranno necessari perchè essa possa nascere.

Il tema che oggi dobbiamo esaminare — la resistenza italiana e gli alleati — potrebbe dunque essere quasi tautologico. La resistem za e la risposta degli italiani, di quegli italiani che ad essa parted' parono, ai problemi posti dalla guerra fascista, alla sua origine, ai suoi sviluppi e al suo interrompersi nella sconfitta, sono praticarne ̂te la stessa cosa. Battersi per la libertà interna e per il passaggio deh l’Italia dalla parte degli alleati costituisce un solo ed unico processo storico, difficile e complicato come tutte le grandi crisi storiche, e che qui esamineremo soltanto nelle grandi linee.

Non dunque storia diplomatica, come può essere stata, almeno in misura maggiore, in altri paesi, i cui governi o movimenti dellV silio e della resistenza cercarono nei rapporti con gli alleati i mezzi, le modalità, le opportunità di un inserimento dei loro sforzi in quelli generali delle Nazioni unite. Per gli italiani liberi non si trattò della continuazione della guerra in altre condizioni e con altri mezzi, e neppure di un rovesciamento di fronte (che non riuscì alla monar' chia), ma della riscoperta da parte di tutto un popolo d’una diversa realtà internazionale — dal contatto con i prigionieri a quello con le missioni alleate, con partigiani di altri paesi, come con i governi che fornivano armi e istruzioni. La storia della resistenza italiana, anche nei suoi rapporti con gli alleati, non può non essere conside' rata che « dal basso », come storia della liberazione delle forze che nella società italiana vollero la lotta contro il fascismo, al fianco delle Nazioni unite.

Non è questo, ritengo, pregiudizio storico o politico. Scaturì see da quella che è una delle caratteristiche fondamentali della si' tuazione italiana durante la seconda guerra mondiale: la profonda passività cioè della vecchia classe monarchica e militare. Essa non si oppose, neppure per ragioni tecniche — che pure erano evidenti e pesanti — alla guerra del 1940, non seppe in nessun momento do' minare la guerra stessa, cercandone una condotta razionale o uno sbocco parziale, non seppe approfittare infine dell’armistizio, nè seppe operare il rovesciamento del fronte. E, si badi bene, essa si

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dimostrò incapace di iniziativa in ogni senso, sia nel controllare la guerra fascista, sia nel prendere contatto con gli avversari. Quando si legge il libro di Gerhard Ritter su Goerdeler, ripercorrendo così mentalmente la storia della resistenza conservatrice in Germania, e si volgono poi gli occhi verso l’Italia, tanto più evidente appare nel corso stesso del conflitto, l’incapacità della nostra classe dirigente ad operare sul piano dei contatti tecnici e militari, delle informazioni e delle controinformazioni. Quando poi venne l’armistizio e si ricosti' tuì il governo italiano nel meridione, questa lunga passività, dimo' strata durante la guerra, rese più difficili e talvolta impossibili i pur nobili tentativi che vennero fatti, da quello del generale Pavone a quello, realizzato, del Corpo Italiano di Liberazione, per inserirsi at' tivamente e tempestivamente nel corso della guerra e della politica delle Nazioni Unite (i). Unica eccezione quella della marina. Ed è un capitolo della nostra storia recente che dimostra quanto diverse probabilmente avrebbero potuto essere le nostre vicende se, per as' surda ipotesi, compatto ed efficiente fosse rimasto l’apparato statale militare capeggiato da Vittorio Emanuele III.

Questa invero avrebbe potuto esser l’unica condizione capace di far uscire gli alleati dal rigido trinceramento pregiudiziale della « resa senza condizioni » che ebbe così infelice influenza sull’anda' mento della guerra almeno in Italia. Questa mentalità punitiva ed ostile non fu cancellata in fondo neppure dalla riscossa partigiana, neppure dalla evidente ripresa che anche nel Sud si venne gradata- mente manifestando. I reparti regolari italiani — tale era la valuta­zione che se ne faceva — vennero impiegati per parecchi mesi solo nei servizi di salmeria e solo nella primavera del 1944 il bisogno sem­pre più urgente di complementi indusse ad armare alcune grandi unità italiane. Ma poiché l’Italia doveva essere esclusa dal tavolo della pace dal novero dei belligeranti le si chiamarono « gruppi di combattimento » e non divisioni, nè si volle raggrupparle in una armata italiana.

Ma proprio perchè l’apparato statale e militare italiano era profondamente intaccato da vent’anni di simbiosi con il fascismo, così come era indebolito dalle sue tare tradizionali, il popolo italiano nella sua faticosa strada verso il rovesciamento dei rapporti con gli

(1) Claudio Pavone, 1 gruppi combattenti in Italia. Un fallito tentativo di costitu­zione di un corpo di volontari nell’Italia meridionale (settembre - ottobre 1943) in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 34-35, pag. 80-119.

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alleati ebbe bisogno di ben diverse guide ed esperienze. L’antifa- seismo italiano trovò allora la sua giustificazione storica. Ne aveva avuta una morale nella disperata lotta contro la sopraffazione, la violenza fascista, ne aveva avuta una sociale e intellettuale conti' nuando a rappresentare le forze oppresse e sfruttate della società italiana. Ma, col io giugno 1940, e poi coll’8 settembre 1943, esso dimostrò di aver avuto ragione nelle sue tesi essenziali e nelle sue idee fondamentali sulla funzione dell’Italia in Europa. L’idea di Gramsci, di Gobetti, di Matteotti e di Rosselli, che fosse necessaria cioè una rottura radicale, integrale con l’Italia controllata dal fasci- smo si dimostrò giusta. Certo sarà il re a rovesciare Mussolini, a ri­cercare l’armistizio. Non fu la rivoluzione italiana a rovesciare il fa­scismo. Ma, alla prova dei fatti, nè il re nè i suoi governanti si di­mostrarono poi capaci di sviluppare, di approfondire la situazione, di trovare il giusto posto dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Non seppero far altro che assistere passivamente al disfacimento dell’8 settembre 1943. La giusta risposta alle circostanze dell’estate di quell’anno fu la radicale rottura e guerra col fascismo e col nazi­smo, e questa si chiamò la resistenza. Né l’antifascismo ebbe ragione soltanto nelle grandi linee. Esso aveva elaborato, attraverso vent’an- ni di lotta, un atteggiamento anche per quel che riguardava il rap­porto dell’Italia con l’Europa, ed esso si dimostrò fecondo. La previ­sione della guerra che tornava (giustamente famosa è rimasta la pro­fezia di Carlo Rosselli al momento del riarmo della Renania), l’in­terpretazione del conflitto etiopico come d’un elemento essenziale nella preparazione della guerra delle potenze fasciste, l’importanza centrale del conflitto spagnolo, e la lotta contro la passività con cui esso venne accettato da parte dei governi francesi ed inglesi, tutte queste concezioni e discussioni che si svolsero nell’esilio, in Fran­cia sopratutto ma anche in Svizzera e in America, tra gli uomini dei partiti repubblicano, comunista, socialista e di « Giustizia e libertà », gettarono le fondamenta di quelle che saranno le linee politiche della resistenza all’epoca della seconda guerra mondiale (2).

Possiamo perciò vedere le prime radici dell’azione internazio-

(2) Per un orientamento generale vedi L uigi Salvatorelli e G iovanni M ira, Sto­ria d ’Italia nel periodo fascista, Torino Einaudi, terza edizione, 1959. U n’ampia biblio­grafia sull’antifascismo si trova in L eo V aliani, Questioni di storia del socialismo, T o­rino, Einaudi, 1958, pagg. 164-167. Si veda l’edizione dell'opera di Gramsci e di Go­betti, Torino, Einaudi. L ’edizione delle opere di Matteotti e di Rosselli, è in cor­so, a cura rispettivamente di Gaetano A.rfé e di Aldo Garosci. Per gli emigrati si veda A ldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Bari, Laterza, 1953.

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naie della resistenza nell’intervento degli italiani nella guerra di Spa­gna, sia da parte della colonna comandata da Rosselli e da Àngeloni che nella centuria italiana « Gastone Sozzi » e finalmente nelle bri­gate internazionali, che tutti questi sforzi riassunsero e portarono alla vittoria nella giornata di Guadalajara (3). Nè dobbiamo trascu­rare l’altro elemento costituito — non appena si aperse la seconda guerra mondiale — dalla multiforme attività degli emigrati italiani, sopratutto in America ed, in genere, ovunque fosse possibile con­trapporre una libera voce alla menzognera dittatura mussoliniana. I gruppi di resistenti italiani nella Francia occupata dai tedeschi, la «diplomazia clandestina» di alcuni di essi, per adoperare la definizio­ne di uno di coloro che più attivamente vi parteciparono e che è stato il cronista di questo episodio, Emilio Lussu (4), la creazione e poi i contatti della « Mazzini Society » di New York sono altrettante tappe sulla via che porta dall’esilio alla resistenza. Sarà sufficiente ri­cordare rapidamente alcuni aspetti di questa attività. Nel 1941 Emilio Lussu che partecipava attivamente alla resistenza in Roma, rifiutava di collaborare alla propaganda inglese poiché non era stata data una garanzia di integrità territoriale dell’Italia da parte degli Alleati. Nel 1942 Randolfo Pacciardi propone in America la forma­zione d’una legione italiana che comprendesse tutte le forze demo­cratiche, socialiste e comuniste e ripropone, con questa sua stessa ini­ziativa, il problema essenziale dei rapporti tra l’Italia libera e gli alleati: Salvemini interveniva in questi dibattiti con tutta la sua ta­gliente e appassionata energia. La « Mazzini Society » continuava la sua opera di propaganda e fu proprio lei, insieme al Consiglio italo-americano del lavoro, a raccogliere i primi frutti di questa at­tività. Il 13 ottobre 1942, il sottosegretario del Dipartimento di Stato, Berle, chiarì a nome di Roosevelt e di Cordell Hull che gli al­leati avrebbero garantito, con la loro vittoria sul fascismo, la libertà di scelta istituzionale del popolo italiano.

Da tutti questi momenti un fatto risulta chiaro: sicura fu la volontà di indipendenza rispetto ai governi alleati di questi gruppi, piccoli 0 grandi che essi fossero. Gli esiliati seppero dimostrare quel­la fierezza e autonomia che ritroviamo all’origine di tanti simili mo-

(3) L eo V aliani, Dall’antifascismo alla resistenza, Milano, Feltrinelli, 1959 e A ldo Garoso, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Torino, Einaudi, 1959.

(4) E milio L u s s u , Diplomazia clandestina, Firenze, La Nuova Italia, « I quader^ ni del Ponte », 1955.

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vimenti, di altri paesi, e sopratutto di quello francese. Questa volon- tà di autonomia degli italiani non fu ispirata da un permanente na­zionalismo, più o meno cosciente, o da una incapacità di rendersi conto della complessità della situazione mondiale. Ovunque sen­tiamo farsi luce una diversa coscienza che indicava agli antifascisti italiani la loro strada: essi avrebbero potuto diventare gli ispiratori di un movimento di resistenza e di ripresa in Italia solo se avessero avuto piena fiducia nella capacità del popolo italiano di muoversi autonomamente.

Già in Italia s’andava preparando il terreno sul quale queste iniziative avrebbero potuto fruttificare. L’avvicinarsi della guerra e poi la guerra stessa stava portando a un coalizzarsi delle forze anti­fasciste. E’ processo lungo, faticoso, ma che si dimostrò di primaria importanza il giorno in cui potè entrare in azione la resistenza ar­mata. Possiamo constatare che il formarsi delle forze politiche anti­fasciste, il nascere o rinascere dei partiti coincide con il loro con­vergere in una formazione unica che tutti li comprende nella lotta comune. I primi sintomi di questa tendenza si videro durante la guer­ra spagnola e nel periodo immediatamente seguente, ed essi diven­nero evidenti nel 1942, la data decisiva della ripresa democratica italiana. Già allora si vide che soltanto una unione di forze antifasci­ste avrebbe potuto porsi come l’alternativa della monarchia non sol­tanto all’interno, ma anche di fronte agli alleati. Soltanto così sareb­be stato possibile portare questi ultimi, attraverso una lunga lotta, ad accettare i punti fondamentali di un rinnovamento del paese, e cioè, la guerra partigiana e la repubblica.

Il 25 luglio 1943, al momento cioè in cui la monarchia tentò di sostituirsi al fascismo nella direzione del paese, si vide che era già avanzata la creazione di quell’organo di coalizione antifascista de­stinato a costituire l’altro polo della politica dell’Italia liberata per tutta la durata del conflitto. Come fosse matura la coscienza dei gruppi dirigenti della Resistenza, lo dimostrano i congressi semiclan- destini dei partiti che si riuniscono in quei mesi già nettamente ri­conoscendo di fronte all’occupazione germanica rapidamente attua­ta dopo il luglio, la ineluttabilità della guerra di liberazione dai tede­schi. Il Comitato di Liberazione Nazionale avrà già nei quaranta- cinque giorni del governo Badoglio, poi nel « regno del sud », e fi­nalmente in Roma liberata, la funzione d’interpretare e di dirigere la volontà delle forze democratiche che andranno mano mano risve­

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gliandosi e manifestandosi. Il suo atteggiamento di fronte agli allea' ti, sia per quanto riguarda il problema istituzionale così come la par- tecipazione alla guerra, sull’integrità territoriale e sui molteplici altri problemi politici di quegli anni, fu reso possibile dal profondo rinno' vamento che stava percorrendo l’Italia dal 1942 al 1945 e che sta- va trasformandola integralmente (5).

Il rivolgimento degli italiani suscitò tra gli alleati in un primo momento sopratutto un moto di sorpresa. Basta aprire quella pre- ziosa storia che C. R. S. Harris ci ha dato col titolo di A ll ie d M ilu tary A d m in istra tio n o f Ita ly , 1943-1945 (6) per accorgersi qual fosse lo stupore nel trovare il popolo italiano così pronto a partecipare at' tivamente alla lotta politica e militare delle Nazioni unite. Pur in mezzo ai disastri, non passiva accettazione d’un destino, non frantU' marsi della società italiana nè cristallizzarsi di rimpianti e di risenti' menti, ma la ricerca, difficile sempre, disordinata e confusa spesso, ma pur sempre attiva ed energica, d’una attiva collaborazione con gli alleati. Il fascismo era morto negli animi (e vani apparvero ben presto gli sforzi fatti per una istruzione antifascista da parte degli alleati, che le cose stesse avevano compiuta in anticipo meglio d’ogni parola), nè il fascismo era sostituito da unanime e profondo lealismo verso istituti del passato (subito gli alleati sentirono quanto grandi fossero gli ostacoli, quali le impossibilità pratiche di una pura e seni' plice restaurazione monarchica e burocratica in Italia, che pure era il programma di partenza di alcuni di loro, e se non altro delle autori­tà inglesi).

Gli italiani stavano cercando qualcosa di diverso e di nuovo anche attraverso i ritrovati contatti con l’Inghilterra, l’America, la Russia e le altre nazioni unite. Lo cercava il governo Badoglio, attra-

(5) La storia del governo italiano dai primi tentativi di armistizio alla fine della guerra, la storia interna delle terre liberate, il problema istituzionale che dominò que­sta vicenda, la storia insomma dell’ Italia libera dal 1943 al 1945 è tema fondamentale, ma non è quello che cercheremo di trattare nelle pagine che seguono. Per resistenza intendiamo soltanto il movimento politico e militare che si sviluppò sotto V occupalo- ne tedesca e sotto il rinnovato governo mussolinano. Ed è soltanto il rapporto tra la resistenza e gli alleati che verrà qui esaminato. Sul problema generale rimandiamo a H erbert Fe is , Churchill, Roosevelt, Stalin. The war they waged and the peace they sought, Princeton, University Press, 1957, e ai rapporti e dibattiti del Convegno del- 1 Istituto Nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia tenutosi a Fi­renze il i° e 2 marzo 1958. Vedi « Il movimento di liberazione in Italia », n. 52-53, Iuglio-dicebre 1958, soprattutto GIORGIO V accarino, I rapporti con gli Alleati e la missione al sud (1943-1944) e la relazione di L eo V aliani, ripubblicata in Dall’antifa' seismo alla resistenza, cit., p. 100-151.

(6) London, Her Majesty’s Stationary Office, 1957 « History of the Second World War ».

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verso contatti diplomatici. Ed ancor oggi non riusciamo a convin- cerei pienamente di quanta fosse la confusione, l’indecisione, l’in­certezza di questi tentativi ufficiali che, com’è noto, culminarono nella catastrofe dell’8 settembre e nell’ordine impartito quel giorno all’esercito, ordine in cui — cosa nuova del tutto negli annali degli stati maggiori — non solo non venivano indicate concrete misure tecniche e tattiche, ma neppure si osava indicare nominativamen­te quale fosse il nemico contro cui ci si doveva battere. Questo mede­simo contatto con gli alleati cercò contemporaneamente il popolo italiano, in uniforme e in borghese, tentando, dove possibile, di con­tinuare a combattere sul posto contro i nazisti e i fascsti, aiutando i prigionieri, dando inizio al movimento partigiano in tutta l’Italia non liberata.

La follia strategica della dittatura fascista, che aveva disperso ai quattro venti l’esercito italiano, rese certo difficile a Badoglio — quand’anche l’avesse voluto con maggiore decisione e energia — operare il necessario raggruppamento e l’indispensabile ritorno in pa­tria dopo l’armistizio. Tragica fu la situazione dei reparti dislocati nella penisola balcanica, nelle isole greche, meno grave, ma non me­no dolorosa, quella delle truppe sul territorio francese. Se si tien conto di questa situazione, che era spesso del tutto disperata, tanto più importanti risulteranno i tentativi compiuti dopo l’8 settem­bre 1943 di resistenza locale e di congiunzione con i partigiani del posto (7). Giustamente famoso l’episodio dell’isola di Cefalonia (8). Meno noto, ma meriterebbe invece di essere studiato con maggiore attenzione, quello degli alpini che passarono a combattere con l’eser­cito di liberazione di Tito e che formarono in Jugoslavia i distacca­menti Garibaldi (9). Nè mancarono nuclei italiani, come quelli della « Santorre Santarosa » e della UNAMI, che lottarono accanto ai

(7) La resistenza italiana all’ estero. Supplemento al n. 23 del « Bollettino del Co- mitato Nazionale A .N .P .I. » anno IV , gennaio 1952, ricco di elementi memorialistici anche su episodi meno noti (Lero, Samos, Stampalia, Rodi, Cefalonia, Albania, Mon- tenegro, Francia, U .R .S.S.). Vedi pure: Mario Fantacci, Un italiano in Albania, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 40, gennaio 1956, p. 29-52, n. 41, mar­zo 1956, p. 37-50, n. 42, maggio 1956, p. 9-38 e un opuscolo: Les italiens en Al­banie après l’8 septembre, Rome, 1945 e Stanislaw Okecki, La participation d ’e- trangers à la résistance polonaise, in « Cahiers internationaux de la résistance », n. 4 nov. i960, p. 51-66.

(8) Vedi pure S iro R icconi, Resistenza italiana nell’isola di Creta, in « Il movi­mento di liberazione in Italia », n. 15, novembre 1951, pagg. 10-15.

(9) Fratellanza italo-jugoslava nella lotta di liberazione, Roma, S iat, senza data.

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partigiani greci (io). Dall’altra parte dell’orizzonte, sui territori del- la Francia, la vicinanza geografica permise un ritorno in patria delle truppe italiane, e tra quegli ufficiali stavano numerosi coloro che parteciperanno ben presto alla resistenza. Ricorderemo per tutti Emi- lio Chanoux, il rappresentante dell’« Union Valdôtaine », destina- to ad essere ucciso dai nazisti dopo aver potuto gettare le basi delle sue idee autonomiste. Ma in Francia, nel settembre del 1943, la par­tecipazione italiana alla resistenza era ormai importante ed essa si svilupperà ancora in seguito. L’emigrazione politica ed economica aveva potuto precorrere e indicare la via alla resistenza in Italia. Basterà ricordare Silvio Trentin e la sua partecipazione al movimen­to « Libérer et fédérer ». Il nuovo rapporto con l’Europa in lotta contro il fascismo aveva già trovato negli italiani in Francia alcune delle sue più significative pattuglie di punta (11).

Quando poi centinaia di migliaia di italiani furono rinchiusi nei campi tedeschi di prigionia, la quasi totalità di essi seppe resiste­re a pressioni e lusinghe e seppe dimostrare una difficile e dolorosa fedeltà al governo dell’Italia liberata.

Questo il quadro, necessariamente sommario, delle resistenze periferiche. Altrettanto sintomatico e anche più immediatamente spontaneo l’atteggiamento del popolo italiano di fronte ai prigionie­ri di guerra. L’opera di soccorso, d’aiuto, verrà più tardi, per quanto si potè organizzata e incanalata dagli organi del C.L.N., ma all’inizio fu del tutto autonoma, locale e tale restò in parte anche dopo — ve­ra espressione dei sentimenti della gente delle città e delle campa­gne — di fronte a dei popoli, come quello inglese sopratutto, con­tro cui si era cercato di concentrare la propaganda di odio e di di­leggio del fascismo (12). E’ una storia ancora non scritta quella del­le peregrinazioni dei prigionieri nell’Italia occupata. Come tutte le storie « viste dal basso » si frantuma in mille episodi. Ma le testi­monianze sono concordi : fu titolo d’onore per gli italiani proteggere

(10) Mario MarsaTO, A fianco dell’A .L .A .S . e N icola Ba ssi, Da Smirne a Firenze, in « Società », n. 6, aprile-giugno 1946, pagg. 415-443.

(11) Comité démocratique France-Italie, Italiens tombés en France pour la liberté, Paris, 1945 (con prefazione di Louis Saillant) e Jean H ugonnot, Gaston L aroche, Les volontaires étrangers dans la résistance française, in « Cahiers internationaux de la résistance », n. 4, novembre i960, pagg. 8-24.

(12) G iuseppe Bacciagaluppi, Rapporto finale sull’attività svolta dal C .L .N . Alta Italia in favore di ex-prigionieri di guerra alleati, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 33, novembre 1954, pagg. 3-31.

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e rimettere sulla via della libertà i prigionieri di guerra. Non da que­sti venne la spinta, nè il consiglio alla resistenza. Non molti anzi coloro che restarono con noi a combattere, preoccupati sostanzial­mente di rinserirsi nel loro esercito, nella loro patria, agli ordini dei loro comandanti. Il contrasto non poteva essere più grande con la si­tuazione degli italiani, abbandonati invece al loro destino, posti di fronte a decisioni ribelli e a strade non battute. Il punto d’incontro tra i prigionieri e gli italiani fu certo un profondo e spontaneo senso d’umanità, ma fu insieme volontà di trovare finalmente un contatto con uomini e con popoli che si era stati costretti a combattere. L’im­possibilità di capire la lingua degli uni e degli altri, ed era questo il caso generale, non impedì questa comprensione. Churchill ha ricono­sciuto nelle sue memorie l’importanza di questo fenomeno. E pos­siamo ben dire che là si trova una delle prime e delle più profonde radici del rapporto tra la resistenza nascente e gli alleati.

I casi di ex prigionieri, o in genere di stranieri che si trovavano per una ragione o per l’altra in territorio italiano, e che si trasfor­mavano fin da principio in partigiani italiani, furono del resto nu­merosi. Furono soprattutto elementi jugoslavi e della penisola bal­canica in genere. Quanti furono coloro che negli Abruzzi, nelle Mar­che, in Toscana, in Liguria, e poi mano mano nelle altre regioni partigiane combatterono accanto agli italiani? Forse qualche mi­gliaio. E’ questa una delle tante cifre non facili da stabilire nella storia del movimento partigiano. Certo questi stranieri furono tra i più attivi, energici e arditi e costituirono, qua e là, un elemento di non scarsa importanza nel catalizzare la formazione delle bande partigiane. E ad essi verranno ad aggiungersi poco a poco i nume­rosi e valorosi partigiani russi, cui si aggiunsero nell’ultimo periodo notevoli contingenti cecoslovacchi.

Ma fu, naturalmente, tutto il grandioso processo della germina­zione della resistenza dopo l’8 settembre a mutare la natura medesi­ma dei nostri rapporti con gli alleati. Qui ancora, alla sorpresa, tal­volta incredula talvolta ammirata, da una parte, corrisponde, dall’al­tra, un moltiplicarsi di tentativi e di iniziative. Non dobbiamo di­menticare che l’autunno del 1943 si chiudeva con un momento di arresto sulla strada della ripresa del movimento democratico in Ita­lia. Il 13 ottobre 1943, con grande ritardo cioè, e dimostrando an­cora una volta una incapacità a reagire con decisione e tempestività, il governo italiano dichiarava la guerra alla Germania e diventava

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« cobelligerante ». Ma gli alleati non intendevano per questo per- mettere una importante partecipazione italiana, nè lasciare il paese maggiormente padrone del suo destino istituzionale e politico. Mal- grado le proposte di una politica più comprensiva da parte di Cor' dell Hull e malgrado il rapido riconoscimento russo del governo Badoglio, la politica di Churchill — mantenere in tutta la sua effi­cacia l’armistizio — prevaleva.

L’iniziativa non poteva venire che dai territori occupati dai te- deschi, e di là essa venne. Il significato internazionale della resistei za apparve chiaro agli occhi di chi diede ad essa inizio e questo si­gnificato non fece che approfondirsi man mano che passavano i lun­ghi mési dell’inverno 1943-1944. Non calcolo diplomatico d’una partecipazione italiana alla guerra che avrebbe potuto alleggerire le sorti del nostro paese (che tutta al fascismo era lasciata la menta­lità di mettere sul tavolo della pace qualche migliaio di morti per po­ter chiedere territori e privilegi), ma sincero e violento sdegno per la politica del regime ventennale e della mussoliniana repubblica so­ciale, volontà di vendicare i soldati di quello che essi avevano patito per mano degli alleati tedeschi, aspirazione a riscattare finalmente con una autonoma azione del popolo italiano tanti anni di passiva e cieca ubbidienza, certezza già che la presenza di una forza italiana al momento della vittoria alleata avrebbe potuto trasformare la libe­razione dal fascismo in una profonda modificazione delle istituzioni e della società: questi i motivi che stavano, più o meno espliciti, in tutti i primi gruppi della resistenza armata, quale che ne fosse l’ori­gine (che fu diversissima da luogo a luogo e che riflette la moltepli­cità delle correnti antifasciste). Le testimonianze si sono ormai accu­mulate, nelle memorie e nei ricordi che numerosi si sono pubblicati anche in questi anni, e che tutti concordano nel dirci che il movi­mento della resistenza italiana fu dall’origine un moto politico che investiva le radici stesse dei problemi del nostro paese. Non gruppi di tecnici, di sabotatori che agissero con l’unico scopo di collaborare alla guerra alleata, non preparazione di gruppi capaci di intervenire al momento della vittoria delle Nazioni unite, ma lotta politica e armata tra fascismo e antifascismo che si inseriva nella grande lotta che nel mondo si andava svolgendo tra le nazioni libere e il nazifa­scismo.

La simultaneità delle manifestazioni insurrezionali che senza alcuna intesa preventiva, senza alcun invito o direttiva di organi cen­

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trali nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre si verifi­carono, da Cuneo a Udine, in molti luoghi dell’arco alpino ed ap­penninico, in molti centri ed università dell’Italia settentrionale e della Toscana, se potè parere un miracolo a Piero Calamandrei, pro­va per contro la intensità ed estensione della maturazione di spiriti di cui si è detto, acceleratasi soprattutto dopo il 1942. La rapidità e facilità con la quale gli esponenti dei vari gruppi della Resistenza, pur di cosi diversa colorazione, s’incontrarono e dettero vita alla or­ganizzazione dei C.L.N., progressivamente estesasi quasi a tutta Italia, se prendeva l’avvio dal precedente dei Comitati delle opposi­zioni antifasciste formati al tempo del delitto Matteotti, indicava per altro il chiaro e quasi istintivo obiettivo unificatore degli sfor­zi: la lotta, necessariamente a fianco degli alleati, come strumento di una duplice liberazione, dall’invasione tedesca e dal regime fa­scista. Fu l’affermarsi ed il chiarirsi di questa coscienza che spinse le forze partigiane ad una progressiva unificazione degli sforzi sul pia­no politico e sul piano militare e permise, nonostante diversità e con­trasti, di mantenere l’unità del fronte della Resistenza sino al suo ter­mine, anzi, possiamo dire, sino alla Costituzione. Non erano su que­sto piano gli alleati, non pronti a intendere e misurare questa diver­sa e giovane Italia che sotto lo schermo mussoliniano si faceva luce e chiedeva solo di combattere.

Come potremmo dunque essere particolarmente stupiti del fat­to che non sempre facile sia stato l’incontro e la convergenza tra la nascente resistenza italiana e gli organi responsabili, politici e mili­tari, degli alleati, così come del fatto che molteplici e ripetuti dovet­tero essere i tentativi compiuti dal movimento partigiano italiano per trovare comprensione, accordo e collaborazione con tutti i popoli e governi in lotta con Hitler? Quell’elemento di sorpresa che abbia­mo visto pervadere gli organi responsabili alleati di fronte all’Italia che si apriva davanti a loro in Sicilia e nel meridione venne ripeten­dosi ed approfondendosi quando essi si trovarono in non molti ca­si, in presenza d’un movimento partigiano che poteva essere para­gonato, per ampiezza ed impetuosità di sviluppo a quello che con­temporaneamente si stava allargando nei Balcani, in Jugoslavia, in Grecia, in Albania, e che pure aveva caratteri suoi propri e differen­ziatori dovuti, sostanzialmente, all’unità delle forze antifasciste, uni­te nel C.L.N., e alla violenza della guerra civile scatenata nella Re­pubblica sociale italiana. Sarà dunque il movimento partigiano stesso a cercare la propria via d’intesa con gli alleati, sia con i ten-

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tativi di contatti diretti con le resistenze vicine, quella francese e quella jugoslava cioè, sia con i comandi alleati. E questi diversi aspet­ti dovremo ora brevemente esaminare.

Con la resistenza francese, tanto legata a quella italiana per idealità e speranze, i rapporti furono molteplici ed importanti an­che se appesantiti, da una parte, dal ricordo della proditoria aggres­sione fascista del io giugno 1940, dall’occupazione italiana, e dalle pazze rivendicazioni mussoliniane e, dall’altra, dal persistente espan­sionismo nazionalista d’una parte dei comandi militari francesi (13). Lungo tutto l’arco delle Alpi Occidentali, dalla primavera del 1944 a quella del 1945 una serie di contatti locali misero alla prova que­sta situazione e portarono ad accordi e scontri profondamente si­gnificativi. Esempio perfetto di superamento del passato nazionali­stico in una visione politica comune furono gli accordi del 30 mag­gio 1944 tra il capo della Région 2 des Mouvements Unis de la Ré- sistence, Max Juvenal e il delegato del C.L.N. piemontese, Dante Livio Bianco. Era quest’accordo la conclusione di trattative ed in­contri iniziatisi il 12 maggio al colle Sautron, cui parteciparono Duccio Galimberti e il capitano Lorrain, destinati ambedue a sug­gellare con la loro eroica fine le idee che anche in questo patto — come in tutta la lotta partigiana a cui essi parteciparono — erano incarnate. I resistenti dei due paesi dichiararono che « entre les peuples français et italien il n’y a aucune raison de ressentiment et de l'heurt pour le recent passé politique et militaire qui engage la re­sponsabilité des respectifs gouvernements et non pas de ces mêmes peuples, tous les deux victimes de régimes d’oppression et de corrup­tion », affermavamo la pleine solidarité et fraternité franco-italien­ne dans la lutte contre le fascisme et le nazisme et contre toutes les forces de la réaction, comme nécessaire phase préliminaire de l’in­stauration des libertés démocratiques et de la justice sociale, dans une libre communauté européenne », riconoscevano « qu’aussi pour l’Italie —- ainsi que pour la France — la meilleure forme de gouver­nement pour assurer le maintien des libertés démocratiques et de la justice sociale est celle républicaine ». I partigiani italiani che avevano sottoscritto queste parole diedero in seguito numerose prò-

(13) Sui problemi generali vedi: Mario G iovana, Tempo d ’Europa (1943-1945), Torino, Tipografia Tricerri, 1952. Documentazione importante in L'unique front dans l ’unique bataille. Alpes Maritimes-Piémont. 1943-1945, Torino, Terenzio Grandi, 1946; G iorgio Bocca, Duccio diplomatico con i « maquisard » in « Risorgimento », periodico della resistenza, Torino, anno IX, dicembre 1959, pagg. 308-309.

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ve della loro attiva solidarietà con i loro compagni di oltre alpe, so­prattutto al momento della liberazione del territorio francese. I duri combattimenti brillantemente sostenuti per impedire o ritardare l’ac­cesso ai colli alpini alle truppe tedesche che affluivano dall’Italia, e soprattutto il combattimento del colle della Maddalena che ebbe tanta importanza da dover essere annunziato dal bollettino di guer­ra tedesco, ne furono le concrete testimonianze. Le difficoltà non mancarono (ma seppero essere superate) il giorno in cui una forma­zione italiana, che prese ben presto il nome di « Carlo Rosselli », si trovò a combattere affiancata ai francesi ed agli alleati sul fronte delle Alpi. Essa rientrò in Italia il giorno in cui, terminato il suo compito in Francia, potè riprendere il suo posto di combattimento nelle forze del C.V.L. (14). Nel settore compreso tra la Valle Varaita e le Valli di Lanzo non mancarono casi dolorosi di disarmo in mas­sa di formazioni garibaldine quando queste furono costrette a ripie­gare in Francia, in seguito ai grossi rastrellamenti dell’autunno 1944. Approfondita fu l’opera compiuta in quel momento dai commissa­ri politici, dai comandanti locali e dagli organi centrali delle brigate Garibaldi per spiegare e per superare questi incidenti locali. Così, ad esempio, una circolare della federazione comunista torinese del 20 ottobre 1944, conchiudeva dicendo: « Se oggi un risentimento vi è nei francesi questo è da attribuirsi alla maramaldesca aggressio­ne dell’Italia fascista, la quale pugnalava alle spalle il popolo fran­cese nel momento in cui la Francia veniva sommersa dalle orde hitle­riane, Di questa aggressione ne è responsabile anche il popolo italia­no, il quale l’ha permessa o, che è poi la stessa cosa, la sanzionò col suo silenzio. E’ certo che alla base dell’atteggiamento degli ufficiali « maquis » vi è il risentimento per la criminale politica fascista. Ciò che non significa che tutto il popolo francese sia responsabile dell’ottuso sciovinismo di alcuni ufficiali reazionari che forse fino a ieri sono stati al servizio di Pétain. Il vero spirito che anima il po­polo francese nei nostri riguardi dobbiamo vederlo nella recente so­lenne dichiarazione fatta a Parigi dal Comitato di liberazione fran­cese a proposito della larga e valorosa partecipazione dei lavoratori italiani alla lotta di liberazione di tutta la Francia, e in particolare a Parigi. Anche in Francia gli operai e i comunisti italiani hanno

(14) M ario G iovana, Una formazione partigiana in terra dì Francia, in « II movi­mento di liberazione in Italia », n. 3 novembre 1940, pagg. 24-39, e L eonardo Ferrerò, Rosselli revient. Du Monte Pelato au Col de Larché. Alpes maritimes. Vallées de Còni, Panfilo Editore, 1949. Vedi soprattutto Dante L ivio Bianco, Guerra partigiana, Torino, Einaudi, 1954.

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dato un grande contributo alla guerra di liberazione tenendo alto l’onore del popolo italiano ».

La zona in cui la collaborazione militare tra resistenti italiani e francesi, collaborazione che pure aveva cominciato a svilupparsi in modo promettente nell’estate 1944, venne intralciata da gravi contrasti nazionali fu — com’è noto — la Valle d’Aosta (15). Là un gruppo di partigiani finì per persuadersi che le aspirazioni auto­nomiste comuni alla massima parte dei combattenti valdostani avrebbero potuto essere realizzate pienamente soltanto con l’annessio­ne della valle alla Francia. Qual fosse poi il programma in propo­sito di alcuni circoli militari francesi è ormai noto, soprattutto in seguito al libro sopra citato di C. R. S. Harris: appoggiare queste tendenze per giungere ad una occupazione che avrebbe dovuto esclu­dere ogni interferenza anglo-americana e avrebbe preparato l’inca­meramento della Valle d’Aosta e di altri territori, non soltanto lungo la frontiera delle Alpi, ma anche nella pianura padana. La Direction Generale des Etudes et des Recherches (D.G.E.R.) e un gruppo di militari sembrano essere stati fondamentalmente favore­voli a questo programma, e furon loro a tentare di applicarlo al mo­mento della sconfitta tedesca e della liberazione dell’Italia Setten­trionale. Soltanto l’energico intervento di Truman e poi di Churchill impedì ogni sviluppo in questo senso. Sono questi fatti ormai ben no­ti anche attraverso le memorie di quest’ultimo. La domanda che dobbiamo porci qui è di altro genere : quali furono gli effetti di que­sta situazione sui rapporti tra la resistenza italiana e quella france­se? Grazie agli sforzi tempestivi ed efficaci del C.L.N. piemontese e di tutti gli elementi veramente autonomisti della Valle d’Aosta — che trovarono nella persona di Federico Chabod una alta e corag­giosa espressione — grazie pure agli interventi ed alle missioni del C.L.N. di Milano, all’appoggio delle missioni alleate dislocate nella zona delle Alpi francesi ed infine alla sensibilità politica dimostrata dal governo italiano, che il C.L.N. centrale era riuscito a sostituire a Roma al Governo Badoglio ed alla monarchia, il problema potè es­sere isolato, contenuto e portato a felice soluzione, come lo stesso

(15) Presidenza del Consiglio. Ufficio storico per la guerra di liberazione. Il con­tributo della Valle di Aosta alla guerra di liberazione. Relazione del Comando Primo Settore Valle d’Aosta. Seconda Zona C .V .L ., Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1946; R enato W il l ie n , Tra la Dora e l’ Isère, Aosta, it l a 1956, e soprattutto A l e s ­sandro e E tto re P a s s e r in D ’E n t r e v e s , Federico Chabod e la Valle d'Aosta, in « Ri­vista storica italiana », anno LXXII, fascicolo IV , dicembre i960, pagg. 793-809.

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Generale De Gaulle riconosce ora nelle sue memorie, nel quadro d'una generale ripresa dei rapporti franco-italiani. Quest’episodio, che ha recentemente trovato chi ha saputo narrarlo in tutte le sue complesse vicende in Alessandro ed Ettore Passerin d’Entrèves, ri' mane come un esempio di quali fossero gli ostacoli che si frappone' vano ad una sempre più solida collaborazione e ad una più profonda solidarietà alle resistenze al di qua e al di là delle Alpi.

Del tutto diversa fu la storia su tutto l’arco delle Alpi che con' finavano colle terre austriache. Quello che lo storico può fare in que' sta zona è registrare un atto di carenza. I partigiani italiani che eroi' camente si battevano sul Grappa, nel Trentino, in tutte le Alpi dalla frontiera svizzera a quella jugoslava (e fu questa una delle zone in cui la lotta fu più difficile, cruenta e degna di ricordo) non trovaro' no il minimo appoggio in un movimento austriaco o tedesco, che pu' re esistette nei due paesi (16). Troppo diverso di carattere e di in' tento, esso non poteva ricongiungersi con quello italiano. Qui dav' vero il rovesciamento del fronte, o meglio ancora dei rapporti tra i paesi combattenti, che la monarchia italiana non era riuscita ad ope- rare, e che la resistenza stava faticosamente compiendo con la sua politica di ogni giorno, si dimostrò impossibile. In quella interna' zionale delle resistenze che venne creandosi in quegli anni le popo- lazioni tedesche delle Alpi furono assenti.

Difficile, contrastata, ma non impossibile si dimostrò invece la convergenza con le forze del movimento di liberazione jugoslavo, che stava battendosi sul confine orientale dell’Italia. Duro era il pe­so dell’eredità lasciata dalla politica nazionalistica e dal fascismo in quelle zone: in alcuni territori la ventennale resistenza al fascismo era stata solo nelle mani degli slavi e l’opera di cieca oppressione nelle mani degli italiani. E là dove le suddivisioni etniche coincide­vano con quelle politiche, una nuova visione internazionale della resistenza non nasceva e non si sviluppava, che essa ovunque si di­mostrò viva e vitale soltanto quando seppe superare i problemi na­zionali in una più alta volontà di combattimento comune contro il fascismo e il nazismo. Ma a questa situazione, che dobbiamo riscon­trare in una parte almeno dell’Istria, si contrapponeva la ben diversa realtà delle città di Fiume, di Trieste, di Gorizia, ecc. Là operarono,

(16) Punti di vista di resistenti sulla questione alto-atesina, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 15, novembre 1951, p ag g . 3-9 e A ntonino R ad ice , La resi­stenza nel Trentino. 1943-1945, Trento, Museo Trentino del Risorgimento, i960.

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da quando il fascismo aveva abbattuto ogni libertà gruppi paralleli di italiani e di slavi (17). Gli uni e gli altri sapranno combattere nel­le terribili condizioni del 1943-45, quando una parte di questi terri­tori venne ceduta da Mussolini all’amministrazione hitleriana che vi stabili un regime di violenza e di terrore particolarmente pesan­te (18). Fin dall’inizio giunsero dal centro istruzioni ed esortazioni per una convergenza della resistenza italiana e slava. Il 7 febbraio 1944 il C.L.N.A.I. votava un Ordine del giorno in cui venivano affermati alcuni punti generali della lotta comune. Esso confermava (( ai popoli sloveno e croato la più dichiarata volontà del popolo ita­liano di lottare insieme con essi per la cacciata degli oppressori te­deschi e fascisti, allo scopo comune di raggiungere l’unità e la liber­tà nazionale, nel principio democratico e di autodeterminazione dei popoli a disporre di se stessi », salutava « i patrioti sloveni, croati e italiani », nella loro lotta, rivolgeva « un appello agli italiani del Friuli e della Venezia Giulia e particolarmente ai triestini affinchè intensifichino la lotta armata in collaborazione con le formazioni sla­ve », decideva infine « di stabilire relazioni con i Comitati di libe­razione sloveno e croato per l’appoggio reciproco e per il coordina­mento della lotta che ha gli stessi obbiettivi, sicuro che attraverso la collaborazione e la lotta comune si giungerà al fraterno regola­mento dei rapporti tra il popolo italiano e sloveno e croato, i quali hanno tanto sofferto e soffrono della medesima oppressione hitlero- fascista e combattono contro di essa ». E questa politica sarà conti­nuata fino alla liberazione.

Per quanto riguarda le formazioni partigiane, accordi locali non tardarono ad essere stabiliti. Più ampi accordi due ispettori del Comando generale delle Brigate Garibaldi, Francesco Leone e Gui­do Lampredi concordarono alla fine del marzo 1944 con il Comando del IV Corpo del NOVJ. Una brigata di assalto Garibaldi, « Trie­ste », veniva costituita « come parte integrante dei Distaccamenti e delle Brigate di assalto Garibaldi in Italia ». Ad esse avrebbero do­vuto far capo tutti i partigiani italiani della regione in cui operava

(17) E lio A p i h , Dal regime alla resistenza, Venezia Giulia, 1922-1943, Udine, Dal Bianco editore, i960.

(18) G iovanni P aladin , La lotta clandestina di Trieste nelle drammatiche vicende del C .L .N . della Venezia Giulia, Trieste, Stamperia comunale, 1954; E dvino T aUCER, Il secondo C .L .N . ed i rapporti italo-slavi, ne « Il movimento di liberazione in Italia », n. 52-53, luglio-dicembre 1958, pagg. 151-155 ; cfr. C arlo V e n t u r a , La stampa a Trie­ste, 1943-1945.

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il IX corpo d’armata jugoslavo. Venne stabilito un comando partiti- co, cosi come furono concordate le modalità della collaborazione mi­litare. I termini stessi dell’accordo lasciano facilmente indovinare la laboriosità delle trattative, nè altrettanto fecondi quanto si era spe­rato furono i risultati che da esso scaturirono. Il 7 maggio 1944 ven­ne stipulato un accordo tra la Brigata Garibaldi « Friuli » ed il Bri- ski-Beneski-Odred, accordo secondo il quale veniva sottolineata la necessità di una « lotta comune contro i comuni nemici dei due po­poli » e si stabiliva « un comando misto paritetico sloveno-italiano di coordinazione ». Ma il problema, irrisolto, dei futuri confini con­tinuò a pesare sui rapporti tra le due formazioni. I partigiani dell’uno e dell’altro paese ne rimandarono esplicitamente la soluzione ai fu­turi governi italiano e jugoslavo, pur riaffermando la volontà del popolo sloveno alla sua « unità e indipendenza nazionale ». Come si vede, anche in questo documento, che avrebbe voluto e dovuto essere di carattere soprattutto tecnico e militare, i ricordi del passato così come le aspirazioni del futuro rimanevano vivi e violenti. La collaborazione locale tra i gruppi partigiani dei due paesi ne soffrirà gravemente. Ben presto l’urto sarà funestato da luttuosi scontri.

Il Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia e il Fron­te di liberazione nazionale per il litorale sloveno (P.O.O.F.) tenta­rono nell’estate di appianare e superare gli ostacoli con accordi non più locali, ma centrali e generici. Venne a Milano in missione Anto­nio Vratusa (il prof. Urban) e vi risiedette Francesco Stoka (Rado), i portavoce sloveni. La seduta del io giugno 1944 del C.L.N.A.I. è tutta dedicata a discutere il problema giuliano. Vennero presi ac­cordi sulla composizione e la funzione dei C.L.N. sloveni e italiani nelle zone miste, venne lanciato un proclama « alla popolazione ita­liana della Venezia Giulia » e il 19 luglio si giunse ad un accordo italo-sloveno che riaffermava i grandi principi della guerra antifasci­sta e antinazista, ma tendeva insieme « ad evitare tutto ciò che po­trà indebolire la lotta comune », sottolineava come « nociva e inop­portuna al momento attuale ogni discussione sulla delimitazione definitiva e sulla futura appartenenza statale delle zone di nazio­nalità mista ». Si cercava poi di delimitare in modo efficace le attri­buzioni dei C.L.N. e degli altri organi della lotta locale, si stabiliva il bilinguismo dell’organo a stampa che doveva essere diffuso a Trie­ste. I termini stessi con cui questo documento venne redatto lascia­no trapelare la difficoltà delle discussioni e il dissenso fondamentale sul problema dei confini. L’unica conseguenza veramente concreta

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di questo accordo del luglio fu il prestito di 3 milioni da parte del C.L.N.A.I., somma che rappresentava la metà di quanto stava nelle « esauste casse » di esso, per aiutare i combattenti jugoslavi (19).

L’iniziativa degli organi direttivi della resistenza di Milano e di Padova per prendere nel proprio pugno e tentar di risolvere auto' nomamente i problemi della Venezia Giulia fu resa anche più diffi­cile dagli avvenimenti dei mesi seguenti. La volontà delle grandi po­tenze, i piani strategici pesarono sempre più sulla sorte di quelle ter­re. Alla missione Parri-Cadorna dell’aprile 1945 il gen. Alexander dette assicurazione che la sorte definitiva di Trieste sarebbe stata decisa dal trattato di pace, ma che le istruzioni dei governi alleati gli impedivano d’intervenire, con occupazioni anche simboliche, nelle cittadine dell’Istria. Il comando alleato peraltro aveva già previsto, fin dall’agosto 1944, una forma di occupazione che garantisse even­tualmente Trieste e il retroterra sloveno ad un esercito che di là avesse dovuto manovrare verso le Alpi in direzione di Vienna. Quali fossero le conseguenze di questo piano per quanto riguarda­va l’amministrazione civile e politica è spiegato in dettaglio nel libro di Harris che abbiamo avuto più volte occasione di citare. Quali poi le conseguenze generali al momento della liberazione è anch’es- so generalmente noto: il 30 aprile i resistenti italiani insorsero a Trieste, dove il C.L.N. era stato duramente provato nei mesi prece­denti dalla repressione nazista e fascista. L’azione dei partigiani ita­liani si sviluppò con particolare intensità nel Friuli e portò un note­vole contributo anche nelle zone dominate dall’esercito partigiano jugoslavo. Il i° maggio entrava a Trieste il IX corpo, che purtroppo sloggiò e represse le autorità italiane del C.L.N., e così fece anche nelle altre città dell’Istria. Il giorno seguente si attestavano in Trie­ste i neo-zelandesi, ma fino all’ 11 giugno incontrastato sarà il gover­no delle autorità jugoslave. Gli irrisolti problemi dei confini e della convivenza dei due popoli peseranno ancora per molti anni sui rap­porti tra l’Italia e la Jugoslavia (20).

Oggi tuttavia, a distanza di molto tempo ormai, possiamo con­statare quanto fruttiferi siano stati i tentativi compiuti, pur in mez-

(19) Vedi Franco Catalano, Storia del C .L .N .A .I ., Bari, Laterza, 1956, soprattut­to pagg. 128-134, cap. V ili, La Venezia Giulia, p. 191 sgg. e pagg. 264-266.

(20) Vedi il ricco, dettagliato lavoro di F ran Z w it t e r , « Bibliografìja o problème Julijske krajine in Trsta » 1942-1947 in « Zgodovinski Casopis », ll-III, 1948-1949; Ljubljana, con indice e breve riassunto in russo e inglese.

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zo a mille difficoltà, dalla resistenza italiana per trovare un nuovo rapporto con la nazione vicina. Ed anzi, allargando lo sguardo a tutta la cerchia delle Alpi, possiamo constatare che una via di accordo e di collaborazione ha potuto essere finalmente trovata in tutti quei setto­ri, come la Francia e la Jugoslavia, dove presente ed attiva era stata la resistenza. Là dove i legami del partigianato mancarono, sulla frontiera austriaca cioè, l’accordo diplomatico degli stati non sembra invece aver ancora superati i risentimenti e i contrasti del passato.

Altrettanto e più difficili tecnicamente, e come naturale, insie­me ben' più fruttuosi e decisivi politicamente e militarmente, furo­no i rapporti della resistenza italiana con gli inglesi e gli americani, con coloro cioè che dopo la catastrofe dell’8 settembre, stavano len­tamente risalendo la penisola, liberandola da nazisti e fascisti (21). Difficili tecnicamente i rapporti, come Ferruccio Parri ha ricordato nell’articolo, intitolato « Il movimento di liberazione e gli alleati » con cui egli aprì la ricca serie della rivista dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Come egli ricorda, i rapporti con il sud liberato restarono sempre saltuari e furono al­l’inizio quasi inesistenti. Col Corpo Italiano di liberazione formato nel sud da volontari provenienti dall’esercito dissolto dall’armistizio — i cui gruppi divisionali, inquadrati nelle armate alleate combat­terono valorosamente da Cassino a Bologna — non si poterono pren­dere contatti direttamente, poiché i contatti con la resistenza gli al­leati li volevano riservati a sè. I collegamenti via mare, specialmente con sottomarini, utilizzati qualche volta con successo per il salvatag­gio dei prigionieri, inutilmente tentati, si dimostrarono inadatti per la trasmissione delle persone e delle notizie. Le radio funzionarono regolarmente soltanto a movimento partigiano sviluppato, e non per­mettevano neppure allora quel contatto più profondo, quelle discus­sioni e quello scambio di idee e di punti di vista che pure divennero

(21) Per la resistenza italiana, in generale, rimandiamo a Resistenza. Panorama bibliografico. A cura di Alfonso Bartolini, Giulio Mazzon, Lamberto Mercuri, Presen­tazione di Ferruccio Parri, Roma, Biblioteca di Sintesi storica, 1957, e soprattutto alle opere fondamentali, ricche pure di bibliografie: L uigi L ongo, Un popolo alla macchia, Milano, Arnoldo Mondadori, seconda edizione, 1952, Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), Torino, Giulio Einaudi, 1953, R enato Carli-Ballola, Storia della Resistenza, Milano-Roma, edizione Avanti!, 1957 - Massimo Salvadori, Storia della Resistenza Italiana, Venezia, Neri Pozza, 1955 (im­portante il cap. V I : Gli alleati e i partigiani: pagg. 1 1 1- 13 1) , di cui vedi pure l’edizione americana, Brief History of the Patriot Movement in Italy, 1943-1945, Chicago, E. Cle­mente and Sons, 1954, e F ranco Catalano, Storia del C .L .N .A .I., Bari, Laterza, 1956. A queste opere rimandiamo espressamente per ulteriori informazioni. La bibliografia fornita in questo rapporto non ha che un valore indicativo.

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ben presto tanto necessari. Anche quando i contatti radio furono re­golarmente stabiliti — e grande merito spetta al prof. Enzo Boeri di recente deceduto — nella seconda metà del 1944 cioè, « le difficol­tà non furono facilmente immaginabili da chi non le ha vissute; scarso personale veramente esperto, rischiosissimo il servizio, non di­ligenti e interessati spesso i servizi alleati », per servirsi delle parole dell’articolo ora citato. I contatti finirono dunque per incanalarsi, so­prattutto, attaverso la Svizzera, e la cornice entro la quale essi si svolsero non potè non influire su di essi, rendendoli incerti nel gran groviglio di organizzazioni e di iniziative che alla Svizzera fecero capo durante la seconda guerra mondiale (22).

Anche in questo caso le pattuglie di punta furono quelle dei fuorusciti. Il piccolo gruppo di italiani, tra i quali ricordiamo Alber­to Tarchiani, Leo Valiani, Aldo Garosci, Alberto Cianca — per menzionare una volta almeno uomini ancora vivi ed attivi, in mezzo a tanti altri tragicamente scomparsi in questa lotta — il gruppo che sbarcò clandestinamente a Salerno dopo l’armistizio del settembre del 1943 e dopo aver stabilito (attraverso il Conte Sforza, che giunse poi in ottobre nell’Italia liberata) ben precisi accordi politici e tecni­ci con gli alleati, accettando le forme di un’attiva collaborazione con le Nazioni Unite, conteneva in germe quella convergenza di intenti e di volontà tra resistenti italiani ed alleati che verrà sviluppandosi nei mesi seguenti (23).

Il libro di Leo Valiani T u tte le strade conducono a R o m a e il saggio di Aldo Garosci pubblicato in « Mercurio » del 1944, ci nar­rano le vicende dei primi tentativi di aprire una strada nuova che conducesse ad una partecipazione pratica e che insieme mantenesse indipendenza politica e ideologica. Quando apparve evidente che non era possibile realizzare a pieno questo programma nelle terre li­berate del sud — e la tragica sorte di Giaime Pintor suggellò que­sta impossibilità — si vide sempre più chiaramente che si trattava

(22) Maurizio (Ferruccio Parri), Il movimento di liberazione e gli alleati, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. i luglio 1949, pagg. 7-27, Cfr. Roberto Batta­g l ia , I risultati della resistenza nei suoi rapporti con gli alleati, ibid., n. 52-53, luglio- dicembre 1958, pagg. 159-172. Importante la testimonianza di Enzo Boeri, Vicende di un servizio di informazioni, relazioni alla organizzazione O .S.S. sulla sua missione nel Nord Italia (17 marzo 1944 - 1 maggio 1945), ibid., n. 12-13, maggio-luglio 1951. pagg. 88-117 e RICCARDO Bauer, Documenti relativi all’attività politica e militare del rappresentante del P. d ’A. nei suoi rapporti con gli alleati, ibid., n. 27, novem­bre 1953, pagg. 3-26.

(23) A lber t o T a r c h ia n i, Il mio diario di Anzio, Milano, Arnoldo Mondadori, 1947, L eo V a l ia n i, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, La Nuova Italia, 1947, « Mercurio », numero speciale del Natale 1944, Roma, Darsena.

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di cercare e di trovare degli accordi tra gli alleati e il nucleo che era emerso alla testa della nascente resistenza del nord, il C.L.N.A.I.. I primi contatti erano stati presi, in Svizzera, nell’ottobre 1943, tra­mite il fuoruscito Comitato di liberazione di Lugano. Il 3 novembre abbiamo già a Certenago la conclusione di una prima intesa tra Fer­ruccio Parri e Leo Valiani da una parte, venuti apposta da Milano, e l’inglese Me Caffery e Allen Dulles, americano, venuti da Berna, rappresentanti rispettivamente la Special Force inglese e il governo americano. Prevaleva l’elemento tecnico, armi, indumenti, viveri. Ma già da parte italiana veniva apertamente sottolineato il carattere politico del movimento di liberazione. Fin da questo primo inizio si poneva il problema che doveva dominare tutta la vicenda: la guerra antifascista e antitedesca che cominciava sulle montagne del­l’Italia, in qual modo e in che misura avrebbe potuto essere inqua­drata ed inserita nella guerra contro la Germania di Hitler?

In sostanza i comandi alleati avrebbero preferito una organiz­zazione partigiana estremamente elastica e leggera ed estremamente specializzata nei sabotaggi e nelle informazioni sul nemico: una in­visibile permanente e spericolata avanguardia di guastatori dell’eser­cito alleato e veniva allo scopo proposto l’indirizzo preso in alcune zone dal m aqu is francese. Ciò apparve chiaro già dall’incontro di Certenago e venne ancor più chiaramente confermato in seguito. Non è a dire che il consiglio alleato rispecchiasse soltanto un ristret­to e quasi egoistico interesse militare. Vi era in essi la consapevolez­za ed una esperienza maggiore della nostra dei problemi ardui e quasi insolubili della organizzazione di un esercito clandestino.

Di questi problemi i comandi partigiani fecero nei mesi succes­sivi la più dolorosa esperienza. Ma anche se questa fosse stata all’ini­zio meglio presente essi non avevano libertà di scelta. Una patria da liberare, una democrazia da fondare, un onore da riscattare esi­gevano una insurrezione nazionale dal carattere più accentuato e meglio definito. D’altra parte non si poteva umanamente pensare di respingere le schiere sempre più numerose dei giovani che sfuggiva­no ai bandi di reclutamento della Repubblica di Salò. Ci dovemmo accorgere nella primavera del 1944 che cosa significasse accogliere proteggere, istruire queste masse di giovani inesperti ed inermi. Ec­cidi sanguinosi furono il prezzo di questa situazione. Il problema del­l’armamento, non risolto dagli scarsi lanci alleati, fu in alcuni mesi penosissimo. D’altra parte ancora, un esercito tecnicamente specia­

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lizzato nei colpi di mano e nei sabotaggi è un punto di arrivo, non di partenza. Lo si realizzò progressivamente anche da noi at tra ver- so le più dure prove.

Gli alleati non amavano, in generale, le battaglie frontali di ar­resto che le formazioni partigiane di necessità e spesso anche per inesperienza impegnavano; non amavano la occupazione di centri e di zone che non si potevano poi mantenere di fronte a massicce azio­ni offensive, nè apprezzarono i grandi scontri che nelle Alpi Maritti­me, neH’Appennino Ligure ed emiliano, nelle Prealpi venete e friu­lane impegnarono grandi schieramenti nemici, come a Montefiorino o a Nimis. Ma non sembra avessero pienamente valutato nel bilan­cio della guerra il peso delle forze nemiche impegnate, il potenziale avversario logorato.

A queste ragioni di carattere tecnico e militare che rendevano difficile un organico coordinamento si aggiunsero quelle di carattere politico che pur dovremo precisare (24). E, più in genarale, da que­ste complesse differenze di visuale nasceva la difficoltà di collimare la strategia alleata con la strategia partigiana. Non dimentichiamo peraltro come sia sempre facile attribuire le difficoltà, gli ostacoli che resero ardua, fin da principio, la soluzione di questo problema a malvolere o sordità intenzionali da una parte e dall’altra. I rappre­sentanti alleati non mancarono di attribuire talvolta ai comandi par­tigiani italiani l’intenzione di agire senza tener conto delle esigenze generali. Ed i partigiani non poterono non risentire una profonda amarezza di fronte a una politica alleata che rischiava di impedire al movimento di liberazione di impiantare solide radici in tutte le regioni dell’Italia ancora occupata, di stringere legami sempre più intimi con le classi più sfruttate e più diseredate della società ita­liana.

Ma oggi, dobbiamo sforzarci di vedere i termini di questo pro­blema con gli occhi di chi cerca le ragioni più profonde, al di là dei risentimenti e delle recriminazioni (25).

(24) Dà inizio abbastanza tipico di questa situazione di rapporti l’appoggio prefe­renziale che specialmente gli inglesi dettero alla » Franchi », brillantissima matrice di arditi commandos.

(25) La testimonianza più importante su tutti questi problemi e quella di MASSIMO SALVADORI, Resistenza e azione (Ricordi di un liberale), Bari, Giusepoe Laterza, 1951. Sul problema d’assieme è utile tener presenti queste considerazioni: 1) non sarebbe difficile ricostruire ad esempio sulle carte dell’ archivio dell’ Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di liberazione in Italia, e, domani, ancor più, nelle carte dei servizi speciali americani ed inglesi, una storia dei contrasti, delle difficoltà, degli ap-

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Apparve ben presto chiaro che la mancanza d’una vera cono- scenza della situazione italiana pesava notevolmente sui rapporti fra partigiani e alleati, sia inglesi che americani. E’ strano a dirsi — e quell’acuto scrittore che è H. Stuart Hughes lo ha sottolineato — ma gli americani non conoscevano abbastanza l’Italia o la conosce' vano male. Salvo notevoli eccezioni essi non avevano gli strumenti culturali — le strutture mentali, direbbero i francesi — per cogliere rapidamente la realtà dell’Italia sotterranea. Anche per loro l'inter* vento in Italia sarà un viaggio di scoperta in una drammatica e nuo- va realtà. La mancanza di conoscenze fece spesso apparire ai coman- di alleati come disordine quello che era pluralità e spontaneità d’ini- ziativa, fece desiderare gerarchie, subordinazioni, formalità là dove era impossibile che esse sussistessero, fece desiderare di far rientra­re il movimento partigiano in un modulo -— ad esempio quello di certe zone francesi — che non gli si attagliava. Una parte almeno della politica che finirà per avere la sua maggiore espressione nel proclama del generale Alexander, trovava in questa realtà le sue radici.

Dopo tutto, ad esser giusti, bisogna ben riconoscere che la guer­ra partigiana era un fenomeno relativamente nuovo, apparso o riapparso in modo inaspettato in mezzo alle altre novità militari del grande conflitto mondiale. Basta leggere le lunghe e per noi repel­lenti pagine che il generale Kesselring ha scritto nelle sue memorie su « Der Bandenkrieg in Italien » per accorgersi come anch’egli co­noscesse male l’origine, il carattere, lo sviluppo del partigianato ita­liano. Eppure il contatto diretto questa volta non mancava. Perchè dunque sorprenderci troppo nel constatare che non sempre i servizi alleati riuscirono a intendere questo fenomeno e a prendere di fron­te ad esso un atteggiamento di efficienza la migliore possibile?

Questo diaframma era, non di rado, reso più consistente da una visione puramente militare del problema. Se i rappresentanti allea­ti che abbiamo sopra nominati, Me Caffery e Allan Dulles — e altri come il Colonnello Roseberg, del Ministero della Guerra inglese, che tanta importanza dovrà avere in questa vicenda, o il Tenente

passionati appelli e degli altrettanto appassionati richiami alla dura realtà dei fatti, da una parte e dall’altra; 2} mai come in questo caso la cronaca non deve distogliere lo sguardo dalla storia, dalle grandi linee cioè dallo sviluppo storico; 3) una cosa dovrà sempre essere tenuta presente, quale fosse cioè il grado di tensione psicologica, di ri­schio e di ardimento necessario in questi contatti e nei diversi tentativi per creare una nuova collaborazione tra alleati e partigiani.

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Colonnello Max Salvador!, cioè un antifascista d’origine italiana, che sarà rappresentante degli alleati presso il C.L.N.A.I. al momen­to conclusivo — si mostrarono ben presto capaci di interpretare e di aiutare validamente lo sviluppo del movimento di liberazione, si ha invece netta l’impressione che ad un livello diverso, negli alti co­mandi, così come in alcuni elementi tecnici, il pregiudizio che « mi­litare » si contrapponesse a « politico », che « efficienza » e « parti- ticità » (soprattutto se partitici tà plurima) si contrapponessero e eli­dessero a vicenda, finissero sovente per prendere il sopravvento. E’ questo un aspetto della storia del movimento di liberazione che non tocca a noi scrivere. Soltanto quando sapremo davvero come furono prese certe decisioni, come furono elaborati certi piani alleati, (e ci auguriamo che questa ricerca avvenga il più presto possibile), potre­mo renderci pienamente conto fin dove giungesse il contrasto fra tradizione militare ed esigenze partigiane. Possiamo dire in generale che la contraddizione nasceva in primo luogo da tutta la natura stes­sa della seconda guerra mondiale — insieme conflitto di nazioni e di ideologie, di stati e di nazioni, di diplomazie e di iniziative rivo­luzionarie.

Per quel che riguarda l’aspetto tecnico, militare del problema, forse la migliore testimonianza di come un alleato entrasse in con­tatto con la realtà partigiana, apprendesse, con particolare rapidità e intelligenza, qual’era l’importanza della politica, quale la necessi­tà di non cedere mai alle tentazioni dell’attendismo, quale importan­za avesse l’appoggio della popolazione locale, la miglior testimonian­za insomma dell’apprendistato partigiano di un militare alleato — particolarmente valoroso e capace, ripetiamolo — si può ritrovare nel libro di Roy Farran, « Operation Tombola ». E ad esso riman­diamo, come ad una testimonianza molto significativa.

Ma per precisare quegli elementi generali della situazione po­litica che allora visibilmente influirono sulla condotta degli alleati, ed ancor più evidenti apparvero a guerra finita, dobbiamo conside­rare due ordini di ragioni di prudenza, che si tradussero natural­mente in due motivi di diffidenza. Il primo nasce dagli interessi diversi degli alleati, i quali avevano assegnato il settore mediterra­neo ad un comando inglese ed alla preminente influenza politica di Londra. Non gravi ci apparvero allora i dissensi tra inglesi ed ame­ricani: questi più comprensivi in generale verso il movimento in­surrezionale e più benevoli e vicini, anche per influenza dei molti

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italo-americani che affollavano i loro servizi, ma meno impegnati. E tuttavia una certa gara nel controllo del movimento partigiano appariva non solo nei nostri rapporti con i servizi di Berna, ma an­cor più nella politica delle missioni (26), per le quali, tra l’altro, la base americana adoperò più largamente volontari italiani.

Ma più contava per Londra e Washington la partecipazione sovietica all’alleanza. La Russia non era militarmente e neppure di­plomaticamente presente sul fronte italiano. Ma vi esercitava ugual­mente un peso indiretto, che è in parte la chiave dell’interesse degli organi centrali della Resistenza per la definizione dei rapporti con la Jugoslavia che ai nostri confini appariva in certo modo la rap­presentante della potenza sovietica. E gli alleati cercavano di poter intuire i possibili obiettivi politici lontani di Stalin attraverso la partecipazione che fu — come è noto — attivissima dei comunisti alla lotta di liberazione.

L’insurrezione greca dell’ELAS prese fortemente piede nel- l’autunno del 1944, generando manifesta preoccupazione soprattutto a Londra, preoccupazione che si riverbereva nei rapporti con i par­tigiani e nel giudizio sul loro movimento. Non era facile trasferire negli alleati quella convinzione che i CLN attraverso la lotta co­mune e le reciproche garanzie avevano acquisito di un mutuo ri-

(26) Quello delle missioni è un capitolo della storia partigiana alleala ancor da scri­vere. In via molto approssimativa si può calcolare che nel corso di tutta la guerra ne siano state lanciate non meno di 150, relativamente scarse nei primi mesi, più fre­quenti dopo il giugno 1944, abbondanti in un modo che mise anche in imbarazzo le nostre formazioni con la primavera del 1945. La loro densità dipendeva in p:imo luogo dall’interesse militare delle zone e delle operazioni previste: perciò ne contarono maggior numero il Piemonte ed il Veneto, regione nella quale si affollarono nel 1945. Ma spesso influivano ragioni diverse di opportunità, a cominciare dalla particolare co­noscenza dei luoghi offerta dai volontari italiani. Importanti servizi al nostro fronte resero alcune missioni alleate stanziate nel versante francese delle Alpi. Non può dirsi che le missioni americane abbiano numericamente prevalso su quelle inglesi, ma l'OSS americana seppe o potè organizzare un maggior numero di missioni italiane, spesso ottime, che non la Special Force N . t britannica, che seguì l’ esempio più tardi: Ed­mondo Craveri e Riccardo Bauer vanno citati tra i benemeriti organizzatori di questi servizi.

Dopo la metà del 1944 il Comando italiano del Sud, rigorosamente tagliato fuori da ogni ingerenza e partecipazione nella condotta della guerra, ottenne di poter anche esso inviar missioni nel Nord, e furono composte di ufficiali del vecchio Esercito ita­liano, generalmente monarchici e spesso attivisti.

Non sempre e non tutta l’ azione delle missioni alleate dette un contributo positi­vo alla miglior riuscita del movimento partigiano o per difficoltà di comprensione ed ambientazione o per tentativi d’interferenze, pressioni o azione frazionistica. In com­plesso l’apporto di energie, capacità, abnegazione spesso generosa, talvolta eroica, di questi compagni di lotta dette ad essa un apporto prezioso.

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spetto del denominatore politico democratico comune che li teneva uniti. E questo fu uno dei moventi della missione al Sud di cui si dirà in appresso.

Un altro motivo di prudenza e diffidenza riguardava l’indi­rizzo politico della Resistenza, che Londra accentuava rispetto a Washington, preferendo il mantenimento del regime monarchico per quelle certe garanzie di unità e di osservanza dell’armistizio che gli venivano attribuite. Donde una certa preferenza per alcune parti del movimento ed alcuni gruppi di formazioni.

Non è facile analizzare e dosare al giusto peso queste compo­nenti ed altre di più temporanea influenza. Si può, in generale, de­rivarne la tendenza ad affermare il controllo e la dipendenza mili­tare del movimento dal comando alleato (si veda più avanti il pro­clama Alexander e la missione al Sud) cui si unisce anche il tenta­tivo, di apparenza contradditoria ma che mirava in sostanza allo stesso fine, di acquistare attraverso le missioni il controllo diretto di singoli gruppi di formazioni. Quanto vi fosse in queste tendenze di preciso disegno centrale e quanto d’iniziative subalterne e perife­riche è naturalmente difficile dire. E Doichè dobbiamo qui riconsi­derare quali fossero le tappe e quale l’effetto dell’inserirsi del par- tigianato italiano, che rappresentò appunto l’elemento politico, ideologico, nazionale, insurrezionale della guerra, nel complesso del­l’immane conflitto, ci dobbiamo domandare se esso seppe sempre dimostrarsi unito, compatto, pur nella sua diversità interna, di fronte agli alleati? Ombre e cedimenti ci furono in questo campo, dovuti ai particolarismi italiani, alle condizioni della lotta, alle difficoltà dei collegamenti, alla stessa ingenua volontà di ritrovare comunque un contatto con eli alleati e, non ultimo, alla diversità e addirittura alla contraddizione che esistettero tra i vari servizi alleati. Ma nel­l’assieme la compattezza venne mantenuta, le parole con cui si im­pegnarono i rappresentanti del C. L. N. A. I. furono rispettate, una politica unitaria fu faticosamente costruita. Non che mancassero i tentativi di sfaldamento, da parte monarchica specialmente. Gravi furono le concorrenze interne dei servizi alleati tra inglesi ed ame­ricani. Ma, sostanzialmente, nell’estate del 1944 poteva dirsi rag­giunta una notevole efficienza tecnica nei collegamenti ed una solida base di collaborazione militare con gli alleati. Il i° luglio 1944

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veniva comunicata la costituzione del Comando Generale dei Vo­lontari della Libertà. « Unificando tutti gli sforzi intendiamo assi­curare, diceva il messaggio del C. L. N. A. I., il più energico im­pulso alla lotta e il più efficace appoggio armato alleato. Rendiamo solenne tributo riconoscenza e ammirazione per valore e sacrificio sangue versato per liberazione Italia et mondo da giogo nazi-fa- scista ».

Con la speranza della liberazione dell’Italia del nord entro l’e­state del 1944 coincise pure un momento di relativamente larga e fiduciosa collaborazione con gli alleati. Anche i problemi tecnici (fi­nanziamento, lanci, missioni), dopo i frequenti contrasti dei mesi precedenti, erano sembrati avviati a soluzione soddisfacente. Il coor­dinamento strategico generale mancava ancora. Gli alleati non det­tero alcun seguito alle proposte di azioni combinate per l’occupazio­ne di zone di confine particolari, come per esempio per la liberazione di tutta la Valle d’Aosta. L’episodio più clamoroso e doloroso del disinteresse alleato lo si ebbe nel tentativo, destinato a finire in tragedia, di mantenere libera la Val d’Ossola (27). « Gli aerei alleati reiteratamente e disperatamente invocati, non vennero », per ri­prendere le parole di Ferruccio Parri.

Ciò dipendeva sostanzialmente ormai da quello che era il prin­cipale difetto dei rapporti tra la resistenza e gli alleati anche in questi mesi di espansione e di euforia, che ebbe la sua manifesta­zione più critica nel mancato avvertimento da parte degli alleati stessi del cambiamento dei loro piani quando il ritiro di forze alleate impiegate nello sbarco nella Francia meridionale fini per bloccare l’offensiva alleata seguita alla liberazione di Firenze (io agosto 1944) ed apparve ormai evidente che la liberazione dell’alta Italia non sa­rebbe stata cosa del 1944. Si tenga presente però — questa fu la giustificazione dei servizi alleati — che i partigiani potevano essere catturati ad ogni istante dai tedeschi e torturati perchè rivelassero i piani di cui erano a conoscenza. Intanto il movimento partigiano si era talmente sviluppato, allargato, che la sua realtà non poteva più essere negata o trascurata da nessuno. L’euforia dell’estate di

(27) A nita A zzari, I rapporti tra l ’Ossola e gli Alleati nell’autunno del 1944, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 52-53, luglio-dicembre 1958, pagg. 96-99.

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quell’anno costò cara, ma pose anche di fronte agli occhi degli al­leati una forza con cui essi dovevano fare i conti (28).

La crisi venne con l’autunno, quando il comando alleato sem­brò davvero incapace di indicare una via al movimento partigiano alle soglie dell’inverno. I combattimenti del settembre in Emilia, la controffensiva dei nazisti e dei fascisti nel Veneto e in Piemonte nell’ottobre e nel novembre, i rastrellamenti con forze soverchianti che ovunque si moltiplicarono, posero tutto lo schieramento parti­giano in gravissime difficoltà. I massacri più feroci della popolazione civile accompagnarono con ritmo sempre più frequente la riconqui­sta nemica delle zone partigiane: particolarmente atroci quelli com­piuti dalla famigerata divisione corazzata Goering dopo la libera­zione di Firenze in Versilia, in Val d’Arno, nel Mugello e che cul­minarono quindi nell’orrenda strage di Marzabotto (1830 civili massacrati, 29 settembre - 1 ottobre). Proprio in questa che fu la più grande e la più difficile battaglia difensiva della resistenza, rie­mersero i più gravi e brucianti problemi tecnici dei rapporti con gli alleati. La distribuzione dei lanci a seconda delle diverse formazioni e del loro colore politico, la localizzazione delle missioni, l’aiuto o il mancato aiuto a questo o quel gruppo impegnato in scontri spesso disperati, alimentarono, com’è naturale, critiche e risentimenti. Nel­l’assieme possiamo ben constatare che il comando alleato, orientato ormai verso uno sforzo in direzione di un fronte diverso da quello italiano, teso ormai verso gli sviluppi della situazione militare in Francia, non si impegnò per proteggere i partigiani nella loro bat­taglia difensiva, non operò metodicamente per conservare le forze in vista della prossima ripresa. Possiamo discutere sull’origine e sulla ragione di questo atteggiamento, possiamo chiederci ancora fin dove pesassero le ragioni politiche su ricordate o ragioni militari e strate­giche (e malgrado tanto insistere sulle prime da parte di polemisti

(28) Importante il quadro fornito da Raffaele Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla liberazione, Milano-Roma, Rizzoli, 1948, soprattutto p. 150 e segg. e 175 segg. In una lettera del 14 agosto 1944 Me Caffery riassumeva così il rapido crescere dei lanci alla resistenza italiana:

1944 Americani Inglesimaggio tonn. 5° tonn. 95giugno » 123 )) 180luglio » 97 )) 201I.a settiman. di agosto » 20 » 47

tonn. 290 tonn. 523

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e di storici, non possiamo escludere che fossero le seconde a preva- lere). Ma, comunque, il fatto resta sicuro: mancò una visione gè- nerale di fronte ai problemi del partigianato italiano, una nuova politica militare non venne enucleata e si lasciò che le cose si svol- gesserò secondo la loro logica interna, nella martoriata pianura Pa­dana.

Questa carenza trovò il suo simbolo nel proclama che il 13 no­vembre 1944 il generale Alexander lanciò ai partigiani italiani: « Patrioti, la campagna estiva è finita, ed ha inizio la campagna invernale. Il sopravvenire della pioggia e del fango inevitabilmente significano un rallentamento del ritmo della battaglia. Quindi le istruzioni sono come segue: 1) cesserete per il momento operazioni organizzate su vasta scala, 2) conserverete le munizioni e vi terrete pronti per nuovi ordini, 3) ascolterete il più possibile il programma « Italia combatte » trasmesso da questo Quartier generale, in mo­do da essere al corrente di nuovi ordini e cambiamenti di situazio­ni, ecc.... » (29). Questa doccia fredda, in una stagione che era già di per sè stessa, fisicamente e moralmente, gelida abbastanza, non teneva conto e scavalcava anzi i comandi che faticosamente si era­no venuti costituendo in ogni centro (e proprio questo quando alcuni di questi comandi subivano duri colpi, tra i quali basterà ricordare la cattura e l’uccisione di Duccio Galimberti), non teneva conto, cosa anche più grave per un comando militare, di qual fosse la natura della guerra partigiana, che aveva nemici ben più gravi che non la pioggia e il fango, che per sua natura non poteva permettersi mo­menti di sosta, che non poteva « conservar delle munizioni » (quand’anche esse fossero ancora presenti) se non conservando delle formazioni attive ed efficienti, se non mantenendo intatti i collega- menti con coloro che il movimento partigiano dovevano rifornire ed alimentare. Il proclama del generale Alexander era insomma un sintomo di quella mancanza di sincronizzazione tra partigianato ed alleati, di quella « distonia » di cui ha parlato Ferruccio Parri, tan­to più evidente e preoccupante in quanto si verificava proprio men­tre la missione al Sud del C.L.N.A.I.--- di cui si dirà appresso —cercava di stabilire con i comandi alleati intese e coordinamento.

Sul piano militare, com’è noto, fu il partigianato stesso che riu-

(29) Il proclama Alexander e l'atteggiamento della resistenza all’ inizio dell’inver­no 1944-45, m “ Il movimento di liberazione in Italia », n. 26, settembre 1953, pagg. 25-50.

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sci a trovare la forza per sopravvivere, mantenendosi unito, non di' sgregandosi sotto i colpi, trovando tutta quella serie di mezzi di oc­cultamento, di spostamento, di reperimento di nuove risorse che gli permisero di superare la crisi autunnale e invernale. Dallo snelli­mento delle formazioni alla loro « pianurizzazione », dal loro rag­gruppamento su basi diverse alla nascita di unità nuove più adatte alla difesa mobile, fu tutto un susseguirsi di iniziative, che permisero ben presto — ben più presto di quanto non si sarebbe potuto crede­re — la ripresa dell’offensiva partigiana e l’attiva preparazione del­l’insurrezione.

Alcune di queste iniziative portarono i partigiani a diretto con­tatto con gli alleati. L’esperienza fu feconda e positiva. Nel combat­timento si ristabilì quell’unità d’intenti e quella comprensione che erano mancate anteriormente. La divisione « Modena », di cui due brigate si erano già rifugiate sul fronte alleato nel settembre, finì nell’ottobre, coll’attestarsi di fronte alle linee alleate medesime, creando una copertura e una prima difesa di esse. La divisione « Lu- nense », tentò invano, nel novembre, di operare qualcosa di simile e, se non altro, di aprirsi un canale permanente di rifornimenti at­traverso l’estremo schieramento occidentale della linea gotica. In un punto, a Ravenna cioè, questa collaborazione raggiunse un brillante successo e portò alla liberazione della città stessa. Fu merito di Arri­go Boldrini, al comando della divisione « Ravenna », dei comandi locali dell’VIII armata e, non certo ultimo, del comandante della Popski Private Army, il leggendario colonnello Peniakov, che ope­rava, caso quasi unico, con un distaccamento autonomo di tipo par­tigiano, accanto ed in collegamento con le truppe alleate. Prova ul­teriore, se pur ce ne fosse bisogno, di una mentalità e realtà partigia­na che emergeva dalla seconda guerra mondiale e che si imponeva ai comandi alleati nelle persone del comandante « Bulow » e del co­lonnello Popski. A loro dobbiamo, tra l’altro, la conservazione dei tesori di Ravenna.

Se la Resistenza italiana riuscì a sopravvivere alla gravissima crisi dell’autunno-inverno 1944 ed a mantenere il suo impegno poli­tico e militare nonostante quella lamentata carenza degli alleati, tut­tavia il problema di un chiarimento definitivo dei rapporti con essi si poneva in maniera ormai non più prorogabile.

Vi era il problema politico. La Resistenza era riuscita a tra­sformarsi in insurrezione popolare organizzata e doveva difendere

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il suo diritto per il domani; vi erano dunque le diffidenze politiche di cui si è detto da chiarire, e direttive unitarie da chiedere di from te alla condotta spesso discordante delle missioni alleate, ai tentativi d’interferenze, alle manovre di scalzamento. Vi erano in previsione della vittoria, non vicina forse ma certa, delicati problemi di potere nell’Italia occupata, anche in rapporto con il nostro governo del Sud, da definire e far riconoscere. Ed infine, forse anche più grave, dopo il mancato avvertimento già ricordato, s’imponeva la necessità del coordinamento che il comando partigiano chiedeva e sul piano stra- tegico e sul piano tattico, ed implicava la soluzione di complessi prò- blemi tecnici di collegamenti, rifornimenti e finanziamento. La in­sufficienza delle risorse locali angustiava da tempo il movimento par­tigiano: trovare una soluzione era ormai urgente.

Anche ai comandi alleati non sfuggiva la necessità di una rego­lazione d’insieme dei rapporti. E così, accogliendo un loro invito, dopo lunghe ed attente discussioni, il C.L.N.A.I. decise una missione al Sud, presso il quartier generale di Caserta. Questi incontri, prose­guitisi poi a Roma, portarono finalmente, il 7 dicembre, alla firma dei cosidetti « Protocolli di Roma », una delle tappe e dei documen­ti essenziali di questa storia. I delegati furono Pizzoni (Longhi), Pre­sidente del C.L.N.A.I., Parri (Maurizio), G. C. Pajetta (Mare). Le discussioni, spesso animate e talvolta burrascose, durarono a Caser­ta dal 15 al 26 novembre. Il verbale della riunione del 23 novem­bre che comprendeva, oltre ai sopradetti il generale Stawell, il co­mandante Holdsworth, ed era presieduta dal generale Maitland Wilson, allora comandante supremo del settore Mediterraneo, può essere probabilmente considerato tipico. Vi si parla della situazione generale del movimento partigiano (30). (« Il movimento più forte è in Piemonte, ma sforzi sono in corso per rinforzare il movimento in Emilia e nel Veneto. Il movimento non è altrettanto forte in Trentino e Venezia Giulia, dove vi sono considerevoli popolazioni austriache e slovene »). Si parla poi del futuro. Il generale Wilson afferma « che è difficile predire come le operazioni in Italia si sareb­bero sviluppate nei prossimi mesi, ma che la sua politica è di assiste­re i partigiani al massimo possibile, per permettere loro di mante-

(3o)E’ rappresentata la situazione all’ottobre, quando già forti perdite avevano de­cimato le formazioni partigiane del Veneto e dell'Emilia. A metà dell’aprile 1945 le for­ze inquadrate in formazioni partigiane regolari di montagna, di pianura e di città era­no valutabili intorno a 200.000 uomini. Si era cominciato da ben poco: un censimento del dicembre 1943 dava una forza, a nord della linea gotica, intorno a 9000 partigiani.

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nere le loro attività attraverso l’inverno. Essi non dovrebbero peral­tro attendersi un grande aumento dei loro effettivi durante l’inver­no. Esiste un limite al tonnellaggio di rifornimenti che possono es­sere fatti ai partigiani durante i mesi invernali, in relazione al catti­vo tempo ed al numero limitato di aerei disponibili ». Il colonnello Holdsworth continua dicendo che « il Comitato si doleva molto del recente proclama del generale Alexander... Non è profittevole met­tere dei freni ai partigiani che operano lontano dalle loro case. E’ necessario, per mantenere le formazioni partigiane in esistenza e ad un alto livello di efficienza, condurre operazioni attive senza inter­ruzioni ». Pizzoni replica facendo notare che « la situazione dei partigiani italiani è differente da quella dei partigiani in Francia o in Jugoslavia, in quanto i partigiani italiani hanno a che fare con i fascisti italiani oltre che con i tedeschi ». Il confronto dei punti di vista durò a lungo e portò ad un risultato che non parve completa­mente soddisfacente alla delegazione italiana (31).

Ecco le impressioni di Ferruccio Parri al momento della firma dell’accordo finale. « Siamo più perplessi che emozionati. Il testo non ci soddisfa molto. E’ risultato di molteplici trattative, ripulse, insistenze e ostinate e tortuose resistenze di qualche ufficio del Co­mando Generale alleato: perdono pazienza anche i nostri buoni ami­ci e patroni della Special Force. Le formule lesinate non sono molto soddisfacenti. Si affermano i nostri doveri, e manca il documento per noi essenziale, e che secondo le nostre richieste doveva essere contestuale, di riconoscimento del C.L.N.A.I. da parte del governo Bonomi... Basti dire che ad un certo momento ci domandammo se convenisse firmare. Ma firmammo. Troppo grande, troppo impor­tante, quello che avevamo ottenuto per non lasciar in secondo linea le altre considerazioni ».

A distanza di tempo sembra evidente che Parri avesse ragione: i « Protocolli di Roma » assicuravano in realtà alla resistenza alcuni elementi non diremo preziosi, ma essenziali: 1) il riconoscimento del C.L.N.A.I. come organo centrale, responsabile e dirigente di tut­ta la lotta di liberazione, 2) il riconoscimento, da parte del governo italiano del C.L.N.A.I. come proprio delegato ed organo, 3) accordi

(31) Franco C atalano, La missione del C .L .N .A .l. al sud (novembre-dicembre 1944), in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 36, maggio 1955 e A lfredo P iz- ZONI, Il funzionamento della resistenza in una nota di A . PizZoni, in « Il movimento di liberazione in Italia », n. 24, maggio 1953, pagg. 49-54.

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tecnici sul finanziamento e sulle armi che si dimostrarono di essen­ziale importanza per la ripresa dell’anno nuovo.

Se si guardano le cose più a fondo, tutta una mentalità, lenta­mente, andò mutando, una volta superata la crisi dell’autunno e del- l’inverno. Il vecchio pregiudizio delle azioni isolate dei sabitatori, della rete di informazione tanto più efficiente quanto meno dirama­ta, della invisibile preparazione immobile in vista di uno scatto fina­le, della prevalenza assoluta di un generico motivo patriottico su ogni reale spinta e molla politica e ideale, tutti i pregiudizi insom­ma che avevano reso più difficile la collaborazione tra il nascente mo­vimento di liberazione e gli alleati, stavano in realtà dissolvendosi, più o meno rapidamente, di fronte alla realtà. Le formazioni parti- giane resistevano e rinascevano pur dopo i più terribili rastrellamen­ti, la solidarietà della popolazione e l’organizzazione politica si rive­lava per quel che era, e cioè troppo spesso per una inazione definiti­va e perpetua. La politica riaffacciava i suoi diritti con i grandi scio­peri, con l’esistenza di zone liberate ed amministrate dai C.L.N., con la molteplice preparazione della nuovo vita democratica che prorom­peva ovunque, incanalandosi verso la preparazione dell’insurrezione liberatrice (32).

Possiamo seguire le tappe di questo progressivo prender atto della realtà, anche se non sempre completo e spontaneo, da parte degli alleati. Il 23 gennaio 1945 il Comando generale del C.V.L. fa­ceva conoscere dei messaggi del comando alleato che parevano modi­ficare ormai le direttive precedenti. La lotta contro gli allagamenti, prodotti dai tedeschi, il controsabotaggio nelle prevedute distruzio­ni naziste e fasciste, il mantenimento delle comunicazioni venivano posti al centro della lotta che si sarebbe svolta nei prossimi mesi, ed affidate ai partigiani. Successivamente si pose in primo piano la sal­vaguardia e difesa degli impianti industriali (33). Frattanto i lanci

(32) Ferruccio Parri, Alleati e partigiani di fronte al problema della « difesa de­gli impianti », in «II movimento di liberazione in Italia », n. 14, settembre 1951, pagg. 20-42.

(33) La protezione degli impianti elettrici aveva già dato luogo a istruzioni e trat­tative con il comando generale e con i comandi regionali nell’ autunno del 1944* Nella primavera del 1945 diventò quasi un’ossessione dei servizi alleati.

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erano ripresi con maggiore ampiezza (34). Il finanziamento (35), su­perate grosse difficoltà tecniche, assicurava un minimo di vita rego­lare alle formazioni. La delega di governo e di amministrazione al C.L.N.A.I. da parte del governo di Roma, segnò il punto di parten­za di un’opera di preparazione per l’assunzione da parte dei C.L.N. dei poteri locali in tutta la valle Padana. Gli alleati si resero conto che soltanto assecondando questo processo sarebbe stato loro possibi­le rispettare la volontà del popolo italiano e finirono con l’accettare con notevole larghezza e spregiudicatezza di idee, le decisioni che il C.L.N.A.I. andò prendendo nei mesi che precedettero l’insurre­zione, la nomina cioè da parte dei C.L.N. di prefetti, questori e sin- daci, e commissari di tutti gli enti pubblici e di tutte le aziende d’in­teresse pubblico, nonché la funzione consultiva, ma importante, che i C.L.N. stessi avrebbero dovuto continuare a conservare dopo la li­berazione. Lo stesso dicasi per quel che riguarda la magistratura e la formazione delle corti d’assise popolari.

Più difficili e delicati furono i problemi militari, rimanendo sempre esclusa dai piani alleati la previsione di un impiego d’insieme per obbiettivi di valore strategico delle forze partigiane. Furono i fat­ti a decidere diversamente, cosicché l’avanzata alleata fu preceduta quasi dappertutto dalla liberazione partigiana. Essi insistettero fino all’ultimo momento, nell’incontro cioè che Cadorna e Parri ebbero al quartier generale con il XV gruppo d’armata dell'Italia liberata, nel marzo 1945, sul punto che i tedeschi avrebbero dovuto arren­dersi agli alleati, non ai partigiani. Era questa una pretesa nettameli-

(34) Secondo i dati forniti da Max Salvadori nella sua Storia della resistenza ita­liana, cit., pagg. 127-128 e edizione inglese, p. 135, la Special Force organizzò 856 lanci per i partigiani negli ultimi quattro mesi di guerra. Di essi solo due terzi (cioè 551) riu­scirono. Gli altri 305 si persero, finendo soprattutto nelle mani dei tedeschi e repub­blichini. Con i 551 lanci riusciti vennero inviate 1229 tonnellate di materiale, così ri­partite:

666 tonnellate di armi e munizioni291 tonnellate di esplosivo272 tonnellate di altro materiale.

1 rifornimenti giunsero quasi esclusivamente per via aerea; attraverso il confine terrestre e via mare pervennero quantità trascurabili. Come ordine di grandezza, si può calcolare che dal primo all’ultimo giorno di guerra gli alleati abbiano paracadutato a Nord della linea gotica, non meno di 3.000 tonn. di materiale, fornito per due terzi circa a mezzo di aerei inglesi. Si avverta che secondo una valutazione evidentemente molto approssimativa, di Parri alla data degli accordi di Roma quanto ad armi e muni­zioni i rifornimenti alleati avevano coperto forse meno della metà del fabbisogno; il re­sto era frutto di colpi di mano contro le milizie fasciste ed i tedeschi.

(35) Il finanziamento non fu fornito con fondi alleati, ma con Ani-lire addebitate al Governo italiano (150.000.000 mensili).

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te in ritardo sulla realtà effettuale. Verrà ben presto l’insurrezione di Genova, per non fare che un esempio, a dimostrare come i tede- schi, per non parlare dei fascisti, fossero costretti a cedere le loro armi alle formazioni italiane. Altrettanti e più problemi pose il fu- turo disarmo dei partigiani, ed il loro inserimento negli organi deh l’esercito e della polizia. E qui sarà la fine della guerra a rendere in' vece più consona alla realtà una politica che deve tuttavia esser va- lutata storicamente per i riflessi psicologici che essa suscitò, quando ancora la lotta era in pieno sviluppo e la data finale di essa impreve­dibile.

Malgrado tutte queste ombre e questi ostacoli un fatto domi­nava comunque l’orizzonte dell’Italia nell’aprile del ’45: ilC.L.N.A.I. giungeva alla mèta capace di tenere in pugno tutte le fi­la essenziali di un movimento di liberazione che si era ampliato fino ad assumere le proporzioni di una efficiente, grandiosa insurrezione nazionale. Anche nei giorni d’aprile i contrasti non mancarono: la concezione dell’ordine da mantenere nelle città liberate era diversa tra i partigiani e le missioni alleate, il ritmo degli attacchi era tal­volta lontano dall’essere sincrono (come dimostrò ad esempio la libe­razione di Torino) e ben presto dovevano rivelarsi le divergenze della politica alleata e di quella del C.L.N. in materia di legislazio­ne, repressioni, stampa, disarmo, ecc.

Ma nelle giornate dell’insurrezione tutto questo poteva sem­brare un residuo di posizioni superate. L’ondata del movimento po­polare e partigiano le sommerse d’impeto, fornendo un contributo importante, anche in questa fase, alla guerra generale (36) e, insieme,

(36) Una valutazione seria dell’apporto dato dalla guerra partigiana alla vittoria alleata sul fronte italiano deve tener conto che le formazioni del C .V .L ., sostennero tutto il peso delle forze fasciste che, tra brigate nere,reparti speciali, sovente assai nu­merosi come la Muti di Milano e la X Mas, presidi locali e le tre divisioni formate nei campi d’ internamento in Germania, misero in piedi un contingente complessivo non minore, nel momento del maggior sviluppo, di 200.000 uomini, i quali con gli al­leati ebbero occasione di piccoli scontri in zone marginali. La guerriglia partigiana impegnò a nord della linea gotica, praticamente tutte le divisioni germaniche, e nei periodi di più intensi rastrellamenti, nella primavera e nell’autunno del 1944, parec­chie di esse contemporaneamente. Le perdite provocate furono maggiori di quelle su­bite. I danni provocati con le interruzioni stradali e ferroviarie, il logorio dei mezzi furono grandissimi, ancor più grave il logorio dei nervi provocato dall'incubo dell’ insi­dia partigiana. Non avremo detto molto valutando grosso modo questo apporto a quello che avrebbe potuto fornire una consistente armata aggiuntiva, riducendo di altrettanto il contributo alleato. Non dipese dai partigiani se il loro apporto alla vitto­ria non potè esser maggiore.

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dando finalmente profonda soddisfazione a quelle esigenze morali e politiche che avevano mosso gli italiani alla lotta contro il fascismo. La resistenza italiana poteva contare i propri membri: 250.000 cir- ca partecipanti effettivi alla guerra di liberazione, ai quali debbono aggiungersi le parecchie decine di migliaia di patrioti che aiutarono, talora in modo decisivo, il movimento partigiano. Un terribile bilan­cio di perdite, che assommavano ormai a circa 45.000 partigiani ca­duti, ai quali bisogna aggiungere circa 10.000 civili morti nelle rap­presaglie, nelle fucilazioni di ostaggi, ecc. Dei 9000 deportati civili poche centinaia sopravvissero. Ma forse più ancora che il numero conta la qualità delle perdite, poiché nella guerra civile partigiana l’Italia perse il meglio della sua gioventù volontariamente immola­tasi per la causa della liberazione. Numerosi e commoventi sono i do­cumenti che testimoniano l’altezza morale di quell’ora.

Vennero allora gli elogi e i riconoscimenti. Il generale Clark espresse il 30 aprile « il suo riconoscimento per il lavoro svolto dal C.L.N., che ha ideata e organizzata la rivolta e l’ha lanciata al mo­mento opportuno, mostrando profonda conoscenza di strategia ». Il 1° maggio ricordava, parlando ai torinesi, che la loro città « ha sem­pre costituito un baluardo della libertà di pensiero e di principi de­mocratici e non è questa la prima volta nella sua storia che essa ha dimostrato la sua simpatia a tutto ciò, non a parole soltanto, ma so­prattutto infierendo colpi potenti contro la tirannide che ha proiet­tato la sua ombra sulla vita e sulla libertà del nostro popolo ». Il 5 maggio la missione americana presso la VI Zona operativa, in Ligu­ria, diceva: « Noi della missione americana siamo più che orgogliosi di avere avuto l’occasione di marciare per un perodo di tempo accan­to a voi... Il nostro ringraziamento va a tutti i partigiani della VI zo­na, per i quali nutriamo la più sincera ammirazione per il loro magni­fico comportamento... Finito il nostro compito e tornando negli Sta­ti Uniti portiamo con noi il ricordo di voi e del vostro aiuto... Non possiamo fare altro che ringraziarvi nuovamente per questo. La sor­te dell’Italia è adesso nelle vostre mani. Siamo certi che tutte le stra­de, che vi saranno aperte, porteranno le vostre aspirazioni ad una vi­ta migliore ». Qualche tempo dopo, il 2 giugno ed il 18 luglio, il co­lonnello G. R. S. T. Hewitt, della Special Force riassumeva in due rapporti, particolarmente significativi anche se talvolta lacunosi, il

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grandioso risultato ottenuto nella lotta contro i sabotaggi e le di' struzioni dalle formazioni partigiane (3 7).

Per parte loro tutti gli italiani che avevano partecipato al mo' vimento di liberazione, tutti coloro per i quali la terribile esperienza del fascismo, della sconfitta e della ripresa non passarono invano, por- tarono, indelebile nella memoria, al di là di tutti i contrasti e di tut' te le difficoltà, il ricordo ed il riconoscimento per i soldati alleati che avevano liberato l’Italia, per quei prigionieri, per quelle missioni al­leate che avevano cominciato a far loro conoscere di nuovo la realtà dell’Europa moderna, per quei popoli delle Nazioni Unite ai quali essi avevano saputo ricongiungersi, attraverso tanti sacrifici, nei ven­ti mesi di lotta partigiana.

F e r r u c c io P a r r i - F r a n c o V e n t u r i

(37) Il contributo della resistenza italiana in un documento alleato, in « Il movi­mento di liberazione in Italia », n. 3, novembre 1949, P- 3 '23 Ç n- 4 > gennaio 1950, p. 3-23 e FERRUCCIO Parri, Osservazioni sul rapporto Hewitt, ibid., n. 5, marzo 1950, p. 34.