la solidarietà in rete

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di Silvia Pochettino La solidarietà è in rete Dossier

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Solidarietà e cooperazione al tempo del web 2.0 - VpS Volontari per lo sviluppo - Silvia Pochettino

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Page 1: La solidarietà  in rete

di Silvia Pochettino

La solidarietà è in rete Dossier

Page 2: La solidarietà  in rete

Da biblioteca multimediale la rete è diventata uno spazio sociale, un luogo in cui si crea insiemeil sapere e in cui si sviluppano nuove forme di partecipazione

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Si parla molto oggi di Web 2.0. Blog, wiki, community, forum, chat sono entrati nel linguaggio quotidiano (con gli esempi più

famosi di Youtube, Facebook, My Space, Second Life…), si moltiplicano e si diffondono con la velocità dei virus. Ma questa

seconda generazione di prodotti e strumenti web più che essere una rivoluzione tecnologica - i sistemi informatici su cui si

basa sono molto simili a quelli precedenti - è una straordinaria rivoluzione mentale. Il cambio epocale sta nel passaggio dal

rapporto uni-lineare tra chi comunica e chi fruisce della comunicazione, com’è sempre stato, alla creazione collettiva di con-

tenuti, in cui l’utente è anche coproduttore e modificatore degli stessi (Wikipedia ne è l’esempio classico). Da biblioteca mul-

timediale la rete diventa uno spazio sociale, un luogo in cui si crea insieme il sapere e in cui si sviluppano nuove forme di

partecipazione.

Ma quanto questa rivoluzione, sociale per definizione, interpella il mondo della solidarietà internazionale? Quanto ha un

effetto diretto sul modo di vivere e praticare la cooperazione? A osservare il fermento che si respira in rete si direbbe mol-

tissimo, almeno nei paesi anglosassoni. A sentire le ong italiane si direbbe assai poco. Ma, come spesso succede, qui da noi

tutto avviene con ritardo.

I nuovi volontari del network«Si tratta di una potenzialità straordinaria, ma in Italia stiamo cominciando a comprenderla solo da poco» sostiene Paolo

Ferrara, esperto di comunicazione di Terres des Hommes e docente alla Fundraising school di Bertinoro. Eppure, proprio Terres

des Hommes è stato tra i primi, due anni fa, a creare una pagina dell’associazione su My Space, attivando un blog in cui erano

visibili e votabili i propri video, lanciando un concorso musicale tra i web-amici, con grande successo. Poi è stata la volta di

Facebook, che ha raccolto centinaia di adesioni. «L’anno scorso abbiamo fatto la prima festa degli amici di Facebook in un

locale di Milano, la sala era stracolma. In quell’occasione abbiamo anche realizzato una lotteria mettendo in palio le foto dei

10 più grandi blogger al mondo per raccogliere fondi per un nostro progetto». Informalità, creatività, e anche la voglia di “per-

dere tempo” chiacchierando del più e del meno con i web-amici stanno alla base di questo tipo di comunicazione «più diret-

ta, meno costosa, più efficace. A patto di rinunciare all’idea del controllo» dice Paolo Ferrara, «si ridefinisce la stessa idea di

volontario e militanza». Nel caso della festa di Milano gli amici virtuali si sono trasformati in amici reali e hanno versato soldi

veri per l’associazione. Ma non si tratta solo di questo. Come sostiene Paolo Antonio Pappalardo della Ferpi (Federazione rela-

zioni pubbliche italiana) in un articolo su www.ferpi.it, “Molte organizzazioni no profit e diversi politici (Obama ne è l’esem-

pio più famoso) hanno deciso di reclutare volontari sul web, per sostenere e diffondere il loro messaggio. Personaggi famosi,

ma soprattutto gente comune che comunica non al grande pubblico, ma a qualche decina di amici. Testimonial non pagati e

per questo molto più credibili e influenti”. Un popolo di volontari che alimentano il passaparola di un messaggio “mettendo-

ci la faccia”. E non è affatto secondario, oggi, nell’era della diffidenza e dei sentimenti d’impotenza nei confronti dei mass

media e delle grandi istituzioni. Una notizia, un invito, un appello che ti arriva da un amico assume un valore straordinaria-

mente diverso dalle centinaia di altri che puoi trovare su giornali, siti e tv. Quasi sicuramente sarà letto, perché la garanzia

della sua affidabilità la fornisce proprio l’amico che “ci mette la faccia”.

Le ong in piazza (virtuale)«Nella mia esperienza ho imparato che queste reti sociali virtuali, orientate a un obiettivo, possono risvegliare moltissime

Dossier

La solidarietà è in retePiattaforme geolocalizzate per mappare le crisi nel mondo, community per fornire microcredi-to agli imprenditori africani, wiki e blog per sostenere cause sociali. Si moltiplicano gli stru-menti del Web 2.0, che offrono straordinarie possibilità alla cooperazione internazionale.Creando anche nuove forme di volontariato. Ma le ong italiane se ne sono accorte?

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competenze e talenti nascosti» sostiene Carlo Gubitosa, esperto informatico e creatore di Peacelink,

una delle prime reti di street journalism nate sul web italiano. «Gente che non avrebbe il tempo

e forse nemmeno la voglia di tuffarsi in un’esperienza associativa, ma che è capace di spender-

si senza riposo per sostenere un progetto concreto. E anche una piccola associazione con pochi

mezzi può realizzare obiettivi ambiziosi sfruttando gli strumenti messi a disposizione dalle tec-

nologie, a condizione di farlo con un livello di intelligenza e creatività diverso da chi pensa che

basti un click per risolvere il problema mondiale della fame o delle guerre». Niente semplicismi

dunque, o banalizzazioni. Gli utenti delle community non cercano solo cause su cui fare click,

ma una relazione più continuativa. «Il messaggio di proposta e di cambiamento che impregna

la cooperazione internazionale è complesso e viene digerito male dai linguaggi televisivi e pub-

blicitari; si presta più a forme di comunicazione diretta come quelle che possono innescarsi in

una community web» precisa Gubitosa. «Il Web 2.0 è quella piazza in cui le associazioni sono

nate» aggiunge Paolo Ferrara. «Anche nelle piazze c’era di tutto, le persone sensibili e i delin-

quenti. Non ci deve spaventare questo. Noi dobbiamo stare dove sta la gente. Non c’è niente di

più coerente per un’ong che tornare a stare in piazza, anche se una piazza del web».

Giovani e non solo

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«Il Web 2.0 non è nient’altro che quella piazza in cui le associazioni sono nate. Le ong devono tornare a stare dove sta la gente. Anche se è una piazza virtuale»

Sotto: un corso di

informatica per giovani

keniote. A fianco: una

ragazza statunitense su

Internet. Si calcola che

oggi nel mondo siano 1,

5 miliardi le persone

che possono

connettersi

regolarmente, ma le

disuguaglianze restano

forti: il 74% della

popolazione in Nord

America, il 48% in

Europa, il 15% in Asia e

solo il 5% in Africa

Micro-prestito a tu per tuNell’era del Web 2.0 non è necessario essere una banca, un istituto finanziario enemmeno un’ong per investire in progetti nei paesi poveri: ognuno può fare lasua parte, da casa sua. Esempio in questo senso è Kiva.org, uno dei primi, piùfamosi ed efficaci social network per il prestito tra pari. Ispirato all’operatodella Grameen Bank, Kiva è un luogo virtuale dove creditori e debitori si incon-trano per scambiarsi orizzontalmente risorse economiche e sostegno. I membridel network pubblicano i loro progetti sul sito di Kiva e i prestatori seguono illoro sviluppo attraverso un diario internet. Nella maggior parte dei casi i prestitisono di piccola entità, da poche centinaia di dollari a qualche migliaio; i singoli“prestatori” versano quote di 25 dollari ciascuno. Il creditore sceglie diretta-mente dalle pagine di Kiva.org quale attività finanziare e con che importo.Kiva.org trasferisce la somma a un partner locale, che a sua volta lo dà allapersona che deve essere finanziata. Periodicamente il contatto locale di Kiva.orgraccoglie i rimborsi del finanziamento e le notizie sull’avanzamento del progettofinanziato, informazioni che vengono inviate via e-mail a tutti i creditori. Unavolta estinto il debito da parte della persona che ha ricevuto il finanziamento,Kiva.org mette i soldi finanziati di nuovo a disposizione del creditore, che è libe-ro di riscuoterli o di finanziare un nuovo progetto. Nato da un’idea di Matt eJessica Flannery dopo un viaggio in Africa, oggi conta una media di 8 mila nuoviprestatori la settimana. Ha già finanziato progetti per più di 18 milioni di dollaried è in continua crescita, anche grazie alla grande pubblicità avuta dallo stessoBill Clinton. Esiste un sito in italiano di amici di Kiva, www.vivakiva.org.

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Che le piazze virtuali siano popolate non c’è dubbio, lo confermano i dati Nielsen che indicano 24,5 milioni di navigatori in

Italia, di cui 12 milioni iscritti a social network e 9 milioni che leggono un blog almeno una volta al giorno. Il dato indiscuti-

bile è che gli utenti sono molto più avanti di aziende, istituzioni e associazioni. Ma molti, in un modo o nell’altro, iniziano ad

attrezzarsi.

«Abbiamo creato un nostro profilo su Facebook da novembre dello scorso anno» racconta Marta Francescangeli, dell’ufficio

comunicazione Focsiv. «L’esigenza è nata per promuovere l’adesione e la raccolta firme “Per un’impresa umana”, campagna sulla

regolamentazione delle multinazionali. I risultati sono stati molto buoni, i contatti aumentano costantemente, 20-30 la setti-

mana».

«La presenza su Facebook è nata come spazio per far incontrare i viaggiatori tra loro» dice Eva Clemente di Viaggi solidali, coo-

perativa che promuove itinerari di turismo responsabile, «si scambiano notizie, foto, si segnalano link utili o libri. Temevamo

che fosse un impegno gravoso, ma ci siamo accorti che in gran parte funziona da solo, i contributi importanti li mettono gli

stessi utenti, noi diamo solo qualche stimolo, segnaliamo appuntamenti e momenti aggregativi».

L’Mlfm di Lodi è entrato sui social network (sia Facebook sia My Space) da ottobre 2008, mette in rete appuntamenti, foto di

progetti, lettere dei volontari «soprattutto per avvicinare i giovani» dice Simona Mori, responsabile dell’ufficio comunicazione

e raccolta fondi dell’ong. Oggi su FB hanno circa 700 amici, «non è male, considerando che l’associazione ha 90 soci, quasi tutti

sopra i 50 anni». E non è raro che alcuni di questi vadano a trovarli fisicamente o si offrano per fare volontariato “vero”.

In realtà le statistiche dicono che internet non è un posto di giovani; se si escludono le chat e Netlog, considerato il social net-

work degli under 25, la media degli utenti ha 40-45 anni, «comunque molto meno dei nostri donatori medi, che si attestano

sui 60 anni» precisa Paolo Ferrara di TdH. «Sono persone che, se ricevono a casa la classica lettera con richiesta fondi, la but-

tano via, mentre sul web si fanno coinvolgere».

Il fundraising è on line

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E qui si apre un tema di forte interesse per le associazioni che fanno solidarietà con i paesi poveri: si

possono raccogliere fondi con gli strumenti del Web 2.0?

Allo stato dell’arte in Italia sostanzialmente no, mentre negli Stati Uniti si fa agevolmente da anni.

Particolarmente famoso il network Kiva.org (vedi box), che oggi movimenta 18 milioni di dollari per

l’erogazione di microcrediti ai piccoli imprenditori dei paesi poveri, mettendo in relazione diretta

“prestatori” e “beneficiari, ma anche GlobalGiving, che abbraccia cause più generali o Change.org,

pensato per mettere in rete ong, politici e attivisti allo scopo di fare massa critica su determinati temi

(da notare la presenza massiccia di politici Usa). E ancora Network for Good o Reality Charity. Sono

almeno una ventina le grandi piattaforme nate da no profit statunitensi per sostenere cause sociali,

che fanno tesoro delle nuove tecnologie, con tre principi di fondo: mediazione ridotta all’osso, spon-

sorship per favorire l’impegno in prima persona, feedback sui risultati e ampio ricorso ai cosiddetti

“tool virali”, cioè gli strumenti basati sul passaparola. Anche su Facebook negli Usa e in Canada si

raccolgono fondi, con il semplice meccanismo delle “Causes”. Cosa che da noi ancora non è possibi-

le. Ma c’è chi prevede che il cambiamento sia alle porte. «Gli italiani sono particolarmente diffidenti

sull’uso della carta di credito on line» dice Paolo Ferrara, «benché internet sia più sicuro di molti altri

luoghi in cui la carta si usa. C’è poi un problema di lingua; le grandi compagnie di software investo-

Anche l’idea di sviluppo cambia: dai progetti istituzionali ad attività in forma reticola-re, promosse da piccole e creative iniziative dal basso

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no poco sui prodotti per l’Italia, perché la nostra è una lingua residuale, ma difficilmente un contri-

buente italiano va a sostenere un progetto su un sito in inglese. L’esplosione recente di FB in Italia,

però, sta cambiando il panorama». L’importante è non trovarsi impreparati.

Sviluppo 2.0?Il Web 2.0 però non è solo questione di fundraising o peopleraising. Può influenzare direttamente il

modo di concepire e praticare la cooperazione allo sviluppo. Tanto che Fao, Ifad e altri hanno pro-

mosso il primo Congresso mondiale “Web2 per lo sviluppo” a fine 2007 (www.web2fordev.net). E c’è

chi parla già di un passaggio dal concetto di “Sviluppo 1.0” a “Sviluppo 2.0”, dove il primo è il model-

lo rappresentato dalle grandi istituzioni internazionali (Onu, Banca mondiale, ecc.) e dalle cosiddet-

te Bingo (le Big Ngo, le grandi ong), mentre il secondo si delinea in forma reticolare, rappresentato

da piccole e creative iniziative dal basso.

Il punto di rottura, secondo Howard Rheingold, autore del manuale “Technologies of cooperation”

(http://www.rheingold.com/cooperation/Technology_of_cooperation.pdf) è rappresentato proprio

dalla facilità di organizzazione in rete e dai cambiamenti che ciò comporta a livello di processi inter-

ni, condivisione dei saperi, produzione tra pari. Proprio la condivisione aperta di dati, statistiche,

know-how, risultati potrebbe essere un elemento determinante per i progetti di sviluppo del futuro;

pensiamo a strumenti come Google Earth Outreach (http://earth.google.com/outreach/index.html),

che ha anche la versione italiana, per la mappatura dal basso dei fenomeni più vari, dall’atlante della

malaria ai genocidi in Darfur e dove le associazioni possono inserire le proprie storie, esempi, propo-

35Dossier

Ushahidi, una mappainterattiva sulle crisiIn kiswahili significa “testimoni”,www.ushahidi.com è una delle primepiattaforme open source messa a puntoda un gruppo di attivisti africani permappare le situazioni di crisi.Attualmente sono attive due sezioni, unasulla guerra a Gaza, realizzata in collabo-razione con Al Jazeera, che ha contribuitoanche a sviluppare il programma, l’altrasulla Repubblica Democratica del Congo.L’aspetto interessante non è solo che per-mette di aggregare aggiornamenti in ogniformato, testo, video e immagini su unamappa dinamica (tra cui compare anchela mappa degli aiuti umanitari), ma cheoltre ai giornalisti chiunque può inviaresegnalazioni o denunce attraverso unsemplice sms. Ushahidi permette cosìun’informazione in tempo reale dalle zonepiù remote, la creazione di un archiviogeolocalizzato e, soprattutto, la parteci-pazione degli utenti.

Sotto: l’utilizzo delle

nuove tecnologie web

2.0 è sempre più diffuso

anche nei centri di

eccellenza del Sud del

mondo. Esempio

famoso sono le

piattaforme multimediali

di Al Jazeera; durante i

bombardamenti a Gaza

l’emittente del Qatar ha

fatto ampio utilizzo di

Twitter, il servizio di

microblogging che

consente di postare

messaggi dal cellulare.

In pochi giorni hanno

avuto 6000 abbonati al

servizio

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ste, ma anche uno strumento straordinario come Gapminder, pensato per visualizzare in modo più

efficace i dati sullo sviluppo, o Cooperation Commons, su tutte le nuove tecnologie per la coopera-

zione on line.

La svolta mobileAltro capitolo, ma strettamente connesso, è la prospettiva della cosiddetta “svolta mobile”. Come

spiega bene Nicola Bruno nell’articolo “Quando il web prova a cambiare il mondo” su Visionpost.it del

2007: “Restano pur sempre problemi di natura infrastrutturale e logistica. Come raggiungere senza

intermediazione un contadino perché possa, ad esempio, richiede un prestito on line? Più che pensa-

re di risolvere il digital divide con le tanto annunciate (ma sempre insufficienti) cablature o antenne

WiMax, è molto più realistico puntare sulla diffusione esplosiva dei dispositivi mobili nei paesi in via

di sviluppo. In Kenya oggi si contano 400 sportelli bancari, 600 bancomat e dieci milioni di cellulari”.

Alcuni esempi sperimentali fanno ben sperare. “Si veda il progetto Jamii Bora in Kenya (www.jamii-

bora.org) dove grazie alla tecnologia Gprs e a 200 punti vendita mobili è stato possibile elargire

micro-prestiti a 150 mila persone in un anno”. Quello che evidentemente manca ancora è “uno sche-

ma di regole condivise tra tutti gli attori coinvolti”. Le tecnologie mobili sono anche adatte a fornire

informazioni. Ad esempio il progetto Wepoco in Etiopia aggrega dati e previsioni meteorologiche e le

distribuisce via cellulare ai contadini, per aiutarli a gestire meglio le coltivazioni a rischio.

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Il cerchio della cooperazioneChe le nuove tecnologie siano utili al lavoro quotidiano nella solidarietà inter-nazionale se n’è accorta anche la regione Piemonte, che da tempo aveva ilproblema di come mettere in rete e far circolare le informazioni, le esperienze,i progetti tra i diversi protagonisti di uno dei territori più attivi in Italia nellacooperazione decentrata. E’ nato così il “Cerchio della cooperazione”, commu-nity della cooperazione piemontese realizzata con la collaborazione delDipartimento Delta del Centro di Formazione Internazionale dell’Ilo(International labour organisation), che verrà presentata ufficialmente neiprossimi mesi subentrando al sito attuale con lo stesso indirizzohttp://agora.regione.piemonte.it . Gli utenti, siano essi amministrazioni pubbli-che, università, ong, scuole o singoli cittadini sono dotati di diversi livelli diaccesso, e possono scambiarsi documenti e informazioni, creare gruppi dilavoro, aggiornare l’agenda comune, consultare e integrare la biblioteca online. L’esperienza è all’inizio, ma le premesse sono buone. «L’esigenza di mag-giore comunicazione era stata espressa più volte dai soggetti attivi nella coo-perazione in Piemonte» spiega Giorgio Garelli, dell’ufficio Affari internazionalidella regione, «la difficoltà è sempre stata trovare i canali giusti evitando diaccrescere il lavoro di ognuno con faticose riunioni che richiedevano di spo-starsi per centinaia di km. Riteniamo che questa possa essere una prima ini-ziale risposta e che, a seguito della necessaria sperimentazione, possa diven-tare uno strumento permanente di comunicazione tra gli operatori e con i cit-tadini».