le metamorfosi o l'asino d'oro

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LE METAMORFOSI O L'ASINO D'OROApuleio LE METAMORFOSI O L'ASINO D'ORO (Secondo secolo dopo Cristo) LIBRO 1 1. Ecco, nello stile milesio voglio, lettore, intrecciare per te varie favole, e con il piacevole mormorio del mio narrare carezzare le tue orecchie benevole. Basterà solo che tu non rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egizio che è stato scritto con la finezza propria di una cannuccia del Nilo. Avrai da stupirti, poiché si tratterà delle persone e delle sorti di uomini mutati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno di nuovo nella forma primitiva. Esordisco. "Chi è costui?" ti chiederai. Ti rispondo brevemente. L'attica Imetto, l'epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò anticamente la mia schiatta; qui, nei primi esercizi dell'infanzia, appresi la lingua attica. Poi, nella città del Lazio, io, che ero straniero all'ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell'idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se, da parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare. Del resto, pure la varietà del mio linguaggio corrisponde all'abilità del passare da una storia all'altra, che è propria dell'argomento da me trattato. Inizio dunque una favola che è alla maniera dei Greci. Stai attento, lettore, perché ci troverai il tuo spasso.

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Contiene la favola di Amore e Psiche, la più antica fiaba messa per iscritto in Occidente.

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Page 1: Le Metamorfosi o l'Asino d'Oro

LE METAMORFOSI O L'ASINO D'OROApuleio

LE METAMORFOSIO L'ASINO D'ORO (Secondo secolo dopo Cristo)

LIBRO 11. Ecco, nello stile milesio voglio, lettore, intrecciare per te varie favole, e con il piacevole mormorio del mio narrare carezzare le tue orecchie benevole. Basterà solo che tu non rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egizio che è stato scritto con la finezza propria di una cannuccia del Nilo. Avrai da stupirti, poiché si tratterà delle persone e delle sorti di uomini mutati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno di nuovo nella forma primitiva.

Esordisco.

"Chi è costui?" ti chiederai. Ti rispondo brevemente. L'attica Imetto, l'epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò anticamente la mia schiatta; qui, nei primi esercizi dell'infanzia, appresi la lingua attica.

Poi, nella città del Lazio, io, che ero straniero all'ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell'idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se, da parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare.

Del resto, pure la varietà del mio linguaggio corrisponde all'abilità del passare da una storia all'altra, che è propria dell'argomento da me trattato.

Inizio dunque una favola che è alla maniera dei Greci. Stai attento, lettore, perché ci troverai il tuo spasso.

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2. Ero diretto per affari in Tessaglia. La mia famiglia infatti è originaria di quel paese per parte di madre e vanta tra i suoi ascendenti niente meno che il celebre Plutarco e poi suo nipote, il filosofo Sestio.

Me ne andavo dunque in Tessaglia in sella a un cavallo del posto dal candido mantello, e avevo già varcato ripidi fianchi di monti, declivi sdrucciolevoli di valli, distese rugiadose di prati e terreni di fertili zolle, quando, visto che la mia cavalcatura era sfinita, saltai a terra. Volevo anche sgranchirmi un po' le gambe, poiché lo star sempre seduto mi aveva veramente stancato.

Con molta cura asciugo al cavallo la fronte bagnata di sudore, gli accarezzo le orecchie, gli tolgo il morso, lo lascio avanzare pian piano a passo molto calmo, in attesa che liberi, come d'abitudine, il ventre per la via naturale e smaltisca così il peso della stanchezza.

Mentre il cavallo, volgendo il muso di fianco, si curvava a brucare l'erba dei prati attraverso i quali passava, e, andando al passo, faceva un rapido spuntino, io mi aggregai come terzo a due compagni di viaggio che si trovavano un po' innanzi a me.

Ascoltando la loro conversazione, sentii uno dire all'altro con una sghignazzata:"Piantala di raccontare in questo modo panzane così assurde ed enormi".

Appena udii questa frase, io, che sono sempre assetato di novità, esclamai: "Anzi, permettetemi di partecipare alla conversazione.

Non sono un ficcanaso, ma mi piace sapere tutto o almeno quanto più posso. Il monte che stiamo salendo è aspro. Raccontando piacevolmente delle storie, ci svagheremo, ed esso ci sembrerà più facile".

3. Ma quello che aveva parlato per primo, riprese:"Sono tutte fandonie, queste! Bella verità! Come se qualcuno volesse sostenere che basta sussurrare una formula magica perché i fiumi tornino agili indietro, il mare, messo in ceppi, diventi inerte, i venti, pur non avendo fiato, soffino, il sole si fermi, la luna sia schiumata come un brodo, le stelle si stacchino

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dal cielo, il giorno scompaia, la notte prolunghi la sua durata".

Io allora interloquii con maggior sicurezza:" Be' ! Tu che hai parlato per primo, non avertene a male, vinci la tua noia e continua il tuo racconto sino alla fine".

E rivoltomi all'altro:"In quanto a te, ti turi le orecchie e rifiuti ostinatamente d'intendere cose che forse si potrebbero riscontrare vere.

Perbacco! Tu non sai una cosa: che i pregiudizi senz'ombra di verità rendono del tutto incredulo l'uomo davanti a quei fatti che egli crede di non aver mai sentito o visto, o che comunque per la loro difficoltà gli sembrino al di sopra della sua comprensione.

Ma esamina questi fatti con un po' più di attenzione. Ti accorgerai allora che non solo risultano evidenti alla mente, ma sono pure facili a realizzarsi".

4. "Proprio ieri sera si mangiava un pasticcio di polenta e formaggio. A un certo punto, per star dietro agli altri convitati, inghiottii avidamente un boccone un po' più grosso dell'ordinario.

Ebbene! Poco mancò che non restassi secco, perché quel cibo molle e vischioso mi si era attaccato alle fauci, in modo da chiudermi la trachea. Eppure poco tempo fa ad Atene, davanti al portico del Pecile, proprio con questi miei occhi, ho visto un giocoliere ingoiare per la punta una spada da cavalleria affilatissima. Non solo, ma lo stesso tizio, allettato da poche monete, si cacciò poi fino in fondo alle budella uno spiedo da caccia, inghiottendolo dall'estremità pericolosa, di modo che l'arma, introdotta alla rovescia, sembrava sprofondare con l'asta sino alla nuca.

Dopodiché, ecco che un ragazzo di una bellezza femminea si butta sul ferro della lancia e, volteggiando con elastica agilità, esegue complicate evoluzioni, mentre noi stavamo lì incantati per la meraviglia. Lo si sarebbe detto il nobile serpente arrotolato con le sue molli spire attorno al bastone, tutto nodi e spunzoni, che porta il libro della medicina. Ma su, ora, per piacere, riprendi il racconto che hai cominciato. Io prometto di crederti per tutti e due, e alla prima osteria in cui entreremo ti offrirò il pranzo. Ecco pronto il compenso per

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il tuo disturbo".

5. E lui: "Accetto volentieri la tua promessa, ma ero appena agli inizi, e continuerò dunque a raccontare. In primo luogo ti giuro per il Sole che è ora in cielo, dio onniveggente, che io racconto fatti realmente accaduti. Del resto non avrete più alcun dubbio, quando giungerete alla più vicina città della Tessaglia, perché là la storia corre sulle bocche di tutti, e si tratta di cose successe davanti agli occhi della gente.

Voglio però che prima sappiate il mio nome e la mia città. Mi chiamo Aristomene e sono di Egio. State a sentire quali sono le risorse del mio commercio. Io giro in lungo e in largo Tessaglia, Etolia e Beozia, vendendo miele, formaggio e gli altri generi alimentari che servono nelle trattorie.

Mi era giunto all'orecchio che a Ipata, la più fiorente città di Tessaglia, era offerto in vendita a un prezzo conveniente del formaggio fresco e dal gusto squisito, e corsi in fretta per acquistare l'intera partita. Ma, come spesso succede, si vede che ero partito col piede sinistro, perché il guadagno sperato andò in fumo: infatti, il giorno prima, Lupo, un commerciante all'ingrosso, aveva accaparrato tutta l'offerta.

Perciò, stanco della corsa inutile, mi avviai ai bagni pubblici, che già calava la sera.

6. Ma ecco che vedo niente di meno che Socrate, un mio compagno.

Se ne stava seduto per terra, con un mantellaccio sfrangiato che appena lo copriva, e non lo si riconosceva più, tanto era pallido e sfigurato dalla magrezza, in modo da far pietà, proprio come uno di quei relitti della fortuna che nei crocicchi usano chiedere l'elemosina .

Era questi un mio intimo amico, e io lo conoscevo benissimo; tuttavia era in tale stato, che mi accostai a lui un po' titubante ed esclamai:- Be'! O Socrate, che significa? Che aspetto hai! Come sei mal ridotto! A casa tua ti hanno già pianto e gridato per morto, e ai tuoi figli sono stati assegnati dei tutori, con un decreto del giurisdicente provinciale; in quanto a tua moglie, essa, resi gli onori funebri, prima si è consumata nel pianto e nell'afflizione e, a forza di spremersi gli occhi, ha quasi perso la vista; ora

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sta per cedere alle insistenze dei suoi genitori e rallegrare con nuove nozze la tua casa, che è stata colpita dalla sventura. Ma tu, per colmar la nostra vergogna, ti vedo qui che sembri uno spettro dell'al di là.

- Aristomene -, fu la sua risposta - si vede bene che tu non conosci le mutevoli giravolte, i colpi mancini, le scambievoli peripezie delle vicende umane.

Mentre parlava, il suo volto si tingeva di rosso per la vergogna, tanto che alla fine se lo coprì con quel mantello, tutto toppe come quello di una maschera, e in questo atto, dall'ombelico sino al pube mostrò nudo il resto del corpo. Insomma, non ressi al doloroso spettacolo della sua miseria, e la compassione mi vinse.

Gli porgo la mano e gli faccio forza perché si alzi.

7. Ma lui, così com'era, col capo coperto dal mantello, esclamò:- Lascia, lascia pure che la Fortuna goda ancora a lungo del trofeo che si è elevata da sé.

Tuttavia riuscii a ottenere che mi seguisse. Mi tolgo una delle due tuniche che avevo addosso, e mi affretto a vestirlo o, per meglio dire, a nascondere la sua nudità, dopodiché lo affido all'acqua del bagno. Di persona gli passo l'occorrente per asciugarsi e ungersi; con grande cura gli tiro via, a forza di fregare, lo spesso strato di sudiciume.

Così, dopo una pulizia scrupolosa, poiché era debole, me lo piglio sotto braccio (fu una faticaccia, perché ero stanco anch'io) e me lo porto fino all'albergo; qui lo metto a riposare in un buon letto, lo rimpinzo di cibo, gli rischiaro il morale con dei buoni bicchieri e gli racconto delle storie per svagarlo.

Già lui si abbandonava alla voglia di chiacchierare, di scherzare, di scambiare garbate facezie; già la conversazione si svolgeva allegra e vivace, quando emise un doloroso sospiro, che gli veniva dal cuore, e battendosi con rabbia la fronte con la destra, esclamò:- Che disgraziato sono! In quale abiezione sono caduto! Tutto per aver voluto correre dietro allo spasso di uno spettacolo di gladiatori, del quale si raccontavano meraviglie. Difatti, tu lo sai bene, mi ero recato in Macedonia per il mio commercio; dopo nove mesi che trascorsi là per i miei interessi, me ne

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tornavo abbastanza fornito di quattrini, ma un po' prima di Larisa (siccome passavo di là, volevo assistere a uno spettacolo di gladiatori), in una valle deserta e piena di anfratti, fui assalito da briganti avidissimi che mi hanno spogliato completamente. Riuscii però a svignarmela e, visto che ero ridotto al verde, presi alloggio da un'ostessa, una certa Meroe. Era questa una donna anziana ma molto piacente, così le raccontai i casi delle mie lunghe peregrinazioni, gli affannosi pericoli del ritorno, la miseria in cui mi trovavo per la rapina subita, e lei dapprima mi trattò con molta gentilezza, mi offrì gratis una cena generosa, poi, solleticata da un molesto prurito, mi tirò nel suo letto. Fu questa la mia rovina! Bastò dormire con lei una notte sola, per contrarre una relazione senza fine e senza rimedio.

Persino le vesti che quei bravi ladroni mi avevano lasciato, ho finito per regalargliele! Persino quei miseri guadagni che facevo, quando ero ancora in gamba, esercitando il mestiere di facchino!Alla fine, grazie a quella brava femmina e alla mia malasorte, mi sono ridotto nello stato in cui poco prima mi hai visto.

8. - Perbacco -, esclamai - sei degno sul serio dei più atroci supplizi, se pure c'è una pena più grave di quest'ultima che ti è capitata. Ma come hai potuto preferire alla tua casa e ai tuoi figli un capriccio amoroso dietro una sgualdrina incartapecorita?Al che, lui, mettendosi l'indice sulla bocca e con i segni dello sbigottimento sul volto.

- Taci, taci - mi raccomandò. Poi, volgendo intorno gli occhi per assicurarsi se poteva parlare liberamente, aggiunse:- Modera le tue parole, perché costei è una donna fuori del comune. Potresti tirarti addosso un guaio, con la tua intemperanza di linguaggio.

- Oh questa, poi!- esclamo. - Ma che razza di donna è questa gran signora e regina d'osteria?- E' una maga, - rispose - un'indovina. Può tutto: calare giù la volta celeste, sollevare la terra, rendere di sasso le fonti, sciogliere in acqua i monti, innalzare le ombre dei morti al cielo, abbassare gli dèi all'Inferno, spegner le stelle, dar la luce persino al Tartaro.

- Per piacere, - esclamai - metti da parte questo sipario da tragedia, ripiega questo tendone da teatro e parla come parlano tutti.

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- Vuoi - mi chiese - sentire un esempio o due del suo potere? Te ne potrei raccontare finché vuoi. Che si amino perdutamente non solo le persone del luogo, ma anche gli indiani, quelli delle due Etiopie o gli altri degli Antipodi, queste sono le briciole dell'arte magica, sono cosette da niente. Ascolta piuttosto i prodigi che ha eseguito in presenza di parecchi testimoni.

9. - Un suo amante che, con suo scorno, l'aveva piantata per correre dietro a un'altra, con una sola parola l'ha mutato in un castoro. E' un animale, questo, che per sfuggire alla prigionia, si sbarazza degli inseguitori recidendosi i genitali: voleva, dunque, che anche a lui capitasse lo stesso, perché aveva riposto il suo piacere in un'altra. Anche un oste, suo vicino e quindi suo rivale, lo ha trasformato in una rana, e ora il povero vecchio nuota in una botte del suo vino e, sepolto nella feccia, chiama raucamente con un gracidio che vuol essere cortese i suoi antichi avventori. Un avvocato che aveva parlato contro di lei, lo ha trasformato in un montone, e ora quel montone tratta cause in tribunale. In quanto alla moglie di un suo amante, siccome le aveva rivolto una frase di scherno, l'ha condannata a essere incinta in eterno. Dato che quella era già sotto il peso della gravidanza, la maga le ha chiuso l'utero e ritardato il momento del parto; insomma, secondo i calcoli della gente, il fardello è già di otto anni, e la poverina si è gonfiata come se dovesse partorire un elefante.

10. - Molti altri successivamente sono rimasti vittime delle sue arti, e l'indignazione popolare crebbe a tal punto, che un bel giorno si decise di condannarla a una pena tra le più severe:I'indomani avrebbe dovuto esser lapidata. Ma lei, grazie ai suoi incantesimi, prevenne la condanna, al pari della famosa Medea che, ottenuto il respiro per una sola giornata da Creonte, con le fiamme, originate da una corona, aveva bruciato l'intera casa, la figlia e lo stesso padre. Egualmente agì Meroe. Eseguendo sortilegi su di una fossa funebre, ottenne, tramite la tacita potenza delle divinità, che tutti, come poi mi raccontò in un accesso di ubriachezza, fossero chiusi nelle loro case. Per due giorni interi, nessuno poté togliere i chiavistelli né abbattere le porte e neppure aprire un foro nei muri; alla fine tutti concordemente a gran voce la supplicarono e si impegnarono con solenni giuramenti a non toccarle un capello, anzi a offrirle aiuto e salvezza, se qualcuno avesse osato farle torto. Solo a questi patti lei si indusse a più miti consigli e mise in libertà i concittadini. Però il promotore di quel complotto, a notte fonda, con la casa completamente sbarrata, come si trovava, cioè con le pareti, persino col terreno e con tutte le fondamenta, venne da lei trasportato a cento miglia di lì in un'altra città, situata sul cocuzzolo d'una montagna scoscesa e perciò priva d'acqua. Siccome poi le dimore degli abitanti erano così serrate tra loro che non offrivano spazio alcuno al nuovo arrivato, essa fece

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atterrare la casa di fronte alla porta della città e poi se ne andò pei fatti suoi.

11. - C'è da meravigliarsi e da rabbrividire, Socrate mio, al tuoi racconti - esclamai. - Pure a me hai cacciato addosso una bella preoccupazione, anzi una bella paura. Non è una pulce nell'orecchio, questa: è una lancia che mi è capitata tra capo e collo. Io temo che quella vecchia si avvalga, come ha già fatto, di forze demoniache per conoscere i nostri discorsi. Direi dunque di andare a letto presto, di riposarci con una buona dormita, e di notte, prima dell'alba, di svignarcela via da qui il più lontano possibile.

Stavo ancora facendo queste raccomandazioni, che già il buon Socrate si era addormentato e ronfava della grossa. E si capisce!La stanchezza per quel lungo periodo di stenti, e il vino al quale non era più abituato, lo avevano cotto a dovere. Allora io tiro la porta e caccio tanto di chiavistello, metto inoltre il mio giaciglio dietro i battenti, ce lo accosto con cura e mi ci butto sopra. Dapprima rimasi sveglio un bel po' per la paura, poi, verso le tre di notte, chiusi un po' gli occhi. Ma mi ero appena assopito, che all'improvviso si spalancano le porte con una violenza troppo grande per crederla opera di briganti. Ma che dico! I cardini vengono rotti o strappati completamente, e l'uscio abbattuto a terra. Pure il mio lettuccio, che era corto, zoppo d'un piede e tutto tarlato, si rovescia per la violenza dell'urto, e anch'io rotolo e precipito per terra, e il letto, capitombolando all'indietro, viene a ricoprirmi interamente.

12. Ebbi allora la prova naturale che certi stati d'animo producono effetti contrari. Infatti spesso la gioia fa versare lacrime, e così io, per quanto fossi pieno di paura, non potei trattenere il riso, visto che da Aristomene ero mutato in una tartaruga. Precipitato sul pavimento e appiattito sotto quel lettuccio, così pieno di sollecitudine nei miei confronti, attendevo a spiare di traverso il seguito della faccenda. Vedo niente di meno due donne di età avanzata: una portava una lucerna accesa, l'altra una spugna e una spada nuda. In tal foggia si piazzano ai fianchi di Socrate che dormiva della grossa, e la donna con la spada esclama:- Eccolo qua, sorella Pantia, il caro Endimione, eccolo qua il mio Catamito, che giorno e notte ha sfruttato la mia gioventù, ecco qua quello che disprezza il mio amore. Non solo mi oltraggia con le sue calunnie, ma si accinge pure a svignarsela. Ma io non starò a piangere in eterno sulla mia vedovanza, come Calipso che fu abbandonata dall'astuto Ulisse.

Stese quindi la destra e, additandomi alla sua cara Pantia, aggiunse:

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- C'è poi quella buona lana di Aristomene, il saggio consigliere, che lo ha indotto a fuggire. Ora giace bocconi sotto il letto con la faccia rivolta a terra, ma non gli sfugge niente di quanto avviene. Costui crede che se la passerà liscia, per le offese che mi ha recato. Certo, la mia vendetta arriva un po' tardi, ma lui avrà da pentirsene presto, anzi sul momento, prima per i suoi scherni e ora per la sua curiosità.

13. Come udii queste parole, disgraziato che ero! mi sentii correre un sudore freddo per il corpo, le budella mi ballavano per il gran convulso e il tremito si comunicava al lettuccio, che ondeggiava e saltava irrequieto sulla mia schiena. Dal canto suo, la brava Pantia interloquì:- Non sarebbe meglio, sorella mia, fare a pezzi per primo costui alla maniera delle Baccanti, oppure legarlo come un salame e tagliargli i testicoli?Al che Meroe (e in effetti cominciavo ad accorgermi che il suo nome si adattava bene ai racconti di Socrate) replicò:- Al contrario. Lasciamolo pure in vita, e che seppellisca in poca terra il cadavere di questo sciaguratello.

E, spinta di fianco la testa di Socrate, gli immerge la spada attraverso la clavicola sinistra fino all'elsa, poi accosta un piccolo otre e raccoglie diligente il sangue che sgorgava, senza versarne in terra neppure una goccia. Sono cose, queste, che ho visto coi miei occhi. Inoltre la buona Meroe, per non portare, credo, alcuna innovazione nei riti che regolano i sacrifici, introdusse la destra attraverso la ferita e, dopo molto frugare, ne trasse il cuore del mio povero compagno, mentre dalla sua gola, squarciata per il violento colpo di spada, più che voce, usciva un incerto gorgoglio, e il fiato sfuggiva sotto forma di bolle.

Intanto Pantia tampona con la spugna la larga piaga della ferita, ed esclama:- O spugna, tu che sei nata nel mare, bada bene di non traversare la corrente di un fiume.

Compiuti questi atti, esse, prima di partire, si accosciarono a gambe allargate sulla mia faccia e scaricarono la vescica, finché non mi ebbero completamente bagnato con la loro immonda orina.

14. Avevano appena varcato la soglia, che i battenti si rialzano in piedi, intatti com'erano prima, i cardini rioccupano gli infissi, le sbarre ritornano al loro posto sulla porta, il chiavistello ripenetra negli anelli. Io invece rimango immobile ancora steso a terra, senza fiato, nudo, freddo e madido

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d'orina, come se fossi allora uscito dal ventre di mia madre. Ma che dico!Ero mezzo morto, ma pure mi pareva d'esser un sopravvissuto a me stesso, un superstite, o un candidato che fosse stato già designato a salire sulla croce.

Dicevo, infatti:- Che avverrà di me domani, quando costui verrà scoperto sgozzato?Chi crederà alla verosomiglianza delle mie proteste, anche se dico la verità? Mi obbietteranno: 'Ma tu almeno potevi gridare al soccorso, se un pezzo d'uomo, come te, non se la sentiva di opporsi a una donna. Ma come ? Un uomo viene ucciso sotto i tuoi occhi e tu te ne stai zitto? E come va che quelle criminali non hanno ucciso allo stesso modo anche te ? Persone così crudeli e spietate avrebbero dovuto far fuori un testimone, solo per la paura d'essere denunciate per il loro delitto. Dunque, visto che sei sfuggito alla morte, ora torna pure da lei'.

Mentre tra me stesso non la smettevo di girare e rigirare tali considerazioni, la notte trapassava nel giorno. Perciò il miglior partito mi parve quello di tagliar la corda prima dell'alba, e incamminarmi per la mia strada, anche se le gambe mi facevano cilecca. Raccolgo il mio povero bagaglio, infilo la chiave e cerco di aprire il catenaccio, ma quella porta onesta e fedele, che si era spontaneamente spalancata durante la notte, ora, ficca e rificca la chiave, alla fine si lasciò aprire solo a prezzo di molti sforzi.

15. - Ohi là! Dove sei? - grido al portinaio. - E' l'alba. Voglio partire.

Quello se ne stava dietro l'uscio del suo sgabuzzino, sdraiato in terra, e ancora mezzo addormentato mi fa:- Che cosa? Vorresti metterti in cammino di notte? Ma non sai che le strade sono infestate dai briganti? Può darsi che tu abbia qualche delitto sulla coscienza, e perciò che non te ne importi un fico di vivere, ma io non ho una zucca sul collo, e non ci tengo a morire al tuo posto.

- Ma il giorno è vicino - obbiettai. - E poi cosa vuoi che rubino i banditi a un disgraziato di viandante senza il becco di un quattrino? O che sei scemo! Non sai che un uomo senza panni addosso non possono spogliarlo neppure dieci lottatori di palestra?Ma quel tizio, marcio di sonno, si girò sull'altro fianco e tagliò corto:- Insomma, che ne so io? Potresti aver ammazzato quel compagno con cui sei arrivato ieri sera, e ora voler dartela a gambe!Ricordo che in quell'istante vidi la terra aprirsi sino al Tartaro e nel suo

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fondo il cane Cerbero bramoso di divorarmi per la gran fame. Fui allora sicuro che, se la generosa Meroe aveva risparmiato il mio collo, non era stato per pietà, ma per riservarmi, nella sua crudeltà, al supplizio della croce.

16. Me ne tornai allora nella mia camera, e pensavo tra di me al modo più sbrigativo di porre fine ai miei giorni. Il fatto è che la Fortuna non mi offriva altra arma che potesse condurre alla morte, all'infuori del mio giaciglio, e così a esso mi rivolsi:- O lettuccio mio, - esclamai - amico carissimo del mio cuore, tu che con me hai sofferto tante disgrazie, tu che sei testimone imparziale degli avvenimenti di stanotte, tu solo potresti confermare la mia innocenza al momento del processo. E' tempo ormai che tu mi offra un'arma liberatrice, perché sono impaziente di scendere nel regno dei morti.

Mentre parlavo, mi volgo a sciogliere una delle corde con cui era intrecciata la rete del letto, ne avvolgo un capo attorno a una trave che sporgeva da una parte sotto la finestra, e con l'altro capo faccio un solido nodo. Poi salgo sul letto eroicamente, pronto a morire, introduco la testa nel cappio e me lo infilo al collo.

Stavo dunque per dare un calcio al sostegno su cui poggiavo, perché sotto la trazione del peso la fune che mi serrava alla gola annientasse la vitale funzione del respiro, ma all'improvviso la fune, che era vecchia e rosa dalle tarme, si spezza, e io, capitombolando all'ingiù investo Socrate (infatti era steso di fianco a me) e rotolo in terra assieme a lui.

17. Proprio in quell'istante irrompe dentro il portinaio urlando senza riguardo:- Dove ti sei cacciato? Stanotte avevi una fretta del diavolo, ora russi sotto le coperte.

A questi parole, non so se svegliato per effetto della caduta o dalle sguaiate vociferazioni di quello, si alzò per primo Socrate e disse:- Giustamente i viaggiatori non possono soffrirli, tutti questi locandieri. Questo ficcanaso importuno è entrato, immagino, per arraffare qualcosa. Ero sprofondato in un sonno di piombo, eppure mi ha svegliato, con tutto il suo baccano.

Mi drizzo in piedi d'un balzo, poiché la gioia insperata mi aveva colmato di felicità, ed esclamo:

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- Ecco, o fedelissimo portinaio, il mio compagno, il mio fratello.

Eccolo quello che tu falsamente mi accusavi di aver ucciso. Si vede che eri ubriaco stanotte.

Così dicendo, abbracciavo Socrate e lo baciavo. Ma egli, respinto dalle zaffate dell'immondo liquido con cui quelle streghe mi avevano sporcato, mi respinge con violenza esclamando:- Va' via, che la più schifosa delle latrine non puzza come te ; e cominciò a richiedere scherzosamente la causa di quel fetore. Ma io, che ero nella brace, lì per lì immaginai una battuta che, pur non quadrando un gran che, riuscì a deviare la sua attenzione verso altri argomenti. Poi, battendogli la mano sulla spalla, gli dico:- Perché non ce ne andiamo? Di mattina è un piacere camminare col fresco.

Raccolgo quel po' di bagaglio che avevo, pago il prezzo della camera all'oste e ci mettiamo in marcia.

18. Avevamo già fatto un bel pezzo di strada, e il sole, che intanto era sorto, spargeva dappertutto la sua luce. Io osservavo con molta attenzione la gola dell'amico, in quel punto in cui avevo visto immergere la spada, e dicevo a me stesso:- Pazzo che sei! Colpa tua se avevi bevuto ed eri sepolto nel vino al punto di fare sogni così atroci! Eccolo qua, Socrate. E' intero, sano e salvo. Dov'è la ferita, dov'è la spugna, dov'è insomma quella piaga così profonda e recente?Poi mi rivolgo a lui:- Medici autorevoli sostengono, e hanno ragione, che se uno si gonfia di cibo e di vino, fa poi sognacci terribili e malsani.

Ieri sera ho ecceduto nello svuotare il bicchiere, e ho passato una nottataccia piena d'incubi orribili e minacciosi. Figurati che ancora adesso mi pare d'essere asperso e macchiato di sangue umano!Il mio amico sorridendo replicò:- O non certo di sangue sei bagnato, ma di orina. Ma pensa che anch'io ho sognato, nientemeno, che mi sgozzavano. Infatti ho sentito una trafittura qui nel collo, e mi è parso che mi strappassero il cuore. Anche ora sento che mi manca il fiato, mi tremano le ginocchia e ho il passo malfermo. Ho bisogno di mangiar qualcosa per rimettermi in sesto.

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- Pronti! - gli rispondo. - La colazione t'aspetta; e togliendomi dalla spalla la bisaccia, gli offro subito del pane e un pezzo di formaggio.

- Sediamoci all'ombra di questo platano - gli dico.

19. Così facemmo, e mentre anch'io prendevo un po' di pane e formaggio, lo guardavo che mangiava avidamente, e vedo che la sua magrezza si accentua e il volto gli diventa giallo come il bosso, quasi stesse per svenire.

In breve, nel suo pallore e nei suoi tratti sconvolti era così manifesta l'alterazione della vita, che io, con la mente ancora fissa alle Furie della notte prima, fui colto dal terrore: il primo boccone di pane che mi ero messo in bocca, sebbene fosse molto piccolo, mi si fermò in mezzo alla gola e non voleva più né scendere giù né risalire in su. Anche il pensiero che eravamo in due soli a viaggiare accresceva la mia paura. Chi infatti avrebbe creduto che fra due compagni di strada l'uno fosse morto senza colpa dell'altro?Intanto Socrate, quando ebbe mangiato a sufficienza, cominciò ad avere una sete irresistibile: si era infatti divorato una bella porzione di quell'ottimo formaggio.

Non lontano dalle radici del platano fluiva pigramente una dolce corrente che aveva piuttosto l'aspetto d'un tranquillo stagno e rivaleggiava nei suoi riflessi con l'argento e col cristallo.

- Ecco - dissi - una fonte che deve avere l'acqua dolce come il latte. Bevi pure a volontà.

L'amico si alza, cerca un istante uno spiazzo della riva un po' più in basso, e inginocchiatosi si curva avido a bere una sorsata.

Ma non aveva ancora sfiorato con le labbra il pelo dell'acqua, che la ferita alla gola si apre e mostra una profonda piaga, d'un tratto la spugna scivola giù, e poche gocce di sangue la seguono.

L'uomo è ormai un cadavere che sta per cadere nel fiume, e io faccio appena in tempo ad afferrarlo per un piede e a tirarlo con gran fatica in alto sulla sponda. Qui versai sul mio povero amico quelle poche lacrime che l'incalzare

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degli avvenimenti mi permetteva, e nella spiaggia sabbiosa, nelle vicinanze del fiume, gli diedi eterna sepoltura.

Quanto a me, poiché ero spaventatissimo per la mia stessa vita, me ne fuggii per vie remote e deserte regioni; come se mi fossi macchiato la coscienza di un assassinio, abbandonai la mia patria e la mia casa, abbracciai spontaneamente l'esilio, e ora abito in Etolia, dove mi sono risposato".

20. Questo fu il racconto di Aristomene. Ma il suo compagno, che sin dall'inizio si era incaponito a non prestar fede alcuna alla sua storia, esclamò:"Una favola più sballata di questa non c'è, e neppure un'invenzione più assurda".

Poi si rivolse a me: "E tu, tu che sei un uomo istruito, come dimostri dall'aspetto e dalle maniere, credi a questa storia?".

"Per conto mio," risposi "io credo che tutto è possibile, e in definitiva gli avvenimenti umani hanno l'esito che ha fissato il destino. Infatti, non c'è uomo, compreso me e te, a cui non capitino tanti di quei casi straordinari e impossibili, tali che se tu li vai a contare a uno che non sia al corrente, non sei creduto. Ma io a lui, perbacco, ci credo e gli sono molto grato, perché ci ha saputo distrarre con una storia così interessante che, senza provare stanchezza o noia, ho superato una salita molto lunga e faticosa. E' andata bene anche per la mia cavalcatura:dev'essere un piacere, per lei, che io sia salito, senza fatica da parte sua, sino alla porta della città, viaggiando non sulla sua schiena, ma con le mie orecchie".

21. Così finì la nostra conversazione e il viaggio in comune.

Infatti, tutti e due i miei compagni piegarono a sinistra verso una cascina che era lì vicino. Io invece mi diressi alla prima osteria che vidi, e interpellai senz'altro la vecchia ostessa:"E' questa la città di Ipata?".

Fece cenno di sì.

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"Conosci un certo Milone, un cittadino dei primi?".

Si mise a ridere ed esclamò: "Certo. Qua tutti Milone lo chiamano il primo. Infatti abita completamente al di fuori del pomerio (N.d.t.: terreno consacrato) e della città".

"Lasciamo da parte gli scherzi, nonna cara, e dimmi per piacere che razza d'uomo è, e dove abita".

"Vedi le finestre là in fondo che guardano esternamente verso la città, e dall'altra parte l'uscio che dà nel vicolo vicino? Là abita questo Milone. E' un individuo pieno di soldi, un riccone, ma avarissimo, un uomo malfamato per la sua estrema spilorceria.

Pratica senza ritegno l'usura, prestando denaro a questo e a quello sotto garanzia d'oro e d'argento. Vive sempre chiuso nella sua bicocca, la mira sempre rivolta al guadagno, insieme con la moglie che anche lei ha la stessa malattia. Non tiene servitù all'infuori d'un'unica schiavetta, e va sempre vestito come un mendicante".

22. Di fronte a queste informazioni mi scappa da ridere, e dissi:"Il mio caro Demea ha agito con affetto previdente verso di me, indirizzandomi per il mio viaggio a un uomo simile. Di certo pensava che in casa di costui non avrei patito né esalazioni di fumo né cattivi odori".

Così dicendo, vado avanti pochi passi, mi avvicino all'ingresso e mi metto a bussare alla porta, che era sprangata con tanto di catenaccio, e a chiamar gente. Finalmente si affacciò una ragazza:"Ehi ehi!" esclamò. "Cosa vuoi, che bussi con tanta energia? Quale pegno offri per il denaro che desideri in prestito? O forse sei l'unico a non sapere che qui non entrano altri pegni all'infuori dell'oro e dell'argento?".

"Non potresti fare un augurio migliore?" replicai. "Dimmi, piuttosto: il tuo padrone è in casa?".

"Certamente," mi rispose "ma perché me lo chiedi?".

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"Gli devo consegnare una lettera che gli scrive Demea di Corinto".

"Vado a riferire, e tu intanto aspettami qua".

Con queste parole spranga i battenti e rientra in casa. Dopo un po' ritorna, spalanca la porta e mi dice:"Vuol vederti".

Entro, e lo trovo sdraiato su un lettuccio striminzito, che proprio allora cominciava a cenare. La signora sedeva ai piedi e la tavola era vuota.

"Ecco," esclama, mostrandomi la tavola "quello che posso offrirti".

"Bene" faccio io, e gli consegno la lettera di Demea.

Dà una rapidissima scorsa e mi dice:"Sono riconoscente al mio Demea che mi ha indirizzato un ospite di riguardo".

23. Ordina allora alla sua signora di levarsi, e mi invita a sedere al suo posto; e poiché io per delicatezza esitavo ad accettare, mi prende per la tunica e mi tira giù.

"Siedi qua" mi disse. "Purtroppo, per paura dei ladroni non ci azzardiamo a comprare sedie o mobili in quantità sufficiente".

Mi sedetti, ed egli riprese: "Io, solo al vedere la distinzione del tuo portamento e la tua modestia degna d'una fanciulla, avrei indovinato che discendi da un'ottima famiglia. Del resto, pure la lettera di Demea conferma la mia impressione. Perciò, ti prego, non disprezzare l'ospitalità della nostra povera casa. Vedi la camera adiacente a questa? In essa sarai al coperto, e non ci starai male. Profitta pure a tuo piacere della mia dimora. Se ti degnerai, la mia casa ne ritrarrà vanto e tu acquisterai ornamento di gloria, se ti contenti di una dimora così ristretta, perché eguaglierai la virtù di un eroe di cui tuo padre porta il nome.

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Egli è Teseo che non spregiò l'ospitalità della vecchia Ecale".

Chiama poi la servetta e le ordina: "Fotide, prendi i bagagli dell'ospite e mettili al sicuro in quella stanza. Presto! Tira fuori dalla dispensa l'olio per ungersi, gli asciugatoi e tutto l'occorrente, e conduci il mio ospite al bagno più vicino. Il viaggio è stato abbastanza lungo e faticoso, e lui dev'essere stanco".

24. Come udii la conclusione, io considerai le parsimoniose abitudini di Milone e, poiché me lo volevo accattivare maggiormente, esclamai:"Non ce n'è bisogno. Sono sempre provvisto, quando viaggio. In quanto ai bagni, sarà facile farmeli indicare. Piuttosto c'è una cosa, alla quale tengo moltissimo: Fotide, prendi questi denari e fammi il piacere di comprare fieno e orzo per il mio cavallo che mi ha validamente portato fin qui".

Dopodiché, i miei effetti furono deposti nella suddetta stanza, e me ne andai in cerca dei bagni. Ma siccome volevo prima provvedermi di qualcosa da mangiare, mi diressi al mercato, e là vidi esposto del pesce davvero bello. Chiesi il prezzo, e mi furono chiesti cento sesterzi. Contrattai, e lo ebbi per venti denari.

Proprio mentre stavo per uscire dal mercato, mi imbattei in Pitea.

Era stato mio compagno di studi nell'attica Atene, e non lo vedevo da un bel pezzo. Mi riconosce; affettuosamente si precipita su di me e mi bacia teneramente:"Mio caro Lucio, è passato davvero tanto tempo da quando ci siamo visti. Perdinci! Risale a quando lasciammo la scuola di Clizia.

Qual buon vento ti conduce qui?".

"Te lo dirò domani", gli rispondo. "Ma che sorpresa! Mi congratulo con te: ti vedo attorniato da apparitori e da littori, e mi hai tutto l'aspetto di un magistrato".

"Provvedo al controllo dell'annona", mi risponde, "e sono edile.

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Se vuoi fare degli acquisti, sono a tua disposizione".

Scossi la testa, poiché mi ero già provvisto di pesce in abbondanza per la cena. Ma intanto Pitea, visto il paniere, si mette a soppesare i pesci, per esaminarli meglio.

"Ma questa robetta quanto l'hai pagata?".

"A stento sono riuscito a strapparla a un pescatore per venti denari".

25. Alla mia risposta l'amico mi afferra bruscamente per la mano e mi riconduce indietro al mercato.

"E' una truffa. Chi te l'ha venduta?" mi chiede Gli addito un vecchietto che sedeva in un angolo.

Egli subito lo investe con voce imperiosa, come comportava la sua autorità di edile.

"Lasciamo pure stare i forestieri, ma voi ormai non avete più riguardo neanche per i nostri amici! Dei pesci da nulla li vendete così cari! Volete proprio ridurre la città più fiorente della Tessaglia a un deserto roccioso, con l'esosità dei vostri prezzi?Ma non la passerete liscia. In quanto a te, ti farò vedere io con quale criterio intendo, durante l'anno della mia magistratura, punire i disonesti".

Seduta stante, rovescia al suolo il paniere e ordina a un suo subalterno di salire sui pesci e di spiaccicarli a dovere. Poi, tutto soddisfatto per avere mostrato la severità del suo agire, il caro Pitea mi dice:"Vieni via, ora. Ho dato al vecchio una bella lezione, e mi basta".

Rimasi costernato per l'accaduto, e mi avviai alle terme tutto rincitrullito. Così, grazie al senno e all'accorto intervento del mio amico, rimasi contemporaneamente senza quattrini e senza cena; sicché, dopo il bagno, me ne tornai alla dimora di Milone e mi ritirai in camera mia.

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26. Ed ecco presentarsi Fotide, la serva, dicendo:"Ospite, il padrone ti desidera".

Ma io, che già conoscevo il senso d'economia di Milone, mi scusai con garbo e addussi come pretesto che non di cibo avevo bisogno, bensì di sonno, per riposarmi della stanchezza del viaggio.

Appena lo seppe, Milone si presentò di persona e, posandomi la mano sulla spalla, cercava di tirarmi con dolcezza. Siccome gli opponevo una certa resistenza, esclamò:"Me ne andrò, solo quando mi seguirai", e appoggiò la sua dichiarazione con un solenne giuramento; di modo che dovetti, vista la sua ostinazione, obbedirgli mio malgrado.

Mi conduce a quel suo lettuccio, e non ero ancora seduto che già mi chiedeva:"Come sta di salute il nostro caro Demea? Come stanno la moglie, i figli, gli schiavi di casa?".

Dò notizie dettagliate al riguardo. Successivamente esige più accurate informazioni sui motivi del mio viaggio, e io con esattezza glieli dico. Non basta. Comincia a svolgere un'indagine scrupolosissima sulla mia città, sui suoi maggiorenti, persino sul governatore.

Alla fine si accorse che, oltre che per lo strapazzo del viaggio, ero stanco per quella serie ininterrotta di chiacchiere:m'interrompevo per il sonno a metà frase, e già cascavo al punto che balbettavo e non riuscivo a pronunciare con sicurezza le parole.

Solo allora mi concesse licenza di andarmene a letto. Potei così sottrarmi al banchetto di ciarle dell'insaziabile e rancido vecchio. Ero pieno di sonno, ma non di cibo, e avevo pranzato solo a base di chiacchiere; così, quando tornai in camera mia, subito mi abbandonai all'agognato riposo.

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LIBRO 2

1. Appena il sole ebbe disperso la tenebra notturna e riportato il nuovo giorno, abbandonai contemporaneamente il letto e il sonno.

Oltre all'ansietà e alla brama vivissima, in me connaturata, di conoscere ogni fenomeno raro o meraviglioso, c'era in me il pensiero che mi trovavo nel cuore della Tessaglia, terra celebre in tutto il mondo, per voce unanime, come la patria degli incantesimi e dell'arte magica.

Ricordando poi che la vicenda raccontataci da Aristomene, quel buon compagno di viaggio, era sorta proprio nell'ambito di questa città, ardevo di attese e di desiderio e scrutavo ogni particolare con curiosità.

Tra tutte le cose che vidi in quella città, nessuna mi sembrò essere quello che era in realtà, ma credevo che ogni creatura od oggetto avessero assunto una figura diversa dalla primitiva, per effetto di funebri incantesimi recitati con voce sommessa.

Credetti cioè che i ciottoli in cui inciampavo fossero degli uomini mutati in pietre, gli uccelli di cui udivo il canto, uomini che avessero messo le penne; credetti che in modo analogo gli alberi attorno al pomerio si fossero coperti di foglie, e che l'acqua delle sorgenti si riversasse da umane membra; mi sembrava che le statue e le immagini stessero lì lì per parlare, i buoi e altri animali del genere emettere predizioni, e che persino dal cielo e dal disco del sole sarebbe caduto sulla terra un oracolo.

2. Così, mi aggiravo dovunque sbigottito, o per dir meglio, affascinato dal mio tormentoso desiderio, senza però riuscire a scoprire un principio o un indizio che soddisfacesse le mie ansie.

Mentre dunque me ne andavo per le vie, di porta in porta, come un bighellone uso a darsi bel tempo, d'improvviso capitai, senza avvedermene, al mercato, e qui, affrettando il passo, raggiunsi una dama che camminava con attorno un folto codazzo di servi; l'oro che legava le sue gemme ed era intessuto nelle sue vesti la dichiarava, senz'ombra di dubbio, per gran signora. Era appiccicato al suo fianco un vecchio, già avanti con gli anni, che, appena mi vide, esclamò:

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"Perbacco, ma è Lucio!".

Quindi, mi abbraccia e mormora non so quali parole all'orecchio della signora; poi mi dice:"<A HREF="#2>Perché non ti fai più vicino e non saluti tua madre?".

"Non oso. Io non conosco la signora", risposi, e subito mi feci rosso per la vergogna, abbassai il capo e rimasi lì come un palo.

Ma lei rivolse lo sguardo alla mia persona ed esclamò:"E' proprio cosi! La modestia e la distinzione gli vengono dalla virtuosissima Salvia, sua madre, ma anche nel personale la somiglianza è mirabile e la corrispondenza esatta: statura alta, ma non esagerata, snellezza tutta muscoli, colorito leggermente roseo, chioma bionda e ricciuta senza artificio, occhi grigio azzurri, ma vivi, sguardo lampeggiante proprio come quello dell'aquila, viso bello come un fiore, andatura aggraziata, ma senza affettazione".

3. E aggiunse:"Io, o Lucio, ti ho allevato con le mie stesse mani. Come mai? Il fatto è che non mi lega a tua madre solo la comunanza del sangue, ma anche quella del nutrimento. Infatti, tutt'e due discendiamo dalla famiglia di Plutarco, abbiamo bevuto al seno della stessa balia e siamo cresciute insieme in intimo affetto, come due sorelle. La sola differenza sta nella diversa posizione sociale, perché lei si è sposata con un alto dignitario e io con un semplice privato. Tu probabilmente ti ricorderai di me: sono Birrena, quella di cui avrai sentito tante volte pronunciare il nome tra le persone che ti hanno educato. Accetta, dunque, di buon animo la mia ospitalità. Ma che dico, ospitalità: entra in una casa che d'ora innanzi è la tua".

Mentre parlava, io avevo avuto il tempo di smaltire il mio rossore, e le risposi:"Il cielo non voglia, madre mia, che io abbandoni senza alcun motivo l'ospitalità di Milone. Certo, sarà mio dovere usare nei tuoi confronti ogni riguardo compatibile col rispetto che io devo al mio ospite: così, in futuro, tutte le volte che avrò motivo di passare da qui, non mancherò di profittare della tua casa".

Durante questi discorsi avevamo fatto pochi passi ed eravamo arrivati al palazzo di Birrena.

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4. L'atrio era magnifico. Nei quattro angoli stavano altrettante colonne, e ognuna reggeva una statua della dea che, come attributo, porta la palma della vittoria. La dea con le ali spiegate, senza muovere il piede, sfiorava con le piante umide di rugiada l'instabile superficie di un globo girevole; lei posava su di esso, ma non ci si fermava, e sembrava che stesse per spiccare il volo da un momento all'altro. Esattamente nel centro dell'atrio era posta una statua di Diana, scolpita nel marmo di Paro. Era un'opera, questa, di perfetta bellezza: rivolta verso l'entrata, con la sua divina maestà ispirava sentimenti di venerazione.

Correva agilmente, la dea, e la veste le si gonfiava per il vento:ai suoi fianchi facevano buona scorta due cani, anch'essi di marmo, e avevano lo sguardo minaccioso, le orecchie dritte, aperte al fiuto le nari, scoperte al ringhio le zanne: se si fosse udito vicino un latrato, si sarebbe giurato che uscisse da quelle gole di marmo. In un particolare, poi, l'eccellente artista aveva offerto il più eletto saggio della sua bravura: là dove i due cani, impennando il petto verso l'alto, fermavano al suolo le zampe di dietro e protendevano, nell'impeto della corsa, quelle davanti.

Alle spalle della dea sorgeva una roccia incavata a mo' di grotta e tappezzata di muschio, d'erbe, di foglie, di virgulti, di pampini e di arboscelli: tutta una vegetazione fiorita dal marmo.

Dentro, sul nitore del marmo si delineava lucente l'ombra della dea.

Dalla cornice della grotta pendevano frutti e grappoli d'uva, e la loro fattura era così esatta, che l'arte, emula della natura, li aveva espressi in tutto simili al vero. Si potrebbe quasi pensare che, per coglierli e cibarsene, basterebbe aspettare la stagione del mosto, quando il fiato dell'autunno dà al frutto il colore della compiuta maturazione; se poi ci si curvasse a guardare la sorgente che si riversa ai piedi della dea e increspa la sua dolce corrente, si crederebbe che quei grappoli, simili a quelli che veramente pendano da una vite, abbiano, tra gli altri segni della realtà, anche l'illusione del movimento.

In mezzo alle foglie si intravede una figura di pietra. E' Atteone, che già mutato nell'effige ferina di un cervo, si protende curioso a spiare la dea, e lo si vede contemporaneamente nel sasso e nella sorgente, in atto di aspettare che lei si bagni.

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5. Mentre io provavo il più gran piacere a mirare e a rimirare queste meraviglie, Birrena esclamò:"Tutto quel che vedi ti appartiene", e subito ordina a tutti di allontanarsi e di lasciarci parlare in segreto.

Quando furono andati via, mi disse:"O carissimo Lucio, io sono in ansia per te e desidero di poter esserti utile, come se tu fossi un mio figlio! Ti scongiuro per la dea qui presente: stai in guardia, stai davvero in guardia, ti dico, dalle male arti e dai pericolosi allettamenti di Panfile, la moglie di Milone, il tuo ospite, come tu lo chiami. Essa ha fama di essere una maga di prim'ordine e di conoscere tutte le formule magiche con cui si evocano i morti: è una strega che, soffiando su ramoscelli, pietruzze e altri oggetti insignificanti, è capace di trasferire la luce dell'universo stellare nelle profondità del Tartaro e nel Caos primigenio. In effetti, appena vede un giovane di bell'aspetto, se ne innamora, e immediatamente rivolge su di lui gli occhi e le brame: lo irretisce con le lusinghe, s'impossessa del suo animo e lo lega con le eterne catene di una profonda passione. Se poi ce n'è qualcuno recalcitrante o che le venga a noia, lo trasforma in un batter d'occhio in un macigno, in un montone o in qualsiasi altro animale; ad alcuni toglie addirittura la vita. Ecco il motivo delle apprensioni che nutro per te! Ecco perché ti dico di stare in guardia. Difatti, quella lì ha dentro un fuoco inestinguibile, e in quanto a te, la bellezza e la gioventù ti rendono interessante ai suoi occhi".

Così Birrena espresse con me i suoi timori.

6. Ma io sono curioso per natura, e appena udii il sempre desiderato nome dell'arte magica, non mi passò nemmeno per il capo di diffidare di Panfile. Tutt'altro! Ero, anzi, io stesso smanioso e disposto a pagare un ricco compenso, pur di affidarmi a una maestra così valente. Insomma, non vedevo l'ora di saltar giù a capofitto proprio nell'abisso.

Alla fine, fuori di me per l'impazienza, mi strappo dalle mani di Birrena, come se fossero una catena, le dico in fretta arrivederci e mi allontano rapidamente verso la dimora di Milone. E mentre, come un folle, andavo di corsa, dicevo tra me:"Lucio, stai all'erta e non perdere il tuo sangue freddo. Eccoti l'occasione bramata: ora potrai sfogare l'avidità, che da un bel pezzo nutri nel cuore, di storie meravigliose. Non sei più un ragazzo: sgombra ogni timore, datti da fare

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e tocca con mano come sta la faccenda. Solo, astieniti dall'intrecciare legami amorosi con la tua ospite, poiché il letto nuziale di Milone dev'essere sacro per te; piuttosto, se vuoi, poni arditamente l'assedio alla serva Fotide. Lei è belloccia di figura, scherza volentieri, ed è tutt'altro che sciocca. Anche ieri sera, quando morivi dal sonno, ti ha condotto con garbo nella tua stanza, ti ha messo a letto con dolcezza e ti ha rimboccato le coperte con una certa tenerezza.

Inoltre, ti ha baciato sulla fronte e ha mostrato in viso quanto poco le garbasse di andarsene: più volte, infatti, si è fermata e si è girata a guardarti. Alla buon'ora, e che la fortuna mi assista! Anche se dovesse andar male, drizziamo il nostro obiettivo sulla suddetta Fotide".

7. Fra pensieri di questo genere, arrivo all'ingresso di Milone e, come si suol dire, tutto mi riesce a puntino, secondo i miei desideri. Infatti, non trovai né Milone né sua moglie, ma solo la mia cara Fotide che stava preparando per i padroni un sugo di trippa e di polpa scelta tagliata a pezzettini, in cui cuoceva, per quello che il naso mi suggeriva al profumo, una saporitissima salsiccia. Portava una tunica di lino che le andava a pennello, e una fascia di un rosso vivace le stringeva il seno in modo provocante; con le palme grassottelle rimescolava il pentolino del cibo, e spesso, scuotendolo in giro, comunicava un languido e voluttuoso moto alle proprie membra e agitava bellamente le natiche; e per il gioco delle reni e della schiena ancheggiava che era una bellezza a vedersi.

Perso in questa contemplazione, me ne stavo meravigliato a guardare, e persino tutte le fibre del mio corpo, che poco prima giacevano inerti, si tesero all'erta. Alla fine ruppi il ghiaccio:"Che bellezza, che garbo hai, Fotide mia, quando rimescoli la pentola e il sederino. Stai preparando un piatto veramente squisito! Tre volte beato chi, con il tuo permesso, ci potrà intingere il dito".

E la ragazza, alla quale per altro piaceva scherzare e rendere pan per focaccia:"Va' via, poverino, va' via il più lontano possibile dai miei fornelli. Bada che se una sola favilla del mio focherello ti sfiorerà, tu brucerai tutto, e nessuno potrà più spegnere il tuo incendio, tranne la sottoscritta che oltre a cucinare salse squisite, sa anche scuotere e pentole e materassi".

8. Mentre parlava, mi guardava e rideva. Ma io non volli andarmene prima di aver bene esaminato il suo personale. E perché dilungarsi sulle altre attrattive,

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quando la mia più grande soddisfazione è stata sempre quella di osservare bene in pubblico il volto e la chioma, per poi godermeli a casa? Per conto mio, questa mia convinzione è assoluta, e deriva o dal fatto che questa parte del corpo è la prima a essere vista dai nostri occhi, o perché questa delle chiome è un'attrattiva del tutto naturale, mentre per le altre membra del corpo ci può essere l'ornamento artificioso di una veste dai leggiadri colori.

Bisogna anche dire che la maggior parte delle donne, per dar prove della propria avvenenza, depongono la loro sopravveste e si spogliano d'ogni lembo di stoffa, perché vogliono mostrare nuda la loro bellezza e piacere più col roseo colorito della pelle che per le splendide tinte di una veste. In verità (è un sacrilegio il solo parlarne, e mi auguro che non accada mai un fatto così sconveniente), se si privasse della chioma il capo di una donna, la più bella che ci fosse, anche se costei scendesse dal cielo, fosse nata dalla spuma del mare e cresciuta nel seno dell'onda, fosse Venere in persona, accompagnata dalle Grazie e dalla turba degli Amorini, se se ne venisse avanti calva, non potrebbe piacere neppure al marito Vulcano.

9. Che dire, allora, quando la chioma brilla con amabile lucentezza e ai raggi del sole sprigiona lampi ed emette riflessi discreti, o viceversa muta leggiadramente il suo aspetto, e ora, mentre prima era sfavillante come l'oro, assume il color biondo pallido del miele, ora, perso il naturale nero corvino, imita i riflessi celestini sul collo delle colombe?Immagina, poi, una capigliatura lucente di unguenti arabici, che sia ben divisa dai denti aguzzi di un pettine sottile e composta in bel nodo sulla nuca; non si offre, essa, agli occhi dell'amante come uno specchio che rifletta con più grazia la sua immagine?Che dire, infine, di una folta chioma che spartita in trecce, fa corona al capo o in lunghe onde discende a coprire le spalle?Insomma, tanto grande è l'attrattiva di una bella capigliatura, che una donna può ben sfoggiare oro, gemme, vesti preziose e tutta l'eleganza che vuole, ma se non dedicherà ogni cura ai suoi capelli, non potrà avere fama di donna elegante.

Eppure, nel caso della mia Fotide, non già la pettinatura ma il disordine naturale dei capelli produceva una grazia particolare.

Aveva una chioma folta che le pendeva leggiadra giù dalla nuca e, ricadendo sul collo, si posava con morbide ondulazioni sull'orlo della veste; poi, raccolta all'estremità, era annodata a formare una cercine sul capo.

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10. Non riuscii a sopportare oltre l'aspro tormento del mio grande desiderio, e, curvo su di lei, le deposi un dolcissimo bacio sul collo, là dove i capelli si attaccano alla nuca. Allora lei volse verso di me il capo e guardandomi con quei suoi occhi maliziosi mi disse:"Ah, studentello, tu stai assaggiando un antipasto che è dolce e insieme amaro. Sta' bene attento, che tutto questo miele non ti si cambi in bile e non ti debba restare amara la bocca per un bel pezzo!" "Perché, tesoro mio, parli così, se per la gioia di un solo bacetto sarei pronto a farmi arrostire lungo disteso sul tuo focolare?"; e così dicendo l'abbracciai più stretta e mi misi a baciarla.

Già lei ardeva di desiderio e di passione pari alla mia e, accondiscendendo al mio piacere con voluttà, apriva la bocca profumata di cinnamo e con dolcissimo ardore intrecciava la sua lingua alla mia; e io esclamai:"Sono fritto, anzi sono bell'e morto, se tu non hai pietà di me!" Al che lei, con un ultimo bacio:"Sta' di buon animo; anch'io desidero essere tua, e il nostro piacere non tarderà molto, perché, appena sarà scuro, verrò nella tua stanza. Ora vai e preparati bene, perché io voglio per tutta quanta la notte battermi con te, sino ad ottenere piena soddisfazione".

11. Dopo esserci scambiati a bassa voce promesse di questo genere, ci separammo.

A mezzogiorno esatto ricevetti da parte di Birrena dei doni d'ospitalità, e cioè un maiale grasso, cinque galline e un orcio di vino vecchio di marca. Chiamai allora Fotide e le dissi:"Ecco qua! E' giunto, senza essere chiamato, Bacco consigliere e scudiere di Venere. Questo è un vino da bercelo tutto in giornata:servirà a spegnere in noi il pudore e le sue viltà e a infonderci l'aspro ardore del desiderio. Che l'olio abbondi nella lucerna e il vino nei bicchieri! Ecco la sola merce di cui ha bisogno la nave di Venere, per passare una notte insonne!".

Il pomeriggio lo dedicai al bagno, poi mi recai a cena, poiché avevo ricevuto l'invito di partecipare alla tavola piccola e pretenziosa del buon Milone. Mi accomodai però in modo da difendermi il meglio possibile dagli sguardi di sua moglie, e, memore degli avvertimenti di Birrena, la guardavo solo di sfuggita e tutto pauroso, come se si trattasse del lago d'Averno. Però di tanto in tanto davo un'occhiata a Fotide e mi ricreavo lo spirito.

Era già sera, e a un tratto Panfile esclamò:"Avremo pioggia abbondante, domani", e, poiché il marito le chiedeva come lo

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sapesse, rispose che glielo presagiva la lucerna.

Al che Milone, con uno scroscio di risa, replicò:"In questa lucerna che noi alimentiamo abita una Sibilla di grande valore! Stando alla vedetta sul candelabro, essa riesce a contemplare i fenomeni del cielo e persino il sole...".

12. Io allora soggiunsi:"Sono, questi, i più elementari saggi dell'arte divinatoria. Non meravigliamoci! Certo, questa è una fiammella modesta e accesa dalla mano dell'uomo, ma essa ricorda che è figlia d'un fuoco ben più grande, quello celeste. Perciò con divina preveggenza può conoscere e annunciarci quello che farà suo padre lassù negli spazi celesti. Proprio ora noi abbiamo a Corinto un forestiero, un Caldeo che, con le sue meravigliose profezie, mette in subbuglio tutta la cittadinanza senza distinzione di classe e, dietro compenso di denaro, rivela pubblicamente i segreti del destino. Sa indicare qual è il giorno più adatto per stringere un duraturo legame matrimoniale, quale per assicurare in eterno le fondamenta d'un edificio, quale per iniziare un affare commerciale, per mettersi in viaggio in buona compagnia e per intraprendere una traversata per mare. Io, per esempio, gli ho chiesto dell'esito del mio viaggio, e ho avuto copiose informazioni, straordinarie davvero e l'una diversa dall'altra. Infatti, secondo lui, non solo dovrei ricavarne gloria non piccola, ma anche fornire la trama per una storia di grande importanza, per un racconto al di fuori del credibile, e addirittura essere l'eroe di un'opera in più libri".

Milone sorrise sentendomi parlar così, e domandò:13. "Com'è di persona, questo Caldeo, e qual è il suo nome?".

"E' alto e di colorito tendente al bruno. Diofane, si chiama".

"E' proprio lui", esclamò. "Non c'è dubbio! Costui, anche qui da noi, ha parimenti distribuito responsi in quantità a un mucchio di gente. Non monetine da quattro soldi, ma lauti guadagni aveva già ricavato, quando il poveretto incappò in una sfortuna nera, o per dir meglio, crudele. Un giorno che era assiepato intorno da una folla di popolo e stava distribuendo l'oroscopo al capannello dei circostanti, gli si avvicinò un certo Cerdone, un commerciante che voleva sapere il giorno adatto per intraprendere un viaggio.

Diofane, dunque, tira l'oroscopo e fissa il giorno: l'altro aveva già messo giù

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la borsa, già tirato fuori i soldi, già contato i cento denari che doveva pagare all'indovino come prezzo della profezia; ma sul più bello un giovanotto, che mostrava d'essere di nobile famiglia, gli si insinua alle spalle, lo tira per la tunica e, mentre quello si gira, lo abbraccia e lo bacia con profondo affetto.

Diofane gli rende il bacio e lo fa sedere accanto a sé, ma si vede che l'incontro imprevisto lo aveva sbalordito al punto da dimenticare la faccenda che aveva per le mani.

- Come sono contento! Quando sei arrivato? domandò al giovanotto.

Questi rispose:- Ieri sera, per l'appunto. Ma anche tu, fratello mio, dimmi a tua volta in che modo, dopo la tua improvvisa partenza dall'isola di Eubea, è andato il tuo viaggio per mare e per terra.

14. A questa domanda, Diofane, quel Caldeo di vaglia, con una buona dose di balordaggine e di distrazione, rispose:- Io auguro a tutti i miei nemici e avversari di incocciare in un viaggio altrettanto spaventoso. Tra me e Ulisse non c'è stata differenza. Infatti, la nave che ci portava fu sconquassata a più riprese dal turbine delle tempeste e perse ambedue i timoni: fu gran ventura se la burrasca la spinse in prossimità della riva opposta e poi calò a picco. Così noi perdemmo tutto e a stento ci salvammo a nuoto. La poca roba che riuscimmo a racimolare dalla pietà della gente e dalla benevolenza degli amici, ci fu poi tutta quanta tolta da una masnada di briganti, e anche Arignoto, il mio povero fratello, l'unico che avessi, venne ucciso nel tentativo di opporsi all'aggressione.

Mentre Diofane con aria afflitta narrava queste sue disavventure, Cerdone, il commerciante predetto, raccolse in fretta i denari che aveva pattuito come prezzo dell'oroscopo, e se la svignò senza aspettare altro. Solo allora Diofane si riscosse e acquistò coscienza della sua storditaggine e della vergogna derivatagli, dato che anche noi tutti, presenti intorno alla scena, ci vide scoppiare in sonore risate. Ma certamente, signor Lucio, a te solo fra tutti quel Caldeo avrà detto la verità. Buona fortuna, dunque, e che tu possa proseguire il tuo viaggio felicemente".

15. Mentre Milone non la smetteva di chiacchierare, io gemevo in silenzio ed ero non poco crucciato con me stesso; difatti, avevo dato io per primo la stura al

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seguito delle ciarle in un momento poco opportuno, e stavo perdendo buona parte della serata e il dolcissimo frutto che potevo ricavarne.

Alla fine mi risolsi a mettere da parte ogni riguardo e dissi a Milone:"Abbia pure Diofane quel destino che merita, e versi pure di nuovo nel seno del mare e nei pericoli della terraferma quei denari che carpisce alla gente. Per conto mio, sono ancora stanco del viaggio di ieri, e perciò ti prego di scusarmi se me ne vado a letto di buonora".

Così dicendo, mi alzo e mi ritiro in fretta nella mia camera, e ci trovo pronto un banchetto apparecchiato a regola d'arte. Infatti, ai servi era stato disteso in terra il giaciglio il più lontano possibile dalla mia soglia, credo per allontanare testimoni che potessero udire le nostre notturne parolette d'amore; inoltre, vicino al mio lettuccio c'era un tavolino che reggeva le reliquie di tutte le portate del pranzo in misura più che sufficiente, e dei capaci bicchieri, i quali, essendo già pieni per metà di vino, attendevano solo di essere riempiti d'acqua per l'altra metà, onde effettuare una giusta miscela. C'era, infine, un fiasco che aveva il collo tagliato con un colpo netto presso l'imboccatura, e con il suo ventre aperto invitava a comode bevute. Insomma, tutto l'apparecchiatura occorrente per un duello amoroso.

16. Mi ero coricato da poco, quand'ecco se ne viene la mia Fotide (messa a letto la padrona) tutta lieta, con una ghirlanda di rose sul capo e altre ancora nel seno turgido.

Subito mi bacia con passione, m'incorona di fiori e me ne sparge sulla persona, e preso un bicchiere di vino, vi mesce acqua calda e mi invita a bere; non l'avevo ancora vuotato, che me lo toglie con dolce violenza, l'avvicina alle labbra e, guardandomi con tenerezza, lo centellina lentamente a piccoli sorsi. Lo stesso fa con un secondo e con un terzo bicchiere, e parecchie altre volte ancora beviamo alternativamente. Io, ormai già fradicio di vino, acceso di voluttà non solo nell'animo, ma anche nel corpo, non potei più sopportare tanto tormento: sfacciatamente sollevai l'orlo della camicia e, mostrando alla mia cara Fotide tutto l'ardore del mio desiderio, le dissi:"Abbi compassione e dammi presto un aiuto. Come vedi, aspetto con impazienza di sostenere quella battaglia che mi hai intimato senza valerti dei Feciali; appena la saetta del crudele Amore si infisse nell'intimo del mio cuore, io tesi con ogni forza il mio arco, e ora ho timore che la corda troppo tesa si rompa. Ma se vuoi offrirmi un piacere completo, sciogli le tue chiome, e nelle onde fluenti dei tuoi capelli abbracciami con amore".

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Detto fatto, lei sbarazza in un momento tutti quei piatti pieni di cibo, si spoglia d'ogni sua veste e, tutta nuda, scioglie la chioma con un gesto di birichina lascivia. In tale aspetto somigliava in tutto a Venere bella quando sorge dal flutto marino, e, più per civetteria che per pudore, tendeva la rosea manina a coprire la sua liscia natura di donna.

"Combatti", mi incitò, "combatti da forte. Io ti terrò fronte e non rivolgerò le spalle. Corpo a corpo, se sei un uomo, drizza contro di me le tue armi, lotta con tutte le tue forze e fammi morire, tu che stai per morire. Il duello d'oggi è all'ultimo sangue".

Così dicendo, sale sul letto delicatamente e si adagia a sedere su di me; poi, vibrando tutta, scossa da fremiti ripetuti, e con voluttuose carezze agitando il dorso flessuoso, come se fosse su un'altalena, mi sazia del frutto di Venere, sinché, soddisfatta la brama, ci sentimmo le membra esauste per il piacere e cademmo insieme anelanti tra abbracci e carezze scambievoli. In colluttazioni di questo genere durammo svegli sino al sorgere dell'alba, e di quando in quando cacciavamo via la stanchezza con bicchieri di vino, così da ridestare il desiderio e rinnovare il nostro piacere.

E molte altre notti trascorremmo simili a questa.

18. Ma un bel giorno Birrena mi rivolse con calore l'invito di partecipare a un pranzo in casa sua, e, nonostante tutte le mie giustificazioni, non volle sentire scuse. Dovevo, dunque, interpellare Fotide, ora, e chiedere a lei un cenno di consenso, come se si trattasse di un auspicio. A lei non garbava, è naturale, che mi staccassi da lei neppure di un dito; tuttavia consentì a darmi una breve licenza dal servizio amoroso. Volle però avvertirmi:"Stai bene attento, però, a ritornare dal pranzo non troppo tardi:guarda che una banda di scapestrati figli di papà mette a soqquadro la pubblica quiete; potrai vedere per le piazze stesi qua e là cadaveri di uomini scannati; le milizie del governatore sono troppo lontane per poter liberare la città da tanto flagello.

In quanto a te, la tua brillante posizione e l'abituale disprezzo verso chi viene da un paese straniero potrebbero aizzarti contro qualche malintenzionato".

Risposi:

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"Non preoccuparti, Fotide mia. A parte il fatto che io preferirei godermela con te, piuttosto che cenare in casa d'altri, ti prometto che non ti farò stare in pena e che tornerò presto. Del resto, avrò una buona compagnia, perché porterò con me chi mi assicura la vita: si tratta della mia spada che d'abitudine porto al mio fianco".

E così, prese le mie precauzioni, me ne vado a pranzo.

19. Trovai là una folla d'invitati, il fior fiore della società cittadina, come si conveniva a una signora d'alto rango. Le tavole, lucenti di cedro e d'avorio, erano sontuosamente imbandite, i letti coperti di tappeti ricamati d'oro, i calici grandi e diversi per l'arte, ma tutti eguali per pregio. Qua facevano bella mostra vetrerie artisticamente arabescate, là cristallerie senza la più piccola macchia, altrove fulgide argenterie e vasellame d'oro dai riflessi fiammeggianti. C'erano persino coppe da bere cavate con mirabile lavoro dall'ambra o dalle gemme; si poteva trovare, insomma, in quel luogo, tutto quello che l'umana fantasia può immaginare. Parecchi maggiordomi con sfarzose livree servivano con garbo abbondanti porzioni, giovani elegantemente vestiti e le chiome arricciate erano di continuo intenti a versare vino vecchio in bicchieri fatti di pietre preziose.

E quando vennero portati i candelabri, la conversazione si fece più fitta; si rideva abbondantemente, si scherzava senza trascendere, ci si lanciava frizzi da ambo le parti. A questo punto Birrena si rivolse a me:"Dunque, ti trovi bene, nella nostra città? Per quel che so, siamo molto innanzi a tutte le altre, in quanto a templi, bagni e altri edifici in genere; così pure, da noi si trova in quantità qualsiasi oggetto d'uso comune. La nostra vita scorre libera e tranquilla, ma l'uomo d'affari forestiero può trovare qui la folla e l'animazione di Roma, mentre, d'altra parte, l'ospite che ama la quiete può godere la pace della campagna. Per concludere, siamo la residenza preferita di tutti i provinciali che vogliano svagarsi".

20. Io le risposi:"Quello che dici è vero, e in nessun altro luogo, come qui, mi è parso d'esser più libero. Ma c'è qualcosa che mi fa davvero paura:si tratta dell'arte magica con i suoi misteriosi e infallibili segreti. Ho sentito dire che neppure i morti possono più stare tranquilli nel loro sepolcro, ma che si va a caccia sui roghi e nelle tombe di avanzi e frammenti di cadaveri, per farne funesti strumenti di sventura contro i vivi. A quanto pare, vecchie streghe riescono, proprio durante i preparativi funebri, a precedere con mirabile prontezza l'opera dei seppellitori".

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Un altro degli invitati rincalza il mio discorso:"Non solo: ma qua non c'è pace neppure per i vivi. Un tale, non so precisamente chi, si è ritrovato in un'avventura del genere, e ne è uscito col volto mutilato e completamente sfigurato".

Nel sentirlo, tutta la brigata scoppiò a ridere senza ritegno, e i volti e gli sguardi di tutti si girarono verso un tale che se ne stava sdraiato da parte in un angolo della sala. Costui, allora, seccato per quella indiscreta curiosità, mormorò una parolaccia e fece l'atto di alzarsi; ma Birrena gli disse:"Ma non è il caso, caro Telifrone! Resta ancora un po'. Faccio appello alla tua abituale cortesia e ti prego di raccontare di nuovo la tua famosa avventura. Mio figlio Lucio, qui presente, apprezzerà di certo il garbo e l'interesse dei tuoi racconti".

E quello:"Tu, o signora", rispose "hai sempre dimostrato di essere una dama buona e virtuosa, ma io non riesco a sopportare l'insolenza di certuni".

Così egli parlò tutto sdegnato. Pure, Birrena, a forza di pregarlo e scongiurarlo che lo facesse per amor suo, cercava di indurlo a raccontare, nonostante che egli ne avesse poca voglia; e finalmente ci riuscì.

21. Telifrone arrotolò allora le coperte in modo da formare un rialzo, ci si appoggiò col gomito, e, il busto eretto, tese la destra per parlare; quindi piegò il polso alla maniera degli oratori, tenendo le ultime due dita chiuse e le altre sporgenti leggermente verso l'alto e il pollice puntato in avanti. Dopodiché cominciò:"Quando ancora ero minorenne, me ne partii da Mileto per andare a vedere le gare d'Olimpia, ma siccome desideravo visitare anche questi paesi appartenenti a una provincia famosa, girai in lungo e in largo la Tessaglia, sinché capitai a Larisa in compagnia d'uccelli di malaugurio. Stavo curiosando un po' dappertutto e, dato che le mie risorse si erano assottigliate, cercavo un rimedio alla mia bolletta, quand'ecco che vedo in mezzo alla piazza un vecchio d'alta statura. Se ne stava ritto su un cippo e con voce sonora gridava:- C'è qualcuno che se la sente di custodire un morto? Faccia la sua offerta.

- Che significa? - chiesi a un passante. - Forse i morti in questa città hanno l'abitudine di prendere il volo?

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- Taci - mi rispose. - Tu sei un ragazzo, e un forestiero, per giunta. Sappi bene che ti trovi in Tessaglia, e che qui le streghe usano strappare, senza riguardo ai morti, qualche pezzo di carne dal volto dei cadaveri. Per loro è un mezzo di provvedersi del materiale occorrente alle loro magiche operazioni.

22. - Ma dimmi un po' per piacere, - gli chiesi ioin che cosa consiste questa funzione di custodire i morti?- ln primo luogo, - mi rispose - c'è da vegliare con diligenza l'intera notte e da tenere gli occhi bene aperti e sempre concentrati sul morto. Non bisogna volgere altrove lo sguardo, anzi neppure piegarlo di fianco. Il fatto è che quelle maledette streghe hanno il potere di mutarsi in qualsiasi animale, e si insinuano poi di nascosto nella stanza, di modo che potrebbero con facilità eludere perfino l'occhio del Sole o quello della Giustizia. Infatti, esse si trasformano in uccelli o anche in cani, in sorci e persino in mosche, poi con i loro terribili sortilegi fanno sprofondare nel sonno le persone che fanno la guardia. Né si può determinare con sufficiente esattezza tutti quei sotterfugi che escogitano quei demoni in gonnella per i loro laidi capricci. Eppure, per questo servizio così pericoloso, la paga si aggira al massimo sui quattro o sei scudi. Ah ! Stavo per dimenticarmi. Può accadere che al mattino non si restituisca integro il cadavere. In questo caso il custode è tenuto a risarcire con lembi di carne tagliati dal suo volto tutti quei pezzi che manchino o siano stati strappati al morto".

23. "Dopo queste informazioni, mi armai di coraggio e subito andai dritto al banditore:- Smettila di urlare - gli dissi. - Eccolo qua il custode bell'e pronto. E il compenso qual è?Mi rispose:- Ti verranno pagati mille sesterzi. Ma stai bene attento, giovanotto, che tu dovrai custodire contro le malvage Arpie la salma del figlio d'un cittadino tra i più cospicui.

- Tu mi fai delle raccomandazioni inutili! Per me queste sono cose da niente - gli dissi. - Hai di fronte a te un uomo di ferro, che non soffre il sonno, che ha di sicuro la vista più penetrante di Linceo o di Argo; un uomo, insomma, che è tutt'occhi.

Avevo appena finito, che quello mi conduce di filato a un palazzo dal portone sbarrato. Mi fa entrare per una porticina nel retro e mi mostra una stanza tutta buia con le imposte chiuse e in essa una signora in lagrime, vestita a lutto. Si avvicina a lei e le dice:

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- Ecco. Ti presento il giovane che si è impegnato a custodire con ogni scrupolo la salma di tuo marito.

La dama scosta i capelli che le pendevano da ambo le guance, mostrando un viso che era bello anche nel dolore e mi squadra:- Ti prego, - dice - vedi di metterci tutta l'attenzione possibile.

- Non ti preoccupare - risposi. - Vorrei solo che tu mi preparassi una mancia come si deve.

24. Con questo accordo, lei si alza e mi conduce in un'altra stanza dove c'era il morto coperto di splendide vesti di lino. Fa entrare poi sette testimoni, e, scoprendo con la mano il cadavere, scoppia in lacrime; e solo dopo lungo pianto, facendo appello alla buona fede dei testimoni, si risolleva a indicare con dolorosa sollecitudine una per una le caratteristiche della salma, mentre uno dei presenti annotava scrupolosamente su delle tavolette le sue dichiarazioni nella forma legale.

- Guardate, - disse - il naso è intatto, gli occhi incolumi, salve le orecchie, non toccate le labbra, integro il mento. Voi, onorevoli cittadini, siatemi testimoni di quanto dico.

Dopodiché, fatte sigillare le tavolette, accenna ad andarsene. Io allora esclamo:- Ordina, signora, che mi si porti tutto l'occorrente.

- Quale occorrente? - mi chiese.

- Una lucerna molto grande, dell'olio da bruciare che mi basti fino a domani mattina, dell'acqua calda con qualche orcio di vino e un bicchiere, un vassoio imbandito con gli avanzi della cena.

Allora lei, scrollando il capo, esclamò:- Va' via: sei davvero uno sciocco. Quale cena, quali avanzi vai cercando in una casa funestata dalla morte? Qui da interi giorni non si vede neppure il fumo del focolare. O che eredi di esser venuto qui a far baldoria? Assumi invece quell'atteggiamento di mestizia che si conviene all'ambiente, e fatti venir le

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lacrime.

Così dicendo, si rivolse a una servetta e le ordinò:- Mirrine, porta subito una lucerna e dell'olio, chiudi il custode in camera, e vattene.

25. Così rimasi solo a consolare il morto. Mi stropicciai gli occhi per fortificarli alla veglia, e intanto mi rincuoravo con qualche cantatina. Ecco che cala il crepuscolo e scende la notte, e la notte poi si fa più alta e sempre più avanza e infine diventa notte profonda. Di pari passo, cresceva in me sempre più la paura, quando una donnola d'un tratto striscia dentro la camera, si pone di fronte a me e mi pianta addosso uno sguardo penetrante come un succhiello. Quella bestiola da niente aveva tanta baldanza, che io ne rimasi turbato; comunque alla fine le urlai:- Vattene via, bestiaccia impura. Nasconditi tra i topi, tuoi degni compari, se non vuoi fare immediatamente conoscenza con la mia forza! Vattene via.

Essa volse allora il dorso, e subito sparì dalla stanza; ma nel medesimo istante un sonno profondo mi precipitò all'improvviso in un abisso senza fine: io credo che neppure il dio di Delfo avrebbe potuto agevolmente distinguere quale fra i due corpi fosse più privo di vita. Insomma tra l'esserci e il non esserci, in quella stanza, c'era poca differenza; il fatto era che avevo perso ogni coscienza e avevo bisogno io stesso di uno che mi custodisse.

26. Da poco il canto della crestata schiera dei galli empiva di schiamazzo la quiete notturna, quando io mi svegliai. In preda all'angoscia più nera corro vicino al cadavere, accosto la lucerna, scopro il volto del morto e gli esamino uno per uno i lineamenti, sull'integrità dei quali verteva il contratto. Ecco che la misera moglie, piangente, irrompe tutta affannata con i testimoni del giorno prima; subito si lascia cadere sull'estinto, gli dà baci a non finire, e con l'aiuto della lampada fa un controllo accurato. Poi si volge in cerca del suo amministratore Filodespoto e gli ordina di versare senza indugio il premio al fedele custode. Vengono subito portati i denari, e lei mi dice:- Giovanotto, ti ringrazio moltissimo. Hai mostrato tanto zelo nell'assolvere il tuo compito, che davvero, d'ora innanzi, ti porrò nel numero dei miei amici.

L'inaspettato guadagno mi empì di gioia; andai in estasi nel vedere quegli scudi d'oro, e, mentre li facevo ballare nella mano, mi scappò di dire:- Al contrario, signora, considerami uno dei tuoi servi e non farti scrupolo di comandarmi ogni volta che avrai bisogno dell'opera mia.

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Avevo appena finito di pronunciare queste parole, che subito quelli di casa, imprecando al malaugurio, danno di piglio a ogni sorta di armi e mi si buttano addosso. Chi mi concia la faccia a suon di pugni, chi mi spiana la schiena a gomitate, chi mi lavora a manrovesci le costole; non parliamo degli altri che mi tirano calci, mi strappano i capelli e mi stracciano le vesti.

Così, pieno di lacerazioni e di squarci, alla maniera del superbo giovane Aonio o del vate di Pipla allievo delle Muse, mi buttano fuori di casa.

27. Mentre nella strada vicina mi stavo rimettendo dallo spavento, pensai, un po' tardi, alle mie parole malaugurate e inopportune, e dovetti riconoscere che le percosse erano state poche in confronto a ciò che meritavo. Intanto il morto era già stato pianto e invocato per l'ultima volta, e ora il corteo funebre avanzava nella via; e poiché apparteneva alla nobiltà, veniva portato a seppellire, secondo la tradizione locale, con lo sfarzo d'un funerale a spese pubbliche.

Passando per il Foro, gli si fa incontro un vecchio vestito di nero, con il volto mortificato e lacrimoso, che si strappava i bianchi capelli sacri al suo nume; egli, afferrando con tutte e due le mani il letto funebre, grida con voce tesa al parossismo e pur interrotta da frequenti singhiozzi:- In nome della vostra fede, o cittadini, in nome della pubblica pietà, porgete la vostra assistenza a un cittadino che è stato assassinato, e fate pagare il fìo a questa malvagia donna per il suo atroce delitto. Proprio lei, non altri, ha avvelenato questo povero giovane, figlio di mia sorella, e l'ha fatto per compiacere al suo amante ed entrare in possesso dell'eredità.

Così quel vecchio, singhiozzando, effondeva a voce alta i suoi dolorosi lamenti. La folla cominciò allora a tumultuare, perché la verosimiglianza del fatto induceva la gente a credere che si fosse commesso un delitto.

Urlano tutti che si ricorra al fuoco, vanno in cerca di pietre, ed esortano i servi a dar la morte alla donna. Lei, in questo frangente, versando lacrime finte e studiate, invocava tutti quanti gli dèi con i più solenni giuramenti, e negava di aver commesso un così orribile delitto.

28. Allora il vecchio esclamò:

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- Affidiamo alla provvidenza divina il giudizio sulla verità del fatto. Si trova qui un profeta assai valente, Zatchlas egizio.

Egli si è già impegnato con me, dietro un forte compenso, a richiamare per breve tempo dagli Inferi l'anima del defunto e a risuscitare il corpo che voi vedete.

Così parlando, fa avanzare in mezzo alla folla un uomo dal capo interamente raso, che aveva indosso una sopravveste di lino e sandali di fibre di palma ai piedi. Gli bacia poi a lungo le mani, gli abbraccia persino le ginocchia, ed esclama:- Pietà, o sacerdote, pietà! Io ti scongiuro per gli astri celesti, per le infernali divinità, per i naturali elementi, per i silenzi notturni, per i sacrari di Copto, le piene del Nilo, i misteri di Menfi e i sistri di Faro. Concedi al morto di poter per un breve attimo usufruire del sole, infondi un po' di luce nei suoi occhi chiusi per l'eternità. Noi non ci opponiamo né ci rifiutiamo a che la terra abbia ciò che le spetta: noi preghiamo soltanto che si conceda all'estinto per qualche istante la vita, per dargli la soddisfazione della vendetta.

Il profeta, favorevolmente impressionato da queste preghiere, accostò un'erba alla bocca del defunto e un'altra la pose sul suo petto. Poi si volse verso oriente e recitò in silenzio una preghiera alla maestà del Sole che si avanzava nel cielo; così solenne era la scena nel suo complesso, che tutti i presenti, l'un con l'altro in gara, tesero i loro sensi nell'aspettativa d'uno straordinario prodigio.

29. Mi mescolai alla folla e salii su un cippo abbastanza alto, proprio dietro il letto funebre, in modo che niente poteva sfuggire al mio sguardo curioso. Già il petto dell'estinto cominciava a gonfiarsi e ad alzarsi, già il polso a battere, già il corpo a riempirsi del soffio della vita; ed ecco che il cadavere si alza e il giovane inizia a parlare:- Perché, vi prego, volete ricondurmi alle funzioni della vita, se questa potrà durare solo pochi istanti? Io ho già bevuto l'acqua del Lete, e stavo già attraversando la palude Stigia. Basta, di grazia, basta, e lasciatemi giacere nel mio sonno di morte.

Tale voce uscì dal corpo, ma il profeta, con un tono un po' più energico, esclamò:- Racconta al popolo tutto quanto avvenne, e chiarisci il mistero della tua morte. Non sai che io posso evocare le Furie con i miei incantesimi, e

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sottoporre ai tormenti le tue stanche membra?Allora il morto si rivolse dal suo letto alla folla, e disse:- Fui assassinato dalle arti malvage di una femmina che avevo da poco sposato. Vittima di un velenoso filtro, ho consegnato ancor caldo il letto nuziale all'amante di mia moglie.

A questo punto l'egregia moglie, senza tremare, cerca scampo nell'audacia, e con empia ostinatezza respinge le accuse del marito e lo rimbecca.

Il popolo ondeggiava tra diversi pareri: gli uni affermavano che l'infame donna doveva essere seduta stante seppellita viva insieme col marito, gli altri sostenevano che non si doveva prestar fede alle calunnie di un cadavere.

30. Ma il dubbio fu ben presto troncato dal racconto che il giovane fece subito dopo, poiché egli, emettendo un nuovo e ancor più acuto gemito, riprese:- Sì. Io vi voglio offrire prove assai chiare di quel che è la pura verità. Vi indicherò dei fatti che assolutamente nessun altro può sapere.

Poi, additando la mia persona, aggiunse:- Ecco qua lo zelantissimo custode della mia salma. Mentre egli vegliava con grande coraggio, delle vecchie streghe che spiavano l'occasione di impadronirsi delle mie spoglie mortali hanno cercato di eludere la sua scrupolosa sorveglianza trasformandosi in varie guise, ma non sono riuscite nel loro intento. Perciò all'ultimo gli hanno soffiato addosso una nuvola gravida di sonno e lo hanno sepolto in un profondo sopore; in quanto a me, non hanno smesso di chiamarmi per nome, fino al momento in cui gli arti di un cadavere perdono la loro insensibilità e le membra il loro gelo, e cercano con pigri sforzi di prestar obbedienza alle ingiunzioni della magia. Questo mio custode, dunque, era per l'appunto vivo, e con la morte aveva in comune solo il sonno; egli, che ha un nome eguale al mio, sentendosi chiamare, si alzò senza averne coscienza e, come un'ombra senza vita, avanzò macchinalmente. La porta della stanza era accuratamente chiusa, eppure le streghe trovarono il modo di tagliargli attraverso un foro prima il naso, poi le orecchie, di modo che costui si è sottoposto in mia vece all'amputazione. Perché il tranello riuscisse esatto in tutti i dettagli, esse hanno plasmato due orecchie di cera come quelle che erano state tagliate e gliele hanno applicate in modo perfetto, poi gli hanno apparecchiato un naso in tutto simile al suo. E ora quel disgraziato è qui presente, e la ricompensa che gli è toccata è il corrispettivo non dei suoi servigi, ma delle sue mutilazioni Rimasi esterrefatto a questo discorso, e provai a tastarmi i lineamenti del volto. Metto la mano al naso e lo stringo: mi resta in mano. Palpo le orecchie: mi cadono. Gli astanti mi prendono di mira,

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additandomi e accennando col capo nella mia direzione; le risate prorompono, e io fuggo tra le gambe dei circostanti, mentre un sudore ghiacciato mi corre per le membra.

Le mutilazioni sofferte mi hanno reso così ridicolo, che non ho più avuto il coraggio di tornare nella casa paterna; mi sono abituato a nascondere l'amputazione delle orecchie, facendo scendere i miei capelli da ambo i lati del capo; quanto allo sconcio del naso l'ho coperto decorosamente con questo pannolino che mi sono incollato aderente al volto".

31. Appena Telifrone ebbe terminato il suo racconto, i convitati, che già trasudavano vino dai pori, scoppiano in nuove risate e reclamano a gran voce di effettuare i brindisi d'obbligo al dio Riso.

Intanto Birrena si rivolse a me e mi disse:"Nella giornata di domani ricorre quella solenne festa la cui istituzione risale alla prima infanzia della nostra città. Noi siamo i soli mortali che in questo giorno onoriamo con una cerimonia improntata a serena letizia il Riso, venerabile divinità. La tua presenza ci renderà più gradita la ricorrenza, e io mi auguro che tu escogiti con la tua arguzia qualche gioiosa trovata per onorare il dio. Potremo così accrescere in modo sensibile il contributo di grazie che rendiamo a una così augusta divinità".

"Molto bene", risposi. "Sarà come tu vuoi. Perbacco! Anch'io vorrei trovare un motivo di riso che si confacesse degnamente a un dio così potente".

Nel frattempo, il mio servo mi avvertì che era notte tarda. Io, che dal canto mio ero già gonfio di vino, mi alzo senz'altro, mi congedo in fretta da Birrena, e con passo malfermo mi metto in cammino per tornare a casa.

32. Ma nella prima via che imboccammo, ecco che un'improvvisa ventata spegne la lucerna in cui fidavamo. Potemmo così districarci dalle tenebre impreviste della notte solo con molta fatica; e, a forza di sbucciarci le dita dei piedi contro le pietre, ritornammo stanchi morti a casa del nostro ospite.

Stavamo approssimandoci alla casa, a braccetto l'uno dell'altro, quando vedemmo sbucare tre individui vigorosi e corpacciuti, che con tutte le loro forze cercavano di sfondare il portone.

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La nostra presenza non li sconcertò affatto, anzi intavolarono quasi una gara di forza e intensificarono i loro assalti. Insomma, tutti e due, specialmente io, li prendemmo per dei briganti; e dei più pericolosi.

Immediatamente afferro e libero dalle pieghe della veste la spada che portavo nascosta sotto il mantello per simili eventualità.

Senza pensarci due volte, mi slancio in mezzo ai banditi e, uno per uno, gli immergo tutta la spada nel ventre, secondo che nella colluttazione ci capitano a tiro; ed essi, alla fine, ridotti in un colabrodo dalle ferite, che erano molte e ampie, tirano l'ultimo respiro proprio davanti ai miei piedi.

Il combattimento era finito. Fotide, che si era svegliata a tutto quel fracasso, spalancò la porta, e io, col fiato grosso, madido di sudore, m'infilai dentro.

L'uccidere il mostro Gerione non mi sarebbe costata tanta fatica, quanta me ne costò la zuffa coi tre ladroni; così, appena fui a letto, mi addormentai.

LIBRO 3

1. Da poco l'Aurora, scuotendo col suo roseo braccio le briglie, guidava nel cielo i suoi cavalli dalle borchie color fiamma, quando la notte, trapassando nel giorno, mi strappò al mio placido sonno. Subito mi venne la febbre, nel ricordare l'episodio della sera prima. Incrociai i piedi e, congiungendo le palme sulle ginocchia, muovevo alternativamente le dita; curvo a sedere sul letto, piangevo a calde lacrime, poiché già vedevo nell'immaginazione il Foro, il consesso dei giudici, il verdetto, e insomma persino il carnefice.

"Mi sono macchiato di un triplice omicidio e ho tinto le mani nel sangue di molti cittadini. Qual giudice potrà toccarmi così mite e benevolo, da sentenziare la mia innocenza? Eccolo qua il viaggio che, a sentire le costanti predizioni del caldeo Diofane, doveva essermi fonte di gloria!".

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Volgendo e rivolgendo in me stesso questi pensieri, traevo alti gemiti sulle mie disgrazie, quando sentii sbattere la porta e un confuso vociare echeggiare davanti l'uscio di casa.

2. L'attesa non fu lunga. Il portone viene spalancato, e entra dappertutto una folla di persone d'ogni risma, tra cui si distinguevano i magistrati con i loro subalterni.

Seduta stante, due littori, per ordine dei loro superiori, s'impadroniscono della mia persona e mi trascinano via, senza che in verità io opponga resistenza alcuna.

Avevamo appena messo il piede nel primo vicolo, che tutta la popolazione si era già riversata nella strada e ci teneva dietro con un corteo straordinariamente affollato. Io, tutto triste, camminavo con la testa chinata al suolo, anzi per meglio dire, sprofondata sotto terra; tuttavia mi accadde di guardar di lato, e scorsi uno spettacolo davvero stupefacente: tra tante migliaia di persone non ce n'era proprio nessuna che non schiattasse dalle risa. Girammo così una via dopo l'altra; e quando mi ebbero condotto in tutti gli angoli della città, come quelle vittime che si portano in giro per le piazze a scongiurare con purificazioni e sacrifici espiatori le maligne influenze di funesti prodigi, mi fecero fermare nel Foro, davanti alla tribuna degli oratori.

I magistrati erano già seduti in alto sul palco, l'araldo intimava già il silenzio, quando tutti i presenti concordemente reclamarono che un processo così grave si tenesse nel teatro, perché, dato l'assembramento, si correva il pericolo d'essere schiacciati per l'eccessiva calca.

Accolta la richiesta, subito il popolo corre avanti alla rinfusa, il recinto della cavea si riempie in un baleno, e gli spettatori si stipano in massa persino sulle entrate e in ogni angolo del tetto. Parecchi si arrampicano abbracciandosi alle colonne, altri penzolano giù dalle statue, alcuni si intravedono mezzo nascosti dietro le finestre e gli abbaini; tutti però erano tanto smaniosi di non perdere lo spettacolo, che non badavano più neppure al rischio personale.

A questo punto i pubblici ufficiali mi fanno attraversare il proscenio, come se

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si trattasse di una vittima sacrificale, e mi conducono nel bel mezzo dell'orchestra.

3. Ecco di nuovo l'araldo, con la sua voce stentorea, dar la parola all'accusatore.

Si alza allora un tizio, uomo d'una certa età, e, quando fu riempito d'acqua un vasetto che aveva un piccolo foro a mo' d'imbuto, regolando il suo parlare sul tempo che impiegava l'acqua a fluire a goccia a goccia, così inizia rivolto alla folla:"Non si tratta di un affare da poco, o rispettabilissimi cittadini; che anzi è una faccenda, questa, che riguarda la pace dell'intera città, e da essa potremo trarre un'utile lezione, se infliggeremo un castigo esemplare. Occorre perciò che voi, con la maggior diligenza possibile, in quanto privati e in quanto cittadini, per il decoro della vostra città provvediate a che un assassino malvagio non sfugga alla punizione per la sanguinosa strage che ha commesso. Non crediate che io sia animato da rancori privati o che infierisca per odio personale: io sono preposto alla sorveglianza notturna, e non credo che fino ad oggi qualcuno possa incolparmi di aver mancato di zelo e di diligenza. Narrerò dunque con fedeltà gli avvenimenti di questa notte. Era suonata da poco la mezzanotte, e io con scrupolosa attenzione facevo il giro della città, controllando le porte una per una, quando vidi questo giovane, d'una ferocia senza pari, che con la spada sguainata seminava ovunque la strage; già tre persone aveva crudelmente ucciso, e i loro corpi, che ancora respiravano, erano stesi ai suoi piedi palpitanti in un lago di sangue. Egli stesso, che infine s'era reso conto dell'enormità del delitto, ne fu logicamente sbigottito, e tosto prese la fuga. Con l'ausilio delle tenebre riuscì a scivolare dentro una casa, e qui si tenne nascosto l'intera notte. Ma la divina provvidenza, che non perdona i colpevoli, mi aiuta: mi misi alla posta di buon mattino, prima che costui riuscisse a svignarsela per vie segrete, e ho fatto in modo di poterlo condurre all'augusta presenza del vostro severo tribunale. Orbene! Voi avete dinanzi un reo che si è macchiato di molti omicidi, un reo colto in flagrante, un reo che viene da un paese straniero. Rendete dunque obbiettivamente il vostro verdetto nei confronti d'un forestiero, poiché il delitto è tale, che voi punireste severamente anche un vostro concittadino".

4. Quand'ebbe pronunciato questa violentissima requisitoria, il terribile accusatore tacque. Immediatamente l'araldo m'invita a parlare, se avevo qualcosa da dire in mia difesa. Ma io in quel momento avevo solo la forza di piangere ed ero, parola mia, afflitto non tanto per l'atrocità dell'accusa, quanto per il tormento della mia coscienza. Pure, una divina ispirazione m'infuse coraggio, e così replicai:

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"Io stesso sono ben cosciente della difficoltà della mia situazione. Stanno davanti a voi tre cadaveri di cittadini; perciò molto difficilmente colui che è accusato d'averli uccisi potrà persuadere della propria innocenza tante persone, anche se dice il vero e spontaneamente racconti come si è svolto il fatto.

Tuttavia, se voi, cittadini, mi concederete umanamente un po' d'ascolto, spero di convincervi facilmente che non è colpa mia, se su di me pesa il pericolo d'una condanna a morte; ma che è effetto di circostanze fortuite, se in voi è nato uno spiegabilissimo sdegno, e che l'odio profondo nei miei riguardi deriva da un'accusa vuota di sostanza".

5. "In effetti, io stavo tornando da un pranzo ad ora piuttosto tarda, ed ero alquanto alticcio (colpa, questa, assolutamente vera, né io cercherò di negarla), quando, proprio davanti alla porta dell'onesto Milone, il vostro concittadino che mi ha dato alloggio, vidi certi ferocissimi briganti armeggiare attorno all'ingresso. Avevano già forzato i cardini e si davano da fare per svellere la porta, non solo, ma avevano pure fatto saltare le spranghe che pure erano state applicate con tutta la cura possibile, e già deliberavano sul modo di mettere a morte gli abitanti della casa. Alla fine uno, il più audace e gigantesco di corpo, incita gli altri con queste esortazioni:- Ehi, ragazzi! Ora occorre animo maschio e pronta energia.

Aggrediamoli nel sonno, costoro. Lontano sia dal nostro cuore ogni dubbio, ogni viltà: snudiamo la spada e portiamo in questa casa ovunque la strage; trucidiamo quelli che dormono, abbattiamo quelli che tentano di far resistenza. Potremo dirci salvi al ritorno, solo se in questa casa non concediamo a nessuno salvezza.

Lo confesso, o cittadini, io ho cercato di spaventare e mettere in fuga dei banditi della peggiore specie, con la spada che mi faceva compagnia in vista di avventure del genere. E l'ho fatto, sia perché lo stimavo un dovere per un buon cittadino, sia perché temevo moltissimo per la vita dei miei ospiti e la mia. Ma quelli erano degli individui assolutamente barbari e feroci, perché, lungi dal fuggire, si volsero audacemente contro di me, benché mi vedessero armato".

6. "Ne nasce una mischia in piena regola. Da ultimo, il capo in persona, quello che era il portabandiera della masnada, mi salta addosso con impeto gagliardo, mi afferra con le due mani per i capelli, e piegandomi all'indietro, si appresta baldanzoso ad abbattermi a colpi di pietra. Fortuna volle che, mentre chiedeva con insistenza ai suoi di passargli una pietra, io riuscii a colpirlo con mano

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sicura e a stenderlo a terra. Subito dopo, con un colpo ben assestato tra le scapole, mi sbarazzo del secondo che mi si era avvinghiato alle gambe e lavorava di denti; in quanto al terzo, mentre mi correva addosso con cieca rabbia, lo uccisi cacciandogli la spada nel petto. Così, dopo che ebbi assicurato l'ordine, difeso la dimora dei miei ospiti e la vita di tutti, credevo non solo di non meritare alcun castigo, ma anzi di aver diritto alla pubblica lode. Tanto più lo credevo, in quanto non ho mai avuto a che fare con la giustizia, neppure per il più piccolo motivo; non solo, ma nell'opinione dei miei concittadini godo ottima stima, e ho sempre anteposto l'onestà a ogni altro vantaggio. Non mi riesce quindi di scoprire perché io debba esser sottoposto a un'accusa del genere, quando il motivo che mi ha spinto contro dei criminali incalliti è stata l'opinione che essi dovevano essere puniti come meritavano. Nessuno può dimostrare che tra noi ci fossero in precedenza dei rancori personali. Ma che dico! Neppure che io li abbia mai conosciuti altrove! O allora mi si porti davanti la preda che avrebbe destato la mia cupidigia, poiché solo in questo caso si potrebbe credere che io abbia commesso un delitto così orribile".

7. Questa fu la mia difesa. Dopodiché scoppiai di nuovo a piangere e, tendendo in atto supplichevole le braccia, scongiuravo mestamente ora gli uni ora gli altri, in nome sia della pubblica pietà che degli affetti familiari. E poiché già mi sembrava di averli tutti commossi, facendo leva sul sentimento dell'umanità, e toccati con la compassione che destano le lacrime, invocai a testimone l'occhio del Sole e della Giustizia, e raccomandai la mia pericolosa situazione alla divina provvidenza. Ma, alzando un po' lo sguardo, che vedo? Nientemeno tutta la folla dei presenti ridere a crepapelle, e persino il buon Milone, tenersi la pancia dalle risate.

In quel momento dissi tra me stesso in silenzio:"Io, per difendere la vita di colui che mi ospita, sono diventato un assassino e sono passibile di morte, e lui, oltre a non avermi offerto il conforto della sua assistenza, se la ride altamente della mia disgrazia".

8. In quel mentre, una donna che piangeva a dirotto, vestita di nero e con un bimbo al collo, corre giù dalle gradinate attraverso il teatro. La seguiva una vecchia, orribilmente coperta di stracci, che coi suoi pianti mostrava d'essere addolorata come l'altra. Tutte e due agitavano rami d'olivo. Si pongono ai lati del letto dov'erano stesi sotto un lenzuolo i cadaveri degli uccisi, e con alti lamenti e lugubri urla gridano:"In nome della pubblica pietà e dell'umanità, comune legge degli uomini, abbiate compassione di questi giovani barbaramente uccisi.

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Non rifiutate a una vedova e a una madre, ormai priva di figli, la consolazione di veder punito l'omicida. Recate almeno aiuto a questo bambino che è rimasto orfano sin dalla sua prima infanzia.

Offrite in sacrificio alle leggi e all'ordine pubblico della vostra città il sangue di questo assassino!".

Immediatamente si alza il magistrato più anziano e fa al popolo questa proposta:"In quanto al delitto, a parte l'esemplare punizione che esso merita, neppure quello che l'ha commesso può negare la propria responsabilità. Tuttavia, rimane un punto, se pur secondario, da risolvere: scoprire gli altri complici d'un crimine così orrendo.

In realtà, non è credibile che un individuo solo abbia tolto la vita a tre giovani così robusti. Dunque, per svelare la verità, penso che si debba ricorrere alla tortura. C'era un servo insieme all'assassino, ma è fuggito di nascosto. Perciò la faccenda sta in questi termini, che costui sia sottoposto alla tortura perché riveli i complici del suo delitto. Solo così si potrà completamente estirpare il terrore che una banda di efferati malviventi causa alla nostra città".

9. Senza indugio, secondo l'uso greco, le guardie preparano il fuoco, portano la ruota e sferze d'ogni dimensione. Cresce in me l'angoscia, anzi raddoppia al pensare che non mi è neppure consentito di morire con le membra intere. Ma quella vecchia che aveva prima messo tutti in subbuglio coi suoi pianti esclamò:"Rispettabili cittadini, prima di inchiodare alla croce questo brigante, l'uccisore dei miei poveri figli, permettete che si scoprano i corpi degli uccisi. Di certo, contemplando la loro bellezza e la loro giovane età, vi sentirete maggiormente ardere di giusto sdegno, e commisurerete la vostra severità alla gravità del fatto".

Seguì un applauso generale, e il magistrato subito dà l'ordine che proprio io debba di mano mia scoprire i corpi distesi sul letto funebre. Ebbi un bell'esprimere il mio disgusto e la mia ripugnanza a rinnovare con quello scoprimento lo spettacolo della sera prima. I littori, sull'ingiunzione dei magistrati, m'incalzano con la più grande energia; poi mi afferrano la mano che tenevo stretta al fianco, e mi obbligano per sua rovina a stenderla proprio sopra le salme degli uccisi.

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Sono sopraffatto, e devo arrendermi alla violenza. Sebbene a malincuore, tiro via il mantello e scopro i cadaveri.

Bontà divina! Quale spettacolo! Che prodigio! Quale improvviso mutamento prova la mia sorte! In effetti, mi vedevo già un numero del gregge di Proserpina e della servitù dell'Orco, perciò, di fronte a quel brusco cambiamento di scena, rimasi sbalordito, come di sasso. Né posso trovare parole adeguate per esprimere la novità di quanto vidi. Giacché quei cadaveri di uomini sgozzati erano in realtà tre otri gonfiati che mostravano dei fori in vari punti.

Anzi, per quanto ricordavo della rissa avvenuta la sera prima, quei fori corrispondevano alle ferite che avevo inferto ai banditi.

10. A questo punto, il riso che certi avevano astutamente contribuito per un po' a trattenere scoppia irrefrenabile tra la folla. Gli uni, nell'eccesso della loro ilarità, gracchiavano come cornacchie; gli altri avevano il mal di pancia per il gran ridere, e, per calmare il dolore, si tenevano il ventre con le mani; così tutti, pieni di buon umore, sgombrarono il teatro e ogni tanto si giravano a guardarmi.

In quanto a me, avevo appena tirato il lenzuolo, che rimasi duro e freddo come un macigno non altrimenti che se fossi una delle tante statue o colonne del teatro. Risalii a galla dall'inferno della mia vergogna, solo quando mi si accostò Milone e, ponendomi una mano sulla spalla, mi trasse a sé con dolce violenza, malgrado opponessi resistenza e, singhiozzando a più non posso, versassi dagli occhi un nuovo fiume di lacrime.

Egli mi condusse con un lungo giro, scegliendo le vie più deserte, e intanto cercava di consolarmi in un modo o nell'altro, poiché mi vedeva tutto triste e ancora agitato.

Ciò nonostante non riuscì affatto a calmare il mio sdegno, poiché l'ingiuria recatami mi aveva prodotto nel cuore una piaga troppo profonda.

11. Subito dopo, ecco che i magistrati in persona, con le insegne del loro grado, fanno ingresso in casa nostra, e nel loro desiderio di porgermi un conforto mi danno queste spiegazioni:"Noi, signor Lucio, conosciamo bene il tuo sangue e la tua stirpe, poiché la

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fama della tua nobile famiglia è sparsa in tutta la provincia. Tu ti lagni molto di ciò che ti è capitato, ma il fatto non aveva lo scopo di offenderti. Perciò sgombra il tuo cuore dal risentimento che ora ti affligge, e caccia via dal tuo animo il tormento. In effetti, questa pubblica festa, che ricorre ogni anno, noi la celebriamo con solennità in onore del Riso, piacevolissimo dio, ed essa sempre fiorisce di qualche nuova trovata. E' un nume, questo, che sempre accompagna con benigna affezione il suo fedele che è autore ed attore del gioco; perciò egli non permetterà mai all'animo tuo d'essere triste, ma in ogni momento onorerà la tua fronte col sereno aspetto della letizia.

Ordunque! La città unanime ha deciso di conferirti in ringraziamento splendidi onori. Sei stato perciò ascritto tra i nostri patroni, e per pubblico decreto la tua immagine sarà resa eterna nel bronzo".

Così parlarono, e io risposi:"A voi che rappresentate la città più bella, la perla della Tessaglia, io ho il piacere di esprimere il mio ringraziamento, che è grande quanto gli onori attribuitimi. Ma le statue e le immagini, il mio parere è che voi le conserviate per altri più degni e più illustri di me".

12. Dopo questa risposta improntata a modestia, accennai con viso più sereno a un sorriso di circostanza, e cercai nei limiti del possibile, di darmi un'aria più lieta; così quando i magistrati si allontanarono, li salutai con molto garbo.

Ma non era finita. Ecco un servo che arriva di corsa, dicendo:"Tua madre, Birrena, ti desidera e mi ha incaricato di ricordarti il suo pranzo. L'ora è vicina, e ieri sera hai promesso di parteciparvi".

Rimasi di sasso. Persino l'idea di vedere la sua casa mi faceva ribrezzo, ed esclamai:"Come vorrei, madre mia, porgere ossequio ai tuoi ordini, se potessi farlo, senza mancare alla mia parola! Ma il mio ospite Milone ha tanto insistito, in nome del dio patrono della giornata, che ho finito per accettare il suo invito a pranzo. Dille tra l'altro che egli non mi lascia né permette che io lo lasci. Perciò sarebbe opportuno rimandare l'impegno del pranzo".

Stavo ancora parlando, quando Milone mi prende saldamente per un braccio, dà l'ordine al servo di portargli l'occorrente per il bagno e mi conduce con sé

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alle terme più vicine.

Io però cercai di schivare gli sguardi della gente, poiché non volevo offrire ai passanti materia di riso (e il bello è che io stesso avevo contribuito a farlo sorgere), e camminavo rannicchiato al suo fianco.

Chi mi lavò, chi mi asciugò, chi mi ricondusse a casa? Non lo so.

La vergogna mi toglie ogni memoria. Ero smarrito e stordito nel vedere come tutti mi segnavano con gli occhi, coi cenni del capo e con le dita della mano.

13. Mi sbrigai in fretta della parca cenetta di Milone, e protestando un forte mal di testa (mi era venuto sul serio, a forza di piangere), ottenni facilmente licenza di andarmene a dormire.

Mi buttai sul letto e, pieno di malinconia, passavo in rassegna i particolari della mia disavventura, quando finalmente arrivò Fotide che nel frattempo aveva messo a letto la sua padrona. Però il suo aspetto era ben diverso dal solito: niente gioia sul volto e niente parole scherzose, ma un viso serio e accigliato e la fronte increspata di rughe.

Infine, poco alla volta e timidamente, si decise a parlare.

"Io", esclamò, "lo confesso senz'altro: proprio io ti ho messo in questo pasticcio!".

Così dicendo, estrae una cinghia di cuoio dal seno e me la porge.

"Prendila, ti prego, e infliggi a una perfida donna la giusta punizione; anzi, se vuoi, un castigo più grave. Ma non credere, però, che questo tormento io te lo abbia procurato volontariamente. Mi preservino gli dèi dal rischio che tu per causa mia abbia a soffrire il benché minimo affanno; se una sventura minacciasse la tua vita, il mio voto sarebbe di scontarla col mio sangue. Io dovevo eseguire un ordine ricevuto, ma la faccenda, che era diretta a tutt'altro scopo, per mia malasorte ha finito per ricadere a tuo danno".

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14. Spinto dalla mia abituale curiosità e smanioso di scoprire i retroscena dell'accaduto, esclamai:"Lo staffile che hai scelto per batterti è per me il più malvagio e insolente di quanti ne abbia mai visti. Lo taglierò, lo farò a pezzi, lo distruggerò, piuttosto di toccar con esso la tua pelle morbida come la piuma e bianca come il latte. Ma raccontami fedelmente tutto. Che hai fatto, tu, che la sorte mancina in seguito ha volto alla mia rovina? Sul tuo capo, che mi è carissimo, io ti giuro che non ci crederei, se qualcuno (fossi tu stessa) mi venisse a dire che tu mi hai teso un tranello per farmi del male. Insomma, quando l'intenzione è pura, non potrà mai essere considerata colpevole, anche se il risultato non corrisponde a esso o addirittura le sia contrario".

Finivo allora di parlare, quando osservai gli occhi della mia Fotide: erano umidi, palpitanti, languidi d'una brama di piacere, sul punto di chiudersi; e io, a forza di baci appassionati, me li succhiai avidamente così come si centellina un liquore.

15. Allora lei, rasserenata, mi disse:"Ti prego, lasciami prima chiudere con cura la porta della camera.

Se si venisse a sapere quello che ti dirò, sarebbe da parte mia un'insolente profanazione e una colpa gravissima".

Nel dire così va a spingere il chiavistello e infila saldamente l'uncino nel gancio, poi torna e, gettandomi al collo le due braccia, mi sussurra con voce bassa e molto sottile:"Ho timore, ho paura davvero di scoprire i misteri di questa casa e di rivelare gli arcani segreti della mia signora. Pure, io ho più stima di te e del tuo sapere. Tu appartieni per nascita a una nobile famiglia, hai un'intelligenza non comune, e inoltre, siccome sei stato iniziato già più volte ai sacri misteri, conosci bene il santo scrupolo del silenzio. Perciò tutte le confidenze che io affiderò al sacrario del tuo animo pio, ti prego, custodiscile sempre rinchiuse nel tuo intimo. La sincerità con cui ti faccio queste rivelazioni spero che la ricambierai con l'osservare il più scrupoloso segreto: proprio l'amore che mi lega a te mi spinge a riferirti fatti che io sola tra i viventi conosco. Ora saprai tutto quello che accade in casa nostra, ora saprai i segreti della mia signora: segreti straordinari, perché a lei obbediscono i Mani e servono gli elementi, da lei è turbato il corso degli astri e costretta la volontà dei numi. Ma in special modo lei esercita il potere irresistibile che le dà l'arte magica quando vede qualche giovane di bell'aspetto, il che, in verità, le capita

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abbastanza spesso".

16. "Ora poi si strugge perdutamente per un giovane Beota, veramente un bel ragazzo, e si applica con ardore a tutti gli espedienti, a tutte le macchinazioni che l'arte le suggerisce.

L'ho udita ieri sera, ripeto, l'ho proprio udita con queste mie orecchie, lanciare minacce persino al Sole: minacciava nientemeno di coprirlo d'oscura caligine e perpetua tenebra. E perché?Perché, a sentir lei era sceso giù dal cielo con troppa lentezza e aveva lasciato troppo tardi il posto alla notte, affinché lei potesse mettere in atto gli allettamenti della magia. Questo giovane l'ha visto ieri nella bottega d'un barbiere mentre tornava dai bagni, e subito mi ha dato l'ordine di andare a sottrarre di nascosto le ciocche di capelli che erano già cadute a terra sotto la lama del rasoio.

Mentre li raccoglievo furtivamente, il barbiere mi scopre, mi afferra e, siccome il popolo ci guarda come il fumo negli occhi in quanto notoriamente pratichiamo la scienza dei malefici, mi apostrofa brutalmente:- Ehi, sgualdrina! Non la smetti mai di portar via i capelli dei bei giovani. E' una vera porcheria, e, se non la pianti, io ti consegno senz'altro ai magistrati.

Alle parole fa seguire i fatti, mi mette una mano in seno per perquisirmi e ne tira fuori con rabbia i capelli che già vi avevo nascosto.

Rimasi agitata per la scenata e anche preoccupata per gli umori della padrona. Essa infatti di solito monta in furia per insuccessi del genere, e mi batte barbaramente. Già pensavo di fuggire, quando sei venuto tu, e, al solo guardarti, ho subito abbandonato ogni proposito di fuga".

17. "Mi allontanavo afflitta di lì, e, per non tornare a casa a mani vuote del tutto, ebbi un'idea: scorsi un tale che stava tosando con le forbici degli otri di pelle di capra. Guardo bene gli otri che erano già stati legati, gonfiati e appesi ai ganci; i peli che erano sparsi per terra erano biondi e molto simili ai capelli del giovane Beota. Allora ne raccolsi parecchie ciocche e le portai alla mia padrona, tacendo, naturalmente, la loro vera provenienza. Così ieri sera, prima che tu facessi ritorno dal pranzo, Panfile, la mia signora, con la mente già immersa nel magico delirio, se ne salì in soffitta. Questa è un vano

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di tavole di legno posto su un fianco della casa e aperto ai venti; di lì la vista spazia verso oriente e quasi tutti gli altri punti cardinali, e in questo luogo la mia padrona viene di frequente in tutta segretezza, perché lo giudica adattissimo alle sue magiche operazioni. Dapprima addobba il suo lugubre laboratorio con i soliti ingredienti: ogni specie di profumi e d'incensi, placche metalliche scritte in lingua sconosciuta, disseccati relitti di navi naufragate; tra l'altro fanno bella mostra membra in gran numero strappate ai cadaveri dopo il compianto funebre e persino dopo la sepoltura: qua nasi e dita, là chiodi di condannati al supplizio della croce con su dei brandelli di carne, altrove fiale contenenti sangue di giustiziati e teschi recisi contesi alle zanne delle fiere".

18. "Successivamente recita le formule magiche su delle viscere ancora palpitanti, sparge in espiazione liquidi vari, ora acqua di sorgente, ora latte di mucca, ora miele di montagna, e offre anche libagioni di vino melato. Poi intreccia e annoda tra loro quei capelli che ti dicevo, e li pone a bruciare nella brace insieme con gran numero di profumi. Ecco che subito l'irresistibile potenza dell'arte magica costringe i numi a intervenire con la loro occulta energia: i corpi ai quali appartenevano i capelli che fumavano stridendo nella fiamma accolgono in sé spirito umano, ricevono percezione, udito e movimento, se ne vengono seguendo il puzzo di bruciato che si sprigiona dai loro avanzi, e al posto del giovane Beota cercano di penetrare in casa e si accaniscono contro la porta. A questo punto ecco che arrivi tu, fradicio di vino, e, ingannato dall'improvvisa oscurità della notte, sfoderi coraggiosamente la spada. Con quest'arma in pugno mi sembravi proprio Aiace impazzito, salvo che lui, lanciandosi contro delle pecore vive, ha scannato intere greggi; tu invece fosti molto più coraggioso di lui, poiché a ben tre otri rigonfi di pelle caprina togliesti la vita. E così, proprio perché tu hai abbattuto i tuoi nemici, senza versare una goccia di sangue, io ora posso abbracciare in te non un omicida, ma un otricida".

19. Fotide mi fece ridere, col suo spiritoso racconto; e, scherzando a mia volta, replicai:"Dunque, anch'io potrei ora annoverare questa prima impresa come un titolo di gloria per me, sul modello di una delle dodici fatiche d'Ercole. Giacché questi tre otri che ho ucciso ben reggono il confronto con Gerione, il mostro dai tre corpi, o con Cerbero, il cane triforme. Tuttavia, io sono pronto a perdonarti sinceramente ogni fallo, anche se mi hai ficcato in un imbroglio davvero angoscioso. Vorrei solo che tu soddisfacessi un mio vivissimo voto, farmi vedere cioè la tua padrona mentre esegue qualche operazione di quest'arte soprannaturale, per esempio quando fa appello agli dèi o almeno quando si muta in altra forma.

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Io ho infatti un desiderio ardentissimo di conoscere da vicino l'arte della magia, per quanto anche tu non mi sembri inesperta o digiuna in questa materia. Questo io lo so e me ne accorgo benissimo. Infatti, mi sono sempre curato poco delle carezze delle belle signore, ma tu con i tuoi occhi scintillanti, le tue guance porporine, la tua chioma lucente, i tuoi baci a bocca aperta, il tuo seno profumato, mi hai ridotto al rango di uno schiavo, e il bello è che io sto volentieri al tuo servizio. Ormai per me non è più questione né di tornare a casa e nemmeno di fare i preparativi per il ritorno: una notte come questa non la cederei per nient'altro al mondo".

20. Lei rispose:"Vorrei bene, Lucio, accontentare il tuo desiderio. Ma la mia signora, oltre a essere per natura gelosa della sua arte, ha l'abitudine di compiere sempre i suoi riti misteriosi nella solitudine più completa, lontano dagli sguardi della gente.

Tuttavia, voglio anteporre il tuo desiderio al mio rischio, e spierò l'occasione opportuna per farti contento. Naturalmente, e te l'ho già detto prima, bisogna che tu osservi su una faccenda così grave il silenzio più scrupoloso".

Intanto, mentre si chiacchierava, una reciproca sete di voluttà ci mette in eccitazione l'animo e il corpo. Ci togliamo in fretta le vesti fino a restare completamente nudi, e ci abbandoniamo freneticamente alle danze di Venere; quando fui stanco, Fotide volle generosamente offrirmi, come premio finale, un piacere da ragazzo. Così sui nostri occhi illanguiditi per l'amorosa veglia scese infine il sonno, e ci avvinse sino a giorno avanzato.

21. In questo modo trascorrevamo voluttuosamente le notti. Non ne erano passate molte, che un bel giorno Fotide mi corre avanti, tutta commossa e agitata, e mi rivela che la sua signora voleva la notte seguente trasformarsi in un pennuto uccello, visto che con gli altri suoi sortilegi non riusciva sino allora a far alcun passo avanti nei suoi affari di cuore; in questa forma sarebbe poi andata volando a trovare l'oggetto del suo amore. Che perciò mi preparassi con prudenza a contemplare uno spettacolo straordinario.

Erano circa le nove di sera, quando Fotide, in punta di piedi, senza far rumore, mi conduce lei stessa sino alla camera che voi sapete, al piano superiore, e mi invita a metter l'occhio a una fessura della porta. Ed ecco ciò che vidi.

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Dapprima Panfile si spoglia di tutte le vesti, poi apre un bauletto e ne estrae alcuni vasetti, leva il coperchio a uno di essi, ne tira fuori una pomata, se ne sfrega a lungo le palme e si unge tutta, dalle unghie dei piedi alla cima dei capelli; quindi, dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna, è scossa in tutto il corpo da un tremito insistente.

Al tremito subentra poi un lieve palpitare, mentre sul corpo spunta una molle peluria, crescono delle robuste penne, il naso s'incurva e s'indurisce, le unghie diventano spesse e si fanno adunche.

E così Panfile diventa un gufo. Emette uno stridulo lamento, spicca piccoli salti sul pavimento per provare le sue capacità, poi s'innalza e vola via al di fuori con le ali spiegate.

22. Panfile, dunque, si era trasformata a suo piacere, ma io, anche se non ero stato sottoposto a nessun incantesimo, ero sbalordito per l'accaduto, e tutto mi pareva di essere, fuorché il Lucio di prima.

Ero fuori di me, come stordito da una frenetica esaltazione, e sognavo ad occhi aperti; mi sfregai persino le palpebre a lungo, per il desiderio di sapere se ero veramente sveglio.

Alla fine, quando tornai a riprendere coscienza della realtà, afferrai la mano di Fotide e, accostandomela agli occhi, chiesi:"Concedimi, ti prego, una dimostrazione del tuo affetto davvero fuori dell'ordinario. Dammi un po' di quell'unguento, ti scongiuro per i tuoi occhi, o mia dolcissima amica, e lega il tuo schiavo con un beneficio che non potrà mai ripagare. Presto! Fammi stare al fianco della mia Venere sotto forma di Amore alato".

"Che dici?" rispose. "Che volpone che sei, bell'amoruccio: tu vuoi che io mi dia spontaneamente la zappa sui piedi. A stento, ora che sei senz'armi, riesco a proteggerti da queste lupe di Tessaglia!Se diventi un uccello, dove ti cercherò, quando mai ti potrò rivedere?".

23. "Mi preservino gli dèi dal commettere un'infamia simile", replicai. "Ammettiamo pure che io mi trasformi nell'aquila stessa, che io, innalzandomi in

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volo, possa scorrazzare nel cielo in ogni direzione in qualità di sicuro messaggero o scudiero giulivo del sommo Giove. E con ciò? Io saprei sempre, anche dopo aver ricevuto l'onore di appartenere al regno dei volatili, ritornare al mio dolce nido. Ma ora che ci penso, c'è da fare anche questa considerazione: quando, dopo l'unzione, mi sarò trasformato in un uccello di questo genere, io dovrò girare al largo da ogni abitazione. Che bello ed allegro amante può mai essere un gufo?Potrebbero mai le signore trovar in lui il loro piacere? Ma come!Noi vediamo bene che, quando questi uccelli si introducono in qualche casa, vengono immediatamente presi e inchiodati ai battenti delle porte. Si fa così perché essi espiino col loro supplizio quei lutti che minacciano alle famiglie con i loro voli del malaugurio. Ma io quasi mi dimenticavo di chiederti: che devo dire o fare per levarmi di dosso le penne e ritornar quel Lucio che ero?".

"Stai tranquillo, a questo ci penso io", mi rispose. "La mia padrona mi ha dato, caso per caso, tutte le indicazioni che consentono, a metamorfosi avvenuta, di riprendere sembianze umane.

Non credere però, che l'abbia fatto per bontà d'animo. No di certo! Ma soltanto perché io potessi al ritorno porgerle la medicina della salvezza. Considera infine quanto sia modesto il valore delle erbe che producono un prodigio del genere: un po' d'aneto con qualche foglia di alloro messo a macerare in un bicchiere d'acqua sorgiva in quantità sufficiente per bagnarsi il corpo e per berne".

24. Mentre mi ripeteva queste assicurazioni, Fotide profondamente agitata si introduce nella stanza ed estrae una scatolina dal bauletto. Io dapprima la bacio e l'abbraccio, la prego che mi assista e mi accordi un felice volo, poi butto via tutti i vestiti, vi immergo avidamente le mani e, cavata una bella dose di quell'unguento, me ne stropiccio tutte le parti del corpo.

Già cercavo di librarmi in volo, ora muovendo un braccio, ora l'altro, nel mio desiderio di trasformarmi in un uccello simile, ma in nessun punto del corpo mi spuntava piuma o penna; al contrario, i miei peli acquistano lo spessore delle setole, la pelle tenera diventa solido cuoio, all'estremità delle palme si perde la divisione delle dita, ed esse si contraggono tutte insieme sino a formare uno zoccolo solo, e al termine della spina dorsale mi spunta un'enorme coda.

Ormai avevo un muso smisurato, una bocca lunga e larga, delle narici spalancate, delle labbra pendule; e così pure le orecchie erano cresciute in modo esagerato

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e s'erano ricoperte di ispidi peli.

Un solo conforto vedevo in questa mia sciagurata metamorfosi, ed è questo: che, mentre non riuscivo più a tener Fotide tra le mie braccia, i miei attributi di maschio s'erano notevolmente sviluppati.

25. Mentre osservavo tutte le parti del mio corpo, in cerca d'un rimedio che non trovavo, e mi vedevo divenuto asino e non uccello, volli esprimere a Fotide il mio dispetto, per ciò che aveva fatto.

Ma ormai mi mancava non solo il gesto, ma anche la voce dell'uomo, sicché potei solo abbassare l'estremità delle labbra e, guardandola di traverso con gli occhi bagnati di lacrime, indirizzarle la mia tacita supplica.

Lei, appena mi vide in quello stato, rivolse le mani contro di sé e si prese a schiaffi:"Disgraziata me!" gridò. "Sono rovinata, l'agitazione e la fretta mi hanno tratta in errore, e anche la somiglianza dei vasetti ha contribuito a ingannarmi. Ma fortunatamente l'antidoto di questa trasformazione è abbastanza facile a trovare: infatti, ti basterà mordere delle rose, per uscire di corpo all'asino e ritornare immediatamente il mio Lucio di prima. Volesse il cielo che stasera avessi composto qualche ghirlanda di rose, come faccio di solito!Non dovresti ora sopportare alcun ritardo, nemmeno per una sola notte. Ma sta' sicuro, che subito all'alba troverai pronto il rimedio".

26. Così si espresse l'addolorata Fotide. Ma io, pur diventato asino completo e, da Lucio che ero, una bestia da soma, conservavo ancora l'intelligenza umana. Perciò considerai con molta attenzione se non era il caso di ammazzare quella femmina infame e scellerata, abbattendola a forza di calci oppure assalendola a morsi.

Tuttavia, una più cauta riflessione mi fece deporre l'imprudente proposito. Temetti cioè, se avessi inflitto come punizione a Fotide la morte, che mi sarei privato anche d'ogni aiuto e speranza di salvezza.

Abbasso dunque il capo e, rassegnandomi alla mia infelicissima situazione, mi ritiro nella stalla, vicino alla mia fedelissima cavalcatura. Qui trovai alloggiato anche un altro asino che apparteneva a Milone, già prima mio ospite.

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Intanto pensavo tra me:"Se esiste un qualche tacito e naturale vincolo che leghi insieme gli animali privi di parola, il mio cavallo dovrebbe riconoscermi e sentirsi mosso a pietà nei miei riguardi; dovrebbe quindi offrirmi l'ospitalità e per giunta farmi un trattamento di riguardo".

O Giove ospitale! O divinità della Fede che te ne stai solitaria!Quel mio egregio destriero fece comunella con l'asino, e tutti e due si accordarono immediatamente ai miei danni. Temevano, era evidente, per le proprie razioni; e, appena videro che mi avvicinavo alla mangiatoia, abbassarono le orecchie e mi corsero dietro, scalciando rabbiosamente.

Così fui costretto a girare alla larga il più possibile dall'orzo.

Che bella riconoscenza, da parte d'un servitore! E dire che, la sera prima, quell'orzo lo avevo apparecchiato con le mie mani.

27. In seguito a un tale trattamento, mi trovai confinato in perfetta solitudine, e mi ritirai in un angolo della stalla.

La tracotanza dei miei colleghi mi indusse ad amare riflessioni:mentre pensavo al castigo da infliggere il giorno dopo al perfido cavallo, quando, grazie alle rose, sarei ridiventato Lucio, mi corse lo sguardo sul pilastro che sosteneva le travi della stalla, e vidi collocato in una nicchia, proprio nella parte mediana del pilastro, una statuetta della dea Epona, che era accuratamente adorna di ghirlande di rose per l'appunto fresche.

Riconoscere il rimedio della salvezza e abbandonarmi alla speranza fu tutt'uno. Tesi in alto le zampe anteriori, sforzandomi più che potevo di trovare un punto d'appoggio, allungai il collo, protesi esageratamente le labbra e feci il massimo sforzo per raggiungere le ghirlande.

Ma la sorte era evidentemente contraria al mio tentativo, poiché il mio servo, che giorno per giorno si prendeva cura del cavallo, mi scorse, e sdegnato si alzò bruscamente in piedi, urlando:"Ma fino a quando dovremo sopportare questa bestiaccia? Poco fa ce l'aveva con

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la razione delle bestie, ora persino con le immagini sacre se la prende. Questo ladro sacrilego voglio conciarlo per le feste; voglio che vada zoppo per la debolezza".

Subito si mette alla ricerca di un'arma, e va a sbattere su un fascio di legna che per caso si trovava nella stalla; ci fruga dentro, sino ad estrarre un ramo frondoso, il più grosso di tutti, e con questo si mette a percuotermi, misero me!, senza fermarsi un istante.

Ma d'un tratto si sente un violento fracasso, un frastuono assordante di porte percosse, di urla di spavento nel vicinato, e il grido di "Arrivano i briganti!", sicché il servo fugge via atterrito.

28. Un attimo dopo, una masnada di banditi spalanca con violenza le porte e si precipita dappertutto, mentre altri, armati, circondano a una a una le parti dell'edificio. Corrono di qua e di là i vicini in aiuto, ma i briganti, slanciandosi da ogni lato, li tengono a bada. Tutti sono armati di spada, e con le fiaccole rischiarano le tenebre, così che il riverbero delle fiamme sulle lame lampeggia come il sole, quando spunta all'alba.

C'era un magazzino in mezzo alla casa, solidamente sbarrato con robuste serrature, che era pieno dei tesori di Milone. Su di esso i briganti si accaniscono a gran colpi di scure, sino a sfondarlo; poi, dopo aver praticato diverse aperture, portano via tutta la roba che conteneva, fanno in fretta tanti fagotti, e se li dividono un po' per uno.

Ma la quantità dei bagagli superava il numero dei portatori, cosicché, data l'eccessiva abbondanza della preda, i banditi non sapevano più che pesci pigliare. Alla fine, portano fuori dalla stalla noi due asini e il mio cavallo, ci caricano di fardelli sino a schiacciarci, e sotto la minaccia delle bastonate, ci spingono via dalla casa ormai vuota.

Uno di loro rimase sul posto come osservatore, per poi riferire sullo svolgimento delle indagini; gli altri a suon di legnate ci portano con rapida marcia per remoti sentieri tra i monti

29. Già il peso esagerato della soma, l'erto pendio della montagna, la lunghezza eccessiva del cammino mi avevano sfiancato al punto che tra me e un cadavere non

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c'era più alcuna differenza.

Mi venne allora l'idea, un po' tardiva, certo, ma buona, di ricorrere a un mezzo accessibile a ogni cittadino, appellandomi al nome venerabile dell'imperatore, per liberarmi da tante tribolazioni.

Era mattino inoltrato, quando attraversammo un villaggio popoloso e affollato perché era giorno di mercato. Mi trovavo proprio in mezzo a una folla di Greci, e volli invocare l'augusto nome di Cesare nella mia lingua nativa, però solo un "O" riuscii a urlare, sonoro e robusto, ma non ci fu verso di pronunciare le sillabe restanti del nome Cesare.

Ai briganti seccò parecchio quel mio sconveniente schiamazzo, e bastonandomi ora su un fianco ora su un altro, riducono il mio povero cuoio in tale stato, che non poteva più servire nemmeno per un crivello.

Ma finalmente il sommo Giove mi presentò un'inaspettata via di salvezza. Infatti, mentre passavamo davanti a delle villette e a delle grosse cascine, scorsi un giardinetto tenuto con un certo gusto, nel quale, a parte le altre graziose piante, fiorivano delle rose novelle umide di rugiada mattutina. Mi accostai a esse con la bocca aperta per il desiderio, lieto e arzillo, con la speranza di essere salvo. Stavo già per afferrarle con l'acquolina in bocca, ma una riflessione molto più saggia mi fermò. Se avessi, cioè, abbandonato l'aspetto dell'asino e fossi spuntato nelle sembianze di Lucio, avrei evidentemente incontrato la morte per mano dei banditi. Essi, infatti, o mi avrebbero preso per uno stregone, o avrebbero temuto in me un eventuale delatore, per il futuro.

Perciò per il momento dovetti far di necessità virtù e rinunciare alle rose; mi rassegnai temporaneamente al mio stato, e in figura d'asino cominciai a rosicchiare il fieno.

LIBRO 4

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1. Poteva essere mezzogiorno e il sole scottava, quando sostammo in un villaggio presso gente amica che i ladroni conoscevano da lunga data. Così almeno, per quanto asino, mi fu dato di capire, dal modo in cui ci accolsero, dalle molte chiacchiere e dagli scambievoli abbracci.

Intanto i briganti tiravano giù dalla mia schiena alcuni regali che offrirono ai loro conoscenti, e mi sembrava che a bassa voce, in disparte, ne indicassero la provenienza furtiva.

Ci alleggerirono poi dei bagagli e ci lasciarono liberi di pascolare in un prato vicino; ma io non fui capace di tener compagnia all'asino o al mio cavallo, perché non mi ero ancora potuto abituare al gusto del fieno. Avevo però adocchiato dietro la stalla un orticello; morto di fame com'ero, ci vado di corsa e alla rinfusa mi riempio il ventre di erbaggi. Erano crudi, ma non ci badai. Pregavo intanto gli dèi, e dappertutto spiavo se potevo, nei giardini attigui, scoprire un rosaio dai vivi colori. E davvero il fatto di esser solo mi dava un certo coraggio, e almanaccavo che, standomene in disparte, nascosto tra il verde, una volta colto il rimedio di cui avevo bisogno, avrei potuto abbandonare la curva andatura del quadrupede per riprendere, senza che nessuno mi vedesse, la figura eretta di un uomo.

2. Ondeggiavo dunque in questo mare di pensieri, quando poco lontano scorsi una valle ombrosa di frondose piante, e tra le erbe e la rigogliosa vegetazione vidi rifulgere uno splendido roseto del color del carminio. In quel momento, nel mio cuore che ancora conservava una scintilla di umanità, immaginai di contemplare quel bosco sacro a Venere e alle Grazie, nei freschi recessi del quale riluce con il suo splendido colore il fiore regale della rosa.

Subito invoco il dio Evento, che mi assista propizio, e di corsa mi precipito, tanto che mi parve di non essere più un asino, ma un cavallo da corsa lanciato a spron battuto.

Eppure, una simile dimostrazione di agilità e di potenza non riuscì a vincere l'avverso destino, perché, quando giunsi là, non vidi più quelle rose graziose e delicate, umide di rugiadoso e divino nettare, che fanno così bella vista sui rovi e tra le spine, e neppure vidi più quella valle, ma solo la sponda di un rivo avvolto tra fitte piante.

Questi alberelli, provvisti di abbondante fogliame simile a quello del lauro,

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quasi vogliano imitare i fiori odorosi, producono corolle di un colore rossastro, ma di nessun profumo; il popolino le chiama, con termine campagnolo, rose lauree, e cibarsene è velenoso per ogni animale.

3. Avvinto al mio duro destino, ormai risoluto a non sperare più salvezza, meditavo di cogliere quelle rose avvelenate; ma mentre mi accingo, timoroso, a strapparle, ecco arrivare di corsa un giovanotto. Era, così mi parve, quell'ortolano al quale avevo saccheggiato quasi completamente l'orto, che, visto lo scempio, correva completamente furioso, con un nodoso randello.

Mi afferra per la cavezza e mi riempie di bastonate, tanto che sarei stato per cascare morto, se alla fine non avessi scoperto un bel modo di cavarmela. Alzata la groppa, gli scaricai col posteriore tante di quelle paia di calci, che lo scaraventai malconcio contro il fianco del colle adiacente; poi mi diedi alla fuga.

Ma a questo punto una femmina, certo la moglie di quel tale, che dalla casa aveva visto il marito a terra mezzo morto, subito corre fuori tra urla e gemiti, immaginando evidentemente con le sue grida atte a destar pietà, di farmi fare una brutta fine. Invero, tutti i contadini, mossi a compassione dai suoi pianti, danno la voce ai loro cani e li aizzano ad avventarsi feroci su di me per farmi a pezzi.

Mi sembrò allora di esser proprio già con un piede nella fossa, perché da ogni parte mi vidi accerchiato e aggredito da una muta di cagnacci orrendi e bravi ad azzuffarsi persino con orsi e leoni; vista la piega che prendevano le cose, decido di interrompere la mia corsa e me ne torno in tutta fretta alla stalla dove avevamo fatto sosta.

Quelli, richiamati a stento indietro i loro cani, mi afferrano e mi legano con una fune a nodo scorsoio, ricominciano a bastonarmi, e mi avrebbero senz'altro fatto la pelle a bastonate; fortuna che il mio ventre, pieno di quegli erbaggi indigesti, non reggendo al male delle percosse, in preda a diarrea, si vuotò d'un tratto, come quando si toglie il tappo a una botte, e così i miei persecutori furono costretti a lasciare in pace la mia schiena malconcia, gli uni inzaccherati dalla nauseante sciolta, gli altri stomacati dal puzzo atroce che ne esalava.

4. Non ci fu un attimo di respiro; a meriggio già inoltrato i briganti ci

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cacciano fuori dalla stalla, dopo averci di nuovo caricati; io, in particolare, ero più gravato degli altri.

Avevamo già percorso un bel pezzo di strada, e io, sfinito per la lunga marcia, schiacciato dal peso della soma e frustato senza pietà, me ne andavo ciondoloni e mezzo azzoppato, con gli zoccoli rosi fino all'osso. Ci fermammo infine sulla sponda di un ruscello placido e tortuoso, e qui, vista l'occasione favorevole, rimuginavo di lasciarmi cadere a terra lungo disteso, risoluto a non riprendere il cammino, per quante frustate dovesse costarmi; anzi, ero già deciso a crepare sotto il bastone o il pugnale. Mi facevo l'idea che, sfinito e storpiato com'ero, mi meritassi un congedo per invalidità, e che molto probabilmente i briganti, un po' per non perdere tempo, un po' per la fretta di andarsene, avrebbero sistemato il bagaglio sulla schiena delle altre due bestie e, per infliggermi una punizione più crudele, mi avrebbero abbandonato in preda ai lupi e agli avvoltoi.

5. Ma un doloroso accidente mandò a vuoto un piano così bello.

L'asino mio compagno, che aveva indovinato il mio pensiero, mi precedette e, fingendo estrema stanchezza, stramazzò a terra con tutta la soma.

Giaceva dunque al suolo come se fosse morto, e anche se quegli sciagurati lo bastonarono, lo punzecchiarono e lo trascinarono qua e là per la coda, le orecchie e le zampe, non ci fu verso di farlo rialzare. Quelli, alla fine, seccatissimi, confabularono tra loro, e poiché non avevano alcuna voglia di star lì per i begli occhi d'un asino che era già morto, anzi impietrito, divisero il suo carico tra me e il cavallo; poi con le spade recidono all'asino i garetti, e dopo averlo trascinato via dal sentiero lo precipitano, ancora agonizzante, nel burrone sottostante.

Riflettendo sulla misera fine del mio compagno, io persi allora ogni voglia di fare il furbo, e decisi di mostrarmi per il futuro asino galantuomo e docile agli ordini dei padroni.

Tra l'altro, da brani di loro conversazioni, avevo capito che tra breve avremmo fatto tappa e che, ormai vicini al loro quartier generale, si approssimava la fine del viaggio.

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Superata una piccola altura, giungemmo alla meta designata. Qui ci scaricarono dei bagagli e li portarono all'interno, mentre io, libero ormai d'ogni peso, smaltivo la stanchezza, rigirandomi nella polvere come se stessi facendo un bagno.

6. La stranezza dell'avventura e la circostanza mi spingono a tentare una descrizione della località e della caverna che serviva da abitazione ai predoni. Voglio così mettere alla prova la mia intelligenza e farvi capire, lettori miei, che, in quanto a cervello e a sentimenti, non ero affatto un asino.

Si trattava di una montagna tutta punte, coperta di oscure foreste e parecchio alta. I suoi fianchi erano cinti da aspre e inaccessibili rupi, e burroni, il cui fondo si perdeva in un mare di spine, giravano tutto intorno al monte, costituendone una difesa naturale.

Dalla sommità, una sorgente ricca di acque scaturiva gorgogliando e, giù per il pendio spumeggiando come liquido argento, si disperdeva in mille rigagnoli e si riversava pigramente nel cavo delle valli, sino a formare attorno al monte una corona di acque stagnanti, quasi mare costretto in un angusto spazio o fiume che impaluda.

Sull'antro si ergeva un'alta torre, proprio al bordo dell'abisso; un po' dappertutto si stendevano recinti di robusti graticci atti a rinchiuderci le greggi, e ai loro ingressi conducevano delle staccionate tese a mo' di stretti corridoi. Con buona pace d'ognuno, lo si sarebbe detto proprio l'atrio di un covo di banditi.

Nient'altro appariva dintorno, se non una miserabile casupola fatta alla bell'e meglio di canne; e là, ogni notte, come venni poi a sapere, stavano di guardia alcuni dei ladroni, estratti a sorte.

7. Qui, nella caverna, si infilarono uno per uno i malandrini, dopo averci legati sul limitare con una corda robusta, e subito investono a male parole una vecchia ricurva e decrepita che era evidentemente incaricata della pulizia di una famiglia così numerosa.

"Fino a quando, carogna degna del sepolcro, disonore dell'umanità, avanzo dell'Inferno, ti farai beffe di noi poltrendo nell'ozio?

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Non ti passa neanche per la testa di prepararci una cena che ci ricompensi di tanti rischi e di tante fatiche? Tu però giorno e notte non ti stanchi mai di riempirti la pancia di vino schietto!".

Tutta tremante, la vecchia così replicava alle ingiurie con la sua vocetta stridula:"Non arrabbiatevi, coraggiosi e fedeli miei pensionanti. Sono pronti in quantità manicaretti prelibati e di giusta cottura; pane ce n'è finché volete; i bicchieri sono ben puliti e ricolmi di vino, e come al solito vi ho pure preparato l'acqua calda per un po' di pulizia".

Aveva appena finito di parlare, che quelli, deposte alla svelta le vesti, si lavano con acqua calda e, dopo essersi rianimati al calore di un fuoco ben nutrito e unti con cura di olio, prendono posto alla mensa riccamente imbandita.

8. Si erano sdraiati proprio allora, ed ecco arrivare una masnada ancor più numerosa; un'occhiata sola mi bastò per capire che erano tutti della stessa risma dei primi. Infatti, anche loro portavano un ricco bottino di monete e di vasi d'oro e d'argento, e vesti di seta ricamate di fili d'oro.

Questi, dopo essersi ristorati anche loro con il solito bagno, si sdraiano sui letti insieme ai compagni, mentre alcuni, tratti a sorte, attendono a servire. Tutti bevono e mangiano da scoppiare, divorano carne a mucchi e pane a montagne, e tracannano bicchieri in fila l'uno dopo l'altro. Urlano a gara, cantano a squarciagola, si dicono parolacce, tali da somigliare ormai in tutto a bestiali Lapiti e a Centauri ubriachi.

A questo punto uno di loro, il più forzuto, esclamò:"Noi sì che ci siamo fatti onore, poiché abbiamo preso d'assalto il palazzo di Milone a Ipata. Oltre alla ricca preda che ci siamo guadagnati col nostro valore, siamo tornati a casa senza una scalfittura e, se la cosa può aggiungere pregio all'impresa, siamo tornati con otto gambe di più. Voi, invece, che avete visitato le città della Beozia, avete fatto ritorno con qualche compagno di meno e avete pure perso il vostro generale Lamaco, quel valoroso la cui vita sarei pronto a barattare con tutte queste vostre prede.

Comunque, quello è morto appunto per il suo troppo coraggio, e la sua memoria sarà sempre onorata insieme con quella dei re della terra e dei grandi condottieri; ma voi siete ladri da strapazzo, voi fate come i rigattieri e

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vivacchiate di furtarelli degni di uno schiavo, insinuandovi timidamente nei bagni e nelle camere delle vecchie".

9. Uno degli ultimi venuti ribatté:"Tu solo ignori che i grandi palazzi sono i più facili da espugnare? Anche se per le sale brulica una folla di servi, questi badano più alla pelle che alle ricchezze del padrone. Invece gli uomini frugali e che vivono appartati, il loro denaro, poco o molto che sia, sanno nasconderlo con più astuzia e difenderlo con accanimento e persino a rischio della vita. Voglio portarti degli esempi convincenti.

Eravamo appena arrivati a Tebe, la città dalle sette porte, e, secondo le regole più elementari della nostra professione, ci informavamo scrupolosamente di quelli che erano nominati per la loro ricchezza; non ci sfuggì il nome di un certo Crisero, un banchiere possessore di una bella fortuna; costui, per il terrore delle tasse e di ogni pubblica prestazione, cercava con grande abilità di dissimulare la sua grande ricchezza: si era ridotto a vivere in una casetta piccola, sì, ma abbastanza solida, tutto solo come un eremita, e qui coperto di sudici stracci covava i suoi sacchi d'oro. Decidemmo di muovere a costui il primo assalto:pensavamo che sarebbe stato più che facile impadronirci di tutti i suoi tesori senza alcun rischio, avendo a che fare con un solo individuo".

10. "Senza perdere tempo, sul far della notte, ci raccogliamo alla sua porta, in grande dubbio se dovessimo proprio forzarla o smuoverla o addirittura sconficcarla, poiché lo stridore delle imposte avrebbe svegliato tutto il vicinato per la nostra rovina.

Intanto, quel valorosissimo Lamaco, duce di ogni nostra impresa, consapevole delle sue capacità, era riuscito a insinuare pian piano la mano nel foro dove si infila la chiave, e cercava di far scorrere il chiavistello. Ma Crisero, il più infame certamente di tutti i bipedi, stava all'erta già da un pezzo per spiare ogni minimo rumore; egli, un passo dietro l'altro e trattenendo il respiro, si era avvicinato all'uscio, e con un colpo violento e improvviso inchioda con una grossa punta di ferro la mano del nostro capitano al legno della porta; poi lascia il suppliziato stretto nella morsa fatale, sale sul tetto della casupola, e di lì a squarciagola dà l'allarme ai vicini e, chiamando per nome ognuno di loro, li esorta a badare al pericolo comune e afferma falsamente che in casa sua è scoppiato un incendio. Tutti allora, per paura di vedersi il fuoco in casa, corrono giù a precipizio per portare aiuto".

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11. "Così noi, nell'angoscioso dilemma di farci scoprire o di abbandonare il nostro compagno, trovammo, d'accordo con lui, un rimedio, che ci parve nella circostanza il migliore.

Stacchiamo, con un colpo ben dato all'articolazione del gomito, la parte del braccio che congiunge la mano alla spalla, l'abbandoniamo al suo destino, e, legata la ferita con una grossa fasciatura per non lasciar tracce di sangue, portiamo via in fretta e furia quello che restava di Lamaco.

Ma, benché rispettosi del nostro giuramento, ci lasciammo cogliere dallo sbigottimento, e il timore del castigo imminente offriva ali alla nostra fuga; non poteva però quell'eroe magnanimo e valoroso star dietro alla nostra fretta, né d'altronde c'era un luogo sicuro dove potesse nascondersi, e così lui, tra i gemiti, ci scongiurava per la destra di Marte e la fedeltà al giuramento, di liberare un bravo commilitone dal tormento fisico e dal rischio di esser catturato. Come potrebbe, piangeva, un ladrone che sia coraggioso sopravvivere a quella sua mano che sola gli può garantire preda e omicidi sicuri? Ora che aveva perso una mano, sarebbe stato felicissimo di morire. Quando vide che nessuno di noi si lasciava indurre a ucciderlo, con la mano che gli rimaneva sfodera la spada, la bacia a lungo, e con polso fermo si trafigge il cuore. Allora noi, con grandi lodi per la fermezza d'animo dimostrata, avvolgemmo con cura la sua salma in una tela di lino e l'affidammo da nascondere agli abissi del mare. E il nostro Lamaco giace ora sepolto nell'immensità dell'oceano".

12. "Così egli trovò morte degna del suo valore.

Alcimo, invece, per l'avverso volere del destino non poté incontrare una morte degna delle sue operose iniziative. Egli, forzato l'uscio di una vecchia addormentata, era salito al piano superiore; di certo avrebbe fatto meglio a strozzarla senz'altro, invece preferì prima buttar giù da una finestra molto larga tutti gli oggetti che potevamo asportare. Aveva già spacciato con grande zelo tutte le masserizie, e voleva condannare alla stessa fine anche il materasso sul quale dormiva la vecchia; perciò spinge giù dal letto costei, tira via la coperta, deciso a farle fare lo stesso volo, quando quell'infamissima vecchia, abbracciandogli le ginocchia, così lo supplicò:- Te ne prego, o figliolo, perché vuoi regalare questi quattro stracci di una povera vecchia ai ricchi vicini che abitano di fronte alla mia finestra?Alcimo si lasciò abbindolare dallo scaltro discorso, stimando sincere quelle parole. Naturalmente, fu colto dal timore che tutti gli oggetti, quelli buttati giù e quelli ancora da buttare, andassero a finire in casa d'altri, e si

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affacciò alla finestra per ispezionare bene il luogo, tanto più che credeva alle ricchezze dei vicini, secondo le fandonie della vecchia. Mentre, però, cercava con animo coraggioso, ma poco accorto, di esaminare i dintorni, la vecchia gli diede uno spintone, che in sé non era forte, ma improvviso, per cui egli, che penzolava alla finestra per veder meglio, andò giù a capofitto.

Per di più, oltre alla notevole altezza, andò pure a cascare su un lastrone di pietra che stava proprio sotto, e nel volo si spiaccicò la cassa toracica, ragion per cui, vomitando sangue dai polmoni, ebbe appena il tempo di raccontarci l'accaduto e, senza troppo soffrire, tirò le cuoia. E noi, dopo avergli reso onori funebri eguali al primo, lo mandammo a fare buona compagnia a Lamaco".

13. "Sotto il colpo della doppia sciagura, rinunciammo senz'altro alle imprese tebane e ci recammo nella vicina città di Platea.

Qui correva sulla bocca di tutti il nome di un tal Democare che stava allestendo uno spettacolo di gladiatori. Si trattava di un individuo di ottima famiglia, carico di soldi, e d'animo generoso, che era solito organizzare pubblici divertimenti con magnificenza pari alla sua ricchezza.

Non credo che ci sia un uomo fornito in tal modo d'ingegno e d'eloquenza, da poter adeguatamente descrivere una per una le molte attrattive dello spettacolo.

Qua gladiatori famosi per il loro valore, là cacciatori di rinomata abilità, altrove condannati a morte destinati a fornire con le loro carni un ottimo pasto alle belve, poi macchine montate su pali, torri di solido tavolame semoventi in guisa di carrozzoni, recinti per la caccia futura decorati con vivaci pitture. E inoltre, quante fiere e di quante specie! Lui, tanta era la sua passione, aveva inviato a farne incetta anche all'estero, per onorare i condannati a morte con splendidi funerali. Come se poi non bastassero questi preparativi a rendere lo spettacolo meraviglioso, egli, attingendo al suo stesso patrimonio, aveva speso un occhio della testa per procurarsi orse gigantesche, quante più poteva. E, oltre a quelle catturate da lui a caccia, oltre a quelle che aveva acquistato a caro prezzo, provvedeva a mantenere con gran cura molte altre che gli amici gli avevano offerto in dono".

14. "Naturalmente, quello sfoggio di lusso e di splendore, fatto per divertire il popolo, non poteva sfuggire all'occhio geloso dell'Invidia. Infatti, quelle

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belve, snervate dalla lunga prigionìa, estenuate dai calori estivi, rese fiacche dalla mancanza di moto, caddero in breve in preda di un'epidemia che ne ridusse il numero quasi a zero. Qua e là per le molte piazze della città si potevano vedere carcasse di belve dare gli ultimi tratti.

Su quella pacchia di vivande, sparse un po' dappertutto, si buttava la plebaglia che versa in miseria nera ed è costretta dalla fame rabbiosa a divorare cibi ignobili e che non costano niente, senza guardar troppo per il sottile.

Allora io ed Eubulo qui presente, profittando dell'occasione, immaginiamo questo ingegnosissimo stratagemma: trasportiamo alla sede della banda una fiera che sopravanzava ogni altra per la sua mole, fingendo di volerne far bistecche; qui la scuoiamo bene, fatta eccezione per gli unghioni che lasciammo intatti e per il muso sino all'attaccatura del collo, poi ne stacchiamo con diligenza la pelle del dorso e, dopo averla cosparsa di cenere finissima, la stendiamo ad essiccare al sole.

Mentre l'ardore del sole l'asciuga, noi ci riempiamo bravamente la pancia di carne e stringiamo questo patto per l'impresa imminente, che cioè uno di noi, non il più forte ma il più animoso, e che di più si offrisse volontariamente al rischio, rivestendosi della pelle, assumesse le sembianze dell'orsa; una volta entrato nel palazzo di Democare, approfittando della quiete notturna, avrebbe potuto senza difficoltà aprirci la porta".

15. "L'ingegnosità del piano aveva invogliato non pochi della nostra coraggiosa società ad assumersi il rischio dell'impresa, ma fra tutti, per unanime consenso, fu scelto Trasileone, il quale s'impegnò a correre l'alea del rischioso stratagemma. Subito con volto sereno si coprì con la pelle, che per la sua morbidezza gli si adattava perfettamente.

Allora con un sottile rammendo cuciamo insieme gli orli, imprimiamo ai ciuffi di peli intorno alla spaccatura una piega tale da nascondere la cucitura, sebbene fosse di per sé poco visibile, e facciamo scendere la pelle in modo che la testa di Trasileone affiori all'estremità della gola, là dov'era stato reciso il muso della fiera; poi, praticati certi piccoli fori all'altezza del naso e degli occhi, perché egli potesse respirare e vedere, chiudiamo il nostro valoroso compagno, ormai trasformato in bestia feroce, in una gabbia di poco prezzo, in cui egli si introdusse con piglio deciso e con bella agilità.

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Dato un così bell'inizio all'impresa, attendiamo di portare a compimento l'astuto piano".

16. "Venuti a sapere dell'esistenza di un tal Nicanore, tracio di nascita, grandissimo amico di Democare, scriviamo una falsa lettera da cui appare che quell'amico sincero gli inviava le primizie della sua caccia per maggior ornamento dello spettacolo.

A sera inoltrata, col favore dell'oscurità, rechiamo a Democare la gabbia di Trasileone, insieme con la falsa lettera; egli non solo si stupì per l'enormità della belva, ma anche per la generosità così tempestiva del suo amico, e seduta stante diede ordine che a noi venissero contate dai suoi forzieri dieci monete d'oro, poiché credeva che noi gli avessimo portato un motivo di gioia.

Com'è vero che per ogni novità la gente corre subito a vedere, una gran folla accorse allora a contemplare la belva; ma il nostro Trasileone, con molta furbizia, spesso lanciandosi avanti in atto di minaccia, teneva a debita distanza lo sguardo dei curiosi; unanime era poi il consenso dei cittadini nel celebrare Democare come un uomo fortunatissimo, perché, dicevano, egli, dopo la perdita di tante belve, poteva comunque supplire con il nuovo arrivo ai rovesci della sorte. Intanto lui ordina che subito la fiera venga trasportata con ogni attenzione nel suo allevamento; ma io gli obiettai:"

17. "- Bada bene, o signore, di non unire questa bestia che è affranta per il lungo viaggio e per il caldo estivo, alla turba delle altre che, a quanto sento dire, non godono di perfetta salute. Perché invece non scegli un luogo nel tuo palazzo che sia spazioso e aerato, anzi vicino a una vasca che dia refrigerio?Forse tu non sai che questa specie di animali è solita avere il suo covo nel fitto dei boschi e in umide grotte o vicino a fresche sorgenti?Democare rimase così impressionato dai miei avvertimenti, che, ripensando alla perdita subita, non ebbe difficoltà a credere alle mie parole e acconsentì senz'altro a che noi ponessimo la gabbia dove meglio ci pareva.

- Noi, - ripresi io - siamo anche disposti a passare questa notte qui, presso questa gabbia, e ci offriamo di somministrare con ogni cura e all'ora esatta il cibo e la solita quantità d'acqua alla belva che è spossata per il gran caldo e gli strapazzi del viaggio.

- Non c'è proprio bisogno che vi incomodiate - ci rispose. - Ormai tutta la

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servitù, eccetto pochi, sa bene, per lunga abitudine, come ci si deve regolare nel dar da mangiare agli orsi".

18. "Augurandogli quindi la buona notte, ce ne andammo e, usciti per la porta comunale, scopriamo un sepolcreto situato lontano dalla strada in una località fuori mano.

Qui apriamo certe bare rose dai vermi e dal tempo, dove avevano dimora dei morti ormai polvere e cenere, e le destiniamo a essere nascondiglio del futuro bottino. Fedeli alle regole della nostra società, aspettammo un momento della notte in cui la luna era venuta a mancare: era l'ora in cui i cuori degli uomini giacciono sommersi sotto il peso irresistibile del primo sonno, e ne approfittammo per schierare la nostra coorte armata di spade proprio davanti all'ingresso di Democare, quasi a garanzia dell'impresa ladresca.

Dal suo canto e contemporaneamente, Trasileone, colto quel momento della notte più propizio, striscia fuori dalla gabbia, subito uccide a uno a uno i custodi che dormivano saporitamente, poi ammazza pure il portinaio e, cavategli le chiavi, apre il portone.

Entriamo di volata, e siamo da lui guidati per l'interno del palazzo fino al granaio, dove la sera prima aveva, con occhio sagace, visto riporre una gran quantità di denari.

Immediatamente scardiniamo la porta a forza di braccia; ordino poi ai compagni di caricarsi ognuno del maggior peso possibile in oro e in argento e di andare in fretta a nasconderlo nella dimora di quei defunti, che certamente avrebbero saputo mantenere il segreto, e di tornare subito dopo di corsa a raddoppiare il carico; intanto, nell'interesse di tutti, io sarei rimasto sulla soglia del palazzo a sorvegliare il corso degli eventi sino al loro ritorno. Vedere poi un'orsa passeggiare per le stanze e i corridoi, mi sembrava uno spettacolo quanto mai adatto per mettere in fuga quelli della servitù, se a qualcuno fosse venuta l'idea di alzarsi.

Chi infatti, pur coraggioso e intrepido, dopo essersi imbattuto in un bestione di quella mole e per di più di notte, non sarebbe fuggito a precipizio per chiudersi tutto tremante nella sua stanzetta con tanto di catenaccio?"

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19. "Purtroppo, un disgraziato incidente mandò a monte tutti questi piani ingegnosamente architettati. Mentre con ansia aspettavo il ritorno dei compagni, un servitorello, svegliatosi, si capisce, per i rumori sospetti o per ispirazione del cielo, scivola dolcemente fuori dalla stanza e scorge la belva che gironzolava tranquillamente qua e là per il palazzo; allora, trattenendo persino il fiato, rifà all'indietro il cammino e corre a riferire a tutti ciò che ha visto. Immediatamente tutto il palazzo si riempie di una folla di servi, che con fiaccole, lucerne, ceri, candele e ogni altro arnese buono a far luce, rischiarano l'oscurità.

Per di più, nessuno in tanta turba era senza armi, ma tutti, chi con un bastone, chi con una lancia. e molti anche con le spade nude, si mettono a sbarrare l'ingresso e, non contenti, aizzano addosso alla fiera quei rinomati cani da caccia con le orecchie a punta e il pelo dritto".

20. "Intanto io, indietreggiando da in mezzo al tumulto che cresceva sempre più, me ne esco dal palazzo, e, standomene nascosto dietro la porta, scorgo Trasileone che senza perdersi d'animo, si difendeva egregiamente dai cani.

Per quanto dovesse ormai sentirsi vicino alla morte, pure egli non era dimentico del suo e del nostro antico valore, ma continuava a lottare per sfuggire alla gola bramosa di Cerbero. Continuava a recitare a prezzo della vita la parte che si era accollata, e, variamente atteggiandosi nella sua mole ora in atto di fuga, ora di minaccia, riuscì alla fine ad aprirsi un varco. Ma anche se ormai era all'aperto, non poté lo stesso portarsi in salvo, perché tutti i cani dei vicoli adiacenti, che erano anche loro non pochi e abbastanza feroci, si uniscono in schiera a quelli da caccia che, sbucati fuori dal palazzo, correvano ai fianchi di Trasileone. Mi toccò allora assistere a uno spettacolo veramente doloroso: il nostro Trasileone, assediato tutto intorno dalla muta rabbiosa, esser dilaniato dai cani. Non potei più reggere a tanto strazio; mi confondo con la plebaglia che da ogni parte l'incalzava, e, per portare al mio valoroso collega quel po' d'aiuto che potevo senza dar troppo nell'occhio, cercavo di dissuadere i caporioni della caccia dall'ucciderlo, dicendo:- E' un vero delitto! Sarebbe il colmo, mandare in malora una belva che non ha prezzo che valga!".

21. "Ma a nulla poté giovare l'arte della mia parola allo sventuratissimo giovane, perché un tale alto e robusto, uscendo di corsa dal portone, trapassò con un violento colpo di lancia il petto dell'orsa; appresso, un secondo e poi molti altri a gara, svanita ora ogni paura, gli si fanno addosso con le spade.

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Tuttavia Trasileone, illustre vanto della nostra associazione, anche se stava già per esalare quella sua anima degna dell'immortalità, non aveva perso la sua intrepidezza e non tradì il giuramento con grida o gemiti di dolore, ma, ormai dilaniato a morsi e macellato dalle lame, crollò con un lungo mugghio e un urlo belluino. Così, col soffrire impavidamente la sventura toccatagli, per sé acquistò gloria e al Fato rese la vita. Eppure, tanto era lo spavento che aveva destato nei suoi persecutori, che sino all'alba, anzi ancora in pieno giorno, nessuno osava toccare, neppure con un dito, il cadavere disteso a terra; finalmente un macellaio, un po' più coraggioso degli altri, si arrischiò, non senza una certa cautela, a tagliare il ventre della bestia, e scoprì il valoroso ladrone.

Così morì Trasileone, ed è mancato a noi, ma non alla gloria.

In quanto a noi, subito, ridotte a bagaglio quelle prede che i nostri cari defunti ci avevano fedelmente custodito, sgombrammo in tutta fretta la località di Platea, e in cuor nostro pensavamo spesso che della fede sulla terra si era persa davvero la traccia, poiché era andata ad abitare tra le ombre dei morti, disgustata dalla perfidia degli uomini.

Così ci siamo rotti la schiena sotto il peso dei bagagli, e stanchi per l'asprezza del cammino, addolorati per la perdita di tre compagni, abbiamo portato il bottino che qui vedete".

22. Così finì il racconto delle avventure, e in calici d'oro i ladroni libarono con vino schietto alla memoria dei commilitoni caduti; poi, onorato il dio Marte con certe loro canzonacce, si gettarono su dei giacigli per un breve riposo. A noi la vecchia anzidetta donò senza risparmio orzo fresco in quantità tale, che il mio cavallo, trovandosi davanti a tanto ben di dio, e per di più da solo, credeva di stare a banchetto coi sacerdoti Salii. Ma io che prima avevo sempre disprezzato l'orzo, salvo che non fosse finemente tritato e cotto con sughi a fuoco lento, avendo adocchiato in un angolo il mucchio dei pani avanzati alla famelica turba dei banchettanti, mi diedi a lavorare energicamente con le mascelle che erano piene di ragnatele e mi dolevano per la fame arretrata.

Era già notte fonda, quando i briganti, data la sveglia, muovono il campo, e in varie fogge, chi armato di spada e chi vestito dell'abito dei trapassati, a passo rapido escono fuori dell'antro.

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Quanto a me, continuai a mangiare di buona lena, e neppure il sonno, e sì che ne avevo! poté distogliermi dalla bisogna. Per l'innanzi, quando ero Lucio, mi toglievo da tavola quando ero sazio di un pane o due al più, ma ora, dovendo accontentare una pancia tanto capace, avevo già quasi finito di ruminare i pani del terzo canestro. Cosi l'alba mi sorprese mentre ero ancora intento in quest'opera.

23. Alla fine la vergogna, quale può averla un asino, mi vinse, e, seppure a malincuore, mi allontanai per calmare la sete al più vicino ruscello. Non passa tempo, che i briganti, oltremodo affamati e preoccupati, fanno ritorno. Non riportavano nulla, neppure il più misero straccio, ma, come unica preda, con le spade tutte sguainate circondavano e spingevano tutti a forza di braccia, anzi impiegando in siepe compatta tutto il loro vigore, una ragazza che piangeva e si strappava le vesti.

Era questa una giovane di nobile aspetto e, a quanto lasciavano supporre le sue maniere da gran signora, appartenente a illustre famiglia del luogo, una ragazza, perbacco, molto piacente anche per un asino come me. La portano dunque nella caverna e, cercando di mitigare le cause del suo dolore, le parlano così:"Non aver paura per la tua vita e il tuo onore! Abbi un po' di pazienza e dacci modo di guadagnare qualcosa. E' la dura povertà che cl costringe a questo mestiere. Del resto, i tuoi genitori hanno soldi a palate e anche se sono un po' stretti di manica, ci offriranno senz'altro una ricompensa adeguata, per riscattare il loro sangue".

24. Con queste e altre chiacchiere del genere, invano tentavano di calmare l'addolorata fanciulla. E come fare se lei, la testa tra le ginocchia, piangeva come una vite tagliata! I ladroni, allora, chiamano dentro la vecchia e le ordinano di sedersi vicino alla ragazza e di consolarla con le parole più dolci che sapeva, poi se ne tornano alle consuete occupazioni. Neppure la vecchia, però, per quanto dicesse, riuscì a farle smettere il pianto. Anzi, la vista di quella giovane che gemeva ancor più forte e singhiozzava ininterrottamente, sino a rompersi il petto, strappò le lacrime anche a me.

"Non sono una disgraziata, io?" diceva. "Abitavo una casa così bella, con una folla di servi e di domestici così affezionati, avevo dei genitori così virtuosi! Ora, spogliata di tutto, sono rimasta vittima di un'indegna rapina, sono diventata una merce da vendere! Mi hanno rinchiusa in questa prigione di macigno, in questo antro di tortura e di morte! Non ho più tutte quelle raffinatezze in cui nacqui e fui allevata! La mia vita è in pericolo, tanti e

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tali sono i briganti che compongono questa orrenda turba di assassini; e come posso io trattenere il pianto o solamente continuare a vivere?".

Così si lamentava la giovane, e, affranta dal dolore, la gola soffocata dal pianto, era ormai allo stremo delle sue forze, quando reclinò gli occhi illanguiditi nel sonno.

25. Ma aveva appena chiuso le palpebre, che d'un tratto si risvegliò come in preda al delirio, e cominciò ad agitarsi con più violenza, a rivolgere le mani contro se stessa, a percuotersi il seno; e persino al suo bel volto non risparmiò i colpi. La vecchia le domandava con insistenza perché si lasciasse nuovamente riprendere dalla disperazione; e lei, tra profondi sospiri, esclamò:"Ahimè! Ora non c'è più dubbio! Ora sono proprio rovinata! Ora ho perso ogni speranza di salvezza. Non mi resta davvero altra scelta che impiccarmi, o trafiggermi, o andarmi almeno a gettare in un burrone".

A queste parole la vecchia si arrabbiò sul serio. Con volto minaccioso le ordina, perbacco, di spiegare il motivo delle sue lacrime e perché, dopo essersi abbandonata al sonno, di nuovo ricominciava i suoi piagnistei.

"Evidentemente", esclamò, "tu vuoi privare i miei uomini della forte somma dovuta per il tuo riscatto! Ma se non la smetti, ti prometto di farti bruciare viva. Me ne infischio delle tue lacrime, e in quanto ai banditi, essi per abitudine non danno retta ai pianti!".

26. La fanciulla rimase atterrita da questa minaccia, e baciando le mani della vecchia implorò:"Abbi pietà, madre mia! Tu non puoi aver dimenticato l'umana misericordia. Considera con un po' di benevolenza la mia infelicissima sorte, e, poiché non credo che la pietà sia del tutto scomparsa sotto questa santa canizie, anche se non sei poi tanto avanti con gli anni, ti prego di porre mente allo spettacolo della mia sventura. Avevo un bel giovane, il primo tra i suoi coetanei, che i cittadini unanimi avevano adottato col titolo di figlio della città. Questi, che tra l'altro era un mio cugino, appena tre anni più vecchio di me, era stato allevato e cresciuto insieme con me sin dall'infanzia; era il mio inseparabile compagno nella mia dolce casa, anzi giocava nella mia stanza e dormiva nel mio letto. Si era impegnato con me, grazie al reciproco vincolo di un puro amore, aveva già da tempo scambiato la promessa solenne in vista del matrimonio, e col consenso dei miei genitori aveva ufficialmente assunto il titolo di marito. Il giorno delle nozze, egli con un folto corteo di parenti e consanguinei immolava

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vittime nei templi e nei pubblici edifici, e tutta quanta la casa, piena di rami d'alloro e lucente di fiaccole, risuonava dei canti di Imene. In quel momento, la mia povera madre mi aveva nel suo seno e mi adornava con le vesti da sposa, e, dandomi dolci baci in gran numero, già nelle sue trepide preghiere pregustava la speranza di una futura prole, quando improvvisamente irrompono degli uomini armati con quell'impeto furibondo che è proprio dei soldati in guerra, rivolgendo contro di noi le nude e lucenti lame dei pugnali; è vero che essi non commettono né stragi né furti, ma senza indugio, in squadra densa e serrata, penetrano nella nostra stanza. Nessuno dei nostri familiari osò opporsi o fare un qualsiasi gesto di resistenza, sicché fui rapita dal grembo di mia madre, semisvenuta e tremante, tra lo spavento della mia infelicità e l'orrore della paura. Così la cerimonia nuziale fu interrotta e sconvolta come quella di Attide e Protesilao".

27. "Ma ecco che poco fa un sogno pauroso ha rinnovato in me, anzi colmato, la misura della mia disgrazia: mi è parso infatti di essere stata strappata con violenza dalla mia casa, dal mio appartamento, dalla mia stanza, dal mio stesso letto. E mentre ero trascinata per luoghi deserti e remoti, mi pareva d'invocare il nome del mio sposo, e lui, appena reso vedovo dal mio amplesso, ancor umido di profumati unguenti, il capo coronato di fiori, mi correva dietro. Ma io fuggivo costretta dal piede altrui, e, poiché egli gridava e, lamentandosi che gli era stata rapita la bella sposa, chiamava il popolo in suo aiuto, uno dei banditi, seccato dal fastidioso inseguimento, raccolse ai suoi piedi un grosso sasso e con quello percosse mortalmente il mio infelice marito. Tale fu lo spavento della visione, che io tremante mi svegliai da quel sonno funesto".

Allora la vecchia, che accompagnava con i suoi sospiri i pianti della fanciulla, replicò:"Sta' di buon animo, padroncina, e non lasciarti impaurire dai sogni e dalle loro vane fantasticherie. Poiché, oltre al fatto che il riposo diurno produce false immaginazioni, persino quei sogni che si hanno la notte preannunciano talora avvenimenti di tutt'altra natura. Per concludere, i pianti, le percosse, e talvolta una morte violenta, sono segni premonitori di guadagno e di prosperi eventi; al contrario, il riso, il riempirsi il ventre di pasticcini al miele, e l'abbandonarsi in compagnia ai piaceri di Venere, lasciano prevedere nel futuro patemi d'animo, infermità fisiche e tanti altri fastidi. Ma io cercherò di distrarti con qualche piacevole racconto e con qualche favola di quelle che sanno le vecchie".

E così inizia a raccontare.

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28. "C'erano in una città un re e una regina che avevano tre belle figlie. Le due maggiori erano certamente attraenti, ma sempre tali che la loro avvenenza poteva essere verosimilmente celebrata con lodi adeguate al vocabolario umano; invece la bellezza della più giovane era così originale, così straordinaria, che la lingua umana non avrebbe potuto trovare parole per esprimerla, nonché lodarla a sufficienza.

Insomma, numerosi cittadini e forestieri, alla fama dell'eccezionale spettacolo, accorrevano in folla con grande curiosità, e stupefatti stavano in ammirazione di quell'inaccessibile bellezza; portando la destra alle loro labbra e unendo l'indice al pollice, adoravano religiosamente la giovane, come se fosse la dea Venere in persona. E già nelle vicine città e nelle regioni confinanti s'era sparsa la voce che la dea, nata nel ceruleo abisso del mare e allevata tra la rugiada delle onde spumose, si compiacesse di mostrare dappertutto la sua divina persona e si mescolasse alla turba dei comuni mortali: persino si vociferava che per un mai visto prodigio di fecondazione dell'umidità celeste, non il mare questa volta, ma la terra avesse dato alla luce una seconda Venere ricca del fiore della verginità".

29. "Così ogni giorno di più questa credenza progredisce a dismisura, così la fama si diffonde già nelle isole vicine e, addentrandosi sempre più nel continente, passa da una provincia all'altra. Già la gente a frotte, varcando lunghe distanze e profondissime distese marine, accorreva per vedere il famoso prodigio del secolo: nessuno più si recava a contemplare la dea Venere né a Pafo né a Cnido e neppure nella stessa Citera; si rimandano i sacrifici, i templi non vengono più adornati, i sacri letti sono calpestati, trascurate le sacre cerimonie; ghirlande di fiori non ornano più le statue, e una fredda cenere deturpa le are abbandonate. Si elevano suppliche alla giovane donna, ci si rivolge a umane fattezze per placare il nume di una dea tanto possente; quando il mattino la vergine esce a passeggio, si invoca il nome dell'assente Venere con sacrifici di vittime e con sacri banchetti, e di già, quando lei passa per le piazze, il popolo in folla la invoca e le offre fiori sciolti e ghirlande.

Questo fatto di trasferire senza misura onori dovuti ai celesti al culto di una donna mortale esacerbò l'animo della vera Venere, tanto che non poté più contenere il suo sdegno, ma, scuotendo il capo e fremendo nell'intimo del suo cuore, si disse:"

30. "- Ecco, io, l'antica genitrice dell'universo, io, causa prima degli elementi, io, Venere, nutrice del mondo intero, sono ridotta a dividere l'onore dovuto alla mia maestà con una fanciulla mortale! Il mio nome, che è scritto nel

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cielo, è contaminato da terrene sozzure. Non c'è dubbio! Dovrò spartire con altri gli onori resi al mio nome e vivere nell'incertezza che mi si renda un'adorazione in sottordine. Una fanciulla mortale porterà in giro sulla terra la mia immagine. Invano quel famoso pastore di cui il grande Giove riconobbe l'imparziale giustizia diede a me la palma sulle dee più illustri, grazie alla mia eccezionale bellezza. Ma costei non ne godrà a lungo! Chiunque lei sia, ha usurpato un omaggio che è dovuto a me sola, e subito io farò in modo che si penta della sua stessa bellezza, poiché oltrepassa l'umana misura.

Chiama subito quel suo figliolo alato e non poco audace, che è maestro di cattivi costumi e ha in spregio la pubblica moralità.

Egli, armato di saette infuocate, di notte va correndo per le dimore altrui e, seminando zizzania tra gli sposi, causa impunemente gravissimi scandali e insomma non fa mai niente di buono. Costui di per sé non conosce limiti alla sua sfacciataggine, ma lei lo infiamma maggiormente con i suoi discorsi, lo conduce in quella città e qui gli fa vedere di persona Psiche (così si chiamava infatti la fanciulla)".

31. "Gemendo e fremendo di sdegno, gli racconta poi tutta la storia della concorrenza che le si muove in fatto di bellezza.

- Ti scongiuro, - gli dice "per il legame dell'affetto materno, per le dolci ferite prodotte dalle tue saette, per i graditi ardori che suscita questo tuo fuoco, offri a tua madre il piacere di una vendetta completa e punisci severamente questa arrogante bellezza. Io non chiedo altro, e tu dammi questa sola soddisfazione: possa questa vergine bruciare d'amore appassionato per un uomo di vilissima condizione che la Fortuna abbia colpito nel grado sociale, nei beni e nella persona stessa, per un uomo ridotto così in basso, che in tutta la terra non si trovi uno più disgraziato di lui.

Così parlò la dea, e dolcemente, con le labbra semiaperte, impresse al figlio un lungo bacio. Si dirige poi verso la spiaggia più vicina, sulla riva, là dove muore l'onda, e, calcando con le rosee piante l'umida cresta dei flutti palpitanti, si adagia infine sulla serena superficie del mare profondo. Anche l'omaggio delle divinità marine non tardò, appena ne ebbe il desiderio, ma subito si effettuò, quasi che da tempo lei avesse dato l'ordine:accorrono le figlie di Nereo, che cantano in coro, Portuno con la sua barba verdastra e ispida, Salacia il seno colmo di pesci, Palemone, il piccolo auriga che guida un delfino; qua e là nel mare scorrazzano a schiere i Tritoni, e uno

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suona leggiadramente la tromba con la sua conchiglia sonora, un altro tende contro ai raggi fastidiosi del sole un velo di seta, un terzo pone sotto gli occhi della padrona uno specchio, e altri ancora in coppie trascinano a nuoto il cocchio della dea.

Tale è il seguito che fa corteo a Venere nel suo viaggio verso l'Oceano".

32. "Intanto Psiche, con tutta la sua straordinaria bellezza, non ricava alcun frutto dalla sua avvenenza. Tutti la guardano, tutti la lodano, ma nessuno, o re o di stirpe reale o anche plebeo, si presenta desideroso di chiederla in sposa. Ammirano, è vero, il suo aspetto divino, ma l'ammirano tutti come una statua lavorata con arte. Da molto tempo le due sorelle maggiori, che la pubblica fama, poiché possedevano una bellezza normale, aveva passato sotto silenzio, erano state promesse a pretendenti reali e avevano fatto dei matrimoni brillanti. Psiche invece, vergine senza innamorati, rimaneva in casa a piangere sul proprio abbandono e, dolorante nel corpo e nell'animo, odiava in sé quella bellezza che pur la rendeva oggetto di piacere a tutte le genti.

Così, il tristissimo padre di un'infelicissima figlia comincia a sospettare che i celesti l'abbiano in odio; temendo l'ira degli dèi, interroga l'antichissimo oracolo del dio di Mileto, e con preghiere e sacrifici chiede al possente nume di concedere alla vergine da tutti trascurata un marito che la sposi. Ma Apollo, benché Greco della Ionia, avendo riguardo per l'autore del romanzo milesio, diede il suo vaticinio in lingua latina:"

33. "'Sull'alto picco d'un monte, esponi, o re, la ragazza, come si addice, abbigliata a nozze che danno la morte.

E non sperare in un genero nato da stirpe mortale, ma attendi un mostro crudele, feroce e con volto di serpe, il quale, volando per l'etra, ogni animale molesta e impiaga col ferro e col fuoco ogni creatura vivente.

Sin Giove lo teme, che pure ispira terrore agli dèi e i fiumi l'hanno in orrore e i regni oscuri d'Averno'.

Il re, che una volta era felice, avuto il responso del santo vaticinio, se ne ritornò a casa malinconico e triste e riferì alla moglie le malaugurate prescrizioni dell'oracolo. Per parecchi giorni tutti furono tristi, piansero e

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si lamentarono.

Ma era ormai tempo di eseguire la crudele predizione. Già si mette mano ai preparativi per le ferali nozze dell'infelicissima vergine, già la fiamma delle fiaccole nuziali è soffocata dalla cenere e dalla nera fuliggine, il suono del flauto nuziale assume i flebili toni del modo lidio, il canto lieto dell'Imeneo si chiude con un lugubre lamento, e la fanciulla, prossima a nozze, si asciuga le lacrime con lo stesso velo rosso da sposa. Anche la città tutta quanta piangeva sul triste destino di una famiglia così travagliata, e senza indugio, in segno di pubblico lutto, viene proclamata la cessazione di ogni attività per un periodo adeguato".

34. "Ma la necessità di obbedire agli ammonimenti celesti richiedeva che quella poverina di Psiche subisse la pena destinata. Vennero dunque compiuti con profonda tristezza i solenni preparativi del funebre matrimonio, e Psiche piangente è scortata non alle nozze, ma alle proprie esequie. E mentre i genitori mesti e atterriti da tanta sciagura esitano a portare a termine l'esecranda funzione, la figlia stessa fa loro coraggio in questo modo:- Perché volete tormentare con eterni pianti la vostra vecchiaia infelice? Perché volete effondere in ripetute grida di dolore quel respiro che appartiene a me più che a voi? Perché bruttate di lacrime vane quel volto che io tanto adoro? Perché straziate il mio sguardo con la disperazione che leggo nei vostri occhi? Perché vi strappate i bianchi capelli? Perché vi percuotete il petto e quel seno che mi è sacro? Questo sarà per voi il bel premio della mia straordinaria bellezza; tardi vi accorgete della piaga mortale che vi ha inferto un odio implacabile. Quando le genti e i popoli mi rendevano onori divini, quando con universale consenso mi davano il titolo di novella Venere, allora avreste dovuto dolervi, allora versare pianti, allora, sì, prendere il lutto, come se fossi estinta. Ora mi accorgo, ora vedo che causa della mia rovina è il solo nome di Venere. Portatemi via e lasciatemi su quella roccia cui il destino mi ha condannata: ho fretta di affrontare queste felici nozze, ho fretta di conoscere quel mio nobile marito. Perché dovrei indugiare, perché dovrei rifiutare d'incontrarmi con quello che è nato per la rovina dell'universo intero?".

35. "Così parlò la vergine, poi tacque e con passo fermo si mescolò alla processione del popolo che l'accompagnava in corteo.

Si avviano alla roccia a lei destinata, su una montagna scoscesa, e qui, sulla vetta più alta, tutti abbandonano la giovane; qui lasciano le fiaccole nuziali che avevano rischiarato la strada, dopo averle spente con le loro lacrime, e a

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capo chino prendono la via del ritorno. In quanto ai suoi miseri genitori, essi, stremati da una così grave sciagura, sbarrano la loro casa, si chiudono nelle stanze più oscure e si condannano a non veder più la luce del giorno.

Intanto Psiche tremava di spavento e piangeva sulla cima della rupe. Ma lo Zefiro, che spirava dolcemente con la sua brezza, agitandole con un continuo palpito le vesti e gonfiandole il grembo, insensibilmente la solleva, e con il suo dolce soffio, a poco a poco, la porta giù per il pendio roccioso sino a una valle sottostante tutta fiorita, dove lievemente la depone a giacere supina nel seno delle zolle erbose".

LIBRO 5

"Psiche riposò nel soffice prato, mollemente sdraiata nell'erba rugiadosa proprio come su di un letto, e calmò il grave affanno che le opprimeva la mente. Dormì quel tanto che bastò a ristorarla, e, quando si svegliò, aveva l'animo sereno.

Vede un bosco fitto di alberi alti e forti, vede una sorgente dalle acque limpide come il cristallo; e proprio nel mezzo del bosco, là dove sgorga la fonte, c'è un palazzo d'aspetto regale, costruito dall'arte di un dio, non dalla mano dell'uomo.

Si è appena sulla soglia, e già si capisce che si tratta della fastosa e amabile residenza d'una divinità: colonne d'oro sostengono il soffitto a cassettoni intagliati con ricercatezza nel cedro e nell'avorio. Chi entrasse vedrebbe, poi, drizzarsi davanti a sé belve e altri animali del genere, che, cesellati in lamine d'argento, ricoprono tutte le pareti. Dev'essere di certo un uomo raffinatissimo, o piuttosto un semidio o un dio, quello che, con vera finezza d'artista, ha infuso la vita selvaggia delle fiere in una così gran copia d'argento. Fatto sta che persino i pavimenti con i loro mosaici di pietre preziose, tagliate fini, offrono una grande varietà di pittoriche composizioni. Davvero beati due e tre volte, quelli che camminano sopra le gemme e le perle! Le altre parti del palazzo, sin dove esso si estende in larghezza e in lunghezza, rivelano anch'esse una magnificenza che non ha prezzo, e le pareti, interamente rivestite da blocchi d'oro massiccio, rifulgono d'uno splendore che

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muove da loro stesse, di modo che il palazzo potrebbe fruire d'una sua propria luce, anche se il sole rifiutasse la sua: tale è lo splendore delle sale, dei portici e degli stessi battenti.

Per il resto, l'arredamento corrisponde esattamente alla magnificenza della costruzione, tanto che si potrebbe giustamente pensare che il grande Giove abbia fabbricato questo divino edificio per sua dimora tra gli uomini".

2. "Così grande è l'incanto di quei luoghi, che Psiche è indotta ad avvicinarsi e, rassicurata, a varcarne la soglia; allettata, poi, dalla curiosità di vedere il bellissimo palazzo, ne visita minutamente l'interno e in un'altra sua ala scorge le grandiose costruzioni dei magazzini zeppi di ricchi tesori. Tutto ciò che esiste al mondo di bello, è lì presente. Ma, dopo l'ammirazione suscitata da queste immense ricchezze, causa di ancor maggior stupore era il fatto che quella raccolta dei tesori del mondo intero non era difeso né da catene né da porte né da custodi. E mentre lei, estatica, contemplava queste meraviglie, le giunge una voce senza corpo, che le dice:- Perché, o signora, ti meravigli di tanta opulenza? Tue sono tutte queste ricchezze. Entra pure in una stanza, riposati sul letto e fai il bagno, quando ti piacerà. Le voci che odi sono quelle delle tue ancelle: noi ti serviremo con diligenza, e quando avrai finito di prenderti cura della tua persona troverai pronto un banchetto degno di un re".

3. "Allora Psiche capì che questa felicità era un dono della divina provvidenza. Obbedendo al consiglio di quella voce senza corpo, prima col sonno, poi con un buon bagno, dissolse la stanchezza. Si scoprì accanto, in seguito, una tavola semicircolare e, giudicando, poiché essa era apparecchiata per il pranzo, che le fosse stata preparata lì per il suo ristoro, ci si sedette con piacere. Immediatamente compaiono vini dolci come il nettare e piatti abbondanti di cibi svariati; e non c'era nessuno che servisse, ma le portate erano spinte e portate in tavola solo per forza d'un soffio. Né Psiche riusciva a scorgere qualcuno, ma solo udiva parole uscire dal vuoto: al suo servizio aveva solo delle voci.

Quando ebbe consumato l'abbondante imbandigione, entrò qualcuno che, senza esser visto, cantò una canzone. Similmente, un altro suonò la cetra, e neppure lo strumento Psiche poté vedere. Giunse infine alle sue orecchie un armonioso concerto di più voci, e, anche se nessuno appariva, era nondimeno chiaro che si trattava di persone che cantavano in coro".

4. "Gli svaghi erano finiti e, poiché la sera invitava al sonno, Psiche si

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ritirò per dormire. A un tratto, nel cuore della notte, la giovane percepisce un fruscìo. Sola com'è, teme per la sua verginità e trema per lo spavento, poiché l'ignoto le fa paura più che ogni altro male.

Ma già era lì davanti a lei il marito sconosciuto. Egli sale sul letto, fa di Psiche la sua sposa, e, prima dell'alba, in fretta se ne va. Subito delle voci che attendevano sulla soglia si prendono cura della novella sposa e medicano la ferita inferta alla sua verginità.

Le cose si svolsero per un bel pezzo a questo modo, e, com'è legge di natura, l'abitudine faceva meglio apprezzare a Psiche il piacere della novità, mentre il suono delle voci sconosciute le era di conforto nella solitudine.

Intanto i suoi genitori invecchiavano tristemente fra continui pianti. Le sorelle maggiori, alle quali la fama, diffondendosi da un paese all'altro, aveva riportato l'accaduto, in tutta fretta, ognuna per dimostrare il proprio zelo, tristi e atteggiate a lutto, avevano lasciato le loro case e si erano recate dai genitori per consolarli con la loro presenza e la loro voce".

5. "Una notte così disse lo sposo alla sua Psiche (e infatti se si eccettua la vista, la sua presenza riusciva più di ogni altra cosa evidentissima al tatto e all'udito):- Psiche, dolcissima e cara sposa, il destino troppo crudele ti minaccia con un funesto pericolo, e io penso che sarebbe bene osservare maggior prudenza. Le tue sorelle, commosse dalla falsa notizia della tua morte, cercano le tue tracce, e in breve verranno alla rupe che tu conosci. Se per caso tu dovessi udire i loro lamenti, non rispondere, non cercare, anzi, neppure di vederle. In caso contrario, procurerai a me un grandissimo dolore e a te la più grande delle sventure.

Psiche assentì e promise di ubbidire al desiderio del marito. Ma quando la notte e lo sposo scomparvero assieme, la poverina non fece che piangere e lamentarsi l'intera giornata. Ripeteva che proprio in quel momento essa capiva d'esser scomparsa dal mondo dei viventi, poiché era rinchiusa in una dorata prigione, le era vietato di rivolgere parola a persona umana, e non poteva neppure recar conforto alle sorelle che la piangevano, non solo, ma neanche vederle. Così, senza prendere né bagno né cibo, senza concedersi assolutamente alcun ristoro, tra lacrime e pianti andò a dormire".

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6. "Non passa tempo che lo sposo, un po' più presto del solito, le si stende vicino, sul letto, l'abbraccia ancora in lacrime e le domanda:- Era questa la promessa che mi facesti, Psiche mia? Io, che sono tuo marito, che mai debbo aspettarmi e sperare da te? Giorno e notte, e neppure quando ti abbraccia il tuo sposo smetterai d'angustiarti? Suvvia! Fai fin da ora come desideri e, se vuoi il tuo male, dai pur retta al tuo animo. Io parlo seriamente e tu ti ricorderai del mio avvertimento; ma quando comincerai a pentirti, sarà troppo tardi.

Allora Psiche, pregando e minacciando di voler morire, strappa al marito il consenso a che veda le sorelle, le consoli e gli parli.

Così lui finisce per cedere alla preghiera della novella sposa, e le concede per giunta che regali alle sorelle tutto l'oro e le collane che vuole. Nello stesso tempo, più volte le ripete, però, questo ammonimento, sin quasi a spaventarla:- Non ti lasciar persuadere a tuo danno dalle tue sorelle a cercar di sapere com'è fatto tuo marito! Sarebbe un'empia curiosità, questa! Precipiteresti dall'altezza in cui ti ha posto la fortuna nella più nera afflizione, e saresti privata per sempre dei miei abbracci.

Psiche ringraziò lo sposo, e ormai rasserenata gli disse:- Vorrei piuttosto morire cento volte, che essere privata del tuo dolcissimo amore. Chiunque tu sia, io ti amo perdutamente e ti ho più caro della mia vita, e non vorrei fare il cambio neppure con Amore in persona. Ma soddisfa, ti prego, anche quest'altro mio desiderio: ordina al tuo servo, a Zefiro, di portare qui, come fece con me, le mie sorelle.

Nel contempo, per persuaderlo, gli dava baci, gli sussurrava tenere frasi e, allacciandolo strettamente con tutto il corpo, inframezzava alle carezze paroline come: - Mio amatissimo, marito mio, o dolce vita della tua Psiche -. Suo malgrado, lo sposo fu vinto dalla forza irresistibile che hanno le parole bisbigliate nelle ore d'amore, e le promise tutto quello che volle. Così l'alba era già vicina, quando egli svanì dalle braccia di Psiche".

7. "Le sorelle, fattesi indicare la posizione della rupe sulla quale era stata abbandonata Psiche, vi accorsero in fretta. Qui esse, a forza di piangere e battersi il petto, talmente si tormentavano, che per le loro urla di dolore ripetutamente echeggiarono con eguale intensità i sassi e le rocce. Per un bel pezzo chiamarono per nome l'infelice sorella, sinché il suono penetrante delle loro voci piangenti si udì giù per i fianchi del monte, e Psiche, fuori di sé

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per l'affanno, uscì di corsa dal palazzo, esclamando:- Perché vi affliggete? I vostri strazianti lamenti sono senza motivo! Eccomi qui, quella che voi piangete. Cessate le vostre funebri invocazioni e ponete finalmente un termine alle continue lacrime che vi bagnano le guance. Tra breve potrete abbracciare colei che piangete morta.

Chiama allora Zefiro e gli ricorda l'ordine del marito.

Immediatamente questi obbedisce al comando, e con delicatissimo soffio trasporta le sorelle giù, sane e salve. Subito si abbracciano l'un l'altra, si danno avidi baci, e la gioia, forte del suo diritto, riconduce quel pianto che si era appena calmato.

- Entrate lietamente nella mia dimora, - fu l'invito di Psiche - e sedetevi al mio focolare. Aprite alla gioia l'animo afflitto e consolatevi con la vostra Psiche".

8. "Così dicendo, mostra alle sorelle le immense ricchezze che contiene l'aureo palazzo, e fa loro udire il numero di voci che costituiscono la sua servitù. Ordina poi di preparare un magnifico bagno, e offre a esse il ristoro di cibi raffinati e di uno splendido banchetto, degno proprio degli dèi.

Così le sorelle, quando si furono saziate di quella profusione di celesti ricchezze, presto cominciarono a esser gelose di lei nel fondo del loro cuore. Una di esse poi, non la finiva d'informarsi, con indiscreta curiosità, su chi fosse il signore di quel celeste dominio e chi suo marito e quale il suo aspetto. Ma Psiche non vuole in alcun modo violare la raccomandazione del marito o cancellarla dall'intimo segreto del suo cuore, e per l'occasione inventa che è un bel giovane, che una morbida barba gli ombreggia da poco le guance, che di solito passa il suo tempo a cacciare per i monti e per le pianure. Quindi, per timore che, prolungandosi la conversazione, le sorelle non scoprano la sua intenzione di tacere, riempie loro il grembo d'oro e di collane di pietre preziose, poi le affida a Zefiro, subito accorso alla sua chiamata, affinché le riporti via".

9. "L'ordine fu subito eseguito; ma le brave sorelle, tornando a casa, si sentivano sempre più ardere dal fiele dell'invidia e si scambiavano molto animatamente le loro impressioni. Alla fine l'una proruppe:- O cieca, crudele e ingiusta Fortuna! E' stato un bel piacere per te che noi,

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sorelle nate dagli stessi genitori, avessimo un destino diverso? Proprio noi, le più anziane, siamo state sposate a mariti forestieri, per fargli da serve: dobbiamo vivere lontano dai genitori, come delle esiliate, fuori della nostra famiglia e della nostra patria! Costei, invece, è la più giovane, con la sua nascita ha tanto stremato nostra madre da essere rimasto l'ultimo frutto, eppure ha fatto un ricchissimo matrimonio, ha un dio per marito e non sa neppure far buon uso di tante ricchezze. Tu hai visto, sorella mia, la quantità e il valore dei monili che ci sono in quella casa, lo splendore delle vesti e il fulgore delle gemme, per non parlare dell'oro che si calpesta a ogni passo. E se ha anche un marito così bello, come dice, in tutto il mondo non c'è oggi donna più felice di lei. Forse, poiché a lungo andare l'abitudine consolida l'affetto, il marito, che è un dio, la trasformerà persino in una dea. Ma no: lo è già, se consideriamo i suoi gesti e le sue maniere! Già ti guarda dall'alto in basso, e attraverso la donna traspare già la dea, dal momento che ha delle voci al suo servizio e comanda persino ai venti. Io, invece, povera disgraziata, ho avuto in sorte un marito più vecchio di mio padre, calvo più d'una zucca, più piccolo di statura d'un ragazzino, e col vizio di tener chiusa sotto custodia tutta quanta la casa con spranghe e catene".

10. "E l'altra replica:- In quanto a me, ho sulla schiena un marito tutto rattrappito per i reumatismi, che in quanto ad amore mi tiene proprio a stecchetto. Sono sempre occupata a frizionargli le dita contorte e indurite come pietre, e mi brucio queste mie mani così delicate con impiastri puzzolenti, con bende sporche e fetidi cataplasmi; insomma, ho tutt'altro che l'aspetto d'una signora come si deve, ridotta come sono al mestiere dell'infermiera. Tu, sorella mia, sopporti evidentemente con pazienza questa vita indegna, direi anzi (voglio esprimere francamente la mia opinione) con servile rassegnazione; ma io non mi sento capace di tollerare che tanta felicità tocchi a una che non la merita. Non ti ricordi la superbia e l'arroganza con cui ci ha trattato? Con la sua presunzione e le sue vanterie smodate ci ha rivelato l'orgoglio che ha nell'animo, e, con tante ricchezze che possiede, ha impiegato fatica a gettarcene qualche briciola in regalo: ha fatto presto ad annoiarsi della nostra presenza e ci ha fatto spingere fuori tra il soffio e i fischi del vento. Non voglio più esser donna, non voglio più aver respiro, se non la caccerò giù in malora dal piedestallo della sua fortuna. Ma l'offesa è comune a tutte e due; se dunque è spiaciuta anche a te, cerchiamo insieme una punizione esemplare. Le notizie che abbiamo appreso, è meglio non riferirle né ai nostri genitori né a nessun altro, come se non sapessimo affatto che lei vive. Abbiamo personalmente visto uno spettacolo che mi spiace d'aver visto. Questo ci deve bastare!Sarebbe il colmo andare, per giunta, a sbandierare, come degli araldi, la lieta notizia ai nostri genitori, o davanti a tutta la gente. Infatti, felici non sono quelli la cui felicità è da tutti ignorata; e lei capirà, così, di aver a che fare con delle sorelle maggiori e non con le sue serve. Torniamocene ora dai

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nostri mariti, ritroviamo la nostra casa, povera certo, ma semplice; e quando avremo escogitato un piano preciso, facciamo ritorno più forti per punirla della sua superbia".

11. "Le due malvage sorelle adottano per buono questo piano malvagio. Nascondono tutti quei loro regali di valore, e, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto (del resto lo meritavano), cominciano di nuovo a versare lacrime menzognere.

Senza perder tempo, tolgono le ultime speranze ai loro genitori, sicché costoro sentono di nuovo inasprirsi il dolore; poi, gonfie di rabbia, si avviano alle loro case, per macchinare uno scellerato inganno, anzi una trama mortale contro l'innocente sorella.

Intanto lo sposo sconosciuto, ancora una volta, di notte, rivolge a Psiche i suoi avvertimenti:- Non t'accorgi del grande pericolo che ti sovrasta? La Fortuna, come una truppa di veliti, ti fa la guerriglia da lontano; ma se non prendi tutte le tue precauzioni, ti assalirà da vicino.

Perfide lupe in veste di donna fanno di tutto per attirarti in un tranello esecrando, e questo è il punto essenziale: ti vorranno persuadere a scoprire il mio volto. Ma ricordati di quanto spesso ti dissi: il mio volto, appena visto, cesserai di vederlo. Dunque, se in futuro quelle infami streghe si presenteranno qui con cattive intenzioni (e senz'altro verranno, lo so), non dar loro risposta. Se poi non potrai farne a meno, poiché hai un animo che è per istinto semplice e delicato, almeno non porgere orecchio e non dir nulla sul conto di tuo marito. Tra breve la nostra famiglia aumenterà, perché il tuo piccolo seno, ancor di fanciulla, già reca un bambino: questi sarà un dio, se tu saprai tacere i nostri segreti, ma sarà un mortale, se li violerai".

12. "A una tale notizia, Psiche si sentì rinascere per la contentezza e batté le mani per la consolazione all'idea di un figlio divino: esultava, pensando alla gloria futura del pegno a lei promesso, ed era lieta per l'onore stesso congiunto al nome di madre. Conta con ansia i giorni che si susseguono e i mesi che passano, e, nell'inesperienza d'un peso che le era ignoto, osserva con stupore come da una leggera puntura possa esser derivato al suo seno un così ricco aumento di volume.

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Ma già quelle due pesti, quelle orride Furie, spirando veleno come le vipere, se ne venivano attraverso il mare con una fretta foriera di empi propositi. Allora quello che era il suo sposo, a intervalli di nuovo così avverte la sua Psiche:- Ecco l'ultimo giorno, ecco il momento decisivo! Persone del tuo sesso e del tuo sangue sono tue irriducibili nemiche. Hanno già preso le armi, hanno levato il campo, hanno schierato l'esercito e fatto suonar le trombe; già le tue infami sorelle con le spade sguainate si apprestano a sgozzarti. Ahimè! Quale rovina ci sovrasta, o dolcissima Psiche! Ma tu abbi pietà di te e di noi, e col tuo scrupoloso comportamento tieni lontano dalla tua casa, da tuo marito e da questa nostra piccola creatura la calamità, che sta per colpirci. Quelle ignobili donne ti odiano a morte e hanno calpestato i legami del sangue: ormai tu non puoi più chiamarle sorelle. Cerca di non vederle e di non sentirle, quando, come Sirene, curvandosi sulla rupe, faranno echeggiare i macigni con i loro funesti richiami".

13. "Piangendo, Psiche rispose con parole rotte dai singhiozzi:- Da molto tempo, mi pare, hai avuto la prova di quanto io sia fedele e discreta; anche questa volta avrai modo d'apprezzare la fermezza dell'animo mio. Fammi solo il piacere di ordinare al nostro Zefiro che adempia al suo dovere, e in cambio della sacra immagine tua che mi è negata, concedimi almeno che io veda le mie sorelle. Ti prego, per la corona dei tuoi capelli lunghi e profumati, per le tue guance morbide e rotonde che somigliano alle mie, per il tuo petto che brucia di un ignoto ardore, voglia il cielo ch'io, almeno in questo esserino, possa riconoscere il tuo viso, ma ora accondiscendi alle preghiere di una supplice angosciata e degna di pietà, concedi che io abbracci lieta le mie sorelle, e ristora con questa gioia l'animo della tua Psiche che ti è devota sino alla morte. Non mi interessa più sapere qual è il tuo volto; le stesse tenebre della notte non mi danno più fastidio: io ho te e tu sei la mia luce.

Così parlò Psiche, e abbracciava teneramente lo sposo, tanto che questi ne fu stregato. Asciugandole le lacrime coi suoi capelli, promise il suo assenso, e partì subito dopo, prima che nascesse la luce del giorno".

14.

"Intanto la coppia delle sorelle, tra loro unite da un patto, senza neppure vedere il padre e la madre, sbarca dalla nave e di corsa si precipita per la via più breve alla rupe in questione; qui neppure aspettano che il vento le porti a destinazione, ma addirittura con sfrenata temerarietà si lanciano nel vuoto.

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Zefiro, che ricordava bene l'ordine del suo signore, seppure a malincuore le accolse nel grembo della brezza che spirava nel cielo, e le depose poi sul terreno.

Esse, senza indugio, si avviano a passi rapidi, entrano nel palazzo e abbracciano la loro preda. E, coprendo col falso nome di sorelle e con la letizia del volto lo scrigno di frodi che è sepolto nel loro cuore, così l'accarezzano con frasi d'adulazione:- O Psiche, tu non sei più la fanciulla di prima: sei già una madre. Non sai quanto bene ci porti con questa tua piccola rotondità! Quanta gioia donerai a tutta la nostra famiglia!Immagina la nostra contentezza, quando potremo allevare questo fanciullo meraviglioso. Se egli eguaglierà, come c'è da aspettarsi, la bellezza dei genitori, sarà alla sua nascita un secondo Cupido".

15. "Così, fingendo di esserle affezionate, un po' alla volta prendono piede nell'animo della sorella. Subito Psiche offre da sedere, fa preparare il caldo lavacro d'un bagno perché possano ristorare le loro forze stanche del viaggio, e fa imbandire riccamente la tavola con vivande e intingoli raffinati e straordinari. Dà ordine che la cetra elevi la sua voce, e le corde vibrano; che i flauti echeggino, e si innalza la loro melodia; che i cori cantino, e si odono canzoni corali. Così, senza che appaia nessuno, soavissimi concerti riempiono di dolcezza l'animo degli uditori.

Eppure, la smania perversa delle due femmine infami non si calmò neppure all'udire quelle canzoni dolci come il miele; ma esse dirigono il discorso verso l'insidioso tranello che hanno ordito, e ipocritamente cominciano a domandarle chi sia il marito, dove sia nato e da quale ambiente provenga.

A questo punto Psiche, troppo ingenua, non si ricorda più delle sue precedenti risposte, ma inventa una nuova storia e cioè che suo marito è originario d'una provincia confinante, che è un banchiere fornito di grandi capitali, che si avvicina già alla mezza età, che ha i capelli radi e brizzolati. Poi, senza soffermarsi troppo sul discorso, di nuovo riempie le sorelle di splendidi doni, e le affida al vento perché le riporti indietro".

16. "Mentre esse, levate in alto da Zefiro col suo placido soffio, tornano a casa, così parlottano tra loro. E l'una fa: - Che dire, sorella mia, delle enormi bugie di quella svergognata? Una volta è un giovanotto che si adorna la barba da poco fioritagli sul volto, un'altra volta è un uomo di mezza età con i

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capelli bianchi come la neve. Chi è, dunque, costui al quale, in men che non si dica d'improvviso, la vecchiaia ha dato una nuova forma? Sorella mia, non c'è altra spiegazione! Questa disgraziatissima donna o fabbrica bugie o non sa com'è fatto il marito; ma, qualunque sia la verità, noi dobbiamo al più presto farla scacciar fuori da tutta questa magnificenza. Se poi ignora veramente il volto di suo marito, di certo il motivo è che ha sposato un dio; per cui, ora che è gravida, porta un dio nel seno. Per conto mio, se si spanderà la fama che quella è madre di un fanciullo divino (il cielo non voglia), immediatamente mi impiccherò a un nodo scorsoio. Perciò, torniamocene per ora dai nostri genitori e tessiamo un'insidia che vada d'accordo con quanto abbiamo detto all'inizio".

17. "In tal modo, ardenti di gelosia, salutano appena i loro genitori; e dopo una notte passata nel fastidio dell'insonnia, si precipitano alla rupe, da dove, col solito aiuto del vento, scendono giù a volo. Stringendo le palpebre, si costringono a versare lacrime e rivolgono alla giovane questo scaltro discorso:- Tu sei felice, è certo: nell'ignoranza della tua grande sciagura, te ne vivi beata e non prevedi il pericolo che ti minaccia; ma noi che vegliamo giorno e notte sulla tua felicità ci tormentiamo per le tue disgrazie. Lo abbiamo infatti saputo da fonte sicura e non possiamo, noi che naturalmente ci sentiamo partecipi del tuo doloroso caso, nasconderti il fatto: un gigantesco serpente dalle molteplici spire, che trasuda veleno mortale dal collo e spalanca la gola profonda, riposa, senza che tu te ne accorga, tutte le notti al tuo fianco: ricordati di quell'oracolo Pitico che ti proclamava destinata a nozze con un orribile animale. Molti contadini e abitanti dei dintorni lo hanno visto ritornar la sera dalla sua pastura e traversare a nuoto le acque del vicino fiume".

18. " - Tutti sono del parere che esso non ti riempirà a lungo con quei cibi che ti offre per tenerti buona, ma che appena, al termine della gravidanza, il tuo seno sarà maturo per il parto, allora ti divorerà, quando sarai carica di un frutto più pingue.

Ora tu devi decidere se vuoi dar retta alle tue sorelle che sono in ansia e hanno cara la tua vita, e, evitando la morte, vivere assieme a noi al sicuro da ogni pericolo, oppure lasciarti seppellire nelle viscere di un ferocissimo animale. Può anche darsi che tu ti compiacessi di questa campagna deserta, abitata da voci, o che provassi gusto nell'amore clandestino d'un velenoso serpente con le sue schifose e pericolose intimità; ma noi, da sorelle affettuose come siamo, avremo compiuto il nostro dovere.

Allora la povera Psiche, nella tenera semplicità del suo animo, cade in preda

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allo spavento, dinanzi a notizie così spiacevoli.

Non è più padrona della propria mente, perde ogni ricordo delle avvertenze del marito e delle promesse da lei fatte, e si lascia cadere nell'abisso della sciagura. Trema tutta, e livida in volto, come priva di sangue, con la bocca semiaperta, interrompendosi ogni tre parole, mormora con voce fioca:"

19. " - Voi, sorelle carissime, adempite per l'appunto, com'era giusto, quel dovere che vi impone l'affetto; ma anche quelli che vi hanno informato mi pare che dicano la verità. In effetti, io non ho mai visto il volto del mio uomo, e neppure so da quale terra venga; ma devo sopportare un marito che mi parla solo di notte e bisbigliando, di cui non conosco la condizione, e che è assolutamente nemico della luce del sole. Con ragione voi affermate che è una fiera, e io sono pienamente d'accordo con voi:infatti lui cerca in ogni modo di spaventarmi affinché io non lo guardi, e mi minaccia un'atroce punizione, se avrò la curiosità di vedere il suo volto. Ora, se voi potete recare un valido soccorso a vostra sorella che si trova in pericolo, fatelo senza indugio.

Altrimenti, la noncuranza guasterebbe in seguito i benefici che mi avete portato con il vostro zelo previdente.

A questo punto le due scellerate donne trovano ormai aperta la porta per penetrare senza ostacolo nell'animo della sorella. E, tolta ogni mascheratura alla macchina dell'inganno, snudano la spada della furberia e, approfittando dello sgomento dell'ingenua giovane, ne irretiscono l'animo".

20. "Così conclude la seconda sorella:- Poiché il vincolo della comune origine ci induce, pur di salvarti, a non badare a rischi o pericoli, ti indicheremo la via, la sola che, secondo noi, dopo lunghe e mature riflessioni, porti alla salvezza. Prendi un rasoio taglientissimo e, dopo averlo ben affilato ripassandolo sul palmo della mano, nascondilo furtivamente nel letto dalla parte dove hai l'abitudine di dormire. Riempi poi d'olio una lucerna che dia una luce chiara, e riponila in un pentolino col coperchio ben chiuso; ma tutti questi preparativi stai attenta a dissimularli nel più gran segreto. Il serpente, trascinandosi con la sua sinuosa andatura, salirà sul letto al solito posto, vi si stenderà e, schiacciato sotto il fardello del primo sonno, comincerà a dormire, respirando profondamente. Allora tu lasciati scivolare giù dal letto; scalza, in punta di piedi, avvicinati con cautela ed estrai la lucerna rinchiusa nelle tenebre della sua

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cieca prigione. Prendi poi come consigliera la luce, e cogli il momento favorevole per la tua coraggiosa impresa: con l'arma a doppio taglio che tu sai, dopo aver ben levato in alto la destra, vibra audacemente un colpo deciso e taglia al nefasto serpente il nodo che unisce il capo alla nuca. Il nostro aiuto non ti mancherà: noi staremo sollecitamente all'erta, e quando tu, uccidendo lui, avrai assicurato a te la vita, verremo qui di volata. Ti aiuteremo allora a portar subito via tutte queste ricchezze e cercheremo per te, che sei una creatura umana, uno sposo conforme ai tuoi voti, un uomo anche lui".

21. "Così, dopo avere appiccato l'incendio con le loro parole nel cuore della sorella, la lasciano già tutta sconvolta. Esse, invece, temendo non poco persino di trovarsi vicino a un così grave delitto, si fanno deporre sulla rupe dal solito soffio sulle ali del vento. Da qui fuggono velocemente, s'imbarcano sulle navi e si allontanano. Ma Psiche, rimasta sola (e sola non è, se si considerano le Furie nemiche che la tormentano), nella sua angoscia è sconvolta come le onde che ribollono nel mare. Anche se la risoluzione è presa e l'animo fermamente deciso, tuttavia ancora adesso che sta per porre mano al delitto, lei esita, vacilla e si lascia trascinare qua e là dalle varie passioni che le ispira la sua disgrazia. Di volta in volta decide e rimanda, ha coraggio e paura, si abbandona alla sfiducia e all'ira; e in conclusione, nel medesimo corpo, ha ribrezzo per l'animale, ma ama il marito.

Finalmente, al cader del sole, sul far della notte, in fretta e furia esegue i preparativi del nefando delitto.

Viene la notte, lo sposo arriva e, dopo aver sostenuto una prima prova nelle lotte di Venere, cade in un sonno profondo".

22. "Allora Psiche, che per natura era debole d'animo e di corpo, si sente riavere, poiché il destino crudele la provvede di nuovo vigore. Scopre dunque la lucerna e afferra il rasoio, e la debolezza del suo sesso si trasforma in audacia.

Ma appena la luce si offrì a rischiarare l'intimità del letto nuziale, essa vede la più tenera e la più dolce di tutte le fiere, proprio Cupido in persona, il leggiadro dio, che leggiadramente riposava. Solo a vederlo, persino il chiarore della lucerna brillò più forte per la gioia e il rasoio provò rammarico per il filo sacrilego della sua lama. Ma Psiche rimase invece atterrita, alla vista del prodigio; fuori di sé, tutta pallida, stette per venir meno, e tremando si lasciò cadere sulle ginocchia. Volle nascondere il rasoio, ma intendiamoci, nel

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proprio petto, e l'avrebbe fatto di certo, se il ferro, per il timore di un tale misfatto, non fosse scivolato e sfuggito giù dalle mani dell'imprudente. E se prima era stanca e spossata da morire, ora, contemplando senza mai saziarsi la bellezza del volto divino, si sentiva riavere. Mira il biondo capo e l'abbondanza dei capelli umidi d'ambrosia; sul collo bianco come il latte e sulle guance rosate vede le ciocche dei capelli distribuirsi e allacciarsi graziosamente, in modo che le une coprono la fronte e le altre la nuca, facendo impallidire, con lo splendore lucente che irraggiavano, persino il chiarore della lucerna. Sugli omeri del dio alato le bianche ali brillavano come fiori luccicanti di rugiada, e, sebbene giacessero in stato di riposo, le loro piume molli e delicate palpitavano tremule con capricciosa irrequietezza. E tutto il resto del corpo era liscio e splendente, e tale, insomma, che Venere può ben vantarsi di essergli madre. Ai piedi del letto erano stesi l'arco, la faretra e le frecce, armi propiziatrici del possente dio".

23. "Psiche, curiosa com'è, non è mai sazia di esaminare e di maneggiare questi oggetti. E mentre ammira le armi dello sposo, toglie dalla faretra una freccia e col dito pollice va provando la punta; senonché, col premere troppo il dito che ancora tremava, si punse profondamente, cosicché alcune goccioline del suo roseo sangue stillarono sull'epidermide. Così Psiche, ignara, spontaneamente cadde nell'amorosa rete di Amore.

Poi, siccome sempre più ardeva di desiderio per Cupido, china su di lui lo contemplava perduta in estasi, e la sua unica preoccupazione, nel dargli in fretta i suoi baci avidi e appassionati, era che si svegliasse. Ma mentre nel turbamento di una felicità così grande la sua mente vacilla per la ferita d'amore, la lucerna, sia che ce la spingesse una malvagia perfidia o una colpevole gelosia, sia che anch'essa bramasse di toccare e baciare quasi un simile corpo, lasciò cadere dalla sua fiamma lucente una stilla d'olio bollente sulla spalla destra del dio.

Ahimè! Audace e sfrontata lucerna, vile ancella dell'amore! Tu vorresti bruciare quello che è proprio il dio d'ogni fuoco, quando sai bene che proprio un qualche amante ti ha scoperto per primo, per godere più a lungo, anche di notte, dell'oggetto del suo desiderio.

Sentendosi scottare, il dio balzò in piedi e vide la sua fede tradita e oltraggiata. Immediatamente volò via, senza far motto, sottraendosi ai baci e agli abbracci dell'infelicissima consorte".

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24. "Ma Psiche, mentre lui si alzava, era riuscita ad afferrarsi con le due mani alla gamba destra del dio. Divenuta una miserevole appendice, nell'aerea ascensione accompagnò penzoloni lo sposo per la regione delle nuvole, finché sfinita ricadde al suolo. Però l'amante divino non l'abbandonò giacente sul terreno, ma volò sopra il cipresso più vicino, e lì, dalla vetta, profondamente turbato, le rivolse la parola:- Proprio io, o troppo ingenua Psiche, ho trascurato gli ordini di mia madre Venere. Io avevo ricevuto il comando di farti innamorare di un uomo vilissimo e di condannarti a un umilissimo matrimonio, e invece proprio io sono volato da te in veste d'amante. Ho peccato di leggerezza, lo so; il famoso arciere si è da se stesso colpito, col suo stesso arco. E ti ho fatto mia sposa perché tu credessi che io fossi una belva e ti sentissi in dovere di tagliarmi il capo! Eppure, esso reca questi occhi che ti adorano!Erano questi i pericoli da cui spesso ti consigliavo di guardarti, questi i miei benevoli avvertimenti... Ma le esimie tue consigliere ben presto mi pagheranno il fio del loro nefasto insegnamento; in quanto a te, sarà bastevole punizione starti lontano.

E mentre finiva di parlare, si alzò in volo verso il cielo".

25. "Ma Psiche, prostrata a terra, seguì con l'occhio sin dove arrivò con la vista, il volo dello sposo, e intanto si affliggeva con i più straziati lamenti. E quando lo sposo, portato via dal battito delle sue ali, si fu sottratto per la distanza al suo sguardo, Psiche corse a gettarsi giù a capofitto per la riva del vicino fiume. Ma il fiume, pietoso, per rendere certamente omaggio al dio che suole appiccar l'incendio anche alle acque, temendo per se stesso, si affretta a trarla in salvo attraverso i suoi gorghi e la depose sulla riva smaltata di erbe e di fiori.

In quell'istante, Pan, il dio dei campi, casualmente sedeva sull'orlo del fiume e abbracciava Eco, la ninfa dei monti: voleva insegnarle a cantare le canzoncine più svariate; mentre, vicino alla riva, le capre, intente al pascolo, saltellavano qua e là e brucavano le erbe che orlavano la corrente. Quel dio che somiglia a un caprone chiama benevolmente Psiche, disfatta dall'angoscia (egli del resto sapeva della disgrazia che le era toccata), e così cerca di calmarla, parlandole dolcemente:- Vezzosa ragazza, io sono un dio che s'intende solo di campi e di pecore, ma grazie alla mia età avanzata ho il vantaggio d'una lunga esperienza. Ora, se colgo nel giusto (e questa facoltà i veramente esperti la chiamano divinazione), dalla tua andatura incerta, dai tuoi passi spesso vacillanti, dal livido pallore della tua figura, dai continui sospiri e soprattutto da quei tuoi occhi cerchiati d'affanno, mi pare che tu ti tormenti per un amore disperato.

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Ascoltami, dunque, e rinuncia a porre fine ai tuoi giorni, gettandoti nuovamente in un precipizio, oppure ricorrendo a qualche altro genere di morte; smetti di piangere e di rattristarti, e piuttosto rivolgiti a Cupido e prega lui che è il più forte degli dèi. Siccome è un giovane schizzinoso e superbo, farai bene a sollecitare con omaggi e con lusinghe la sua simpatia".

26. "Così parlò il dio dei campi, e Psiche non rispose, ma si limitò a fare atto di adorazione verso il nume salutare, e riprese il suo cammino. Dopo aver tanto errato che si reggeva in piedi a fatica, seguendo un sentiero, giunse, senza saperlo, in una città in cui regnava il marito d'una delle sorelle. Quando Psiche ne fu informata, fece annunciare alla sorella il suo arrivo; appena introdotta, le due si abbracciano tra loro e si scambiano i saluti, poi la sorella le domanda il motivo della sua venuta, e Psiche così risponde:- Ti ricordi del consiglio che mi avete dato? Mi avete persuasa a uccidere con un rasoio a doppio filo la belva che, sotto le mentite spoglie di marito, giaceva la notte al mio fianco, prima che mi divorasse, me poverina, con la sua bramosa gola. Il consiglio mi piacque molto. Ma appena, con la complicità del lume, conobbi il suo volto, mi apparve un meraviglioso e davvero divino spettacolo: proprio il figlio della dea Venere, Cupido in persona, ti dico, che tranquillamente dormiva. Fui commossa alla vista d'un bene così grande e sconvolta dall'eccesso del piacere, al punto di non riuscire ad accogliere completamente la mia gioia. Ma ecco che, per un infausto accidente, dalla lucerna sprizza una goccia d'olio bollente sulla spalla del dio. Egli subito si svegliò per il dolore, mi vide armata col ferro e col fuoco, ed esclamò: 'Tu dunque stavi per compiere un delitto così efferato! In compenso vattene subito via dal mio letto e prenditi le cose tue. Io per conto mio voglio unirmi in matrimonio con tua sorella', e pronunciò il tuo nome di nascita, 'secondo il rito religioso'.

Dopo di che, subito ordina a Zefiro di scacciarmi col suo soffio fuori dal recinto del suo palazzo".

27. "Psiche non aveva ancor finito di parlare, che già la sorella era caduta in preda agli aculei di un folle capriccio e d'una colpevole gelosia. Subito spaccia al marito una bugia ben inventata lì per lì, che cioè aveva ricevuto la notizia della morte dei genitori, s'imbarca e si affretta ad andare alla rupe che sapete. Qui, benché il vento che soffiava fosse un altro, lei, nella cieca speranza dl soddisfare il suo desiderio, esclamò:- Amore, prendimi! Io sono una moglie degna di te! E tu Zefiro, accogli la tua signora.

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Così dicendo, compie un gran salto nel vuoto. Ma nemmeno da morta poté giungere nel luogo sperato: il suo corpo, infatti, si sfracella, rimbalzando sulle rocce: così morì proprio nella maniera che meritava, e le sue carni, fatte a pezzi, offrirono un comodo pasto alle belve e agli uccelli da preda.

Il meritato castigo non tardò a raggiungere anche l'altra sorella.

Infatti Psiche, nel suo errare senza meta, di nuovo giunse in un'altra città, nella quale dimorava in egual maniera l'altra sorella. Non diversamente dalla prima, anche lei cadde nell'inganno di Psiche: e bramosa com'era di soppiantare la sorella e di celebrare empie nozze, si affrettò a correre sulla rupe, e qui incontrò la morte".

28. "Intanto, mentre Psiche si aggirava sulla terra in ansiosa ricerca di Amore, il dio, cui ancora bruciava la scottatura della lucerna, giaceva tra i gemiti nel letto stesso di sua madre.

Allora l'uccello dalle candide piume, il gabbiano, che vola con le sue ali rasente i flutti marini, rapido si immerse nel profondo grembo dell'Oceano. Qui si fermò vicino a Venere, proprio mentre lei si bagnava e nuotava, per informarla dell'accaduto. Il figlio suo, disse, s'era bruciato, e ora si lamentava per il dolore di una grave ferita e giaceva a letto in gravi condizioni. Aggiunse che dappertutto sulle bocche della gente correvano chiacchiere e rimproveri di vario genere ed erano indirizzati a tutta quanta la famiglia di Venere.

- Tutti si lagnano - esclamò - perché tuo figlio se n'è andato a fare il libertino in montagna e tu ai bagni di mare. Di conseguenza, non esiste più né voluttà né grazia né garbo, ma ovunque trionfano la rozzezza, la grossolanità e la selvatichezza.

Sono spariti l'amore coniugale, la comunanza tra gli amici, l'affetto per i figli; sono subentrati il sovvertimento d'ogni giusta regola e un molesto fastidio che porta a disprezzare ogni vincolo sociale.

Quell'uccello loquace e pettegolo rifischiava queste notizie alle orecchie di Venere e lacerava la reputazione del suo figliolo.

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Venere allora, con grande cruccio, esclama:- Dunque, quel bel tipo di mio figlio ha già un'amante? Suvvia, poiché tu solo mi servi con fedeltà, dimmi tu il nome di quella che ha adescato un fanciullo così ingenuo e innocente. Voglio saperlo, sia che appartenga alla stirpe delle Ninfe o al corteo delle Ore o al coro delle Muse, oppure anche al seguito delle mie ancelle, le Grazie.

Non tacque, l'uccello ciarliero, ma disse:- Non so con sicurezza, o mia signora, ma credo che la ragazza, se ben ricordo, si chiami Psiche. Dicono che egli ne sia profondamente innamorato.

Fu tanto, allora, lo sdegno di Venere, che gridò con violenza:- Davvero egli ama Psiche, la mia rivale in bellezza, l'usurpatrice del nome mio? Non ci sarebbe da meravigliarsi se quel mio rampollo mi giudicasse una mezzana: non crederà mica che gliel'abbia indicata per fargliela conoscere!".

29. "Così strillando, in fretta scese fuori dal mare e si precipitò nella sua aurea stanza da letto, dove trovò, come aveva udito, il figlio a letto ammalato. Le sue urla risuonavano dinanzi alla porta già prima che entrasse:- Hai compiuto una bella impresa! Proprio conveniente alla nostra famiglia e al tuo senno! Non solo hai calpestato gli ordini di tua madre, che dico! di colei che è la tua signora, ma anche, invece di ispirare alla mia nemica il tormento di un amore vilissimo, tu, un ragazzo così giovane, ti sei invischiato in un'unione che è dissoluta e sproporzionata alla tua età. O forse credevi che avrei tollerato una nuora che mi odia? O ritieni, fannullone, seduttore da strapazzo, ragazzaccio odioso, che tu solo sei capace di far razza e che io per l'età non posso più aver figli? Sappi dunque che io darò alla luce un altro figlio molto migliore di te. Anzi, perché tu senta maggiore scorno, adotterò qualcuno dei miei schiavetti di casa e gli donerò ali, fiamme, arco, le frecce anche e tutto questo repertorio che mi appartiene e che io ti avevo affidato non certo per questo uso. Infatti, in questo tuo corredo non c'è niente che provenga dai beni di tuo padre".

30. " - II fatto è che sei stato abituato male sin dall'infanzia, che hai le unghie aguzze, che senza rispetto alcuno hai battuto tante volte i più vecchi di te. Persino tua madre, me stessa ti dico, la derubi ogni giorno, sacrilego ragazzo. Non solo, ma più volte mi hai percossa, e comunque mi disprezzi come se fossi una derelitta, e non hai paura neppure del tuo padrigno, quel grande e forte guerriero. E come no? Sei arrivato al punto di provvederlo più volte di ragazze, per tormentare me che sono la sua amante. Ma io farò in modo che tu ti

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penta di questi tiri e senta l'amaro gusto di queste tue nozze.

Eppure, ora che sono diventata oggetto di scherno, che posso fare?Dove andare? In che modo indurre all'obbedienza questa specie di ramarro? Dovrò chiedere aiuto alla mia nemica, la Temperanza? Ma io l'ho spesso offesa, proprio con la dissoluta condotta di questo mio figlio. Mi fa davvero ribrezzo, dover parlare con una donna rozza e trasandata; eppure, la soddisfazione che dà la vendetta non è da disprezzarsi, qualunque ne sia la provenienza. Devo proprio ricorrere a lei e a nessun'altra, poiché solo lei può infliggere una punizione seria a questo inutilone. Occorre che lei gli vuoti la faretra, gli spunti le frecce, gli allenti l'arco, gli spenga la fiaccola, occorre anzi che riduca alla ragione lui stesso con i più energici rimedi. Solo allora, crederò che sia riparata l'ingiuria fattami, quando lei gli avrà tagliato la chioma che spesso ho cosparso d'una cipria luminosa e del color dell'oro, e gli avrà spuntato le ali che ho bagnato di nettare nel mio seno".

31. "Così parlò la dea, e corse fuori furibonda, sprizzando una collera degna di Venere. In quell'istante, Cerere e Giunone la raggiunsero, e, vedendola congestionata in volto, le chiesero perché aggrottasse le ciglia e oscurasse così l'amabile fulgore del suo sguardo. Venere rispose:- Capitate proprio a puntino, per offrire uno sfogo alla rabbia che ho in corpo. Vi prego, rintracciatemi con ogni mezzo Psiche, quella schiava fuggiasca che se n'è volata via. Poiché voi conoscete bene lo scandalo che succede in casa mia e le imprese di colui che non posso più chiamar mio figlio.

Allora esse, che sapevano bene quello che era accaduto, cercarono di lisciare Venere a forza di blandizie, e calmarne la collera furibonda.

- Quale peccato, o signora, ha mai compiuto tuo figlio per opporti con tanta ostinazione ai suoi piaceri? Arrivi fino al punto di bramare la rovina di quella che lui ama? Quale delitto, di grazia, ha commesso, se ha sorriso volentieri a una graziosa ragazza? Non lo sai che è maschio, e giovane per giunta, o davvero ti sei dimenticata l'età che ha? Forse per il fatto che porta bene i suoi anni, credi che sia sempre un ragazzino? Ma tu sei madre e anche donna di senno, e dunque continuerai sempre a inquisire con tanta diligenza gli svaghi di tuo figlio? E gli apporrai a colpa la sua esuberanza, e gli farai un rimprovero dei suoi amori, e biasimerai in un figlio così bello le arti e i piaceri che sono tuoi? Gli dèi e gli uomini potranno, poi, ammettere che tu sparga ovunque sulla terra i desideri d'amore, se vieti agli Amori del tuo seguito di amare e chiudi il laboratorio in cui si tiene pubblica scuola di galanteria?Così le due dee cercavano di ingraziarsi Amore, benché egli non fosse presente,

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per paura delle sue saette, e intercedevano compiacentemente per lui. Ma Venere si seccò di vedere girate in riso le offese fattele, voltò le spalle e, a passi frettolosi, si avviò dall'altra parte, in direzione del mare".

LIBRO 6

1. "Intanto Psiche andava girovagando qua e là, da un luogo all'altro. Senza requie, cercava notte e giorno il suo sposo, ed era sempre più desiderosa, se non di calmare la sua ira con le carezze che una moglie conosce, almeno di ottenerne il perdono con le preghiere proprie degli schiavi. Vide un tempio sulla cima d'un'erta montagna ed esclamò:- Chi mi dice che il mio signore non abiti là?Subito ci si dirige a rapidi passi e, sebbene si sentisse venir meno per le continue fatiche, la speranza di vedere esaudito il suo desiderio la riempiva di nuovo ardore. Finito che ebbe di superare i dossi più alti del monte, arrivò presso al tempio. Vide allora spighe di frumento a mucchi o intrecciate a mo' di corona, e vide pure spighe d'orzo. C'erano anche falci e tutti gli attrezzi che servono per la mietitura, ma tutti quanti giacenti qua e là senza cura, così come i contadini nelle ore più calde sogliono abbandonarli alla rinfusa. Con molta attenzione Psiche li divise e, dopo averli separati l'uno dall'altro, li ripose nell'ordine dovuto, credendo naturalmente che di nessuna divinità non dovesse trascurare i riti e i santuari, ma che anzi di tutte dovesse implorare la benevolenza e la pietà".

2. "Mentre curava con grande zelo questi oggetti, l'alma Cerere la colse di sorpresa, e al momento proruppe in una lunga esclamazione:- O povera Psiche, che mi dici? Su tutta la terra Venere va in caccia affannosa e ricerca infuriata le tue orme, ti reclama per l'estremo supplizio e chiede vendetta con tutte le forze che la sua divina potenza le consente, e tu ti prendi cura delle mie cose e pensi ad altro che alla tua salvezza?Allora Psiche, prostrandosi a terra, bagnava i piedi della dea con un fiume di lacrime e spazzava il pavimento con i suoi capelli; pregando e ripregando la dea, ne implorava il favore:- Io ti scongiuro per questa tua destra portatrice di frutti, per i riti sacri che fanno lieta la mietitura, per il segreto che avvolge le ceste dei tuoi sacri arredi, per l'alato cocchio trascinato dai draghi tuoi servi, per i solchi delle campagne sicule, per il cocchio rapitore e la terra avara, per la discesa di Proserpina verso nozze tenebrose e per il ritorno di tua figlia, dopo che la

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ritrovasti al lume delle fiaccole, per tutti gli altri segreti che il santuario dell'attica Eleusi avvolge nel silenzio, soccorri l'anima infelice di Psiche, la tua supplice.

Permetti che tra questa congerie di spighe io mi nasconda, anche per pochi giorni, finché quella dea così possente abbia il tempo di lasciare sbollire la sua collera, o che almeno io, stanca come sono per i continui travagli, possa avere un po' di requie e riprendere le forze".

3 "Cerere replicò:- In verità le tue lacrime e le tue preghiere mi commuovono, e io vorrei venirti in aiuto, ma non me la sento di incorrere nel risentimento di mia cognata. Ho con lei anche un legame d'amicizia che dura da tempo; e lei, inoltre, è una donna eccellente.

Allontanati, dunque, immediatamente da questa casa e stimati fortunata se non ti trattengo sotto buona scorta.

Psiche, contro la sua speranza, si vide respinta, e fu doppiamente afflitta dall'angoscia. Mentre rifaceva all'indietro la via, scorse, nella penombra di un bosco che riempiva una valle sottostante, un santuario che appariva costruito a regola d'arte; e poiché non voleva trascurare alcuna possibilità, anche se incerta, di miglior fortuna, ma era risoluta a rivolgersi per aiuto a ogni divinità, qualunque essa fosse, si avvicina alla sacra porta. Scorge doni di gran pregio e vesti appese ai rami degli alberi e agli stipiti della porta, con scritte in oro che facevano menzione della grazia ricevuta e della dea cui erano state dedicate. Allora cadde in ginocchio, abbracciò l'ara ancora tiepida e, dopo essersi asciugate le lacrime, così pregò:"

4. " - O sorella e moglie del grande Giove, sia che tu risiedi negli antichi templi di Samo, ed essa sola si può vantare di averti vista nascere, di aver udito i tuoi vagiti e provveduto al tuo nutrimento, sia che tu frequenti le ricche dimore dell'eccelsa Cartagine, dove si adora la tua immagine di vergine che passa per il cielo trasportata da un leone, sia che proteggi le mura illustri di Argo presso le rive dell'Inaco, e qui tu sei onorata come sposa del signore del tuono e regina degli dèi, tu che tutto l'oriente venera col nome di Zigia e tutto l'occidente chiama Lucina, sii a me nell'estrema rovina Giunone salvatrice e liberami dalla paura dell'incombente pericolo per tutti i travagli che ho dovuto sopportare. Per quel che so, tu usi porgere spontaneamente il tuo aiuto alle partorienti nel momento del rischio.

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Psiche in tal modo supplicava la dea, e Giunone subito le apparve dinanzi in tutta l'augusta dignità del suo nome e le disse:- Come vorrei, sinceramente, accordare il mio consenso alle tue preghiere. Ma un giusto riguardo non mi permette d'agire contro la volontà di Venere mia nuora, che io ho sempre amato come mia figlia. Inoltre, me lo impediscono le leggi che fanno divieto di accogliere i servi altrui fuggitivi, senza il consenso dei loro padroni".

5. "Psiche fu abbattuta dal naufragio che inghiottiva anche questa volta le sue speranze, e, non potendo più raggiungere l'alato sposo, perse ogni speranza di salvezza e domandò consiglio a se stessa:- Che altro mi resta da tentare? Quale altro riparo opporre alle mie sciagure, se neppure le dee, con tutta la loro buona volontà, possono darmi aiuto? Chiusa dunque, come sono, in una rete inestricabile, dove ancora dovrei volgere il piede? In quale casa, in quale tenebroso recesso dovrei nascondermi per sfuggire allo sguardo infallibile della grande Venere? Perché allora non ti armi di virile energia e non rinunci coraggiosamente alle tue speranze infrante? Arrenditi spontaneamente a colei che è la tua signora, e cerca di calmare l'ardore della sua collera con la tua umiltà, anche se tardiva. Chissà pure che tu non trovi là, in casa della madre, colui che vai cercando da tanto tempo...

Così Psiche, nel prepararsi a un'obbedienza dal dubbio esito, o piuttosto a una morte che appariva certa, rifletteva tra sé al modo in cui dar principio alle sue implorazioni".

6. "Intanto Venere, rinunciando a valersi di mezzi terreni per le sue ricerche, decide di salire in cielo, e ordina di preparare il suo cocchio. Lo aveva modellato per lei Vulcano con ogni cura e con arte sottile di orefice e, prima di inaugurare il talamo nuziale, glielo aveva offerto come dono di nozze; la lima, affinandolo e levandone il soverchio, aveva accresciuto il suo pregio. Tra la folla delle colombe che soggiornano intorno alla camera della loro signora, quattro d'un bianco lucente avanzano con gioiosa andatura e, piegando il variopinto collo, si sottomettono al giogo costellato di gemme; poi, quando hanno ricevuto la loro padrona, prendono lietamente il volo. In corteo, dietro al cocchio della dea, folleggiano con acuti pigolii i passeri e tutti gli altri uccelli che posseggono una bella voce, elevano dolci melodie e con soavi canti annunciano l'arrivo della dea. Si ritirano le nubi, il cielo si apre al passar di sua figlia, l'etere in alto accoglie con gioia la dea, e il canoro seguito della possente Venere non prova alcun timore, se incontra aquile o rapaci avvoltoi".

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7. "Allora la dea si dirige al palazzo regale di Giove, e in atto altero richiede che le sia permesso, per un servizio a lei indispensabile, avvalersi della voce stentorea del dio Mercurio.

Giove col suo nero sopracciglio fece cenno di sì. Subito Venere esultante, in compagnia di Mercurio, scende giù dal cielo e si fa premura di parlargli.

- O fratello nato in Arcadia, naturalmente tu sai che tua sorella Venere non ha mai intrapreso alcunché senza la tua assistenza, e non ti sfugge comunque che da molto tempo io cerco invano una mia ancella che si nasconde. Non mi resta altro che valermi della tua funzione di banditore e promettere pubblicamente una ricompensa a chi la scoprirà. Affrettati perciò a eseguire l'incarico che ti affido e a rendere noti i contrassegni che possono servire per il riconoscimento. Altrimenti colui che si sia reso colpevole di averle dato ricetto contro le leggi potrebbe sempre giustificarsi, protestando la sua ignoranza.

Mentre così parla, gli porge un libretto dove era scritto il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni, poi si ritira dritto filato a casa sua".

8. "Mercurio non trascurò di obbedire. Visitando una popolazione dopo l'altra, attraverso i vari paesi, assolveva in questo modo l'incarico di banditore, che gli era stato affidato:- Colui che potrà arrestare o indicare dove si trova una schiava fuggiasca, figlia di un re e serva di Venere, di nome Psiche, vada a trovare Mercurio banditore dietro i pilastri della valle Murcia.

Egli riceverà da Venere in persona, in compenso dell'informazione, sette dolci baci, e uno per giunta dolcissimo tutto miele, dato con carezzevole tocco della lingua.

In questi termini Mercurio annunciò il bando, e la brama di ottenere un premio così grande stimolò a gara la passione d'ogni uomo mortale. Questa circostanza soprattutto tolse a Psiche ogni esitazione. E già era vicina alla porta della sua regina, quando le si fece incontro una del seguito di Venere; si chiamava Abitudine, e subito con voce altissima gridò:- Finalmente, infamissima serva, hai cominciato a capire d'avere una padrona? O

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forse, vista l'impudenza del tuo contegno, fingi di non sapere neanche quante fatiche abbiamo dovuto sostenere nel cercarti? Ma bene! Sei caduta proprio tra le mie mani! Sei ora impigliata tra le sbarre dell'Orco medesimo, e ben presto pagherai di sicuro il fio della tua imprudente superbia!".

9. "Dopo di che, cacciò violentemente la mano nella chioma di Psiche, e la trascinò via senza che lei osasse un solo gesto di resistenza. Fu condotta dentro, e Venere, appena la vide in suo potere, scoppiò in una sonora risata; poi, come usa fare una persona che è molto arrabbiata, scosse il capo e, grattandosi l'orecchio destro, esclamò:- Finalmente ti sei degnata di venire a salutare tua suocera? O piuttosto sei venuta a visitare tuo marito, che per colpa tua giace ferito in gravi condizioni? Ma stai pur certa! Voglio riceverti con quel riguardo che si deve a una buona nuora. Dove sono - chiese poi - Affanno e Tristezza, mie ancelle?Le chiamò dentro e gli consegnò la ragazza per sottoporla alle torture. Esse, obbedienti all'ordine della signora, oltre a percuotere la povera Psiche con le loro sferze, le infliggono ogni sorta di tormenti, dopodiché la riconducono al cospetto della regina. Allora Venere di nuovo ci fece su una risata e disse:- Ecco qua! Costei cerca di muovermi a compassione e allettarmi, con la vista di quel suo ventre gonfio; vorrebbe evidentemente che io mi sentissi nonna felice di un illustre rampollo! C'è davvero da essere felici! Dovrò esser chiamata nonna, ora che sono proprio nel fiore dell'età, e il figlio d'una vile serva avrà fama d'essere nipote di Venere! Eppure, sciocca che sono a chiamare costui figlio! No, certo! Nozze tra persone di condizione diversa, e per giunta svoltesi in una fattoria isolata, senza testimoni, senza il consenso del padre, non possono considerarsi legittime.

Perciò questo figlio che ne nascerà sarà un bastardo, se pure ti permetteremo di portare a termine il parto".

10. "Detto ciò, si scaglia su di lei, le fa a pezzi la veste, le strappa i capelli, la scuote per il capo e la picchia brutalmente.

Poi si fa portare grano, orzo, miglio, semi di papavero, ceci, lenticchie e fave, mescola tutto alla rinfusa, ne fa un solo mucchio, e le dice:- Sei una serva, e pure molto brutta d'aspetto. Mi sembra dunque evidente che tu acquisti la benevolenza dei tuoi amanti solo col mostrarti premurosa al loro servigio. Ebbene! Anch'io voglio mettere in prova la tua abilità. Fai la cernita in questa confusa massa di chicchi, separali e disponili in ordine, uno per uno, e prima di sera mostrami il lavoro finito.

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Così, dopo averle assegnato un mucchio così grande di grani, Venere se ne andò a un pranzo di nozze. Quanto a Psiche, non osò mettere le mani in quel caos inestricabile, ma rimase istupidita in silenzio e costernata per l'enormità del compito. Allora una formica piccolina, di quelle che abitano in campagna, ben conoscendo la grande difficoltà di quel lavoro, provò compassione per la compagna del possente dio e maledisse la crudeltà della suocera. In gran fretta corse di qua e di là a chiamare a raccolta l'esercito tutto delle formiche dei dintorni:- Abbiate pietà, o agili figlie della terra madre comune, abbiate pietà d'una bella giovane sposa d'Amore. Presto! Muovete velocemente in suo aiuto, perché si trova a rischio della vita.

Accorrono a ondate, le une sulle altre, le turbe delle stirpi a sei zampe. Tutte a gara, grano per grano, operano la cernita dell'intero mucchio, separano e distribuiscono con ordine le varie specie di grani, poi si affrettano a sparire alla vista di tutti".

11. "Iniziava la notte, quando Venere, ebbra di vino, olezzante di profumi e tutta inghirlandata di splendide rose, fece ritorno da un pranzo nuziale. Scopre la straordinaria diligenza di quel lavoro, ed esclama:- Briccona! Né tu né le tue mani hanno avuto parte in quest'opera.

Essa è frutto di quello a cui piacesti proprio per la tua disgrazia e anche per la sua - e, gettatole in terra un tozzo di pane, se ne andò a dormire.

Intanto Amore era tenuto chiuso sotto attenta sorveglianza in una camera isolata all'interno del palazzo sia perché non aggravasse la sua ferita con la sua sfrenata intemperanza, sia per impedire che si riunisse alla donna delle sue brame. Così gli amanti, lontani e separati, benché sotto lo stesso tetto, passarono una notte molto triste.

L'Aurora da poco era salita nel cocchio, quando Venere, fatta chiamare Psiche, le dice:- Vedi quel bosco e il fiume che lo bagna? Esso si stende per un lungo tratto sulle rive del fiume, e le sue estreme propaggini arrivano sin quasi a coprire la vicina sorgente. In esso vanno pascolando in libertà delle pecore adorne d'una lana che luccica come l'oro schietto. Ingegnati pure come vuoi, ma io voglio che immediatamente tu mi porti di là un fiocco di lana di quella preziosa pelliccia".

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12. "Psiche si mise volentieri in cammino, ma non con l'intenzione di obbedire all'ordine, bensì per gettarsi da una rupe nel fiume e trovare così requie alla propria disgrazia. Ma dal letto del fiume una verde canna, nutrice di soavi suoni, attinse una divina ispirazione al lieve crepitìo d'una dolce brezza e diede questo profetico insegnamento:- Psiche, tu sei stata già tribolata da una quantità di sciagure:non contaminare dunque con una tristissima morte le mie sacre acque e non avviarti neppure, a quest'ora, incontro a quelle terribili pecore. Difatti, sinché la vampa del sole le mette in calore, esse sono use diventare prede di una rabbia violenta, e, con le corna aguzze, la fronte dura come la pietra e a volte anche con morsi che stillano veleno, usano avventarsi a morte contro gli esseri umani. Ma quando, trascorso il mezzogiorno, il sole mitigherà il suo ardore e le greggi riposeranno nella calma che esala la brezza fluviale, allora potrai nasconderti sotto quell'altissimo platano che insieme a me beve allo stesso fiume. E appena le pecore, sbollita la loro rabbiosa eccitazione, si saranno ammansite, allora batti le ramaglie del bosco vicino e troverai dei bioccoli di aurea lana, che restano impigliati qua e là nell'intrico degli arbusti".

13. "Così la sincera e pietosa canna insegnava all'afflitta Psiche il modo di salvarsi. Né Psiche se ne stette inerte con poca diligenza, senza ascoltare delle istruzioni di cui non si sarebbe certo pentita, ma le seguì alla lettera, sicché il furto risultò facile; e, riempitosi il grembo, riportò a Venere quella soffice lana fatta di biondo oro. Tuttavia neppure la seconda fatica, eseguita con tanto suo rischio, trovò nella sovrana il giusto riconoscimento, poiché aggrottò le sopracciglia e con un amaro riso disse:- Non mi sfugge che anche di questa impresa l'autrice non sei tu, ma un'altra persona. Io voglio, però, questa volta, sperimentare sul serio se tu davvero possiedi un animo audace e un senno fuori dell'ordinario. Vedi la cima di quella montagna dirupata e l'altissima roccia che essa domina? Da quella cima scaturiscono le acque tenebrose d'una triste sorgente e, raccogliendosi nel seno d'una valle vicina, si riversano nelle paludi di Stige e alimentano la rauca corrente di Cocito. Là dove la sorgente scaturisce alla superficie dal seno della terra, attingi alla sua gelida onda e subito portami l'acqua in questa piccola urna.

Così dicendo le consegna un vasetto tagliato nel cristallo e per giunta la minaccia di più aspri castighi".

14. "Psiche, con passi rapidi si affretta a dirigersi verso il giogo più alto

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del monte, sperando d'incontrare almeno là la fine d'una vita così travagliata. Ma quando arrivò nelle vicinanze di quella cima, scorse le enormi difficoltà di un'impresa che implicava la morte. Poiché la roccia era a dismisura alta, inaccessibile, tutta punte e scivolosa; inoltre, da una gola che s'internava nel sasso, usciva fuori una disgustosa corrente, e questa, appena sgorgava dalla cavità sottostante, subito sfuggiva giù per la china e, infilandosi al coperto per un angusto canale che aveva scavato nella pietra, ricadeva di nascosto in una valle vicina. Ecco che a destra e a sinistra, negli anfratti rocciosi, strisciano e tendono il lungo collo feroci draghi, e le pupille dei loro occhi, condannati a perpetua veglia, fanno sempre la guardia e sono eternamente aperte alla luce. Di già persino le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi e gridavano l'una dopo l'altra:- Va' via. - Che fai? Guarda bene. - Che vuoi? Stai attenta. - Fuggi. -Tu corri verso la morte.

Psiche, vista l'impresa impossibile, divenne immobile come una pietra. Era sì presente col corpo, ma i sensi erano assenti al punto che, del tutto schiacciata dalla mole di un'impresa pericolosa e senza via d'uscita, non aveva neppure l'estremo conforto del pianto".

15. "Ma all'acuta vista della pietosa Provvidenza non sfuggì l'afflizione di quell'anima innocente. E allora il regale uccello del sommo Giove, l'aquila rapace, comparve all'improvviso con le ali spiegate. Si ricordava dell'antica sua compiacenza, di quando, per impulso di Amore, aveva rapito per conto di Giove il frigio coppiere (N.d.t: Ganimede), e, recando in buon punto il proprio aiuto, volle onorare la potenza del dio nei travagli della sua sposa. Scese giù dai sentieri di un'erta cima sepolta tra le nubi e, roteando dinanzi agli occhi della giovane, le disse:- Proprio tu, che per natura sei ingenua e non t'intendi affatto di queste cose, credi di poter rubare o comunque toccare una goccia sola di questa sorgente che è in egual misura sacra e terribile? Sai, almeno per sentito dire, che anche gli dèi e persino Giove hanno paura di questa acqua? Essa appartiene allo Stige: e lo sai che, come voi giurate per la volontà degli dèi, così gli dèi sono avvezzi a giurare sulla maestà dello Stige? Ma dammi quest'urna -, e senz'altro l'afferra strettamente e, battendo le ali gigantesche, si libra nell'aria. Poi dirigendo di qua, di là, il suo volo tra le mascelle dei draghi armate di denti crudeli e le loro trifide lingue, attinge alle acque, benché esse siano riluttanti e le intimino minacciose di andarsene, pena la vita. Ma l'aquila afferma che, per ordine di Venere viene ad attingere, e che è al suo servizio, e così, grazie alla sua bugia, poté avvicinarsi con una certa sicurezza".

16. "Psiche accettò con gioia l'urna colma d'acqua, e la riportò in fretta a

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Venere. Ma neppure allora poté placare l'infuriata volontà della dea. Venere la minaccia di sottoporla a più gravi e crudeli oltraggi e l'apostrofa in questo modo, con un sinistro sorriso di scherno:- Hai proprio l'aria di essere una gran maga, dotata di poteri davvero eccelsi, visto che hai prontamente eseguito i miei ordini.

E che ordini! Ma, pupilla degli occhi miei, devi rendermi ancora un altro servigio. Prendi questo barattolo, - e glielo consegnò - e recati immediatamente sotto terra, nella funebre dimora dell'Orco. Quando sarai là, presenta il barattolo a Proserpina e dille: 'Venere ti prega che tu le invii un po' della tua bellezza, sia pure quel poco che basti per una breve sola giornata. Poiché la sua, prodigandosi nel curare il figlio suo ammalato, l'ha tutta consumata sino al lumicino'. Ma non tornare troppo tardi, perché ne ho bisogno per spalmarmela sul viso, prima di recarmi all'assemblea degli dèi".

17. "A questo punto, Psiche si accorse davvero di essere all'estremo della sua fortuna: la maschera era stata gettata, e si voleva evidentemente spingerla a sicura morte. E come no? Niente di meno avrebbe dovuto coi suoi piedi recarsi di persona nel Tartaro, tra le ombre dei morti! Senza troppo esitare, si avviò verso una torre altissima con l'intenzione di buttarsi giù a capofitto: sperava così di poter scendere all'Averno per la via più corta e nel modo più facile. Ma la torre d'improvviso ruppe il silenzio e parlò:- Perché, infelice, vuoi ucciderti gettandoti nel vuoto? Perché innanzi tempo ti abbatti davanti al rischio che comporta quest'ultima fatica? E' evidente che, una volta che l'anima tua sia divisa dal corpo, te ne andrai certamente subito nel profondo del Tartaro, ma di là in nessun modo potrai far ritorno. Dunque, dammi ascolto".

18. "- Non lontano da qui si trova Lacedemone, illustre città dell'Acaia. Da lì recati al promontorio Tenaro che è nei pressi della città, in località nascosta e lontana da ogni strada. Qui si apre uno spiraglio che porta al regno di Dite, e attraverso le sue porte spalancate si intravede il malagevole cammino. Oltrepassa la soglia e affidati a quella via; seguendo quel budello, ben presto arriverai direttamente proprio alla reggia dell'Orco. Però non ti conviene andartene fin là, per quei luoghi tenebrosi, a mani vuote, ma porta in ciascuna di esse delle focacce d'orzo impastate di vino e di miele, e nella bocca, per giunta, due monetine.

Quando avrai percorso una buona parte di quella strada che è riservata ai morti, incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un asinaio simile a lui. Costui ti pregherà di raccattare qualche ramoscello caduto dalla soma, ma tu non

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rispondere, e passa oltre in silenzio. Subito dopo giungerai al fiume dei morti.

Il suo custode è Caronte, ed egli prima di tutto esige il prezzo del passaggio, poi con la sua barca di cuoio rattoppato traghetta i viaggiatori sull'altra riva. Anche tra i morti, dunque, vive l'avidità del guadagno, poiché quel famoso Caronte, l'esattore di Dite, un dio così rispettabile, non muove gratuitamente un dito; ma il povero che muore deve comunque provvedersi del denaro del traghetto, poiché, se non si presenta con l'òbolo in mano, non gli si dà il permesso d'esalare l'ultimo respiro. A questo vecchio sordido darai come nolo una delle monete che porti, però fa' in modo che egli la prenda dalla bocca tua con la sua stessa mano.

Inoltre, quando solcherai la pigra corrente, un vecchio bell'e morto, alzando le mani putrefatte, ti supplicherà di raccoglierlo nella barca, ma tu non ti lasciar commuovere. Laggiù la pietà è vietata dalle leggi".

19. "- Traversa il fiume, e quando ti sarai inoltrata un po' più avanti, delle vecchie tessitrici, intente a tessere la tela, ti domanderanno di dargli un piccolo colpo di mano; ma bada che la legge divina ti vieta di toccare la loro opera. Il fatto è che tutti questi e molti altri tranelli sono frutto di Venere: lei vuole che tu ti lasci cadere dalle mani almeno una focaccia. E non credere che perdere una focaccia d'orzo sia un danno da poco; se tu ne perdessi una, non potresti assolutamente più vedere la luce del sole. Difatti, un cane gigantesco, fornito di tre teste enormi, orribile e spaventoso a vedersi, emette dalle sue fauci dei latrati che scoppiano come tuoni, e riempie di terrore i morti; è questo un vano terrore, perché egli ai morti non può più causare alcun male, ma così fa la guardia di continuo dinanzi alla soglia e al fosco atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite. Ma basta che tu gli getti una focaccia sola, e diventerà subito mansueto; allora potrai facilmente passare e inoltrarti direttamente sino al cospetto di Proserpina. Lei ti riceverà con cortese benignità, ti inviterà a sederti comodamente e ti offrirà un'abbondante colazione. Ma tu, invece, siediti per terra, fatti portare un tozzo di pane scadente e mangialo, poi informala del motivo della tua venuta e prendi ciò che ti verrà presentato. Al ritorno, per liberarti da quel cane feroce, buttagli la focaccia che ti resta, e dai all'avido nocchiero la moneta che hai in serbo. Una volta varcato il fiume, ricalca le orme del viaggio d'andata, e tornerai a vedere il cielo con il corteo delle sue stelle. Ma in special modo ti raccomando di far attenzione a una cosa: non aprire, non guardar dentro la scatola che porti, e comunque non permetterti eccessiva curiosità riguardo al tesoro di divina bellezza che vi è nascosto".

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20. "Così la torre, munita della preveggenza, adempì alla sua funzione d'oracolo. E Psiche non indugiò, ma si diresse verso il Tenaro. Si fornisce, nel modo prescritto, delle monete e delle focacce, e corre giù per l'infernale corridoio. Senza parlare, passa davanti all'asinaio infermo, dà al pilota il prezzo del passaggio, non si cura del morto che nuota alla superficie e delle sue suppliche, sdegna le insidiose preghiere delle tessitrici, con l'offerta d'una focaccia addormenta il cane rabbioso e orrendo, e infine penetra nella dimora di Proserpina.

Qui non accetta la soffice poltrona e il ricco pasto che l'ospitale dea le offre, ma si siede in terra ai suoi piedi e, contentandosi di pane scadente, espone l'ambasciata di Venere.

Subito la dea, in disparte, le riempie la scatoletta e la chiude.

Psiche la prende, con l'astuta offerta della seconda focaccia sbarra la bocca al cane e ai suoi latrati, offre al nocchiero la moneta che le resta, e ritorna su dall'inferno molto più arzilla che all'andata.

Nel rivedere la fulgente luce di quassù, fa atto di adorazione, poi, pur avendo fretta di portare a termine il suo compito, si lascia invadere da un'irragionevole curiosità:- Ecco qua! - esclama. - Che sciocca sono, a portare un dono di divina bellezza senza gustarne neppure un po'. Almeno così potrò piacere al mio amante!"

21. "E questo detto, apre la scatoletta. Ma dentro non c'era niente, e di bellezza neppure l'ombra. C'era solo un sonno infernale, un sonno davvero degno dello Stige, che, appena libero del coperchio, la assalì: una densa nube gravida di sonno le avvolse le membra e si impadronì di lei, e Psiche cadde a terra proprio sulla via, nel luogo stesso dove aveva posato il piede. E così la giovane giacque immobile, in tutto simile a un cadavere sepolto nel sonno della morte.

Intanto Amore era convalescente e la ferita rimarginata. Non riuscendo più a sopportare la continua mancanza della sua Psiche, fugge via attraverso una finestra che si apriva molto in alto nella camera in cui era rinchiuso. Le sue ali avevano ripreso vigore durante il tempo del suo riposo, così egli, volando con la massima rapidità, accorse presso la sua Psiche. Premurosamente le deterge il sonno e lo richiude nella scatoletta in cui prima era contenuto, poi sveglia

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Psiche, pungendola, senza farle alcun male, con una delle sue saette, e le dice:- Ecco, poverina! Anche questa volta eri caduta vittima della tua curiosità. Ad ogni modo, affrettati di portare a termine l'incarico che ti ha affidato mia madre. Il resto me lo vedrò io.

Così parlò l'amante, e si librò in volo sulle sue ali; e Psiche si affrettò a riportare a Venere il dono di Proserpina".

22. "Ma Cupido, consunto dall'eccesso del suo desiderio, era triste in volto e molto preoccupato per l'improvvisa austerità di sua madre. Ritorna perciò alle sue vecchie abitudini, e con rapido volo penetra sino al punto più alto del cielo e lì si getta supplichevole ai piedi del grande Giove, per difendere davanti a lui la sua causa. Allora Giove lo prende per la gota e, attirandolo con la mano accosto al volto suo, lo bacia e così gli parla:- Signor figlio, è ben vero che tu non mi hai mai reso quell'omaggio che gli dèi hanno decretato di concedermi. Anzi, tu più volte hai ferito con i tuoi colpi questo mio cuore che regola le leggi della natura e i moti degli astri, e di frequente lo hai avvilito al contatto di avventure e amori terreni; inoltre, contravvenendo alle leggi, e precisamente alle disposizioni Giulie, e in barba alla pubblica morale, mescolandomi a turpi adulteri, hai leso il mio onore e la mia reputazione, trasformando la maestà del mio volto nello spregevole aspetto d'un serpente, di una fiamma, d'una belva, d'un uccello e di una bestia da gregge.

Eppure, considerando che tu sei cresciuto proprio tra le mie braccia, io farò tutto ciò che desideri. Bada però di mettere in guardia quelli che eventualmente ti volessero imitare; e se poi ora sulla terra esiste qualche ragazza davvero bellina, ricordati che tu, in cambio del beneficio che ti rendo, sei in obbligo di offrirmela".

23. "Così parlò Giove, e diede ordine a Mercurio di convocare immediatamente in assemblea plenaria gli dèi e di rendere noto che era comminata una multa di diecimila sesterzi per chi avesse disertato l'adunanza. In seguito a questa minaccia, subito il teatro si riempì delle celesti riunioni, e Giove, che dal trono elevato in cui sedeva dominava gli astanti, tenne questo discorso:- O dèi iscritti nell'albo delle Muse, certo tutti sapete che questo giovane io l'ho allevato con le mie mani. Nella sua prima giovinezza ho creduto bene di dover mettere un freno ai suoi impetuosi ardori: basta già che la gente chiacchieri, e che adultèri e scandali di tutti i generi ogni giorno compromettano la sua reputazione. Ma occorre ora levargli ogni pretesto di fare male; occorre frenare la sua giovanile esuberanza con il legame del matrimonio.

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Egli si è scelto una ragazza e le ha tolto la verginità. Dunque se la tenga, la possegga, abbracci la sua Psiche e goda eternamente del suo amore.

E, rivolto a Venere, esclama:- E tu, figlia mia, non affliggerti e non temere che un matrimonio con una donna mortale possa recar danno al rango del tuo illustre casato. Io farò immediatamente in modo che queste nozze non avvengano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile -; e subito dà ordine a Mercurio di andare a prendere Psiche e di condurla in cielo.

Appena lei giunse, le tese un bicchiere colmo di ambrosia e le disse:- Prendi, Psiche, e sii immortale. Mai Amore ripudierà il vincolo che a te lo unisce. Da oggi voi siete uniti in matrimonio per l'eternità".

24. "Subito viene servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo, stringendo Psiche al suo petto, era sdraiato sul letto d'onore.

Parimenti lo erano Giove e Giunone, e poi in ordine tutti gli altri dèi. A Giove la coppa del nettare, che è il vino degli dèi, veniva offerta dal suo coppiere particolare, quel ragazzotto di campagna (N.d.t: Ganimede); Bacco serviva gli altri dèi; Vulcano cuoceva il pranzo; le Ore abbellivano ogni angolo con rose e ogni sorta di fiori; le Grazie spargevano profumi, e le Muse facevano echeggiare la loro voce armoniosa. Poi Apollo cantò accompagnandosi sulla cetra, Venere si esibì in una leggiadra danza, seguendo il ritmo d'una musica soave, e nell'orchestra che lei s'era preparata le Muse cantavano in coro, un Satiro suonava il flauto, un Panisco soffiava nella sua zampogna. Così, secondo il rito prescritto, Psiche sposò Amore e nacque al termine giusto una figlia che noi chiamiamo Voluttà".

25. Queste favole raccontava alla giovane prigioniera la vecchia stravagante e avvinazzata. Ma io, che assistevo là vicino, ero dispiaciuto, perbacco, di non avere né la tavoletta né lo stilo, per prendere nota d'una favola così bella.

Ecco che in quell'istante, da non so quale aspro combattimento, ritornano i banditi carichi di preda. Alcuni tuttavia, i più animosi, lasciano a casa i feriti a curarsi, e si mostrano impazienti di andare a prendere il resto del bottino, che era nascosto, a quanto dicevano, in una certa caverna. Inghiottita in fretta e furia la colazione, ci spingono fuori in cammino a bastonate, me e il cavallo: dovevamo servire a trasportare quel carico, e, infatti, dopo averci

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stancato in giri tortuosi sulle pendici dei monti, verso sera ci fanno fermare davanti a una caverna. Qua ci caricano d'una quantità d'oggetti e, senza neppure lasciarci un istante di respiro, ci riconducono velocemente indietro. Tanta era la loro smania di far presto, e tanto fitte piovevano le legnate con cui mi spingevano innanzi, che finirono per farmi cadere su un sasso posto di fianco al sentiero; di lì, sempre a forza di bastonate, mi costrinsero ad alzarmi, che a mala pena mi reggevo in piedi, poiché avevo la gamba destra e lo zoccolo sinistro offesi.

26. Allora uno dei banditi esclamò:"E' ora di finirla di dar da mangiare a ufo a quest'asino scassato che ora, per giunta, è pure zoppo".

E un altro esclama:"E non contate il fatto che ci ha portato in casa il malocchio? Da quando è arrivato, non abbiamo ricavato alcun utile degno di nota, a parte le ferite e la morte dei compagni più valorosi".

E un terzo, a sua volta:"Per conto mio, appena mi avrà trasportato questa soma (e non ne ha la minima voglia), sono deciso a gettarlo senz'altro in un burrone. Sarà un cibo squisito, per gli avvoltoi".

Mentre quegli individui così pietosi discorrevano della mia morte, eravamo già arrivati a casa: infatti, la paura mi aveva messo le ali ai piedi. In fretta e furia ci sgravano del bagaglio e, senza darsi pensiero della nostra vita e neppure della mia morte, in compagnia degli altri che prima erano rimasti a casa a curarsi le ferite, ripartono per trasportare il resto personalmente; erano infatti stufi, così almeno dicevano, della nostra lentezza. Dal canto mio, ero in un bell'impiccio, e pensavo alla morte che mi era stata minacciata, e dicevo tra me:"A cosa indugi, o Lucio? O che attendi, il colpo di grazia? I banditi hanno deliberato di darti la morte, e per di più una morte orribile. Né c'è bisogno di faticare tanto! Ecco delle rupi. Tu puoi vedere come sono vicine e come da esse sporgono aguzze punte di pietra. Queste ti traverseranno da parte a parte e ti faranno a pezzi prima ancora che tu tocchi il fondo. Infatti, quella tua magia, tanto famosa, ti ha concesso solo l'aspetto e le fatiche dell'asino, ma la pelle di cui ti ha rivestito non è spessa come il cuoio asinino, è invece sottile come la membrana d'una sanguisuga. Perché, dunque, non prendi il coraggio a due mani e non provvedi, finché c'è tempo, a salvarti? Eccoti un'occasione bellissima per fuggire. I ladroni sono partiti. Hai forse timore della sorveglianza d'una

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vecchia a due passi dalla tomba? Ma se puoi benissimo finirla con un sol calcio, anche usando il piede zoppo! Dove, però, indirizzare la fuga? E chi ti darà rifugio?Questo è davvero un dubbio sciocco e degno d'un asino. Quale viandante, infatti, se trovasse una cavalcatura, non la condurrebbe volentieri con sé?".

27. Subito con un violento strattone rompo la corda con cui ero stato legato, e me la batto fuggendo di corsa a quattro zampe.

Non potei però sfuggire alla vecchia maligna e ai suoi occhi da nibbio. Poiché, quando mi vide sciolto, con un'audacia superiore al suo sesso e alla sua età, mi afferrò per la cavezza, e cercò di farmi girare e di condurmi indietro. Ma io, che ricordavo bene le funeste intenzioni dei banditi, non mi lascio affatto turbare, e con le zampe di dietro le scarico addosso un paio di calci e la stendo senz'altro a terra.

Eppure, quella, benché giacesse sul terreno, si aggrappava tenacemente alla cavezza, sicché io, correndo innanzi, me la trascinai appresso per un bel tratto. Per di più, cominciò subito a urlare a gran voce e a implorare il soccorso di braccia più vigorose. Ma tutto fu inutile. Invano coi suoi pianti cercava di suscitare un assembramento, perché non c'era nessuno che potesse recarle aiuto, eccetto quella sola fanciulla prigioniera. Questa, richiamata dalle urla, corre fuori e vede una scena da teatro, degna, perbacco, d'essere ricordata: vede una Dirce vecchiotta appesa non a un toro ma a un asino, e, dando prova di virile intrepidezza, intraprende un bel gesto d'audacia. Strappa dalle mani della vecchia la cavezza, mi richiama alla calma sgridandomi dolcemente, sale in fretta a cavalcioni su di me e di nuovo mi sprona alla corsa.

28. Dal canto mio, sia per il mio particolare desiderio di fuggire, sia per la brama di liberare la giovane, sia anche perché ero stimolato dalle percosse che lei ogni tanto mi somministrava per incitarmi, con una velocità simile a quella d'un cavallo percuotevo con i miei quattro zoccoli il terreno e cercavo di inviare alla giovane dolci e lievi nitriti. E anche, facendo finta di volermi grattare il dorso, spesso voltavo il collo e baciavo i suoi bei piedini. Allora lei, traendo un profondo sospiro e volgendo al cielo il volto pieno d'angoscia, esclama:"Voi, dèi del cielo, recatemi una buona volta aiuto nell'ora del rischio supremo, e tu, Fortuna troppo crudele, cessa ormai d'infierire. Io ti ho dato ampia soddisfazione, con le disgrazie che mi hanno tormentato. Quanto a te, difensore della mia libertà e della mia vita, se tu mi porterai a casa sana e

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salva e mi renderai ai miei genitori e al mio bel pretendente, ti darò la mia riconoscenza più sincera, ti renderò gli onori più illustri, ti offrirò i cibi più squisiti. In primo luogo, pettinerò con garbo la tua criniera e l'adornerò con le mie collane di ragazza, poi arriccerò i crini della tua fronte e li dividerò con una leggiadra scriminatura, e i peli della tua coda, che ora sono irti e arruffati per mancanza di pulizia, li liscerò con ogni diligenza; disporrò a guisa di occhi sul tuo corpo delle borchie d'oro, così tu rifulgerai come se fossi cosparso di stelle celesti, e sarai portato in trionfo tra la letizia del popolo; ti porterò in un grembiale di seta noccioline e dolciumi, e ogni giorno avrò cura che a te, mio salvatore, sia ammannito cibo in quantità".

29. "Ma, oltre ai cibi raffinati, al riposo assoluto e alla felicità, di cui godrai tutta la vita, tu avrai anche onore e gloria. Io voglio tramandare con perpetua testimonianza la memoria della mia presente avventura e della provvidenza divina. Farò dunque dipingere in un quadro la scena di questa fuga, e lo consacrerò agli dèi nell'atrio del mio palazzo. La gente correrà a vedere, e la storia ingenua di una figlia di re, che fugge dalla prigionia a cavallo d'un asino, entrerà a far parte delle leggende, e io sarò assicurata in eterno dalle penne dei dotti:agli antichi miracoli si aggiungerà anche il tuo, e la realtà del tuo esempio ci indurrà a credere in Frisso che varca a nuoto i mari, in Arione che governava un delfino, e in Europa che è sdraiata sulla schiena d'un toro. E se è vero che Giove ha muggito in figura d'un toro, potrebbe anche nel corpo del mio asino nascondersi il volto d'un uomo o le sembianze d'un dio".

Mentre la ragazza esprimeva una dopo l'altra queste sue intenzioni, e alle promesse intramezzava sospiri, arrivammo a un incrocio. La giovane tirava la cavezza e cercava in ogni modo di farmi piegare a destra, poiché evidentemente in quella direzione si andava alla dimora dei suoi genitori. Ma io, che sapevo bene come i briganti si fossero diretti proprio da quella parte per andare a raccogliere il resto del bottino, recalcitravo ostinatamente, e nell'animo mio elevavo tacitamente queste lagnanze:"A che pensi, infelice ragazza? Che fai? Perché vuoi precipitarti all'Orco? Dove vuoi andare, con i miei piedi? Non solo te, ma anche me finirai per rovinare!".

Mentre in questo modo tiravamo ciascuno in direzione opposta e litigavamo, come se si trattasse d'una questione di confini per la proprietà d'un terreno o anche per la divisione d'una strada, ecco che ci sorprendono i banditi in persona, carichi delle loro prede.

Essi ci riconoscono già da lontano al chiarore della luna, e ci salutano con una

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risata di scherno.

30. E uno della banda grida al nostro indirizzo:"Oh! Quanta fretta! Dove andate cercando la strada, a lume di luna? Come mai nel cuore della notte sfidate i Mani e le Larve?Forse tu, una ragazza così costumata, hai fretta d'andar a trovare i tuoi genitori? Ma noi, visto che sei sola, intendiamo offrirti il nostro aiuto e indicarti una via più corta, per recarti dai tuoi!".

Detto fatto, mi afferra per la cavezza, mi fa girare all'indietro e mi distribuisce, contemporaneamente, la consueta razione di bastonate con un nodoso randello che aveva con sé. A questo punto io, non tenendoci affatto a ritornare indietro a morte sicura, mi ricordo dello zoccolo offeso e comincio a zoppicare, il capo ciondoloni. Ma quello che mi aveva tratto indietro, esclamò:"Ecco qua! Di nuovo barcolli e tentenni? Queste tue zampe da carogna possono, dunque, correre in fuga, ma non riescono a camminare? Eppure, poco fa battevi in velocità l'alato Pegaso!".

Mentre l'amico, agitando il bastone, piacevolmente si faceva beffe di me, eravamo già arrivati al recinto esterno che proteggeva la dimora dei briganti; ed ecco che ci appare la vecchia penzolante dal ramo d'un alto cipresso mediante un cappio che si era annodata al collo. I briganti la staccano, e direttamente, così com'era legata con la sua corda, la precipitano in un burrone; legano poi la ragazza per le braccia, e si gettano, come belve affamate, sul pranzo che la disgraziata vecchia aveva preparato con postuma diligenza.

31. Mentre addentavano e divoravano con avidità ogni pietanza, cominciavano già a discutere tra loro sul modo di castigare noi e vendicare se stessi. Come succede in un'assemblea irrequieta, diverse furono le opinioni: uno voleva bruciare viva la ragazza, un altro consigliava di darla in pasto alle belve, un terzo esortava a inchiodarla alla croce, un quarto raccomandava di farla a brani con le torture. Comunque andasse, il voto unanime era che la si condannasse a morte.

Allora uno, fatti zittire tutti, così iniziò a parlare con molta calma:"Non sta bene, se teniamo conto dei princìpi della nostra associazione, della mitezza di ciascuno di voi e anche del mio senso di moderazione, permettere che voi adottiate un castigo troppo crudele, che vada al di là del fallo commesso. Sarebbe eccessivo far ricorso alle fiere, alle croci, alle fiamme, alle torture, come pure richiamare in anticipo su di lei le tenebre della morte, uccidendola

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immediatamente. Perciò, se darete retta al mio consiglio, a questa ragazza voi farete dono della vita, ma della vita che si merita. Certo, non avete ancora perso del tutto il ricordo delle decisioni che poco fa prendeste riguardo a quest'asino; costui, oltre a essere un eterno fannullone e un mangione potente, è per di più un bugiardo, che poco fa fingeva d'essere zoppo, però aiutava e favoriva la fuga della ragazza.

Propongo, dunque, di tagliargli domani la gola e, dopo avergli tolto accuratamente i visceri, di cucirgli dentro il ventre, nuda, la giovane che esso ci ha preferito; ma il volto solo deve sporgere, il resto del corpo deve essere chiuso nel bestiale involucro; propongo, infine, di deporre sopra una rupe l'asino gonfio come una salsiccia e di lasciarlo esposto alla vampa ardente del sole".

32. "In questo modo, tutt'e due subiranno interamente le pene che giustamente volete infliggergli. L'asino, la morte che da un bel pezzo si merita; la giovane, il morso delle fiere quando i vermi roderanno le sue membra, il tormento del fuoco quando il sole con le fiamme dei suoi raggi appiccherà l'incendio alla pancia dell'asino, lo strazio della croce quando i cani e gli avvoltoi le trarranno fuori dal ventre le viscere. Ma non basta! Fate anche il calcolo dei tormenti che le rimangono da sopportare: ancora viva, dovrà abitare nel ventre d'un animale morto; il fetore della putrefazione, penetrando attraverso le narici, la soffocherà; il lungo digiuno la farà languire di fame sino a ucciderla; e lei non potrà neppure far uso delle proprie mani per darsi la morte".

Così egli parlò, e i banditi, senza muoversi dal loro posto, ma con entusiasmo unanime abbracciarono il suo parere. E io, che ascoltavo con le mie lunghe orecchie, che altro potevo mai fare, se non piangere al pensiero che all'indomani sarei stato un cadavere?

LIBRO 7

1. L'alba del nuovo giorno aveva appena allora scosso via le tenebre e il lucente cocchio del sole illuminava il creato, quando giunse un tale che apparteneva alla compagnia dei briganti, a quanto dimostrava la cortesia con cui

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si scambiarono il saluto.

Egli si sedette sul limitare della caverna, tutto affannato, e, ripreso fiato, comunicò ai suoi colleghi queste notizie:"Per quanto riguarda il palazzo di Milone di Ipata, cui abbiamo dato recentemente il sacco, possiamo stare sicuri e liberi d'ogni preoccupazione. Mentre voi, dopo aver fatto piazza pulita con impeto audace, ritornavate al nostro accampamento, io mi mescolai alla folla del popolo. Fingendo di provare dolore e sdegno, osservavo quale deliberazione si adottasse per fare indagini sull'accaduto, se e sino a qual punto si decidesse di cercare gli autori della rapina, e mi proponevo di riferirvi il tutto, secondo le istruzioni ricevute. E non con argomenti dubbi, ma basandosi su ragioni plausibili, tutti erano d'accordo nell'accusare come manifesto autore del fatto criminoso un tale Lucio, non meglio identificato. Costui, nei giorni precedenti, con false lettere di raccomandazione aveva fatto credere a Milone d'essere un onest'uomo, e aveva saputo così bene renderselo amico che era stato da lui ospitato e annoverato fra gli intimi. In quella casa aveva dimorato per parecchi giorni, e con false dichiarazioni d'amore era riuscito a entrar nelle grazie d'una serva di Milone; aveva così potuto esaminare attentamente le serrature e osservare con cura anche le parti della casa in cui Milone riponeva abitualmente tutte le sue sostanze".

2. "Un grave indizio della colpevolezza di quell'infame era indicato nel fatto che quello era fuggito la stessa notte, proprio al momento del delitto, e non si era più fatto vedere da nessuna parte. Inoltre, aveva facilmente trovato un mezzo adatto alla fuga, per eludere più rapidamente i suoi inseguitori e spostar sempre più lontano il suo nascondiglio, portandosi via il cavallo bianco, per servirsene da cavalcatura. E' vero che lì stesso, in casa di Milone, era stato catturato il suo schiavo e lo si era rinchiuso nella prigione pubblica a disposizione dei magistrati, come persona che avrebbe potuto svelare i malvagi disegni del suo padrone; ma il giorno dopo, costui, benché sottoposto in più modi alla tortura e straziato sin quasi a morirne, non aveva fatto alcuna confessione sulla faccenda. Erano stati, inoltre, inviati nella patria di quel tale Lucio numerosi investigatori, incaricati di svolgere un'inchiesta sul reo, onde fargli pagare il fio del delitto".

Mentre costui parlava, io facevo il paragone tra l'antica prosperità e la presente sciagura, tra quel beato Lucio di ieri e l'asino infelice di oggi. All'affanno interno si mescolava poi il pensiero che non per nulla i vecchi sapienti dell'antichità avevano immaginato e detto che la Fortuna è cieca e completamente priva d'occhi: essa, infatti, attribuisce sempre i suoi favori ai malvagi e agli indegni, e non sceglie a ragion veduta nessuno dei mortali, anzi preferisce la compagnia di tali che, se li vedesse, dovrebbe fuggire lontano; ma

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il colmo è che in modo così vario, addirittura contraddittorio, determina la stima di cui godiamo, che il malvagio si adorna della fama che spetterebbe all'uomo dabbene, e, al contrario, chi è del tutto innocente sottostà alle pene dei colpevoli.

3. Per concludere, non solo il crudelissimo assalto della Fortuna mi aveva mutato in una bestia, e per giunta in un quadrupede d'infimo rango (sicché anche l'uomo più ingiusto avrebbe dovuto verosimilmente compiangere e commiserare la mia sorte), ma venivo pure accusato di grassazione ai danni d'un ospite a me carissimo.

Un crimine, questo, che si sarebbe detto più giustamente parricidio oltre che ladrocinio; eppure, non avevo la possibilità né di difendere la mia causa né di pronunciare una parola sola di diniego. Alla fine, perché il mio silenzio non fosse interpretato come segno di cattiva coscienza e non sembrasse che io confermassi con la mia presenza un'imputazione così infame, io, non potendone più, cercai solo di esclamare:"Non ho fatto niente! ...".

La prima parola, con un grande urlo, la gridai ripetutamente una e più volte, ma le successive non riuscii in alcun modo a proferirle, e pur aprendo e agitando smisuratamente in circolo le mie labbra pendenti, rimasi fermo alla prima sillaba, e ripetei continuamente, con grande schiamazzo: "No, no...".

Ma a che valgono le mie lagnanze sull'ottusità della Fortuna, se essa non si è nemmeno vergognata di farmi compagno e congiunto in servitù con quel cavallo che mi serviva da ronzino?4. Mentre mi dibattevo in questi pensieri, mi assalì un'altra preoccupazione, ancora più grave. Mi ricordai che i briganti avevano stabilito di sacrificarmi ai Mani della vergine, e ripetutamente, guardando in basso, già m'immaginavo di dare alla luce quella povera ragazza. Ma quello che poco prima aveva riportato sul mio conto un falso avviso, tirò fuori mille monete d'oro che teneva nascoste nelle cuciture della veste; disse di avere derubato parecchi viandanti e di volerle onestamente versare nella cassa comune.

Comincia poi a informarsi con interesse della salute dei compagni d'arme, e viene a sapere che alcuni, e per giunta i più valorosi, erano periti a causa di vari incidenti, ma sempre da uomini forti.

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Consiglia allora di lasciar tranquille per un po' le strade maestre e di porre tregua a ogni spedizione.

Piuttosto, diceva, era tempo di darsi alla ricerca di compagni e, col reclutamento di giovani freschi, ridare alla banda un vigore marziale, riconducendola all'organico primitivo: si poteva, infatti, costringere con la forza i riottosi, e allettare con premi quelli che mostrassero inclinazione: poiché non pochi erano disposti a rinunciare a una vita di stenti e di fatiche, per abbracciare la loro condizione, che offriva possibilità pari a quelle d'un re. Per conto suo, egli si era imbattuto poco prima in un giovanotto d'alta statura, grande di corpo e pronto di mano, e a forza di consigli era riuscito a persuaderlo a volgere a miglior frutto le braccia arrugginite per la lunga inattività; lo aveva esortato a profittare, finché poteva, dei vantaggi di un'ottima salute, e a non tendere la mano a elemosinare, ma piuttosto a valersene per arraffare dell'oro.

5. Queste parole riscossero il consenso generale. Subito decidono che sia introdotta la recluta, di cui sembrava già provata la capacità, e che ne siano ricercate altre per completare gli effettivi. Quello, allora, esce, e dopo breve assenza riconduce con sé un giovane.

Costui era un tale gigante, proprio come il bandito aveva promesso, che non so se tra i presenti qualcuno avrebbe potuto stargli alla pari: infatti, oltre al resto del corpo, che era fuori misura, sopravanzava d'una buona testa tutti quanti, e la barba cominciava da poco ad insinuarsi sulle sue guance. Portava però un vestito fatto di pezze di vari colori mal cucite, che appena appena lo copriva, tanto che qua e là si intravedeva la spessa muscolatura del petto e del ventre. Appena introdotto, egli esclamò:"Salve, o valorosissimi clienti del dio Marte, da oggi miei fidi compagni d'arme! Volentieri accogliete un uomo di coraggio e d'azione che volentieri viene tra voi, un uomo che è più pronto a ricevere le ferite nel corpo che l'oro nella mano, un uomo superiore persino alla morte che è lo spavento dei più. E non stimatemi bisognoso o persona da poco, né calcolate le mie qualità da questi stracci: difatti, io ho comandato un'audacissima banda e ho svaligiato l'intera Macedonia. Io sono il famoso Emo, nativo della Tracia, e, a sentire il mio nome, inorridiscono intere province. Mio padre fu Terone, anche lui brigante famoso: fui nutrito con sangue umano e fui allevato tra i manipoli stessi della sua banda, erede ed emulo del paterno valore".

6. "Purtroppo, in un breve volger di tempo ho perso tutti i miei vecchi compagni, che erano molti e valorosi, e tutte le sostanze che avevo. Infatti,

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passava di lì un procuratore imperiale, che godeva d'uno stipendio di duecentomila sesterzi al mese e poi, caduto in disgrazia, era stato destituito, e io per mia sfortuna lo avevo assalito. Ma è bene raccontare con ordine, per meglio conoscere i fatti.

C'era alla corte di Cesare un funzionario che si era brillantemente distinto nei suoi molti incarichi, al punto da godere la stima particolare dell'imperatore. Ma la rabbiosa gelosia di alcuni cortigiani, che lo avevano malignamente calunniato, fece sì che egli fosse cacciato in esilio. Sua moglie, una certa Plotina, donna di una fedeltà e di una pudicizia più unica che rara, la quale sostenendo ben dieci parti, aveva assicurato un solido fondamento al casato, disprezzò le raffinatezze e il fasto della città, e volle partecipare alla disgrazia e all'esilio del marito. Tagliatasi la chioma, in cambio dei suoi vestiti ne indossò altri di foggia maschile e si cinse la vita di cinture che aveva riempito con i suoi monili più preziosi e con monete d'oro; in questa foggia se ne stava intrepida in mezzo alle squadre e alle spade nude dei soldati di guardia e, vegliando insonne sull'incolumità dello sposo, sopportava ogni travaglio con maschia risolutezza. In quel momento, dopo aver affrontato per terra difficoltà d'ogni sorta e per mare i terrori della navigazione, erano diretti a Zacinto, che per un fatale decreto era stata assegnata all'esule come residenza provvisoria".

7. "Quando egli approdò alla spiaggia di Azio, noi, calati dalla Macedonia, eravamo intenti a taglieggiare il paese. Nel cuore della notte, mentre essi, per evitare le onde del mare, riposavano in una locanda vicinissima al lido dov'era ancorata la nave, noi facciamo irruzione e mettiamo tutto a ruba. Tuttavia, grave fu il rischio che corremmo nel ritirarci, perché la signora, al primo rumore che sentì alla porta, si precipitò nella stanza e, gridando, mise tutti in allarme: e non solo chiamava per nome i soldati e i servi, ma pure invocava al soccorso tutto il vicinato.

Potemmo tuttavia ritirarci senza perdite, poiché tanta era la paura, che ognuno, temendo per la sua vita, correva a nascondersi.

Ma ben presto quella virtuosissima signora (bisogna infatti dire la verità) e impareggiabile moglie, cara a tutti per le sue buone qualità, tanto pregò la divinità di Cesare, che ottenne per il marito un pronto richiamo e un completo castigo per gli aggressori. Per concludere, Cesare volle che la banda del brigante Emo cessasse di esistere, e immediatamente essa cessò; tanto può il solo desiderio d'un grande principe. Tutta la mia banda fu sgominata ed eliminata nei rastrellamenti eseguiti dai distaccamenti militari; io solo a

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stento me la svignai di mezzo le fauci dell'Orco, e riuscii a salvarmi in questo modo".

8. "Indossai una veste femminile a fiorami che cascava in molli pieghe, mi coprii il capo con una piccola mitra di stoffa, e calzai delle scarpe da donna candide e sottili. Era difficile che mi riconoscessero, nascosto com'ero sotto sembianze femminili; e difatti, stando cavalcioni su un asinello che portava un carico d'orzo, attraversai le schiere dei soldati nemici. In effetti essi, credendo che si trattasse della moglie di qualche asinaio, mi concedevano il permesso di andarmene, tanto più che allora le mie guance erano senza l'ombra di peli e conservavano ancora la morbidezza e il fresco colorito dell'infanzia. Tuttavia non ho fatto torto né alla gloria di mio padre, né al mio personale valore. Anzi, sebbene la vicinanza delle spade sacre a Marte mi incutesse un certo turbamento, pure, dissimulandomi sotto la maschera d'un abito non mio, ho assalito da solo ville e castelli, e mi sono fatto un gruzzoletto per i miei viaggi," - e slacciando contemporaneamente i suoi cenci, ne estrasse dinanzi a tutti duemila monete d'oro; poi proseguì:"Eccovi un piccolo dono, o per dir meglio, una dote che io volentieri verso per essere ricevuto nella vostra associazione.

Egualmente, sempre che voi siate d'accordo, mi offro a voi come capitano. Io non verrò meno alla vostra aspettativa, e vi prometto che in breve tempo farò di questa dimora di pietra un palazzo d'oro".

9. I ladroni non perdono tempo in indugi, ma con voto unanime gli attribuiscono il comando, gli portano un abito più decoroso e lo invitano a indossarlo e a spogliarsi dei suoi stracci variopinti, anche se portatori di ricchezze. Pareva, così, un altro uomo; e, dopo aver baciato tutti uno per uno, fu posto sul letto d'onore e consacrato con un lauto pranzo e una ricca bevuta.

Egli, intanto, dai reciproci discorsi viene a sapere della fuga della giovane, il modo con cui le ero servito da cavalcatura, e l'orrenda morte alla quale eravamo entrambi condannati; chiede allora dove fosse la giovane, e si fa condurre da lei. E appena l'ebbe vista, carica com'era di catene, arricciò il naso a significare il suo biasimo, se ne tornò e disse:"Non sono certo così stolido e neppure così avventato da oppormi alla vostra decisione. Tuttavia, dovrei sostenere in me il peso del rimorso, se vi nascondessi il mio parere. Ma abbiate fiducia in me, poiché io mi preoccupo del vostro interesse, e del resto, se il mio parere non vi piacerà, potrete sempre fare ricorso all'asino. Difatti, sono del parere che dei banditi, quelli almeno di loro che hanno cervello, debbano mirare solo al proprio utile, sia pure se si

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tratti d'una vendetta, tanto più che essa spesso ricade su chi la compie. Dunque, se farete perire la giovane, chiudendola nell'asino, darete soddisfazione al vostro sdegno, ma non ne ricaverete alcun profitto. Invece io propongo di portarla in qualche città e di venderla. Giovinetta com'è, sarà facile venderla all'asta e anche con un forte guadagno. Del resto, io sono già da tempo in relazione personale con dei lenoni; qualcuno di loro acquisterà certamente questa giovane, e credo che pagherà, anche un bel po' di talenti, come si conviene alla sua nascita. In questo modo, costei entrerà in un postribolo da dove non potrà più lanciarsi in fughe del genere, e, confinata schiava in un lupanare, offrirà anche qualche piccola soddisfazione alla vostra sete di vendetta. Questo è appunto il parere che mi detta il mio animo, ed è per voi vantaggioso. Ma a parte ciò, siete voi i padroni delle vostre decisioni e dei vostri beni".

10. In questo modo egli, divenuto l'avvocato fiscale dei banditi, si era preso a cuore la nostra causa e abilmente salvò dalla morte la giovane e l'asino. Tuttavia, la discussione tra gli altri fu lunga, e il ritardo con cui fu presa la decisione faceva soffrire all'animo mio le pene dell'inferno, anzi mi strappava la vita goccia a goccia.

Finalmente, i briganti adottano il parere del nuovo arrivato e contemporaneamente sciolgono la ragazza. Il bello è che essa, visto il giovane e sentendolo parlare di postriboli e di lenoni, s'era messa a ridere con tanta esultanza, che mi era venuto giustamente a schifo tutto il sesso femminile.

Vedevo, infatti, che una ragazza, che sino a poco prima fingeva d'essere innamorata del suo giovane fidanzato e di rimpiangere le sue caste nozze, ora d'un tratto si ringalluzziva a sentir nominare una sudicia e miserabile casa di tolleranza. Fatto sta che, così, l'intero sesso femminile e la sua moralità venivano a dipendere dal giudizio d'un asino.

Frattanto il giovane riprese il discorso:"Perché non ci sbrighiamo a offrire un sacrificio a Marte Comes?Più tardi andremo a vendere la ragazza e ad arruolare nello stesso tempo nuovi compagni. Ma, a quanto vedo, non abbiamo qui bestie da sacrificare e neanche vino da bere in abbondanza o almeno a sufficienza. Datemi, perciò, dieci compagni: mi bastano per assalire il castello più vicino, e vi prometto di provvedervi d'un banchetto degno di Salii".

Con tali parole egli parte, e gli altri apparecchiano un gran fuoco ed erigono

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un altare di verdi zolle al dio Marte.

11. Poco dopo, essi fanno ritorno portando otri di vino e spingendo innanzi greggi di bestie; tra queste scelgono un grosso montone con molti anni sulla groppa e col pelo arruffato, e lo sacrificano a Marte Secutor e Comes. Subito dopo, viene apprestato uno splendido convito. A questo punto l'ospite di fresco venuto riprende a parlare:"Non solo in occasione di saccheggi e di rapine voglio che vi accorgiate d'avere un generale che sa il fatto suo, ma pure quando si tratta di darsi al bel tempo", e, messosi all'opera con grande speditezza e diligenza, dà ordine a tutto. Spazza, apparecchia, fa il cuoco, dispone la carne, serve a tavola con arte, ma soprattutto li riempie uno per uno di vino, mescendo ampi e frequenti bicchieri.

Intanto, fingendo d'andare a prendere ciò di cui aveva bisogno, si avvicinava di frequente alla giovane e le offriva allegramente porzioni che aveva sottratto di nascosto e bicchieri che egli assaporava per primo. La ragazza accettava con molto appetito, e anche provava gusto di quando in quando a dare e a ricevere baci senza farsi pregare.

Questo armeggio non mi piaceva affatto.

"Ma come? Tu, una ragazza ancora vergine, ti sei dimenticata delle nozze e dell'innamorato che ti amava e che tu amavi? A uno sposo, non importa che io non lo conosca, al quale i tuoi genitori ti avevano appena unito, preferisci questo sconosciuto, un bandito con le mani sporche di sangue? E la coscienza non ti rimorde? E provi piacere a calpestare ogni affetto e a fare la prostituta, qui, tra le lance e le spade? Che accadrebbe se gli altri ladroni, metti caso, se ne accorgessero? Di nuovo farai ricorso all'asino?Di nuovo mi metterai nei pasticci? Davvero tu giochi con la pelle degli altri!".

12. Ma mentre, al colmo dello sdegno, ragionavo con me stesso con occhi da delatore, ecco che da certe frasi equivoche, ma non oscure per un asino munito di ragione, vengo a sapere che quello non era Emo, il famoso brigante, ma Tlepolemo, il promesso sposo della ragazza stessa. Difatti, nel corso della conversazione, lui, con voce un po' più chiara e senza tener conto della mia presenza non più che se fossi un cadavere, disse:"Abbi coraggio, mia dolcissima Carite, che tra poco tutti questi tuoi aguzzini te li presenterò prigionieri".

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Si rimette poi all'opera con rinnovato zelo e continua a far bere (ma lui non beveva) i banditi, che ubriachi fradici avevano perso ogni forza; mesceva ora vino puro, dopo averlo per giunta leggermente intiepidito al calore del fuoco. E, perbacco, mi venne il sospetto che egli mescolasse nei boccali un qualche sonnifero.

Alla fine tutti, ma dico proprio tutti, giacevano sepolti nel vino, tutti quanti cadaveri. Allora lui, senza incontrare resistenza alcuna, li lega con più giri di fune come salami, secondo come gli garbava, fa salire la ragazza sulla mia schiena, e si avvia in direzione della sua città.

13. Appena arrivammo, tutta quanta la cittadinanza si riversò fuori per godersi uno spettacolo che esaudiva i suoi voti. Innanzi a tutti corrono i prossimi congiunti, i parenti, i clienti, i domestici, i servi, con la letizia dipinta sul volto ed esultanti di gioia.

Era davvero uno spettacolo memorabile, vedere una folla di persone d'ogni età e d'ambo i sessi accompagnare in corteo una giovane portata in trionfo su di un asino. Alla fine, anch'io per parte mia ero diventato più allegro: per assumere un'aria adatta e non sembrare estraneo al momento, tesi le orecchie, gonfiai le narici e diedi in un raglio così sonoro, che esso rimbombò col clamore del tuono.

Intanto i parenti avevano condotto la giovane nella sua stanza e le prestavano le cure del caso. In quanto a me, Tlepolemo mi riportò subito indietro con una gran folla di cittadini e di bestie da soma. Questo mi fece piacere, perché, oltre a essere curioso di natura, era allora desideroso di assistere personalmente alla cattura dei banditi.

Li sorprendemmo appunto mentre erano ancora impacciati dal vino, più che dalle funi. Tutto ciò che si poté scoprire fu portato alla luce del sole e caricato sulla nostra schiena: l'oro, l'argento e tutto il resto. In quanto ai banditi, alcuni, legati com'erano, li rotolarono fuori e li precipitarono nei vicini burroni, gli altri invece, li trucidarono con le loro stesse armi e li abbandonarono sul posto.

Pienamente soddisfatti di questa vendetta, ce ne tornammo in città. Le ricche prede furono affidate in custodia ai magistrati pubblici e la recuperata giovane

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assegnata in matrimonio a Tlepolemo, secondo le forme legali.

14. Da quel momento la sposa non fece che chiamarmi suo salvatore, ed ebbe per me la massima cura. In particolare, il giorno del matrimonio, dietro suo ordine, la mangiatoia mi fu riempita abbondantemente d'orzo e mi fu servito fieno in quantità tale, che poteva bastare per un cammello della Battriana.

Ma quali furono le meritate imprecazioni e maledizioni che indirizzai a Fotide, per avermi cambiato non in cane, ma in asino!Vedevo infatti tutti i cani farsi il gozzo sino a scoppiare, con gli avanzi di quello splendido banchetto e con le razioni che riuscivano a sgraffignare.

Passata la prima notte in cui era stata iniziata all'amore, la novella sposa non desisteva dal ricordare ai parenti e al marito di dovermi la massima riconoscenza, cosicché essi le promisero di rendermi i più grandi onori.

Convocano alla fine gli amici intimi e si delibera sulla maniera migliore di offrirmi una ricompensa degna del mio merito. Uno consigliava di tenermi chiuso in casa a non far niente e a ingrassarmi con orzo scelto, fave e vecce; ma la spuntò un altro che voleva che io godessi della mia libertà. Li persuase a lasciarmi piuttosto correre per la campagna e sbizzarrirmi tra le mandrie dei cavalli; in questo modo, diceva, avrei dato ai miei padroni la possibilità, con le mie monte, di allevare molte mule di buona razza.

15. Subito viene perciò chiamato il palafreniere addetto alle mandrie dei cavalli, e gli sono affidato in consegna con molte raccomandazioni. Io, al colmo davvero della gioia, correvo innanzi a lui. Ormai non sarei stato più obbligato a some e a carichi d'altro genere; inoltre siccome avevo recuperato la libertà al principio della primavera, pensavo che avrei in ogni caso scoperto qualche rosa nei prati che andavano coprendosi di verde.

Secondariamente, mi si presentava anche un'altra prospettiva: dal momento che tanti preparativi e tanti onori erano resi a un asino qual ero io, se poi avessi recuperato le sembianze umane, certamente sarei stato colmato di benefici in quantità ancora maggiore.

Ma quando quel custode di greggi mi ebbe condotto lontano dalla città, non trovai ad accogliermi né la vita comoda e nemmeno la libertà. Giacché, senza

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porre tempo in mezzo, la moglie di questi, donna veramente avara e perfida, mi aggiogò a una macina da mulino e, somministrandomi frequentemente punizioni con un ramo fronzuto, procurava il pane per sé e la sua famiglia a spese della mia pelle. E non solo voleva che io faticassi a prepararle il suo cibo, ma mi costringeva pure a girare la mola per macinare, dietro pagamento, il grano dei vicini; e insomma ero infelice, perché in cambio di fatiche così dure non mi veniva corrisposto neanche il vitto che mi spettava. Infatti, il mio orzo lo abbrustoliva, mi costringeva a macinarlo con le mie giravolte sotto la mola medesima, e poi lo vendeva ai contadini del vicinato; a me, invece, dopo una giornata di lavoro attaccato alla macina, finalmente la sera mi metteva davanti della crusca non setacciata, sporca e piena zeppa di sassi aguzzi.

16. Dopo avermi abbattuto con tali disgrazie, la crudele Fortuna volle sottopormi a nuovo strazio, evidentemente perché, come dicono, potessi davvero vantarmi con ragione d'avere sostenuto eroiche prove in patria e fuori. Infatti, quel bravo pastore si risolse alla fine a eseguire, benché tardi, l'ordine del padrone, e mi concesse di raggrupparmi agli armenti dei cavalli.

E io, asino finalmente libero, esultavo dalla gioia, e baldanzoso, con aria invitante, mi aggiravo tra le cavalle, per scegliermi le più adatte a diventare in futuro le mie concubine. Una migliore speranza mi sorrideva, ma anche questa volta cascai dalla padella nella brace.

Infatti, i maschi che già da tempo erano liberi di pascolare a sazietà e ingrassare in vista della monta, oltre a essere di per sé temibili e comunque animali più forti di qualunque asino, divennero gelosi per la mia presenza; per prevenire il pericolo di unioni adultere e degeneri, senza rispettare il patto dell'ospitalità sacra a Giove, si danno furibondi e pieni d'odio a perseguitare il loro rivale. L'uno drizza in aria l'enorme pettorale, e levando in alto la testa mi colpisce, come un pugilatore, con gli zoccoli delle zampe davanti; un altro, rivolgendo la carnosa muscolatura della ben pasciuta schiena, mi attacca scalciando con le zampe di dietro; un terzo mi minaccia con nitriti di rabbia, e abbassando le orecchie e scoprendo i denti bianchi e affilati come coltelli mi copre tutto di morsicature.

Insomma, mi accadde lo stesso che avevo letto nella storia riguardo a un re della Tracia Costui gettava quelli che avevano la sfortuna d'essere suoi ospiti, da dilaniare in pasto ai suoi selvaggi cavalli; quel re potentissimo era così spilorcio del suo orzo, che, per calmare la fame dei suoi voraci animali, gli offriva carni umane.

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17. Dilaniato anch'io similmente dai cavalli che in vario modo mi si avventavano contro, finii per rimpiangere quella mia fatica di girar la macina. Ma la Fortuna, non ancora paga dei miei tormenti, mi apparecchiò, per finire, un'altra calamità.

Vengo infatti scelto per trasportare legna giù dal monte, e mi si mette agli ordini d'un ragazzo, il peggiore, di certo, di quanti ragazzi esistono. Non era solo la fatica di salire il ripido pendio d'una alta montagna, né solo il logorìo dei miei zoccoli costretti a calpestare sassi appuntiti, ma per giunta venivo ben bene spianato e con molta frequenza a colpi di bastone, tanto che il dolore delle percosse me lo sentivo penetrare sin nelle ossa. A forza di dare vergate e di battere sempre sullo stesso posto, mi aveva levato la pelle della coscia destra: e lì s'era formato un buco pieno di pus e tanto largo, da somigliare anzi a una cavità, o per dir meglio a una finestra; eppure egli non la smetteva di percuotere sempre la piaga imbrattata di sangue. Mi addossava, poi, un carico di legna così pesante, che quel mucchio di fascine lo si sarebbe creduto preparato per un elefante, non per un asino.

Oltre a questo, tante volte la soma, spostandosi per il peso eccessivo, si rovesciava su di un fianco: in tal caso egli avrebbe dovuto piuttosto levare un po' di quella legna che con il suo inclinarsi mi schiacciava, e alleggerendo alquanto il carico, darmi respiro o almeno bilanciare il peso, trasferendone una parte sull'altro fianco; invece egli aggiungeva delle pietre, e così ristabiliva l'equilibrio compromesso.

18. Ma, per colmo di tutte le mie sciagure, non gli bastava ancora di schiacciarmi con carichi sproporzionati: quando si guadava un fiume che per caso scorresse di fianco alla nostra via, egli, per la preoccupazione di bagnarsi le scarpe, saltava anche lui a cavalcioni sulle mie reni: un sovraccarico piccolo, evidentemente, rispetto al peso che mi atterrava. Ma se talora, per accidente, non facendocela più a reggere il carico, scivolavo e cadevo nel fango che rendeva sdrucciolevole l'orlo della riva, quella buona lana d'un asinaio, mentre avrebbe dovuto tendermi la mano, sollevarmi per la cavezza, tirarmi per la coda o almeno togliermi una parte di tutto quel fardello, affinché potessi rizzarmi di nuovo in piedi, non mi recava, invece, stanco morto com'ero, aiuto alcuno, e a partire dal capo, anzi dalle stesse orecchie, mi pettinava tutto quanto con un randello fuori misura, tanto che alla fine le bastonate stesse fungevano da medicina per farmi alzare in piedi.

Lo stesso individuo escogitò ai miei danni quest'altro tiro: con un ricurvo nodo

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strinse in un fascio delle spine molto aguzze che cagionavano infezione con la loro puntura velenosa, e lo legò penzoloni alla mia coda, di modo che quando io camminavo esso si scuotesse con violenza e con i suoi funesti aculei mi arrecasse gravi ferite.

19. Doppio era così il mio tormento: poiché, se mi mettevo a correre per sfuggire al dolore delle percosse, con maggior forza le spine mi pungevano; se sostavo un momento per dare tregua alle sofferenze, le bastonate mi obbligavano a correre. Sembrava che le escogitasse tutte quell'infame d'un ragazzo, al solo scopo di farmi morire in un modo o nell'altro, e talvolta mi rivolgeva questa minaccia anche con solenni giuramenti.

Accadde infine che la sua abominevole malizia lo spinse a mettere in esecuzione un piano più atroce: infatti, un giorno che non me la sentivo più di sopportare i suoi eccessi e le sue stramberie, gli avevo appioppato con molta energia un paio di calci.

Dopodiché, ecco la cattiveria che inventò ai miei danni. Mi carica a sufficienza con un fardello di stoppa che aveva ben bene legato con una funicella, e mi conduce sulla strada; alla prima fattoria ruba un tizzone acceso e me lo ficca proprio nel mezzo della soma.

Già il fuoco, trovando esca e alimento in quella leggera materia, aveva suscitato una bella fiammata, e un calore micidiale mi penetrava per tutto il corpo, senza che apparisse frattanto né scampo alcuno alla morte né speranza di salvezza. Tra l'altro, in caso d'incendio non c'è da indugiare, poiché le fiamme sorpassano in rapidità ogni più saggio consiglio.

20. Tuttavia, nelle tenebre della sventura la Fortuna volle rifulgere con una luce più lieta. Forse mi riservava ai futuri pericoli, ma il fatto è che mi salvò dalla morte immediata alla quale ero destinato.

Difatti, volle il caso che la pioggia il giorno prima avesse formato là vicino una pozza d'acqua fangosa. Vederla e gettarmici completamente dentro, senza neppure riflettere, fu tutt'uno; così l'incendio si spense del tutto, e io me ne uscii alla fine alleggerito del carico e liberato dalla morte. Ma quel pessimo soggetto, quello svergognato d'un ragazzo, anche questa sua infamia ritorse contro di me: raccontò a tutti i pastori che, mentre passavo vicino a dei fuochi accesi dai vicini, a bella posta avevo incespicato, che m'ero lasciato cadere a

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terra e che mi ero tirato volontariamente addosso le fiamme, e aggiunse ridendo:"Fino a quando daremo da mangiare senza costrutto a un incendiario come questo?".

Né lasciò passare molti giorni, che già mi apparecchiava un tranello di gran lunga più perfido. Difatti, anzitutto vende al primo casolare che incontra la legna che portavo, e poi mi riporta indietro scarico, affermando a gran voce che non riuseiva più a star dietro alla mia pessima indole e che si rifiutava di seguitare oltre in un mestiere così disgraziato. Udite le lagnanze che muoveva:21. "Eccolo qua, questo fannullone, questo tiratardi! Più asino di così lo volete? Oltre a tutte le altre malefatte, ora mi mette anche in pasticci di nuovo genere. Appena vede passarsi davanti qualcuno, sia una bella donna, sia una giovane da marito, sia un ragazzo in tenera età, immediatamente si scuote di dosso il carico (a volte si libera persino del basto) e gli corre addosso furente.

Una smania amorosa fa desiderare a un tale come lui le creature umane: egli le getta a terra e, piegandosi bramoso, tenta di sfogare su di loro le sue voglie mostruose e inaudite, e di realizzare bestiali voluttà, costringendo le sue vittime a piaceri che Venere non consente: per esempio, falsamente immaginando di dare dei baci col suo muso repellente, distribuisce spintoni e morsi. Questo ci procurerà liti e discussioni tutt'altro che piacevoli, e, chissà, anche dei processi in tribunale. Poco fa, tra l'altro, vedendo passare una giovane di buona famiglia, ha sparso a terra qua e là la legna che portava giù dal monte e ha assalito la donna, come se fosse impazzito; questo simpatico innamorato ha gettato la donna sul terreno fangoso, e lì, in presenza di tutti, voleva montarla. E se, attirati dai pianti e dalle grida della donna, non fossero accorsi dei passanti a soccorrerla, la povera giovane, sottoposta a uno strazio atroce, avrebbe avuto le membra rotte e squarciate, e a noi avrebbe recato in pena un castigo esemplare".

22. A queste false accuse, ne inframezzava altre ancora più compromettenti per il mio pudico silenzio, e riuscì in questo modo ad aizzare violentemente l'animo dei pastori nell'intento di farmi morire. Alla fine, uno di loro esclamò:"Questo marito da piazza o, per meglio dire, questo universale seduttore, perché dunque non lo immoliamo? Sarebbe un'espiazione degna di quei suoi mostruosi accoppiamenti!".

E, rivolgendosi al ragazzo:"Senti un po', ragazzo! Ammazzalo immediatamente e getta i visceri ai nostri cani; in quanto alla carne, la riserveremo tutta al nutrimento dei nostri

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operai. La pelle direi di conciarla, aspergendola di cenere calda, e di portarla ai padroni. Non ci sarà difficile far loro credere che è stato ucciso da un lupo".

Così, tolto di mezzo ogni dubbio, quel delinquente del mio accusatore aveva per giunta ricevuto l'incarico di eseguire lui stesso la sentenza dei pastori. Tutto lieto, si faceva beffe dei miei mali, perché ancora ricordava quei calci che non avevano avuto effetto (quanto perbacco me ne dispiace!), e già sfregava sulla cote il coltello per affilarlo.

23. Ma un altro di quella compagnia di contadini disse:"Sarebbe un peccato mettere a morte un asino così bello, e per un'accusa di lussuria e di capricci amorosi privarsi della sua opera e dei suoi preziosi servigi. Se invece lo castrate, gli toglierete assolutamente ogni voglia delle smanie d'amore, sarete liberi da ogni preoccupazione, e inoltre avrete un asino molto più grasso e ben nutrito. Io non solo so di molti asini indolenti, ma anche di cavalli assai focosi, che erano travagliati da eccessiva libidine e cadevano in preda a selvaggia frenesia. Ebbene! Una volta fatta quella tale operazione, diventavano placidi e inoffensivi, atti a portare carichi e buoni per qualsiasi altra fatica. Per concludere, se vi lasciate persuadere, io potrei in poco tempo (quanto basta per recarmi al vicino mercato, come avevo intenzione di fare), andare a casa a prendere i ferri adatti alla faccenda e ritornare subito tra voi. Io vi garantisco di tagliargli la virilità, a questo selvaggio e brutale amante, allargandogli le cosce, e di rendervelo più mansueto di un montone".

24. Io ero tutto triste, perché questa decisione mi aveva, sì, strappato di mezzo alle grinfie dell'Orco, ma solo per riservarmi all'ultimo dei tormenti; e piangevo al pensare che ero destinato a perdere interamente quella parte del corpo che sta dietro alle altre. E così desiderai porre fine ai miei giorni o per fame o gettandomi in un burrone; ero pronto a morire, ma volevo morire intero.

Mentre esitavo sulla scelta della morte, di buon mattino quel ragazzo, il mio carnefice, mi conduce sulla montagna, per il solito sentiero. Mi aveva da poco legato a un ramo pendente da una gigantesca quercia, ed egli, poco discosto dal sentiero, stava tagliando con la scure la legna che avrebbe portato giù a valle; ed ecco che un'orsa ferocissima sbuca fuori da una grotta lì vicino, drizzando la sua testa enorme. Nel vederla improvvisamente apparire, la paura e il mio terrore furono così grandi, che, rigettando tutto il peso del corpo sui garretti di dietro e tendendo in alto il collo, mi riuscì di rompere la fune che mi

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legava; subito mi lancio in velocissima fuga, e, proiettando innanzi non solo le zampe, ma direi tutto quanto il corpo, vengo giù rotoloni di gran carriera e mi precipito nella pianura che si apriva in basso. Tanto grande era l'ansia di fuggire lontano da quell'orsa smisurata e da quel ragazzo più feroce dell'orsa!25. In quel mentre, un viandante, vedendomi errare tutto solo, mi afferra, si issa in fretta sulla mia schiena, e, battendomi col bastone che portava, mi conduce per una via traversa, che io non conoscevo. Io volentieri mi prestavo a correre, visto che mi lasciavo alle spalle il crudelissimo sacrificio della mia virilità. Del resto, le battiture non mi facevano un grande effetto, poiché era una mia norma consueta quella d'essere bastonato.

Ma la Fortuna, caparbia nel congiurare ai miei danni, con sinistra rapidità sventò l'opportunità di far perdere le mie tracce e mi tese un nuovo tranello. Infatti, quei pastori, mentre cercavano una loro vacchetta smarrita e si aggiravano di qua e di là per il paese, per caso s'imbattono in noi, subito mi riconoscono, mi afferrano per la cavezza e cercano di tirarmi con loro. Ma quel tale opponeva audacemente resistenza e, invocando a testimonio gli uomini e gli dèi, gridava:"Perché mi trascinate con tanta violenza? Perché mi aggredite?".

"Oh bella! Ti lamenti che ti facciamo torto, proprio tu che te ne vai con l'asino che ci hai rubato! Perché invece non dici dove hai nascosto il corpo del ragazzo, del suo asinaio? Tu evidentemente l'hai ucciso".

Seduta stante, lo tirano giù a terra e, a pugni e calci, gli impartiscono un pestaggio in piena regola.

Quello aveva un bel giurare e spergiurare di non aver visto alcun asinaio. "Proprio così! Mi sono imbattuto", diceva, "in un asino sciolto e senza padrone. L'ho preso, sperando di avere una ricompensa per il ritrovamento, ma con l'unica intenzione di restituirlo al suo legittimo proprietario. Non l'avessi mai visto, quest'asino!", aggiunse poi. "Volesse il cielo che potesse parlare come una persona umana, e testimoniare così la mia innocenza. Di certo~ vi pentireste dell'ingiuria che mi fate".

Ma le sue proteste non valsero a niente. I pastori, con modi brutali, gli legano una corda al collo e lo conducono verso la montagna, in quei fitti boschi da dove il ragazzo aveva l'abitudine di trarre la legna.

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26. In quanto a lui, non lo si poté trovare da nessuna parte nel bosco, ma si scoprirono le sue membra fatte interamente a pezzi e sparse un po' dappertutto.

"Questa", pensavo fra me, "è di sicuro l'opera delle zanne dell'orsa di poco fa"; e, perbacco, avrei rivelato quel che sapevo, se fossi stato in grado di parlare. Ma tutto ciò che potevo, era di congratularmi zitto zitto con me del castigo sebbene giunto tardi. Alla fine, dalle sparse membra ricavarono e ricomposero con molta fatica l'intero cadavere, e lo seppellirono lì stesso; in quanto al mio Bellerofonte, reo, secondo le loro accuse, di essere sicuramente un ladro di bestiame e un sanguinario omicida, lo conducono per il momento legato alle loro capanne, riservandosi di consegnarlo l'indomani ai magistrati, perché subisse, dicevano, la giusta punizione.

Mentre, poi, i genitori del ragazzo, lacrimando e battendosi il petto, gemevano sulla disgrazia, ecco arrivare quel contadino, che, mantenendo puntualmente la sua promessa, pretendeva di eseguire l'operazione alla quale ero condannato. Esclamò allora uno dei presenti:"Non è colpa sua la disgrazia che oggi ci colpisce! Ma domani sicuramente taglieremo con molto piacere a quest'asino della malora non solo i testicoli, ma anche la testa medesima. E ti garantisco che tutti costoro ti daranno una mano".

27. Così fu che la mia rovina venne differita al giorno seguente.

Io, per mio conto, ringraziavo quel bravo ragazzo, perché, almeno ora che era morto, mi faceva il regalo di rimandare d'una breve giornata l'opera del carnefice. Tuttavia, neppure un tantino mi fu concesso di poter assaporare in pace la mia contentezza. Infatti, la madre del ragazzo, che piangeva l'immatura morte del figlio e, tutta in lacrime, vestita di nero, si strappava a piene mani i bianchi capelli cosparsi di cenere, con gemiti e urla ripetute irrompe nella mia stalla e, battendosi e lacerandosi con gran forza il seno, grida:"E ora questo qui, curvo sulla greppia, si abbandona tranquillamente alle sue voracità. Questo mangione insaziabile si rimpinza di continuo la pancia che ha ben profonda. Non ha compassione, lui, del mio dolore; non pensa affatto all'esecrabile disgrazia del suo istruttore! E' naturale. Se ne infischia altamente della mia vecchiaia, dei miei malanni, e crede che di un delitto così atroce non dovrà render conto. Ma forse immagina d'essere innocente. Proprio quelli che compiono le azioni più nere sperano nell'impunità, nonostante la coscienza sporca: siano testimoni gli dèi! Bestia infame, anche se ti si desse provvisoriamente l'uso della parola, non potresti convincere nessuno, si trattasse pure d'un deficiente, che in questa atroce faccenda tu non hai colpa. E non potevi proteggerlo con le tue zampe quel poverino e difenderlo con i tuoi

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denti? O che forse non hai saputo più volte aggredirlo a calci? Ma non fosti con lo stesso zelo capace di salvarlo nell'ora della morte. Potevi almeno caricartelo sulla groppa e portarlo via, potevi almeno strapparlo alle mani insanguinate di quel maledetto bandito; insomma, non avresti dovuto fuggire da solo, abbandonando senza difesa alcuna quello che era il tuo socio di schiavitù, il tuo istruttore, il tuo compagno, il tuo guardiano. O non sai forse che è d'obbligo la punizione, quando ci si rifiuta di porgere aiuto e di salvare coloro che sono in pericolo di morte, poiché in tal caso si tratta d'un delitto contro l'umanità? Ma tu non ti rallegrerai più a lungo della mia sciagura, assassino! Ti farò sentir io di qual forza sia capace per natura un'infelice afflitta da un dolore come il mio!"

28. Detto fatto, introduce le mani sotto la veste, si scioglie la fascia dal seno, mi lega con essa i piedi uno dopo l'altro e me li serra insieme con uno strettissimo nodo, naturalmente per non lasciarmi possibilità alcuna di reagire; afferra una pertica con cui si usava puntellare la porta della stalla e comincia a battermi; né la smise sinché per la stanchezza le mancarono le forze, e il bastone, opprimendola col suo stesso peso, le sfuggì di mano. Allora, imprecando alle sue braccia che si stancavano così facilmente, corre al focolare, porta un tizzone ardente e me lo ficca tra le cosce. Alla fine io, difendendomi col solo mezzo che mi restava, le scaricai addosso uno zampillo d'un liquido maleodorante così da imbrattarle il volto e gli occhi. Così, oltre che non ci vedeva più, pure il fetore le impedì di uccidermi.

Altrimenti un asino, novello Meleagro, sarebbe perito sotto il tizzone di un'Altea impazzita.

LIBRO 8

1. Era ancora notte, quando, al primo canto del gallo, arrivò dalla città vicina un giovane; mi parve che fosse uno dei servi di quella Carite che era stata la mia compagna di sventura tra i briganti. Portava strane e atroci notizie: che la giovane era morta e che tutta quanta la casa era passata sotto l'insegna del malanno. Seduto vicino al fuoco, attorniato dagli altri schiavi, raccontò questa storia:"Cavallanti, pecorai e anche voi bovari, non vive più la nostra Carite, non vive più la poverina. Un tragico destino l'ha rapita, ma non senza scorta è discesa

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tra i Mani. Ma perché sappiate tutto, vi racconterò gli avvenimenti dall'inizio. Essi meriterebbero che gente più dotta, cui la fortuna ha donato l'arte dello stile, li consegnasse per iscritto sotto forma di storia.

Viveva nella città vicina un giovane di nobili natali, che godeva di larga notorietà e di molte ricchezze, ma amava i bagordi delle osterie, frequentava donne di strada e aveva il vizio di bere in pieno giorno, tanto da intrecciare rapporti poco puliti con bande di malfattori, sicché le sue mani erano sporche di sangue umano.

Costui si chiamava Trasillo, e la fama lo dipingeva qual era in realtà".

2. "Costui, quando Carite divenne una ragazza da marito, fu tra i pretendenti più degni di rilievo, e aveva impiegato ogni sua premura nell'aspirare alla sua mano; ma, anche se era superiore a tutti gli altri rivali del suo rango e cercava di accaparrarsi con ricchi doni il favore dei genitori di lei, pure, per la fama dei suoi cattivi costumi, aveva dovuto sostenere l'affronto d'un rifiuto. Allorché, poi, la figlia dei nostri padroni sposò il buon Tlepolemo, egli, che nonostante la profonda delusione nutriva un amore tenace, ma ad esso mescolava lo sdegno d'avere visto respinta la sua domanda, cercava il mezzo di commettere un sanguinoso delitto. Finalmente, trovò una buona occasione per giustificare la sua presenza in casa dei nostri padroni, e si accinse a compiere quella scelleratezza che da lungo tempo rimuginava. Il giorno che l'accorto valore del fidanzato aveva liberato la giovane dalle spade minacciose dei banditi, egli, mescolatosi alla folla di quelli che venivano a congratularsi, si era fatto notare per la sua contentezza e aveva rivolto ai novelli sposi i suoi complimenti per la libertà allora ricuperata e i suoi auguri di futura prole. Era stato quindi accolto in casa nostra tra gli ospiti di riguardo, in segno d'onore per il suo illustre casato; e, senza lasciar trasparire il suo proposito delittuoso, portava la maschera della più fedele amicizia. Ormai spesso si intratteneva a parlare, di frequente veniva a far visita, a volte partecipava pure ai pranzi e ai rinfreschi; giorno per giorno si insinuava nell'affetto; ma l'animo suo, intanto, senza accorgersene, era via via scivolato nell'abisso senza fondo d'una folle passione. E che c'è da meravigliarsi? La fiamma del crudele amore all'inizio è debole e allieta col suo tepore, ma poi, se l'abitudine offre alimento, diventa rovente, e il suo fuoco che non conosce ostacoli brucia interamente gli uomini".

3. "Per farla breve, Trasillo da molto tempo pensava alla sua vendetta, ma, oltre a non trovare il luogo adatto per un segreto convegno e a vedersi ogni giorno più preclusa la possibilità d'una relazione adultera, si accorgeva anche

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di non poter infrangere il legame più saldo d'un affetto nuovo e in fase d'ascesa; d'altra parte, gli occhi posti a sorveglianza erano tanti, che era molto difficile per la giovane, anche se ne avesse avuto la volontà (ma era inammissibile che l'avesse), imparare l'arte del mancare ai suoi doveri di moglie. Eppure Trasillo con funesta testardaggine perseguiva quello stesso fine che non poteva raggiungere, come se lo avesse potuto. Il fatto è che l'amore, con l'acquistare ogni giorno vigore nuovo, fa sembrare di facile attuazione ciò che sul momento si giudica difficile da ottenere. Considerate, dunque, anzi rivolgete tutta la vostra attenzione a capire sino a che punto possa giungere l'impeto di una folle passione".

4. "Un giorno, Tlepolemo, in compagnia di Trasillo, s'era recato a caccia di bestie feroci, ammesso che si possano chiamar feroci delle capre selvatiche; infatti, Carite non permetteva a suo marito di andare a caccia di animali muniti di zanne o di corna.

Ben presto arrivarono presso un'altura che una fitta vegetazione di rami e di foglie ricopriva con la sua ombra, e dove si nascondevano alla vista dei cacciatori le capre selvatiche. Sono poste in libertà cagne di razza scelta, buone a seguir la pista, perché scovino le bestie nascoste nei loro covi; e subito esse, memori dell'abile addestramento ricevuto, si dividono e si appostano a tutti gli accessi: dapprima si limitano a emettere un sordo brontolio, poi d'improvviso, a un segnale dato, riempiono l'intero bosco d'un coro discorde di frenetici latrati. Ma non si vede né una capra né una timida cerbiatta né una cerva, il più mansueto fra tutti gli animali selvatici; appare, invece, un cinghiale d'una grandezza mai vista. Sotto la sua pelle callosa guizza una turgida muscolatura; il suo cuoio rugoso è irto di peli; sulla sua spina dorsale si rizzano ispide le setole; le sue zanne, che arrota rumorosamente, sono bianche di spuma; i suoi occhi, che guardano minacciosi, sono tinti di fiamma; e la sua mole, quando si scaglia furioso all'assalto con la gola fremente, ha la rapidità del fulmine. Dapprima, gettando di qua e di là le zanne, dilania e fa strage delle cagne più ardite che lo serravano da vicino, poi straccia con le zampe la piccola rete contro cui s'era arrestato il suo primo slancio, e corre lontano al di là di essa".

5. "In quanto a noi altri, lo spavento ci aveva tolto ogni energia; del resto, l'abitudine di partecipare a battute di caccia per nulla pericolose, e il fatto per giunta di non avere armi con cui difenderci, fecero sì che ci nascondessimo al riparo del fogliame o ci occultassimo dietro gli alberi. Trasillo, invece, coglie l'occasione di tendere il suo insidioso tranello, e in tal modo si rivolge ipocritamente a Tlepolemo:- Perché ci lasciamo turbare dallo sbigottimento? Di fronte a una vana paura, ci

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comporteremo con la stessa vigliaccheria di questi schiavi? E ci faremo sfuggire dalle mani una preda così ricca, come femmine tramortite dallo spavento? Perché non montiamo a cavallo e non lo inseguiamo al più presto? Eccoti qua uno spiedo.

Io prenderò una lancia.

Detto fatto. Immediatamente saltano a cavallo e si danno con grande ardore all'inseguimento della belva. Ma essa, memore del suo naturale vigore, si volge indietro di furia; un tale selvaggio ardore la infiamma, che arrota le zanne e va spiando incerta a chi debba dapprima balzare addosso. Per primo Tlepolemo avventa il suo giavellotto sulla schiena della bestia: ma Trasillo, trascurando la belva, colpisce e recide con la sua lancia i garretti posteriori al cavallo che montava Tlepolemo. L'animale cade all'indietro nel lago del suo sangue, si rovescia completamente sul dorso e, senza sua colpa, rotola giù a terra il suo padrone.

Immediatamente il cinghiale furibondo assale il caduto, e prima a colpi di zanna gli straccia le vesti, poi infierisce su di lui, mentre egli cerca di rialzarsi. Quel bravo amico non provò rimorso per la sua impresa scellerata; e sì che, scorgendo in gravissimo pericolo l'amico, vittima offerta alla sua ferocia, avrebbe potuto essere soddisfatto! Invece, mentre quello, bersagliato dai morsi, coperto di ferite, tenta invano di parare i colpi, e con voce degna di compassione invoca il suo aiuto, Trasillo gli immerge la lancia nella coscia destra. La sua sicurezza era tanto maggiore, in quanto credeva che la ferita dell'arma non poteva essere distinta dai morsi delle zanne. Dopodiché, con mano sicura abbatte anche la bestia".

6. "In questo modo morì il giovane, e noi, subito, ciascuno sbucando dal suo nascondiglio, accorremmo con le lacrime agli occhi. L'altro, sebbene fosse lieto di avere raggiunto il suo scopo d'abbattere il rivale, pure non lasciò trasparire la sua contentezza: si offusca in volto, finge d'essere addolorato, abbraccia stretto quel corpo che di mano sua ha spento, finge scaltramente tutte le caratteristiche del cordoglio; solo le lacrime non vollero sgorgare. Si era reso in tutto simile a noi, che piangevamo per sincero dolore, e attribuiva alla belva quella colpa che era del suo braccio.

Non era ancora quasi compiuto il delitto, che la fama, spargendosi, volge il suo primo passo alla dimora di Tlepolemo e ferisce le orecchie dell'infelice sposa. Essa, appena ebbe sentore d'una notizia quale mai più udirà la simile, fuori di sé, resa folle dal dolore, attraversa smaniando in una corsa frenetica le vie

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affollate di popolo e, inoltrandosi per le campagne, con voce disperata va gridando la disgrazia occorsa al marito. Accorrono in folla i cittadini afflitti, la seguono i passanti associandosi al suo dolore, la città si svuota, e tutti corrono curiosi a vedere.

Ecco! Di corsa la giovane è giunta presso il cadavere del marito, si getta tutta sul corpo dell'estinto, è lì lì per rendergli nello stesso luogo quell'anima che a lui aveva consacrato. A stento le braccia dei suoi la strapparono di lì; e lei, suo malgrado, rimase in vita; poi la salma viene condotta alla sepoltura, e tutto il popolo accompagna il funebre corteo".

7. "Trasillo, intanto, era sin troppo esagerato nel proclamare il suo dolore: si percuoteva per il cordoglio il petto, versava ora, senza dubbio sotto lo stimolo crescente della gioia, quelle lacrime che non aveva avuto pronte al primo segno del dolore, e frodava la verità stessa con l'abbondare in vane frasi d'affetto.

Chiamava per nome con voce lamentosa il defunto e lo diceva amico suo, coetaneo, compagno d'armi, persino fratello; afferrava le mani di Carite, per impedirle di battersi il petto, e cercava di calmare i suoi pianti e le sue grida di dolore; pronunciava parole carezzevoli e atte a lenire gli stimoli dell'angoscia; porgeva a titolo di conforto vari esempi di sciagure occorse a tanti altri; ma con ogni cura approfittava di ogni dimostrazione della sua falsa pietà per accarezzare la giovane, così da alimentare con un piacere scorretto la sua abominevole passione.

Ma erano appena terminate le onoranze funebri, che di già la giovane si mostrava impaziente di scendere presso il marito. Tenta tutte le vie della morte, ma in particolare una che è tranquilla, senza fastidi, non necessita di alcun'arma ed è molto simile a un dolce assopirsi: in una parola, rifiutava ogni cibo e ogni cura, così da ridursi in un deplorevole stato di abbandono; e, rintanandosi nella più fitta oscurità, aveva già interrotto ogni relazione con la luce del sole.

Ma Trasillo moltiplica le sue premure: ora agisce lui stesso, ora fa agire gli altri familiari e parenti, alla fine muove gli stessi genitori di lei e riesce a convincere la giovane a immergere in un bagno riparatore il corpo livido, quasi corroso dal sudiciume dell'abbandono, e a prendere un po' di cibo. Lei, che era del resto una figlia piena di rispetto per i genitori, suo malgrado si sottomette ai doveri imposti dall'affetto; con volto non lieto di certo, ma un po' più sereno, affronta, perché così le veniva ordinato, le necessità della

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vita, ma nel cuore, anzi fin nel fondo delle sue midolla, nutre una dolorosa tristezza che le consuma l'animo. Tutto il giorno e tutta la notte passava immersa in cupi rimpianti; alle immagini del defunto, che aveva fatto effigiare nell'aspetto del dio Bacco, rendeva con scrupolosa devozione gli onori propri degli dèi, e in quella stessa consolazione trovava tormento".

8. "Ma Trasillo, che era per sua natura impetuoso e temerario, a giudicare dal suo stesso nome, non aspettò che l'affanno trovasse un appagamento nel pianto, che il delirio della mente sconvolta si placasse e che il dolore si esaurisse da sé per quel tedio che il tempo diffonde su ogni eccesso. La giovane ancora piangeva il marito, ancora si lacerava le vesti, ancora si strappava i capelli, eppure egli non esitò a farle discorsi di matrimonio, e, peccando d'imprudenza, a scoprirle i segreti sepolti nel suo cuore e le sue inconfessabili frodi.

Carite inorridì a quella nefanda proposta, e la esecrò; come se un cupo tuono e una celeste procella o anche il fulmine stesso di Giove la colpissero, cadde di schianto a terra e perse i sensi.

Pure, dopo qualche istante, riprendendo a poco a poco conoscenza, emise più volte un urlo selvaggio, e, poiché già intravedeva la frode dell'infame Trasillo, tenne a bada i discorsi del suo pretendente per sottoporli al vaglio della sua mente.

Nell'intervallo, le apparve l'ombra di Tlepolemo barbaramente trucidato: levando un volto lordo di sangue corrotto e livido da far paura, interrompe il casto sonno della moglie e le dice:- Mia sposa diletta, ormai potrà accadere che questo nome te lo dia un altro uomo. Eppure, anche se in te non dura il mio ricordo e anche se la sventura della mia morte immatura ha sciolto il legame dell'affetto coniugale, ti auguro di sposare chi vuoi e d'essere felice. Bada di non accettare la mano sacrilega di Trasillo, a non rivolgergli la parola, a non sedere alla sua mensa e a non riposare nel suo letto. Fuggi la destra sanguinante di colui che mi uccise; non inaugurare le tue nozze all'insegna dell'assassinio. Quelle ferite sanguinanti che tu hai lavato con le tue lacrime non sono tutte ferite prodotte dalle zanne: la lancia dello scellerato Trasillo è quella che mi ha tolto a te.

E raccontò poi tutto il resto, chiarendo con precisione come s'era svolto il delitto".

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9. "La giovane, afflitta, inizialmente si era assopita, premendo il volto sul guanciale. In questa posizione dormiva ancora e bagnava d'un fiotto di lacrime le guance, quando fu destata dal suo riposo irrequieto come da una sensazione di sofferenza; allora ricomincia a piangere, trae lunghi gemiti, si straccia la camicia e si percuote crudelmente con le piccole mani le belle braccia.

Pure, non fa parola a nessuno della visione notturna, ma dissimula con cura la rivelazione del delitto, e decide in segreto di far le sue vendette sull'infame assassino e di strapparsi a una vita piena di sventure.

Ed ecco che di nuovo l'odioso aspirante a un incauto piacere appare a importunare un orecchio chiuso a ogni proposta di nozze.

Ma Carite finge di rifiutare con una certa indulgenza la richiesta di Trasillo e, recitando la sua parte con meravigliosa astuzia, così risponde alle sue chiacchiere insistenti e alle sue preghiere insinuanti:- Ancora è fisso davanti ai miei occhi il bel volto del fratello tuo e mio carissimo marito, ancora le mie narici respirano il balsamo profumato del suo corpo divino, ancora il bel Tlepolemo è vivo nel mio cuore. Agirai dunque bene e con molta saggezza, se concederai a una donna infelicissima di portare il lutto legittimo per il tempo prescritto, sinché siano passati i mesi che restano per compiere l'anno. Questo mio scrupolo riguarda sia il mio pudore, sia l'interesse della tua salute. Affrettare molto le nozze potrebbe suscitare un giusto e aspro sdegno dei Mani di mio marito e aizzarli alla tua rovina".

10. "Ma Trasillo non riacquistò la saggezza davanti a questo discorso, e neppure fu confortato dall'anticipata promessa, anzi insistette nell'incalzarla sino alla noia con i suoi impudenti bisbigli, finché Carite, facendo finta di arrendersi, disse:- O Trasillo, tu devi almeno farmi questa concessione, te ne prego vivamente: non diciamo nulla e facciamo in modo da avere, di tanto in tanto, degli appuntamenti segreti. E che nessuno dei familiari se ne accorga, sinché l'anno abbia compiuto il conto di tutti i giorni che gli restano.

Trasillo si lasciò vincere dalla promessa fallace della donna:volentieri acconsente ad amori furtivi, e brama solo che giunga la notte con le sue tenebre fitte poiché la cupidigia del possesso fa passare in seconda linea ogni altro suo pensiero.

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- Ma attento, - soggiunse Carite - avvolgiti bene nel mantello e non portare nessun compagno. Alle nove di questa sera vieni silenziosamente alla mia porta, lancia un fischio solo, e aspetta la mia nutrice, che tu conosci. Essa, dietro la porta, aspetterà sveglia che tu arrivi. Lei stessa ti spalancherà la porta, ti farà entrare e ti condurrà alla mia camera, senza la complicità di alcun lume".

11. "La messa in scena di quelle nozze foriere di morte piacque a Trasillo. Egli non ci vide nulla di male, e, tutto eccitato per l'attesa, si lamentava solo della lunghezza del giorno e della lentezza della sera.

E quando il sole finalmente cedette il campo alla notte, egli si presentò in quella foggia che Carite gli aveva raccomandato; trova sveglia la nutrice che doveva attirarlo nella rete, e si infila nella camera di Carite, ardente di speranza. La nutrice, seguendo le istruzioni della sua signora, mentre lo intrattiene con parole di lusinga, senza dar nell'occhio trae fuori dei bicchieri e un vaso che conteneva vino drogato con un sonnifero.

Così egli beve e ribeve avidamente e senza alcun sospetto, e la vecchia, propinandogli la falsa scusa che la signora ritarda perché si trova al capezzale del padre ammalato, senza difficoltà lo seppellisce nel sonno. Egli era già steso supino ed esposto a ogni offesa, quando Carite vien fatta entrare: la giovane, con maschile risolutezza e fremente d'una spietata brama di vendetta, si avventa sull'assassino, e dritta sopra di lui esclama:".

12. "- Eccolo qua il fedele compagno del mio consorte, eccolo il bravo cacciatore, eccolo il caro sposo. Proprio questa è la destra che ha versato il mio sangue, questo è il petto che ha apparecchiato tortuose frodi per perdermi, son proprio questi gli occhi a cui per mia disgrazia sono piaciuta. Ma essi anticipano in qualche modo il castigo che li attende, perché fin da ora presagiscono le tenebre future. Riposa pure tranquillo, dormi felice: io non ti colpirò né con la spada né con altro ferro; non voglio che una morte dello stesso genere ti renda pari a mio marito. Tu vivrai, ma gli occhi tuoi moriranno, e non potrai più vedere niente, se non dormendo. Io voglio che a te appaia più felice il tuo nemico che è morto, che tu che sei vivo. Certo è che tu non vedrai più la luce, avrai bisogno della mano di chi ti accompagna, non possederai Carite, non godrai delle nozze, non avrai conforto nel riposo della morte, non ti allieterai della gioia di vivere, ma incerto fantasma errerai tra le tenebre dell'Orco e la luce del sole. A lungo cercherai la mano che distrusse le tue pupille, e, quel che è più duro nella sventura, non saprai di chi lagnarti. Io farò le libagioni al sepolcro del mio Tlepolemo col sangue delle

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tue pupille, e ai suoi santi Mani offrirò in funebre sacrificio i tuoi occhi. Ma perché dovresti profittare d'una dilazione alla pena che ti spetta? Sogni tu forse i miei amplessi? Ma essi portano la morte. Lascia ora le tenebre del sonno, e risvegliati a quell'altra tenebra che t'infliggerà il castigo: alza il volto vuoto degli occhi, riconosci la mia vendetta, comprendi la tua sventura, fa' il calcolo delle tue sofferenze. Ecco! Così piacquero i tuoi occhi alla virtuosa tua sposa, così le fiaccole del matrimonio hanno illuminato la tua camera nuziale. Presiederanno alle tue nozze le dee della vendetta, ti saranno compagni la cecità e l'eterno rimorso della coscienza".

13. "Pronunciata questa profezia, la giovane si toglie uno spillone dalla chioma, buca a Trasillo tutti e due gli occhi, e lo lascia completamente privo della vista, mentre egli scuote via da sé l'ebbrezza e il sonno, destato da una sofferenza che egli non conosce. Carite, intanto, snuda e afferra la spada di cui era solito cingersi Tlepolemo, si getta in una corsa furiosa attraverso la città, senza dubbio smaniosa di compiere chissà quale gesto atroce, e si dirige dritto verso il monumento funebre del marito.

Allora ogni casa resta deserta. Noi e tutta la popolazione ci affrettiamo a seguirla, e reciprocamente ci incoraggiamo a togliere di mano alla folle la spada. Ma Carite, ritta, si ferma presso la tomba di Tlepolemo e tiene ognuno lontano con la lama lucente. Vede infine che tutti quanti versano lacrime in abbondanza e si lamentano ciascuno alla sua maniera, ed esclama:- Smettete d'importunarmi con i vostri pianti, smettete un cordoglio che non si addice alle mie virtù. Io ho scelto la mia vendetta sul sanguinario assassino del mio consorte, io ho punito il funesto predone della mia vita coniugale. E' giunta ormai l'ora che io con questa spada cerchi la via per raggiungere sotto terra il mio Tlepolemo".

14. "Raccontò inoltre con ordine tutto quello che il marito le aveva rivelato in sogno, e l'astuto inganno con cui aveva raggirato Trasillo, poi si trafisse sotto la mammella destra e cadde a terra: lì si dibatté nel suo sangue e, balbettando parole indistinte, finalmente esalò il suo maschio spirito. Allora i familiari dell'infelice Carite lavarono con ogni cura il suo corpo e la congiunsero al marito nello stesso sepolcro, perché fosse in eterno la sua sposa.

Trasillo, dal canto suo, quando prese conoscenza dell'accaduto, non sapendo concludere degnamente l'attuale catastrofe se non attraverso una nuova catastrofe, e capendo che la spada non era strumento sufficiente per una così atroce vicenda, si fece trasportare al sepolcro. Più volte gridò:

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- Ecco, o Mani avversi, una vittima spontanea si offre a voi -, e fece chiudere con cura sopra di sé le porte della tomba, deciso a finire d'inedia una vita che egli aveva in sé già condannato".

15. Così narrò quello, traendo lunghi sospiri e di quando in quando versando lacrime; e col suo racconto produsse grande turbamento nei contadini. Essi, allora, temendo le conseguenze di un cambiamento di proprietà e commiserando nel loro animo la sciagura toccata ai loro padroni, si apprestano a fuggire.

Il guardiano di cavalli, proprio quello che mi aveva preso in consegna con tante raccomandazioni, carica sul dorso a me e alle altre bestie da soma tutto ciò che custodiva di prezioso nella sua casetta, e abbandona quella che fino allora era stata la sua dimora. Portavamo i bambini e le donne, portavamo polli, uccelli, capretti e cuccioli; insomma, tutti quelli che, essendo deboli di gambe, potevano rendere più lenta la fuga, camminavano per l'appunto con i nostri piedi. Né mi dava fastidio il peso della soma, anche se era fuori dell'ordinario; anzi ero ben lieto di fuggire e lasciare così quell'individuo abominevole che voleva attentare alla mia virilità.

Così varcammo l'aspra giogaia d'una montagna coperta di boschi, e subito dopo attraversammo l'ampia pianura che si stendeva ai suoi piedi; e al tramonto, quando già sulla via si addensava l'oscurità, arrivammo a una borgata popolosa e ricca.

I suoi abitanti ci esortavano a non uscire di notte e neppure il mattino presto; dicevano che torme di lupi grandi, muscolosi e di enorme corporatura, crudelissimi e ferocissimi, avvezzi a fare scorrerie, infestavano tutto quanto il paese; essi assediavano persino le strade e aggredivano i passanti come dei banditi; anzi, resi pazzi dalla fame, davano l'assalto alle fattorie vicine, sicché la morte, riservata ai greggi imbelli, minacciava ormai le stesse creature umane. Per farla breve, dicevano che sulla strada che noi dovevamo percorrere giacevano corpi umani mezzo divorati, e che da ogni parte si vedevano biancheggiare ossami spogli di carne. Di conseguenza, avremmo fatto bene anche noi ad affrontare il cammino con la più grande prudenza, e soprattutto a muoverci con luce chiara, a giorno inoltrato, quando il sole fosse nel suo pieno splendore; così, schivando le insidie ovunque nascoste e viaggiando in ore in cui la luce stessa infiacchisce l'impeto di quelle belve crudeli, avremmo potuto varcare quel difficile passo, sempre a condizione di marciare non a gruppetti sparsi e staccati, ma in file serrate, come un convoglio militare.

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16. Ma quei bricconi di schiavi fuggiaschi che ci guidavano, resi temerari dalla loro cieca fretta, e timorosi d'essere inseguiti, il che non era neppure certo, non fanno alcun conto delle sagge raccomandazioni. Senza neanche aspettare che spunti l'alba, verso la terza veglia della notte ci rimettono in cammino con i nostri bagagli.

Allora io, pieno di spavento per il pericolo anzidetto, ora mi ponevo per quanto era possibile nel mezzo della formazione, nascosto nel gregge delle bestie da soma, e cercavo così di salvaguardare il mio didietro dagli attacchi delle belve, ora correvo innanzi più veloce di tutti gli altri cavalli, destando lo stupore di tutti quelli che mi vedevano.

Eppure, quella velocità non era un indizio di entusiasmo, ma di paura. Ero perfino indotto a pensare tra me che quel famoso Pegaso fosse diventato capace di volare più per paura che per altro; perciò la tradizione giustamente gli attribuiva le ali e la capacità di saltare e di rimbalzare in alto e sino alla volta celeste: evidentemente per la paura che gli incutevano i morsi della Chimera sputafuoco. Del resto, anche quei pastori si erano armati, come se andassero in battaglia: chi portava una lancia, chi uno spiedo, chi le frecce, chi un bastone; tutti poi erano provvisti di sassi, che il sentiero roccioso offriva in gran copia; alcuni brandivano anche bastoni appuntiti; ma la maggior parte reggevano fiaccole per spaventare le fiere. Insomma, non mancava altro che la tromba, per essere in tutto simili a un esercito schierato a battaglia. Il bello è che, dopo aver provato inutilmente spaventi che in quel caso erano in fondo senza motivo, finimmo per incappare in un pericolo molto peggiore. ln realtà, quei lupi, vuoi forse per il baccano mosso da tanti uomini insieme raccolti, vuoi perché erano tenuti in rispetto dalle vivide fiamme delle torce, vuoi perché erano impegnati altrove, non ci dettero fastidio, anzi non se ne vide nessuno, neppure da lontano.

17. I coloni d'una fattoria presso la quale per caso passavamo presero invece la nostra schiera, che era numerosa, per una accolta di banditi. Preoccupati per i loro beni e tutti affannati, sciolgono i loro cani feroci, enormi e più selvaggi di qualsiasi orso o lupo, che essi avevano addestrato con cura a far buona guardia, e ce li aizzano contro con i soliti richiami e le più svariate urla. Questi, che erano già di per sé feroci, si inaspriscono maggiormente per il baccano mosso dai loro padroni, ci si scagliano contro e, stringendoci da ogni lato, di qua e di là balzano su di noi; senza fare distinzioni, addentavano insieme uomini e bestie, e tanto durò il loro accanimento, che stesero a terra la maggior parte di noi.

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Si sarebbe potuto vedere uno spettacolo davvero degno di pietà, più che di nota: una torma di cani inferociti attaccarsi gli uni alle calcagna dei fuggenti, altri aggrapparsi a quelli che stavano fermi, certuni salire sui caduti e, distribuendo morsi, percorrere in lungo e in largo la nostra compagnia. Ma non bastava un'avventura simile. Ecco seguire un malanno peggiore: poiché dall'alto dei tetti e da un colle vicino quei villici si mettono a scagliarci pietre una appresso all'altra, cosicché non si riusciva proprio più a distinguere da quale calamità in primo luogo guardarci, se dai cani che attaccavano da vicino o dalle pietre che arrivavano da lontano. Una di quelle nespole andò a battere d'improvviso sulla testa della donna che stava a cavalcioni sulla mia schiena, ed essa, al dolore della percossa, si mise subito a piangere e a urlare, invocando in soccorso il marito, quel guardiano che sapete.

18. Ed egli, chiamando a testimoni gli dèi e asciugando il sangue della moglie, levava alti lai:"Quale crudeltà vi spinge ad assalire e a lapidare dei disgraziati come noi, dei viandanti in difficoltà? Bramate forse di far bottino? Ma se non vi abbiamo fatto niente! Eppure, non abitate nelle grotte con le fiere, o sulle rocce come i selvaggi, per divertirvi a versare il sangue degli uomini!".

Aveva appena smesso di parlare, che subito cessò la fitta grandine delle pietre ed ebbe tregua la furia tempestosa di quei terribili cani, che furono richiamati dai loro padroni. Dopodiché, uno dei coloni, che stava sulla vetta d'un cipresso, esclama:"Ma noi non siamo dei briganti e non vogliamo derubarvi. Al contrario! Noi cerchiamo di difenderci per paura che una simile calamità ci incolga da parte vostra. Ma ormai la pace è fatta, e potete venire avanti con tutta tranquillità".

Così parla, e noi, che eravamo pieni di ferite, ci rimettiamo in cammino, chi malconcio per le pietre, chi per le morsicature, ma tutti quanti in pessime condizioni. Avevamo già percorso un bel pezzo di strada, quando arrivammo vicino a un bosco, che era folto di alte piante e allietato da prati verdolini. Qua i nostri capi decisero di darsi un po' di ristoro e di medicare con la dovuta cura i loro corpi più o meno malconci. Perciò, stesi qua e là sul terreno, procurano dapprima di risollevare il morale che era basso, e poi si affrettano ad applicare alle ferite vari rimedi:uno detergeva il sangue alla corrente d'un ruscello che scorreva là presso, un altro si premeva il gonfiore delle contusioni con delle spugne imbevute nell'aceto, un terzo fasciava con bende le piaghe aperte. E così ognuno di loro provvedeva ai casi suoi.

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19. Nel mentre, vediamo sulla cima d'un colle un vecchio che guardava davanti a sé e delle capre che gli pascolavano intorno e dicevano a chiare note che era un pastore. Uno della compagnia gli chiese se avesse da vendere del latte fresco o della ricotta. Ma quello scosse a lungo il capo ed esclamò:"E voi vi preoccupate ora di mangiare o di bere o di prendere un qualche ristoro? O non sapete in che luogo vi siete accampati?Così dicendo, si volse per condurre via le sue bestie, e scomparve lontano. Le sue frasi, la sua fuga, furono cagione di non piccola apprensione per i nostri pastori. Mentre, spaventatissimi, manifestano la loro premura d'avere notizie sulla natura del luogo e non vedono chi possa informarli, ecco apparire un altro vecchio, anche lui grande di persona e carico di anni. Costui, tutto piegato sul suo bastone, trascinando faticosamente il piede e piangendo a calde lacrime, se ne viene sulla strada verso di noi; appena ci vide, raddoppiò il pianto e, abbracciando le ginocchia degli uomini uno per uno, pronunciò queste parole supplichevoli:20. "Per la Fortuna e il Genio d'ognuno di voi, e io vi auguro che possiate arrivare agli anni che ho io, sani e contenti, aiutate un vecchio ridotto alla disperazione, strappate il mio povero ragazzo all'inferno e rendetelo alla mia canizie. Il nipote mio, il dolce compagno di questa strada, mentre per caso inseguiva un passerotto che cinguettava su una siepe, per catturarlo, è caduto in una buca vicina, spalancata ai piedi dei cespugli. Ora si trova a rischio della vita, perché io sento sì che lui è ancor vivo e piange e chiama sempre il nonno, ma non posso, voi lo vedete bene, per la debolezza delle mie membra recargli aiuto. Invece voi avete gioventù e forza, e vi sarà facile portare soccorso a un vecchio infelicissimo e rendermi sano e salvo il ragazzo, l'ultimo della mia famiglia, I'unico mio discendente".

21. Tutti si mossero a pietà davanti a quel vecchio che li supplicava e si strappava i capelli bianchi. Allora uno di essi, il più coraggioso, il più giovane e il più robusto, e che, unico fra tutti, era uscito incolume dall'assalto di poco prima, si levò con ardore e domandò in quale punto fosse caduto il ragazzo; il vecchio gli indicò una macchia spinosa poco lontano, e si avviò seguito premurosamente dal giovane. Nel frattempo, tutti riprendono forza, noi col pascolare, essi col curarsi, dopodiché ognuno riprende il suo piccolo bagaglio e si accinge a ripartire.

Intanto chiamano ripetutamente a gran voce il giovane per nome, poi, turbati per il lungo ritardo, mandano uno dei loro a cercarlo, con l'incarico che, quando avesse trovato il compagno, lo avvertisse che era tempo di muoversi e lo riconducesse con sé.

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Ma quello ben presto fece ritorno; tremando e livido in faccia come il bosso, racconta strane notizie sul compagno; diceva infatti d'averlo visto giacere a terra riverso, mentre un enorme drago, acciambellato su di lui, lavorava di denti e lo aveva già divorato per più di metà; in quanto a quel disgraziato d'un vecchio, non lo si vedeva più da nessuna parte.

Queste notizie, appena sapute, furono messe in rapporto con le frasi del pastore, e si capì che egli con le sue parole minacciose voleva proprio alludere a quell'orribile abitante del luogo e a nessun altro. Tutti allora abbandonano quel paese maledetto; e per fuggire al più presto accelerano la marcia e ci cacciano innanzi sotto una pioggia di bastonate.

22. Dopo una lunga marcia eseguita alla massima velocità, arriviamo finalmente a un villaggio, dove sostammo per riposare l'intera notte.

Vorrei a questo punto raccontare un fatto davvero degno di nota, che era accaduto in quel luogo.

Viveva lì uno schiavo, a cui il padrone aveva affidato la direzione di tutta la servitù e che era anche l'amministratore di quella vastissima tenuta in cui c'eravamo accampati; costui aveva per moglie una schiava appartenente al medesimo complesso di servi, ma era follemente innamorato d'una donna libera che abitava al di fuori. La moglie, spinta da gelosia per la relazione adultera, diede alle fiamme tutti i registri del marito, e appiccò il fuoco al granaio con tutto ciò che conteneva. Poi, non sembrandole sufficiente questo danno per soddisfare l'offesa causata al suo onore, si spinse a incrudelire perfino sulle proprie viscere: si annoda al collo una fune, vi lega anche il bambino che poco prima aveva avuto dal medesimo marito, e si butta più in un pozzo profondo, trascinando con sé a morte il povero piccolo. Allora il padrone, pieno di rovello per la loro morte, fa subito legare lo sciagurato schiavo che con il suo capriccio aveva dato esca a uno scandalo così grave; ordina poi che sia denudato, unto tutto di miele, e solidamente legato a un albero di fico nel cui tronco tarlato avevano eletto domicilio colonie di formiche.

Dai formicai rigurgitanti uscivano file di insetti, che andavano e venivano in tutte le direzioni, ed essi, appena sentirono l'odore dolce del miele che esalava dal corpo, con le loro morsicature piccole, ma fitte e continue, si accaniscono sul disgraziato; con uno strazio durato parecchio tempo, gli rodono le carni e le viscere stesse, e ne fanno scomparire totalmente le membra, di modo che resta appeso a quell'albero di morte lo scheletro solo che, spoglio di

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carne, brillava in tutta la sua bianchezza.

23. Abbandonammo finalmente anche quell'esecrabile luogo di fermata e, lasciando gli abitanti immersi nel loro dolore, ci rimettemmo in cammino. Durante tutta la giornata marciammo per strade di campagna, sinché già stanchi giungemmo a una città popolosa e rinomata.

Qui i pastori decidono di fissare definitivamente il loro focolare e il loro domicilio, giacché la consideravano un nascondiglio sicuro, anche se le ricerche fossero state spinte lontano dal luogo di partenza, ed erano inoltre attirati dalla facilità e dall'abbondanza dei rifornimenti di viveri. Per tre giorni lasciarono che le bestie si rimettessero in carne, onde assumere un aspetto che ne rendesse più facile la vendita, il quarto ci condussero al mercato; qua un banditore, a gran voce, proclamava il prezzo di ognuno, e così i cavalli e gli altri asini furono venduti a dei ricchi compratori. Io solo rimasi, di tutti quanti eravamo, e la gente per lo più mi passava davanti con disprezzo.

Alla fine, mi venne fastidio di essere palpato da quelli che calcolavano in base ai denti, la mia età, sicché addentai e conciai per le feste la mano sporca e puzzolente d'un tizio che con le sue dita fetide non la smetteva mai di strizzarmi le gengive.

Questo incidente mi procurò la fama di bestia molto feroce, e tolse ai presenti ogni voglia di comprarmi. Allora il banditore, che per il gran vociare s'era rotta la gola ed era diventato rauco, cominciò a fabbricare ridicole facezie sulle mie disgrazie, dicendo:"Fino a quando offriremo inutilmente in vendita questo ronzino? E' vecchiotto, ha gli zoccoli consunti, è infermo e sfigurato dagli acciacchi, è feroce, è ottuso e indolente. Insomma, non è altro che un setaccio da sassi. Ebbene. Sì! Avremmo proprio l'intenzione di regalarlo a qualcuno, sempre che non gli secchi di perderci il suo fieno".

24. In questo modo il banditore faceva sghignazzare in circolo gli astanti. Ma quella mia barbara fortuna, alla quale non riuscivo a sfuggire benché fuggissi di terra in terra, per nulla sazia delle disgrazie già inflittemi, di nuovo torse contro di me i suoi ciechi occhi e mi mise tra i piedi un compratore, che aveva scovato chissà dove e che era davvero adatto al mio crudele destino. Immaginate un po': un cinedo, e per giunta un vecchio cinedo, calvo in testa, sì, ma che aveva, come unici capelli, dei riccioli pepe e sale penzoloni sulla nuca; uno di quella volgare feccia da marciapiede che per le piazze delle città

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fanno risonare i cimbali e le nacchere e, portando in giro la dea Siriaca, la costringono a mendicare.

Costui aveva una gran voglia di far l'affare, e domanda al tizio dell'asta la mia provenienza; quello risponde che ero un asino della Cappadocia e abbastanza robusto. Di nuovo egli s'informa dell'età, e il banditore, motteggiando:"Per l'appunto, l'astrologo che gli ha tirato l'oroscopo gli ha contato quattro anni compiuti, ma naturalmente nessuno meglio di lui può sapere cosa ha dichiarato sui registri dello stato civile.

So bene, del resto, che potrei incorrere nel delitto punito dalla legge Cornelia, se ti vendo come schiavo un cittadino romano, ma tu compralo lo stesso, perché è uno schiavo onesto e frugale. Sta' certo che ti sarà utile in casa e fuori!".

Ma quel maledetto cliente non la smetteva mai di fare ora una domanda ora l'altra; per finire, con molto interesse volle sapere se ero un asino mansueto.

25. Allora il banditore:"Hai davanti a te un montone, non un asino", esclama. "E' buono a far tutto, non morde, non spara calci, insomma si direbbe che sotto quella pelle d'asino si nasconda un uomo pacifico. Puoi facilmente controllare tu stesso del resto. Ficca pure la faccia tra le sue cosce, e vedrai subito a che punto arriva la sua pazienza".

Così il banditore si faceva beffe di quel briccone; ma quello, che aveva capito l'antifona, fece la scena di arrabbiarsi e gli disse:"Tu sei una carogna senza orecchie e senza lingua, sei un banditore in vena di dire corbellerie. E' un bel po' che fai il buffone e mi stai a seccare con le tue scemenze. Possano l'onnipotente e onnipresente Siriaca dea, il santo Sabazio, Bellona, la madre Idea con il suo Attis e Venere con il suo Adone, farti cascare gli occhi. O credi forse, imbecille, che io possa affidare la dea a una bestia restia? Sarebbe bello che si adombrasse all'improvviso e mi gettasse a terra la statua della dea! Disgraziata me! Allora sì che mi vedrei costretta a correre qua e là, coi capelli in disordine in cerca di un medico per la mia dea distesa in terra!".

A sentirlo parlare così, mi era balenata l'idea di spiccare lì per lì dei salti come un forsennato; certamente, se mi avesse visto inferocire in quel modo,

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avrebbe rinunciato ad acquistarmi. Ma il cliente, per la gran premura, precorse il mio piano e versò immediatamente il prezzo, che era di diciassette denari; il mio padrone, ben lieto di sbarazzarsi di me, l'accettò senz'altro, mi annodò al muso una corda di sparto e mi consegna a Filebo: questo infatti era il nome del mio nuovo padrone.

26. Così egli prese possesso del servo di fresco acquistato, e se lo tirò dietro sino a casa. Quando arrivò, col piede ancora sulla soglia, gridò:"Ragazze, eccovi qua un leggiadro servitorello che ho portato per voi dal mercato.

Ma quelle ragazze erano in realtà una banda d'invertiti che, tripudiando di gioia, con voci tutte singhiozzi, rauche ed effemminate, levano uno schiamazzo indecente; credevano naturalmente che si trattasse davvero d'uno schiavetto preso per il loro servizio. Ma quando videro che non una cerva in luogo d'una vergine, ma un asino era apparso in sostituzione d'un uomo, storsero il naso e all'indirizzo del loro capo spirituale lanciarono frecciate d'ogni genere: non uno schiavo, dicevano, si era portato, ma un marito in piena regola e tutto per sé.

"Senti un po'", gli dicono; "va bene che è un pollastro così saporito, ma facci il piacere di non mangiartelo da solo. Non siamo forse le tue colombine?".

Così, scambiandosi frizzi di questo genere, mi attaccano vicino a una greppia. Si trovava lì un giovane, abbastanza in ciccia, molto abile nell'accompagnare il coro col flauto, il quale era stato acquistato a un'asta di schiavi a spese comuni. Costui, fuori di casa, suonando il suo strumento, si accompagnava agli altri quando portavano in processione la dea; in casa, invece, era un uomo tutto fare e comune concubino. Appena mi vide dentro, spontaneamente mi pone dinnanzi un'abbondante razione e allegramente mi dice:"Finalmente sei giunto a rimpiazzarmi in questa vita da cani. Il mio augurio è che tu possa vivere a lungo, piacere ai padroni e dare un po' di sollievo alla mia schiena, perché l'ho rotta dalla fatica".

Questo discorso mi lasciò intravedere le nuove prove che l'avvenire riservava a mio danno.

27. Il giorno dopo, tutti indossano delle sopravvesti multicolori, si adornano in sconcia maniera, spalmandosi la faccia con argilla colorata e dipingendosi in

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giro gli occhi con la matita nera, poi escono. Sul capo portano piccole mitre, addosso vesti di colore zafferano, veli di lino finissimo, grandi fazzoletti di seta; alcuni indossano tuniche bianche, listate in ogni senso di strisce di porpora a forma di piccole lance, con cinture serrate alla vita, e hanno ai piedi delle scarpe gialle. In quanto alla dea, dopo averla rivestita con un mantello di seta, me la pongono sul dorso da portare. Essi, con le braccia nude sino alla spalla, brandiscono spade e scudi enormi, e spiccano salti alla maniera delle baccanti, mentre il suono del flauto porge nuovo incitamento alle loro frenetiche danze. Visitano così parecchie abitazioni di povera gente, e arrivano alla fattoria di un ricco proprietario; qui, fino all'entrata, urlando in modo sconveniente, fanno un baccano del diavolo e irrompono dentro come invasati.

Lo spettacolo fu lungo. A testa bassa, torcono la collottola con movimenti serpentini, roteano in giro i capelli pendenti, talvolta a morsi rivolgono i denti contro le loro stesse carni e, per finire, tutti si tagliuzzano le braccia con le armi a doppio filo che portavano. Nel frattempo, uno di loro si abbandona a delle contorsioni ancor più frenetiche, e con un respiro corto e affannoso che gli saliva su fin dalle viscere, quasi che il divino afflato del nume lo penetrasse, finge d'essere in preda al delirio sino allo sfinimento; in una parola, come se la presenza della divinità non rendesse gli uomini migliori di quello che sono, ma li facesse diventare deboli e infermi.

28. Considerate, ora, come la celeste provvidenza abbia ricompensato il suo merito. Urlando come un esaltato in vena di profezie, inventa un bugiardo racconto e recita contro di sé una filastrocca d'insolenze: si accusava d'aver tramato un sacrilego progetto contro la divina norma della sua santa religione, e chiedeva inoltre di infliggersi con le sue stesse mani il giusto castigo che meritava il suo riprovevole fallo.

Alla fine, afferra uno staffile, strumento che quella setta di mezzi uomini usa portare con sé come propria insegna, fatto con strisce di lana di pecora intrecciate e provviste in fondo di lunghe frange, e in cui erano inseriti in più punti ossicini di pecora. Con questo arnese ben provvisto di nodi si percuote a più non posso, opponendo alla sofferenza delle battiture una meravigliosa forza di volontà. Si poteva vedere il suolo letteralmente inzuppato dello sporco sangue di quegli effeminati che si tagliuzzavano con le spade e si sferzavano con gli staffili; e il vedere il sangue piovere da tante ferite e in tanta abbondanza mi diede non poco da pensare. E non poteva darsi che lo stomaco di quella dea forestiera volesse togliersi il gusto di assaggiare sangue d'asino, così come certe persone gustano latte d'asina?Quando infine, vuoi stanchi, vuoi comunque sazi dello scempio, misero fine a

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quel macello, i presenti fecero a gara a offrire monete di bronzo e persino d'argento; essi le raccolgono nel grembo, che avevano molto largo, e oltre al denaro, rimediano un orcio di vino, latte, formaggi, una certa quantità di farro e di farina scelta, e dell'orzo che alcuni regalarono per il portatore della dea. Il tutto essi spazzarono via avidamente e pigiarono in sacchi fatti appositamente per quel genere di questua, poi me li caricarono sulla schiena. Così fui costretto a camminare sotto il peso d'una soma naturalmente doppia, perché servivo contemporaneamente da granaio e da tempio.

29. In questa maniera facevano i vagabondi e mettevano a contribuzione l'intera regione. In un villaggio, poi, dove avevano avuto la soddisfazione d'un guadagno un po' abbondante, organizzarono un allegro convito.

Da un contadino, che avevano infinocchiato con una falsa profezia, si fanno dare in compenso un ariete bello grasso, affermando di volerlo sacrificare alla dea Siriaca, per calmarne la fame, e, apparecchiata una cenetta come si deve, vanno a fare il bagno; al ritorno dal bagno si portano dietro, come invitato, un pezzo di contadino con dei fianchi costruiti a regola d'arte e ben fornito, in quanto a basso ventre. Si limitano ad assaporare un po' d'antipasto, dopodiché quegli infami sporcaccioni, proprio dinanzi alla tavola, si abbandonano, sotto lo stimolo di innominabili pruriti, alle più turpi ignominie d'un piacere contro natura:serrano il giovane da ogni lato, lo denudano, lo costringono a stendersi supino a terra e con le loro abominevoli bocche ne sollecitano i favori.

I miei occhi non furono capaci di soffrire a lungo una tale infamia, e volli gridare: "Soccorso, cittadini!", ma ne uscì solo un O, senza le altre sillabe e lettere, un O certo, chiaro e robusto e davvero asinino, ma pochissimo adatto alla circostanza.

Infatti, un gruppo di giovani del villaggio vicino, che andavano in cerca d'un asino rubato la notte prima e che con molto impegno esploravano tutte quante le stalle, odono echeggiare di dentro la casa il mio raglio. Nella convinzione che la refurtiva si trovasse nascosta nelle stanze più interne, decisi a rivendicare di persona la propria roba, all'improvviso fanno irruzione in massa, e sorprendono quei messeri proprio nell'atto di dedicarsi alle loro vergognose ed esecrabili esibizioni. Immediatamente chiamano da ogni parte i vicini, per fargli vedere quello spettacolo così turpe, e per soprammercato rivolgono ai cinedi elogi beffardi per la loro illibata castità.

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30. Lo scandalo in breve si divulgò sulle bocche di tutti, e giustamente li rese oggetto dell'odio e dell'esecrazione generale, cosicché, pieni di costernazione, verso circa la mezzanotte essi fanno i bagagli e si allontanano furtivamente dal paese.

Prima del sorgere del sole, avevamo percorso una buona parte di strada; e quando il giorno era già chiaro giungemmo in un luogo solitario e remoto. Là, dopo lunghi conciliaboli, si accingono a darmi il malanno e, tolta la dea dal veicolo della mia schiena, la posano in terra. Poi mi spogliano del basto e d'ogni altro arnese, mi legano a una quercia, e con quello staffile ricco d'ossicini di pecora come gli anelli d'una catena, me ne danno tante e tante da ridurmi quasi al lumicino.

Uno, anzi, minacciava di volermi recidere i garetti con la sua scure, perché, a sentir lui, avevo recato un oltraggio vergognoso alla sua casta verecondia; tuttavia gli altri, considerando non certo la mia persona, ma la statua poggiata a terra, furono d'avviso di risparmiarmi la vita.

Pertanto mi caricano di nuovo dei bagagli, e, minacciandomi e spingendomi a forza di piattonate, arrivano a una città d'una certa importanza. Qua, uno dei primi cittadini, uomo d'altronde devoto e pieno di timor di dio, fu attirato dal tintinnio dei cimbali, dal suono dei tamburi e dalle carezzevoli melodie del canto frigio, e ci corse incontro. Siccome aveva fatto il voto di dare ospitalità alla dea, ci alloggiò tutti nell'interno del suo magnifico palazzo e, per conciliarsi il favore della divinità, oltre ai segni della più grande venerazione, offrì in sacrificio vittime opime.

31. Fu in questa casa, ricordo, che corsi gravissimo pericolo di morire. Infatti, un contadino aveva inviato al suo signore in regalo la grassa coscia d'un cervo, come omaggio della sua caccia.

Con poca accortezza, il pezzo di carne era stato appeso dietro la porta della cucina, non molto in alto da terra, e un cane, anch'esso da caccia, di nascosto lo aveva sgraffignato e, lieto del bottino, in meno che non si dica era scomparso agli occhi dei sorveglianti.

Informato del danno, il cuoco imprecò alla propria negligenza e stette lungo tempo a lamentarsi e a piangere lacrime di nessuna utilità. Siccome poi il padrone già reclamava da mangiare, il cuoco, pieno di dolore e comunque

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ossessionato dalla paura, disse addio al suo figlioletto e, afferrata una fune, già si preparava a impiccarsi a un nodo scorsoio.

Ma alla fedele moglie non sfuggì che il marito si preparava all'estremo passo; e, afferrando il laccio fatale con tutta la forza delle sue braccia, esclamò:"Tanto sei spaventato per l'incidente d'oggi, che hai perso la testa. Non scorgi il rimedio inatteso che la provvidenza divina ti mette a portata di mano? Se puoi recuperare un po' di senno in questa grave procella in cui la fortuna ti trae, stammi a sentire.

Conduci in qualche luogo appartato quest'asino forestiero, e tagliagli la gola. La sua coscia rassomiglia a quella del cervo che hai perduto. Tagliala, cuocila con tutta la tua abilità in una salsa spessa e saporita, e servila al padrone in sostituzione di quella del cervo".

Quell'infame briccone fu ben contento di assicurarsi la sua salvezza con la mia morte; e con molti elogi per l'accortezza della sua compagna, già affilava i coltelli per il prefisso macello.

LIBRO 9

1. Così quello scellerato carnefice si disponeva ad armare le empie mani contro di me. Ma il pericolo, che era imminente e gravissimo, mi indusse a bruciare le tappe; senza perdere tempo in riflessioni, decido di fuggire per scampare al macello che mi pendeva sul capo. Subito con un violento strattone rompo la fune con cui ero legato, e di gran corsa me la do a gambe, non trascurando di sparare calci in abbondanza, a tutela della mia pelle; attraverso di furia il portico antistante, irrompo, senza esitare, nella sala del triclinio, dove il padrone di casa, insieme coi sacerdoti della dea, attendeva a un pranzo sacrificale, e col mio slancio mando in frantumi non poca roba, tra posate e vasellame, e faccio cadere tavole e lumi.

Il signore, crucciato nel vedere il triste scempio delle sue cose, mi affidò con molte raccomandazioni a un servo e gli ordinò, vista la mia insolenza e irrequietezza, di tenermi chiuso in luogo sicuro, onde evitare che io tornassi

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con eguale sfacciataggine a scompigliare la serenità del convito. Con questa trovata carina seppi egregiamente difendermi e, scampato dalle mani del beccaio, ero tutto contento d'essere custodito in quel carcere che per me rappresentava la salvezza.

Ma è cosa evidente che, quando la Fortuna ci mette le corna, a un tizio il quale sia nato da donna mortale tutto va di traverso: ché né il senno delle decisioni né l'accortezza dei rimedi valgono a scongiurare o a dare nuovo corso ai decreti fatali della divina provvidenza. Insomma, quello stesso stratagemma che sembrava al momento avermi assicurato la salvezza, doveva cacciarmi in un altro grave pericolo, anzi fu lì lì per mandarmi all'altro mondo.

2. Infatti, un ragazzotto, la faccia sconvolta e tremante di paura, irrompe nel triclinio dove i convitati conversavano tranquillamente, e annuncia al padrone che una cagna arrabbiata, dal vicolo vicino, si era poco prima introdotta con un balzo prodigioso attraverso la porta carraia in preda al fuoco della pazzia, era subito saltata addosso ai cani da caccia, di qui era corsa dritta alla stalla dove con eguale frenesia aveva aggredito le bestie, e in ultimo non aveva risparmiato neppure gli uomini; che, in effetti, nel tentativo di scacciarla, avevano riportato morsicature di varia entità Mistilo il mulattiere, Efestione il cuoco, il cameriere Ipnofilo, il medico Apollonio e parecchi altri della servitù; e che in tutti i casi si trattava di morsicature velenose, perché alcune delle bestie ferite già diventavano furiose, con sintomi della stessa rabbia.

Questa notizia mise immediatamente in agitazione tutti; credendo che la mia sfuriata fosse stata effetto dello stesso contagio, afferrano le prime armi che trovano e, incoraggiandosi l'un l'altro a difendersi dalla comune calamità, si mettono a inseguirmi, sicché non io, ma essi, piuttosto, erano travagliati dal morbo della follia. E di certo con quelle lance, con gli spiedi, o addirittura con le bipenni di cui i servi li avevano forniti in abbondanza, mi avrebbero tagliato a pezzi, se io, accortomi appena in tempo della bufera che stava per inghiottirmi, non mi fossi cacciato in fretta e furia nella camera dov'erano alloggiati i miei padroni. Allora gli inseguitori, dopo avermi chiusa e sbarrata la porta sul muso, montarono sul posto la guardia; non volevano correre il rischio di trovarsi a tu per tu con me, e aspettavano che la rabbia ostinata, da cui ero posseduto, col suo mortale contagio mi logorasse le forze sino a uccidermi.

In questo modo trovai infine la mia salvezza; abbracciai dunque il dono della solitudine che mi offriva la sorte, e mi gettai sopra un letto già preparato. Fu

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appunto la prima volta, dopo tanto tempo, che potei riposare da persona umana.

3. Era già giorno chiaro, quando mi alzai arzillo e pienamente riposato, grazie a quel morbido letto. Ascolto dunque quelli di fuori che, intenti alla guardia, avevano passato una notte insonne e ora stavano discutendo sul mio caso.

"Che ne pensate di questo povero asino? Quella specie di esaltazione non avrà ancora cessato di tormentarlo?".

"Al contrario, la malattia avrà raggiunto il suo colmo, e la forza del veleno avrà di certo già fatto il suo corso".

Le opinioni erano dunque varie, di modo che, per finirla, essi ricorsero all'osservazione diretta: mettono l'occhio a una fessura e mi scorgono sano e pacifico starmene tranquillamente in piedi.

Aprono allora senz'altro la porta per meglio accertarsi se ero già rinsavito. Ma uno di loro, che il cielo aveva sicuramente inviato per la mia salvezza, consiglia agli altri un mezzo per controllare lo stato della mia salute: riempire cioè un catino d'acqua fresca ed offrirmelo da bere. Se avessi attinto all'acqua di gusto, secondo il mio solito e con calma, potevano star certi che io ero guarito e sgombro d'ogni malattia; se al contrario io mi fossi agitato alla vista dell'acqua e ne avessi evitato il contatto, potevano essere sicuri che quella rabbia manteneva ostinatamente i suoi effetti nocivi. Del resto, questo accorgimento era pratica corrente e lo si trovava riferito anche nei libri degli antichi.

4. Il consiglio piacque. Subito vanno ad attingere un enorme vaso d'acqua limpidissima alla vicina sorgente e me lo presentano, ancora però con circospezione. Ma io mi dò premura di muovere spontaneamente il passo verso di loro, chino il muso in avanti per la brama di bere e, immergendo tutto il capo, vuotai quell'acqua che davvero era per me foriera di salute.

Ormai tutte le prove alle quali mi sottoponevano, io le sopportavo con tranquillità: chi mi dava schiaffi, chi mi torceva le orecchie, chi dava strattoni alla cavezza e altri sgarbi del genere, sinché a tutti quanti, malgrado fossero stoltamente prevenuti contro di me, feci toccar col dito la mia mansuetudine.

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Il giorno dopo, di nuovo carico delle sacre reliquie, mi conducono in strada al suono dei cimbali e delle nacchere a riprendere il mestiere del mendicante da piazza. Visitiamo parecchie casette e non poche borgate, e arriviamo a un villaggio costruito tra le macerie d'una città un tempo assai ricca. Là, mentre eravamo alloggiati nella prima osteria capitataci, veniamo a conoscenza d'un adulterio successo a un tizio povero in canna. E' una storia davvero carina, e voglio raccontarla anche a voi.

5. Costui, ridotto al lumicino dalla miseria, tirava avanti con quel magro salario che riceveva in cambio del suo lavoro di operaio. Con tutto ciò, aveva una mogliettina anch'essa di umile condizione, ma famosa per i suoi pessimi costumi. Un bel giorno, di mattina presto, egli era appena uscito per recarsi al consueto lavoro, che con grande audacia scivola dentro in casa l'amante della moglie. Ma mentre i due, senza alcun timore, sono impegnati in amorose colluttazioni, ecco che inaspettatamente ritorna a casa il marito che era all'oscuro della tresca e non aveva mai avuto sospetti del genere. Trova l'uscio chiuso con tanto di catenaccio e, lodando tra sé la serietà della moglie, bussa alla porta e inoltre annuncia con un fischio il suo arrivo. Allora la moglie, scaltra e abilissima a trarsi d'impaccio in situazioni così scabrose, libera subito l'uomo dal suo tenacissimo amplesso e lo nasconde nel ventre d'una giara che si trovava seminascosta in un angolo e del resto era vuota. Dopodiché, apre la porta e assale in malo modo il marito ancora sulla soglia:"Sei dunque un bighellone che se ne va a passeggio ozioso e con le mani in tasca! Se non ti garba il lavoro quotidiano, come puoi provvedere i mezzi per vivere, e che cosa porterai a casa da mangiare? Quanto sono disgraziata, io! Notte e giorno mi torco le braccia a tessere la lana, perché nella nostra stamberga ci sia almeno una lampada a farci luce. Com'è più felice di me Dafne, la vicina! Sin dal mattino se la spassa con i suoi ganzi, riempiendosi di vino e di cibo sino alla nausea".

6. Il marito, di fronte a tali rimproveri, esclama:"E che ti prende? Il fatto è che il padrone dell'officina ci ha dato vacanza, perché doveva sbrigare una faccenda in tribunale.

Però un pranzetto per oggi l'ho rimediato lo stesso. Guarda, per piacere, quella giara che è sempre vuota. Occupa tanto spazio per niente, e in realtà non offre altro vantaggio che di essere d'impiccio in casa. Ebbene, I'ho venduta per sei denari a un tizio che ora è là fuori, e aspetta di pagare e di portarsela a casa.

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Dunque, rimboccati i gomiti e dammi un po' una mano a tirarla fuori e consegnarla subito al compratore".

La moglie astuta colse la palla al balzo e scoppiò sfrontatamente a ridere:"Ecco", esclamò, "che grand'uomo ho trovato! Che commerciante di vaglia! Un arnese che io, donna come sono, e standomene chiusa in casa, ho venduto per sette denari, lui l'ha dato via per meno!".

Il marito, contento del sovrapprezzo, chiese:"E chi è quello che ha offerto un prezzo così vantaggioso?".

E lei:"E' un pezzo, imbecille, che è sceso nella giara per provarne attentamente la solidità".

7. L'altro non lasciò senza risposta la frase della donna, ma prontamente sbucando fuori replicò:"Vuoi sapere la verità, signora mia? Questa tua giara è molto vecchia, e in molti punti è rotta con delle spaccature larghe così", e rivolgendosi con bella faccia tosta al marito gli disse:"Buon uomo, chiunque tu sia, perché non mi dai subito una lucerna?Così potrei subito raschiare di dentro il tartaro e vedere se il recipiente si può ancora utilizzare. O credi forse che io i soldi li vada a rubare?".

Senza farsi pregare e senza sospettare di nulla, quella perla, quella cima di marito risponde:"Tirati via di là, fratello, e stai pure comodo. Aspetta che voglio io stesso presentartela pulita a dovere".

Detto fatto, si spoglia, si cala giù col lume e si mette a scalpellare le croste di sudiciume di quel vaso mezzo fradicio.

Allora il ganzo, quel garbatissimo giovanotto, mentre la moglie del fabbro guardava curva giù nella giara, le si fece sopra e se la piallava di gusto. Essa, dal canto suo, ficcando la testa nella giara, con una furberia degna d'una cortigiana, si faceva beffe di suo marito: col dito gli indicava di grattare qui, li, là, e ancora là, sinché ambedue le faccende furono terminate.

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Così, avuti i sette denari, il disgraziato operaio fu costretto a caricarsi sulle sue spalle la giara e a portarla fino alla dimora dell'amante.

8. In quel luogo ci fermammo pochi giorni. Poi, quando si furono ingrassati a spese della pubblica generosità e rimpinzati degli abbondanti frutti delle loro profezie, i miei onestissimi sacerdoti scoprono un nuovo mezzo di far quattrini. Prendono nota d'un responso unico, adatto a gran numero di casi, e in questa maniera, gabbano parecchia gente che veniva a consultarli sugli affari più vari.

La profezia era questa:"A ciò la terra i buoi col giogo arano:perché in futuro liete messi sboccino".

Li interrogava uno che volesse stringere legami di matrimonio?Dicevano che l'oracolo si adattava a meraviglia: il giogo, cioè, corrispondeva al matrimonio, e le messi alla nascita di figli.

Chiedeva consiglio un altro, che stesse per acquistare una tenuta?Giustamente la profezia parlava di buoi, d'un giogo e di campi fiorenti di messi. Qualcuno, preoccupato per un viaggio, veniva a prendere l'auspicio della dea? I più mansueti di tutti i quadrupedi erano già attaccati e pronti a partire e lo sbocciar delle zolle prometteva lauti guadagni. Un tizio che stesse per andare in battaglia o a rastrellare dei banditi domandava se dalla spedizione avrebbe sì o no tratto un utile? Sostenevano che un infallibile presagio gli aggiudicava il successo: infatti, i nemici avrebbero dovuto piegare il collo sotto il giogo, ed egli avrebbe ricavato dal saccheggio un bottino abbondante e di gran valore.

In questo modo, interpretando furbescamente il loro responso, erano riusciti ad arraffare non pochi quattrini.

9. Però, di fronte alle continue richieste, finirono per trovarsi a secco d'argomenti, e di conseguenza si rimisero di nuovo in strada. Ma era questa una strada molto peggiore di tutte le altre che avevamo già percorso di notte. Non ci credete? Interrotta da crepacci e da fosse, ora paludosa perché l'acqua ristagnava, ora scivolosa per una fangosa melma. A forza d'inciampare e di cadere una volta dopo l'altra, mi ero riempito le gambe di contusioni, e, solo a

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prezzo di gravi sforzi, potei alla fine, stanco, mettere piede su un sentiero di pianura.

A questo punto, alle spalle ci piomba addosso uno squadrone di cavalieri armati i quali fanno fatica ad arrestare i loro cavalli, tanto rabbioso era il loro galoppo, e si affrettano ad avventarsi su Filebo e sugli altri suoi soci, li afferrano per il collo, e apostrofandoli coi titoli di empi e sacrileghi, alternano agli insulti solidi pugni, poi stringono a tutti quanti i polsi nelle manette e li sottopongono a ripetute e incalzanti intimazioni:scoprissero piuttosto la coppa d'oro, scoprissero quella che era la mercede del loro crimine; essi avevano profittato dei riti solenni che avevano celebrato nel segreto del tempio, per sottrarre di nascosto la coppa da sopra il letto sacro della madre degli dèi. Credevano forse di poter schivare il castigo spettante a un delitto di quella specie? Era certo per questo che se l'erano battuta in silenzio, varcando il pomerio quando non era ancora giorno.

10. Alla fine, uno che aveva cacciato la mano sul mio dorso, per rovistare nel grembo stesso della dea, trovò la coppa d'oro e la trasse fuori sotto gli occhi di tutti. Eppure, neanche di fronte all'evidenza d'un delitto così nefando, quegli immondi messeri restano confusi o intimiditi; cercando, anzi, di volgere in riso il loro fallo, affermano:"Ecco! E' una vera ignominia! Quante volte l'innocenza è mal ricompensata! Per un solo piccolo calice che la madre degli dèi ha donato in segno d'ospitalità a sua sorella la dea Siriaca, ecco che si osa sottoporre i ministri della religione, come volgari malfattori, a un processo capitale!".

Ma inutilmente andavano blaterando queste e altre ciarle dello stesso genere, perché gli abitanti del villaggio li conducono indietro, e li per lì li cacciano con solide catene nel carcere Tulliano. Con una cerimonia di consacrazione rimettono nel tesoro del tempio la coppa e anche la statua che portavo; in quanto a me; il giorno dopo mi espongono all'asta, per mettermi in vendita al grido del banditore.

Mi acquistò un mugnaio d'un borgo vicino per sette sesterzi in più del prezzo che aveva pagato in precedenza Filebo. E non ebbi neppure il tempo di fiatare: il mugnaio, che aveva comprato anche del grano, mi carica in abbondanza, e per una strada irta di pietre e infestata da arbusti d'ogni specie mi conduce al mulino che gestiva.

11. Là parecchie bestie da tiro, girando in tondo chi da una parte, chi

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dall'altra, muovevano in circolo macine di vario calibro; e non solo il giorno, ma anche la notte intera, invece di riposare, in quel vortice di macchinari in movimento macinavano la farina. Tuttavia, il nuovo padrone, evidentemente perché io non recalcitrassi nell'apprendimento del mestiere, mi offrì un'ospitalità degna d'un personaggio altolocato: in effetti, il primo giorno mi diede vacanza e mi riempì la greppia con molta generosità. Ma quella vita di ozi beati e di pasti abbondanti non durò molto, perché il giorno dopo, di buon mattino, mi attaccarono a una macina che era con ogni apparenza la più grande. Con il capo coperto, subito mi spingono innanzi per una pista circolare che delimitava uno spazio ricurvo, di modo che avrei dovuto con immutabili andirivieni muovermi lungo una linea che si riformava tutto all'intorno, e tornare a ricalcare sempre col piede le mie orme.

Tuttavia, poiché non ero affatto dimentico della mia accortezza e del mio senno, non mostrai buona volontà d'imparare il mestiere.

Benché, quand'ero uomo tra gli uomini, avessi visto macchine simili girare nella stessa maniera, pure me ne stavo immobile, simulando d'essere intontito, come se fossi completamente all'oscuro di quel lavoro. Speravo, infatti, che mi avrebbero riconosciuto inadatto o per niente utile a un mestiere di quel genere, e che mi avrebbero assegnato a un altro lavoro, comunque più leggero; oppure, chissà! mantenuto senza far niente.

Ma la mia scaltrezza fu inutile, anzi riuscì a mio danno. Difatti, senza porre tempo in mezzo, parecchi mi si fanno attorno, brandendo randelli; io, intanto, me ne stavo senza sospetti, perché avevo gli occhi coperti, quando, all'improvviso, a un segnale, tutti insieme si mettono a urlare e a bastonarmi di santa ragione. Il baccano è tale che perdo la testa, dimentico tutti i miei piani, e subito, da bestia prudente, tirando a tutta forza sulla corda di sparto, mi metto a correre all'intorno con grande ardore.

Allora fu così repentino il cambiamento operatosi nel mio contegno, che tutti i presenti scoppiarono a ridere.

12. Il giorno era già parecchio inoltrato e io non ne potevo più dalla fatica, quando, staccatomi il collare di sparto mi sciolgono dall'ordigno al quale ero attaccato e mi mettono davanti alla mangiatoia. Io ero molto stanco e avevo un estremo bisogno di ristorare le mie forze, poiché la fame mi aveva completamente esaurito, eppure ero attirato e sollecitato dalla mia solita curiosità.

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Rimandai il pasto a più tardi, e sì che ce n'era da mangiare! e con un certo interesse osservavo com'era governata quell'officina della malora. Buon Dio! quale compagnia di uomini vili! La loro pelle era screziata di macchie livide, la schiena piena di cicatrici, e su di essa una veste variopinta di toppe e tutta lacera offriva più ombra che riparo; alcuni, poi, avevano il pube ricoperto solo con un misero straccio, ma tutti quanti avevano i panni talmente sbrindellati, che i loro corpi erano esposti a ogni sguardo. Sulla fronte avevano il marchio degli schiavi, i capelli rasati da una parte, le catene ai piedi; il loro pallore faceva paura, le palpebre erano rosse dal calore e dal fumo che ottenebrava l'atmosfera e rendeva debole la loro vista. Come dei pugili che prima di combattere si cospargono di polvere molto fine, questi erano coperti di un lurido strato di polvere bianca e farinosa.

13. Che dire, poi, degli animali, che erano miei compagni in quella vita? Che parole usare?Quanto erano vecchi quei muli, quanto deboli quei ronzini! Se ne stavano intorno alla mangiatoia a rodere i fasci di paglia, e un affannoso respiro scuoteva il collo che avevano corroso da piaghe purulente; le loro narici si fendevano sotto i colpi continui della tosse che li fiaccava, il loro petto era tutto una piaga per l'interminabile sfregamento del cappio di sparto, le costole messe a nudo sino all'osso per le interminabili battiture, gli zoccoli enormemente cresciuti in lunghezza per quel camminare in tondo su una strada senza fine, la loro pelle scabra per le croste del sudiciume, macilenta e coperta di rogna.

Mi spaventava l'eventualità di seguire il funesto esempio di quel gregge di schiavi. Il ricordo dell'antico Lucio e della perduta felicità, il pensiero d'essere precipitato in un abisso senza speranza mi facevano piangere a capo chino. Né vedevo apparire alcun sollievo a questa vita d'inferno. Solo la mia naturale curiosità mi procurava un po' di svago: infatti, ognuno faceva e diceva liberamente ciò che gli passava per la testa, senza preoccuparsi affatto della mia presenza. A ragione il divino iniziatore dell'antica poesia tra i Greci, quando volle descrivere un uomo d'impareggiabile saggezza, immaginò nel suo poema che egli avesse acquistato le sue grandi virtù visitando molte città e conoscendo vari popoli.

Perciò anch'io sono riconoscente e conservo un grato ricordo dell'asino in cui m'incarnai. Esso, infatti, mi diede ricetto nella sua pelle e mi attribuì, attraverso i vari casi e le prove della Fortuna, se non la saggezza, almeno una grande ricchezza di cognizioni.

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14. Voglio ora farvi ascoltare una storia, buona davvero e carina sul serio. Eccola qua.

Il mugnaio che mi aveva acquistato, uomo per altro onesto e con la testa a posto più di tanti altri, era incappato in una moglie di gran lunga la peggiore tra tutte le donne; con costei era costretto a sopportare una croce così pesante, sia rispetto all'amore coniugale, sia per l'andamento della casa, che io stesso, perbacco, in silenzio spesso compiangevo la sua sorte.

Poiché non uno solo dei vizi mancava a quella donna infame, anzi erano tutti al completo confluiti in lei come in una latrina melmosa: era crudele e stupida, civetta e ubriacona, ostinata e caparbia, spilorcia da far vergogna nell'arraffare per il suo interesse, scialacquatrice nello spendere pei suoi vizi, nemica della lealtà, avversaria dichiarata del pudore.

Inoltre, disprezzava la volontà degli dèi sino a calpestarla, poiché, invece d'una religione che aveva il crisma della certezza, affermava con sacrilega superstizione di credere in un dio, che essa proclamava unico. Così, inventando riti che non avevano alcun fondamento, gettava la polvere negli occhi della gente e ingannava quel poveraccio del marito, ubriacandosi e prostituendosi da mattina a sera.

15. Questa donna mi odiava al punto di sottopormi a una vera persecuzione. Infatti, sin dall'alba, quando ero ancora a letto, gridava di attaccare alla macina l'asino arrivato di fresco; appena usciva dalla sua camera, mi si piantava alle costole e ordinava che, seduta stante, mi si impartisse una doppia razione di legnate. Quando tutte le altre bestie, all'ora dovuta, venivano slegate per il pasto, dava ordine che io venissi attaccato alla greppia molto più tardi.

Il suo odio spietato spingeva sempre più la mia innata curiosità a controllare la sua condotta. Mi ero infatti accorto che un giovanotto frequentava con grande assiduità la sua camera, e avevo una gran voglia di vedere in faccia com'era fatto, solo che il panno con cui mi si copriva il capo avesse concesso ai miei occhi un attimo di libertà: non mi sarebbe certo mancata l'accortezza, per scoprire in un modo o in un altro le scostumatezze di quella donna malvagia. Il fatto è che ogni giorno era sua compagna inseparabile una vecchia megera che le faceva da ruffiana nelle sue dissolutezze e da intermediaria tra lei e gli amanti. Con questa lei si intratteneva subito a colazione; poi tutte e due, quando, mescendosi scambievolmente vino schietto, avevano mostrato la loro

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bravura nel bere, allora con subdole allusioni macchinavano scellerati imbrogli ai danni dell'infelice marito.

Dal canto mio, ero certo arrabbiato con Fotide che per errore, invece di darmi forma di uccello, aveva fatto di me un asino, però potevo almeno offrire questo conforto alla mia desolante bruttezza: quello di possedere un paio di orecchie gigantesche e di percepire ogni rumore, anche a una certa distanza lontano da me.

16. Un bel giorno mi giunge all'orecchio un discorso di quella timida vecchietta. Ecco che diceva:"Signora mia, questo amico che ti sei scelto senza consigliarti con me, vedi un po' tu cosa vuoi farne. Ti faccio però notare che è pigro, per niente coraggioso, che lo prende una vigliacca paura, appena scorge il tuo spiacevole ed antipatico marito con le sopracciglia aggrottate. Perciò è un amante che con la sua fiacchezza e poltroneria mette a dura prova la passione dei tuoi amplessi. Quant'è migliore di lui Filesitero! E' giovane, è bello, è generoso, è coraggioso. Le precauzioni dei mariti sono tutte vane, davanti alla tenacia dei suoi propositi. Lui solo, perbacco, è degno di godere le grazie delle dame, lui solo è degno di portare sul capo una corona d'oro, non foss'altro che per questa unica trovata, con cui proprio recentemente, mostrando un sangue freddo eccezionale, ha infinocchiato un marito geloso. Ascolta dunque, e fa' il paragone tra due amanti così diversi d'indole".

17. "Tu conosci un certo Barbaro, un decurione (N.d.T: membro del consiglio municipale) della nostra città, a cui il popolo ha assegnato il soprannome di Scorpione per l'asprezza dei suoi modi.

Costui assoggettava a strettissima sorveglianza e teneva chiusa in casa con la maggior cautela la moglie, donna di nobili natali e di straordinaria bellezza".

A questi dettagli la moglie del mugnaio soggiunse:"Eccome! La conosco benissimo. Tu vuoi dire Arete, la mia compagna di scuola!".

"Dunque", chiese la vecchia, "conosci anche tutta la storia con Filesitero?".

"Niente affatto", rispose quella, "ma desidero molto saperla. Ti prego, madre mia, raccontami tutto per filo e per segno".

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Senza esitare, la vecchia, chiacchierona infaticabile, comincia così:"Il suddetto Barbaro, dovendo effettuare un viaggio, desiderava impiegare la massima diligenza nel custodire l'onore della sua cara sposa. Perciò si raccomanda in segreto a un giovane schiavo, un tale Mirmece di cui egli conosceva l'esemplare fedeltà, e gli affida l'incarico di sorvegliare con ogni mezzo la sua padrona; lo minaccia inoltre di gettarlo in prigione, d'incatenarlo vita natural durante, di farlo morire infine di morte lenta per fame, se un uomo, qualunque esso fosse, sia pur passando per la strada, l'avesse toccata solo con un dito; e queste sue minacce ribadisce con giuramenti solenni sulla maestà di tutti gli dèi. Lascia così in Mirmece, che era spaventatissimo, un inflessibile sorvegliante della moglie, e con l'animo in pace dispone la partenza.

Mirmece, intanto, molto preoccupato, impediva alla sua padrona di uscire di casa, le sedeva vicino, compagno inseparabile, quando voleva uscire (e solo allora le dava il permesso) per recarsi la sera al bagno, le si attaccava ai fianchi come la colla, al punto da tenere nella mano l'orlo della sua veste. Insomma, mostrava un'ammirevole accortezza nel tener fede all'incarico che gli era stato affidato".

18. "Ma la bellezza della nobile dama non poteva sfuggire all'occhiuto ardore di Filesitero. Lo stimolava proprio l'onestà della signora, da tutti conosciuta, lo incitava in particolar modo quella feroce sorveglianza di cui ovunque si parlava; risoluto ad affrontare ogni difficoltà, ogni rischio, si accinge ad espugnare con tutte le sue forze una casa governata con tanta fermezza. Del resto, aveva la convinzione che la fede degli uomini è ben fragile, che il denaro può sgominare ogni difficoltà, che anche le porte d'acciaio di solito non resistono alla forza dell'oro.

Perciò coglie un momento in cui Mirmece era solo, gli svela il suo amore, lo supplica di porgergli il rimedio al suo tormento, e spergiura che è inesorabilmente deciso a darsi la morte a breve scadenza, se non riuscirà a possedere al più presto l'oggetto dei suoi desideri. Lo esorta quindi a non avere paura alcuna, perché si tratta di una cosa molto facile: infatti, essendo solo e di notte, con la complicità delle tenebre che lo avrebbero coperto e nascosto, poteva penetrare e uscire dalla casa nello spazio d'un momento. A questi e simili argomenti ne aggiunse, per concludere, un altro molto robusto, che come un cuneo avrebbe dovuto fendere con violenza l'ostinatezza dello schiavo dura come il metallo:stende la mano e gli mette davanti degli scudi d'oro lucidi, nuovi di zecca,

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promettendogli che, oltre ai venti destinati alla donna, a lui ne offrirà volentieri dieci per il suo disturbo".

19. "Mirmece inorridì di fronte a ciò che gli sembrava un delitto inaudito, e scappò via turandosi le orecchie. Eppure, non poté cavarsi dagli occhi il fulvo splendore dell'oro. Fu lesto, sì, ad allontanarsi e a tornarsene a casa a passi rapidi, ma vedeva sempre luccicare quelle belle monete, e già immaginava di possedere il tesoro, sicché la sua mente ribolliva come un mare in tempesta. Il poveraccio era tormentato da pensieri contrastanti e tiranneggiato da opposti pareri: da una parte la fedeltà, dall'altra il guadagno, dall'una i tormenti, dall'altra il piacere. Tuttavia, alla fine, la sete dell'oro vinse la paura della morte. Si sarebbe potuto sperare che il tempo calmasse la bramosia di quelle belle monete: macché! Quella pestifera avidità pure di notte lo faceva soffrire, così, se d'un lato le minacce del padrone lo trattenevano in casa, dall'altro il riflesso dell'oro lo induceva a uscirne.

A un certo punto, soffocata la voce della coscienza e rimossi i dubbi, trasmise l'ambasciata all'orecchio della signora. Né la donna smentì la leggerezza congenita al suo sesso, e immediatamente per quel vile metallo fece mercato del suo onore.

Pieno di gioia, Mirmece corre di volata a fa precipitare la sua fedeltà nell'abisso del tradimento, avido com'era, che dico di ricevere, almeno di toccare con mano quel denaro che per sua disgrazia aveva intravisto. Allegramente annuncia a Filesitero che, grazie ai suoi sforzi il suo desiderio può dirsi esaudito, e subito chiede la ricompensa promessa. Ecco finalmente nella sua mano quelle monete d'oro. Povero Mirmece! Lui che non conosceva neppure le monete di bronzo!".

20. "Era già notte fonda, quando l'audace spasimante, tutto solo e col capo accuratamente coperto, giunge alla casa sotto la guida di Mirmece, e da lui è introdotto sino alla stanza della padrona.

Da poco i novelli amanti offrivano in sacrificio ad Amore gli amplessi del loro noviziato, da poco essi, nudi soldati, compivano il primo servizio militare sotto le bandiere di Venere, ed ecco che, contro ogni aspettativa, il marito, che opportunamente aveva scelto la notte per ritornare, all'improvviso si presenta alla porta di casa.

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Già bussa, già chiama, già con un ciottolo percuote i battenti. Il ritardo lo mette sempre più in sospetto, ed egli minaccia a Mirmece i più atroci supplizi. Ma lo schiavo, sconvolto da quella tegola fra capo e collo, tremava da far compassione e non sapeva più che fare; appigliandosi poi all'unica via che gli rimaneva, protestava che nell'oscurità non riusciva a trovare la chiave, tanto l'aveva nascosta con cura.

Intanto Filesitero, sentendo quel baccano, si caccia addosso in fretta e furia la tunica e corre fuori dalla stanza, ma nel trambusto, si capisce, dimentica d'infilare i sandali. Allora finalmente Mirmece si decide a introdurre la chiave per far scattare il catenaccio e spalanca la porta.

Così, mentre il padrone, sempre vociando come un ossesso nel nome di tutti gli dèi, si dirige di filato alla camera della moglie, Mirmece di nascosto fa uscire di casa Filesitero. Poi, una volta che l'ha messo in libertà fuori della soglia, chiude la porta tutto soddisfatto e di nuovo torna a dormire".

21. "Ma mentre Barbaro, verso l'alba, usciva dalla camera, scopre sotto il letto della moglie dei sandali che non erano i suoi; erano quelli che portava Filesitero, quando s'era introdotto nella camera. Lì per lì immagina l'accaduto, ma, senza mostrare il suo cruccio alla moglie o ad alcun altro della famiglia, li afferra e se li nasconde in seno. Solo dà ordine agli schiavi compagni di Mirmece di metterlo ai ferri e di trascinarlo in piazza, e anche lui, soffocando in se stesso a più riprese i muggiti dell'ira, ci si dirige a rapida andatura, perché era convinto di poter facilmente rintracciare l'adultero, grazie all'indizio dei sandali.

Ed ecco Barbaro, col volto gonfio d'ira e le sopracciglia aggrottate, avanzare per la via; dietro di lui veniva Mirmece carico di catene, il quale, sebbene non fosse stato colto in flagrante, pure, turbato dalla sua cattiva coscienza, piangeva a dirotto e con i suoi lamenti disperati destava in tutti, ma inutilmente, la compassione.

Neanche a farlo apposta, passava di là Filesitero, che era diretto verso tutt'altra faccenda. Commosso, ma non spaventato da quell'improvviso spettacolo, ripensò allo sbaglio che gli aveva fatto commettere la fretta, e acutamente ne immaginò tutte le logiche conseguenze. Subito, con la risolutezza che gli è familiare, scosta gli schiavi, si getta urlando su Mirmece e giù pugni in faccia. Fortuna che erano finti!- Ohé! Avanzo di galera! - grida; - spergiuro! Sei un furfante, e prego il tuo

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padrone e tutti gli dèi del cielo che tu, sfrontato, scomodi con i tuoi falsi giuramenti, di darti quello che ti meriti per le tue bricconate. Tu ieri al bagno mi hai rubato i sandali.

Sei degno. Perbacco! Sei degno di portare questi ceppi sino a logorarli, e per giunta di subire gli orrori d'un tenebroso carcere.

L'opportuna trovata e l'aria decisa del giovane furono tali da trarre in inganno Barbaro, che anzi ne ebbe sollievo e ci credette in pieno. Tornato a casa, si fece venir davanti Mirmece e, dandogli i sandali, lo perdonò di buon animo e gli consigliò di restituire al legittimo proprietario l'oggetto rubato".

22. Le ciarle della vecchia non erano ancora finite, che la donna replicò:"Beata lei, che ha la fortuna di avere un amico così ardito e risoluto! Ma quanto sono disgraziata, io! Sono andata a capitare su un tipo che ha paura di tutto. Persino del rumore della mola ha paura! Ecco là! Anche del muso di quell'asino rognoso".

Ribatté la vecchia:"Vado subito a persuaderlo, quell'altro, e a fargli animo, e ti garantisco che ti porterò innanzi un amante pieno d'intraprendenza", e così, preso l'appuntamento per la sera, esce in fretta dalla stanza.

L'onesta moglie fa subito i preparativi per un pranzo degno dei Salii, decanta vini di pregio, alterna carni fresche ai salumi, provvede la tavola con abbondanza, insomma aspetta l'amante come se stesse per arrivare un dio. In quanto al marito, capitava proprio a fagiolo che pranzasse fuori, da un tintore suo vicino.

Il giorno, dunque, volgeva alla fine, e io, finalmente sciolto dal mio collare di alzaia, avevo la possibilità di starmene in pace e riprendere le forze; tuttavia mica tanto, perbacco, gioivo d'essere libero della mia fatica, quanto di avere gli occhi scoperti e poter così osservare, senza ostacolo, tutte le arti di quella donna scellerata.

Il sole s'era appena immerso nell'Oceano e rischiarava le contrade sotterranee del globo terrestre, quando ecco arrivare al fianco della vecchia l'amante audace. Si trattava poi di un giovincello che aveva le guance ancora rosee e

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lisce, una delizia a vedersi, uno insomma proprio degno ancora di far la gioia d'un amante. La donna lo accoglie a suon di baci e lo fa accomodare a tavola.

23. Ma il giovincello aveva appena bevuto l'aperitivo, e con la punta delle labbra sfiorava l'antipasto, quando, molto prima del previsto, ritorna il marito. Al che la degna moglie, scagliando contro di lui le più atroci maledizioni e augurandogli di rompersi tutt'e due le gambe, fa nascondere l'amico, livido e tremebondo, sotto un ventilatoio di legno, usato per ripulire il grano battuto e che per caso si trovava lì vicino. Quindi, con l'astuzia in lei innata, atteggia il volto alla massima calma, per dissimulare il suo fallo vergognoso, e domanda al marito:"Come mai arrivi così di buon'ora? Hai forse lasciato la tavola del tuo amico? Eppure, gli sei così affezionato!".

E quello, tutto dolente e con frequenti sospiri, risponde:"Non ho potuto stare calmo di fronte alla scelleratezza, all'infamia di una donna corrotta, e sono corso via. Ahimè! O dèi buoni! Una signora così fine, così fedele, così posata, com'era lei, andare a disonorarsi, a infangarsi in quel modo! Giuro per la santissima Cerere che ho dinanzi a me: ancora adesso, dopo quel che ho visto d'una donna simile, non posso credere ai miei occhi".

La moglie sfrontata s'incuriosì a sentir parlare così il marito, e bruciava dalla voglia di saper la faccenda; perciò insisteva senza posa perché le narrasse tutta la storia, né la smise finché il marito non si arrese al suo desiderio. Così egli comincia a descrivere il guaio capitato in casa altrui, ignaro di quelli che accadono in casa propria.

24. "La moglie del mio camerata, il tintore, pareva che avesse sempre mantenuto un contegno corretto. Essa, infatti, a quanto si affermava pubblicamente in sua lode, reggeva la casa del marito con assoluta fedeltà, allorché la travolse una segreta passione per un amante, un tizio che non conosco.

I convegni d'amore erano furtivi e quasi giornalieri; e proprio nel momento in cui noi, dopo il bagno, andavamo a casa per pranzare, la donna era nelle braccia di quel giovane che ti ho detto. Cosicché, il nostro arrivo la colse di sorpresa, e lei, lì per lì, ricorse allo stratagemma di nascondere il giovane in questione sotto una gabbia di vimini.

Era, questa, una specie di cupola elevata in altezza con un graticcio circolare

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di bacchette che sui fianchi e sulla sommità portava distesi i panni da sbianchire con dei suffumigi di zolfo.

Così provvede a nascondere il giovane in un luogo che le sembrava molto sicuro, e poi, come se nulla fosse, si mette a tavola assieme a noi.

Intanto, il giovanotto, intossicato dalle emanazioni acri e penetranti dello zolfo, soffocava e stava per perdere i sensi; e tale è l'energia naturale di quell'elemento che gli starnuti gli scoppiavano uno dietro l'altro".

25. "Al primo starnuto, il marito, credendo che fosse la moglie, perché in effetti proveniva di dietro le spalle di lei, le rivolse la solita frase d'augurio, e così per un secondo, per un terzo e poi un quarto, ma alla fine, messo in sospetto da quelle salve ripetute, immagina cosa c'è sotto. Dà un urtone alla tavola, rimuove la gabbia e tira fuori il tizio, che ansimava e respirava affannosamente.

L'onta recata riempì il mio amico d'ira e di sdegno; reclamava una spada e smaniava di volerlo sgozzare. Ma l'altro era già in fin di vita, sicché io, considerando il rischio in cui ci mettevamo, con gran pena gli impedisco di sfogare il bollore della rabbia, e lo assicuro che, in breve e senza metterci il dito, il suo rivale avrebbe reso l'anima, grazie alla velenosa forza dello zolfo.

Così il mio amico si calmò, non tanto per le mie esortazioni, quanto per l'evidenza stessa del fatto (davvero quel tale era più di là che di qua); e lo andò a deporre in un vicolo vicino. Io ne approfittai per dare in segreto consigli alla moglie, e sono riuscito a convincerla a lasciare per un po' la bottega e a ricoverarsi da una sua amica, finché col tempo la furia del marito sbollisca; per il momento, infatti, lui era talmente sconvolto dalla collera, che manifestamente nutriva qualche funesto disegno contro di sé, oltre che contro la moglie.

Insomma quel pranzo in casa del mio amico mi ha così nauseato, che me la son battuta e sono tornato a casa mia".

26. Durava ancora il racconto del mugnaio, e già da un po' la moglie svergognata e impudente scagliava imprecazioni e maledizioni alla moglie del tintore: era

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una perfida, una spudorata, una grossa vergogna per tutto il sesso femminile, poiché senza badare al suo onore aveva calpestato il vincolo d'affetto che si origina dall'amore coniugale, e con un'infamia da lupanare aveva macchiato la casa del marito; non era più degna del nome di sposa, ma s'era meritato il titolo di prostituta; e in conclusione donne simili, affermava, bisognava bruciarle vive.

Ma intanto il pensiero del segreto pericolo in cui si trovava, e il rimorso della sua coscienza, l'angustiavano, ed essa, per liberare al più presto possibile il suo ganzo da quel riparo davvero scomodo, insisteva nel voler persuadere il marito che era ora di coricarsi. Ma quello, che se n'era tornato completamente digiuno, dato che il pranzo se n'era andato a monte, gaiamente reclamava piuttosto da mangiare.

La donna, benché controvoglia, si affrettò allora a servirgli le pietanze che erano destinate a un altro. A me mi si straziava nell'intimo il cuore, perché riflettevo all'azionaccia di poco prima e alla faccia tosta di cui ora dava prova quella donna esecrabile. Perciò pensavo tra di me in che modo potessi mettere in chiaro la frode e portare aiuto al mio padrone: volevo cioè abbattere il riparo e mostrare agli occhi di tutti quell'altro, che, come una testuggine, era rannicchiato sotto il ventilatoio.

27. Insomma, ero veramente addolorato per l'onta inflitta al mio padrone; e la divina provvidenza finì per volger l'occhio dalla mia parte.

Era già l'ora, infatti, in cui il vecchio zoppo al quale era affidata la nostra sorveglianza conduceva l'intero gregge delle bestie ad abbeverarsi a una vasca vicina. La circostanza mi fornì la tanto desiderata occasione di vendicarmi.

Mentre passavo, scorsi la punta delle dita del ganzo spuntare dall'orlo del riparo, che era troppo stretto. Allora, piegando lo zoccolo di traverso, con vero odio gli schiaccio le dita sino a ridurle in poltiglia, e il tizio, non reggendo più alla sofferenza atroce, con un grido di dolore dà un calcio al ventilatoio, lo rovescia e, rivelandosi agli occhi dell'ignaro marito, scopre la commedia della disonesta donna.

Però il mugnaio non rimase eccessivamente turbato nel vedere il torto recato al suo onore. Il giovincello tremava, pallido per lo spavento, ma egli, rivolgendosi a lui con fronte serena e con volto benigno, così lo confortò:

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--Non temere, figliolo, che voglia farti del male. Io non sono un barbaro, non sono un contadino dai rozzi costumi, non ti ucciderò, come ha fatto quel focoso tintore con le esalazioni di zolfo, e neppure, con il rigore che mi consente la legge sull'adulterio, intenterò processo capitale a un ragazzino così leggiadro e carino. No, certo! Voglio invece pattuire con mia moglie una compartecipazione agli utili. E' mia intenzione non di procedere, secondo la legge, a una divisione dell'eredità, ma di usufruire in comune del possesso, di modo che tutti e tre ci troviamo d'accordo in un unico letto. Infatti, ho sempre vissuto con mia moglie in così intimo accordo, che, come raccomandano i saggi, ci siamo sempre trovati dello stesso parere. Del resto neppure l'equità consente che la moglie abbia maggior autorità del marito".

28. Così, con frasi carezzevoli, si faceva beffe di lui e lo trascinava verso il letto, e il ragazzo era, sì, riluttante, eppure dovette seguirlo. Chiude poi in un'altra stanza la moglie, e da solo, coricato insieme col ragazzo, assapora la dolce vendetta per l'offesa fatta alla castità del suo matrimonio.

Non appena lo splendente carro del sole ebbe tratto alla luce il giorno, egli chiama due schiavi molto robusti, fa sollevare il ragazzo il più alto possibile e somministra sferzate alle sue natiche, esclamando:"Aspetta un po'! Sei ancora un ragazzo tenero e delicato, privi gli amanti del fiore della tua giovinezza, e vai già a caccia di donne e per di più di donne di libera condizione! Tu osi seminar lo scandalo nei matrimoni che ha congiunto la legge, e pretendi di fare il seduttore prima del tempo?".

Mentre lo apostrofa con questi e altri rimproveri del genere, lo rosola ben bene di sferzate e poi lo fa gettare fuori dall'uscio.

Quello, il principe dei seduttori, se ne fuggì tutto afflitto.

Ottenne la salvezza che più non sperava, ma riportò il suo bianco sederino straziato dalla correzione sofferta di notte e di giorno.

Dopo di che, il mugnaio senz'altro intimò alla moglie il divorzio e la scacciò fuori di casa.

29. Ma lei, che era già di per sé cattiva d'animo, si turbò e si risentì aspramente per l'affronto, anche se lo aveva meritato.

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Ritorna perciò alle vecchie abitudini, e appellandosi alle arti solite delle donne, scova dopo molte ricerche una vecchia furbacchiona, di cui si raccontava che compisse mirabilia a forza d'incantesimi e stregonerie. Pregando e ripregando, ne ottiene l'aiuto; la colma di regali, e le chiede di due cose l'una, o che calmi il marito e la riconcili con lui, oppure, se non è possibile, che almeno gli ecciti contro uno spirito d'Averno o un qualche altro demone crudele, per farlo perire di morte violenta.

Allora quella maga, depositaria di soprannaturali poteri, prima tenta di far breccia con le armi più semplici della sua arte scellerata, e si sforza di rabbonire l'animo offeso del marito e indurlo a riprender l'amore. Il tentativo però non le riuscì come credeva, e lei, allora, non solo se la prese con gli dèi, ma, oltre al dispiacere di sentirsi sfuggire la ricompensa promessa, si indispettì di vedersi tenuta in così poco conto. Di conseguenza, cominciò ad attentare alla vita stessa dell'infelice marito e a istigare contro di lui l'anima d'una donna perita di morte violenta.

30. Ma forse tu, lettore scrupoloso, diffidi del mio racconto, e mi addurrai questo ragionamento:"Qual è la fonte, da cui tu, furbacchione d'un asino, hai potuto sapere le macchinazioni delle due donne? Com'è possibile, se tu eri chiuso nel recinto d'un mulino, e se esse, lo affermi tu, hanno agito di nascosto?".

State dunque a sentire in che modo io, da uomo curioso, coprendomi sotto le sembianze d'un asino, sono venuto a conoscenza di tutte le trame concertate per far morire il mugnaio mio padrone.

Circa a mezzogiorno si presentò al mulino una donna. Il suo aspetto sfigurato da una profonda angoscia era quello di un'accusata colpevole d'un delitto: era semivestita con una tunica miserabile, tutta toppe, coi piedi nudi, senz'ombra di scarpe, pallida come il bosso e magra da far paura; i capelli grigi a cui erano state strappate intere ciocche erano cosparsi di sordida cenere, e pendevano innanzi ricoprendo buona parte del volto.

Questa strana donna affabilmente posa la mano sulla spalla del mugnaio, poi, come se volesse discutere con lui in segreto, entra con lui nella sua stanza e, chiusa la porta, non esce più di lì.

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Intanto, tutto il frumento che gli operai avevano tra le mani era già esaurito e se ne doveva chiedere dell'altro, perciò gli schiavi, stando davanti alla camera, chiamavano il padrone e chiedevano l'occorrente per continuare il lavoro. Ma lui non rispondeva affatto, anche se lo avevano chiamato non una sola, ma più volte e a gran voce. Gli schiavi allora si misero a bussare con forza, ma vedendo che la porta era sbarrata con tanto di chiavistello, sospettarono che fosse accaduto qualcosa di molto grave: a colpi di spalla piegano e fanno saltare i cardini, e si aprono finalmente un'entrata. La donna era sparita, volatilizzata addirittura, ma il padrone lo vedono impiccato penzolare da una trave già esanime. Subito lo sciolgono dal laccio che lo stringeva al collo, lo tirano giù, e con alti lamenti e profondi gemiti procedono all'ultimo lavacro, poi, sbrigate le funzioni che si usano fare nei funerali, lo portano a seppellire.

31. Il giorno dopo, la figlia, che viveva col marito in un borgo vicino, accorre piena d'angoscia, con i capelli scomposti e pendenti sul volto, e battendosi spesso con le palme il seno.

Nessuno le aveva riferito la sventura familiare, ma lei già conosceva tutto. Infatti, durante il sonno le era apparso il volto piangente di suo padre con la gola ancora avvinta dal cappio, e le aveva rivelato, senza nulla omettere, il delitto della matrigna, l'adulterio, il sortilegio e il modo in cui egli, adescato da un'anima dannata, era piombato all'Averno.

A lungo durarono i gemiti e lo strazio della figlia, sinché i familiari accorsi la indussero a calmarsi e a porre fine al suo cordoglio.

Durante otto giorni furono celebrate presso la tomba solenni cerimonie, il nono tutto il complesso degli schiavi, del materiale e delle bestie viene messo in vendita all'asta. Così la fortuna capricciosa disperse qua e là, secondo i vari eventi della vendita, i beni appartenenti a un'unica casa. In quanto a me, finì per acquistarmi un poveretto, un ortolano, per cinquanta sesterzi.

A caro prezzo, diceva lui, ma aveva la speranza che io, unendo il mio lavoro al suo, potessi aiutarlo a guadagnarsi la vita.

32. Credo sia il caso di descrivere anche questa volta, con ogni evidenza, le necessità inerenti al mio nuovo servizio.

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Di buon mattino il padrone abitualmente mi conduceva alla vicina città carico di sacchi di legumi, consegnava la merce ai rivenditori e, a cavalcioni sulla mia schiena, se ne tornava al suo orto. Poi, mentre lui zappava, dava l'acqua e attendeva, piegato in due, alle altre fatiche, io, standomene ozioso, mi godevo un tranquillo riposo.

Le stelle intanto compivano nell'ordine le loro rivoluzioni, e l'anno, percorrendo la sua parabola discendente attraverso il ciclo dei giorni e dei mesi, aveva lasciato alle sue spalle le vinose delizie dell'autunno e piegava verso le invernali brine del Capricorno. Io, rinchiuso in un recinto che come tetto aveva la volta del cielo, ero esposto di giorno alla pioggia e di notte alla brina, ed ero in permanenza tormentato dal freddo. Del resto, il mio padrone versava in tanta miseria che, non dico per me, ma neppure per sé poteva rimediare un saccone qualsiasi o una striminzita coperta, ma doveva accontentarsi di abitare in una capannuccia col tetto di frasche. Oltre a ciò, soffrivo, di mattina presto, le pene dell'inferno, quando coi miei piedi nudi mi toccava affrontare la fanghiglia gelata o aguzzi ghiaccioli; e, per giunta, non potevo neppure riempirmi la pancia col cibo consueto. E' infatti vero che io e il mio stesso padrone mangiavamo precisamente allo stesso desco, ma c'era poco da stare allegri: a tavola apparivano solo lattughe, e di quelle vecchie e aspre che per la loro vetusta età sono tutte un germoglio di barbatelle simili a scope, e in quanto al succo sono amare e sanno di fango e di putredine.

33. Una notte senza luna, un proprietario del distretto vicino, trovandosi in difficoltà per le fitte tenebre, e inzuppato dalla pioggia, non riusciva più a scoprire la via di casa; e, poiché il suo cavallo era già stanco, fece sosta nel nostro orticello.

Fu accolto dal mio padrone con quell'affabilità che richiedeva il momento, e poté godere di un riposo che, sebbene non fosse confortevole, gli era tuttavia necessario. Volle quindi essere riconoscente per la cortese accoglienza, e promise all'ospite di regalargli qualche prodotto delle sue terre: del frumento, dell'olio, e in più due orci di vino.

Il mio padrone non se lo fece dire due volte. Si munisce d'un piccolo sacco e di otri vuoti e, montato sulla mia schiena, senza usare basto, affronta un percorso di sessanta stadi. Compiuto quel tratto di strada, arriviamo alle terre suddette, e qui l'ospite cortese subito fa sedere il mio padrone a una tavola riccamente imbandita.

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Erano già sul punto di fare a botta e risposta col bicchiere alla mano, quando avvenne un prodigio meraviglioso. Una delle tante galline, correndo qua e là per l'aia, starnazzava alla maniera solita delle galline, quando sono smaniose di far l'uovo. Il padrone, che l'osservava, esclamò:"O che buona e fecondissima ancella! E' già un bel po' di tempo che tu giornalmente ci nutri col frutto dei tuoi parti. Anche oggi, mi sembra, vuoi offrirci un piccolo antipasto".

E, rivoltosi a un servo:"Ehi là!" disse; "piazza nel solito angolo il paniere che serve alle galline in procinto di far l'uovo".

Mentre lo schiavo eseguiva l'ordine, la gallina, rifiutando di adagiarsi nel solito nido, ai piedi stessi del suo signore, si sgravò d'un parto prematuro, ma destinato però a metterci in grave imbarazzo. Si trattava infatti non d'un uovo dei soliti: era nato nientemeno che un pollastrello, perfettamente formato con le penne, gli artigli, gli occhi e la voce persino, il quale subito cominciò a correre dietro alla madre.

34. Ma non era finita, poiché immediatamente accadde un altro prodigio molto più strano, e tale da far giustamente ribrezzo a tutti. Poiché sotto la tavola stessa su cui giacevano gli avanzi del pranzo, ecco che il pavimento si spacca, dal basso sgorga in abbondanza uno zampillo sanguigno, e di qui grosse gocce schizzano e irrorano di sangue la mensa.

Proprio in quel momento, mentre tutti sbalorditi guardano tremando quei divini presagi, arriva di corsa uno schiavo dalla cantina e riferisce che tutto il vino, da tempo immagazzinato, fermentava per il caldo in tutte le botti, e ribolliva precisamente come se fosse sovrapposto alle fiamme d'un braciere.

Ma non bastava. Ecco apparire una donnola che trascina fuori dalla tana coi denti un serpente morto; dalla bocca d'un cane da pastore ecco saltar fuori un ranocchio verde; ecco che il cane stesso viene assalito e strangolato con un solo morso da un ariete che gli stava vicino...

Una catena di episodi così strani e paurosi aveva fatto piombare il signore e tutta la sua famiglia nell'angoscia e nella perplessità. Qual era la prima

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operazione da farsi, quale la successiva per placare le minacce degli dèi celesti? Quale cerimonia era più adatta allo scopo, quale meno? Quante e quali erano le vittime da offrire in espiazione?35. Erano ancora tutti istupiditi, sotto l'impressione di un invincibile spavento, quando accorre un giovane schiavo ad annunciare al signore sciagure di irreparabile gravità .

Egli, infatti, viveva con tre figli già grandi, tre giovani istruiti e di ottimi sentimenti, ed era molto orgoglioso di loro.

I giovani erano legati da una vecchia amicizia a un poveruomo che possedeva una modesta casetta, al di là del recinto della quale si estendeva una tenuta molto ricca ed estesa; il vicino che la possedeva era potente, ricco, giovane e di illustre famiglia, ma faceva cattivo uso delle glorie avite, e con la sua grande influenza e faziosità esercitava il buono e il cattivo tempo nella vita cittadina. Costui, agendo come un nemico in guerra, compiva scorrerie nel povero podere dell'umile vicino, massacrando greggi, portando via i buoi e guastando le messi non ancora mature.

Lo aveva già spogliato di tutti i frutti del suo lavoro, e, non vedendo l'ora di gettarlo fuori del suo campicello, gli aveva da ultimo mosso una contestazione senza alcun fondamento e pretendeva il possesso di tutto il terreno. Allora il contadino, uomo molto mite, vedendosi già spogliato dall'avidità del ricco, e volendo conservare il suolo ereditato dal padre, almeno per esserci sepolto, nella sua estrema agitazione convocò parecchi amici, perché lo aiutassero a delimitare il confine. Tra gli altri, erano presenti i tre fratelli, che desideravano portare il loro aiuto per quel poco che era in loro potere.

36. Nondimeno, quel violento non fu turbato e confuso neppure un filo, al veder presenti tanti cittadini, e non volle moderare, non dico le sue ladrerie, ma neppure le sue espressioni d'ingiuria.

Eppure, quelli lo richiedevano con molta gentilezza e cercavano di rabbonire con parole concilianti la sua indole iraconda!Egli, invece, tutto brusco, facendo i più solenni giuramenti sulla vita sua e dei suoi cari, afferma che se ne infischiava altamente di tutti i pacieri lì presenti; in quanto poi al vicino, lo avrebbe fatto prender per le orecchie dai suoi servi e gettare il più lontano possibile dalla sua bicocca.

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A queste parole, insorse un vivissimo sdegno nell'animo di tutti i presenti. Uno dei tre fratelli prontamente e con abbastanza schiettezza gli rispose che lui credeva di poter minacciare la gente con una superbia degna d'un tiranno perché fidava nelle sue ricchezze, ma che questa fiducia era vana, perché anche i poveri sono per norma tutelati contro l'arroganza dei ricchi dalle leggi che difendono la loro libertà.

Come l'olio accresce vigore a una fiamma, lo zolfo a un incendio, la sferza alle Furie, così anche questo linguaggio fu un alimento per la brutalità di quello.

Ormai fuori di sé, in preda a un accesso di follia, urla che li mandava a farsi impiccare tutti, e anche le leggi con loro, e dà ordine di slegare e di aizzare contro i presenti, per fare strage, i cani della fattoria: dei cani da pastore feroci ed enormi, avvezzi a divorare le carogne abbandonate nei campi, e che per giunta erano stati addestrati ad aggredire a morsi tutti i viandanti che passassero nelle vicinanze.

Appena i pastori, con le solite grida, ebbero acceso l'ardore dei cani, essi, pazzi di rabbia, con un coro discorde di latrati si precipitano, orribile spettacolo! sulla folla; difficile contar le ferite, perché i cani assalgono gli uomini, li lacerano, li sbranano, e non risparmiano neppure i fuggiaschi, anzi li inseguono ancora più infuriati.

37. A questo punto, mentre tra la folla terrorizzata i cani fanno un tale macello, nel fuggi fuggi il più giovane, inciampando in una pietra, si ammacca le dita dei piedi, precipita a terra e il suo corpo offre un orribile pasto a quei ferocissimi cani, poiché essi immediatamente si gettano sulla preda distesa a terra e fanno a brani il giovane infelice.

Appena gli altri due sentirono l'urlo di morte del loro fratello, accorsero pieni d'angoscia in suo aiuto: avvolgono la tunica sul braccio sinistro, e a colpi di pietra tentano di soccorrere il fratello e di allontanare i cani.

Ma non fecero in tempo a sminuirne o a fiaccarne la furia; le ultime parole che pronunciò l'infelicissimo giovane furono di vendicare la propria morte sul ricco scellerato, e subito dopo spirò, ormai fatto a brani.

I fratelli, non tanto in verità per la forza della disperazione, quanto perché

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ormai erano dimentichi d'ogni personale considerazione, avanzano dritti verso il ricco; lo sdegno li aveva sconvolti e portati fuori di sé, e si mettono a lanciare pietre contro il loro nemico.

Ma quell'assassino, che già da tempo aveva la coscienza sporca di sangue e rotta a questo genere di misfatti, scaglia una lancia e trapassa proprio nel petto un altro dei fratelli. Il giovane però, sebbene il colpo mortale lo togliesse subito dalla vita, non cadde a terra; l'asta che lo aveva trafitto da parte a parte così da spuntargli un buon pezzo dietro la schiena si era infitta violentemente nel terreno e con la sua elastica durezza sosteneva in equilibrio il cadavere.

Subito uno degli schiavi, un pezzo d'uomo alto e robusto, intervenne a portare aiuto a quell'assassino, e lanciò di lontano una pietra, mirando al braccio destro del terzo fratello; ma il ciottolo mancò il bersaglio e, sfiorando al giovane la punta delle dita, ricadde, contro ogni aspettativa, senza fargli alcun male.

38. Tuttavia il rischio corso e l'esito a lui favorevole ispirarono al giovane, che era provvisto di molta accortezza, una certa speranza di poter fare la sua vendetta.

Fingendo, perciò, di avere la mano offesa, così apostrofa il suo crudele avversario:"Gioisci pure di aver massacrato tutta la nostra famiglia, pasci la tua insaziabile crudeltà con il sangue di tre fratelli, e va' pure orgoglioso di aver abbattuto i tuoi concittadini. Ma sappilo bene! Tu puoi spogliare i poveri delle loro terre e ingrandire all'infinito i tuoi possedimenti, ma avrai sempre dei vicini. Io ero fermamente deciso a tagliarti la testa, purtroppo anche la mia destra, l'ingiustizia del fato ha voluto che ricadesse inerte sotto la sua percossa".

A queste parole, quel brigante, al colmo dell'esasperazione, perse il lume degli occhi, afferra allora una spada e si slancia sul giovane, smaniando d'uccidere l'infelice con la sua stessa mano.

Ma trovò pane per i suoi denti! Il giovane inaspettatamente gli resiste con una vigoria che egli non avrebbe mai creduto, e afferrandogli con una presa tenacissima la destra, con uno sforzo violento solleva in alto il ferro e,

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calandolo a più riprese, cava dal corpo del ricco l'anima sozza. Fu questione d'un attimo. Già i servi accorrevano, ma il giovane, per togliersi dalle loro mani, rivolse contro di sé la spada ancora lorda del sangue dell'avversario, e si recise la gola.

Questi erano dunque gli avvenimenti di cui offrivano un chiaro presagio quei mirabili prodigi, queste le notizie che attendevano al varco il disgraziatissimo padrone di casa. Il vecchio, in balia di tante disgrazie, non fece parola, non riuscì neppure a versare in silenzio una stilla di pianto; afferrò il coltello con cui poco prima aveva diviso tra i suoi ospiti il formaggio e le altre vivande, e anche lui, ad immagine del figlio suo sventurato, avventò colpi su colpi nella sua gola, sinché, crollando bocconi sulla tavola, lavò con un nuovo fiume di sangue le macchie profetiche del primo.

39. In tale modo, nello spazio d'un attimo, una famiglia scomparve nella morte. L'ortolano ne compianse il destino e deplorò amaramente la sua malasorte; poi, dopo aver pagato il suo tributo di lacrime all'ospite e aver battuto più volte per il dolore le mani, rimaste purtroppo vuote, si issò sulla mia schiena e riprese la via per cui eravamo venuti.

Ma neppure lui poté tornare senza intoppi. Un tizio d'alta statura e, come indicavano il suo equipaggiamento e le sue maniere, soldato legionario, ci si fa incontro e con un fare superbo e pieno d'arroganza interroga:"Dove conduci quest'asino scarico?".

Il mio padrone, che ancora era scosso per l'afflizione e del resto ignorava il latino, continuava per la sua strada senza rispondere.

Il soldato, dando libero corso alla brutalità che gli era familiare, e interpretando con rabbia quel silenzio come un'offesa, con un bastone di vite che aveva, percuote il mio padrone e lo caccia giù dal mio dorso.

Allora l'ortolano umilmente rispose che non conosceva quella lingua e perciò non poteva capire le sue parole.

Il soldato quindi ripeté in greco:"Dove porti quest'asino?".

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L'ortolano rispose che era diretto alla città vicina.

Ma l'altro, subito:"Su via, a me serve quest'asino. Ne ho bisogno per fargli trasportare insieme con altre bestie da soma i bagagli del nostro capitano, da una fortezza qua vicino".

Così dicendo, stende la mano, mi afferra per la briglia che serviva per condurmi, e comincia a tirarmi. Ma l'ortolano, asciugandosi il sangue sgorgato dalla ferita che la bastonata di poco prima gli aveva prodotto alla testa, di nuovo scongiura il soldato di voler considerare il suo caso in modo più civile e umano. Alle suppliche e ai giuramenti aggiungeva l'augurio che il soldato in compenso venisse soddisfatto nelle sue speranze, e diceva:"Del resto, quest'asinello non solo è un vero fiaccone, ma nonostante ciò ha anche il vizio di mordere e va soggetto a delle crisi di epilessia, una malattia esecrabile. Per portarmi, e con grande stento, dall'orto qui vicino pochi cespi di verdura, la fatica lo stanca al punto da fargli venire il fiato grosso; e tu vuoi che sia capace di sostenere un carico più pesante?".

40. Ma quando si accorse che il soldato, invece di lasciarsi vincere dalle sue preghiere, si irritava ancor di più a suo danno e già alzava il bastone dalla parte più nodosa per spaccargli la testa, ricorse a un estremo rimedio.

Finge di volergli abbracciare le ginocchia per muoverlo a pietà:curvandosi a terra, lo prende per tutti e due i piedi e, dando uno strattone, lo solleva verso l'alto, lo rovescia pesantemente a terra, e subito dopo, a pugni, a gomitate, a morsi, e persino con una pietra, raccattata nella strada, gli concia per le feste la faccia, le mani e le costole.

Quell'altro, appena si trovò con le spalle in terra, non poté opporre né resistenza né alcuna difesa, ma pure non cessava di minacciare: lo avrebbe fatto a pezzettini con la sua spada, solo che fosse riuscito ad alzarsi.

Le sue parole mossero l'ortolano a togliergli la spada e a scagliarla lontano, dopodiché ricominciò il pestaggio con raddoppiato furore.

Il soldato, che era steso in terra e si vedeva ridotto a mal partito per le

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ferite, non riuscendo a trovare altro scampo, fece finta d'essere morto. Era il solo mezzo che gli restava per tirarsi d'impiccio. L'ortolano, portando con sé la spada, monta sulla mia schiena e, a rapida andatura, si dirige per la via più breve alla vicina città. Senza neppure curarsi di dare uno sguardo al suo orticello, smonta da un suo amico, gli racconta tutto e lo supplica di aiutarlo a nascondersi insieme con l'asino per un po' di tempo, un due o tre giorni, sinché fosse scomparso il pericolo di un processo con probabile condanna a morte.

Questi ebbe riguardo per la vecchia amicizia, e lo accolse cordialmente. A me mi tira su con le gambe genuflesse per una scala in una soffitta al piano superiore, l'ortolano invece trova posto in basso nella bottega stessa: là si insinua e si acquatta dentro un piccolo baule, e sulla sua testa viene calato il coperchio.

41. Dal canto suo, il soldato, lo seppi più tardi, finì per rinvenire, ma era come se si destasse da una solenne sbornia: male in gambe e pieno di dolori per le molte percosse. Reggendosi a stento sul bastone, arriva alla città, ma la vergogna per averle vilmente buscate era tanta che non volle confidarsi con dei borghesi.

Mentre in silenzio rimuginava lo smacco, s'imbatte in certi suoi camerati e solo a loro racconta la sua disavventura. Decisero allora che egli se ne stesse qualche giorno nascosto nella sua tenda, poiché oltre all'affronto suo personale, temeva anche l'ira del genio che presiede al giuramento militare, per avere perso la spada. Essi invece presero nota dei nostri contrassegni, e promisero che si sarebbero attivamente adoperati per rintracciarci e far le sue vendette.

Purtroppo ci fu un perfido vicino il quale denunciò che noi ci nascondevamo in quella casa. Subito i compagni del soldato fanno intervenire i magistrati, con il falso pretesto che avevano smarrito per strada un vasetto d'argento di gran pregio appartenente al loro ufficiale, che il vasetto era stato trovato da un ortolano, che egli non voleva restituirlo e si era nascosto in casa d'un amico suo.

I magistrati, avuta conoscenza del nome dell'ufficiale e del danno da lui patito, si presentano alla porta del nostro rifugio e a gran voce rivolgono al nostro ospite questa intimazione: il suo delitto era evidente, consegnasse perciò quelli che nascondeva in casa sua, altrimenti ne andava della sua testa.

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Egli però non si lascia affatto turbare, ma curandosi solo dell'incolumità dell'amico al quale aveva promesso il suo appoggio, respinge ogni accusa e sostiene che l'ortolano era un bel po' di giorni che neppure lo vedeva. Al contrario, i legionari spergiuravano che il delinquente era nascosto lì e non altrove, e invocavano a testimone del loro giuramento il genio dell'imperatore.

Alla fine i magistrati sentenziarono di doversi procedere a una perquisizione per controllare la verità di quegli ostinati dinieghi. Fanno dunque entrare i littori e altri pubblici ufficiali con l'ordine di esaminare accuratamente ogni angolo della casa, ma, a perquisizione ultimata, viene riferito che nell'interno non appare traccia d'uomo e tanto meno d'asini.

42. Le due parti in causa riprendono perciò a battagliare con rinnovato accanimento. I soldati affermavano di sapere con certezza della nostra presenza, e di quando in quando invocavano il nome dell'imperatore, l'altro negava e non la finiva di prendere a testimone la volontà degli dèi.

Il baccano e le urla della lite salirono sino a me, e io, asino, sì, ma curioso e dotato di una vivacità che confinava con la sfrontatezza, cerco di insinuare obliquamente il collo attraverso un abbaino, e di scoprire che significa quel fracasso. Sfortuna volle che uno dei soldati volgesse lo sguardo in direzione della mia ombra, e subito egli chiamò i compagni a vedere.

Immediatamente si levò un grand'urlo: alcuni si arrampicano senz'altro sulle scale, mi afferrano e mi calano giù come un prigioniero.

Allora, tolto di mezzo ogni dubbio, si mettono a esaminare con maggior cura la casa, tolgono il coperchio del baule e tirano fuori allo scoperto l'ortolano. Il poveretto viene consegnato ai magistrati e condotto alla pubblica prigione, naturalmente a pagare di testa sua il fio dell'incidente. In quanto a me, le beffe e le risate sul conto d'un asino che si affacciava per guardare alla finestra durarono un bel pezzo. Di qui nacque anche quel proverbio trito e ritrito dell'asino che si affaccia per guardare, e della sua ombra.

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LIBRO 10

1. Io non so che fine abbia fatto l'ortolano mio padrone, ma in quanto a me, il giorno dopo, quel soldato che per la sua prepotenza da sbruffone si era preso una solenne battuta, mi stacca dalla mangiatoia, senza che nessuno, a dire il vero, si opponga, e mi porta via. Poi mi carica dei suoi effetti personali, e, da quello che mi parve essere il suo accantonamento, mi conduce sulla via, dopo avermi ben equipaggiato e armato alla militare.

Portavo, infatti, un elmo lucido e brillante, uno scudo che luccicava sin da lontano e per giunta una lancia che faceva impressione, tanto era lunga. Egli aveva sistemato a bella posta, come è l'uso di un esercito in marcia, questi arnesi proprio sulla sommità di quell'alto cumulo di bagagli, e non certo per obbedire alle regole della disciplina militare, ma per incutere terrore ai poveri viandanti.

Seguendo una via abbastanza agevole, in pianura, arrivammo a una piccola città, e prendemmo alloggio non in una locanda, ma in casa d'un decurione. Il soldato mi affida subito a un piccolo schiavo, e si reca poi con gran premura dal suo comandante che aveva ai suoi ordini una schiera di mille armati.

2. Dopo alcuni giorni, proprio in quella casa fu compiuto, ricordo bene, un delitto d'una scelleratezza più unica che rara. Lo voglio riferire a questo punto del libro, perché anche voi lo leggiate.

Il padrone di casa aveva un figlio giovane che all'amore per lo studio accoppiava, come naturale conseguenza, un affetto e una modestia esemplari: un bravo ragazzo che anche voi avreste desiderato come figlio o ve ne sareste augurato uno simile.

La madre del giovane era morta da molti anni e il padre aveva voluto riannodare il vincolo matrimoniale con una seconda moglie.

Questa gli aveva dato un altro figlio, che aveva ormai già compiuto i dodici anni. Ma la matrigna, che la faceva da padrona nella casa del marito più per la sua bellezza che per bontà d'animo, sia che fosse leggera per natura, sia che il destino la spingesse a un'azione così riprovevole, mise gli occhi sul

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figliastro. Ormai, caro lettore, sappi che ti trovi davanti a una tragedia, non a una favola, e che devi mutare il socco comico per il coturno tragico.

Orbene, la donna, sinché Amore bambino succhiava il primo alimento, non durò fatica a soffocare un leggero rossore, e resistette in silenzio alla forza d'un desiderio ancor debole. Ma quando il suo seno fu tutto preda della folle fiamma e la smania d'Amore imperversò nel suo animo sino a sconvolgerlo come un mare in tempesta, allora si piegò ai voleri del crudele dio e, fingendo un'estrema debolezza, gabellò per malattia del corpo quello che era un morbo dell'anima.

Tutti sanno che negli ammalati e negli amanti i sintomi delle alterazioni, sia riguardo all'aspetto del volto, sia riguardo alla salute nel suo complesso, hanno esattamente il medesimo corso: un pallore che fa orrore, occhi fradici di stanchezza, ginocchia che si piegano, un sonno torbido, sospiri tanto più profondi, quanto più a lungo dura il tormento. Si sarebbe creduto che solo le vampe della febbre l'agitassero; ma il fatto è che versava anche pianti.

O menti ignoranti dei medici, che vuol dire tutto ciò: un polso agitato, un colorito assai acceso, un respiro affannoso, il frequente cambiar di posizione, poggiando alternativamente, ora su un fianco, ora sull'altro? Bontà divina! Quanto è facile la risposta! Qualsiasi uomo, anche se non è un abile medico e abbia solo un po' d'esperienza della passione amorosa, può capire l'arcano, quando si trova in presenza di qualcuno che arde senza che il suo corpo bruci.

3. La donna, dunque, incapace ormai di tollerare il folle desiderio che la travagliava nell'intimo, decise di rompere il suo lungo silenzio e fece chiamare il figlio. Un nome, questo, che avrebbe volentieri cancellato, se ne avesse avuto il potere, per dimenticare la sua vergogna.

Il giovane subito obbedisce all'invito della madre ammalata, e si presenta nella camera, per porgere il conforto che egli doppiamente deve a chi è moglie del padre e madre di suo fratello.

Ma lei, che si era per così lungo tempo consumata in un doloroso silenzio, rimase impacciata, come se si trovasse immersa nel mare dell'incertezza. Quelle parole che prima considerava le più opportune le sembravano ora da condannare, e la vergogna ancora la trattiene in bilico, sicché non sa risolvere come dare inizio al discorso.

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Il giovane, che non nutriva ancora alcun sospetto, spontaneamente le chiede, tutto rispettoso, come mai si senta poco bene. Al che la donna, approfittando di quella fatale intimità, si affida all'audacia; e mentre le lacrime le corrono giù a fiotti, si copre il viso con l'orlo della veste, e con voce tremante gli rivolge queste poche parole:"Sei tu l'unica causa e l'origine della mia attuale sofferenza; ma puoi essere anche il rimedio e l'unica salvezza per me; sì, proprio tu! Ecco! Proprio i tuoi occhi, attraverso i miei, mi sono scesi nel fondo del cuore, e nelle mie ossa alimentano un furore che mi brucia. Abbi pietà d'una donna che sta morendo per causa tua. E non lasciarti spaventare dallo scrupolo per tuo padre:pensa che solo così tu gli conserverai in vita una sposa che era destinata alla morte. E' naturale che io ti voglia bene: ravviso nel tuo volto il suo! Siamo soli e nessuno nutre sospetti: hai tutto il tempo che vuoi, per compiere l'atto fatale. Del resto, cosa non conosciuta può dirsi non avvenuta".

4. Il giovane restò di sasso all'inattesa rivelazione. In lui l'orrore per la proposta fu immediato; ma giudicò che un netto rifiuto avrebbe inopportunamente reso più grave la situazione, e preferì tentare di calmare la donna, facendo vaghe promesse, ma rimandandone l'esecuzione.

Perciò fu largo di assicurazioni, e la esortò a stare di buon animo a ristabilirsi in salute, ad aspettare che il padre partisse, per poter liberamente realizzare il suo desiderio; e subito dopo si congedò dalla matrigna, come se vederla lo contaminasse.

In un frangente così grave per l'intera famiglia, egli pensò, occorreva senno più maturo che il suo, e perciò, senza esitare, ricorse al suo vecchio maestro, uomo di provata saggezza. Dopo matura riflessione, il consiglio più salutare parve proprio quello di fuggire al più presto dinanzi all'uragano che il crudele destino minacciava.

Intanto la donna, che non riusciva più a tollerare neppure la più piccola dilazione, grazie alla sua straordinaria abilità riesce a convincere il marito a recarsi in certe sue cascine a grande distanza dalla città. Dopodiché, abbandonandosi tutta alla folle smania di realizzare presto le sue speranze, prega e riprega il giovane che mantenga il suo impegno di acconsentire al piacere promesso. Ma lui, ora opponendo un motivo, ora un altro, evitava con orrore d'incontrarsi con lei, tanto che alla fine la donna comprese chiaramente, dal numero e dalla diversità delle risposte, che egli si rifiutava di dar corso alla sua promessa; e allora, con capricciosa volubilità, mutò l'abominevole

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passione d'amore in un odio ancora più atroce.

Subito ricorre a uno schiavo portato in dote, individuo malvagio e a nessuno inferiore in fatto di scelleratezze, e gli confida i piani che le suggeriva la sua perfidia. Tra questi, il migliore parve quello di privare della vita l'infelice giovane. Essa invia immediatamente quel pendaglio da forca in cerca d'un energico veleno; avutolo, lo scioglie con diligenza nel vino e prepara la bevanda mortale destinata al figliastro innocente.

5. Ora, mentre i due criminali discutevano del quando presentare la bevanda alla vittima, per un caso disgraziato il più giovane dei fratelli, il figlio della scellerata femmina, ritorna a casa dopo aver trascorso la mattina nelle fatiche degli studi. Aveva già mangiato, e aveva sete; la prima coppa di vino che trova, ed era proprio quella che conteneva sciolto il veleno, subito la svuota in un sorso, ignaro com'era dell'insidia nascosta.

E aveva appena bevuto quella mortale pozione preparata per il fratello, che cadde a terra senza vita; e il suo pedagogo, sconvolto dall'improvviso malore del ragazzo, con urla disperate chiama al soccorso la madre e tutta la servitù.

Apparve ben presto chiaro che la disgrazia era dovuta a un liquido ingerito, per cui ognuno dei presenti si mise a fabbricare ipotesi sugli autori d'un misfatto così orrendo.

Ma quella donna spietata, esemplare unico al mondo di matrigna tanto malvagia, non si turbò né per la morte immatura del figlio, né per il rimorso dell'assassinio, né per la sventura della propria casa, né per il lutto del marito, né per i lugubri preparativi del funerale; anzi, profittò della calamità familiare per compiere la sua vendetta. Subito invia un corriere a riferire al marito lontano la sciagura capitata in famiglia.

E questi era appena tornato in fretta e furia dal suo viaggio, che già lei, con la maschera della più sfrontata impudenza, accusa il figliastro di aver fatto morire di veleno suo figlio. E in questo davvero non diceva una bugia, poiché il ragazzo aveva preceduto il fratello maggiore in quella morte che doveva toccare a lui; ma lei insinuava anche che il fratello più giovane era stato delittuosamente soppresso dal figliastro, appunto perché questi aveva tentato di usarle violenza e lei si era rifiutata di sottostare al suo infame desiderio.

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Non contenta, poi, d'una menzogna così orribile, raccontava, inoltre, che lo stesso figliastro la minacciava con la spada, perché lei aveva rivelato l'infame delitto.

Così, l'infelice padre divenne travagliato dagli affanni come un mare agitato dalle bufere, poiché era atterrato dalla morte non solo di un figlio, ma anche dell'altro. Vedeva, infatti, il figlio più giovane essere portato a seppellire sotto i suoi occhi, e sapeva con sicurezza che, quanto all'altro, per l'omicidio e l'incesto sarebbe stato condannato a morte. Oltre a ciò i falsi lamenti della moglie, che lui troppo amava, avevano il potere d'ispirargli l'odio più fiero contro la propria prole.

6. Era appena stato seppellito con solenni funerali il corpo del figlio, e già il vecchio infelice, ritornando appunto dalla cerimonia, si affretta a recarsi nel Foro, col volto ancora rigato dalle lacrime poco prima versate, e strappandosi i capelli ancora sporchi di cenere.

Là, tra pianti e implorazioni, si mette persino ad abbracciare le ginocchia dei senatori, e, senza supporre il tranello della scellerata moglie, si adopera con tutto l'animo a procurare la morte del figlio che gli rimaneva: esso, diceva, era reo d'incesto poiché aveva tentato di violare il letto del padre, era un fratricida perché aveva ucciso il fratello, era un assassino perché aveva minacciato di morte la matrigna.

Grandissimi furono la pietà e lo sdegno che arsero non solo nei senatori, ma anche nel popolo, davanti al suo dolore. Fu un coro concorde che non era il caso di affannarsi a istruire il processo né di ascoltare gli argomenti dell'accusa, tanto erano manifesti, né le tergiversazioni d'una difesa naturalmente premeditata; tutti, insomma, gridano che occorre esercitare una popolare vendetta su un malfattore che disonorava il loro popolo, seppellendolo sotto una pioggia di pietre.

Tuttavia i magistrati ebbero timore del rischio al quale essi stessi si esponevano, poiché l'effervescenza degli animi da quell'iniziale esplosione di sdegno avrebbe potuto trasformarsi in sommossa e mettere in pericolo l'ordine pubblico. Perciò alcuni si mettono a scongiurare i senatori, altri a calmare la plebe, dicendo che bisognava emanare una sentenza conforme alle leggi, dopo aver tenuto un regolare processo secondo la tradizione, e aver ascoltato le argomentazioni delle due parti in causa; sarebbe stato, dicevano, atto di

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barbara ferocia o una prepotenza degna d'un tiranno, condannare un cittadino senza prima averlo ascoltato, e non bisognava in un'età di tranquillità e di pace proporre ai contemporanei un esempio così inumano di crudeltà.

7. Prevalse il loro onesto parere. Immediatamente l'araldo riceve l'ordine e ad alta voce invita i senatori a riunirsi nella curia.

Subito ciascuno si affretta a prender posto nello scanno consueto, secondo il diritto del proprio rango.

Per primo avanza l'accusatore, e dopo di lui viene chiamato per nome l'accusato. Questi è introdotto, e l'araldo, richiamandosi all'esempio della legislazione attica e del tribunale di Marte, intima agli avvocati delle due parti di evitare i lunghi esordi e di scartare gli appelli alla pietà.

Che le cose siano andate così, ho potuto saperlo ascoltando il gran discorrere che ne faceva la gente. Ma quale fosse il tenore della requisitoria pronunciata dall'accusatore, quali le confutazioni del reo in sua difesa, e in genere i discorsi e la discussione tra le due parti, io non so, perché ero legato alla mia greppia, lontano da lì, e non posso, quindi, riferirvi fatti che non conosco. Mi limiterò ad affidare a questo mio scritto solo le notizie che ho appreso da fonte sicura.

Appena furono terminate le arringhe dell'accusa e della difesa, i senatori decisero di controllare alla luce di prove sicure la verità e la fondatezza delle accuse, per non basare su semplici sospetti un'indagine così grave. Di conseguenza, deliberarono che soprattutto occorreva udire in giudizio in ogni modo quel tale schiavo, perché solo lui, secondo le dicerie, sapeva la verità sull'accaduto .

Ma quel briccone da forca non si lasciò impressionare dalla posta d'un processo così importante e dalla vista del senato riunito, e neppure dalla sua cattiva coscienza, e iniziò la sua testimonianza, proclamando con solennità vera una storia che si era inventato di sana pianta: dice, cioè, che il giovane, sdegnato per il rifiuto della matrigna, lo aveva chiamato; che, per vendicarsi dell'affronto, lo aveva incaricato di dar la morte al figlio di lei; che gli aveva promesso una grande ricompensa in cambio del suo silenzio; che lo aveva minacciato di morte per il suo rifiuto; che di sua mano aveva preparato una bevanda avvelenata e gliela aveva consegnata da propinare al fratello; che,

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siccome lo sospettava di disobbedire e di voler custodire la coppa del veleno come prova del delitto, l'aveva alla fine data di mano sua al ragazzo. Quel furfante mentre parlava faceva finta d'essere commosso, e così con questa deposizione, che aveva l'aria della verità più schietta, si chiuse il dibattito.

8. I decurioni, nessuno eccettuato, erano così mal disposti verso il giovane, da proclamare tutti che, riconosciuta l'evidenza della sua colpa, egli meritava la condanna di esser cucito nel sacco.

Le sentenze che le penne dei giudici avevano scritto si corrispondevano parola per parola, e mancava solo che le schede di voto, tutte eguali, fossero gettate, secondo un uso che si perpetuava da secoli, in un'urna di bronzo; una volta riposte lì dentro, la sorte dell'accusato era ormai decisa, né si poteva più opporvi alcun mutamento, ma la sua testa veniva rimessa al braccio del carnefice.

A questo punto, uno dei senatori, un vecchio fra tutti stimato per la sua onestà, medico di particolare autorità, coprì con la mano la bocca dell'urna a impedire una votazione affrettata, e tenne al senato il seguente discorso:"Io sono molto lieto d'aver meritato nella mia vita la vostra stima sino a questa mia età. Perciò non posso tollerare che le false accuse, che hanno portato all'incriminazione dell'accusato, conducano ora a perpetrare un omicidio manifesto. Non posso permettere che voi, i quali sotto il vincolo d'un solenne giuramento esercitate il ministero di giudici, siate spinti dalle menzogne d'un vile schiavo a contravvenire alla giustizia. Né io posso calpestare il timore degli dèi e ingannare la mia coscienza, pronunciando una condanna ingiusta. Orbene! Sappiate da me, qual è la verità!".

9. "Questo furfante degno della forca abbastanza di recente s'era presentato in casa mia e, nella sua smania di procurarsi un veleno d'effetto immediato, mi offrì in pagamento cento scudi d'oro. Mi raccontò che doveva servire per una persona gravemente affetta da lunga data da un male incurabile, desiderando essa di sottrarsi ai tormenti della vita.

Ma io, sentendo le chiacchiere e le imbarazzate giustificazioni di questo scellerato briccone, fui certo che tramava qualche delitto.

Tuttavia gli diedi la pozione. Sì, gliel'ho data, ma, prendendo le mie precauzioni di fronte all'eventualità di un'inchiesta, non accettai subito il

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denaro che mi veniva esibito e dissi: - Per evitare che qualcuno di questi scudi da te offerti sia falso o di cattiva lega, rimettili in questo sacchetto e metti il sigillo col tuo anello. Domani, poi, in presenza del cambiavalute, faremo il controllo.

Lo indussi così a contrassegnare il sacchetto del denaro. Appena costui si è presentato al processo, diedi ordine a uno dei miei schiavi di andare di corsa al mio studio e di portare subito qua il denaro. Eccolo! Mi è stato portato or ora, e voi potete constatare di persona. Voglio che costui guardi e dica se è il suo sigillo. Dunque, come si può accusare il giovane d'avvelenamento, se il veleno lo ha comprato questo scellerato?".

10. Grande fu la paura che s'impadronì immediatamente del briccone. Invece del normale colorito subentrò un pallore cadaverico, e un sudore freddo gli inondò tutto il corpo; nel suo imbarazzo ondeggiava alternativamente da un piede all'altro, si grattava il capo ora qua ora là, con la bocca semiaperta balbettava non so quali futili giustificazioni, sicché tutti giustamente cominciarono a credere che egli non fosse assolutamente esente da colpe.

Tuttavia, l'astuzia riprese il sopravvento, ed egli si mise a negare con una gran faccia tosta; e non smetteva d'accusare il medico di mendacio.

Questi, che vedeva non solo avvilita la santità del giudizio, ma anche pubblicamente intaccata la sua reputazione, moltiplicò con ardore i suoi sforzi per confondere quel furfante.

Alla fine, per ordine dei magistrati, gli sbirri afferrano le mani dell'infame schiavo, gli tolgono l'anello di ferro e lo confrontano con il sigillo del sacchetto. Il paragone confermò i sospetti precedenti. Erano già pronti la ruota e il cavalletto, per sottoporlo alla tortura all'uso greco, ma quello, con l'ostinazione che gli derivava da un'impudenza unica al mondo, seppe resistere al tormento della sferza e persino a quello del fuoco.

11. Allora il medico riprese:"Non permetterò, no davvero non posso permettere che o voi, contro ogni giustizia, condanniate a morte questo giovane che è innocente, o che questo infame si faccia beffe del nostro tribunale e sfugga al castigo per il suo delitto. Perciò voglio darvi una prova evidente di come sta la faccenda.

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Questo delinquente mostrava gran premura di procurarsi un veleno mortale, ma io non giudicavo degno della mia arte fornire ad alcuno il mezzo per darsi la morte. Ho anzi appreso che la medicina è stata trovata non per distruggere, ma per assicurare all'uomo la vita.

D'altra parte, la mia paura era che un mio rifiuto di dare il veleno fosse poco opportuno e aprisse la strada al delitto, perché costui avrebbe alla fine potuto ricorrere al pugnale o a un'altra qualsiasi arma per attuare la sua empia impresa. Diedi perciò la pozione, ma si trattava in realtà d'un narcotico, quello famoso della mandragora, che ha sicure virtù soporifere e produce un letargo molto simile alla morte.

Non c'è poi da meravigliarsi se questo brigante, ridotto alla disperazione e sicuro del gravissimo supplizio che gli spetta per antichissima tradizione, sopporti facilmente questi tormenti, poiché li giudica più lievi, rispetto a ciò a cui va incontro.

Ma se è vero che il ragazzo ha bevuto la pozione che io ho composto con le mie mani, egli è vivo, dorme, tra breve si desterà dal suo torpido sonno e ritornerà a vedere la luce del giorno. Se poi la morte si fosse già impossessata di lui, significa che voi dovete cercare altrove le cause del suo trapasso".

12. Il vecchio, con un discorso di questo genere, persuase i presenti. Subito la folla si reca in gran fretta al sepolcro dove era stato posto il ragazzo; e nessuno dei senatori, nessuno dei nobili, nessuno anche del popolo stesso, mancò d'accorrere in quel luogo, tanta era la curiosità. Ecco! Il padre con le sue stesse mani solleva il coperchio della tomba, e sorprende il figlio nell'atto che, scuotendosi da un sonno di morte, riprende i diritti della vita; egli lo abbraccia stretto quanto più può, e siccome la gioia gli toglie lì per lì capacità di parlare, mostra al popolo il figlio suo. Il ragazzo, così com'era, ancora fasciato e coperto da lenzuoli funebri, viene condotto nel tribunale.

Ormai erano venute in chiaro le scelleratezze di quell'infamissimo schiavo e di quella donna ancora più infame, e la verità senza veli s'era scoperta agli occhi di tutti: alla matrigna è comminato l'esilio in perpetuità, lo schiavo viene appeso alla croce, e l'onesto medico, per concorde approvazione, riceve i cento scudi d'oro in premio di quel sonno così opportuno.

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E così l'avventura del vecchio padre meritò di passare alla storia e alla leggenda, ed ebbe uno scioglimento degno della divina provvidenza. Egli, infatti, in breve tempo, anzi in meno di un attimo, era all'improvviso divenuto padre di due giovani, dopo aver corso il pericolo di restare privo di figli.

13. Quanto a me, in quel momento la sorte mi sballottava da un'onda all'altra. Ed ecco come. Quel soldato che mi aveva acquistato senza che nessuno mi vendesse, e mi aveva fatto suo senza pagare il becco d'un quattrino, doveva, rendendo la dovuta obbedienza agli ordini del tribuno militare suo comandante, partire di lì a poco per Roma, per recare una relazione scritta all'imperatore. Mi vendette perciò per undici denari a due schiavi, due fratelli appartenenti a un signore molto ricco.

Dei due, uno era pasticciere, e faceva pani e dolci al miele, l'altro cuoco, e sapeva cucinare intingoli e pietanze condite con salse appetitose. Essi facevano vita e cassa comune sotto un unico tetto, e mi avevano comprato per trasportare quegli utensili di vario genere che il loro padrone era obbligato a portarsi dietro in quantità, nei suoi viaggi da una regione all'altra.

Così entrai a far parte della famiglia, terzo tra i due fratelli, e per mia personale esperienza in nessun tempo la sorte mi era stata mai così benevola. Infatti, ogni sera, dopo il pranzo, ed erano pranzi luculliani e apparecchiati con gran lusso, i miei padroni abitualmente portavano indietro nel loro locale un gran numero di porzioni avanzate: l'uno carne di maiale, polli, pesce e carni d'ogni genere, il tutto in grande abbondanza, l'altro pani, crostate, focaccine, paste frolle, biscottini e parecchie altre leccornie spalmate di miele. Poi, quando se ne andavano ai bagni per ristorarsi, chiudevano il locale, e io ne approfittavo per rimpinzarmi a crepapelle con quelle pietanze che mi cascavano dal cielo. Poiché non ero così gonzo e asino davvero, da far consistere la mia cena in fieno indigesto e lasciare da parte quelle squisitezze.

14. L'arte di rubacchiare andò avanti per un bel pezzo, e con ottimi risultati per me, in quanto mi mantenevo ancora modesto e abbastanza parco nel sottrarre ben poco da tanto ben di dio, ed essi non potevano nutrire sospetto di esser frodati da un asino.

Ma quando crebbe in me la fiducia di farla franca, allora mi misi a divorare le porzioni più abbondanti e, scegliendo i bocconi più delicati, a spazzare via quanto c'era di meglio. Di conseguenza, forti sospetti cominciarono ad agitare l'animo dei due fratelli, ed essi, benché anche allora si rifiutassero di

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credere che io c'entrassi per qualche verso, pure con gran cura indagavano chi poteva essere il colpevole del danno giornaliero. Finirono persino per accusarsi a vicenda di quello sconcio rubare e, procedendo con maggior diligenza, esercitarono una più rigorosa sorveglianza sulle pietanze, sino a tenerne il conto esatto. In ultimo, infine, rompendo ogni scrupolo, uno dei due fratelli apostrofò l'altro:"Questo sì che non è giusto, e neppure umano. Tu giorno per giorno vai sottraendo le porzioni più belle, te le vendi, e così aumenti di soppiatto il tuo gruzzolo! In più, pretendi di dividere in parti uguali quello che resta. Ma insomma, se a te non va giù la nostra società, possiamo benissimo sciogliere questo legame di vita in comune, pur rimanendo del resto fratelli. Mi accorgo, infatti, che il risentimento per il danno fa passi da gigante e che tra noi potrebbe nascere una lite a non finire".

Replicò l'altro:"Perbacco, mi piace proprio la calma che hai. Ogni giorno di nascosto compi dei furti, e per giunta sei il primo a lagnarti! E io che in silenzio per tanto tempo ho soffocato in me il mio cruccio, tutto perché non volevo far la figura di incolpare mio fratello di una ladroneria così spregevole! Ma va bene così, poiché la spiegazione che abbiamo avuto ci indurrà a cercare un rimedio al danno. Altrimenti, se il risentimento fosse proceduto in silenzio, avrebbe suscitato tra noi un conflitto degno di quello di Eteocle".

15. Ma quando si furono scambiati con asprezza questi e altri rimproveri, cominciarono tutti e due a giurare di non avere assolutamente commesso alcuna frode, di non aver compiuto nessun furto. Decisero, pertanto, che era necessario scoprire con ogni mezzo il ladro che li danneggiava l'uno e l'altro insieme.

Poiché, dicevano, non poteva l'asino, solo presente nel locale, essere attirato da tali cibi; malgrado ciò, giorno per giorno le porzioni migliori prendevano la fuga; e, comunque stesse la cosa, non entravano certo in volo nella loro camera delle mosche così smisurate, com'erano una volta le Arpie che mettevano a sacco le mense di Fineo.

Nel frattempo, grazie all'alimentazione generosa e all'abbondanza delle vivande, fatte per gli uomini, con cui mi riempivo la pancia, il mio corpo era diventato rotondo, pingue e obeso; su quel lardo mi era spuntata una cotenna morbida e grassa, e il pelame aveva preso uno sviluppo e un lustro pieno di decoro.

Purtroppo, la bellezza che faceva onore al mio corpo fu causa di grave disonore

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per il mio amor proprio. Infatti, i fratelli furono sorpresi dalla rotondità della mia groppa e, vedendo che il fieno ogni giorno rimaneva completamente intatto, appuntarono su di me la loro attenzione. All'ora consueta chiudono come al solito la porta con l'intento, in apparenza, di recarsi ai bagni; invece si mettono a spiare attraverso una piccola fessura, e scoprono che io mi ero già attaccato alle pietanze esposte qua e là.

Tutta la preoccupazione per il danno gli era già passata.

Osservando con stupore un asino compiacersi di quei cibi raffinati in un modo che aveva del prodigioso, scoppiano in grandi risate e invitano un compagno, un secondo e poi parecchi altri a contemplare, spettacolo che sfidava ogni descrizione o ricordo, la golosità di un'ottusa bestia da soma.

E così abbondanti e schiette furono le risate di tutti che se ne accorse persino il padrone che si trovava a passare di lì.

16. Egli domandò quale buon vento ispirasse alla servitù una simile ilarità. Informato del fatto, anche lui volle guardare attraverso il foro, e ci provò un gusto straordinario; subito fu colto da un riso così abbondante, che gli venne persino il mal di pancia, e, fatta aprire la porta della camera, mi si mise al fianco per constatare il fatto alla presenza di tutti.

Ma io, che finalmente potevo vedere la fortuna sorridermi per qualche verso con un volto un po' più benigno, poiché il diletto dei presenti mi ispirava fiducia, non mi scomposi affatto e continuai a mangiare tranquillamente.

Allora il padrone diede ordine di togliermi di là, anzi volle condurmi con le sue stesse mani nella sala del triclinio. Qui fece rizzare una tavola, e su di essa fece mettere intere porzioni dei cibi più svariati e delle vivande che nessuno aveva ancora toccato.

Dal canto mio, benché mi fossi bellamente riempito la pancia, pure, per il gran desiderio che avevo di rendermi gradito al signore, e suscitare in lui un maggiore interessamento, in atto d'affamato mi precipitavo sulle pietanze che mi erano offerte. I presenti escogitavano minuziosamente tutti quei piatti che meno convenivano a un asino e me li presentavano per provare sino a che punto fossi addomesticato: ora erano carni con sugo di laserpizio, ora polli e tacchini

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cosparsi di pepe, ora pesci imbevuti di esotiche salse.

Durante questo spasso, nella sala del banchetto scoppiava una risata dopo l'altra, e uno dei presenti, un buffone, gridò:"Offrite un po' di vino sincero all'amico".

Il padrone si prestò alla celia, e replicò:"Birbante che non sei altro! Lo scherzo non è poi tanto assurdo.

Potrebbe benissimo darsi che al nostro amicone piaccia bere un bicchiere di vino col miele". E, rivoltosi a uno schiavo:"Ehi tu! Ecco un boccale d'oro. Lavalo come si deve, riempilo di vino al miele, e offrilo al mio invitato. Avvertilo pure che io ho bevuto alla sua salute".

Tra i commensali si destò subito una viva curiosità. Ma io, senza turbarmi affatto, con molta calma e piacevolezza, arrotondai l'estremità delle labbra a mo' d'una lingua, e in una sola sorsata vuotai quella coppa gigantesca. Subito si levò un coro di voci, e tutti mi augurarono buona salute.

17. Alla fine, il signore, che non stava più in sé dalla gioia, fa chiamare i suoi schiavi, quelli che m'avevano acquistato, e dà ordine che gli sia restituito il prezzo in misura quattro volte maggiore, poi m'affida con grandi raccomandazioni a un suo liberto che gli era molto caro e aveva da parte un buon gruzzolo.

Questi provvedeva al mio mantenimento con molta umanità, e si dava parecchia premura. Per meglio accattivarsi l'animo del padrone, impiegava ogni sua cura ad apparecchiargli uno spasso con i miei giochi di destrezza. Dapprima mi insegnò a sdraiarmi a tavola piegando le ginocchia, poi a fare la lotta, persino a danzare levando in alto le zampe davanti e, cosa questa più meravigliosa di tutte, ad adattare i gesti alle parole: così per rifiutare levavo il capo, per accettare l'abbassavo; e se avevo sete volgevo lo sguardo verso il coppiere e, ammiccando alternativamente con le ciglia, mostravo di voler bere. Eseguivo tutti questi giochi assai facilmente, e del resto li avrei potuti fare, evidentemente, anche se nessuno me li avesse insegnati: ma se avessi mostrato di saper fare troppe cose, quasi fossi stato un uomo e senza bisogno di maestri, temevo che la gente si mettesse in testa che era un presagio di malaugurio. Chissà'! Sarei stato messo a morte come un fenomeno, un prodigio della natura, e avrei fornito un pasto copioso agli avvoltoi.

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Ormai si era sparsa la mia fama tra il pubblico, e le mie straordinarie virtù erano valse al mio padrone gli onori della celebrità.

"Eccolo", dicevano, "quello che ha come amico e commensale un asino che lotta, un asino che danza, un asino che non solo capisce i discorsi degli uomini, ma esprime anche con cenni quello che pensa".

18. Avrei veramente dovuto farlo sin dall'inizio, ma almeno ora è tempo che vi racconti chi sia il mio padrone e quale la sua origine.

Egli si chiamava Tiaso, ed era oriundo di Corinto, la capitale di tutta la provincia dell'Acaia. Come richiedevano la nobiltà della sua stirpe e le sue doti, aveva percorso a grado a grado la scala degli onori, sinché fu elevato alla magistratura quinquennale; e volendo esprimere la sua soddisfazione in modo adeguato al decoro della carica che gli era toccata, aveva promesso di offrire per tre giorni interi uno spettacolo di gladiatori, e si proponeva di non limitare lì la sua munificenza.

Infatti, dato che desiderava vivamente la popolarità, si era recato per l'occasione anche in Tessaglia a fare incetta di belve sceltissime e di gladiatori di fama, e ora, dopo avere a suo piacimento impartito ogni disposizione e fatto tutti gli acquisti, si accingeva a tornare a casa.

Il bello è che non volle saperne né di carrozze né di cocchi, benché avesse splendidi ed eleganti esemplari di tutti e due i veicoli, ma si contentò di farseli venire dietro, buoni ultimi, vuoti, e parte col mantice abbassato, parte scoperti.

Rifiutò anche di tornarsene in sella a cavalli tessali o ad altri della Gallia, tutte bestie che per la nobiltà dell'origine sono molto pregiate: ordinò invece che mi si parasse di medaglie d'oro, di una sella colorata, di una gualdrappa rossa, di freni in argento, d'un pettorale ricamato, di piccoli sonagli squillanti, e se ne tornò cavalcandomi affettuosamente; di tanto in tanto mi rivolgeva affabilmente la parola, e affermava che, a parte il resto, il suo più grande divertimento era quello d'avere in me contemporaneamente un commensale e una cavalcatura.

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19. Quando, viaggiando parte per terra, parte per mare, arrivammo a Corinto, i cittadini accorsero in folla, non tanto, a mio parere, per fare gli onori a Tiaso, quanto per la curiosità che avevano di vedermi. Infatti la mia fama era giunta fin là, ed era così viva, che fui per il mio guardiano una fonte non piccola di lucro.

Egli, accorgendosi che la gente faceva a pugni per venire a vedere i miei giochetti, sbarrò la porta e ammetteva i curiosi separatamente uno per uno, dietro pagamento di una modesta tassa d'ingresso; in questo modo ogni giorno si metteva abitualmente in tasca una bella sommetta.

Nella cerchia degli spettatori capitò una donna d'alto rango e molto ricca. Costei, che aveva come tutti gli altri pagato per vedermi, si compiacque parecchio delle mie svariate prodezze e, a poco per volta, a forza di ammirarmi, si accese per me di una passione davvero straordinaria; e non potendo più trovare alcuna medicina per il suo pazzo capriccio, viveva nell'ardente attesa dei miei amplessi, simile in ciò a Pasifae, salvo che si trattava questa volta d'un asino.

Alla fine, offrendo una forte ricompensa, ottenne dal mio custode di poter giacere una notte con me. Egli, che mirava solo al suo guadagno e non si preoccupava affatto di sapere se la faccenda sarebbe finita bene per me, accettò volentieri.

20. Avevamo appena pranzato e uscivamo dal triclinio del padrone, quando trovammo nella mia camera la signora che ci aspettava già da un bel po'. Bontà divina! Che roba, che meraviglia di preparativi! Quattro eunuchi immediatamente posano in terra parecchi cuscini rigonfi di molli piume, onde prepararci il letto, lo coprono bellamente con una coperta intessuta d'oro e tinta di porpora tiria, sopra vi spargono altri cuscini, molto piccoli, ma in gran numero, di quelli su cui le signore raffinate usano posare le guance o la nuca. Poi, in fretta per non ritardare ulteriormente con la loro presenza la voluttà della signora, chiudono le porte della stanza e si ritirano. All'interno la luce delle candele si rifletteva palpitando, e rischiarava l'oscurità notturna per il nostro diletto.

21. Allora la signora si spoglia d'ogni sua veste, compresa la fascia che le stringeva il bel seno, e, stando in piedi vicino alla luce, da un vasetto di stagno trae un unguento profumato e se ne unge abbondantemente le membra; poi

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con lo stesso unguento, senza risparmio, mi sfrega il corpo e in particolare me ne asperge con cura le narici. Dopodiché, mi copre dolcemente di baci; ma non quei baci che si usano scambiare nei postriboli, quando le prostitute bussano a soldi e i clienti fanno gli gnorri; puri e sinceri erano i baci che mi dava, e tenerissime le parole, come:"Ti voglio bene", "Ti desidero", "Amo te solo" e "Senza di te non posso più vivere", e altre frasi del genere che le donne dicono sia per adescare gli uomini, sia per dare maggior calore alle proprie effusioni. Mi prende poi per la cavezza e mi fa sdraiare in terra, così come m'era stato insegnato; io l'assecondai facilmente, poiché quello che stavo per fare non mi pareva né nuovo né difficile, tanto più che dopo tanto tempo pregustavo di ricevere gli amplessi di una donna bella e per di più appassionata. D'altronde, e l'ebbrezza di quel vino squisito che avevo bevuto in abbondanza, e l'acuto profumo di quell'unguento, avevano destato in me un desiderio di voluttà.

22. Però una paura non piccola mi angustiava e mi dava da pensare.

Come fare per montare su quella donna delicata con le mie zampe che erano così grosse e grandi? Come abbracciare con i miei duri zoccoli quelle membra così chiare, così tenere, fatte di latte e di miele? Come baciare con la mia bocca così larga e spropositata, orribilmente armata di denti duri come il sasso, quelle labbra piccole e porporine, umide di celeste rugiada? E, per finire, in che modo una donna, anche se fosse tutta un prurito di desiderio sino alle estremità delle unghie, avrebbe potuto dare ricetto a un ospite di così vaste proporzioni? Ahimè! pensavo. Guai, se mi fosse capitato di spaccare a metà una nobile signora. Sarei andato a rischio d'essere offerto alle belve e di arricchire lo spettacolo del mio padrone.

Intanto, la donna ripeteva le sue paroline carezzevoli, mi dava baci su baci, accompagnava i suoi dolci bisbigli con occhiate assassine, e all'ultimo:"Ti tengo", esclamò, "ti tengo, mio colombino, mio passerotto...".

E insieme alle parole provò coi fatti che vane erano le mie preoccupazioni e sciocco il mio timore: difatti, mi abbracciò stretto al punto che accolse l'ospite tutto intero, ma tutto per davvero.

Per giunta, ogni volta che rinculavo all'indietro, per non farle male, sempre lei mi si riaccostava con uno sforzo rabbioso, e afferrandomi per le reni, si incollava letteralmente a me con un amplesso ancor più tenace. Perbacco! Credevo quasi che mi mancasse ancora qualcosa per saziare completamente le sue brame e

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riuscivo ora a capire il giusto motivo per cui la madre del Minotauro ci avesse preso gusto col suo amante muggente.

Dopo una notte insonne e laboriosa, la signora, per evitare la luce del giorno e la sua indiscrezione, se ne partì in fretta; ma prima volle impegnarmi allo stesso prezzo per un'altra notte.

23. Il mio istruttore, del resto, non aveva alcuna difficoltà a concedere a suo arbitrio i miei favori, sia per le grosse mance che riceveva, sia perché desiderava procurare al suo signore uno spettacolo nuovo di zecca. Perciò non attese molto a rivelargli tutta la vicenda dei nostri amori.

Il signore compensò magnificamente il liberto, e pensò di produrmi in uno spettacolo pubblico. Ma la valente mia sposa non avrebbe potuto farlo, per la dignità del suo rango; e, poiché non si riusciva assolutamente a trovare un'altra donna disposta a ciò, pur con la promessa di grandi premi, si finì per scovare una femmina abbietta, destinata a essere offerta alle belve per decreto del governatore. Costei doveva pubblicamente, col mio concorso, fare sacrificio del suo pudore davanti al popolo che a tal richiamo avrebbe riempito in folla le gradinate.

Ecco dunque la storia della sua condanna, così come mi giunse all'orecchio.

Essa era sposata a un giovane. Il padre di lui, partendo per un viaggio all'estero, aveva dato ordine alla moglie, che era la madre del giovane di cui sopra e che egli lasciava gravida del peso d'una nuova maternità, di mettere senz'altro a morte il frutto delle sue viscere, qualora la creatura appartenesse al sesso debole.

Nacque così durante l'assenza del padre una bimba, ma la donna fu impedita dall'ucciderla dal sentimento d'amore innato in una madre; disobbedì dunque all'ordine del marito, affidò la creatura a dei vicini perché l'allevassero, e al ritorno del marito gli riferì che la bimba era stata uccisa appena nata.

Giunse poi il tempo di dare un marito alla ragazza, che era nel fiore dell'età, ma la madre, non osando, all'insaputa del marito, dare alla giovane una dote corrispondente alla sua nascita, mise a parte del suo segreto il figlio, unica risorsa che le restava. Ma oltre a ciò, temeva molto che il giovane, nel calore

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dell'età giovanile, non si lasciasse trasportare dalla foga a usar violenza alla ragazza, se il caso ci metteva lo zampino, senza conoscere che era sua sorella e senza esserne conosciuto.

Egli, che era un giovane di ottimi sentimenti, con molto scrupolo dimostrò la sua devozione verso la madre e verso la sorella, e compì il suo dovere: seppellì in un religioso silenzio il segreto della sua famiglia, e si limitò esteriormente a manifestare quell'interesse che può essere suggerito da una generica umanità.

Poté così riempire quegli obblighi che si imponevano per la comunanza del sangue: accolse nella sua casa, sotto la sua protezione, la ragazza rimasta sola e senza l'assistenza dei suoi genitori, le fece di suo una dote molto generosa, e ben presto la sposò a uno dei suoi amici più intimi e che gli era assai caro.

24. Ma queste buone decisioni, anzi ottime in sé e prese con assoluta onestà di intenti, non poterono sfuggire alla bieca volontà della Fortuna, poiché essa istigò la crudele Gelosia a dirigersi subito alla dimora del giovane.

Immediatamente la moglie di lui, quella che ora, proprio per questa faccenda, era condannata alle belve, cominciò prima a montarsi la testa pensando che la ragazza fosse sua rivale in amore e concubina del marito, poi a maledirla, infine a tenderle lacci per farla morire nella maniera più crudele. Ecco dunque il tranello che immaginò.

Sottrasse l'anello al marito, se ne partì per la campagna, e di lì inviò uno schiavo, un ragazzo fedele a lei, ma pieno di colpe verso la dea Fedeltà in persona, ad annunciare alla ragazza che il giovane si era recato in una fattoria e desiderava parlarle; aggiunse tra l'altro che doveva andarci da sola, il più presto possibile e senza compagnia alcuna. Nell'eventualità poi che lei esitasse ad andarci, affida allo schiavo l'anello sottratto al marito, perché la ragazza, vedendolo, presti maggior credito all'ambasciata.

La giovane obbedì all'invito del fratello (questo infatti era il solo nome con cui lei lo conosceva) e, visto il contrassegno presentatole dell'anello, premurosamente si affrettò a raggiungerlo, viaggiando da sola, secondo la raccomandazione che le era stata fatta.

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Scivolò così nel tranello d'una frode tra le più orribili. Giunta che fu nel luogo dove le era stata tesa l'insidia, la brava moglie, obbedendo agli stimoli d'una rabbia sfrenata e bestiale, prima la fa denudare e la percuote selvaggiamente con la sferza; e la giovane aveva un bel gridare la realtà dei fatti, ripetere che quell'esplosione di collera per una sua supposta tresca era ingiustificata e che il giovane era suo fratello: la donna, sicura che si trattasse di menzogne e di falsità, la fece crudelmente morire, ficcandole un tizzone rovente in mezzo alle cosce.

25. Sconvolti dalla notizia di quella morte atroce, il marito e il fratello accorsero e, quando ebbero pianto la ragazza ed effuso in lamenti il loro dolore, le diedero sepoltura.

Ma il giovane non riuscì a superare con rassegnazione il cruccio per la maniera miserabile e assolutamente disumana con cui era stata uccisa la sorella. Fiaccato dal dolore fino alle midolla, era per un travaso di bile amarissima piombato in un delirio mortale; l'ardore della febbre gli aveva messo addosso il fuoco, sì che, con ogni evidenza, era il suo turno ora di ricorrere alle cure della medicina.

Ma la moglie che da un bel pezzo aveva smarrito sia la fedeltà che il titolo di moglie, si recò da un medico di pessima fama che poteva fregiarsi di molte palme in imprese di quel genere e annoverare ricchi trofei dovuti all'abilità della sua mano; a costui la donna lì per lì promette cinquemila sesterzi, se le vende un veleno energico, dicendosi dal canto suo pronta ad acquistarlo per dare la morte al marito. Il mercato fu concluso, e si finse che era necessario, per calmare lo spasimo delle viscere ed evacuare la bile, ricorrere a quella bevanda molto nota che gli esperti chiamano sacra; ma, in realtà, in luogo suo ne viene presentata un'altra sacra a Proserpina Salute.

Così, alla presenza della servitù e di molti amici e parenti, il medico già porgeva all'ammalato una pozione che aveva ben bene rimescolato di propria mano.

26. Quella donna svergognata nutriva però la doppia intenzione di sbarazzarsi del complice del suo delitto e di risparmiare la somma promessa, sicché afferrò il calice ed esclamò in presenza di tutti:"Tu sei un medico eccellente, ma non voglio che tu dia al mio carissimo marito questa medicina, prima che tu stesso ne abbia bevuto una buona dose. Chi mi dice che in essa non ci sia qualche mortale veleno? Tu che sei un uomo così saggio e dotto, non ti devi offendere per le parole d'una moglie coscienziosa. Devi

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considerare che a me sta a cuore la salute di mio marito e che voglio usargli tutte le cure che mi detta il mio affetto".

L'atto improvviso e l'audacia disperata della terribile donna turbarono il medico al punto da fargli completamente perdere la bussola. Gli mancò in quel precipitoso frangente il tempo per riflettere, e prima di destare il sospetto di non avere la coscienza a posto, mostrando qualche segno di paura o di esitazione, preferì ingerire una buona sorsata di quella pozione.

Appena ebbe adempiuto in questo modo al suo compito, il medico cercava di rientrare a casa sua il più presto possibile, poiché aveva fretta di soffocare con un antidoto il nocivo influsso del veleno assorbito in precedenza .

Tuttavia la feroce donna, proseguendo con sacrilega ostinazione nel disegno intrapreso, non se lo lasciò scappare lontano dalle unghie neppure un filo:"Prima", esclamò, "la pozione deve spargersi per le membra e la medicina produrre il suo effetto"; e solo quando il compare l'ebbe ben bene stancata a forza di preghiere e d'implorazioni, allora finalmente gli diede licenza d'andarsene. Ma nel frattempo il veleno aveva di nascosto esplicato la sua forza micidiale in tutti gli organi, ed era penetrato fino al midollo delle ossa; egli era già grave e immerso nel torpore d'un mortale sonno, quando faticosamente riuscì a trascinarsi sino a casa. Ebbe appena il tempo di raccontare alla moglie l'accaduto e di avvertirla di esigere almeno la ricompensa del doppio servigio di morte, e con ciò l'illustrissimo medico cavò dalla strozza un violento rantolo e tirò l'ultimo respiro.

27. Ma anche il giovane non visse più a lungo, poiché egli era perito per un egual destino di morte in mezzo alle lacrime ipocrite e menzognere della moglie.

Dopo il suo funerale trascorsero quei pochi giorni in cui si usa celebrare riti di espiazione in onore dei defunti, poi la moglie del medico si presentò per reclamare il premio dovuto per il duplice avvelenamento. Ma la donna, senza smentire in nulla la sua perfidia, nascose l'intimo volto della buona fede e mostrò solo l'esterna apparenza. Diede una risposta abbastanza lusinghiera, promise ad usura tutto ciò che volle, e affermò che non avrebbe esitato a pagare il prezzo convenuto; desiderava però che la vedova le desse ancora un pochino di quella bevanda, per portare a termine ciò che aveva intrapreso.

Vi basti questo, che la moglie del medico cadde nella rete di quell'indegno

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tranello e acconsentì senza difficoltà; per meglio accattivarsi le grazie d'una persona ricca, tornò a casa in gran fretta e le portò tutto quanto il barattolo del veleno. E l'altra, che aveva ottenuto in abbondanza la sostanza che le serviva per i suoi delitti, stese allora i suoi artigli insanguinati in cerca di nuove vittime.

28. Essa aveva avuto dal marito, da lei stessa poco prima spedito all'altro mondo, una figlia ancora piccola, ed era arrabbiatissima perché per legge l'eredità del padre spettava di necessità proprio alla bambina: perciò, avida com'era di impossessarsi di tutti i beni della figlia, spiava l'occasione di toglierla di mezzo.

Orbene, siccome sapeva con sicurezza che una madre che abbia la disgrazia di perdere il figlio gli succede nell'eredità, così come era stata moglie, tale dimostrò d'essere madre: per la circostanza escogitò un pranzo, e così contemporaneamente e con lo stesso veleno tolse di mezzo sua figlia e la vedova del medico.

Il veleno mortale ebbe ben presto ragione della creatura, poiché il soffio vitale d'una bambina è debole e gli organi teneri e delicati. In quanto alla moglie del medico, cominciò a sentire quella maledetta pozione, come un turbine distruttore, espandersi con giri tortuosi traverso i polmoni; e dapprima ebbe qualche sospetto su quello che le accadeva, poi, quando si accorse che il fiato le mancava, fu più che certa della verità.

Corse allora al palazzo del governatore, con alte grida implorò il suo aiuto, e mise in subbuglio la popolazione; poi, affermando che era lì per rivelare dei crimini che non avevano l'uguale, ottenne che il governatore le spalancasse insieme la casa e le orecchie.

Aveva appena finito di esporre scrupolosamente sin dall'inizio tutte le atrocità della crudelissima donna, quando un tenebroso vortice afferrò la sua mente; la donna strinse allora le labbra che aveva ancora semiaperte, e digrignando i denti, con uno stridore prolungato crollò senza vita, proprio dinanzi ai piedi del governatore.

Questi, che era un uomo di molta esperienza, non rimase con le mani in mano, non volendo che col rimandare l'inchiesta, si perdessero le tracce dei molti delitti di quel velenoso serpente:

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fatti immediatamente arrestare i domestici della donna, scoprì per mezzo della tortura la verità, e condannò la criminale a esser offerta in pasto alle belve. Era, questo, un castigo certamente minore di quello che essa meritava, ma non si poteva del resto immaginare un altro che fosse proporzionato ai suoi delitti.

29. Eccovi descritta la donna con cui pubblicamente dovevo celebrare le mie nozze. Io, intanto, nell'attesa del giorno fissato per lo spettacolo, vivevo immerso sino al collo in un'angosciosa tristezza. Più di una volta mi sarei dato la morte, piuttosto che lasciarmi contaminare dal contatto di quella scellerata e di dover sopportare la vergogna d'una pubblica rappresentazione. Ma, privo com'ero di mano umana, privo di dita, non avrei potuto di certo impugnare la spada con il mio zoccolo rotondo e mozzo. Solo un barlume di speranza mi sollevava un po' il morale nella nera disperazione in cui ero. Infatti, la primavera era sul nascere: già essa, con le gemme dei fiori, spargeva ovunque i suoi colori, e già rivestiva i prati con lo splendore della porpora; proprio allora le rose stavano per rompere l'involucro spinoso e sbocciare, esalando un delizioso profumo; ed erano le rose quelle che avrebbero dovuto restituirmi al Lucio di prima.

Ecco che era arrivato il giorno destinato allo spettacolo, e con un codazzo di popolo plaudente vengo condotto in pompa magna sino alla cinta delle gradinate. Mentre si svolgeva un avanspettacolo, consistente in balletti danzati da attori di professione, io me ne stavo momentaneamente davanti a una porta d'ingresso, e con molto piacere ero occupato a brucare l'erbetta che cresceva abbondante proprio sul limitare: di tanto in tanto gettavo un'occhiata curiosa attraverso la porta aperta e mi ricreavo allo spettacolo davvero divertente.

Infatti, ragazzi e ragazze nel fiore della loro fresca adolescenza, segnalati per la loro bellezza, splendidamente vestiti, espressivi nella loro mimica, si presentarono sulla scena per ballare la danza pirrica dei Greci. Essi, disposti in ordine, intrecciando leggiadre evoluzioni, ora si volgevano in un circolo che ruotava su se stesso, ora sfilavano di traverso l'uno dietro l'altro come in una catena, ora prendevano la forma di tanti cunei così da formare un quadrato, ora aprivano la schiera in due file.

Ma alla fine il suono della tromba pose termine a queste molteplici giravolte e reciproche evoluzioni; si mette in ordine la scena, si piegano le quinte e viene infine sollevato il sipario.

30. Sulla scena si ergeva un monte di legno, costruito a somiglianza di quella

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famosa montagna dell'Ida cantata dal poeta Omero. La sua mole si levava a notevole altezza, era coperta d'erba e di alberi veri, e sulla sua sommità si riversavano le acque scorrenti da una sorgente che aveva fatto zampillare la mano dell'architetto. Alcune caprette brucavano l'erbetta e un giovane fingeva di esserne il guardiano; egli, ad immagine di Paride, il frigio pastore, era vestito con raffinatezza, con un mantello orientale che gli cadeva giù dalle spalle, e aveva il capo coperto d'una tiara d'oro.

Ecco poi apparire un ragazzo di luminosa bellezza, completamente nudo, eccetto la spalla sinistra che era coperta da una clamide da efebo; la sua bionda chioma attirava lo sguardo di tutti gli spettatori, e tra i suoi capelli spuntavano due alucce d'oro congiunte con bella simmetria, e, come se ciò non bastasse, anche la bacchetta indicava in lui Mercurio. Egli, a passo di danza, corse sulla scena: recava una mela coperta di foglie d'oro, e la porse al giovane che rappresentava Paride mentre col cenno del capo gli indicò gli ordini di Giove; poi, immediatamente, indietreggiando con molto garbo, scomparve alla vista di tutti.

Gli sta dietro una giovane che nelle sue nobili sembianze somigliava alla dea Giunone; infatti, aveva il capo cinto d'un bianco diadema e aveva in mano uno scettro.

Entrò poi di corsa una seconda giovane. La si sarebbe creduta Minerva: portava sul capo un elmo lucente, e intorno all'elmo una corona di foglie d'ulivo; imbracciava lo scudo e brandiva la lancia, proprio come appare la dea quando si avventa nella mischia.

31. Dietro di loro avanzò sulla scena una terza giovane. La sua avvenenza era oggetto di ammirazione, la grazia e il divino splendore del suo colorito indicavano in lei Venere.

Sì, somigliava in tutto a Venere quando era ancora vergine; il bel corpo rivelava l'assoluta perfezione delle forme, e la sua nudità era pressoché completa, poiché solo un sottile velo di seta adombrava le segrete grazie pur degne d'essere viste. Un venticello, curiosetto anzichenò, come se fosse innamorato, ne gonfiava ora scherzoso i lembi, e scopriva il delicato fiore della sua gioventù, ora spirava verso di lei con impertinenza, e il velo allora aderiva così stretto alle membra, da disegnarne al vivo la voluttuosa bellezza.

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Anche l'aspetto della dea offriva allo sguardo un contrasto di colori: candido il corpo perché Venere scende dal cielo, azzurra la veste perché nasce dal mare.

Così le tre giovani, che impersonavano le divinità, avevano ognuna intorno la propria scorta. Per l'appunto accompagnavano Giunone, Castore e Polluce: essi avevano sul capo degli elmi ovali e sul cimiero risaltava un fregio in forma di stella; e anche questi Castori erano dei giovani attori.

Accompagnava il quadro la musica del flauto, e la giovane, regolando il suo passo secondo il variare del modo ionico, con un gestire della più semplice naturalezza e una mimica piena di nobiltà, promette al pastore di farlo re di tutta l'Asia, se le avesse aggiudicato la palma della bellezza.

Di contro, due adolescenti si tenevano al fianco di quella a cui l'equipaggiamento d'armi assegnava il ruolo di Minerva; essi l'accompagnavano in qualità di scudieri e, significando il Terrore e lo Spavento, brandivano le spade in atto di minaccia.

Alle spalle della dea un flautista suonava una canzone di guerra di tonalità dorica; il flauto, mescolando acuti squilli a suoni cupi proprio come una tromba guerriera, stimolava l'agilità e l'energia dei danzatori. Volgendo irrequieta il capo, lei lanciava sguardi minacciosi; il suo gestire, veloce e pieno di fuoco, voleva significare a Paride che egli, con il suo aiuto, sarebbe diventato un eroe della guerra e si sarebbe ricoperto di gloriosi trofei, se avesse assegnato a lei la vittoria nel concorsa di bellezza.

32. Ed ecco che Venere, tra i battimani del pubblico plaudente, viene a fermarsi con grazia proprio nel mezzo della scena. Sorride dolcemente, e ha intorno a sé una folla di bimbi felicissimi, paffuti e color del latte, tali che li si sarebbe creduti degli Amorini belli e buoni, appena giunti in volo dal cielo o dal mare.

Infatti le alucce, le piccole frecce e la foggia delle vesti corrispondevano perfettamente, ed essi con lucenti fiaccole rischiaravano il cammino alla loro signora, come se dovesse recarsi a un banchetto di nozze.

Simili a un fiume che scorre, entrarono poi due schiere leggiadre di vergini: da un lato le Grazie piene di venustà, dall'altro le Ore bellissime. Esse gettavano

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ghirlande e fiori sciolti per rendere omaggio alla loro dea, e, formando intorno a lei un leggiadro circolo, offrivano in segno d'amore alla regina delle voluttà la verde chioma della primavera. Già i flauti dai molti fori fanno insieme echeggiare le dolci melodie della Lidia, e la loro soave musica intenerisce il cuore degli spettatori.

Ma più soave ancora fu lo spettacolo di Venere, quando cominciò a muoversi adagio: il suo passo era lento e indeciso, i suoi fianchi ondeggiavano con flessuosa dolcezza, il suo capo pian piano si accordava ai movimenti del corpo. La dea incede per la scena, e atteggia al flebile suono dei flauti la sua mimica voluttuosa: le sue pupille ora si velano di languore, ora lanciano sguardi assassini; a volte resta immobile e solo i suoi occhi danzano.

Eccola giunta al cospetto del giudice; dal modo in cui tende le braccia, si capisce che promette, nel caso che sia preferita alle altre dee, di dare a Paride una sposa che per la sua straordinaria bellezza sia pari a lei. Allora risolutamente il giovane Frigio porge alla ragazza la mela d'oro che aveva in mano, a significare che lei ha vinto.

33. Che c'è dunque da meravigliarsi, o esseri vilissimi, anzi pecore da tribunali, o meglio, avvoltoi in toga, se oggi tutti quanti i giudici vendono le loro sentenze per danaro? All'alba del mondo, la parzialità non ha forse falsato un dibattito al quale hanno partecipato uomini e dèi? Un contadino, un pecoraio, scelto come giudice dal senno del possente Giove, non ha potuto vendere, in vista d'un profitto amoroso, la prima delle sentenze, e insieme causare la rovina della sua stirpe?Lo stesso esito, perbacco, ebbero un secondo e un terzo giudizio, che opposero tra loro quei famosi duci achei: infatti Palamede, che era un uomo superiore per sapere e ingegno, fu condannato per una falsa accusa di tradimento; Ulisse, un uomo mediocre, fu preferito al possente Aiace che spiccava fra tutti per il suo valore guerriero.

E non è simile anche quell'altro processo che si svolse tra gli Ateniesi, i quali erano accorti legislatori e maestri d'ogni sapere? Quel vecchio di saggezza divina, che il dio di Delfo dichiarò per sapienza superiore a tutti i mortali, non fu forse vittima dell'odio e delle frodi d'infami avversari? Gli mossero l'accusa di corrompere i giovani, quei giovani che egli obbligava ai freni della morale, e così fu costretto a bere il succo mortale di un'erba velenosa, lasciando ai suoi concittadini l'onta di un'eterna vergogna.

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Eppure, anche oggi filosofi di valore non scelgono di abbracciare la sua dottrina, la più pura di quante esistano, e, nell'ardente brama di conseguire la felicità dello Spirito, non giurano nel suo nome?Ma ora riprendo il mio racconto al punto dove l'ho lasciato. Non vorrei infatti che qualcuno mi biasimasse per il calore della mia indignazione e pensasse: "E dovremmo anche sopportare, ora, un asino che fa il filosofo?".

34. Il giudizio di Paride, come già dissi, era finito. Giunone e Minerva si allontanarono dalla scena tristi e coi segni dell'ira sul volto, dimostrando coi gesti il loro sdegno. Venere, invece, tutta gioiosa, si mise a danzare con tutto il suo corteo per dimostrare la sua letizia.

A questo punto, dalla vetta del monte, attraverso un condotto ivi nascosto, sprizza verso l'alto uno zampillo di vino in cui era sciolto dello zafferano; esso, riversandosi dall'alto in diverse direzioni, bagnò con la sua pioggia odorosa le capre attorno intente a pascolare e, macchiandole, le fece diventare più belle, poiché mutarono la bianchezza primitiva del loro vello nel color giallo dello zafferano.

L'intero l'anfiteatro olezzava di un delicato profumo, quando d'un tratto quel monte di legno sprofondò in una voragine apertasi nel suolo. Ecco ora un soldato traversare di corsa la strada; andava a prendere, poiché il pubblico già reclamava, quella tale di cui dissi che era stata condannata alle belve per i suoi molteplici delitti, e che era destinata a unirsi con me in splendide nozze.

Già con la massima diligenza veniva preparato per terra quello che doveva evidentemente servirci come talamo matrimoniale: un letto tutto intarsiato di lucenti scaglie di tartaruga indiana, zeppo di soffici piume, rivestito d'una coperta di seta a fiorami.

Io, però, a parte la vergogna di dover consumare delle nozze in pubblico, e oltre al fatto di essere esposto all'impuro contatto d'una donna scellerata, mi sentivo nell'intimo straziato dalla paura, perché mi pareva di andare a morte. Almanaccavo infatti tra me: " Poniamo che mentre siamo uniti nell'amplesso di Venere, una belva venga sguinzagliata addosso alla donna; per divorarla l'animale non potrebbe mai essere dotato di accortezza o addestrato con abilità o capace di sobrietà, quanto basti per dilaniare la donna al mio fianco e risparmiare invece me, nella mia qualità d'innocente e d'incensurato".

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35. Perciò non si trattava più di vergogna, ma ero preoccupato per la mia stessa vita. Intanto il mio istruttore era intento a preparare diligentemente il letto, né si curava d'altro; e in quanto ai servi, alcuni erano occupati nei preparativi della caccia, gli altri erano assorbiti dal diletto dello spettacolo.

Perciò ebbi campo libero per riflettere ai fatti miei e, siccome nessuno si dava la briga di sorvegliare un asino così mansueto, io a poco a poco, senza averne l'aria, guadagnai la porta più vicina.

Una volta sul limitare, mi lanciai a corsa sfrenata, e velocemente galoppai per ben sei miglia, senza fermarmi, sino a Cencrea, città che ha fama d'essere una delle più nobili colonie di Corinto, e che è bagnata dal mar Egeo e dal golfo Saronico.

Tra l'altro, si trova in un porto che offre sicuro rifugio alle navi, ed è molto frequentato dalla gente. Evitai, dunque, la folla e scelsi una spiaggia solitaria. Qua, vicino agli spruzzi delle onde, mi distesi per riposare le mie membra stanche in un incavo della sabbia soffice come un letto. Così, mentre il carro del sole aggirava l'ultimo limite del giorno, io mi affidai alla quiete del tramonto e caddi in preda a un sonno riparatore.

LIBRO 11

1. Mi svegliai per un'improvvisa sensazione di paura verso le nove di notte, e vidi la luna: il suo disco tondo brillava di una fulgida luce, e proprio allora usciva dalle onde del mare.

Il silenzio misterioso della notte oscura mi parve propizio.

Sapevo anche che la nobile dea esercita poteri sovrani e con la sua provvidenza governa tutte le cose di questo mondo; sapevo che non solo le bestie, sia domestiche che selvagge, ma anche i corpi inanimati si sviluppano grazie all'influenza divina della sua luce e della sua volontà, tanto che le stesse

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creature esistenti sulla terra, nel cielo e nel mare, ora aumentano in modo corrispondente al suo crescere, ora diminuiscono in ossequio al suo scemare.

Stimai dunque che il destino dovesse ritenersi sazio delle mie tante e così gravi disgrazie, e che mi offrisse, un po' tardi, è vero, una speranza di salvezza. Decisi perciò di rivolgere le mie suppliche all'immagine augusta della divinità davanti alla quale mi trovavo. Immediatamente scossi da me il torpore del sonno, e mi alzai lieto e pieno d'energia. Bramoso di una purificazione, senza indugio mi affido alle onde marine, immergo la testa sette volte nei flutti, un numero, questo, che il divino Pitagora disse adatto in particolar modo alle sacre cerimonie, e, mentre le lacrime correvano sul mio volto, così implorai la dea onnipossente:2. "O Regina del cielo, sii tu Cerere alma, prima creatrice delle messi, tu che nella gioia di aver ritrovato tua figlia eliminasti l'antica usanza di nutrirsi, come delle fiere, di ghiande, rivelando così agli uomini un cibo più mite, e ora frequenti le zolle di Eleusi; sii tu Venere celeste, che agli albori del mondo congiungesti i sessi in contrasto, generando Amore e propagando con frutti sempre nuovi la stirpe umana, e ora sei onorata nel santuario di Pafo che il mare circonda; sii tu la sorella di Febo, che alleviando con le tue cure il parto alle donne incinte, hai fatto nascere intere popolazioni, e ora sei venerata nel tempio illustre di Efeso; sii tu la venerabile Proserpina che la notte con le tue urla e col tuo triforme aspetto freni l'impeto delle larve, sbarri le porte del sottoterra, erri qua e là per le selve e accogli propizia le varie cerimonie di ossequio; tu che con la tua femminile luce rischiari ovunque le mura delle città e col tuo rugiadoso splendore alimenti la rigogliosa semente e con le tue solitarie peregrinazioni spandi il tuo incerto chiarore; con qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualsiasi aspetto sia lecito invocarti, concedimi finalmente la tua assistenza nell'ora dell'estrema rovina, rinsalda la mia afflitta fortuna, e, dopo tante disgrazie che ho sofferto, dammi tregua e riposo. Basta con le fatiche, basta con i pericoli. Cancella l'orrido aspetto del quadrupede, rendimi agli occhi dei miei, rendi a me quel Lucio che ero, e, se un dio mi perseguita con implacabile crudeltà per un'offesa che gli abbia fatto, mi sia almeno concesso di morire, se non mi è concesso di vivere".

3. Così, mentre mi effondevo in preghiere e ad esse facevo seguire lamenti da far compassione, in quello stesso giaciglio di nuovo il sonno mi avvolse e soffocò il mio spirito illanguidito.

Ma non avevo ancora chiuso completamente gli occhi, ed ecco emergere in mezzo al mare una divina figura, levando un volto degno di essere adorato dagli stessi dèi. Poi mi sembrò che, poco alla volta, l'intera persona, come una luminosa statua, si rizzasse d fronte a me, scuotendo da sé l'onda marina.

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Io cercherò di descrivere pure a voi il suo mirabile aspetto purché la povertà della lingua umana me ne dia la possibilità e la divinità stessa mi offra il dono di una facile e abbondante eloquenza.

In primo luogo una massa di capelli folti e lunghi, leggermente riccioluti, si allargava ovunque sulla nuca divina e fluiva giù con molle grazia. Una corona intessuta di molti e svariati fiori le stringeva il capo alla sommità; proprio in mezzo, sopra la fronte, emetteva una chiara luce un disco dalla superficie piana che somigliava a uno specchio, o che anzi voleva imitare la luna.

Sui lati, a destra e a sinistra, si drizzavano due vipere con le loro spire, e, dalla parte superiore, spighe sacre a Cerere si protendevano ad attirare gli sguardi. La sua tunica multicolore, intessuta di bisso sottile, pareva ora bianca come il brillar della luce, ora gialla come il fiore dello zafferano, ora fiammeggiante come il fulgore delle rose; ma soprattutto confondeva il mio sguardo un mantello nero come l'ebano, che splendeva di una sua lucentezza tenebrosa. Esso correva tutto intorno al corpo, risaliva da sotto il fianco destro fin su alla spalla sinistra, sino a formarvi un nodo, poi pendeva in basso in pieghe molteplici sino all'orlo inferiore, e con molta grazia si raccoglieva in onde con i suoi fiocchi e le sue frange.

4. Sparse sull'orlo ricamato e nell'ampia superficie del mantello, rifulgevano delle stelle; e in mezzo a esse una luna piena effondeva una luce di fiamma. Inoltre, lungo tutto il giro in cui si snodava quel magnifico mantello, correva, quasi una catena, senza interruzione, una ghirlanda interamente composta di fiori e di frutta.

In quanto poi agli attributi della dea, essi erano molto vari.

Infatti, portava nella mano destra uno sistro di bronzo; la sua sottile lamina incurvata come un cinturone da spada, era trapuntata in mezzo da alcune verghette che emettevano un suono argentino, quando la dea vibrava tre volte il suo braccio. Dalla sinistra, invece, pendeva una lucerna d'oro, e sul suo manico, in evidenza, sporgeva un aspide che drizzava il capo in alto e gonfiava il collo per il largo. Essa calzava i suoi piedi divini con sandali intrecciati di foglie di palma, che è l'ornamento dei vittoriosi.

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In questo maestoso aspetto mi apparve la dea, olezzante di profumi dell'Arabia felice; e si degnò di parlarmi con la sua divina voce.

5. "Eccomi a te, o Lucio, le tue preghiere mi hanno commossa. Io sono la genitrice dell'universo, la sovrana di tutti gli elementi, l'origine prima dei secoli, la regina delle ombre, la prima dei celesti; io riassumo nel mio volto l'aspetto di tutte le divinità maschili e femminili: sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutari venti del mare, i desolati silenzi dell'Averno. Indivisibile è la mia divina essenza, ma nel mondo sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi. Perciò i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano madre degli dèi, adorata in Pessinunte; gli Attici autoctoni, Minerva Cecropia; i Ciprioti bagnati dal mare, Venere di Pafo; i Cretesi abili arcieri, Diana Dictinna; i Siciliani trilingui, Proserpina Stigia; gli abitanti dell'antica Eleusi, Cerere Attea; alcuni, Giunone; altri, Bellona; gli uni, Ecate; gli altri, Rammusia. Ma le due stirpi degli Etiopi, gli uni illuminati dai raggi nascenti del sole all'alba, gli altri da quelli morenti al tramonto, e gli Egiziani cui l'antico sapere conferisce potenza, mi onorano con riti che appartengono a me sola, e mi chiamano, col mio vero nome, Iside Regina. Io vengo a te, perché ho pietà delle tue disgrazie, io vengo a te benigna e propizia. Poni ormai fine al pianto, smetti i lamenti, caccia l'angoscia; grazie alla mia provvidenza, rifulge ormai per te il giorno della salvezza. Perciò porgi scrupolosa attenzione ai miei ordini. Eccoli!Il giorno che nascerà da questa notte è stato, con rito che si perde nel tempo, a me consacrato. E' il giorno in cui le tempeste invernali sono cessate, e calmate le onde procellose. In questo giorno i miei sacerdoti dedicano al mare ormai navigabile una nave ancora vergine, e offrono a me le primizie della navigazione. Tu devi dunque attendere questa sacra cerimonia con animo libero da timori, ma anche da pensieri impuri".

6. "Infatti, il sacerdote, ubbidendo al mio avvertimento, nel corso stesso della processione porterà nella mano destra una corona di rose avvolta al sistro. Tu non esitare, fatti largo arditamente nella folla, abbi fiducia nella mia benevolenza, e accompagna la processione; poi, una volta vicino al sacerdote, dolcemente, come se volessi baciargli la mano, cogli le rose e sarai immediatamente libero da questa pelle che appartiene a una bestia così spregevole e che da tanto tempo mi è odiosa. Non aver paura che le mie prescrizioni siano difficili a realizzarsi.

Infatti, proprio in questo momento che sono davanti a te, contemporaneamente sono presente in altro luogo, e nel sonno do al mio sacerdote le avvertenze del caso. Dietro il mio comando le turbe fitte di popolo ti lasceranno passare;

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nessuno, nella letizia della sacra cerimonia e del festoso spettacolo, sentirà ripugnanza per questo deforme aspetto che hai, nessuno darà un'interpretazione ostile o comunque malevola all'improvvisa metamorfosi della tua persona.

In cambio, tu ricorderai scrupolosamente, e terrai ben stretto nel profondo dell'animo, che lo spazio di vita che ancora ti rimane da percorrere è consacrato a me sino all'ultimo tuo respiro. E ben a ragione tu sarai debitore del resto della tua vita a chi ti ha fatto la grazia di ritornare tra gli uomini. A parte ciò, tu vivrai felice, vivrai glorioso sotto la mia protezione: e quando poi avrai compiuto il tempo della tua esistenza mortale, e discenderai agli Inferi, anche là, in quel sotterraneo emisfero, mi ritroverai, tale quale ora mi vedi, cosparsa di luce tra le tenebre dell'Acheronte e regina delle segrete dimore dello Stige; là tu abiterai i Campi Elisi e spesso farai atto di adorazione alla mia benigna divinità. Se poi tu, con una vita fatta di scrupolosa obbedienza, di dedizione al mio culto, di castità tenacemente osservata, meriterai la mia divina grazia, capirai che a me sola è riservato il potere di prolungare la tua vita al di là dei confini che il fato ti ha destinato".

7. Così, quand'ebbe rivelato il venerabile oracolo fino alla fine, la dea invincibile rientrò in se stessa.

In quanto a me, non persi tempo, ma strappatomi al sonno mi drizzai in piedi, confuso tra lo spavento e la gioia, inondato di sudore. Ero oltremodo stupito che la possente dea avesse voluto manifestarsi a me con tanta chiarezza; nondimeno, mi aspersi dell'onda marina e, attento alle solenni prescrizioni, ripassavo tra di me una per una le sue raccomandazioni.

Ben presto sorse un sole d'oro e mise in fuga la nebbiosa oscurità della notte. Ecco che in religioso corteo, proprio come se si trattasse di un trionfo, turbe di popolo riempiono le vie; a parte la mia personale allegrezza, tutto ciò che vedevo mi sembrava esultante di letizia, e perfino le bestie, quali che fossero, e tutte le case, e persino il giorno stesso, a mio parere, manifestavano la propria contentezza nella serenità del loro aspetto. Difatti, alla brina del giorno precedente era succeduta inaspettatamente una giornata soleggiata e mite. Risuonava il soave concerto degli uccelletti canterini, che anche loro si rallegravano del tepore primaverile e con le loro voci carezzevoli elevavano lodi alla madre delle stelle, alla genitrice dell'eternità, alla regina di tutto il mondo.

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Anche gli alberi, sia quelli che dispiegano la loro fecondità nella figliolanza dei loro frutti, sia quelli che nella loro sterilità si limitano a produrre ombra, si ricreavano al soffio dell'Austro: essi aprivano al sorriso le gemme delle loro foglie e, muovendo lievemente le braccia, bisbigliavano con dolce mormorio.

Era cessato il fragore orribile delle procelle, l'ira tempestosa dei flutti s'era placata, e il mare, con le sue onde, carezzava quietamente il lido. Il cielo aveva spazzato via le nuvole e le nebbie e, puro e sereno, s'illuminava dello splendore della sua stessa luce.

8. Ecco che, uno alla volta, sfilano, come preludio del corteo solenne, gruppi mascherati in magnifici abbigliamenti, secondo il voto e il gusto di ciascuno. Chi si era cinto di un cinturone e si fingeva soldato; chi, vestito d'un corto mantello, con i sandali e lo spiedo, si era mutato in cacciatore; chi, coperto di una veste di seta, le scarpette dorate, i preziosi ornamenti e la parrucca aderente al capo, assumeva arie di donna e incedeva languidamente.

Un altro, poi, attirava lo sguardo di tutti con gli schinieri, lo scudo, l'elmo e la spada, di modo che l'avresti creduto uscito dritto da una scuola di gladiatori. E non mancava chi, con i fasci e la porpora faceva da magistrato, né chi, fornitosi di mantello, bastone, sandali e barbetta da capro, figurava d'essere un filosofo; c'erano anche due muniti di canne di diversa lunghezza, e di essi uno rappresentava un cacciatore con le sue panie e l'altro un pescatore con i suoi ami. Vidi anche un'orsa addomesticata che, vestita come una matrona, era portata a spasso in portantina; vidi una scimmia col capo coperto da un berretto di maglia e una veste frigia color zafferano, che voleva essere il pastore Catamito e recava in mano un'aurea coppa. Vidi, infine, un asino al quale erano state incollate delle ali, andare piano piano, e al suo fianco un vecchio pieno di acciacchi: uno era da chiamarsi Bellerofonte, l'altro Pegaso, e tutti e due destavano il riso.

9. Mentre questo divertente seguito di maschere popolane si aggirava di qua e di là, già la processione dedicata esclusivamente alla dea della salvezza iniziava il suo cammino.

Donne splendenti nelle loro candide vesti, tutte liete dei loro vari ornamenti e il capo ornato di ghirlande primaverili, lanciavano dal grembo fiori, in modo da cospargere la via per cui passava il sacro corteo; altre volgevano dietro la schiena specchi lucenti, per rendere visibile alla dea l'omaggio dei fedeli, a

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mano a mano che essa arrivava alla loro altezza; alcune con dei pettini d'avorio facevano mostra, muovendo le braccia e piegando le dita, di adornare e pettinare la regale capigliatura della dea; o anche cospargevano le vie, versando goccia e goccia un delizioso profumo e altri odorosi unguenti.

Inoltre, una gran folla di individui d'ambo i sessi portavano lucerne, fiaccole, ceri e altri lumi adatti alla circostanza, per attirarsi la grazia della dea che è la genitrice delle stelle del cielo.

Venivano poi dei suonatori di zampogna e di flauto, che con la loro dolcissima melodia componevano un concerto dei più soavi.

Li seguiva un amabile coro di scelti giovani, brillantemente vestiti a festa con una candida tunica, che ripetevano in coro un inno molto bello, composto per ispirazione delle Muse da un poeta di valore insieme con l'accompagnamento musicale; e il suo significato era di preludio a quelli che sarebbero stati i voti più solenni.

Venivano inoltre dei flautisti consacrati al grande Serapide, che in una specie di flauto ricurvo che gli arrivava sino all'orecchio destro suonavano a intermittenza il motivo tradizionale che echeggia nel tempio del loro dio. E non si contavano, infine, quelli, ed erano i più, che gridavano di sgombrare il passaggio davanti alla sacra processione.

10. A questo punto irrompe come un fiume la turba degli iniziati ai sacri misteri: uomini e donne d'ogni condizione sociale e d'ogni età, raggianti un immacolato candore dalle loro vesti di lino, queste coi capelli profumati e avvolti in trasparenti veli, quelli col capo completamente raso e il cranio d'una bianco lucente; erano le stelle terrene di quella venerabile religione, e dai loro sistri di bronzo, d'argento e anche d'oro, traevano un acuto tintinnio.

Insieme a loro avanzavano i sacerdoti del culto: personaggi maestosi che, strettamente fasciati da una bianca tunica di lino lunga dal petto sino ai piedi, recavano gli attributi che testimoniavano la potenza dei loro dèi.

Il primo di loro tendeva alla vista della gente una lucerna che brillava di una viva luce; ma questa non rassomigliava per nulla alle nostre lampade che la sera illuminano i banchetti, era invece in forma di una barchetta, e aveva al centro

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un foro da cui usciva una fiamma abbastanza larga.

Il secondo era vestito allo stesso modo, ma portava nelle mani un altare; era quello che si chiama "ausilio", e il cui nome, in particolare, è derivato dalla provvidenza ausiliatrice della dea signora del creato.

Veniva il terzo, levando in alto un ramo di palma dalle foglie sottilmente lavorate in oro, e insieme il caduceo sacro a Mercurio.

Il quarto, come simbolo della giustizia, andava mostrando una mano sinistra foggiata con la palma aperta, a significare che la sinistra, naturalmente lenta com'è, sfornita d'ogni destrezza e prontezza di riflessi, è più conveniente alla giustizia che la destra. Recava inoltre un vasetto d'oro in forma di mammella rotonda, e con esso faceva libagioni di latte.

Il quinto portava un setaccio d'oro ripieno di ramoscelli d'alloro; il sesto un'anfora.

11. Non tardarono, quindi, ad apparire gli dèi, che si degnavano d'incedere valendosi dei piedi degli uomini.

Ecco il terribile messaggero che fa la spola tra gli dèi del cielo e dell'Inferno avanzare con il capo eretto e il volto mezzo nero e mezzo giallo come l'oro, drizzando alteramente il suo collo di cane: Anubi, che con la mano sinistra recava il caduceo e con l'altra scuoteva un ramo di palma.

Sui suoi passi, immediatamente dopo, seguiva una giovenca sollevata in posizione eretta: giovenca, simbolo della fecondità, che ben si addice alla dea madre del creato; essa era adagiata sulle spalle d'uno dei suoi ministri, e manifestava nell'andatura maestosa la sua felicità.

Un altro recava una cesta contenente i sacri corredi e nascondeva nell'intimo di essa i misteri di quella sublime religione.

Un terzo sosteneva col suo grembo fortunato la venerabile effigie della divinità suprema. Questa non aveva forma né di animale domestico né di uccello né di

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belva e neppure d'uomo, ma la novità stessa e l'ingegnosità della trovata la rendevano venerabile e ne facevano il simbolo ineffabile di una religione comunque superiore e degna d'essere custodita nel massimo segreto. L'immagine era d'oro luccicante, e configurata precisamente nel seguente aspetto:si trattava d'una piccola urna, foggiata con rara maestria a fondo esattamente circolare, esternamente cesellata con figure meravigliose proprie degli egizi; il suo orificio non si levava molto in alto, ma era teso in avanti a mo' di tubo e sporgeva con un lungo becco; nell'altro lato era fissato un manico che si sviluppava all'indietro in una larga ansa, e in questa stava un aspide dalla pelle squamosa, che, attorcigliato in sinuose spire, innalzava il suo collo rigonfio e striato.

12. Ed ecco avvicinarsi il momento fatale del beneficio promessomi dalla dea misericordiosa. Il sacerdote che recava con sé la mia salvezza avanza, e tiene nella destra, proprio in quella foggia che aveva prescritto la divina promessa, un sistro per la dea e una corona per me.

Perbacco! La corona faceva proprio al mio caso, poiché, dopo tante e tali fatiche affrontate, dopo tanti rischi superati, riuscivo finalmente, grazie al provvidenziale ausilio della massima divinità, a vincere la Fortuna che mi perseguitava così crudelmente.

Eppure, non mi lasciai commuovere dall'improvvisa gioia, né mi precipitai di corsa, tutto d'un balzo. Temevo, infatti, e con ragione, che se mi fossi lanciato bruscamente, con l'impeto adeguato a una bestia a quattro zampe, avrei turbato la tranquillità e l'ordine della cerimonia; perciò, con quel passo calmo che è proprio abituale a un essere umano, mi avvicinai di traverso pian piano e con molta circospezione, e mi insinuai nella sfilata, mentre la folla mi faceva largo, certo per divina ispirazione.

13. Il sacerdote, come potei riconoscere alla prova dei fatti, era stato avvertito dell'oracolo: subito si fermò, ammirando l'esatta corrispondenza degli avvenimenti con la missione affidatagli, e, porgendo spontaneamente la destra, mi presentò la corona proprio davanti alla bocca.

Allora io, pieno d'emozione, col cuore che mi batteva fitto a colpi precipitosi, bramoso di vedere attuata la promessa, colsi avidamente con la bocca e divorai quella bella corona, che era tutta trapunta di rose leggiadre e smaglianti.

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Né mi aveva ingannato la celeste promessa: in un lampo la mia figura deforme e animalesca scivolò via.

Dapprima se ne va il mio ruvido pelame; poi si assottiglia lo spessore della pelle; il ventre obeso rientra in se stesso; dalle piante dei piedi escono fuori, attraverso lo zoccolo, le dita; le mani non sono più piedi, ma si adattano alle funzioni che comporta la posizione eretta; il lungo collo si accorcia; il volto e il capo diventano rotondi; le mie enormi orecchie riprendono la primitiva piccolezza; i denti, simili a ciottoli, ritornano alla ridotta misura dell'umana costituzione; e soprattutto, ciò che prima mi tormentava, la coda, ecco, non esiste più!Le turbe sbigottiscono, i fedeli fanno atto di adorazione davanti ai poteri manifesti dell'augusta divinità e alla facilità meravigliosa della mia metamorfosi, che si era svolta simile in tutto alla visione avuta durante la notte. Così essi, a voce alta e in coro, tendendo le braccia al cielo, testimoniano l'insigne beneficio della dea.

14. Quanto a me, tanto era lo sbalordimento, così esorbitante il mio stupore, che ero rimasto come paralizzato e muto; e il mio animo non riusciva più a contenere una gioia così improvvisa e grande.

Non sapevo più che argomento scegliere ed enunciare per primo; da dove prendere le mosse, con la voce appena recuperata; con quale discorso inaugurare felicemente la rinascita della mia lingua; quali termini trovare abbastanza espressivi per attestare la mia gratitudine alla dea possente.

Ma il sacerdote che, grazie al divino intervento, conosceva dall'a alla zeta tutte le mie disgrazie, pur essendo anche lui commosso per lo straordinario miracolo, con un significativo cenno del capo ordinò che mi si desse una veste di lino per coprirmi.

Difatti, appena m'ero liberato da quella maledetta pelle asinina, io avevo stretto le cosce una contro l'altra e ci avevo accuratamente steso sopra le mani per quanto mi consentiva la mia nudità, e avevo così cercato di proteggere il mio pudore con quel velo che la natura mi offriva. Uno del venerabile corteo si affrettò allora a togliersi la tunica esterna e a coprirmi. Dopo di che, il sacerdote, con espressione ispirata e contemplando affascinato la mia persona, così parlò:

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15. "Dopo aver sostenuto prove d'ogni genere ed essere stato travagliato dalle tempeste gravi della Fortuna e dalle più aspre calamità, tu sei finalmente giunto, o Lucio, al porto della Quiete e all'altare della Misericordia. Non ti è giovato per nulla né la nobiltà dei natali, né la stima dovuta ai tuoi meriti, né lo stesso sapere, che in te è grande; ma dal capriccio dell'età giovanile ti sei lasciato trascinare in piaceri degni d'uno schiavo, e hai riscosso l'amara ricompensa della tua infelice curiosità. Ma comunque, la Fortuna, che è cieca e fa il male senza avvedersene, facendoti passare attraverso i pericoli più angosciosi, ti ha condotto a questo stato di felicità che offre la religione. Se ne vada, ora, si abbandoni ai maggiori eccessi, e cerchi altri soggetti per la sua crudeltà! L'esistenza di quelli che il sovrano potere della nostra dea riscatta per i suoi servizi, è ormai al di fuori delle asperità della sorte. Briganti, belve, schiavitù, giri e rigiri per strade impossibili, trovarsi ogni giorno a tu per tu con la morte: quali sono stati i guadagni della Fortuna malvagia? Ormai sei sotto la protezione della Fortuna, ma è una Fortuna, questa, che ha occhi per vedere, e che, con lo splendore emanante dalla sua luce, illumina anche gli altri dèi. Atteggia il tuo volto a quella letizia che si addice a questa tua candida veste, e accompagna con giubilo la processione della dea salvatrice. Vedano gli increduli, vedano e riconoscano il loro errore. Ecco! Lucio celebra con gioia il trionfo sulla sua malvagia Fortuna perché Iside ha voluto nella sua previdenza liberarlo dalle antiche miserie. Ma per essere più sicuro della sua protezione, iscriviti in questa santa milizia dato che poco fa ti è stato richiesto di giurarle fedeltà. Sin d'ora consacrati all'obbedienza della nostra religione e sottomettiti volontariamente al giogo del suo ministero. Infatti, solo quando comincerai a militare al servizio della dea, potrai capire meglio il valore della tua libertà".

16. Questo vaticinio, con il respiro rotto e anelante di commozione, diede l'eccellente sacerdote, e tacque. Subito dopo mi mescolai alla folla dei fedeli, e passo per passo accompagnai il sacro corteo. Ero ormai diventato noto e famoso a tutta la popolazione, e la gente mi segnava col dito o con cenni del capo.

Tutti si interessavano al mio caso mio, nella folla, e dicevano:"Eccolo, quello che oggi l'augusta maestà della dea onnipossente ha fatto tornare nella sua forma d'uomo. Fortunato davvero e tre volte beato costui che evidentemente, grazie alla purissima fede della sua vita anteriore, ha meritato dal cielo tale ragguardevole protezione! Giacché appena nato, si può dire, a nuova vita, subito è promesso al sacro ministero".

Intanto, inoltrandoci a poco a poco tra il festoso tumulto della solenne ricorrenza, ci avvicinavamo già alla spiaggia del mare e arrivammo in quel luogo dove il giorno prima l'asino che ero aveva fatto il suo giaciglio.

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Là vengono disposti, secondo il rito, le immagini della dea. C'era anche una nave, costruita a regola d'arte, che intorno mostrava una fascia variopinta di figurazioni d'argomento egizio.

Il sommo sacerdote, dopo avere con la sua casta bocca recitato le preghiere più solenni, celebrò il rito della purificazione con una fiaccola ardente, un uovo e dello zolfo, e, all'atto della consacrazione, pose la nave sotto la protezione della dea.

La vela lucente di questa nave benedetta portava visibili delle lettere ricamate in oro, ed esse esprimevano un voto d'augurio per la prospera ripresa dei traffici marittimi.

Presto viene drizzato l'albero maestro, fatto con un rotondo pino che si elevava splendido a grande altezza e con la sua magnifica gabbia attirava subito l'attenzione; la poppa, che finiva in un ricurvo collo di cigno, era rivestita d'una fulgente camicia di lamine d'oro; e la carena tutta quanta costruita in legno di cedro ben levigato, emetteva luminosi riflessi.

Allora, sia i fedeli che i profani, in folla compatta fanno a gara ad ammucchiare setacci colmi di spezie e altre offerte del genere, e versano sulle onde, come libagione, una crema fatta col latte.

In ultimo, la nave, piena zeppa di doni e d'oggetti votivi, viene liberata dalle gomene dell'ancora e calata in mare alla mercé di una mite brezza sorta proprio al momento giusto.

E solo quando essa, percorso lo spazio marino, offrì di sé appena una fuggevole vista, i portatori ripresero ciascuno i sacri arredi che avevano portato, e con passo rapido si affrettarono a tornare al tempio, riformando la bella processione di prima.

17. Quando arrivammo proprio sulla porta del tempio, il sommo sacerdote, i portatori delle divine immagini e gli iniziati che da tempo erano ammessi a entrare nel venerabile santuario, si raccolgono nella cella della dea, e qui dispongono nell'ordine del cerimoniale le statue che sembravano vive.

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A questo punto, uno di questi a cui tutti davano il titolo di Scriba, stando in piedi davanti alla porta, invitò come per una riunione quelli facenti parte del gruppo dei pastofori (tale era la denominazione del sacro collegio); là stesso, dall'alto d'una tribuna, egli recitò da un libro di formule scritte un augurio di prosperità per l'imperatore, il senato, i cavalieri e il popolo romano, per i marinai e le navi che entro i confini dell'impero battono la nostra bandiera, e infine proclamò, valendosi della lingua e del cerimoniale greco, l'apertura della navigazione.

Seguì l'urlo generale della folla, a riaffermare che il sacerdote augurava a tutti prosperità; e a questo punto l'allegrezza popolare non conobbe più limiti. Tutti, recando in mano germogli, ramoscelli e ghirlande, si curvano a baciare i piedi della dea, la cui statua d'argento massiccio era stata collocata sulla gradinata del tempio, e poi fanno ritorno alle loro dimore.

In quanto a me, però, non mi bastava l'animo di allontanarmi di lì neppure di un'unghia, ma contemplavo affascinato l'immagine della dea dinanzi a me e riandavo con la mente alle mie passate avventure.

18. Tuttavia la Fama, che è alata, non era rimasta in ozio né si era attardata nel suo volo, ma s'era recata direttamente nella mia patria, e qui in ogni luogo aveva raccontato la venerabile grazia della dea che a tutto provvede, e la mia personale fortuna davvero degna di nota.

Subito i miei amici, i miei domestici e i parenti più vicini per legame di sangue, depongono il lutto che avevano preso alla falsa notizia della mia morte; e tutti quanti, contenti e felici per l'imprevista notizia, recando doni si affrettano a venire a trovarmi, ora che dagli Inferi ero tornato alla luce del giorno.

Io, che avevo disperato di vedere mai più il loro volto, ne ebbi grande conforto, e accettai con gratitudine le loro generose offerte; essi, infatti, avevano avuto cura, con molta previdenza, di portarmene in gran numero, perché io potessi largamente provvedere ai bisogni del mio mantenimento.

19. A ciascuno, dunque, rivolsi il mio saluto come conveniva al suo rango, e feci il racconto delle mie passate traversie e della mia presente felicità. Dopo

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di che, mi volsi di nuovo a contemplare con la più grande riconoscenza la divinità, e, prese in affitto alcune stanze all'interno del santuario, ci stabilii temporaneamente la mia dimora; ero aggiunto al servizio della dea ancora in qualità di privato, ma vivevo nella più stretta intimità coi sacerdoti e me ne stavo sempre davanti all'augusta dea in atto d'adorazione.

D'altra parte, né di notte né in alcun altro periodo di riposo mi mancò la visione e l'ammonimento della divinità. Al contrario!Essa più volte con le sue sante esortazioni mi consigliò di farmi iniziare senz'altro a quei riti cui da gran tempo ero destinato.

Ma io, benché fossi animato da vivo zelo, ero tuttavia trattenuto da un pio scrupolo. Infatti, dopo accurate indagini, mi ero convinto che l'obbedienza alla regola era rigorosa, abbastanza dura l'astinenza in fatto di castità, e che l'umana esistenza, soggetta com'è ai casi più svariati, ha bisogno d'essere indirizzata con cautela e circospezione. Così, rimuginando spesso simili considerazioni, differivo non so come il gran giorno, pur avendo fretta d'arrivarci.

20. Una notte vidi in sogno il sommo sacerdote che mi offriva pieno il grembo della sua veste. "Che significa?", gli chiesi nel sogno. Mi rispose che si trattava di cointeressenze inviatemi dalla Tessaglia, e che per giunta, anche lui da lì, era arrivato un mio schiavo di nome Candido.

Quando fui sveglio, per un bel pezzo le mie meditazioni si aggirarono sulla visione avuta e sul suo significato, tanto più che ero certo di non aver mai posseduto uno schiavo che si chiamasse in quel modo. Però, qualunque presagio si volesse attribuire al sogno, ero in ogni modo convinto che l'offerta delle cointeressenze significava un guadagno sicuro.

Così, con l'animo ansioso e fisso nella speranza di lieti eventi, aspettavo con impazienza che si aprissero al mattino le porte del tempio.

Mentre i candidi veli del sacrario venivano tirati dalle due parti e appariva la venerabile statua della dea, ci rivolgemmo a lei in atto di adorazione, mentre il sacerdote, aggirandosi tra gli altari disposti qua e là, officiava il suo divino ministero recitando preghiere solenni, e versava da un vaso, a scopo di libagione, l'acqua che aveva attinto all'interno del santuario.

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Erano appena finite le pie cerimonie, quando risuonarono le acclamazioni dei fedeli che così salutavano la prima ora del sole nascente.

Ed ecco in questo momento sopraggiungere da Ipata quei domestici che ci avevo lasciato quando Fotide mi legò al capestro di quel suo fatale sbaglio. Essi, naturalmente, erano venuti a conoscenza della mia storia, e mi riportavano tra l'altro il mio cavallo. La bestia era passata per diverse mani, ma loro l'avevano riconosciuta da una macchia del dorso, e avevano potuto recuperarla.

La conseguenza fu che io non mi stancavo di meravigliarmi per l'esattezza del sogno; in special modo notavo che, oltre alla precisa corrispondenza tra la promessa della visione e il guadagno avuto in realtà, l'allusione al servo Candido era giustificata, perché appunto mi era stato restituito un cavallo di colore candido.

21. Grazie a questa circostanza, mi misi a praticare con zelo e assiduità ancora maggiori le funzioni religiose, visto che le speranze future avevano ricevuto conferma dai benefici presenti.

Parimenti cresceva ogni giorno di più in me la brama di ricevere la sacra ordinazione; molto spesso mi recavo dal sommo sacerdote e lo scongiuravo di iniziarmi finalmente ai misteri della santa notte. Ma lui, che era uomo austero e rinomato per la rigorosa osservanza della religione, con quella bonaria comprensione con cui i genitori usano porre un limite agli intempestivi desideri dei loro figli, riuscì a procrastinare l'oggetto delle mie insistenze, mentre, confortandomi a sperare in meglio, placava il mio animo esulcerato. Affermava, infatti, che la dea di sua volontà indicava per ciascuno il giorno dell'iniziazione, nella sua provvidenza sceglieva lei stessa il sacerdote che doveva amministrare la consacrazione, e che parimenti attraverso le sue istruzioni fissava l'ammontare delle spese per la cerimonia.

Perciò il suo consiglio era di attenerci anche noi a queste regole con rispettosa pazienza.

"Tu devi", mi disse, "guardarti in special modo sia dallo zelo eccessivo, sia dalla disobbedienza. Devi evitare tutti e due i difetti, quello di frapporre indugi, una volta ricevuto l'invito, e l'altro d'avere fretta, senza esserne richiesto".

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Del resto, diceva, nessuno degli appartenenti al suo ordine era così sciagurato o così incline a scavarsi la fossa con le sue mani, da dare inizio, senza aver ricevuto anche lui individualmente l'ordine della sovrana, a una sacrilega funzione, e incorrere in questo modo in colpa mortale.

Questo, perché la dea aveva nella sua mano sia le chiavi dell'Inferno che il pegno della salvezza per grazia divina; infatti, la divinità era solita scegliere quelli che, varcati i termini della vita umana, si trovano sulla soglia dove finisce la luce, sempre a condizione che essi possano degnamente accogliere in sé i solenni segreti della religione. Questi, la provvidenza divina, in certo modo, li fa rinascere, e di nuovo li pone sulla via salutare d'una nuova vita. Perciò occorreva che anch'io sottostessi al divino ammonimento, anche se l'augusta dea, manifestandomi a chiari segni il suo favore, aveva già da tempo scelto di designarmi per nome all'alto ministero.

"Non diversamente dagli altri fedeli", egli concluse, "tu devi sin da ora astenerti da cibi profani e non consentiti. Così con maggior sicurezza potrai abbracciare gli arcani misteri della più pura delle religioni".

22. Così parlò il sacerdote, e io ubbidii senza lasciarmi trascinare dall'impazienza. Conservavo una calma docile e un silenzio esemplare, e badavo ad adempiere con precisione, giorno per giorno, i miei doveri religiosi e le pratiche del culto.

Né la dea, nella sua provvidenziale bontà, mi volle deludere o infliggere il tormento di una troppo lunga dilazione.

Nell'oscurità della notte, con prescrizioni per nulla oscure, mi rese manifestamente edotto che era venuto il giorno che rimarrà, sempre agognato nella mia memoria, il giorno cioè, in cui avrebbe esaudito il mio voto più ardente. Parimenti mi informò della spesa occorrente per dar ordine alla sacra cerimonia, e designò come ministro della sacra funzione proprio Mitra, il suo sommo sacerdote; poiché, come diceva, io ero unito a lui in grazia d'una divina congiunzione di stelle.

Queste e altre istruzioni della dea sovrana rasserenarono il mio animo.

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Non era ancora giorno chiaro, quando mi svegliai. Immediatamente mi reco alla dimora del sacerdote e, imbattutomi in lui, che era appena uscito dalla sua cella, gli rivolgo il saluto.

Avevo deciso di prospettargli con maggior energia del solito la mia richiesta d'essere ammesso al servizio del santo culto, come se ormai fosse di mia spettanza.

Ma lui, appena mi vide, per primo esclamò:"O Lucio, quale fortuna, quale felicità è la tua! A tal punto l'augusta divinità ti giudica degno della sua bontà e della sua grazia!".

E poi:"E che fai? Ora te ne stai ozioso? Proprio tu ora frapponi, indugi? E' arrivato per te quel giorno che hai tanto implorato nelle tue preghiere: oggi la dea dai molti nomi ordina che proprio con queste mie mani tu sia introdotto nei misteri purissimi della nostra religione".

E il vecchio, posando su di me la mano destra in atto affettuoso, mi condusse subito proprio dinanzi alla porta del tempio grandioso, dove con rito solenne celebra la sacra funzione della sua apertura. Compiuto poi il sacrificio mattutino, trasse fuori dalla cella più segreta del tempio certi volumi che mostravano titoli in caratteri ignoti: alcuni di essi riportavano formule abbreviate di prescrizioni liturgiche, espresse mediante figure d'animali d'ogni sorta; in altri la lettura del testo era vietata alla curiosità dei profani per il fatto che le lettere presentavano dei tratti nodosi o rotondi come una ruota o avviluppati a mo' di viticci. Proprio su questi libri il sacerdote mi lesse le istruzioni per i preparativi necessari alla mia iniziazione.

23. Subito mi misi a fare con diligenza e con una certa larghezza gli acquisti necessari, in parte da me stesso, in parte con l'aiuto dei miei amici.

Era già arrivato il momento, a quanto diceva il sacerdote, e io, circondato dalla pia coorte, venni da lui condotto ai bagni più vicini; là, prima fui sottoposto al consueto lavacro, poi il sacerdote invocò la grazia divina e mi purificò aspergendomi d'acqua benedetta in tutta la persona.

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Quindi mi riconduce di nuovo al tempio quand'erano già trascorsi due terzi della giornata, mi fa inginocchiare proprio ai piedi della dea, e mi impartisce in segreto delle istruzioni che sorpassano le possibilità dell'umano linguaggio; oltre a questo mi diede in presenza di tutti la raccomandazione di mettere un freno per dieci giorni continui ai piaceri della tavola, di non nutrirmi delle carni di alcun animale e infine di non bere vino.

Prescrizioni che io osservai, come imponeva il rito, con religiosa attenzione.

Finalmente era arrivato il giorno fissato per la divina promessa, e il sole, declinando, portava con sé la sera. Ecco che da ogni luogo si riuniscono le turbe, e ciascuno mi onora con i suoi doni, secondo l'antica usanza dei misteri. Allora, una volta allontanati tutti i profani, vengo ricoperto con una veste di lino mai prima toccata, e il sacerdote, prendendomi per mano, mi guida proprio nella parte più intima del santuario.

Forse tu ti chiederai con una certa ansia, o lettore voglioso di sapere, ciò che si disse e si fece successivamente. Io parlerei, se fosse lecito parlare, e tu sapresti, se fosse lecito udirlo. Ma in egual peccato cadrebbero sia le orecchie che la lingua: l'una per la sua loquacità, l'altra per la sua folle curiosità!Tuttavia, non voglio infliggerti il tormento di una lunga attesa, proprio a te che sei forse commosso da un anelito religioso.

Dunque, ascolta pure; ma credi, poiché è vero ciò che dico.

Giunsi al limite della morte; posai il piede sulla soglia di Proserpina; al ritorno fui trasportato attraverso tutti gli elementi del cosmo; in piena notte vidi il sole irraggiare la sua luce fulgida; mi presentai al cospetto degli dèi di sotto terra e del cielo; e da vicino compii atto di adorazione.

Ecco! Ti ho riferito queste notizie, e tu le hai udite, ma è necessario che tu le ignori. Perciò io racconterò solo quello che si può confidare all'intelletto dei profani senza cadere nell'empietà.

24. Quando venne il mattino, il solenne mistero era compiuto. Al momento di uscire, io portavo dodici stole di consacrazione; foggia di vestire propria dei misteri, ma niente mi vieta di parlarne, perché in quel momento parecchia gente presenziava coi suoi occhi alla cerimonia.

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Fui invitato a salire su una tribuna di legno che era stata eretta proprio nel centro del santo edificio, di fronte alla statua della dea; là sopra, con la mia veste di bisso dipinta a vivaci colori, attiravo gli sguardi di tutti.

Dalle spalle mi pendeva dietro la schiena una clamide di gran prezzo, lunga fino ai piedi, e tale che, da qualsiasi parte la si guardasse, appariva ornata tutta intorno di figure d'animali dipinte con vari colori: da una parte risaltavano i draghi dell'India, dall'altra i grifoni che l'altro mondo degli Iperborei genera in forma di alati uccelli: è un abito, questo, cui gli iniziati attribuiscono il titolo di olimpico. Nella mano destra portavo una torcia fiammeggiante, e avevo il capo solennemente cinto d'una corona di palma le cui foglie lucenti si protendevano in avanti come dei raggi.

Così, ornato come se fossi il sole, mi avevano collocato sulla tribuna, come una statua, e subito furono tirati all'indietro i cortinaggi, e la folla dei curiosi mi sfilava innanzi per contemplarmi.

Finita la cerimonia, celebrai il lietissimo giorno della mia nascita nel seno della religione con un magnifico banchetto e un allegro convito. E così pure il terzo giorno trascorse nella celebrazione dello stesso cerimoniale, che consistette in una mistica colazione e nel definitivo compimento della consacrazione, conformemente alle norme rituali.

In seguito, mi fermai sul posto alcuni giorni per gustare l'infinita dolcezza del contemplare la divina immagine, poiché sentivo d'essere legato a lei da un beneficio per cui non esisteva compenso adeguato.

Alla fine, quando ebbi pagato con le mie preghiere il mio debito di gratitudine, certo non completamente, ma nella misura delle mie forze, per consiglio della dea mi preparai a tornare a casa; un po' tardi, è vero, ma è da tener presente che a stento riuscivo a rompere i legami di un ardentissimo affetto. Inginocchiato al cospetto della dea, il volto bagnato di lacrime, stetti per lungo tempo ad asciugare i suoi piedi; il singhiozzo mi rompeva di frequente il discorso e soffocava le mie parole, e io dissi:

25. "Tu sì sei santa, sei in ogni tempo salvatrice della specie umana, nella tua generosità, porgi sempre aiuto ai mortali, offri ai miseri in travaglio il dolce

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affetto che può avere una madre.

Né giorno né notte né attimo alcuno, per breve che sia, passa senza che tu lo colmi dei tuoi benefici; tu per mare e per terra proteggi gli uomini, allontani le tempeste della vita e porgi con la tua destra la salvezza, tu sempre con la tua mano sciogli le fila che il destino aggroviglia in nodi inestricabili, calmi le bufere della Fortuna e poni un freno alle funeste rivoluzioni delle stelle. Te onorano gli dèi del cielo e rispettano quelli dell'Inferno, tu fai ruotare la terra, dai la luce al sole, governi l'universo, calchi col tuo piede il Tartaro. A te obbediscono le stelle, per te ritornano le stagioni, di te si allegrano i numi, a te servono gli elementi. Al tuo cenno spirano i venti, offrono il nutrimento le nubi, germogliano i semi, crescono i germogli. La tua maestà temono gli uccelli vaganti per il cielo, le fiere erranti per i monti, i rettili che si celano nel terreno, i mostri nuotanti per il mare. Povero è il mio ingegno nel cantare le tue lodi, scarso il mio patrimonio nell'offrirti sacrifici, la mia voce non ha sufficiente ricchezza per esprimere i sentimenti che m'ispira la tua maestà; e non ci riuscirei neppure se avessi mille bocche e altrettante lingue, neppure se potessi parlare senza stancarmi per tutta l'eternità.

Perciò quel poco che può un tuo fedele ma povero seguace io cercherò di farlo: le tue divine sembianze e la santissima tua volontà, ora che le ho accolte nell'intimo segreto del mio cuore, le custodirò in eterno e sempre le contemplerò nell'animo mio".

Questa fu la preghiera che rivolsi all'augusta divinità.

Abbracciai Mitra, il sommo sacerdote, il padre mio, ormai; e, baciandolo e stringendolo spesso al mio petto, gli chiesi perdono di non potere rimunerarlo degnamente per gli immensi benefici ricevuti.

26. A lungo mi trattenni con lui, esprimendogli ampiamente la mia riconoscenza. Alla fine partii, e viaggiando per la strada più breve, giunsi a rivedere la casa paterna dopo un'assenza durata parecchio tempo.

Era trascorso qualche giorno, quando, spinto dalla possente dea, radunai in fretta un po' di bagaglio e m'imbarcai con destinazione Roma. I venti, spirando favorevoli, mi fecero arrivare rapidamente e senza rischi a Ostia; di qui, in una carrozza feci la via di corsa ed entrai in questa sacrosanta città di sera,

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la vigilia delle idi di dicembre.

A partire dal giorno seguente, non ebbi altro scopo che tanto mi interessasse, quanto il rivolgere preghiere giornaliere all'augusta divinità della regina Iside, quella che dal luogo in cui è situato il suo tempio si chiama dea del Campo di Marte, e attira gran folla di fedeli ad adorarla e a implorarne le grazie.

Ed ecco che nella sua corsa attraverso il cerchio dello zodiaco il sole aveva compiuto un anno intero, quando di nuovo la dea, che nella sua premura è sempre desta a fare il bene, mi si presenta di nuovo nel sonno e di nuovo mi dà consigli d'iniziazione, di nuovo mi parla di consacrazione. Rimasi allora stupito; e non c'era forse da stupirsi? Che intenzioni aveva? Quale futuro avvenimento presagiva? E io che credevo ormai da tempo d'essere in possesso dell'iniziazione completa!

27. Ora discutevo nella mia coscienza il mio mistico dubbio, ora lo sottoponevo al giudizio degli iniziati, e con mia grande meraviglia venni a scoprire questa novità: che cioè io ero stato iniziato solo ai sacri riti della dea, ma non avevo ancora accolto in me la luce che emana dai misteri dell'invitto Osiride, il possente nume, il padre supremo degli dèi. Sebbene nella sostanza le due religioni fossero congiunte, anzi, potrei dire unite, tuttavia c'era una differenza essenziale nel modo dell'iniziazione; perciò avrei dovuto capire che l'augusta divinità richiedeva anche me al suo servizio.

Il dubbio non tardò a chiarirsi. Infatti la notte successiva mi apparve in sogno uno degli iniziati vestito di lino, recante tirsi e alcuni sacri arredi di cui è vietato svelare il nome. Costui collocò davanti a casa mia questi oggetti e, sedutosi al mio posto, diede ordine di preparare il banchetto solenne in onore dell'augusta religione. Egli, evidentemente per offrirmi un contrassegno indubbio della sua identità, procedeva a passi lenti ed esitanti, poiché aveva il tallone del piede sinistro un po' curvo all'indietro.

Dopo una così evidente manifestazione della volontà divina, scomparve interamente la nebbia dell'incertezza. Subito il mattino resi omaggio alla dea, e mi misi a osservare attentamente se, nella folla dei fedeli che rendevano il saluto alla divinità, qualcuno avesse la stessa andatura della persona del sogno.

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Difatti, scorsi subito uno dei pastofori, il quale, oltre al contrassegno del piede, corrispondeva esattamente, sia nel resto della persona sia nell'abito, all'immagine sognata la notte. Si chiamava, come seppi più tardi, Asinio Marcello, nome che quadrava abbastanza con la mia trasformazione. Senza perdere tempo lo avvicinai, ma anche lui già sapeva cosa gli avrei detto, poiché era stato allo stesso modo avvertito che doveva amministrarmi la consacrazione.

La notte precedente gli era apparsa, infatti, questa visione:mentre confezionava corone per l'augusta divinità, il dio, con quella bocca con cui detta a ciascuno il suo destino, lo aveva avvertito che gli era inviato un cittadino di Madaura, un uomo del resto povero, e lo aveva esortato ad iniziarlo immediatamente al suo culto; egli, poi, nella sua bontà, avrebbe provveduto a dare fama negli studi letterari a quell'individuo, e a lui un guadagno notevole.

28. In questo modo, ero promesso alla consacrazione; ma, contrariamente al mio desiderio, la scarsità dei miei averi mi era causa di ritardo. E in effetti le spese del viaggio avevano annientato le scarse forze del mio patrimonio, e d'altra parte i prezzi di Roma superavano di molto quelli della provincia. Ci metteva dunque lo zampino la dura povertà, e io, come dice il proverbio antico, vivevo nell'angoscia, tra l'incudine e il martello. Ciononostante, le sollecitazioni continue della divinità non mi lasciavano tregua.

Ormai era grande la mia confusione; e avevo già ricevuto parecchi avvertimenti, quando all'ultimo arrivarono gli ordini; sicché mi decisi a vendere i miei effetti di vestiario, per pochi che fossero, e potei così raggranellare un gruzzoletto sufficiente.

Anche di questo ero stato con cura particolare istruito, perché il dio mi aveva detto:"Tu, se dovessi procurarti i mezzi per offrirti un piacere, è probabile che non ti preoccuperesti minimamente dei tuoi stracci!Ora, invece, che devi sottoporti a una cerimonia così solenne, hai ritegno di esporti alla povertà? Eppure non avrai certo da pentirtene!".

Così feci, dunque, tutti i preparativi con una certa larghezza.

Per dieci giorni mi astenni una seconda volta da cibi che avessero vita, e mi rasai inoltre il capo; di notte accolsi in me la luce che emana dai misteri del dio supremo; dopo di che, con piena fiducia mi misi a frequentare assiduamente

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le mistiche funzioni della nuova religione.

Questo non solo era un gran conforto per me che vivevo in un paese straniero, ma mi offrì pure il mezzo di procurarmi più ampie risorse. Come mai? Il fatto è che il dio Evento mi portò col suo soffio al successo, e potei ricavare dalla mia attività forense qualche guadagno, patrocinando cause in lingua romana.

29. Non trascorse molto tempo, e delle divine prescrizioni improvvisamene vennero ancora a sollecitarmi; ne rimasi completamente sbalordito, perché era la terza volta che mi si costringeva a sottopormi a un rito d'iniziazione. Né era piccola l'inquietudine che mi turbava; anzi, ero veramente perplesso e mi rompevo la testa in congetture. Mi domandavo dove volesse arrivare la divinità con questa sua nuova e inaudita insistenza, e che cosa mancasse per rendere completa la mia consacrazione, se l'avevo già ripetuta per la seconda volta. "Evidentemente", mi dicevo, "i riti che hanno svolto tutti e due i sacerdoti nei miei riguardi erano inesatti o incompleti", e davvero cominciavo già a pensar male della loro onestà. In una tale marea di pensieri, mi sentivo come sballottato, e la mia eccitazione confinava con la pazzia, quando una notte una benigna visione mi avvertì con questo presagio:"Non c'è motivo che tu ti lasci spaventare dal frequente ripetersi d'un mistico rito, e non devi credere che ci sia stata qualche omissione. Anzi, sii lieto, e accogli con gioia il favore di cui con tanta frequenza i numi ti stimano degno: rallegrati piuttosto.

Tu per tre volte ricevi un onore che ad altri a fatica viene concesso una volta sola: da questo numero ti è lecito presentire che la tua felicità durerà eternamente. Del resto, la nuova consacrazione a cui tu ti sottoporrai è per te assolutamente necessaria: basta solo pensare alle sacre vesti della dea, che tu hai indossato in provincia; esse devono restare nel tempio in cui le hai depositate, e tu non puoi rivestirtene nei giorni di festa a Roma, per rivolgere preghiere alla dea, né sfoggiare quel benedetto abbigliamento. Perciò, io ti auguro felicità, prosperità e salute, e tu con animo gioioso preparati alla nuova iniziazione, poiché essa si compie sotto l'auspicio di possenti divinità".

30. Fu così che la persuasiva maestà di questo sogno divino mi rivelò le necessità del caso. E io non posticipai né rimandai per negligenza a un altro giorno il da farsi, ma subito riferii al mio sacerdote la visione avuta.

Immediatamente mi sottoposi al divieto di mangiare carne, anzi, con una spontanea astinenza, oltrepassai di parecchio quel periodo di dieci giorni

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prescritto da una norma che si perde nella notte dei tempi. Mi procurai gli arredi occorrenti all'iniziazione con una larghezza che si adattava meglio al mio fervore religioso, piuttosto che alle mie reali disponibilità.

Ma davvero non ebbi mai a pentirmi né delle angustie né delle spese. E come avrei potuto, se la provvidenza divina mi favoriva generosamente, procurandomi l'occasione di bei guadagni nel Foro?Infine, dopo pochissimi giorni mi apparve nel sonno il dio che tra i grandi dèi è il migliore, tra i migliori il più alto, tra i più alti il più potente, tra i più potenti il sovrano supremo, Osiride.

Egli, senza assumere sembianze altrui, si degnò personalmente di rivolgermi la sua venerabile parola e di darmi la sua garanzia: la quale fu che continuassi a prestar senza paura nel Foro quell'opera d'avvocato che mi procurava fama, e non temessi le dicerie calunniose degli invidiosi, poiché esse nascevano nell'ambiente dei tribunali, a causa del sapere da me guadagnato a prezzo di studi indefessi.

Siccome, poi, non voleva che io attendessi al mio sacro ministero confuso nel resto del gregge, mi fece eleggere nel collegio dei pastofori, e persino alla carica di decurione quinquennale.

Ancora una volta mi rasai tutti i capelli. Non cercai però di adombrare o coprire la mia calvizie, anzi mi piaceva mostrarla ovunque, e così con animo lieto riempivo le funzioni proprie a quell'antichissimo collegio, fondato al tempo di Silla.

NOTE1."milesio", cioè nello stile delle novelle di Aristide di Mileto, vissuto nel secondo secolo avanti Cristo.

2. Il titolo di madre poteva essere usato a titolo di affetto o di rispetto.

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